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I DOMENICA DI QUARESIMA Anno A
Domenica «delle tentazioni nel deserto» Mt 4,1-11; Gn 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19
Colletta
O Dio, che conosci la fragilità della natura umana
ferita dal peccato, concedi al tuo popolo di intraprendere
con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno e giungere
alla Pasqua nella gioia dello Spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Il messaggio che la parola di Dio ci annuncia in questa
I Domenica di quaresima è di grande importanza per
impostare in modo autentico la nostra vita di credenti.
Molti cristiani credono di potersi in qualche modo accaparrare Dio con le loro pie pratiche ottenendo
favori e sicurezza nella loro vita terrena. Anche la Chiesa può cedere alla tentazione di appoggiarsi
ai mezzi umani diventando una potenza e una società di questo mondo, anziché essere l'umile serva
del Signore che si fida soltanto della parola di Dio.
L'uomo moderno, però, fatto sempre più sicuro dei risultati della scienza e della tecnica, ormai non
pensa più neppure ad accaparrarsi Dio, perché riesce a procurarsi coi propri mezzi ciò per cui prima
ricorreva a Dio. Dio perciò non gli interessa più. Per l'uomo della tecnica ha valore soltanto dominare,
trasformare e utilizzare la natura. La sua tentazione allora è l'ateismo. Dio è un essere inutile, senza
significato.
Cristo si presenta a noi nella quaresima come il lottatore vittorioso che ci libera da tutte le nostre
false sicurezze, dalle nostre ipnosi idolatriche e ci insegna a porre il nostro punto d'appoggio in Dio
e nella sua parola. La quaresima sarà così il segno sacramentale della nostra conversione per il dono
di una accresciuta conoscenza del mistero di Cristo (colletta).
All'inizio della quaresima siamo dunque chiamati a prendere coscienza del significato di una vita di
fede in dipendenza assoluta dall’evangelo. Questa è la vita del cristiano che ripete l'esperienza di
Gesù: fedeltà assoluta a Dio e all'uomo; libertà interiore nell'uso dei beni di questo mondo, usandone
senza idolatrarli; libertà da una fede miracolistica che fa evadere dagli impegni concreti per i quali
Dio ha posto l'uomo in questo mondo; libertà da ogni trionfalismo ecclesiale.
Vivere la fede non significa adoperare Dio per le nostre ambizioni e i nostri interessi, ma metterci
sulla strada della continua conversione di noi stessi a Dio.
Questa è la strada del deserto lungo la quale l'uomo sperimenta la propria insufficienza e la
tentazione.
Gesù oggi, con la sua parola e col suo atteggiamento, ci dice che il senso della vita umana è realizzato
nella comunione con Dio attraverso la rinuncia a ogni idolatria dell'uomo e dei mezzi umani, per
fidarsi solo della parola di Dio.
A questo punto, cioè, deve avvenire l'impatto con la mentalità dell'uomo: si impone necessariamente
la scelta della croce, perché il mondo rifiuterà chi denuncia le sue ambiguità e le sue sicurezze. Ma
proprio nella morte del giusto, Dio ha posto la salvezza del mondo stesso.
Gesù, allora, «vincendo le insidie dell'antico tentatore ci insegna a dominare le seduzioni del peccato,
perché celebrando con spirito puro il mistero pasquale possiamo giungere alla pasqua eterna»
(Prefazio).
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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PRIMA LETTURA
La creazione dei progenitori e il loro peccato
Dal libro della Genesi (2,7-9; 3,1-7)
Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un
alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che
aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi
graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino
e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e
disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun
albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del
giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al
giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare,
altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto!
Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e
sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi
e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi
ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si
aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie
di fico e se ne fecero cinture.
Parola di Dio.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
3
Gn 2,7-9; 3,1-7
Creazione e peccato
Il libro della Genesi si apre con il racconto della creazione (Gn 1-2), che viene descritta in due modi
diversi, anche se sostanzialmente concordi. Mentre il primo racconto (1,1 - 2,4a) si serve dello schema
della settimana e trova la sua naturale continuazione nella genealogia di Gn 5, il secondo racconto
(Gn 2,4b-25) presenta un seguito di scene che fanno da preludio alla caduta e a tutta una serie di
episodi che ne sono la conseguenza (Gn 3-4). Secondo questa tradizione la situazione idilliaca delle
origini non ha lunga durata. Improvvisamente subentra un elemento perturbatore che sconvolge
l’ordine meraviglioso voluto da Dio: l’uomo e la donna si ribellano a lui e di conseguenza sono
cacciati dal giardino dell’Eden. La liturgia riporta alcuni dettagli del secondo racconto della creazione
(2,7-9) e la parte inziale di quello riguardante la caduta (3,1-7).
