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FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
Master in
“Management e funzioni di coordinamento delle professioni
sanitarie”
A.A.
2009/2010
TITOLO P.W.
IL CONSENSO INFORMATO NEL VIGENTE ORDINAMEN-
TO GIURIDICO CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL’
ATTIVITÀ SANITARIA E AGLI INTERVENTI UROLOGICI
Relatore Edoardo Gaetano Napoli
Candidato Fanizza Maria Matr.007215
INDICE
1
-PREMESSA
-CAPITOLO I
1.1. INTRODUZIONE
-CAPITOLO II
2.1. IL CONSENSO INFORMATO: UN PUNTO DI VISTA
STORICO
2.1.1. I PRESUPPOSTI NORMATIVI DEL CONSENSO AL
TRATTAMENTO SANITARIO
2.2 IL CONSENSO INFORMATO
2.3. IL CONSENSO INFORMATO NEL NUOVO CODICE
DEONTOLOGICO
2.4. REQUISITI DEL VALIDO CONSENSO
2.5 OGGETTO DEL CONSENSO
2.6 DOCUMENTAZIONE
2.7. TITOLARIETA’
2.8. MANCANZA DI CONSENSO
-CAPITOLO III
3.1.IL CASO CLINICO: IDRONEFROSI DI TERZO GRADO
DA STENOSI DELL’URETERE
3.2. IL CASO CLINICO
3.3.NESSO DI CAUSALITA’
-CAPITOLO IV
2
Questo mio lavoro nasce dall’esigenza di spiegare non solo
l’importanza e l’efficacia del consenso informato all’interno di un
presidio ospedaliero, ma vuole anche sottolineare il difficile
compito che devono fronteggiare gli infermieri nel momento in
cui si trovano di fronte ad una urgenza in cui non vi è il tempo di
ricevere il consenso informato.
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’in-
dividuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite
agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana.”1
“Un trattamento sanitario può essere praticato solo se la perso-
na interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed infor-
mato”.2 “Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psi-
chica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere
in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della
persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge.
(…)”.3
Per la Costituzione italiana, la Convenzione per la Protezione dei
Diritti dell’Uomo (Convenzione di Oviedo)e la Costituzione Euro-
pea, la persona deve poter dare liberamente o rifiutare il suo
consenso ad ogni intervento sulla propria persona. Questa regola
fa risaltare
l’autonomia del paziente nel suo rapporto con i professionisti sa-
nitari e porta a diminuire quegli approcci che ignorerebbero la
volontà del paziente. Dunque “si ritiene tramontata la stagione
1 Art. 32 Costituzione2 Art. 5 Convenzione di Oviedo3 Costituzione Europea II-63
4
del “paternalismo medico” in cui il sanitario si sentiva, in virtù
del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legitti-
mato ad ignorare le scelte e
le inclinazioni del paziente, ed a trasgredirle quando fossero in
contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto”.4
4 Comitato Nazionale di Bioetica ‘92.
5
CAPITOLO I
1.1.INTRODUZIONE
La legge italiana prevede che i medici e gli operatori sanitari pos-
sano curare una persona solo se questa è d’accordo e dà il con-
senso informato. Il malato deve, cioè, poter decidere se vuole
essere curato per una malattia: ha il diritto/dovere di conoscere
tutte le informazioni disponibili sulla propria salute, chiedendo al
medico ciò che non è chiaro, e scegliere, di conseguenza in modo
informato, se sottoporsi ad una determinata terapia.
Esistono due forme di Consenso Informato, verbale e scritto. Il
consenso deve essere scritto nei casi in cui l’esame clinico o la
terapia medica possono comportare gravi conseguenze per la sa-
lute e l’incolumità della persona. Se il consenso è rifiutato, il me-
dico ha l’obbligo di non eseguire o di interrompere l’esame clinico
o l a t e r a p i a i n q u e s t i o n e .
Il consenso scritto è anche obbligatorio, per legge, quando si
dona o si riceve sangue, nei casi in cui si assume un farmaco an-
cora sperimentale, negli accertamenti di un’infezione da HIV.
Negli altri casi, soprattutto quando è consolidato il rapporto di fi-
ducia tra il medico e l’ammalato, il consenso può essere solo ver-
bale ma deve essere espresso direttamente al medico.
In ogni caso, il consenso informato dato dal malato deve essere
attuale, deve cioè riguardare una situazione presente e non una
futura. Per questo, la legge non riconosce la validità dei testa-
menti biologici.
Se la cura considerata prevede più fasi diverse e separabili, ogni
fase necessita di un consenso separato: la persona malata deve
dare il suo consenso per ogni singola parte di cura.
6
È legittimo revocare un consenso già dato ed interrompere una
cura in corso, sempre che questo non sia materialmente impossi-
bile o non metta a serio rischio la vita della persona.
Il consenso informato ad una determinata cura può essere
espresso da un'altra persona solo se questa è stata delegata
chiaramente dal malato stesso. Se la persona malata è minoren-
ne, il consenso è automaticamente delegato ai genitori. Il mino-
renne, però, ha diritto ad essere informato e ad esprimere i suoi
desideri, che devono essere tenuti in considerazione.
Se il malato è maggiorenne ma è incapace di decidere, è il tutore
legale a dovere esprimere il consenso alla cura, ma la persona
interdetta ha diritto ad essere informato e di veder presa in con-
siderazione la sua volontà.
Le uniche eccezioni all’obbligo del consenso informato sono:
le situazioni nelle quali la persona malata ha espresso
esplicitamente la volontà di non essere informata;
le condizioni della persona siano talmente gravi e pericolo-
se per la sua vita da richiedere un immediato intervento "di
necessità e urgenza" indispensabile. In questi casi si parla di
consenso presunto;
i casi in cui si può parlare di consenso implicito, per esem-
pio per quelle cure di routine, o per quei farmaci prescritti per
una malattia nota. Si suppone, infatti, che in questo caso sia
consolidata l’informazione ed il consenso relativo;
in caso di rischi che riguardano conseguenze atipiche, ec-
cezionali ed imprevedibili di un intervento chirurgico, che
possono causare ansie e timori inutili. Se, però, il malato ri-
chiede direttamente questo tipo di informazioni, il medico
deve fornirle;
7
i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), in caso di partico-
lari disturbi psichici;
le vaccinazioni obbligatorie, stabilite nei programmi nazio-
nali di salute pubblica.
8
CAPITOLO II
2.1. IL CONSENSO INFORMATO: UN PUNTO DI VISTA
STORICO
Da un punto di vista storico il consenso informato può essere
considerato un fenomeno relativamente recente. Per oltre 2500
anni, l’etica medica si è basata sui canoni ippocratici, in cui la
priorità era procurare un beneficio terapeutico al Paziente (princi-
pio di beneficità) rispetto al diritto all’autodeterminazione dello
stesso (principio di autonomia).
Solo all’inizio del secolo scorso, con l’affermarsi delle teorie filo-
sofiche centrate sull’esistenza di diritti civili inalienabili, in parti-
colare il diritto di libertà di coscienza e quindi dell’importanza del
principio di autonomia, si è iniziato a parlare di consenso alle
cure, e consapevolezza da parte del Paziente sul proprio stato di
salute.
Il termine consenso informato nasce solo nell’ultimo dopoguerra,
dopo il processo di Norimberga (1946), da cui si ricavò il Codice
di Norimberga, che, con i suoi dieci articoli, mise in evidenza il
principio dell’inviolabilità della persona umana: la partecipazione
di qualunque individuo a una ricerca scientifica non sarebbe più
avvenuta senza il suo “volontario” consenso.
In Italia, fu, il caso del primario chirurgo dell’Ospedale Careggi
( che viene individuato, dalla giurisprudenza, come il caso Massi-
mo) ad imporre ai sanitari una prima attenta riflessione sul Con-
senso.
Qui di seguito riportiamo la sentenza:
9
“Con sentenza 26 giugno 1991, la Corte di Assise di Appello di
Firenze, confermando la sentenza 18 ottobre 1990 della Corte di
Assise della stessa sede, riconosceva Massimo Carlo responsabile
del reato previsto dall'art. 584 cp, perché, quale primario chirur-
go dell'Ospedale di Careggi (FI), sottoponendo in data 19 agosto
1983 D.L.R.P. di anni 83 ad intervento chirurgico demolitivo di
amputazione totale addominoperineale di retto, anziché a quello
preventivo di asportazione trans-anale di un adenoma villoso, in
completa assenza di necessità ed urgenza terapeutiche che giu-
stificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preven-
tivamente notiziare la Paziente o i suoi familiari, che non erano
stati interpellati in proposito né minimamente informati dell'enti-
tà e dei concreti rischi del più grave atto operatorio che veniva
eseguito e non avendo comunque ricevuto alcuna forma di con-
senso ad intraprendere un trattamento chirurgico di portata così
devastante, su un soggetto di età avanzata portatore unicamente
di
adenoma rettale benigno, giudicata dall'anestesista che l'aveva
visitata il giorno prima dell'intervento in "condizioni generali gra-
vi" tali da persino sconsigliare il semplice intervento trans-anale
per il quale era stato dato il consenso, cagionava ad essa lesioni
personali gravi a seguito delle quali essa decedeva, in costanza
di degenza ospedaliera il successivo 23 ottobre 1983”.
Nel 1979 venne elaborato il Belmont Report che costituisce una
vera e propria pietra miliare per l’etica della ricerca e della speri-
mentazione, in esso sono stati individuati i principi di riferimento
in rapporto ai quali valutare la qualità etica della ricerca, il rispet-
to dell’autonomia della persona, della beneficità e della giustizia.
Andiamo ora ad esaminare alcuni principi fondamentali nel con-
testo infermieristico.
10
PRICIPIO di AUTONOMIA: questo principio risulta essere quello
prevalente e obbligante per sempre. Si basa sull’idea che le azio-
ni autonome non dovrebbero essere sottoposte a vincoli e a con-
trollo altrui. Comporta il riconoscimento del diritto di riservatezza
e di privacy, oltre che dell’importanza del dovere di informare i
soggetti per rendere il più possibili autonome le loro azioni.
In termini generali il principio può esser così formulato:” Agisci in
maniera tale da rispettare il Paziente nella sua dignità di persona
e nel diritto che a lui compete di decidere responsabilmente se
accettare o rifiutare un trattamento proposto”.
PRINCIPIO di BENEFICITA’: prescrive di promuovere il bene, sce-
gliendo l’azione che produca il maggior beneficio per la persona.
Le regole di beneficenza includono la difesa dei diritti altrui, la
prevenzione del danno, l’eliminazione di condizioni dannose, l’a-
iuto ai disabili e i doveri di soccorrere coloro che necessitano di
aiuto.
In termini generali il principio può esser così formulato:
agisci in maniera tale che le conseguenze del tuo intervento sani-
tario risultino a vantaggio del bene del Paziente nella totalità del-
la sua persona.
