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Lavoro e
malattie croniche
a cura di
Silvia Fernández Martínez
Michele Tiraboschi
ADAPT LABOUR STUDIES
e-Book series
n. 64
ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro
DIREZIONE
Michele Tiraboschi (direttore responsabile)
Lilli Casano
Pietro Manzella (revisore linguistico)
Emmanuele Massagli
Flavia Pasquini
Pierluigi Rausei
Francesco Seghezzi (direttore ADAPT University Press)
Silvia Spattini
Francesca Sperotti
Davide Venturi
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Laura Magni (coordinatore di redazione)
Maddalena Magni
Francesco Nespoli
Lavinia Serrani
@ADAPT_Press @adaptland @bollettinoADAPT
ISBN 978-88-98652-81-5
© 2017 ADAPT University Press – Pubblicazione on-line della Collana ADAPT
Registrazione n. 1609, 11 novembre 2001, Tribunale di Modena
© 2017 ADAPT University Press
INDICE
Parte I
MALATTIE CRONICHE E MERCATO DEL LAVORO:
UNA RICERCA NECESSARIA
Michele Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità,
lavoro e tutele delle persone con malattie croniche ............................................ 2
Silvia Fernández Martínez, Malattie croniche e licenziamento del lavoratore:
una prospettiva comparata ............................................................................ 66
Parte II
FOCUS TEMATICI
Sezione I
Malattie croniche: aspetti definitori
Silvia Fernández Martínez, Equiparazione malattie croniche e disabilità: una
via per riconoscere maggiori tutele ai malati cronici? ....................................... 91
Matilde Leonardi, Chiara Scaratti, Persone con malattie croniche nel mondo
del lavoro in Europa e modello biopsicosociale della disabilità. Il progetto
PATHWAYS ........................................................................................... 96
VI Indice
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Sezione II
Accomodamenti ragionevoli
Silvia Bruzzone, L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”:
prime riflessioni ............................................................................................ 109
Silvia Fernández Martínez, Disabilità oncologica. Accomodamenti ragionevoli
e flessibilità per il lavoratore malato di cancro: la giusta via per la reale
inclusione lavorativa ..................................................................................... 120
Silvia Fernández Martínez, Sclerosi multipla e disabilità: il lavoro agile come
misura di “accomodamento ragionevole”? ....................................................... 128
Sezione III
Licenziamento e malattie croniche
Silvia Fernández Martínez, Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica
dopo un trapianto: “inaccettabile” o legittimo? ............................................... 137
Silvia Bruzzone, Neoplasie e licenziamento: tra norme e responsabilità sociale ... 142
Silvia Fernández Martínez, Jobs Act e malattia: verso un diritto per il
mercato del lavoro? ....................................................................................... 148
Silvia Fernández Martínez, Una proposta per modificare la disciplina del
periodo di comporto e garantire la conservazione del posto di lavoro dei malati
oncologici ...................................................................................................... 153
Sezione IV
Lavoro autonomo e malattie croniche
Silvia Fernández Martínez, Elisabetta Iannelli, Lavoro autonomo: quali
tutele in caso di malattia cronica? .................................................................. 160
Indice VII
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Sezione V
Obesità
Francesca Sperotti, Prevenzione dell’obesità sul luogo di lavoro. Requisito
essenziale per l’allungamento della vita lavorativa .......................................... 166
Silvia Fernández Martínez, Obesità e licenziamento: quali sfide alla luce della
giurisprudenza comunitaria? ......................................................................... 174
Sergio Iavicoli, Antonio Valenti, Obesità e sovrappeso: nuove sfide in
materia di salute e sicurezza sul lavoro .......................................................... 178
Notizie sugli autori ............................................................................................ 185
© 2017 ADAPT University Press
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare:
occupabilità, lavoro e tutele
delle persone con malattie croniche*
di Michele Tiraboschi
Sommario: 1. Posizione del problema. – 1.1. Malattie croniche e
sostenibilità dei sistemi sanitari e di welfare pubblici. – 1.2. Impatto
delle malattie croniche sulle dinamiche complessive del mercato del
lavoro, sulla produttività e sulla organizzazione del lavoro. – 1.3.
Obiettivi della ricerca. – 2. Malattie croniche: i limiti delle attuali
risposte fornite dal diritto del lavoro e dai sistemi di protezione sociale.
– 3. Dai sussidi, quote di riserva e tutele passive alle politiche di
attivazione, conciliazione e retention. – 3.1. La rivisitazione delle
* Pubblicato in DRI, 2015, n. 3.
Il presente lavoro è dedicato alla memoria di Roberta Scolastici e Simonetta Guerrini e
costituisce la premessa, teorica e concettuale, di un innovativo progetto di ricerca sulla
occupabilità e il ritorno al lavoro delle persone con malattie croniche promosso da
ADAPT (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del
Lavoro e sulle Relazioni Industriali) in collaborazione con il Coronel Institute of
Occupational Health dell’Academic Medical Center (Paesi Bassi), l’European Public
Health Alliance (Belgio), The Work Foundation della Lancaster University (Regno
Unito) e il Warszawski Uniwersytet Medyczny (Polonia).
Per agevolare la lettura, nonché la verifica dei riscontri comparati, si segnala che gran
parte dei documenti e dei saggi citati nel presente articolo sono raccolti e pubblicati
nell’Osservatorio ADAPT su Work & Chronic Disease accessibile in modalità open
access alla voce Osservatori della piattaforma di cooperazione
http://moodle.adaptland.it.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 3
© 2017 ADAPT University Press
politiche di welfare to work, degli incentivi e dei sussidi pubblici. – 3.2.
La rivisitazione delle politiche di conciliazione e pari opportunità:
verso un work-health-life balance. – 4. Segue: promuovere la prevenzione
delle malattie croniche nei luoghi di lavoro. – 5. Una prospettiva di
relazioni industriali: il nodo della produttività/sostenibilità del lavoro e
l’importanza di ripensare i concetti di “presenza al lavoro”,
“prestazione lavorativa”, “esatto adempimento contrattuale”.
1. Posizione del problema
A causa dell’insorgere e del decorso di una malattia cronica, un
numero crescente di persone che rientrano nella fascia di
popolazione economicamente attiva (1) risulta, più o meno
temporaneamente, inabile o, comunque, solo parzialmente abile
al lavoro.
Senza entrare in complesse definizioni medico-scientifiche (2),
con l’espressione “malattie croniche” intendiamo qui riferirci ad
alterazioni patologiche non reversibili che richiedono una
speciale riabilitazione e un lungo periodo di supervisione,
osservazione, cura. In via meramente esemplificativa: malattie
cardiovascolari e respiratorie, disordini muscolo-scheletrici,
HIV/AIDS, sclerosi multipla, numerose tipologie di tumori,
diabete, obesità, epilessia, depressione e altri disturbi mentali.
Evidenti, almeno per i profili che rilevano direttamente ai fini del
presente studio (3), sono le ricadute di tutte queste malattie, pure
1 La forza-lavoro intesa, in senso tecnico, come la somma di occupati e
disoccupati. 2 Per una definizione scientifica di malattia cronica cfr. S. VARVA (a cura
di), Malattie croniche e lavoro: una rassegna ragionata della letteratura di riferimento,
ADAPT University Press, 2014. 3 Per una valutazione più complessiva dell’impatto delle malattie croniche
sulle società post industriali, che vada oltre i meri indicatori economici e
4 Michele Tiraboschi
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tra loro profondamente diverse, sui livelli di reddito e sulle
opportunità di occupazione, carriera e inclusione sociale per le
singole persone interessate e, non di rado, per i loro familiari, a
cui spesso competono onerosi compiti di cura e assistenza (c.d.
care givers).
Una risposta – più o meno adeguata – a queste specifiche
problematiche è fornita dai diversi sistemi nazionali di protezione
sociale in relazione alle cause di cessazione anticipata della vita
lavorativa che garantiscono l’accesso a pensioni o sussidi di
invalidità ovvero dalle disposizioni di legge e contrattazione
collettiva relative alle ipotesi di sospensione (totale o parziale)
della prestazione di lavoro con relativa (temporanea) integrazione
dei trattamenti retributivi (infra, § 2).