La creazione come dono divino (2,7-9)
Nel secondo racconto della creazione, prima dell’intervento divino, il mondo è immaginato non come
un caos acquoso ma come una terra deserta, sulla quale Dio non ha ancora fatto piovere e che
l’uomo non ha ancora irrigato con l’acqua dei canali. In questa situazione ha luogo la creazione
dell’uomo. Dio lo plasma servendosi della terra (’adamah), dalla quale appunto viene fatto derivare
il suo nome (’adam, uomo) (v. 7a). In forza del soffio vitale ricevuto da Dio, l’uomo diventa un «essere
vivente» (v. 7b). Questa descrizione tradisce l’idea biblica in base alla quale l’essere umano non è un
composto di anima e corpo ma una realtà unitaria (persona) che riceve da Dio il dono della vita. È
chiaro che l’intenzione dell’autore non è quella di spiegare come ha avuto origine l’uomo (fissismo
o evoluzionismo), ma solo di mettere in luce la sua totale dipendenza da Dio.
Il fatto che la creazione del primo uomo avvenga nel deserto richiama alla mente Israele, il quale
proprio nel deserto è venuto all’esistenza in quanto popolo di Dio. In quanto plasmato da Dio,
l’uomo, come Israele, deve totalmente dipendere da lui.
Dopo aver compiuto la sua prima opera, Dio pianta un giardino in Eden, dove colloca l’uomo (v. 8).
L’esistenza nei tempi primordiali di un giardino meraviglioso è attestata frequentemente nella
mitologia. Diversamente però da quanto afferma la mitologia, il giardino è qui la dimora dell’uomo,
e non della divinità.
Questo giardino si trova a «Oriente» (naturalmente rispetto agli israeliti, che vivono in Palestina), in
una regione chiamata Eden. Questa località non è identificata. Siccome il termine ebraico ‘eden
significa «delizie», esso diventa quasi il nome proprio del giardino (3,23: «giardino di Eden», cioè
«giardino delle delizie»). I LXX traducono il termine «giardino» con paradeison: da qui deriva
l’espressione corrente «paradiso terrestre».
Le caratteristiche del giardino e la collocazione in esso dell’uomo sono descritte in modo dettagliato
nei vv. 9-15, omessi dalla liturgia.
Dopo aver creato il giardino, Dio «prende» l’uomo creato nella terra arida, e lo «colloca» nel giardino
stesso (v. 15).
Il racconto prosegue con i vv. 16-17 omessi dalla liturgia. Il primo uomo riceve da Dio un comando:
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire».
Tentazione e peccato (3,1-7)
La prima scena del racconto della caduta presenta due soli personaggi la donna e il serpente, fra i
quali si apre un dialogo pieno di tensione. Il serpente entra in azione senza essere stato presentato
precedentemente. Esso è designato come una delle bestie selvatiche che Dio aveva creato: non è
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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dunque un essere soprannaturale decaduto ma piuttosto la personificazione di una inclinazione
cattiva che si trova nell’uomo.
Il racconto della tentazione si svolge in due tempi, in ciascuno dei quali è sferrato un duro attacco al
rapporto che lega la prima coppia umana a Dio. Anzitutto il serpente insinua che Dio abbia proibito
di mangiare tutti i frutti del giardino (v. 1), mettendo così in dubbio la sua iniziativa salvifica (prologo
storico). Nel contesto dell’alleanza la negazione dei benefici di Dio è sufficiente a privare di qualsiasi
valore il precetto da lui dato. La donna respinge con fermezza l’insinuazione del serpente affermando
che Dio ha proibito di mangiare il frutto di un solo albero, dopo aver messo a disposizione quelli di
tutti gli altri (vv. 2-3). Ella però eccede in quanto dice che Dio ha proibito anche di toccare il frutto
dell’albero che sta in mezzo al giardino: il fatto di esagerare il comando nasconde forse già il
desiderio di trasgredirlo.