PRINCIPIO di GIUSTIZIA: questo principio viene a delimitare ciò
che può essere negoziabile da ciò che non lo può in nessun modo
diventare. Il rapporto Belmont, ha inoltre introdotto l’obbligato-
rietà del consenso informato come condizione per la liceità della
ricerca.
2.1.1. I PRESUPPOSTI NORMATIVI DEL CONSENSO AL
TRATTAMENTO SANITARIO
Consenso non vuol dire altro che partecipazione, consapevolezza,
libertà di scelta e di decisione.
11
L’obbligo per il Medico, di munirsi del valido consenso della per-
sona assistita, trova riscontro nella stessa Carta Costituzionale.
L’art. 32 della Costituzione afferma al 2° capoverso che “nessuno
può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se
non per disposizioni di legge” e che “la legge non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
All’art. 13 inoltre è sancito che “la libertà personale è inviolabile”
e che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o
di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della li-
bertà personale, se non per atto motivato dall’Autorità giudiziaria
e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
Un chiaro riferimento alla necessità di munirsi preventivamente
del Consenso dell’assistito è contenuto nell’art. 50 c.p. “consenso
dell’avente diritto”, che così recita: “non è punibile chi lede o
pone in pericolo un diritto, con il consenso della persona che può
validamente disporne”. Si capisce, dunque, che il Consenso è
una scriminante della liceità giuridica dell’atto medico. E sulla
base di quanto la dottrina medico legale ha ampiamente discusso
sulla materia, è da ritenere che per essere giuridicamente valido
il Consenso della persona assistita deve qualificarsi come infor-
mato, esplicito, libero, autentico ed immune da vizi.
Informato: informare, nel senso letterale, significa dare notizia,
così da consentire all’altro di avere conoscenza di fatti e situazio-
ni, conoscenza a volte necessaria per modificare concretamente
e liberamente il proprio comportamento.
Esplicito: il consenso può in alcuni casi essere considerato impli-
cito nella stessa richiesta di prestazione d’opera, il che avviene
quando si tratti di prestazione esente da rischi o priva di contro-
indicazioni. Si parla allora anche di consenso specifico e docu-
mentato.
12
Libero: il consenso inoltre deve essere libero, cioè non condizio-
nato dall’esterno, ossia da altri, persone o situazioni, ma prove-
nire da una interiore, autonoma e convinta riflessione della per-
sona assistita. Autentico: quando si parla di consenso autentico
si vuole intendere che esso deve provenire da chi è titolare del
diritto, ossia deve essere frutto di una scelta personale e diretta
dell’assistito, manifesto in modo inequivoco e certo.
Immune da vizi: per essere valido, il consenso deve anche pro-
venire da persona capace di esprimerlo perciò in possesso di una
normale capacità di intendere e di volere.
Non bisogna dimenticare che il rapporto Medico-Paziente ha ca-
rattere contrattuale dove la prestazione d’opera professionale of-
ferta dal Medico è una “prestazione di mezzi” (utilizzo di mezzi
migliori atti a soddisfare il bisogno dell’Utente). Se la prestazione
viene fornita con ritardo, in modo non idoneo, o non è fornita per
niente, e da questo, ne deriva un danno alla persona, si parla di
inadempienza contrattuale.
La violazione del dovere di informare l’Utente, da parte del Medi-
co, da luogo ad una vera e propria responsabilità di tipo contrat-
tuale. Questo fa sì che il Paziente abbia diritto ad essere risarcito
dal danno che da essa sia stato eventualmente causato.
2.2 IL CONSENSO INFORMATO
Com'è noto, uno dei nodi problematici più tradizionali in dottrina
ed in giurisprudenza riguardo ai limiti dell'attività medico-
chirurgica è rappresentato dalla individuazione dei fondamenti
idonei a consentire che un estraneo, sia pure qualificato come il
medico, possa intervenire nell'ambito di una sfera, l'integrità
fisica o - più genericamente - la salute, di un altro soggetto.
13
Non è qui il caso di ripercorrere le molteplici teorie che ad oggi
vengono formulate al riguardo. Occorre, pur tuttavia, evidenziare
come le diverse soluzioni ruotino attorno a due distinti approcci
dogmatici:
da un lato, vi è chi individua il fondamento della liceità del-
l'attività medica nel consenso dell'avente diritto. In altri ter-
mini: poiché il paziente è libero di salvaguardare la propria
integrità psico-fisica, ogni attività medica nei suoi confronti
trova la sua naturale giustificazione nel consenso del paziente
stesso, salvo naturalmente le ipotesi in cui si riscontrino i fon-
damenti dello stato di necessità;
dall'altro lato, vi sono autori, per la verità minoritari, che insi-
stono sulla dimensione anche collettiva del bene "salute", e
che pertanto, a fronte del ruolo sociale svolto dalla classe
medica, individuano un tale fondamento nel dovere del medi-
co di salvaguardare la vita e l'integrità fisica di ogni uomo.
Si darà naturalmente conto dell'orientamento sviluppatosi nella
giurisprudenza di legittimità sul punto.
Non può tuttavia non sottolinearsi come una tale dicotomia, per
certi versi, a mio parere, irriducibile (l'attuale dibattito in tema di
eutanasia ne è la migliore dimostrazione), trovi la propria genesi
nello stesso dettato costituzionale.
Infatti, l'art. 32 della Costituzione, e cioè la norma che
primieramente riconosce a livello costituzionale il diritto alla
salute, racchiude indubbiamente in sé una certa ambiguità forse
inevitabile, individuando nel bene "salute" un risvolto sia
individuale che collettivo.
Così, se "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo", è anche vero che una tale tutela è indicata anche
c o m e " i n t e r e s s e d e l l a c o l l e t t i v i t à".
14
D'altra parte, il secondo comma dell'art. 32 evidenzia come
"nessuno può esser obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge".
Se dunque la regola è la intangibilità, da parte della collettività,
della salute come bene individuale, nondimeno sono previste
eccezioni, sia pure, "riservate" alla legge (si pensi anche soltanto
ai casi di vaccinazione obbligatoria, cui il cittadino non può
sottrarsi, per ragioni di salute pubblica).
Quindi, pur consapevoli che i nodi problematici che ancora
emergono in tema di responsabilità penale del medico traggano
origine proprio da una tale ambivalenza, occorre evidenziare,
come negli ultimi anni la giurisprudenza abbia decisamente
individuato il fondamento della liceità dell'intervento medico, nel
preventivo assolvimento di precisi doveri di informazione nei
confronti del paziente.
In altri termini: il medico deve agire con il consenso del paziente,
ed un tale consenso deve essere preceduto da una idonea ed
esaustiva informazione sulle sue condizioni e prospettive
terapeutiche.
Ma, occorre chiedersi, quali sono i fondamenti normativi del c.d.
"consenso informato" ?
La questione non può che inquadrarsi negli artt. 32 e 13 Cost.,
da un lato, e 5 c.c., dall'altro.
Dell'art. 32 si è detto.
L'art. 13, affermando l'inviolabilità della libertà personale, ed
ancorandone ogni restrizione alla riserva di legge, rafforza il
carattere "personalistico" del bene salute.
Semmai, l'art. 5 c.c. suggerisce di per sé un argomento di
altrettanto scottante attualità. Cioè a dire: fino a che punto un
soggetto è libero di disporre della propria salute?
15
Volutamente intendiamo riferirci alla nozione di "salute" più che
non a quella di "corpo" giacché la sistematica lettura degli articoli
in questione comporta che non tanto siano vietati gli atti di
disposizione del proprio corpo tali da cagionare una diminuzione
permanente dell'integrità fisica, quanto invece che sono
consentiti tutti quegli interventi, concernenti "anche" l'integrità
fisica, che tuttavia siano idonei a tutelare il bene "salute" nella
sua accezione più ampia, anche psichica.5 Basti pensare
all'evoluzione giurisprudenziale in tema di cambiamento
"chirurgico" dei caratteri sessuali, per rendersi perfettamente
conto di una tale inversione non solo metodologica.
Il Tribunale per i diritti del malato, assieme alle associazioni me-
diche Anaao, Assomed e Fimmg hanno stilato un decalogo per il
consenso informato; tutte le aziende sanitarie pubbliche e le
strutture della sanità privata che vorranno aderire alla campagna
dovranno affiggere il decalogo nei reparti e fare tutto ciò che è
necessario perché sia applicato in ogni suo punto:
1. Il consenso dovrebbe essere scritto.
2. Il modulo dovrebbe essere composto da una parte generale,
utilizzata da tutti i reparti e le aree specialistiche.
3. Il linguaggio dovrebbe essere semplice e comprensibile anche
a chi non abbia una familiarità con la terminologia medica.
4. Il modulo dovrebbe contenere informazioni dettagliate su dia-
gnosi, natura e scopo del trattamento proposto, prognosi deri-
vante dall'esecuzione del trattamento o dal suo eventuale rifiuto,
rischi associati al trattamento e al suo eventuale rifiuto, composi-
zione della équipe chirurgica, con indicazione di ruoli e funzioni di
coloro i quali partecipano ad una eventuale seduta operatoria.
5 C. PARODI - V. NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale
16
5. La somministrazione e la raccolta del consenso dovrebbe av-
venire, preferibilmente, non oltre le 24 ore precedenti l'inizio del
trattamento stesso.
6. Il consenso dovrebbe essere firmato congiuntamente dal Me-
dico e dal Paziente, indicando chiaramente giorno, ora, modalità
e tempi di illustrazione delle specifiche tecniche del trattamento,
nonché la presenza di eventuali testimoni.
7. Il modulo dovrebbe prevedere una dichiarazione esplicita da
parte del cittadino sulla chiarezza, completezza e adeguatezza
della informazione ricevuta, dalla quale si ricavi incontrovertibil-
mente che è stato messo effettivamente in condizione di assu-
mere una decisione
consapevole.
8. Il consenso dovrebbe riportare chiaramente la indicazione del-
la possibilità di revoca del consenso medesimo al trattamento in
qualunque momento.
9. Il modulo dovrebbe contenere informazioni esaurienti relative
ai trattamenti alternativi possibili rispetto a quello consigliato
(con la indicazione delle percentuali di successo e di rischio), an-
che se questi non fossero eseguibili in quella struttura, e agli in-
dicatori di esito e alla casistica di quel reparto per il trattamento
suggerito.
10. Il consenso dovrebbe contenere informazioni adeguate sul-
l’appropriatezza del trattamento proposto.
2.3. IL CONSENSO INFORMATO NEL NUOVO CODICE
DEONTOLOGICO
Interrogarsi su ciò che è in disaccordo o in accordo con i valori
morali, il bene, il male, il giusto, l’ingiusto, la dignità umana,
ecc., è proprio dell’etica.
17
L’etica comprende l’insieme dei principi, delle regole generali e
delle norme di condotta che ispirano l’agire di ogni individuo nel
consorzio umano dove lui vive e opera. Essa non si limita allo
studio del comportamento umano, ma ricerca e indica anche i
mezzi per attuarlo nel modo migliore.