Ancora poca attenzione riceve, per contro, l’impatto complessivo
dei costi delle malattie croniche sulla tenuta dei sistemi sanitari e
di welfare (4), le cui criticità sono ora accentuate, in termini
economici e di sostenibilità nel medio e ancor più nel lungo
ponga altresì attenzione alle sue determinanti socio-economiche, cfr., tra i
tanti, P. BRAVEMAN, L. GOTTLIEB, The Social Determinants of Health: It’s Time
to Consider the Causes of the Causes, Public Health Reports, 2014, Supplement
2, 20-31, e ivi ampia letteratura di riferimento. Cfr. altresì, a livello
istituzionale, UNITED NATIONS DEVELOPMENT PROGRAMME, Addressing
the Social Determinants of Noncommunicable Diseases, Discussion Paper, ottobre
2013. 4 Il punto è bene evidenziato da R. BUSSE, M. BLÜMEL, D. SCHELLER-
KREINSEN, A. ZENTNER, Tackling Chronic Disease in Europe: Strategies,
Interventions and Challenges, European Observatory on Health Systems and
Policies, World Health Organization, 2010, qui 19, dove si sottolinea come
«there is considerable evidence on the epidemiology of chronic disease, but
little on its economic implications». Cfr. altresì, a livello istituzionale,
UNITED NATIONS, World Population Ageing 2013, Department of Economic
and Social Affairs, 2013, qui 75.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 5
© 2017 ADAPT University Press
periodo, dall’innalzamento della aspettativa di vita (5) e dal
conseguente riallineamento verso l’alto – e in termini restrittivi –
dei criteri di accesso alla età di pensione (6).
1.1. Malattie croniche e sostenibilità dei sistemi sanitari
e di welfare pubblici
Eppure è noto come l’aumento della longevità delle persone
conduca, per un verso, a una domanda di servizi sanitari e
prestazioni sociali maggiore e per un periodo di vita più lungo
con conseguente incremento della spesa relativa (7). I vincoli di
5 Cfr. D.E. BLOOM, E.T. CAFIERO, E. JANE-LLOPIS, S. ABRAHAMS-
GESSEL, L.R. BLOOM, S. FATHIMA, A.B. FEIGL, T. GAZIANO, M. MOWAFI,
A. PANDYA, K. PRETTNER, L. ROSENBERG, B. SELIGMAN, A.Z. STEIN, C.
WEINSTEIN, The Global Economic Burden of Noncommunicable Diseases, Geneva,
World Economic Forum, 2011. Nello specifico contesto europeo,
nell’ultimo cinquantennio l’aspettativa di vita è aumentata di 10 anni. Cfr.
EUROPEAN COMMISSION, Demography Report: Older, More Numerous and
Diverse Europeans, Commission Staff Working Document, Luxembourg,
Publications Office of the European Union, 2011, 33. 6 Cfr. OECD, Pensions at a Glance 2013: Retirement-Income Systems in OECD
and G20 Countries, 2013, e EUROPEAN COMMISSION, Pension Adequacy in the
European Union 2010-2050, 2012. In dottrina: M. SZCZEPANSKI, J.A.
TURNER (eds.), Social Security and Pension Reform: International Perspectives,
Upjohn Institute, Kalamazoo, 2014; A. GRECH, Assessing the Sustainability of
Pension Reforms in Europe, in Journal of International and Comparative Social Policy,
2013, 143-162. 7 Cfr. F. BREYER, F. COSTA-FONT, S. FELDER, Ageing, Health, and Health
Care, in Oxford Review of Economic Policy, 2010, 674-690, e M. SUHRCKE, D.K.
FAHEY, M. MCKEE, Economic Aspects of Chronic Disease and Chronic Disease
Management, in E. NOLTE, M. MCKEE (eds.), Caring for People with Chronic
Conditions: A Health System Perspective, Maidenhead, Open University Press,
2008, 43-63.
6 Michele Tiraboschi
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bilancio pubblico e il conseguente irrigidimento dei parametri
(soggettivi e oggettivi) di accesso ai trattamenti pensionistici e
assistenziali, per l’altro verso, impongono alle persone carriere
lavorative più lunghe e la necessità, non di rado, di convivere al
lavoro con problemi fisici, psichici, psicosomatici e psicosociali
(tra cui stress, ansia, panico, depressione, emotività,
deterioramento cognitivo, affaticamento, debolezza muscolare)
che comportano limitazioni più o meno rilevanti rispetto alle
normali funzioni lavorative e, di regola, maggiori tassi di
assenteismo (8).
Non esistono, allo stato, dati e proiezioni attendibili
relativamente alla incidenza complessiva delle malattie croniche
sulla popolazione economicamente attiva (9) e sui rapporti di
lavoro (10). Questo anche perché, al fine di evitare ripercussioni
negative sulle prospettive retributive e di carriera, il lavoratore
8 Cfr. il rapporto comparato curato nel 2014 per conto della European
Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions su
Employment opportunities for people with chronic diseases, realizzato nell’ambito
dell’European Observatory of Working Life – EurWORK
(www.eurofound.europa.eu). Con riferimento all’Italia cfr. il già richiamato
rapporto ISTAT, Limitazioni nello svolgimento dell’attività lavorativa delle persone
con problemi di salute, cit. 9 Cfr., per singole tipologie di malattia cronica, i dati contenuti in OECD,
Health at a Glance: Europe 2012, OECD Publishing, 2012, qui 34-48. Cfr.
altresì WORLD HEALTH ORGANIZATION, Noncommunicable Diseases Country
Profiles 2011, WHO Library Cataloguing-in-Publication Data, 2011 (vedi, in
particolare, pag. 98 per i dati di sintesi sull’Italia). 10 Con riferimento all’Italia cfr. ISTAT, Limitazioni nello svolgimento dell’attività
lavorativa delle persone con problemi di salute, Report maggio 2013, secondo cui
ben 6,5 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni (pari al 16,5% della
popolazione in età di lavoro) dichiarano di essere affette da una o più
malattie croniche o da problemi di salute di lunga durata che incidono, più
o meno pesantemente, sulla attività lavorativa.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 7
© 2017 ADAPT University Press
non sempre ritiene opportuno comunicare la propria reale
condizione di salute al datore di lavoro.
Il network europeo per la promozione della salute nei luoghi di
lavoro ha tuttavia stimato che in Europa quasi il 25% della
popolazione in età di lavoro soffre i disturbi di almeno una
malattia cronica (11) e che la quota di malati cronici che lavora sia
pari al 19% della forza-lavoro (12). Per contro le proiezioni al
2020 e al 2060 del tasso di partecipazione al mercato del lavoro
in Europa degli over 55 – e cioè della fascia di popolazione
economicamente attiva maggiormente soggetta a un significativo
rischio di abilità solo parziale o intermittente al lavoro (13) –
registrano, rispettivamente, un incremento di 8,3 e 14,8 punti
percentuali (14). Nell’area dell’Euro l’impatto stimato è ancora più
11 Cfr. EUROPEAN NETWORK FOR WORKPLACE HEALTH PROMOTION,
PH Work – Promoting Healthy Work for People with Chronic Illness: 9th Initiative
(2011-2013), 2013. Più dettagliati i dati disponibili negli Stati Uniti dove si è
stimato che nella fascia di età tra i 20 e i 44 anni il 40,3% della popolazione
sia soggetta almeno a una malattia cronica e il 16,8% a 2 o più; nella fascia
di età tra i 45 e i 64 anni la percentuale della popolazione colpita da almeno
una malattia cronica sale addirittura al 68%, mentre il 42,8% ne registra 2 o
più. Cfr. G. ANDERSON, Responding to the Growing Cost and Prevalence of People
With Multiple Chronic Conditions, Johns Hopkins Bloomberg School of Public
Health, 2010, 8. 12 Il dato è contenuto nelle Recommendations from ENWHP’s ninth initiative
Promoting Healthy Work for Employees with Chronic Illness – Public Health and
Work, qui 7. 13 Cfr. K. KNOCHE, R. SOCHERT. K. HOUSTON, Promoting Healthy Work for
Workers with Chronic Illness: A Guide to Good Practice, European Network for
Workplace Health Promotion, 2012, 7. 14 Cfr., in dettaglio, EUROPEAN COMMISSION, The 2012 Ageing Report:
Economic and Budgetary Projections for the 27 EU Member States (2010-2060),
European Economy 2012, n. 2, 63.