Visto che il suo tentativo di negare il dono di Dio è stato respinto, il serpente, sferra un secondo
attacco mettendo in dubbio la realtà della pena: mangiando il frutto dell’albero proibito non si
incorre nella morte ma si ottiene il privilegio di essere come Dio, venendo a conoscere il bene e il
male (vv. 4-5). Se mangiando il frutto dell’albero non si incorre in conseguenze negative, ciò significa
che Dio, togliendo questa possibilità, dimostra di essere un despota geloso, che non teme di mentire
per difendere le proprie prerogative. Così il precetto viene di nuovo a perdere la sua credibilità e la
sua forza vincolante.
Alla seconda insinuazione del serpente la donna non risponde. Il narratore si limita a osservare che
ella comincia a guardare con occhio diverso il frutto proibito, che ora le sembra buono da mangiare,
«gradito» agli occhi, e «desiderabile» per acquistare saggezza: il diverso modo di vedere l’albero
indica un cambiamento interiore, determinato dall’insorgere del desiderio egoistico. L’insorgere
incontrastato del desiderio provoca automaticamente l’atto esterno dell’appropriazione: la donna
mangia il frutto e ne dà anche all’uomo, il quale la segue senza nulla obiettare (v. 6). Per il narratore
la responsabilità dell’uomo non è per nulla inferiore a quella della donna. Come conseguenza del
loro peccato, i progenitori si rendono conto di essere nudi (v. 7): è questo il segno di un turbamento
interiore che d’ora in poi condizionerà i loro rapporti.
Il narratore presenta dunque il gesto dei progenitori come un peccato di desiderio: volendo ottenere
una prerogativa divina, essi si ribellano a Dio e rompono la dipendenza da lui (clausola
fondamentale). Non è chiaro in che cosa consistesse per il narratore la «conoscenza del bene e del
male». Secondo alcuni studiosi si tratta del rapporto sessuale. Nulla però lascia intendere che Dio
avesse proibito ai progenitori l’esercizio della sessualità, anche se di fatto questo avrà luogo solo
dopo il peccato. Secondo altri, oggetto del desiderio è la conoscenza di tutte le cose. Nel linguaggio
biblico infatti «bene» e «male» possono essere i due estremi che delimitano tutta la realtà: l’uomo
quindi avrebbe desiderato di ottenere una conoscenza quasi infinita, che compete solo a Dio. A
questa interpretazione si oppone però il fatto che Dio, dopo il peccato, affermerà che l’uomo
effettivamente è diventato come lui conoscitore del bene e del male (v. 22).
È più probabile quindi l’interpretazione secondo cui la conoscenza proibita consisteva nella facoltà
di determinare per proprio conto ciò che è bene e ciò che è male. L’uomo avrebbe quindi desiderato
una totale autonomia in campo morale. In tal modo si sarebbe arrogato una prerogativa divina,
rifiutando così la propria dipendenza da Dio.
In questo testo si parla solo apparentemente di eventi capitati all’inizio della storia. In realtà l’autore,
usando un procedimento simile a quello dei miti, ha voluto dire qualcosa che riguarda l’uomo di tutti
i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A
tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale,
dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza
del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di procedere, tendente a scagionare Dio,
ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo
mondo, continua a offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una
condizione di vita adeguata alla sua dignità.
Oggi è difficile pensare, come si è fatto fino a tempi molto recenti, che ci sia stato all’origine un
peccato che ha dato origine a tutto il male presente in questo mondo. Questo è escluso non solo dal
genere letterario dei racconti, il cui carattere è chiaramente mitologico, ma anche dal fatto che è
impossibile pensare a un’epoca dell’oro iniziale. La scienza ormai ha messo in luce che l’umanità di
oggi è il punto di arrivo di una lunga evoluzione, che ha portato a uno sviluppo sempre maggiore
delle facoltà dell’uomo in tutti i campi. Bisogna dunque pensare che il male morale, come quello
fisico, fa parte della natura dell’uomo che è chiamato ad evolversi, andando contro corrente, cioè
contrastando gli istinti animaleschi che ancora sono presenti in lui. La salvezza consiste in un
supplemento di grazia che spinge l’uomo, pur fra tanti dolorosi contrattempi, ad evolvere verso una
più piena umanizzazione in vista di un mondo migliore, che sarà chiamato «regno di Dio».