Il termine Bioetica è proprio di un ramo dell’etica, che significa lo
studio della moralità degli atti umani nella scienza della vita. La
definizione di Bioetica data dall’Encyclopedia of Bioethics (1978)
è: “lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle
scienze della vita e della cura della salute, esaminata alla luce
dei valori e dei principi morali”.
Quando ci si domanda se una legge in vigore in un Paese è giu-
sta o ingiusta, ci si rivolge a quella che viene definita
legittimità/illegittimità giuridica, sappiamo però che, alle volte, la
Giurisprudenza può trovarsi in conflitto con i valori morali in uso,
oppure può capitare che non esistano strumenti legislativi a re-
golare la materia, ed è qui che entra in gioco l’etica.
Il concetto di coscienza consiste nella consapevolezza del Medico
di agire secondo i principi morali, approvando i suoi atti profes-
sionali, perché conformi alle proprie convinzioni etiche, ai precet-
ti della scienza e all’interesse del Paziente.
A questo punto è facile desumere che etica, giurisprudenza e
deontologia sono tre campi diversi che dovrebbero essere siner-
gici tra loro ma, a volte, l’uno si trova ad essere in contrapposi-
zione con l’altro.
La deontologia è finalizzata alla tutela della professione, o più
esattamente, alla tutela del rapporto che i professionisti instaura-
no con i clienti: essa esplicita le norme di comportamento a cui i
sanitari, in quanto professionisti, si impegnano ad attenersi, non
si limita quindi a difendere gli interessi della categoria, ma tutela
18
anche i Pazienti da eventuali comportamenti illeciti da parte dei
membri della professione.
Quando un Sanitario ha deciso quali azioni sono compatibili o in-
compatibili con i principi della sua coscienza, e quando si è posto
degli interrogativi etici che appartengono al suo codice morale,
rimangono ancora da tenere in considerazione i problemi di natu-
ra deontologica: ciò che è opportuno e in armonia con la profes-
sione stessa.
La preoccupazione della deontologia, non è dunque, la qualità
morale dell’azione, ma la sua “correttezza”, tenendo presente so-
prattutto il punto di vista del rapporto tra professione e società.
La deontologia, a differenza dell’etica, da delle prescrizioni alle
quali il professionista deve attenersi in quanto tale. Tali prescri-
zioni si raccolgono nei vari Codici Deontologici professionali.
L’ultimo Codice di Deontologia Medica del 1998 suddivide i doveri
del Medico in:
1) doveri generali del medico;
2) rapporti con i cittadini;
3) rapporti con i colleghi;
4) rapporti con i terzi;
5) rapporti con il Servizio Sanitario Nazionale e con enti pubblici
e privati.
Il Codice deontologico dell’Infermiere del 1999 suddivide i doveri
dell’Infermiere in:
1) rapporti con la persona assistita;
2) rapporti professionali con i colleghi e con altri operatori;
3) rapporti con le istituzioni;
4) disposizioni finali.
Ricordiamo inoltre il Patto Infermiere – Cittadino stipulato il 12
maggio 1996:
“Io Infermiere mi impegno nei tuoi confronti a:
19
PRESENTARMI al nostro primo incontro, spiegarti chi sono e cosa
posso fare per te.
SAPERE chi sei, riconoscerti, chiamarti per nome e cognome.
FARMI RICONOSCERE attraverso la divisa e il cartellino di ricono-
scimento.
DARTI RISPOSTE chiare e comprensibili o indirizzarti alle persone
e agli organi competenti.
FORNIRTI INFORMAZIONI utili a rendere più agevole il tuo con-
tatto con l’insieme dei servizi sanitari.
GARANTIRTI le migliori condizioni igienico e ambientali.
FAVORIRTI nel mantenere le tue relazioni sociali e familiari.
RISPETTARE il tuo tempo e le tue abitudini.
AIUTARTI ad affrontare in modo equilibrato e dignitoso la tua
giornata supportandoti nei gesti quotidiani di mangiare, lavarti,
muoverti, dormire, quando non sei in grado di farlo da solo.
INDIVIDUARE i tuoi bisogni di assistenza, condividerli con te,
proporti le possibili soluzioni, operare insieme per risolvere i pro-
blemi.
INSEGNARTI quali sono i comportamenti più adeguati per otti-
mizzare il tuo stato di salute nel rispetto delle tue scelte e stile di
vita.
GARANTIRTI competenza, abilità e umanità nello svolgimento
delle tue prestazioni assistenziali.
RISPETTARE la tua dignità, le tue insicurezze e garantirti la riser-
vatezza.
ASCOLTARTI con attenzione e disponibilità quando hai bisogno.
STARTI VICINO quando soffri, quando hai paura, quando la me-
dicina e la tecnica non bastano.
PROMUOVERE e partecipare ad iniziative atte a migliorare le ri-
sposte assistenziali infermieristiche all’interno dell’organizzazio-
ne.
20
SEGNALARE agli organi e figure competenti le situazioni che ti
possono causare danni e disagi.”
Finalmente il Paziente è riconosciuto come arbitro nel valutare la
qualità della propria vita e il Medico non può in nessun caso so-
stituire la propria concezione di qualità di vita a quella del
Paziente. Questo rappresenta il punto di partenza per riflettere
su come deve essere fornita l’informazione affinché il Paziente
sia in grado di dare un consenso “libero” e “informato” che per
essere definito tale deve essere consapevole. Il Medico dovrà far-
si portatore di una “verità semplificata”, predestinata al Paziente,
nel momento storico, ambientale, psicologico, culturale in cui si
trova ad operare. La cultura media del Paziente porterà spesso, a
dover incrementare le informazioni da parte del sanitario, o, al
contrario, ridurle nel caso egli percepisca la volontà da parte del
Paziente di non sapere, rispettando anche questa decisione.
L’acquisizione del consenso, quindi non deve essere una metodi-
ca burocratica, ma l’espressione piena di quella capacità del Me-
dico di parlare, di spiegare, informare, immedesimarsi nella psi-
cologia, nel dolore e nel rispetto della qualità di vita del Paziente,
che deve rimanere al centro di ogni considerazione terapeutica,
dimenticando il paternalismo sanitario.
Il Comitato Nazionale Italiano di Bioetica affrontando il tema del-
l’informazione e consenso all’atto medico con il Documento ela-
borato il 20 giugno 1992, ritiene che:
1) “In caso di malattie importanti e di procedimenti diagnostici e
terapeutici prolungati il rapporto curante e Paziente non può es-
sere limitato ad un unico fugace incontro.
2) Il curante deve possedere sufficienti doti di psicologia tali da
consentirgli di comprendere la personalità del Paziente e la sua
situazione ambientale, per regolare su tali basi il proprio compor-
tamento nel fornire le informazioni.
21
3) Le informazioni, se rivestono carattere tale da poter procurare
preoccupazioni e sofferenze particolari al Paziente, dovranno es-
sere fornite con circospezione, usando terminologie non trauma-
tizzanti e sempre corredate da elementi atti a lasciare allo stesso
la speranza di una, anche se difficile, possibilità di successo.
4) Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeuti-
co dovranno essere veritiere e complete, ma limitate a quegli
elementi che cultura e condizione psicologica del Paziente sono in
grado di recepire ed accettare, evitando esasperate precisazioni
di dati che interessano gli aspetti scientifici del trattamento. In
ogni caso, il Paziente dovrà essere messo in grado di esercitare
correttamente i suoi diritti, e quindi formarsi una volontà che sia
effettivamente tale, rispetto alle svolte alternative che gli vengono
proposte.
La responsabilità di informare il Paziente grava sul primario, nella
struttura pubblica, ed in ogni caso su chi ha il compito di esegui-
re o di coordinare procedimenti diagnostici e terapeutici.
6) La richiesta dei familiari di fornire al Paziente informazioni non
veritiere non è vincolante. Il Medico ha il dovere di dare al mala-
to le informazioni necessarie per affrontare responsabilmente la
realtà, ma attenendosi ai criteri di prudenza, soprattutto nella
terminologia.
7) Il consenso informato in forma scritta è dovere morale, in tutti
i casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e
terapeutiche si rende opportuna una manifestazione inequivoca e
documentata della volontà del Paziente.
8) La richiesta di consenso informato in forma scritta è altresì un
dovere morale del Medico, nel caso di Paziente incapace legal-
mente o di fatto, nelle ipotesi di cui al punto 7, nei confronti di
chi eserciti la tutela o abbia con il Paziente vincoli familiari che
giustificano la responsabilità e il potere di conoscere o decidere,
22
fermo restando che tali interventi hanno un significato relativo e
il Medico posto di fronte a scelte fondamentali per la salute e la
vita del Paziente non è liberato dalle responsabilità connesse con
i poteri che gli spettano”.
In quest'ottica, il consenso informato è stato alla fine
"normativizzato" da ultimo nell'art. 31 nel nuovo codice di
deontologia medica adottato nel 1995.6
È pur vero che il codice deontologico non costituisce atto
legislativo. Tuttavia, è chiaro che il giudice, nel valutare il
comportamento del medico, ne apprezzerà la rispondenza anche
al codice deontologico.
Tanto più che una tale codificazione del principio in discussione è
intervenuta nell'ambito di una nutrita giurisprudenza, che ha
imperniato proprio sulla corretta informazione del paziente e sul
suo previo consenso la liceità dell'intervento medico.
Così, ad es., Cass., sezione V, 13 maggio 1992, Massimo:
"soltanto il consenso, manifestazione della volontà di disporre
del proprio corpo, può escludere in concreto l'antigiuridicità del
fatto e rendere questo legittimo. Ed in proposito, mentre non
sembra inutile ricordare che, ai sensi dell'articolo 89 del Codice
di deontologia medica (previgente: n.d.a.), il consenso del
paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto
medico, deve ricordarsi altresì, intorno al trattamento medico-
chirurgico, che l'antigiuridicità può, indipendentemente dal
consenso, solo essere esclusa da cause di giustificazione, che
nella fattispecie non vengono configurate (il preteso stato di
necessità). (...) Se il trattamento, eseguito a scopo non illecito,
abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere
l'ipotesi in cui esso sia consentito dall'ipotesi in cui il consenso
i n v e c e n o n s i a p r e s t a t o . 6 Art. 31. Consenso informato.
23
E si deve ritenere che, se il trattamento non consentito ha uno
scopo terapeutico e l'esito sia favorevole, il reato di lesioni
sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di
privilegiare il proprio stato attuale (art. 32, secondo comma,
Cost.), e che a fortiori il reato sussiste ove l'esito sia
sfavorevole".
Se il medico interviene senza il preventivo consenso, egli è in
ogni caso responsabile di lesioni personali ovvero, in caso di
esito mortale, di omicidio preterintenzionale.
Infatti, il suo intervento non può in alcun modo qualificarsi come
colposo, poiché egli agisce rappresentandosi correttamente la
situazione di fatto, e volendo l'evento dannoso o pericoloso da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del reato. Del resto, è qui
sufficiente il semplice dolo generico, non essendo richiesto il
perseguimento di alcun fine ulteriore. Da ciò discende il fatto che
il medico risponderà a titolo di dolo ,anche se, il suo fine fosse di
tutelare nel migliore dei modi l'integrità del paziente.