8 Michele Tiraboschi
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marcato con un incremento degli over 55 di 10 punti percentuali
da qui al 2020 e di 16,7 punti percentuali nel 2060 (15).
Certo è che, nel lungo periodo, la partecipazione al mercato del
lavoro di persone affette da malattie croniche diventerà
imprescindibile per affrontare il declino dell’offerta di lavoro e la
carenza di forza-lavoro qualificata in uno con le pressioni sui
sistemi pensionistici indotte da un drastico invecchiamento della
forza-lavoro (16), con Paesi come Italia, Giappone e Spagna
destinati a registrare nel 2050 un picco di over 65 pari a un terzo
della intera popolazione (17).
Altrettanto certo è che un investimento sulla salute e il benessere
delle persone – e della popolazione economicamente attiva in
particolare – diventerà sempre più un «imperativo (anche)
economico» per gli Stati (18) in funzione della sostenibilità dei
loro sistemi sanitari e di protezione sociale.
Da non sottovalutare, a fronte di un arretramento del lavoro
industriale, sono del resto le opportunità occupazionali e di
(ri)qualificazione professionale in un settore cruciale del mercato
del lavoro come quello di cura della persona (assistenza e sanità)
che pure registra rilevanti criticità. Ciò non solo in ragione, come
è ampiamente noto, di un ciclico disallineamento tra la domanda
e l’offerta di lavoro di medici e infermieri (19), ma anche proprio
15 Ibidem. 16 Così: OECD, Sickness, Disability and Work: Breaking the Barriers – A
Synthesis of Findings Across OECD Countries, 2010, 22. 17 Ancora OECD, Sickness, Disability and Work…, cit., qui 24. 18 Cfr. HEALTHY WORKING LIVES, Managing a Healthy Ageing Workforce: A
National Business Imperative, NHS Health Scotland, 2012. 19 Cfr., sul punto, T. ONO, G. LAFORTUNE, M. SCHOENSTEIN, Health
Workforce Planning in OECD Countries: A Review of 26 Projection Models from 18
Countries, OECD Health Working Paper, 2013, n. 62, cui adde M.
SCHOENSTEIN, Health Labour Market Trends in OECD Countries, OECD
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 9
© 2017 ADAPT University Press
per l’assenza di figure professionali con le competenze necessarie
per (prima) comprendere (20) e (poi) gestire operativamente le
problematiche del ritorno in azienda e sul mercato del lavoro dei
malati cronici.
Già oggi, in Europa, si stima una spesa di 700 miliardi di euro per
la cura di malattie croniche, per un valore che oscilla tra il 70 e
l’80% dell’intero budget sanitario (21). Aumenta costantemente,
del pari, il numero di persone che richiede congedi per malattia o
anche pensioni anticipate e assegni di invalidità di lungo periodo
che, in alcuni Paesi, già oggi riguardano il 10% della forza-lavoro
(22).
Uno studio condotto a livello globale dalla Harvard School of
Public Health (HSPH) per il World Economic Forum (23) stima
inoltre che, tra il 2011 e il 2030, si registrerà una perdita cumulata
Health Division, Global Health Workforce Alliance Forum Recife, 11
November 2013. Per una sintesi ragionata in italiano cfr. A. SANTOPAOLO,
F. SILVAGGI, G. VIALE, La programmazione dei fabbisogni di medici e infermieri
nei Paesi OCSE: verso un modello multi-professionale per rispondere alle sfide
dell’invecchiamento e delle malattie croniche, in Boll. ADAPT, 2014, n. 31. 20 Importante, in questa prospettiva, lo spunto contenuto nel regolamento
2013/1291/UE dell’11 dicembre 2013, n. 1291, che istituisce il programma
quadro di ricerca e innovazione (2014-2020), Orizzonte 2020. Cfr. l’allegato
1, parte III, Sfide per la società, ove si fa esplicito riferimento alla emergenza
causata dalle malattie croniche e dai loro crescenti costi economici e sociali. 21 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, The 2014 EU Summit on Chronic Diseases –
Conference Conclusions, 3-4 April 2014, qui 1. 22 Cfr. OECD, Sickness, Disability And Work Keeping On Track In The
Economic Downturn, OECD Background Paper, 2009, 10. 23 Cfr. lo studio di D.E. BLOOM, E.T. CAFIERO, E. JANE-LLOPIS, S.
ABRAHAMS-GESSEL, L.R. BLOOM, S. FATHIMA, A.B. FEIGL, T. GAZIANO,
M. MOWAFI, A. PANDYA, K. PRETTNER, L. ROSENBERG, B. SELIGMAN,
A.Z. STEIN, C. WEINSTEIN, The Global Economic Burden of Noncommunicable
Diseases, cit., qui 29.
10 Michele Tiraboschi
www.bollettinoadapt.it
di output di 47 mila miliardi di dollari a causa di malattie croniche
e di malattie mentali in termini di prestazioni sanitarie e
previdenza sociale, ridotta produttività e assenze dal lavoro,
disabilità prolungata e conseguente riduzione dei redditi per i
nuclei familiari interessati.
Anche a prescindere dalla attendibilità di siffatte analisi e stime,
già oggi, in area OECD, l’1,2% del PIL risulta assorbito da
prestazioni di invalidità (il 2% se si includono le prestazioni di
malattia): quasi 2,5 volte tanto il costo dei sussidi di
disoccupazione (24). Misurato come percentuale della spesa
sociale pubblica totale, il costo della disabilità è circa il 10% in
media in tutta l’area OECD con punte del 25% in alcuni Paesi.
Non sorprende che le proiezioni di spesa su assistenza sanitaria e
sicurezza sociale segnalino, per i prossimi decenni (25), talune
preoccupanti criticità economiche connesse al costante
incremento delle malattie croniche che, va comunque precisato
(26), aumentano con un ritmo superiore a quello
dell’invecchiamento della popolazione; ciò anche in conseguenza
dei costanti progressi della medicina, della prevenzione e della
ricerca scientifica rispetto a malattie un tempo ritenute mortali.
Vero è, peraltro, che alcune malattie croniche (come obesità,
malattie respiratorie, depressione e altri disturbi mentali) si
24 Così: OECD, Sickness, Disability And Work Keeping…, cit., 13, ove si
precisa che in alcuni Paesi come Olanda e Norvegia le spese per sussidi di
invalidità e malattia sono molto più alte avvicinandosi al 5% del PIL. 25 Ancora EUROPEAN COMMISSION, The 2012 Ageing Report: Economic and
Budgetary Projections for the 27 EU Member States (2010-2060), cit. 26 In questo senso cfr. il testo della audizione del rappresentante di
Farmindustria presso la Camera dei Deputati nella seduta n. 5 di lunedì 29
luglio 2013, 19 (in www.camera.it).
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 11
© 2017 ADAPT University Press
manifestano oggi già in età giovanile (27) complicando
ulteriormente il quadro fenomenologico e concettuale di
riferimento e le relative risposte politiche e istituzionali.