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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SALMO RESPONSORIALE (Sal 50,3-6.12-14.17) (51)
Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro. R.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto. R.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. R.
Rendimi la gioia della tua salvezza
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode. R.
Salmo 50 (51)
Con questo stupendo Salmo, la Liturgia della “Parola” invita ogni fedele a pregare come fece re
Davide, dopo che il Profeta Natan, mediante il delicato, ma deciso racconto di una parabola, aveva
provocato in lui la piena consapevolezza del duplice peccato (quello di impurità con Betsabea e
quello dell’omicidio verso suo marito Uria). Il primo pensiero di Davide pentito è rivolto al Signore,
del quale riconosce la pietà misericordiosa e l’infinita clemenza; egli esprime la sua fede in questo
amore gratuito con tre verbi di intensa efficacia (cancella, lavami, purificami). È bello constatare come
il grande re, ispirato da una profonda umiltà, sia consapevole della sua misera condizione di
peccatore; egli, anche se sprofondato nell’abisso della trasgressione, con questa preghiera diventa
modello di umiltà per ogni cristiano o, meglio, per tutti coloro che, ieri come oggi, sentono il bisogno
di essere liberati dalle loro colpe, per vivere in pienezza la loro condizione di figli di Dio.
È una preghiera avvolta nel dolore il cui pianto di contrizione è accompagnato, però, dall’esultanza
per il perdono; si intuisce, infatti, che la gioia per l’uomo peccatore è possibile esclusivamente nella
conversione, nella contrizione e nell’accoglienza della giustificazione. Solo in tale realtà è possibile,
in questo inizio di Quaresima, cantare con gioia la bontà del Signore e la sua misericordia, e
annunciarla anche agli altri fratelli credenti e non credenti.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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SECONDA LETTURA
Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (5,12-19)
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il
peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti
hanno peccato.
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può
essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè
anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di
Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo
tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del
solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del
dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene
da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed
è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato
a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della
grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù
Cristo.
Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la
condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini
la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo
uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno
solo tutti saranno costituiti giusti.
Parola di Dio.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
8
Rm 5,12-19
Peccato e grazia
Il c. 5 della lettera rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione
mediante la fede iniziata in 1,16. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva
escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa
comporta (vv. 12-21), sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo
dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).
Solidarietà con Adamo (vv. 12-14)
Il testo inizia con questa affermazione: «come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo
e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato»
(v. 12). In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla
luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un «come»,
che introduce un confronto tra due personaggi, Adamo e Cristo. Il primo termine di paragone è
Adamo, il quale sarà citato per nome solo in seguito. Il riferimento al progenitore dell’umanità deve
essere compreso alla luce di un concetto tipico del mondo biblico designato con l’appellativo di
“personalità corporativa”: in base ad esso una collettività viene identificata con una singola persona,
la quale rappresenta tutti i suoi membri ed esprime in se stessa quelle spinte che stanno alla base
della loro aggregazione. Così Adamo è presentato nella Genesi non solo come il progenitore, ma
anche come il simbolo e il rappresentante di tutta l’umanità che da lui deriva.
Evocando la figura di Adamo Paolo osserva che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel
mondo e con il peccato la morte». Al peccato viene strettamente associata la morte, che nel racconto
genesiaco rappresenta la sua immediata conseguenza; anche qui, la morte fisica è vista come simbolo
di una realtà più drammatica, che consiste nel distacco da Dio.
Dopo aver caratterizzato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo
non introduce ancora il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma
approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Egli afferma che, per sua colpa,
anche la morte «è entrata» in tutti gli uomini, cioè ha preso possesso di loro, «poiché (eph’ôi) tutti
hanno peccato». In passato l’espressione eph’ôi è stata erroneamente tradotta «nel quale», e di
conseguenza si è supposto che «in Adamo» tutti abbiano peccato, cioè che il peccato da lui
commesso si sia trasmesso a tutti i suoi discendenti. Nei tempi moderni si è invece accertato che
eph’ôi in greco significa semplicemente «poiché»: Paolo vuole quindi affermare che, dopo essere
entrata nel mondo con il peccato di Adamo, la morte ha raggiunto tutti gli uomini a motivo del fatto
che tutti hanno peccato. In altre parole il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti
gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di
morte a cui egli ha dato inizio.
Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: «Fino alla
Legge infatti c'era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca
la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza
della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire» (vv. 13-14). La situazione di
peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito
la legge a Israele. Alla mente di Paolo sale però un’obiezione: come è possibile ciò «se il peccato non
può essere imputato quando manca la legge»? Se non c’è una legge che proibisce una certa azione,
il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione
di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere
quella legge morale che hanno trasgredito. Perciò risponde all’obiezione osservando che «la morte
regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della
trasgressione di Adamo» (v. 14). In altre parole siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico
ma anche spirituale (lontananza da Dio), ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che
non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non
sono esenti dal peccato.
Paolo aggiunge che Adamo è «figura di colui che doveva venire». Con queste parole riporta il
discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo. Tutti gli uomini si
sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente
coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine. Ma la sua persona è solo una «figura» di
Cristo: egli parla dunque di Adamo nella misura in cui è utile per capire meglio il ruolo di Cristo.
La comunione con Cristo (vv. 15-19)
La seconda parte del brano è dominata dal confronto tra l’opera di Adamo e quella di Cristo.
Anzitutto l’apostolo sottolinea la superiorità dell’opera di Cristo su quella di Adamo (vv. 15-17) e
successivamente li contrappone l’uno all’altro facendo ricorso al parallelismo antitetico (vv. 18-19).
La superiorità di Cristo su Adamo (vv. 15-17) viene messa in luce a partire dal concetto di personalità
corporativa, quale appare da due figure bibliche, il Servo di JHWH e il Figlio dell’uomo, che incarnano
in se stesse tutto il popolo eletto.
Il Servo di JHWH è un personaggio anonimo che annuncia ai giudei esuli in Babilonia la loro
imminente liberazione, ma è osteggiato e perseguitato, finché viene eliminato fisicamente. Tuttavia
proprio mediante la sua morte porta a termine la sua missione. Mediante la sua sofferenza e la sua
morte, di cui sono responsabili proprio coloro a cui è diretto il suo messaggio, il Servo diventa
dunque il punto di aggregazione degli israeliti dispersi in terra straniera, che in lui riscoprono la loro
elezione e ritornano al loro Dio.
Il Figlio dell’uomo, di cui si parla nel libro di Daniele (Dn 7), è un individuo (= figlio) appartenente
alla razza umana (= «uomo» in senso collettivo): egli è «l’Uomo» per eccellenza, il nuovo Adamo, al
quale è affidato, in contrasto con il primo Adamo, il compito di mediatore della salvezza. Il Figlio
dell’uomo viene da Dio e riceve da lui un regno eterno: egli è dunque il mediatore escatologico per
mezzo del quale Dio instaura il suo regno, ma al tempo stesso rappresenta il popolo dei santi
dell’Altissimo, cioè l’Israele escatologico.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti.
La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che «il dono di grazia» non è come la
«caduta»: se la caduta di uno solo ha fatto sì che «tutti» morissero, molto di più grazie a un solo
uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato «per tutti» (v. 15). Proprio per la sua funzione di
Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo) e di Servo di JHWH, Cristo ha portato a tutta l’umanità una
realtà di segno positivo (grazia) che supera immensamente quella di segno negativo (morte) di cui è
stato portatore Adamo.
Nel secondo argomento Paolo fa un confronto antitetico tra due situazioni analoghe: un solo atto
peccaminoso ha procurato la condanna, mentre molte cadute sono state eliminate mediante quella
grazia speciale che consiste nella giustificazione (v. 16).
Infine egli aggiunge un terzo argomento. Se è vero che la caduta di uno solo è stata capace di far
regnare la morte, molto più grande è il dono della giustizia, attuata da Cristo, perché in forza di esso
quelli che lo ricevono regneranno nella vita (v. 17).