Se invece l'intervento avesse un esito felice, senza alcuna
conseguenza sia pure minima sull'integrità fisica del malato, si
ritiene che sia configurabile il delitto di violenza privata di cui
all'articolo 610 c.p..
2.4. REQUISITI DEL VALIDO CONSENSO
Innanzitutto deve esser chiaro che, il consenso debba esser dato
prima dell' inizio del trattamento terapeutico. Esso è
naturalmente revocabile in ogni momento (sempre che il
soggetto sia capace di intendere e di volere, e salvo - in tale
ipotesi - i casi di stato di necessità, quando ad esempio
l'interruzione repentina del trattamento possa provocare
gravissimi rischi per il paziente).
24
Destinatario del consenso è evidentemente il medico che
effettua la particolare prestazione che di volta in volta viene in
considerazione.
Si ritiene, tuttavia, che il consenso dato ad un medico senza
particolari limitazioni valga a rendere lecito l'intervento anche di
un altro medico, dotato tuttavia dello stesso grado di capacità o
di specializzazione (non sarebbe cioè "fungibile" un consenso
dato ad uno specialista rispetto all'opera prestata da un medico
generico).
Tuttavia, se il paziente specifica che, il possesso viene prestato a
condizione che il trattamento sia posto in essere da un medico
determinato, il consenso varrà esclusivamente per quest'ultimo.
2.5 OGGETTO DEL CONSENSO
Oggetto del consenso è il trattamento (si ricorda infatti che il
medico è tenuto ad un'obbligazione di mezzi e non di risultato).
Tuttavia il consenso dovrà essere preceduto da una illustrazione
il più possibile esaustiva della terapia, sebbene la dottrina abbia
evidenziato come il medico debba guardarsi da un vero e proprio
"eccesso informativo", che potrebbe fondatamente rivelarsi
controproducente, quale ad es. nel caso che si prospettassero al
paziente in attesa di essere operato, conseguenze nefaste del
tutto remote, atte soltanto ad aumentarne lo stato di ansia che
potrebbe pregiudicare gli effetti dell'intervento.7
Del resto, la stessa giurisprudenza di merito, ha recentemente
evidenziato come non possa esser tenuto responsabile di lesioni
personali volontarie, conseguenti alla mancanza di consenso
informato, il medico che abbia eseguito una escissione di un
linfonodo cervicale, da cui sia derivato un danno neurologico al
nervo accessorio spinale, quando di tale intervento il paziente 7 Il consenso del paziente, in La responsabilità medica, Milano, 1982
25
sia stato preventivamente informato, pur senza esser stato
edotto circa lo specifico rischio poi concretizzatosi. Infatti la
sentenza da' atto della "non rilevante incidenza statistica
dell'evento lesivo, quale conseguenza della pratica osservata dal
chirurgo".8
Secondo la recente dottrina, "il medico dovrà illustrare in termini
comprensibili:
la condizione patologica in atto;
le scelte programmate tanto ai fini diagnostici che terapeuti-
ci;
i rischi connessi all'attuazione dei mezzi diagnostici-terapeuti-
ci prescelti, prospettando, ove possibile, le possibili alternati-
ve;
i risultati prevedibili di ciascuna scelta;
gli effetti collaterali, le menomazioni e le mutilazioni inevita-
bili (...);
le percentuali di rischio connesse, in particolare in relazione
alla sopravvivenza”.9
Particolarmente delicata è poi la questione relativa alla
possibilità che il medico limiti l'informazione al paziente che
debba affrontare un intervento chirurgico particolarmente
rischioso ed, al tempo stesso, imprescindibile.
Sebbene la nuova norma deontologica, imponga al medico una
maggiore informazione del paziente rispetto al codice
previgente.10
Peraltro, vi è in dottrina chi sostiene che, ove un'informazione
dettagliata possa pregiudicare la stessa salute del paziente a
causa inevitabili ripercussioni psicologiche che inevitabilmente si
riverbererebbero sul suo generale tono psico-fisico, il medico 8 Corte d'Appello di Firenze, 11 luglio 19959 C. PARODI - V. NIZZA, La responsabilità penale10 Art. 39 del codice deontologico del 1989
26
ben potrebbe ometterla in virtù dell'articolo 54 c.p. (stato di
necessità).11
Riteniamo che una tale opzione sia del tutto condivisibile, anche
alla luce del generale obbligo di garanzia incombente sul medico.
2.6 DOCUMENTAZIONE
Come è facile intuire, occorre prestare particolare attenzione al
problema della documentazione del consenso.
Così, se è vero che il consenso può ben esser dato anche
oralmente, non vi è dubbio che l'atto scritto, debitamente
controfirmato dal paziente, sia tale da evitare tanto spiacevoli
incomprensioni o ambiguità, quanto difficoltose necessità
probatorie.
Semmai, occorre precisare che, tanto meno "necessario" sia
l'intervento da effettuarsi (basti pensare alla chirurgia estetica),
tanto più scrupoloso dovrà essere il medico nell'ottenere un
consenso scritto. In tale ipotesi infatti il medico non potrebbe
invocare l'esimente dello stato di necessità, e si troverebbe
dunque esposto ad ipotesi di responsabilità penale.
Teoricamente è comunque sufficiente anche un mero consenso
tacito (deducibile cioè univocamente dal comportamento
concludente del paziente). Gli inconvenienti di una tale opzione,
t u t t a v i a , s o n o f i n t r o p p o e v i d e n t i .
2.7. TITOLARIETA’
Ovviamente, il consenso deve esser prestato da chi è titolare del
bene giuridico tutelato, e quindi dal paziente.
Nel caso in cui il paziente sia minorenne ovvero incapace di
intendere e di volere, il valido consenso dovrà esser prestato da
11 CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955
27
chi ne esercita la potestà ovvero dal rappresentante legale
(tutore o curatore) dell'incapace (interdetto o inabilitato).
La dottrina maggioritaria ritiene che solo il maggiorenne possa
consentire ad interventi medici sulla propria persona: tale tesi
appare certamente preferibile (in ottemperanza del resto alle
disposizioni civilistiche in materia di capacità di agire), sebbene
vi siano autori che evidenziano come in diritto penale, diverse
siano le soglie di età da valutare, mentre altri richiamano
addirittura alla necessità di valutare di volta in volta, la capacità
del soggetto, a prescindere dall'età dello stesso.12
Assai più delicata, appare la questione relativa ai prossimi
congiunti.
È infatti prassi ormai consolidata che il sanitario, a fronte di un
paziente in momentaneo stato di incapacità (ad es. perché in
coma), si rivolga ai prossimi congiunti chiedendo loro il
preventivo consenso ad un intervento di particolare difficoltà.
A tal proposito occorre essere ben chiari. Sotto il profilo
strettamente giuridico, e specificamente penale, il consenso dei
prossimi congiunti non ha alcun effetto discriminante.
Il consenso, infatti, per avere efficacia penalmente rilevante,
deve essere prestato dal titolare del bene giuridico protetto
ovvero da colui che riveste una posizione di garanzia (rectius di
protezione) rispetto a quel bene, e pertanto dal genitore (se il
paziente è minorenne) o ancora dal rappresentante legale (se
quello è incapace). Certamente non dai prossimi congiunti.
Semmai, la preventiva informazione dei prossimi congiunti dovrà
essere effettuata sia per conoscere eventuali determinazioni
precedentemente espresse dal paziente (pur rimando in tale
caso al medico il potere - dovere di decidere nell'interesse
esclusivo del paziente), sia per evitare successivi problemi 12 Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1994
28
giudiziari, in quanto è forse il caso di ricordare che normalmente
gli atti di denuncia ,nei confronti di sanitari traggono origine
proprio dai prossimi congiunti a motivo (eminentemente
psicologico) della mancanza di preventiva informazione nei loro
confronti, circa i rischi connessi ad intervento medico-chirurgico.
Sia come sia, per superare ogni dubbio, deve essere chiaro che
solo queste sono le ragioni che consigliano una preventiva
informazione dei congiunti, la mancanza della quale - si ripete -
non rileva sotto il profilo strettamente giuridico-penale.
2.8. MANCANZA DI CONSENSO
Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido
consenso, pertanto, il medico dovrà assumersi in prima persona
ogni responsabilità, e, qualora decidesse di intervenire, non sarà
punibile:
purché sussistano i requisiti di cui al art. 54 c.p., e cioè lo
stato di necessità, che risulta integrato quando egli debba
agire mosso dalla necessità di salvare il paziente dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona (cd. soccorso di ne-
cessità), sempre che il pericolo non sia stato da lui volonta-
riamente causato, né sia altrimenti evitabile, e l'intervento
sia proporzionale al pericolo;
ovvero purché emerga il proprio obbligo di attivarsi. Si ri-
corda infatti che l'art. 54 c.p. prevede semplicemente una
causa di giustificazione che facoltizza il medico ad interveni-
re, ma non lo obbliga a farlo. Peraltro, in capo al medico
stanno una serie di obblighi di garanzia nei confronti del pa-
ziente, obblighi derivanti dalla sua "posizione", dal suo ruolo.
Lo stesso codice deontologico è chiaro sul punto13, imponen-
13 art. 34. Necessità e urgenza
29
do, e non solo facoltizzando, l'intervento medico, sia in casi
di necessità e di urgenza, sia nelle ipotesi in cui il paziente -
versando in condizioni gravi - non possa esprimere una vo-
lontà contraria.
Ciò introduce al diverso problema concernente il manifesto
dissenso del paziente.
Nel caso invece ,in cui il paziente manifesti un vero e proprio
dissenso al trattamento chirurgico, occorre innanzitutto
distinguere le ipotesi in cui il dissenso provenga direttamente
dal paziente, da quelle in cui invece sia il rappresentante
legale del paziente ad opporsi.
Di tale secondo caso, infatti, l'esperienza giurisprudenziale ha
avuto modo di occuparsi: si ricorderà la nota vicenda relativa
all'opposizione dei genitori, appartenenti alla setta dei cd.
Testimoni di Geova, rispetto alla indispensabile trasfusione di
sangue nei confronti della loro figlia.14
In tale situazione, deve ritenersi doveroso, da parte del
medico, rivolgersi all'autorità giudiziaria, evidenziando la
situazione sanitaria del paziente ed il rifiuto del suo
rappresentante legale. Sempre che, naturalmente, non
sussistano ragioni tanto gravi di urgenza, da non consentire
alcun ritardo. È evidente, in tale ultima ipotesi, che il
sanitario debba attivarsi immediatamente.
In ordine al rifiuto da parte del paziente stesso, viceversa, i
problemi sono ancor più accentuati, anche a fronte del totale
vuoto normativo, ciò che lascia il medico completamente solo
di fronte a scelte di così evidente rilevanza.
Si scontrano in proposito due orientamenti dottrinali, una
dicotomia che, come si è detto all'inizio, discende
14 Pretore di Catanzaro, 13 gennaio 1981
30
direttamente dalla effettiva ambiguità della norma
costituzionale.