Considerato che in molti Paesi europei – segnatamente quelli che
adottano il c.d. “modello Bismark” e cioè Belgio, Estonia,
Francia, Germania, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia,
Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria (28) –
la spesa sanitaria (e non solo quella pensionistica) è finanziata dai
contributi versati da lavoratori e imprese (29), ne deriva un
incremento della c.d. old-age dependency ratio con un numero via via
minore di contributori attivi, attraverso la loro partecipazione al
mercato del lavoro, rispetto a coloro che risultano ammissibili
alle relative prestazioni. Secondo le previsioni della Commissione
27 Cfr., tra i tanti, J.C. SURIS, P.A. MICHAUD, R. VINER, The Adolescent with a
Chronic Condition. Part I: Developmental Issues, in Archives Disease in Childhood,
2004, 938-942. 28 Cfr. il rapporto per Comitato delle Regioni della Unione europea curato
da PROGRESS CONSULTING, LIVING PROSPECTS, La gestione dei sistemi
sanitari negli Stati membri dell’UE. Il ruolo degli enti locali e regionali, Unione
europea, 2012, qui 98-102. Anche in Italia il finanziamento del Servizio
sanitario nazionale (SSN) avveniva, in passato, con il versamento di
contributi sociali da parte di lavoratori e imprese successivamente aboliti
dall’art. 36 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. Ora il SSN italiano è
finanziato dal bilancio dello Stato, da entrate proprie, nonché dalla fiscalità
generale delle Regioni con tasse come IRAP e IRPEF che colpiscono le
attività produttive e il reddito delle persone fisiche. Cfr. Opzioni di Welfare e
integrazione delle politiche, Rapporto CEIS Sanità, VIII edizione, giugno 2012,
qui 96. 29 Per dati comparati sulla spesa per la protezione sociale in Europa
(vecchiaia, invalidità, disoccupazione, famiglia, abitazione, malattia e cure
sanitarie) cfr. T. ACETI, M.T. BRESSI (a cura di), Emergenza famiglie:
l’insostenibile leggerezza del Welfare, XI Rapporto nazionale sulle politiche della
cronicità del CnAMC (Coordinamento nazionale delle Associazioni dei
Malati Cronici), Roma, 2012, qui 176-180.
12 Michele Tiraboschi
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europea, in particolare, si stima nei prossimi decenni un
raddoppio della old-age dependency ratio, dal 26% del 2010 al 52%
del 2060 (30), con un robusto incremento della spesa sanitaria e
assistenziale di lungo periodo legata appunto al fenomeno
dell’invecchiamento della popolazione (31).
Analogo discorso può tuttavia essere svolto anche con
riferimento a Paesi con diversi sistemi di finanziamento del
welfare, specie quelli come l’Italia con un tasso di occupazione
regolare molto basso, che, a seguito dei cambiamenti demografici
e dell’invecchiamento della popolazione, registrano oggi rilevanti
pressioni sulla spesa pubblica (previdenziale e sanitaria) in
ragione della inattualità dello storico principio del c.d. pay-as-you-
go e cioè del criterio di finanziamento a ripartizione (32).
30 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, The 2012 Ageing Report: Economic and
Budgetary Projections…, cit., 60-61 e anche 159-161. 31 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, The 2012 Ageing Report: Economic and
Budgetary Projections…, cit., qui (per i dati di sintesi) 34-36 e 40-41. Cfr.
altresì cfr. D.E. BLOOM, E.T. CAFIERO, E. JANE-LLOPIS, S. ABRAHAMS-
GESSEL, L.R. BLOOM, S. FATHIMA, A.B. FEIGL, T. GAZIANO, M. MOWAFI,
A. PANDYA, K. PRETTNER, L. ROSENBERG, B. SELIGMAN, A.Z. STEIN, C.
WEINSTEIN, The Global Economic Burden of Noncommunicable Diseases, cit. 32 Sul punto cfr., diffusamente e in chiave comparata, N. SALERNO, Le
risorse per il welfare del futuro. Insufficienza del pay-as-you-go e disegno multipilastro,
che segue in q. Sezione.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 13
© 2017 ADAPT University Press
1.2. Impatto delle malattie croniche sulle dinamiche
complessive del mercato del lavoro, sulla
produttività e sulla organizzazione del lavoro
Le criticità riguardano, a ben vedere, non solo i sistemi sanitari e
di welfare. Significativo, ancorché poco o nulla monitorato (33), è
anche l’impatto delle malattie croniche sulle dinamiche
complessive del mercato del lavoro e, a livello micro, sulla
organizzazione del lavoro nelle singole imprese chiamate a gestire
la presenza o il ritorno in attività di una forza-lavoro non solo
tendenzialmente – e inevitabilmente – meno produttiva, ma
anche, almeno secondo recenti studi, maggiormente soggetta al
rischio di infortuni (34) e incidenti gravi sul lavoro (35).
33 Significativo, al riguardo, è il recente invito del Consiglio della Unione
europea a valutare l’impatto del fenomeno – e delle relative riforme dei
sistemi sanitari nazionali – sull’andamento del mercato del lavoro, sulla
produttività e sulla competitività in generale. Cfr. COUNCIL OF EUROPEAN
UNION, Council Conclusions on the Reflection Process on Modern, Responsive and
Sustainable Health Systems, Employment, Social Policy, Health and
Consumer Affairs, Council meeting Brussels, 10 dicembre 2013, qui 4. 34 Un recente studio americano segnala un aumento del rischio di infortuni
sul lavoro pari al 14% in caso di asma, al 17% in caso di diabete, al 23% in
caso di malattie cardiache e al 25% in caso di depressione. Cfr. K.M.
POLLAK, Chronic Diseases and Individual Risk for Workplace Injury, in
Occupational and Environmental Medicine, 2014, 155-166. 35 In questo senso cfr. J. KUBO, B.A. GOLDSTEIN, L.F. CANTLEY, B.
TESSIER-SHERMAN, D. GALUSHA, M.D. SLADE, I.M. CHU, M.R., CULLEN,
Contribution of Health Status and Prevalent Chronic Disease to Individual Risk for
Workplace Injury in the Manufacturing Environment, in Occupational and
Environmental Medicine, 2014, 159-166. Cfr. anche il rapporto comparato
curato per conto della European Foundation for the Improvement of
Living and Working Conditions su Employment opportunities for people with
chronic diseases, cit., specialmente la sezione Higher Exposure to Risks and
Hazards.
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È noto, rispetto alle proiezioni demografiche e di spesa da qui al
2060, come sia il c.d. input di lavoro ad agire quale principale leva
della crescita in Europa in un contesto, tuttavia, di complessivo
invecchiamento e contrazione della popolazione
economicamente attiva ed abile al lavoro (36). Le malattie
croniche, lungi dal sollevare unicamente questioni di protezione e
inclusione sociale, incidono, di conseguenza, anche sulle
dinamiche della produttività del lavoro, impattando sia sulla
competitività di imprese e sistemi economici nazionali sia sui
percorsi professionali e di carriera dei singoli lavoratori.
Non va del resto sottovalutato il fatto che, in un numero
crescente di casi, il fenomeno in esame è connesso a fattori di
rischio professionale legati alle mansioni lavorative (37) o,
comunque, a patologie maturate negli ambienti di lavoro (38) o a
causa del lavoro (39): una sorta di “epidemia invisibile”, volendo
36 EUROPEAN COMMISSION, The 2012 Ageing Report: Economic and Budgetary
Projections…, cit., qui 34 per i dati di sintesi. 37 L’Organizzazione mondiale della sanità stima in 300 mila i lavoratori
morti ogni anno a causa di malattie connesse (escludendo gli infortuni) alle
mansioni di lavoro di cui larga parte riconducibili a malattie croniche. Cfr.
WORLD HEALTH ORGANIZATION, Action Plan for Implementation of the
European Strategy for the Prevention and Control of Noncommunicable Diseases 2012-
2016, Copenhagen, 2012, qui 21. 38 Si pensi, per esempio, al fumo passivo negli ambienti di lavoro e
all’impatto sulla diffusione di malattie cardiovascolari e tumori. Cfr., tra i
tanti, I. KAWACHI, G.A. COLDITZ, Worklace Exposure to Passive Smoking and
Risk of Cardiovascular Disease: Summary of Epidemiologic Studies, in Environmental
Health Perspectives, 1999, 847-851. 39 Si pensi all’impatto di fattori psicosociali come lo stress lavoro correlato,
il precariato e l’insicurezza sul lavoro, turnazioni e orari di lavoro faticosi,
ecc. Cfr., tra i tanti, N.H. ELLER, B. NETTERSTRØM, F. GYNTELBERG, T.S.
KRISTENSEN, F. NIELSEN, A. STEPTOE, T. THEORELL, Work-Related
Psychosocial Factors and the Development of Ischemic Heart Disease A Systematic
Review, in Cardiology in Review, 2009, 83-97, cui adde M. KIVIMAKI, J.E.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 15
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utilizzare l’efficace immagine proposta dall’ILO (40), con un
impatto di gran lunga superiore a quello dei ben più riconoscibili
incidenti sul lavoro, tale da alimentare giganteschi contenziosi,
responsabilità (dirette e indirette) delle imprese e conseguenti
oneri economici aggiuntivi per il sistema produttivo (41).