Nell’opera di Cristo, nuovo Adamo, si attua quindi un’opera molto più grande e potente di quella
compiuta dal primo Adamo. Questi infatti ha commesso un’azione peccaminosa (caduta), che è il
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tipo e il punto di partenza di tutte le altre, e da essa è derivato un danno terribile per l’umanità, la
morte. Cristo invece ha vinto la morte, ha effuso la grazia di Dio, ha effettuato la giustificazione e ha
instaurato il regno di Dio, aprendo la strada alla risurrezione finale. Egli ha così dimostrato una
potenza aggregativa che mette decisamente in secondo piano quella disgregativa di Adamo.
Nella seconda parte del brano Paolo prosegue in chiave analogica il confronto tra l’opera di Adamo
e quella di Cristo (vv. 18-19). Come per la «caduta» di uno solo (si è riversata) su tutti gli uomini la
condanna, così anche per l’«opera giusta» di uno solo (si riversa) su tutti la «giustificazione che dà
vita». Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così per
l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. Adamo, con la sua disobbedienza, ha
provocato la condanna e la morte di tutti, Cristo, con la sua obbedienza, ne ha causato la
giustificazione e la vita.
In questo brano Paolo mostra come il peccato abbia creato nell’umanità tutta una rete di connivenze
e di rapporti sbagliati, che ha la sua origine in Adamo, cioè risale agli inizi stessi dell’umanità; da essi
deriva la morte, intesa non solo come cessazione della vita fisica, ma come il fallimento più radicale
dell’uomo e della sua umanità. Ogni essere umano, nel momento stesso in cui viene al mondo, si
trova già in qualche modo immerso in questa triste realtà, ma ne diventa corresponsabile nella misura
in cui anch’egli liberamente si associa ad essa con il suo peccato personale.
Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei
suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una «situazione di peccato» in cui tutti, non senza
loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.
Circa Adamo e il suo peccato Paolo non ha dunque una rivelazione speciale da fare, ma riprende
questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo,
capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
A proposito del rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole affermare che, senza il peccato di
Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita: la morte è un evento naturale, e come tale viene
solitamente considerata nella Bibbia. Al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi
profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella
comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in lui; il peccato, invece, fa sì che la
morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile,
che l’uomo tende continuamente a rimuovere. E proprio nel vano tentativo di allontanare la morte,
l’uomo peccatore si chiude sempre più nella difesa egoistica di se stesso e dei suoi privilegi (denaro,
potere, gloria), immergendosi così ancora di più nel suo peccato.
Alla dolorosa realtà a cui il primo uomo ha dato inizio Paolo contrappone l’opera di Cristo, che con
la sua morte e risurrezione ha sostituito alla condanna la «grazia» di Dio. Questa fa sì che il credente
esca dal suo isolamento per ritrovarsi in una profonda armonia con Dio e con i fratelli. In questa sua
opera, che lo accomuna al Servo di JHWH, Cristo appare come il nuovo Adamo da cui ha origine
un’umanità riconciliata con Dio.
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CANTO AL VANGELO (Mt 4,4b)
Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria!
VANGELO
Gesù digiuna per quaranta giorni nel deserto ed è tentato
Dal vangelo secondo Matteo (4,1-11)
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato
dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe
fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste
pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà
l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio
e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli
darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo
piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche “Non
metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni
del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti
ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto
infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Parola del Signore
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Mt 4,1-11
Le tentazioni di Gesù
Dopo il preludio, rappresentato dai racconti riguardanti l’infanzia di Gesù, Matteo apre il suo vangelo
con tre quadri che riguardano la predicazione di Giovanni il Battista (3,1-12), il battesimo di Gesù
(3,13-17) e la tentazione nel deserto (4,1-11). Il collegamento della tentazione con il battesimo è
molto stretto, poiché il tentatore si rifà precisamente alle parole pronunciate dalla voce celeste in
quella occasione. La narrazione si apre con una breve introduzione, dove vengono presentati i
protagonisti (vv. 1-2), prosegue con il triplice intervento di satana (vv. 3-10) e termina con un versetto
conclusivo (v. 11).