Da un lato, si sostiene che l'ordinamento non possa
consentire comportamenti suicidari, specie ove questi
vengano posti in essere al cospetto di un medico.15
Si giustifica un tale assunto in relazione all'art. 32 Cost., nel
quale viene evidenziato anche il valore collettivo del bene
salute. Per di più, occorre tener conto di una serie di obblighi
discendenti dalla normativa deontologia, della possibilità di
incorrere nel reato di omissione di soccorso cui in caso di
inerzia il medico andrebbe incontro, ed inoltre della posizione
di garanzia rivestita dal medico nei confronti del paziente
anche dissenziente.
Dall'altro lato, in riferimento al combinato disposto di cui agli
artt. 32 e 13 Cost., si evidenzia come il bene salute abbia
una rilevanza eminentemente personale, tollerando
limitazioni nei soli casi previsti dalla legge (in materia ad es.
di trattamenti sanitari obbligatori per la tutela della salute
pubblica).
Pertanto, a fronte del valido dissenso di un paziente in
normale stato di capacità16, il medico dovrebbe astenersi da
alcun intervento.
È evidente che una tale problematica sta alla base
dell'attuale dibattito anche in tema di eutanasia.
Pare allo scrivente più che mai opportuno, in presenza degli
accennati divergenti approdi dottrinali i quali pongono a
proprio fondamento le medesime disposizioni costituzionali,
che il legislatore intervenga a disciplinare compiutamente la
15 IADECOLA, Consenso del paziente e trattamento medico-chirurgico, in Riv. it. med. leg., 198616 http://www.aisa.it/angolo_legale/consenso_informato.htm
31
materia, anche per limitare l'attuale disorientamento degli
esercenti la professione medica.
CAPITOLO III
3.1.IL CASO CLINICO: IDRONEFROSI DI TERZO GRADO
DA STENOSI DELL’URETERE
Idronefrosi o, più correttamente, pielectasia è una dilatazione del
b a c i n e t t o r e n a l e .
L’urina viene prodotta dai reni, raccolta in cavità simili a imbuti,
chiamate bacinetti o pelvi renali, e convogliata negli ureteri,
lunghi tubi che permettono all’urina di scendere dal rene fino alla
vescica. Quando la vescica è piena, si contrae e spinge l’urina
all’esterno attraverso l’uretra.
È quindi, una dilatazione del rene e del bacinetto, sussiste nel
momento in cui le vie efferenti, quali gli ureteri, che sono in
qualche modo compromessi, o da un corpo estraneo, o da
malformazioni congenite degli ureteri, calcolosi, tumori delle vie
urinarie, ripiegamenti dell’uretere o sua compressione da parte di
tumori di strutture vicine il calcolo, o da neoplasie che, in
qualche modo ostruiscono il passaggio dell’urina dall’uretere,
causando così un reflusso a monte che si contraddistingue come
“idronefrosi”; la stessa si suddivide in I°, II° e III° grado, a
seconda della quantità di urina contenuta dal rene. : in tali
condizioni, per il ristagno e l’aumento di pressione dell’urina che
viene continuamente prodotta dal rene, il tratto delle vie urinarie
a monte dell’ostruzione si dilata in misura progressiva ciò è
particolarmente accentuato a livello del bacinetto e dei calici,
mentre il tessuto renale si riduce gradualmente, così che con il
tempo il rene si può trasformare in una sacca ripiena di urina,
con perdita più o meno completa della sua funzione. Il ristagno
32
di urina oltre ai continui dolori, predispone alle infezioni delle vie
urinarie e del rene in questi casi il rene idronefrotico può
trasformarsi in una sacca piena di pus (idropionefrosi).
In altri casi, può essere un segnale di qualche malformazione
dell’apparato urinario, quale:
stenosi del giunto pielo-ureterale: restringimento del punto
di connessione tra la pelvi renale e l’uretere, con conseguen-
te accumulo dell’urina nel bacinetto renale e sua dilatazione;
reflusso vescico-ureterale: risalita dell’urina dalla vescica
verso il rene (anche associato ad eventuale stenosi del GPU,
vescica neurologica o da ritenzione cronica per incoordinazio-
ne detruso-sfinterica);
ipotonia della via urinaria senza ostruzione che può inte-
ressare l’uretere (megauretere) od essere limitata alla pelvi o
ai calici (megacalicosi congenita)
ureterocele: dilatazione dell’uretere nella vescica per un
restringimento del punto di fuoriuscita dell’urina in vescica;
valvole dell’uretra posteriore: lembi mucosi posti nell’ure-
tra maschile che ostacolano la fuoriuscita dell’urina e possono
causare accumulo d’urina in vescica, ureteri e bacinetti rena-
li.
Calcolosi urinaria;
Tumori della via urinaria;
Flogosi croniche;
Qualsiasi malattia che determini un ostacolo meccanico al
regolare deflusso dell’urina può provocare infezioni, ma vi sono
casi particolari che vanno descritti dettagliatamente. In essi
entrano in gioco cause di ordine congenito presenti dalla nascita,
e precisamente malformazioni di natura meccanica o dinamica.
33
Un’altra causa è rappresentata da un restringimento proprio del
condotto che, per un breve tratto, lascia passare difficilmente
l’urina dal bacinetto verso il basso, con analoghe conseguenze. Si
riconosce anche una causa puramente dinamica (senza
ostacolo), costituita da difetto di innervazione o da struttura
muscolare difettosa.
La diagnosi è quasi sempre precisata dall’urografia, con segni
radiologici che spesso differiscono a seconda che si tratti di una
idronefrosi da stenosi del giunto o viceversa da fascio vascolare
anomalo.
Il danno parenchimale provocato dall'ostruzione è variabile,
nell'adulto un'ostruzione completa può causare una riduzione
permanente della funzionalità già in una sola settimana, mentre
nel bambino è possibile un buon recupero della funzionalità
anche se l'ostruzione è durata mesi; in generale l'ostruzione
cronica causa una graduale riduzione della funzionalità renale.
L'ostruzione è spesso solo parziale, con idronefrosi di grado
variabile e deflusso dell'urina possibile solo quando la pressione a
monte dell'ostruzione supera un determinato gradiente pressorio.
L'idronefrosi sopraggiunta nell'adulto è, nella maggioranza dei
casi, dovuta ad un'ostruzione (calcolosi, invasione neoplastica,
briglie aderenziali) e, se non si risolve in breve tempo, necessita
di intervento chirurgico.
Si cura in funzione della causa dell’idronefrosi con lo scopo di
ristabilire una normale pervieta’ al deflusso urinario e/o con lo
scopo di salvare la funzione renale. Un tempo ci si limitava a
incidere verticalmente la porzione stenotica interessando solo le
34
tuniche più esterne del condotto, che così aumentava di calibro.
Si trattava tuttavia di un risultato temporaneo.
3.2. IL CASO CLINICO
“Il giorno 20 settembre del 2000 la signora X viene ricoverata
presso il reparto di Urologia del Presidio Ospedaliero della Valle
d’Itria di Martina Franca per idronefrosi di terzo grado da stenosi
dell’uretere del lato sinistro, paziente peraltro, portatrice di
“nefrotomia dx, posizionatale in altro presidio, dopo asportazione
di uretere neoplastico”. Alla paziente dopo adeguata visita
specialistica, dopo esecuzione di tutti quegli esami radiologici del
caso, viene consigliato di sottoporsi all’intervento di U.R.S.,quale
appunto esame diagnostico che ci permette di prendere visione
con l’ureteroscopio, di cosa eventualmente ci possa essere nel
tratto ureterale. Per tale intervento il personale infermieristico e
medico richiede alla paziente un consenso informato di tipo
verbale e scritto.
L’indomani l’intera èquipe procede all’intervento, ma durante la
seduta sopraggiunge una complicanza: il medico chirurgo si
accorge che vi è una massa tumorale la quale ostruiva il
passaggio dell’urina manifestando così alla paziente idronefrosi,
non facilmente evidenziabile, con esecuzione di T.A.C. s.m.d.c,
Gli urologi decidono seduta stante intraoperatoriamente di
intervenire asportando il rene e l’uretere, eseguendo quindi una
ureterectomia più nefrectomia radicale.
Al momento del risveglio postoperatorio la paziente è messa al
corrente dell’accaduto, ma a suo avviso il personale medico non
avrebbe dovuto procedere ad intervenire senza il suo consenso.
35
Per questo motivo la paziente si rivolge ad un legale il quale
avvia una pratica per richiedere un risarcimento poiché a seguito
di tale atteggiamento la paziente ha subito un forte danno
psicologico.”
Il Tribunale, in composizione monocratica, con la sentenza n.
621/2009 si pronuncia su un caso di responsabilità medica nel
quale il danno era conseguito a due distinte condotte negligenti,
una della struttura sanitaria presso la quale era stato eseguito
l’intervento, l’altra di un medico di altra struttura il cui intervento
era stato richiesto per cercare di porre rimedio ad una seria
complicanza verificatasi nel corso dell’operazione chirurgica.
Il Giudice, seguendo l’orientamento giurisprudenziale ormai
consolidato, qualifica la responsabilità della struttura ospedaliera
quale responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione
del paziente in ospedale, ai fini di un ricovero o di una visita
ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto e che,
pertanto, la struttura stessa (pubblica o privata che essa sia)
risponde a titolo contrattuale per i danni subìti a causa della non
diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un
m e d i c o p r o p r i o d i p e n d e n t e .
Quanto alla responsabilità dei singoli sanitari, essa viene invece
qualificata quale avente natura extracontrattuale. In questo
senso, dunque, vi è un distacco dal prevalente indirizzo
giurisprudenziale secondo cui la responsabilità degli operatori
sanitari è di tipo contrattuale, atteso che ad essi, si ricollegano
obblighi di comportamento di varia natura diretti a garantire che
siano tutelati gli interessi emergenti o esposti a pericolo in
occasione del c.d. contatto sociale tra medico e paziente, da cui
sorge un rapporto contrattuale de facto. Tale rapporto, in
particolare, si riscontra nei confronti dell’operatore di una
36
professione “protetta”, per la quale sia richiesta cioè una speciale
abilitazione, specialmente quando essa abbia ad oggetto beni
costituzionalmente garantiti quale quello della salute, tutelato
d a l l ’ a r t . 3 2 C o s t . .
Nel caso in esame non erano coinvolti solo alcuni dipendenti
dell’ospedale (unico convenuto in giudizio) bensì anche un
professionista esterno intervenuto nel corso dell’operazione e che
aveva poi successivamente operato la paziente per tentare di
porre rimedio alle lesioni verificatesi a seguito del peggioramento
della sua situazione personale, essendo come accennato in
precedenza portatrice di “nefrostomia dx”, e quindi con una
I.R.C. La consulenza tecnica espletata in corso di giudizio non
aveva accertato la responsabilità dell’equipe della struttura
ospedaliera e nemmeno quella del professionista esterno nella
f a s e p o s t - o p e r a t o r i a .