Con riferimento alla offerta di lavoro e alla produttività,
l’incremento delle malattie croniche incide, a ben vedere, non
solo sui sistemi di welfare e sulle dinamiche aziendali ma anche
sui tassi complessivi di occupazione con meno persone attive e
crescenti barriere nell’accesso al mercato del lavoro (42). Già nel
2007 l’ILO segnalava come in Europa, nella fascia compresa tra i
16 e i 64 anni, solo il 66% dei disoccupati/inoccupati avesse una
opportunità di trovare un lavoro e che questa possibilità si
riducesse al 47% per i malati cronici e al 25% per le persone
colpite da una grave disabilità (43).
La “grande crisi”, che ha preso avvio nel 2007 con il collasso dei
mercati finanziari, ha inevitabilmente aggravato l’inserimento al
lavoro dei malati cronici – e segnatamente delle persone con
FERRIE, E. BRUNNER, J. HEAD, M.J. SHIPLEY, J. VAHTERA, M.G.
MARMOT, Justice at Work and Reduced Risk of Coronary Heart Disease Among
Employees, in Archives of Internal Medicine, 2005, 2245-2251. 40 Così: ILO, The Prevention of Occupational Diseases, 2013, qui 4. 41 Per un tentativo di stima dei costi delle malattie professionali e delle
malattie legate al lavoro cfr. ancora ILO, op. ult. cit., qui 8-9. 42 Cfr. R. BUSSE, M. BLÜMEL, D. SCHELLER-KREINSEN, A. ZENTNER,
Tackling chronic disease in Europe: Strategies, Interventions and challenges, cit., 20-
24, e ivi, in sintesi e per tipologia di malattia cronica, le conclusioni a cui è
pervenuta la principale letteratura internazionale in materia. 43 Cfr. ILO, Equality at Work: Tackling the Challenges. Global Report Under the Follow-Up to the ILO Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work, 2007, qui 44-45. Cfr. altresì S. GRAMMENOS, Illness, Disability and Social Inclusion, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2003, qui 43-47.
16 Michele Tiraboschi
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disturbi mentali (44) – che pure sono portati, più che in passato,
alla ricerca di una occupazione anche in ragione dei complessivi
vincoli di finanza pubblica e dal parallelo irrigidimento dei criteri
di accesso alla età di pensione ovvero all’assegno di invalidità
permanente.
Secondo stime dell’OECD – in linea con i dati generali contenuti
nel rapporto della Commissione europea sulla disabilità (45) e con
i dati più di dettaglio di un denso rapporto comparato su lavoro e
malattie croniche curato per conto della Fondazione europea di
Dublino (46) – il tasso di occupazione dei malati cronici è poco
più della metà e il tasso di disoccupazione è il doppio rispetto al
resto della popolazione economicamente attiva (47).
Le difficoltà di inserimento o reinserimento al lavoro di questo
gruppo di persone sono oggettive e non di rado legate a veri e
propri blocchi psicologici e insicurezze che portano a rigettare
l’idea di un ritorno al lavoro. Altrettanto rilevanti sono, tuttavia, i
pregiudizi, lo stigma che ancora accompagna talune malattie
croniche, e taluni metodi di organizzazione del lavoro di fatto
penalizzanti perché standardizzati e dunque basati su una rigida
concezione della presenza (e idoneità) al lavoro e della relativa
44 Cfr. S. EVANS-LACKO, M. KNAPP, P. MCCRONE, G. THORNICROFT, R.
MOJTABAI, The Mental Health Consequences of the Recession: Economic Hardship
and Employment of People with Mental Health Problems in 27 European Countries,
in PLoS ONE, 2013, 1-7. 45 EUROPEAN COMMISSION, European Disability Strategy 2010-2020: A
Renewed Commitment to a Barrier-Free Europe, COM (2010) 636 def., qui 7. 46 Cfr. lo studio comparato della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions su Employment opportunities for people with chronic diseases, cit. (spec. la sezione su Employment situation of people with chronic diseases) cui adde i singoli rapporti nazionali tutti reperibili all’indirizzo internet della Fondazione (www.eurofound.europa.eu). 47 Cfr. OECD, Sickness, Disability and Work…, cit., qui 23 e anche 31, 32,
37.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 17
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produttività. Non mancano poi, quantomeno con riferimento alle
fasce di popolazione più vulnerabili (48), atteggiamenti
discriminatori più o meno evidenti che, talvolta, sfociano in
forme sistematiche di vessazione (c.d. mobbing) verso persone
ritenute poco produttive e che sollevano altresì ineludibili
problemi di giustizia sociale, inclusione ed equità (49).
Esiste peraltro una corposa letteratura che segnala, in una sorta
di circolo vizioso, come la stessa disoccupazione e condizioni di
lavoro precarie siano, non di rado, fonte diretta o indiretta di
malattie croniche o, comunque, causa di un loro aggravamento
soprattutto in relazione alle malattie e ai disturbi mentali (50): uno
studio statunitense mostra come la perdita involontaria di lavoro
tra gli over 50 comporti la duplicazione del rischio di subire un
infarto; una ricerca giapponese segnala, invece, l’impatto della
disoccupazione sugli stili di vita, sottolineando l’aumento
48 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, European Disability Strategy 2010-2020: A
Renewed Commitment to a Barrier-Free Europe, cit., ove si sottolinea la
particolare vulnerabilità di donne, giovani, immigrati, malati mentali. 49 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, The 2014 EU Summit on Chronic Diseases –
Conference Conclusions, cit., qui 4. Sul punto cfr. amplius il rapporto comparato
curato per la European Foundation for the Improvement of Living and
Working Conditions su Employment opportunities for people with chronic diseases,
cit. (spec. la sezione su Dicrimination and Prejudice at Work) e i relativi
rapporti nazionali. 50 Accanto allo studio pionieristico di M. JAHODA, P.F. LAZARSFELD, H.
ZEISEL, D. PACELLI, I disoccupati di Marienthal, in Studi di Sociologia, 1987,
229-231, si veda la letteratura citata in A. NICHOLS, J. MITCHELL, S.
LINDNER, Consequences of Long-Term Unemployment, The Urban Institute,
Washington, 2013, 9-10. Cfr. D. STUCKLER, S. BASU, M. SUHRCKE, M.
COUTTS, M. MCKEE, Effects of the 2008 recession on health: A first look at
European data, in The Lancet, 2011, 124-125, e anche, in chiave comparata,
EUROPEAN FOUNDATION FOR THE IMPROVEMENT OF LIVING AND
WORKING CONDITIONS, Access to Healthcare in Times of Crisis, 2014.
18 Michele Tiraboschi
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nell’utilizzo di sostanze come tabacco e alcool, che sono tra le
principali cause dell’insorgere di una malattia cronica; altri studi
segnalano, infine, l’incidenza dello stato di disoccupazione sui
disordini mentali (ansia, stress, depressione), ecc. (51).
Non mancano, per contro, studi diretti a segnalare la bassa
incidenza dello stato di disoccupazione su salute e condizioni
mentali in quei Paesi, come la Germania (52), dove esistono un
robusto sistema di protezione sociale con sussidi di
disoccupazione e adeguati servizi di reinserimento al lavoro.
Il diritto del lavoro e i sistemi di welfare hanno registrato, nel
corso degli ultimi decenni, significativi cambiamenti dovuti a
nuovi modelli di produzione e di organizzazione del lavoro
indotti dalle innovazioni tecnologiche e dalla globalizzazione (53).