Introduzione (vv. 1-2)
Il brano si apre con una nota informativa: Gesù viene condotto nel deserto dallo Spirito (v. 1). Queste
parole richiamano quelle rivolte da Mosè a Israele in Dt 8,2. Chi conduce Gesù nel deserto è lo stesso
Spirito che era disceso su di lui in occasione del battesimo. Scopo di questo intervento è, come per
Israele, la tentazione, che quindi appare come voluta da Dio. La «tentazione» nell’uso biblico significa
«prova», «esame», ma anche «tentazione» nel senso morale di sollecitazione al male. Gesù era stato
dichiarato «Figlio di Dio» al Giordano; ora è sottoposto alla prova, affinché appaia in modo univoco
il significato di questo titolo. Sebbene sia lo Spirito a condurre Gesù nel deserto, colui che lo
sottopone alla tentazione è il diavolo.
Nel deserto Gesù rimane quaranta giorni e quaranta notti. Questo periodo di tempo richiama sia i
quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto, sia i quaranta giorni e quaranta notti in cui Mosè è
rimasto sul monte Sinai, prima di ricevere le tavole della Legge. Diversamente da Marco, Matteo e
Luca sottolineano che in questo periodo Gesù ha digiunato, e alla fine ha avuto fame.
Prima tentazione (vv. 3-4)
La fame, che subentra al lungo digiuno, fornisce l’occasione della prima tentazione. Il tentatore si
avvicina a Gesù e gli chiede di dimostrare la sua qualifica di Figlio di Dio trasformando le pietre in
pane (v. 3). L’espressione «Se sei Figlio di Dio» fa riferimento alle parole pronunciate dalla voce divina
in occasione del battesimo. Nell’AT il titolo di «Figlio di Dio» designa spesso il Messia. Da questo
titolo, ripetuto anche a proposito della seconda tentazione, si coglie immediatamente il senso
messianico del racconto. Se Gesù è il Messia, ha diritto di esigere da Dio un intervento miracoloso
per procurargli il pane, così come aveva fatto per Israele quando nel deserto si era lamentato per la
mancanza di cibo.
A questa tentazione Gesù risponde con una citazione biblica: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di
ogni parola (dabar) che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3). Il termine ebraico dabar può significare sia
«parola» che «cosa»: il testo gioca su questa ambiguità per presentare la manna come simbolo della
parola di Dio, cioè dei suoi comandamenti, che appaiono così come il vero cibo degli israeliti. Mentre
Israele nel deserto aveva dubitato dell’aiuto divino, Gesù esprime la sua fiducia incondizionata in Dio,
il quale non lascia mancare il cibo a chi si affida totalmente alla sua parola.
Seconda tentazione (vv. 5-7)
La seconda tentazione ha come teatro il tempio di Gerusalemme, quello che era il centro spirituale
del giudaismo (vv. 5-6). Essa si svolge sul pinnacolo del tempio, che indica probabilmente l’angolo a
sud-est, dove si incrociavano le mura del portico di Salomone e di quello regio, con uno strapiombo
nella vallata del Cedron. Da lì venivano precipitati i bestemmiatori. Il fatto che la tentazione avvenga
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simbolicamente in questo luogo significa che essa concerne qualcosa di essenziale per l’ebraismo.
La proposta del diavolo riguarda ancora Gesù come «Figlio di Dio» (= Messia): se è veramente tale
deve poterlo dimostrare con un gesto che manifesti la protezione speciale che Dio gli garantisce. A
sostegno della sua richiesta il diavolo cita Sal 91,11-12, dove si parla del soccorso che gli angeli
garantiscono a chi confida in Dio.
Gesù risponde: «Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» (v. 7). Anche questa è la citazione di un
testo biblico, che rievoca l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia (Dt 6,16). Giunto a Massa, che
significa «tentazione», e Meriba, «contestazione, protesta», il popolo aveva messo alla prova Dio con
mormorazioni e contestazioni, esigendo dell’acqua e minacciando persino di lapidare Mosè. Da
questo episodio il Deuteronomio deduce che non si deve mettere Dio alla prova, perché ciò è un
segno palese di sfiducia nei suoi confronti. Gesù non segue l’esempio degli israeliti, ma rinnova la
sua adesione alla volontà del Padre, dimostrando così piena fiducia in lui.
Il significato di questa tentazione appare chiaramente sullo sfondo delle attese di un messianismo
spettacolare, molto diffuse al tempo di Gesù. Gesù compirà numerosi miracoli, ma solo in funzione
del suo annuncio salvifico e in favore dei poveri, dei malati e degli emarginati, e come segno della
vicinanza del regno di Dio. Ogni uso del miracolo per dimostrare l’attendibilità del suo messaggio e
il suo ruolo di inviato sarà da lui escluso in modo drastico.