Tuttavia, anche a prescindere dall’applicazione dell’art. 1228 cod.
civ. sulla responsabilità per fatto degli ausiliari, in ogni caso
l’ente ospedaliero in cui è avvenuto il ricovero risponde sulla
base dei normali criteri attinenti al nesso eziologico desumibili
d a g l i a r t t . 1 2 2 3 e 1 2 2 5 c o d . c i v . .
E così, attraverso l’applicazione degli ordinari criteri selettivi, è
possibile stabilire che qualora già nella lesione iniziale sia insita
una elevata potenzialità del rischio, quand’anche tale rischio si
manifesti in un secondo momento per il sopravvenire di concause
colpevoli, non può essere negata la responsabilità dello/degli
autore/i del primo inadempimento originario dell’intera serie
causale.
Qualora quindi la consulenza tecnica accerti l’esistenza di una
colpa in capo all’equipe medica nella rescissione dell’uretere, si
può ritenere che il successivo trattamento urologico, per quanto
negligente, non sarebbe mai stato necessario in difetto della
37
prima condotta e che pertanto l’intera serie causale risulti
connessa materialmente all’originaria condotta imputabile
all’ospedale convenuto. Non è dunque corretto affermare, come
ha fatto la d i fesa del l ’ospedale convenuto, che un
comportamento negligente intervenuto in una fase successiva
all’intervento chirurgico possa rivestire la qualità di fatto
interruttivo del nesso eziologico tra l’originaria condotta
c o l p e v o l e e d i l d a n n o - e v e n t o .
Quanto poi alla individuazione delle diverse quote di
responsabilità in capo ai corresponsabili, essa deve essere
compiuta dal giudice solo in presenza di una esplicita domanda di
un corresponsabile convenuto congiuntamente agli altri e
comunque, qualora l’attore abbia convenuto solo uno di essi, il
giudice si deve limitare a condannare in toto quest’ultimo,
riservando ad un eventuale ulteriore giudizio la definizione della
questione delle quote di responsabilità nella causazione del
danno.
Per affrontare seriamente il problema del consenso informato,
occorre fare alcune precisazioni. Nel nostro ordinamento non
esiste una disciplina giuridica espressa – in altre parole: non c’è
una norma o una legge – che si occupi direttamente
dell’argomento e tanto meno del suo riverberarsi nell’ambito
medico-chirurgico. Giuridicamente occorre fare riferimento alla
disciplina prevista nell’art. 50 del Codice Penale che, come
vedremo nel prosieguo, si occupa del Consenso dell’avente
diritto. Questa è, comunque, una disciplina di carattere generale
n o n l i m i t a t a a i s o l i c a s i s a n i t a r i .
Per centrare ulteriormente l’argomento in materia sanitaria
occorre entrare nel più ampio dibattito circa l’individuazione dei
limiti e dei fondamenti della liceità del trattamento medico-
38
chirurgico, problema tuttora aperto ed in costante evoluzione.
La necessità di legittimare l’attività medico-chirurgica, intesa
come l’insieme delle azioni (od omissioni), che il medico attua
secondo i dettami della scienza, sulla persona del paziente per
migliorarne la salute fisica o psichica, trova ragione nel fatto che,
nell’esercizio della sua professione, il sanitario pone in essere
comportamenti che interferiscono, con i beni cosiddetti
p e r s o n a l i s s i m i e p r i m a r i d e l l ’ i n d i v i d u o .
Nel tentativo di ricercare il fondamento di liceità dell’atto medico
(e quindi di legittimarlo), la dottrina ha elaborato numerose
teorie.
La maggior parte degli autori ravvisa, concordemente, il
fondamento giuridico e un’imprescindibile requisito per la liceità
dei trattamenti sanitari, nella esimente del “Consenso dell’avente
diritto” di cui all’art. 50 del Codice Penale, quale corollario del più
ampio principio della libertà personale e decisionale.
L’art. 50 del Codice Penale afferma: “Non è punibile chi lede o
pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può
v a l i d a m e n t e d i s p o r n e ” .
Questa norma rientra tra le cosiddette cause oggettive di
esclusione del reato (dette anche cause di giustificazione o
scriminanti): una serie di norme che rappresentano particolari
situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti
costituirebbe un reato, tale non è perché la legge lo impone o lo
consente, escludendone, quindi, la punibilità. Oltre al consenso
dell’avente diritto, il Codice Penale prevede anche altre cause
oggettive di esclusione del reato: “Adempimento di un dovere o
l’esercizio di un diritto” (art. 51); “Difesa legittima” (art. 52);
“Uso legittimo delle armi” (art. 53) e lo “stato di necessità” (art.
54).
Le diverse correnti dottrinarie sono concordi nell’affermare che
39
queste cause eliminino l’antigiuridicità di un’azione poiché la loro
realizzazione fa venire meno il danno sociale. In altri termini
quando esse ricorrono, l’azione non contrasta con gli interessi
della comunità poiché in quelle determinate situazioni (l’azione)
è necessaria per salvare un interesse che ha un valore sociale
p a r i o s u p e r i o r e a q u e l l o c h e s i s a c r i f i c a .
Nell’ambito sanitario il potere scriminante (rectius: legittimante)
dell’art. 50 del Codice Penale trova, però, un limite nell’art. 5 del
Codice Civile (“Atti di disposizione del proprio corpo”) il quale
stabilisce che: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono
vietati quando cagionino una diminuzione permanente
dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge,
a l l ’ o r d i n e p u b b l i c o o a l b u o n c o s t u m e ” .
Se è indubbio che il diritto alla vita non è disponibile – l’art. 579
Codice Penale punisce, infatti l’omicidio del consenziente –
stando all’art. 5 del Codice Civile, che nega all’individuo la piena
disponibilità del proprio corpo, il consenso del paziente sarebbe
idoneo a legittimare solo gli atti medici produttivi di lesioni
lievissime e non escluderebbe, invece, la rilevanza penale della
maggior parte di quei trattamenti (soprattutto chirurgici) che
modificano in senso riduttivo l’integrità fisica del soggetto,
causando uno stato di malattia o una lesione grave o gravissima
a l p a z i e n t e .
Per superare questo evidente paradosso, si deve fare riferimento
a quanto contenuto nell’art. 32 della Costituzione: “La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure
g r a t u i t e a g l i
indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
40
p e r s o n a u m a n a ” .
Questa norma riconosce nella “salute” un fondamentale diritto
dell’individuo ed un interesse della collettività, tutelata dallo
Stato.
Inoltre, l’art. 32 citato introduce una evidente e necessaria
deroga al principio della limitata disponibilità del proprio corpo,
senza la quale il diritto fondamentale alla salute non potrebbe
t r o v a r e p i e n a a t t u a z i o n e .
Ne consegue che il divieto di cui all’art. 5 del Codice Civile non
può riferirsi agli atti di disposizione del proprio corpo volti a
realizzare un vantaggio per la salute psico-fisica del soggetto,
perché altrimenti esso disconoscerebbe, proprio in nome della
salvaguardia dell’integrità fisica, il diritto a curarsi.
I trattamenti sanitari, pertanto, si ammettono nella misura in cui
perseguono finalità terapeutiche, funzionalmente dirette ad
evitare un danno maggiore alla salute e a patto che siano
c o n s e n t i t i d a l l ’ a v e n t e d i r i t t o .
Il riconoscimento del consenso del paziente – non come
scriminante dell’attività medico-chirurgica, ma piuttosto come
suo “requisito-limite” di legittimità e di liceità – sottrae il malato
all’unilaterale (ed arbitrario) potere decisionale di un estraneo –
ancorché medico – e sancisce il diritto di libertà personale
dell’individuo, costituzionalmente garantito. L’art. 13 della
Costituzione, infatti, oltre a stabilire che, salvo rare eccezioni, la
“libertà personale è inviolabile”, afferma: “Non è ammessa forma
alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né
qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto
motivato dall’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti
dalla legge… È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizioni della libertà”. Ancora, l’ultimo
comma dell’art. 32 della Costituzione, dispone: “Nessuno può
41
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso
violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Lo stesso principio è ripreso espressamente dal Codice di
Deontologia Medica (art. 32): “Il medico non deve intraprendere
attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del
c o n s e n s o i n f o r m a t o d e l p a z i e n t e ” .
Quanto sin qui esposto è il quadro normativo di riferimento in
materia di consenso informato. A fronte di norme di antica data,
tutta la materia ha subito un notevole incremento (ed
aggravamento) in seguito a sentenze giurisprudenziali che,
lentamente, hanno trasformato il principio originario
sottoponendolo ad una serie di requisiti (sette) considerati ormai
indispensabili affinché si possa affermare la validità di un
consenso rilasciato dal paziente.
Sulla base della ricostruzione in fatto sopra riassunto l’attrice
richiedeva che il solo Ospedale Evangelico fosse condannato a
rifondergli tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a
seguito dell’inadempimento dell’obbligazione legale a garantire
un intervento conforme alla corretta prassi chirurgica,
obbligazione assunta dall’ospedale per il fatto stesso
d e l l ’ a c c e t t a z i o n e d e l l a p a z i e n t e .
Il convenuto si costituiva resistendo alla domanda attrice di cui
contestava la fondatezza. In particolare l’Ente Ospedaliero
affrontava innanzitutto il merito tecnico della questione
sostenendo che la lesione dell’uretere e della vescica erano
dovute ad un gravissimo quadro aderenziale manifestatosi nel
corso dell’intervento stesso e ne costituivano, in un certo senso,
una conseguenza “quasi necessaria”, ed in ogni caso molto
difficilmente evitabile, se non a rischio di dover rinunziare al ben
42
più essenziale intervento inteso alla tempestiva rimozione della
formazione neoplastica in sede ovarica. Inoltre l’Ospedale
contestava che all’atto delle dimissioni l’interessata non fosse
stata informata delle lesione all’apparato urinario, producendo
anche l’esito diagnostico di ecografia disposta proprio al fine di
verificare eventuale idronefrosi, ecografia che aveva dato esito
negativo. Su tale base, pur senza diffondersi sull’argomento, la
tesi difensiva del convenuto Ospedale tendeva a valorizzare, in
relazione alla perdita della funzionalità del rene sinistro, il ruolo
del successivo trattamento delle problematiche urologiche
d e r i v a t e d a l l ’ i n t e r v e n t o .
Nella fase istruttoria veniva licenziata CTU medico-legale su
parte attrice al Dott. A. C. ed al Prof. C. Z., che concludevano
come meglio si vedrà, individuando postumi invalidanti
temporanei e permanenti che attribuivano in parte a colpa
dell’equipe dell’ospedale, in parte anche maggiore, a
responsabilità degli autori del successivo trattamento urologico.
La causa perveniva quindi all’udienza, in cui le parti precisavano
le rispettive conclusioni come riportate in epigrafe ed il G.I.
assegnava i termini ridotti per la redazione delle difese
conclusive, rinviando all’udienza, per la discussione orale della
stessa, udienza poi ulteriormente rinviata per la sostituzione del
giudicante fino a quella ultima in cui la discussione aveva
effettivamente luogo, già depositati da tempo gli scritti difensivi
finali.