Non meno importanti sono tuttavia, come abbiamo cercato di
dimostrare nelle pagine che precedono, i cambiamenti
demografici e, tra questi, l’invecchiamento della forza-lavoro (54)
51 Cfr. la letteratura riportata in S. VARVA (a cura di), Lavoro e malattie
croniche: una rassegna ragionata della letteratura di riferimento, cit. 52 Così: H. SCHMITZ, Why are the Unemployed in Worse Health? The Causal
Effect of Unemployment on Health, in Labour Economics, 2011, 71-78. In senso
contrario vedi tuttavia il precedente studio condotto, sui medesimi dati, da
L. ROMEU GORDO, Effects of Short and Long-Term Unemployment on Health
Satisfaction: Evidence from German Data, in Applied Economics, 2006, 2335-2350. 53 Cfr., tra i tanti, J. MORGAN, The Future of Work, Wiley, 2014, cui adde il
rapporto McKinsey, The Future of Work in Advanced Economies, McKinsey &
Company, 2012. 54 Cfr. A. CHIVA, J. MANTHORPE, Older Workers in Europe, Open University
Press, 2009, cui adde gli importanti studi comparati condotti dalla European
Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
(Sustainable Work and the Ageing Workforce, 2012) e dall’OCSE (Ageing and
Employment Policies – Country Studies & Policy Review), reperibili sui rispettivi
siti internet istituzionali. Nell’ottica della tenuta del sistema di sicurezza
sociale italiano cfr. N.C. SALERNO, Finanziare il Welfare, in Quaderni Europei
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 19
© 2017 ADAPT University Press
e la conseguente incidenza delle malattie croniche sulla
organizzazione e sulla produttività del lavoro: temi e problemi
che meritano adeguata attenzione anche in ambito giuslavoristico
nella prospettiva di un welfare della persona, di un mercato del
lavoro efficiente e inclusivo e della conseguente modernizzazione
del quadro regolatorio e del sistema di relazioni industriali
sottostante.
1.3. Obiettivi della ricerca
Obiettivo del presente studio è, appunto, quello di segnalare la
centralità, per le dinamiche evolutive del diritto del lavoro e dei
sistemi di welfare, di un tema ancora oggi non pienamente
emerso (55) come l’impatto delle malattie croniche sul rapporto di
lavoro e sul sistema di protezione sociale ipotizzando altresì
soluzioni che consentano il passaggio da una politica meramente
passiva ed emergenziale di mero sostegno al reddito – se non di
espulsione dal mercato del lavoro secondo una logica di c.d.
medicalizzazione del problema (infra, § 2) – a una concezione più
moderna orientata non solo alla prevenzione, già a partire dagli
sul Nuovo Welfare, 2014, n. 21, spec. i §§ 2, 3 e 4 su demografia, lavoro e
produttività. 55 Cfr., tra i primi studi in materia, S. GRAMMENOS, Illness, Disability and
Social Inclusion, cit., qui spec. 1, dove già si segnalava, in termini che non
sono oggi sostanzialmente cambiati, come «chronic illness, and especially
mental illness, remains very much a hidden issue. Discussion about
disability tends to get stuck on the issue of rights, where there is a
lacklustre consensus, but fails to move into the area of active policy
implementation. As a result, the disadvantages for people with disabilities
or illness do not really change: they tend to be marginalised, even
stigmatised, and feel isolated from many parts of social and public policy as
well as the labour market».
20 Michele Tiraboschi
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ambienti di lavoro (infra, § 4), ma anche alla occupabilità e al
ritorno al lavoro del malato cronico (infra, § 3).
Un tema innovativo e di frontiera come quello del rapporto tra
lavoro e malattie croniche si impone, del resto, non solo in
funzione della sostenibilità futura dei regimi pubblici di welfare,
ma anche come fronte tra i più avanzati e fertili nell’ambito del
rinnovamento dei sistemi nazionali di relazioni industriali
chiamati oggi a gestire, sotto la pressione di imponenti
cambiamenti tecnologici e demografici, una drastica
trasformazione non solo concettuale ma anche prescrittiva delle
nozioni giuridiche di “presenza al lavoro”, “prestazione
lavorativa”, “esatto adempimento contrattuale” (infra, § 5) nella
ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra logiche di produttività
e istanze di equità, inclusione, sostenibilità del lavoro e giustizia
sociale.
2. Malattie croniche: i limiti delle attuali risposte fornite
dal diritto del lavoro e dai sistemi di protezione sociale
Già si è segnalato, nel paragrafo che precede, come le prospettive
occupazionali dei malati cronici siano alquanto limitate e come
siano anzi peggiorate nel corso dell’ultimo decennio di
stagnazione economica e crisi dei mercati finanziari
internazionali.
La ridotta o limitata capacità lavorativa diminuisce,
indubbiamente, la competitività di questo gruppo di persone
nella ricerca di una nuova occupazione così come non di rado
compromette, per quanti siano occupati, il mantenimento del
posto di lavoro una volta esauriti congedi, aspettative e permessi.
L’analisi comparata segnala regimi di tutela alquanto diversificati
che risultano ampiamente condizionati dallo specifico quadro
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 21
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regolatorio in materia di licenziamenti per motivi economici e,
segnatamente, per inidoneità al lavoro, scarso rendimento,
assenza dal lavoro (56).
Vero è, tuttavia, che le rigide classificazioni delle malattie
croniche nelle categorie previste dalle normative assistenziali e
previdenziali nazionali, accentuando la medicalizzazione delle
stesse (57), contribuiscono già a monte alla creazione di barriere
strutturali e di sistema all’accesso al lavoro (58).
L’impostazione tradizionale dei sistemi di protezione sociale
appare in effetti caratterizzata, non solo in Europa (59),
dall’impiego di meccanici modelli medically-driven nella
determinazione della concessione di trattamenti di invalidità
civile o assegni di cura e assistenza che spesso conducono a una
uscita anticipata dal mercato del lavoro anche là dove non
56 Cfr., sul punto, l’analisi comparata condotta da S. FERNÁNDEZ
MARTÍNEZ, Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva
comparata, che segue in q. Sezione. 57 Il termine “medicalizzazione” è utilizzato, a partire da un celebre
editoriale del British Medical Journal nel 2002, per identificare un
atteggiamento nelle società occidentali che invece di promuovere la salute e
il benessere delle persone enfatizza la malattia con eccesso di diagnosi,
trattamenti e cure in molti casi inutili. Cfr. R. MOYNIHAN, R. SMITH, Too
Much Medicine?, in British Medical Journal, 2002, 859-860, cui adde S.
BROWNLEE, Why Too Much Medicine Is Making Us Sicker and Poorer,
Bloomsbury Publishing, 2010. 58 Il punto è bene evidenziato, tra gli altri, da A. VICK, E. LIGHTMAN,
Barriers to Employment Among Women with Complex Episodic Disabilities, in
Journal of Disability Policy Studies, 2010, qui 76-77. Cfr. altresì L.C. KOCH,
P.D. RUMRILL, L. CONYERS, S. WOHLFORD, A Narrative Literature Review
Regarding Job Retention Strategies for People with Chronic Illnesses, in Work, 2013,
qui 126. 59 Cfr. per esempio, per il caso canadese, A. VICK, E. LIGHTMAN, Barriers to
Employment Among Women with Complex Episodic Disabilities, cit., 77-78.
22 Michele Tiraboschi
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sarebbe necessario e, anzi, persino dannoso per il morale e la
stessa riabilitazione fisica del malato che, non di rado, vede nel
lavoro un bisogno personale prima ancora che economico per un
progressivo ritorno a una vita “normale” (60).
Il confine tra abilità e disabilità al lavoro è, in realtà, decisamente
fluido e variabile, posto che non tutte le persone reagiscono allo
stesso modo (fisicamente ed emotivamente) alla medesima
patologia e che le condizioni di un malato cronico si evolvono
con intermittenza e in modo imprevedibile nel corso del tempo
in ragione di complessi fattori soggettivi ed oggettivi tra cui:
reazione alle cure, contesto sociale e sostegno familiare,
disponibilità economiche personali, qualità dei servizi di cura,
assistenza e riabilitazione, ecc.