Terza tentazione (vv. 8-10)
La terza tentazione costituisce il culmine dell’assalto diabolico contro Gesù (vv. 8-9). Il tentatore lo
porta su di un monte assai alto, dal quale si possano contemplare tutti i regni del mondo con il loro
splendore. Il diavolo promette a Gesù di dargli in possesso tutti i regni, esigendo però in cambio di
essere «adorato» al posto di Dio; con questa richiesta vuole non solo che Gesù si sottometta a lui,
ma che riconosca il suo potere sul mondo. Il diavolo prospetta dunque a Gesù un regno trionfalistico,
sorretto dal potere politico e dal possesso delle ricchezze terrene.
Gesù allora smaschera il seduttore, chiamandolo con il suo vero nome, satana, e comandandogli
energicamente di andarsene via (v. 10). Anche questa volta Gesù fa ricorso a una citazione biblica,
rifacendosi al testo in cui Mosè esorta Israele a non dimenticare il Signore, che l’aveva liberato
dall’Egitto, bensì a temere e a servire lui solo (Dt 6,13). Mentre Israele si contaminò con l’idolatria
adorando il vitello d’oro, preludio delle future defezioni nella Terra promessa, Gesù non si lascia
suggestionare dal miraggio del potere e dei beni mondani, ma rinnova la sua fedeltà assoluta al
Padre.
Conclusione (v. 11)
Il superamento della terza tentazione consente a Gesù di essere servito dagli angeli (v. 11). Il tentatore
aveva suggerito che essi avrebbero protetto Gesù se si fosse gettato giù dal pinnacolo del tempio.
Ora essi provvedono veramente a lui in nome di Dio proprio perché non aveva preteso
arbitrariamente il loro intervento. Anche Israele durante l’esodo era stato assistito dagli angeli;
tuttavia non aveva saputo corrispondere alla benevolenza di Dio. Gesù invece, in forza della sua
fedeltà, riceve da Dio per mezzo degli angeli tutto ciò di cui ha bisogno.
Non mancano nel NT i passi in cui appare che Gesù è stato provato durante la sua vita terrena. Si
dice, per esempio, che fu «provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato». Certo i
vangeli non descrivono la sensibilità umana o la costituzione psicologica di Gesù; tuttavia bisogna
riconoscere che egli ha fatto, durante tutto il suo ministero, delle scelte in contrasto non solo con le
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pressioni che gli venivano dai detentori del potere religioso e politico, ma anche con le suggestioni
delle folle e dei suoi discepoli.
La narrazione della triplice tentazione dà l’impressione di un dibattito scritturale tra Gesù e Satana.
Si tratta evidentemente di un abile montaggio, probabilmente elaborato in base alla rilettura del
Deuteronomio. Il racconto evangelico ricalca infatti la riflessione del deuteronomista sulle prove
d’Israele. Ora, mentre gli israeliti non seppero conservare la fiducia nell’assistenza di Dio, che aveva
già dato loro tante prove di amore, Gesù non esige alcuna garanzia dal Padre, ma si rimette
totalmente al suo volere, fidandosi solo nella sua parola.
Le tre tentazioni diaboliche hanno un comune denominatore: l’uso dei mezzi materiali, il pane, i
prodigi, il potere politico, per attuare non un progetto qualsiasi, ma quello che Dio ha rivelato a Gesù
nel momento del suo battesimo. In altre parole il confronto riguarda la persona di Gesù e in
prospettiva l’instaurazione del regno di Dio. Ciò che viene respinto è un messianismo di tipo
miracolistico e nazionalistico, quello cioè secondo cui un giorno il messia avrebbe attuato il regno di
Dio assoggettando al suo potere tutti i regni della terra. Anzi il racconto mostra chiaramente che la
conquista e l’instaurazione di un potere imperialistico in nome di Dio è una perversione diabolica
della vera fede in Dio, signore di tutti. Naturalmente ciò vale anche per i suoi discepoli e per tutta la
Chiesa. La via scelta da Gesù diventa così il criterio fondamentale per valutare non solo
l’orientamento di vita dei singoli cristiani, ma anche della Chiesa nel corso dei secoli.
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