S u i m o t i v i d e l l a d e c i s i o n e
a) Riguardo preliminarmente alla ricostruzione del fatto
La ricostruzione di prima narrativa attorea è risultata
ampiamente confermata in punto di fatto dalla fonte primaria e
quasi esclusiva di prova utilizzabile ai fini della decisione: la
c o n s u l e n z a t e c n i c a d i u f f i c i o .
43
Si deve precisare in proposito che non occorre nel caso fare
riferimento alla figura del CTU c.d.“percipiente” per giustificare
l’introduzione in causa, in sede tecnica, di elementi in un primo
momento non fatti oggetto di tempestiva deduzione. La
descrizione dei fatti contenuta in consulenza è invero,
quantomeno per la parte di maggior rilievo in causa, niente
meno che lo “sviluppo commentato” della cartella clinica
ritualmente prodotta da parte convenuta. Qualche dato maggiore
di riscontro, viene introdotto nella consulenza con riferimento al
trattamento urologico successivo all’intervento sul quale, per il
vero le affermazioni di citazione risultano in parte sprovviste
dell’ampio corredo probatorio documentale che per il resto è di
base alla CTU. La questione concerne in particolare la presunta
inerzia nel trattamento urologico dall’inizio del 2000 all’autunno
dello stesso anno (periodo in cui sono documentati importanti
accertamenti strumentali sulla funzionalità renale). Per il
suddetto periodo la CTU riporta ulteriormente il dato dalla
lamentazione da parte della paziente di dolori con la sola
prescrizione da parte dei curanti, di soli antispastici. A ben
vedere tuttavia si tratta di affermazione che la CTU mutua della
relazione del Prof. X, senza che l’inerzia terapeutica in proposito
sia dedotta da prova specifica in grado di colmare il vuoto di
documentazione sul punto. Come si vedrà tuttavia si tratta di
questione il cui rilievo avrebbe potuto essere notevole nel caso di
effettiva ripartizione, in questa causa, delle quote .di
responsabilità come suggerito dai consulenti, ma questa ipotesi,
a giudizio dell’estensore, potrebbe riguardare solo un eventuale
giudizio di rivalsa dell’ospedale nei confronti dell’Ospedale X ma
n o n l a p r e s e n t e c a u s a .
2) Riguardo al criterio d’imputazione della responsabilità ed alla
sua sussistenza al rilievo dell’eventuale concorso di colpa
44
E’ comprovata la sussistenza in ordine al danno alla persona
della responsabil ità contrattuale di parte convenuta.
La giurisprudenza di legittimità ormai costante riconosce che il
ricovero in struttura ospedaliera fa sorgere tra il beneficiario del
Servizio Sanitario e l’Ente deputato a prestarlo una specifica
obbligazione di fonte legale all’erogazione di prestazioni conformi
alla migliore scienza medico-chirurgica di ordinaria pratica. Ne
consegue che condotte degli operatori sanitari della struttura non
conformi alla tecnica medico-chirurgica di diligente approccio al
caso s i conf ìgurano s imul taneamente come i l l ec i t i
extracontrattuali (eventualmente dotati di rilievo penale) per i
singoli sanitari operanti e come inadempimenti contrattuali per la
struttura sanitaria nel contesto della quale la prestazione ha
luogo. (Cass. civ., Sez. III, 02/02/2005, n.2042; Cass. civ. Sez.
III, 14/07/2003, n. 11001; Cass. civ. Sez. III, 01/09/1 999, n.
9198; Cass. civ. Sez. III, 22/01/1999, n. 589; Cass. civ. Sez. III,
02/12/1998, n. 12233; Cass. civ. Sez. III, 27/07/1998, n.7336).
Il collegamento tra la condotta dei medici e quello della struttura
sanitaria, per i professionisti appartenenti alla stessa si risolve in
una sorta di immedesimazione organica, posto che la struttura
obbligata adempie alla propria obbligazione esattamente
mettendo a disposizione professionisti qualificati, ma, anche nel
caso di intervento di medico “esterno” nel corso di intervento o
terapia, pare pacifico che la responsabilità contrattuale dell’Ente
obbligato alla prestazione sanitaria si estende al fatto
dell’ausiliario intervento in base ai principi di cui all’art. 1229 del
c.c.. (Trib. Milano, 09/10/2007; Cass. civ., Sez. III, 14/06/2007,
n . 1 3 9 5 3 ) .
In proposito il solo limite potrebbe essere rappresentato da un
“intervento a titolo personale” non ufficialmente autorizzato. Nel
caso di specie non pare possibile tuttavia ipotizzare che
45
l’intervento del Dott.X . fosse dovuto ad iniziativa personale non
autorizzata dall’equipe dell’ospedale posto che la stessa
prontezza dell’intervento evidenzia il suo carattere in qualche
modo, conforme ad una prassi o preventivamente autorizzato.
I fatti degli operatori dell’ospedale fonte di possibile
responsabilità sono la lesione della vescica e la rescissione
dell’uretere. In proposto pare condivisibile la conclusione dei
consulenti circa il fatto che la presenza di gravi aderenze
rendessero molto difficile evitare la lesione della vescica, mentre
la posizione anatomica dell’uretere ne consentiva il previo
isolamento al fine di evitare di coinvolgerlo nella lisi delle
aderenze.
Senza entrare nel dettaglio del dibattito tecnico si può solo
osservare che le note critiche sul punto della difesa dell’Ospedale
puntano principalmente sulla frequenza del rischio realizzatosi,
ma proprio la sussistenza del rischio e la congiunta sussistenza di
una possibilità di ovviarlo fanno propendere per la necessità,
secondo diligenza, delle prassi intese alla soppressione del
r i s c h i o s t e s s o .
Una volta sancita la sussistenza dì una colpa degli operanti per la
rescissione dell’uretere risulta pacifico che l’intera serie causale
di danno successivamente descritta, e sostanzialmente provata,
risulta legata da nesso di causalità materiale con l’originario fatto
fonte di responsabilità contrattuale del convenuto Ospedale.
Risulta infatti di palmare evidenza che, per quanto possa essere
stato negligente, il trattamento urologico successivo non sarebbe
mai stato necessario in difetto della lesione all’uretere sinistro.
Parimenti risulta fuori dal novero delle ipotesi realistiche una
eventuale tesi che ipotizzasse la sussistenza di possibilità con
esito del tutto certo e fausto di riparare al danno da lesione
dell’uretere sicché sarebbe solo l’omissione di tali interventi la
46
vera causa del danno in senso giuridico, ponendosi la negligenza
successiva come causa sufficiente e del tutto assorbente del
danno. E’ infatti evidente che già nella lesione iniziale era
implicita una elevata potenzialità del rischio poi definitivamente
realizzatosi sia pure per il sopravvenire di concause colpevoli.
Da quanto sopra detto risulta già la responsabilità, sia pure
concorrente, del convenuto per l’intero danno, senza neanche
necessità di far ricorso alla assunzione di responsabilità secondo
il menzionato art. 1229 per l’intervento in sala operatoria del
d o t t . X .
In ogni caso, sviluppando il criterio di attribuzione di
responsabilità suddetto, il fatto fonte di responsabilità per il
convenuto si espande, fino all’esecuzione dell’intervento di
inserimento dello stent a doppio J e fino alla sutura dell’uretere,
intervento che i consulenti criticano ampiamente perché
realizzato senza accorgimenti anti-reflusso e ponendo i monconi
in una condizione di tensione anticipatrice della successiva
stenosi . Così esteso il presupposto della responsabilità
dell’ospedale X (ex art. 1229 cc) le conclusioni già raggiunte
sulla sua responsabilità concorrente per l’intero danno sono
v i e p i ù c o n f e r m a t e .
Occorre ora venire al tema del concorso di colpa rilevato in
misura molto ampia da parte dei consulenti in capo al Dott. B..
Si è già detto che la rilevata negligenza in fase successiva
all’intervento chirurgico non pare nel caso poter rivestire in alcun
modo la veste di fatto interruttivo del nesso causale tra la
condotta colpevole ed il danno-evento. Resta da considerare se
p o s s a a v e r e a l t r a c o n s e g u e n z a g i u r i d i c a .
Sul punto è sufficiente rammentare il costante orientamento di
legittimità in forza del quale la questione della individuazione
delle quote di responsabilità, in caso di concorso di colpa tra
47
danneggiati, deve essere presa in considerazione dal giudice solo
in presenza di una espressa domanda di un corresponsabile
(convenuto congiuntamente ad altro) di pronunzia specifica sul
punto. In difetto i corresponsabili, devono essere condannati in
solido (ex art. 2055 del c.c., ove entrambi convenuti) mentre,
ove l’attore, come sua facoltà, abbia convenuto un solo
corresponsabile il giudice si deve limitare alla condanna in toto
dello stesso, riservando la questione ad eventuale ulteriore
giudizio (Cass. civ., Sez. III, 21/09/2007, n. 19492), giudizio
promosso dal convenuto soccombente o anche dallo stesso
attore insoddisfatto, attore che non rinunzia alla solidarietà per il
solo fatto di aver convenuto in prima battuta un solo
corresponsabile (Cass. civ., Sez. II, 05/1 0/2004, n. 19934).
Nel caso quindi la responsabilità dell’Ospedale , va ritenuta per
l’intero datino evidenziato dai consulenti, salvo nuovo
accertamento del concorso di colpa (in contraddittorio con
l’Ospedale Galliera e/o col dott. B.) in eventuale futuro giudizio.
3) Riguardo all’ingiustizia del danno inflitto ed alle conseguenze
risarcibili.
Il fatto illecito consistente in lesioni colpose, integra una lesione
del diritto costituzionale alla salute e quindi, ai fini risarcitori,
comporta il ristoro del danno non patrimoniale unitariamente
considerato, nei termini, secondo la lettura costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 c.c. datane, ancora di recente, dalla
giurisprudenza della Corte di Cassazione (v. Cass. n. 17144/06,
n. 14302/06, 20323/05 e da ultimo SS. UU. n. 26972/2008).
4 ) P e r q u a n t o a t t i e n e a i d a n n i p a t r i m o n i a l i
sussiste sul punto un difetto di allegazione che il giudicante
r i t i e n e : n o n s u p e r a b i l e .
La perdita della capacità lavorativa nel caso non potrà quindi
essere considerata nel suo significato patrimoniale, ma
48
unicamente sotto l’aspetto esistenziale, sotto il profilo della
comprovata impossibilità di svolgere pro futuro un’attività di
interesse anche culturale. Non risulta la deduzione in citazione di
d a n n o p a t r i m o n i a l e d a s p e s e m e d i c h e .
5) Sul criterio di liquidazione della componente danno non
patrimoniale (danno biologico, morale ed altre ipotesi)
si rinvia in primo luogo sempre alla decisione di questa stessa II
Sezione Civile n. 2270 resa nella causa, nella quale il Tribunale
ha abbandonato il metodo di calcolo legato al triplo della
pensione sociale, adottando piuttosto il sistema del “punto
tabellare” da ultimo perfezionato dal Tribunale di Milano:
argomentazioni tutte da intendersi qui integralmente richiamate.