I sistemi di protezione sociale, per contro, adottano ancora oggi
un modello tendenzialmente statico e standardizzato (c.d. one-size-
fits-all) che, di regola, non contempla valutazioni dinamiche
mirate non solo sulla persona, ma anche sulla sua attitudine al
lavoro, il tipo di occupazione e mestiere, la tipologia contrattuale
e la flessibilità dell’orario di lavoro, l’ambiente lavorativo e il
rapporto con colleghi e superiori, le caratteristiche della impresa
e l’adozione o meno di modelli di welfare aziendale, i
60 Convergenti, nella letteratura, sono in effetti gli studi che documentano
un impatto benefico e anche terapeutico del lavoro sulla persona malata:
cfr., tra i tanti, EUROPEAN NETWORK FOR WORKPLACE HEALTH
PROMOTION, Promoting Healthy Work for Workers with Chronic Illness…, cit., e
anche J.F. STEINER, T.A. CAVENDER, D.S. MAIN, C.J. BRADLEY, Assessing
the Impact of Cancer on Work Outcomes What Are the Research Needs?, in Cancer,
2004, spec. 1710, dove si conclude «work is important to the individual, to
his or her family and social network, to the employer, and to society at
large». Sul lavoro come bisogno e leva di inclusione sociale si veda altresì,
per l’efficacia delle immagini richiamate, S. ZAMAGNI, People Care: dalle
malattie critiche alle prassi relazionali aziendali, in Atti del convegno della Fondazione
Giancarlo Quarta, Milano, 26 ottobre 2011.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 23
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cambiamenti fisici e logistici legati alla malattia, l’efficacia e
l’invasività delle cure, l’evoluzione della malattia, ecc. (61).
La conseguenza, come bene evidenziato dall’OECD (62), è che un
cospicuo numero di persone con capacità di lavoro parziale viene
considerata dagli attuali sistemi di welfare, anche solo a livello di
prassi se non di testi normativi, non più in grado di lavorare in
modo definitivo anche se così in realtà non è. Il riconoscimento
di un trattamento di invalidità civile comporta così il venir meno
dell’obbligo di ricerca attiva del lavoro. Non solo. In numerosi
ordinamenti è la legge stessa che vieta al percettore dell’assegno
di invalidità lo svolgimento di attività lavorative, pena la perdita
di un sussidio che, normalmente, è di poco superiore ai livelli di
sussistenza (63).
Un problema di tutela sul mercato del lavoro e nel rapporto di
lavoro, quello di assicurare una adeguata protezione a una
persona vulnerabile a causa di una capacità lavorativa ridotta o
limitata a titolo definitivo o anche solo temporaneo, si trasforma
61 Cfr. T. TASKILA, J. GULLIFORD, S. BEVAN, Returning to Work. Cancer
Survivors and the Health and Work Assessment and Advisory Service, Work
Foundation, London, 2013, spec. 3, dove si sottolinea come «successful
work retention for people with a diagnosis of cancer depends not only on
the severity of one’s condition but also on the individual’s capacity to cope
with crises or with fluctuations in health or functional capacity. The coping
process nevertheless depends on several social aspects of work, such as the
work environment and the amount of support one gets in the workplace.
This process is also affected by the extent to which healthcare services
prioritise work as a clinical outcome and a welfare system that supports job
retention». Nella medesima prospettiva cfr. J.F. STEINER, T.A. CAVENDER,
D.S. MAIN, C.J. BRADLEY, Assessing the Impact of Cancer on Work Outcomes
What Are the Research Needs?, in Cancer, 2004, 1703-1711. 62 Cfr. OECD, Sickness, Disability And Work Keeping On Track In The
Economic Downturn, cit., qui 17-18. 63 Ancora OECD, Sickness, Disability And Work…, cit., qui 18.
24 Michele Tiraboschi
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così in un problema medico o assistenzialistico e cioè stabilire se
il malato integri o meno i requisiti standard per il riconoscimento
della inidoneità al lavoro e del relativo assegno o pensione di
inabilità al lavoro (64). Il tutto con buona pace del sistema delle
imprese, cui lo Stato rimuove l’onere materiale (ma, di regola,
non il costo economico finale in termini di tassazione e
contribuzione) della gestione di un “problema” come la presenza
di un malato cronico in azienda, e anche degli stessi lavoratori
che, non di rado, ritengono più vantaggiosa una pensione
definitiva di invalidità (magari da integrare con prestazioni più o
meno occasionali “in nero”) rispetto a un sussidio temporaneo di
disoccupazione ovvero a trattamenti retributivi ridotti in ragione
della minore produttività o presenza in azienda.
Concepiti in un contesto economico, sociale e demografico
affatto diverso da quello attuale, i sistemi di protezione sociale
occidentali e quelli europei in particolare (65) non appaiono
dunque oggi in grado di affrontare in modo adeguato un
fenomeno relativamente nuovo – almeno per dimensioni, gravità
e costi – come quello delle malattie croniche nei termini
ampiamente descritti nel paragrafo che precede (66) contribuendo
64 Ibidem. Per una efficace sintesi della normativa italiana in materia di
invalidità civile cfr. M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Giappichelli,
2013, cap. XI. 65 Sull’impianto dei tradizionali modelli di welfare cfr. F. GIROTTI, Welfare
State. Storia, modelli e critica, Carocci, 1998. 66 Cfr. anche S. ZAMAGNI, People Care: dalle malattie critiche alle prassi
relazionali aziendali, cit., specie là dove precisa che «il modello di Welfare
State che abbiamo realizzato nel dopoguerra in Italia, come altrove, esclude
le situazioni che non si adeguano all’idea secondo la quale se una persona
non è idonea a svolgere determinate mansioni nel pieno delle sue capacità
non può pensare di rimanere sul luogo di lavoro».
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 25
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indirettamente, assieme a molteplici altri fattori, ai bassi tassi di
occupazione e reinserimento lavorativo dei malati cronici.
Non minori disincentivi e barriere al lavoro dei malati cronici
derivano dall’attuale quadro di regole di legge e di contrattazione
collettiva che compongono l’ordinamento giuridico posto dal
diritto del lavoro. Quantomeno in Europa, ma anche nel Nord
America, i tradizionali principi generali di non discriminazione e
parità di trattamento (67) garantiscono indubbiamente, su un
piano formale, un ampio e moderno impianto di diritti e tutele
(68), che tuttavia trascura, su un piano sostanziale, sia gli aspetti
67 Cfr. il già richiamato studio di S. FERNÁNDEZ MARTÍNEZ, Malattie
croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata, cit., spec. § 2.
Sull’impianto delle normative antidiscriminatorie in ambito europeo cfr.
invece S. FREDMAN, Discrimination Law, Clarendon Law Series, 2011; E.
ELLIS, P. WATSON, EU Anti-Discrimination Law, Oxford University Press,
2012; B. DOYLE, C. CASSERLEY, S. CHEETHAM, V. GAY, O. HYAMS,
Equality and Discrimination, Jordan Publishing Limited, 2010; D. SCHIEK, V.
CHEGE (ed.), European Union Non-Discrimination law. Comparative Perspectives
on Multidimensional Equality Law, Routledge-Cavendish, 2009. Per il contesto
americano cfr. P. BURSTEIN, Discrimination, Jobs and Politics. The Struggle for
Equal Employment Opportunity in the United States since New Deal, The
University of Chicago Press, 1998; R.C. POST, R.B. SIEGEL, Equal protection
by Law: Federal Antidiscrimination Legislation after Morrison and Kimel, in The
Yale Law Journal, 2000, 441-526. Nella letteratura italiana cfr. infine A.
LASSANDARI, Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, Wolters
Kluwer Italia, 2010. 68 Cfr. lo studio comparato condotto per la European Foundation for the
Improvement of Living and Working Conditions su Employment opportunities
for people with chronic diseases, cit. (spec. la sezione su Main policy measures and
initiatives at national level), cui adde i singoli rapporti nazionali tutti reperibili
all’indirizzo internet della Fondazione (www.eurofound.europa.eu). Nella
letteratura internazionale talune indagini empiriche segnalano, peraltro, una
significativa evoluzione da parte delle imprese nella gestione delle malattie
croniche con atteggiamenti di sostegno ai lavoratori registrandosi solo in
26 Michele Tiraboschi
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prevenzionistici, che possono trovare nei luoghi di lavoro un
ambito di intervento particolarmente significativo (infra, § 4), sia
le peculiari condizioni soggettive e oggettive in cui versano i
malati cronici e le stesse aziende presso cui sono occupati (infra, §
5).