Passando allo specifico esame del caso in decisione, si osserva
che va tenuto conto della relazione del C.T.U., adeguatamente
argomentata e persuasiva, che ha accertato a carico di parte
attrice un’invalidità permanente del 20%, ed una invalidità
temporanea parziale di giorni 30 al 50% e di altri giorni 30 al
25%.
La valutazione dei consulenti deve essere pienamente condivisa
anche con riferimento alla quantificazione della percentuale di
invalidità permanente derivante dalla perdita della funzionalità
renale monolaterale (che secondo alcuni orientamenti medico-
legali è stimata in soli 15 punti percentuali di invalidità). Pare
infatti che i consulenti abbiano correttamente tenuto conto non
solo della perdita della funzionalità del rene, ma anche delle
complicanze, in parte fondatamente ipotetiche, in parte già
r e a l i z z a t e s i , c o n n e s s e a l l a p e r d i t a s u d d e t t a .
In punto di invalidità temporanea appare corretta la
deliberazione tecnica dei consulenti di non riconoscere invalidità
temporanea totale, stante il fatto che la stessa risulta assorbita
nel tempo di ricovero che sarebbe stato necessario anche per i
49
solo aspetti oncologici dell’intervento. La misura, pertanto, del
risarcimento spettante per il danno non patrimoniale subito -
nelle sue componenti di pregiudizio che appare opportuno tenere
distinte, anche se con valenza meramente descrittiva (v. Cass.
SS. UU. del 2008 citata), al fine di giustificare, dal punto di vista
motivazionale, e rendere così controllabile il quantum
riconosciuto.
3.3.NESSO DI CAUSALITA’
“Il nesso di causalità è la relazione che lega in senso naturalistico
un atto (od un fatto) e l'evento che vi discende.” La radice latina
"evenio" (eventum) indica, la diversa prospettiva dalla quale si
osserva un dato fenomeno.
Da una parte vi è la prospettiva di chi agisce, dall'altra quella
dell'osservatore cui giunge il risultato dell'azione. Nel contesto
descritto, la sintesi delle due prospettive si chiama nesso (da
nectere, legare), ed altro non è che la forza naturalistica che
causa l'evento.
Il nesso di causalità è il rapporto fra le due prospettive, studiato
al fine di dedurre la riconducibilità di un dato evento all'atto o al
fatto presupposto. Ciò che presuppone l'evento, dunque, è un
fatto cioè un atto.
Nel caso si parli di un atto, questo può prendere le forme di una
data condotta umana e il prodotto di quella condotta, viene
giuridicamente individuato come evento.
Lo studio della causalità della condotta, per il diritto, non sorge
dalla necessità di determinare categorie astratte di cause e
conseguenze, o se nell'ordine che si intende dare alla società
debba prevalere un concetto indeterministico di causalità oppure
viceversa, deterministico.
50
Lo scopo dello studio della causalità è quello di individuare dei
correttivi che evitino la responsabilità per fatti che non cadono
sotto il dominio dell'uomo, che come universalmente noto, non
controlla che qualcuna delle condizioni che, solo pluralmente,
sono in grado di causare l'evento.
Il diritto positivo italiano ha recepito, agli art.40 e 41 del Codice
Penale, gran parte della teoria della condicio sine qua non,
mettendo però una disposizione assai controversa di
sbarramento nel secondo comma dell'art. 41, ovvero le cause
sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono
state da sole sufficienti a determinare l'evento. Infatti, tale
disposizione è in sé contraddittoria (non è dato di ipotizzare
"concause da sole sufficienti a causare l'evento"), ove letta
accanto all'art. 40 sarebbe superflua, ed ove letta quale
limitazione della causalità condizionalistica equivalente è inutile,
ingiusta o di nulla applicazione (dovrebbe ipotizzarsi una serie
causale parallela a quella efficiente, la quale rimane condicio sine
qua non dell'evento). A chiarire tale disposizione, coerentemente
con la relazione illustrativa al c.p. è intervenuta dopo anni la
Corte Suprema di Cassazione che ha stabilito come l'evento
previsto nel secondo comma sia frutto di fattori concausali
sopravvenuti di carattere eccezionale, ovvero imprevedibili e
anormali. Questa lettura ricondurrebbe quindi nell'alveo della
comprensibilità logica la previsione detta. Tuttavia non risulta
conforme a giusizia il diverso trattamento delle cause
sopravvenute rispetto a quelle concomitanti o antecedenti. Per
evitare gli effetti aberranti di una siffatta applicazione, sarà
necessario applicare l'analogia in bonam partem facendo ricorso
a tutti i dati sulla causalità (art.41-45, ivi compreso caso fortuito
e forza maggiore).
51
Il 1° comma dell'art. 41 cp stabilisce che il nesso di causalità tra
azione od omissione ed evento non viene meno per la susistenza
di concause preesistenti contestuali o sopravvenute. Il primo
comma dell'art. 41 sembrerebbe, dunque, con riferimento al nes-
so di causalità, accogliere una concezione rigorosamente natura-
listica del medesimo, sì da ritenere causa dell'evento dannoso o
pericoloso ogni azione od omissione che abbia concorso alla sua
determinazione; tale interpretazione del nesso di causalità trova
conferma nel 3° comma dell'art. 41 che, tra le concause, indivi-
dua esplicitamente anche il fatto illecito altrui. Un temperamen-
to, secondo la giurisprudenza e parte della dottrina, di tale ampia
concezione dl nesso di causalità è, invece, rappresentata dal 2°
comma dell'art. 41 a mente del quale esclude il nesso di causali-
tà il fatto sopravvenuto che sia, di per sè, idoneo a determinare
l'evento dannoso o pericoloso da cui dipende il fatto di reato.
Secondo una parte della dottrina, il 2° comma dell'art. 41 non
rappresenterebbe una mitigazione della portata del nesso di cau-
salità quale desumibile dell'art. 41, 1° comma, in quanto esso si
riferirebbe alle serie causali del tutto autonome (l'esempio di
scuola è l'avvenelamento letale e la morte che sopraggiunga a
causa di un incidente quando il veleno non ha ancora prodotto
alcuno dei suoi effetti).
Secondo altra dottrina, invece, il 2° comma dell'art. 41 si riferi-
rebbe alle serie causali apparentemente autonome nelle quali l'e-
vento dannoso o pericoloso dipende logicamente e cronologica-
mente dall'azione od omissione in quanto, senza di esse, non si
sarebbe prodotta neppure la successiva serie causale produttiva
dell'evento dannoso o pericoloso (l'esempio di scuola è quello
delle lesioni non mortali che determinano l'intervento dell'au-
toambulanza che, successivamente, rimane coinvolta in un sini-
stro che determina la morte del soggetto vittima di lesioni).
52
In chiave sistematica, poi, autorevole dottrina ha sottolineato
come l'art. 41 2° comma cp sia volto ad escludere il nesso di
causalità allorchè alla produzione dell'evento concorrano fattori
eccezionali. Tali fattori eccezionali, infatti, rendono l'evento me-
desimo come una conseguenza non prevedibile, seocndo la mi-
gliore scienza ed esperienza del momento, dell'azione o dell'o-
missione.
In senso critico, si è osservato che la norma di cui all'art. 41, 2°
comma fa solo riferimento alle cause sopravvenute mentre i fat-
tori eccezionali sarebbero anche quelli preesistenti o contestuali.
Esclusa l'applicabilità del procedimento analogico stante il com-
plessivo tenore testuale dell'art. 41 e l'esplicita menzione delle
concause antecedenti e contestuali nel 1° comma e il solo riferi-
mento alle cause sopravvenute nel 2° comma, la dottrina ha rite-
nuto che l'esclusione del nesso di causalità sulla base dei fattori
eccezionali antecedenti o contestuali possa desumersi dall'art. 45
cp che regola le fattispecie del caso fortuito e della forza maggio-
re (mentre, secondo la giurisprudenza e per la dottrina dominan-
te, caso fortuito e forza maggiore opererebbero solo sul versante
della colpevolezza al fine di escluderla).
Importante nel caso dell'omissione il fatto che il nesso causale
sussiste solo quando questa sia stata indispensabile per la
realizzazione dell'evento, e che il reo non abbia avuto ostacoli nel
poter agire. L'art. 40 inoltre, stabilisce che questo impedimento
dell'evento deve essere un obbligo giuridico sancito dalla legge.
53
CAPITOLO IV
4.1.CONCLUSIONI
Superati i vecchi schemi su cui si è basata nel passato l’arte sa-
nitaria al medico si chiede di fornire al paziente tutte le informa-
zioni necessarie, con un linguaggio che tenga conto del livello
culturale del suo interlocutore, del suo comprensibile stato emo-
tivo e delle sue capacità di capire.
Bisogna sempre ricordare che il consenso informato è un proces-
so che si svolge nel tempo e non in un solo sbrigativo e frettolo-
so incontro.
Per il medico si tratta di rinunciare ad una posizione ed un ruolo
“di prestigio”, spogliarsi delle vesti di “imparziale funzionario del
sapere scientifico”, cercare di raggiungere l’obiettivo del benefi-
cio per il paziente e, allo stesso tempo, rispettare la sua libertà,
aiutandolo a prendere decisioni ed assumersi responsabilità sulla
propria salute.
Quello che si chiede al malato è di non essere più un soggetto
passivo, ma di partecipare attivamente al processo decisionale.
Certo, per medici e pazienti, non sarà semplice trasformare la at-
tuale e travagliata relazione medico-paziente in un rapporto nuo-
54
vo, basato sulla condivisione delle responsabilità e - per quanto è
possibile in conseguenza dei limiti imposti dalla malattia - sulla
collaborazione tra soggetti con pari dignità.
Occorrerà molta buona volontà e, certamente, anche del tempo
per “digerire” questo nuovo copione, ma riteniamo sia l’unica va-
lida e soddisfacente strada da percorrere.
Solo a tali condizioni sarà possibile iniziare un rapporto meno
sbilanciato, in cui la dipendenza psicologica del paziente, che an-
cora oggi giustifica agli occhi di molti l’atteggiamento paternali-
stico del medico, potrà essere compensata dalla condivisione che
il medico cerca di avere con la parte più responsabile della psico-
logia del malato.
E’ necessario, quindi, un inderogabile cambiamento da parte di
medici e pazienti, con il supporto di uno specifico, gradito e atte-
so contributo legislativo.
I tempi cambiano; in fondo tale problematica non è altro che l’e-
spressione del faticoso adattamento del pianeta sanità, ed in
particolare del fondamentale rapporto medico-paziente, agli av-
venuti cambiamenti socio-culturali nel senso di una più profonda
consapevolezza del bene-uomo e del bene-salute.
55
BIBLIOGRAFIA
Art. 32 Costituzione
Art. 5 Convenzione di Oviedo
Costituzione Europea II-63
Comitato Nazionale di Bioetica ‘92
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