Non può sorprendere, pertanto, il basso tasso di effettività della
strumentazione formalistica del diritto del lavoro (69), che, al pari
dei sistemi di welfare, affronta il tema delle malattie croniche in
modo standardizzato e passivo. Il tutto senza ancora prevedere,
almeno nella maggior parte dei Paesi, incentivi economici mirati a
sostegno delle imprese, misure integrative ad hoc di tutela e
promozione e, soprattutto, politiche attive di retention e di
reinserimento al lavoro che si affianchino alla assistenza più
propriamente medica e/o psicologica (70). Vero è anzi che, non di
minima percentuale trattamenti discriminatori. Cfr., con riferimento allo
studio effettuato su un gruppo di lavoratrici colpite da un tumore al seno,
R.R. BOUKNIGHT, C.J. BRADLEY, Z. LUO, Correlates of Return to Work for
Breast Cancer Survivors, in Journal of Clinical Oncology, 2008, 345-353 e spec.
148 e 150, dove rilevano, rispettivamente, che «more than 80% of patients
returned to work during the study period, and 87% reported that their
employer was accommodating to their cancer illness and treatment» e che
«few women (7%) reported problems with discrimination because of
cancer, suggesting that this was not a widespread problem for breast cancer
patients in our sample». 69 La bassa effettività delle tutele formali del diritto del lavoro è segnalata,
in particolare, da F. DE LORENZO, Presentazione Progetto ProJob: lavorare
durante e dopo il cancro, atti del convegno ADAPT-FAVO dell’11 settembre
2014, Roma, consultabili in Osservatorio ADAPT su Work & Chronic Disease. 70 Cfr., al riguardo, il lavoro di A. DE BOER, T. TASKILA, S.J. TAMMINGA,
M. FRINGS-DRESEN, M. FEUERSTEIN, J.H. VERBEEK, Interventions to
Enhance Return-To-Work for Cancer Patients, in Cochrane Database of Systematic
Reviews, 2011, spec. 3-4, dove (con riferimento ai malati di tumore, ma con
considerazioni estensibili a tutte le altre malattie croniche) i vari interventi
di sostegno al reinserimento o ritorno al lavoro vengono più
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 27
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rado, gli oneri formali connessi alla tutela dei malati cronici
possono disincentivare le imprese, in forme ovviamente non
palesi e dunque non manifestamente discriminatorie, dalla loro
assunzione per il timore di dover gestire una relazione complessa
e onerosa non facilmente risolvibile, stante la disciplina limitativa
dei licenziamenti per motivi economici e per inidoneità al lavoro
(71), in caso di un insuccesso del tentativo di inserimento in
azienda.
dettagliatamente classificati in: 1) Psychological («any type of psychological
intervention such as counselling, education, training in coping skills,
cognitive-behavioural interventions, and problem solving therapy,
undertaken by any qualified professional (e.g. psychologist, social worker or
oncology nurse»); 2) Vocational («any type of intervention focused on
employment. Vocational interventions might be person-directed or work-
directed. Person-directed vocational interventions are aimed at the patient
and incorporate programmes which aim to encourage return-to-work,
vocational rehabilitation, or occupational rehabilitation. Work-directed
vocational interventions are aimed at the workplace and include workplace
adjustments such as modified work hours, modified work tasks, or
modified workplace and improved communication with or between
managers, colleagues and health professionals»); 3) Physical («any type of
physical training such as walking, physical exercises such as arm lifting or
training of bodily functions such as vocal training»); 4) Medical or
pharmacological («any type of medical intervention e.g. surgical or medication
such as hormone treatment»); 5) Multidisciplinary («a combination of
psychological, vocational, physical and/or medical interventions»). 71 Il punto è evidenziato da OECD, Sickness, Disability And Work Keeping On
Track In The Economic Downturn, cit., qui 25. Per una accurata rassegna
comparata delle legislazioni nazionali limitative dei licenziamenti per motivi
economici legati alla impossibilità della prestazione in caso di malattia
cronica cfr. S. FERNÁNDEZ MARTÍNEZ, Enfermedad crónica y despido del
trabajador: una perspectiva comparada, cit. Con specifico riferimento alla
Germania cfr. R. SANTAGATA, I licenziamenti in Germania: i presupposti di
legittimità, in q. Rivista, 2013, qui spec. 889-892. Sul caso inglese cfr. V.
28 Michele Tiraboschi
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Allo stesso modo non può sorprendere, nella prospettiva del
reinserimento in azienda di chi ha perso il lavoro a causa della
malattia, la bassa effettività (72) delle quote di riserva contemplate,
pur con la possibilità di vari esoneri, sospensioni temporanee e
deroghe (73), nella legislazione di molti ordinamenti giuridici, di
regola con riferimento unicamente a imprese e datori di lavoro
che superino una determinata soglia dimensionale (74).
I pochi studi in materia segnalano, in effetti, un certo impatto
delle quote di riserva in termini di job retention per quanti sono già
assunti a scapito di quanti sono invece in cerca di nuova
occupazione con un saldo occupazionale complessivamente
negativo (75). Anche a prescindere da prassi elusive da parte di
talune imprese vero è, infatti, che l’inserimento o il
mantenimento in azienda di un malato cronico non è un
percorso meccanico, funzionale al mero adempimento di un
obbligo formale di legge o al timore di vedersi applicata la
relativa sanzione repressiva che lo accompagna, ma impone un
KETER, Dismissals for Long Term Sickness Absence, in Library of House of
Commons, January 2010. 72 Con riferimento al caso italiano cfr. il MINISTRO DEL LAVORO, VI
Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 12 marzo 1999, n. 68
“Norme per il diritto al lavoro dei disabili” (anni 2010-2011), Roma, qui 56-75. 73 Nella legislazione italiana, per esempio, è possibile l’esonero parziale per
quei datori di lavoro privati ed enti pubblici economici che non possono
occupare l’intera percentuale di persone con disabilità prevista dalla legge,
in seguito al quale è previsto il versamento di un contributo economico al
Fondo regionale per l’occupazione dei disabili. Cfr. l’art. 14 della l. n.
68/1999. 74 Per una rassegna comparata cfr. ancora lo studio condotto per la European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions su Employment opportunities for people with chronic diseases, cit., e i relativi rapporti nazionali anch’essi più volte citati. 75 Ancora OECD, Sickness, Disability And Work Keeping On Track In The
Economic Downturn, cit., sempre 25.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 29
© 2017 ADAPT University Press
atteggiamento positivo e la partecipazione attiva di impresa e
lavoratore nel cercare un punto di incontro e di adattamento
reciproco in funzione delle rispettive esigenze (c.d. sostenibilità
su cui infra, § 5).
Del pari importante, per consentire cure e assistenza evitando il
licenziamento in tronco del malato cronico, è il meccanismo
civilistico della sospensione della prestazione di lavoro che,
tuttavia, copre di regola periodi di tempo relativamente brevi e
dunque – nonostante taluni miglioramenti ottenuti in sede di
contrattazione collettiva rispetto agli standard legali (infra, § 5) –
non pienamente adeguati alla gestione di malattie di lungo corso
e particolarmente complesse come quelle croniche. Malattie che,
di regola, impongono non solo periodiche interruzioni della
attività lavorativa, ma anche adattamenti di orario e/o contenuto
della prestazione lavorativa (del lavoratore o anche dei familiari)
(76) per conciliare in modo attivo le esigenze del lavoratore con
quelle dell’impresa e della efficienza dei processi produttivi.
Vero è, del resto, che sospensioni o riduzioni della prestazione
lavorativa comportano, per i malati cronici, non solo minori
livelli di reddito, in un momento in cui la vulnerabilità spesso si
traduce in maggiori spese (mediche, di cura e assistenza) (77), ma
anche persistenti penalizzazioni nei percorsi di carriera e di
crescita professionale.
76 Ancora la European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Employment opportunities for people with chronic diseases, cit., e i relativi rapporti nazionali. 77 OSSERVATORIO SULLA CONDIZIONE ASSISTENZIALE DEI MALATI
ONCOLOGICI, 6° Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, 2014,
28, e anche Meeting the Needs of People with Chronic Conditions, National
Advisory Committee on Health and Disability, Wellington, New Zealand,
2007, 8-9. Cfr. altresì i dati citati in F. DE LORENZO, Presentazione Progetto
ProJob: lavorare durante e dopo il cancro, cit.
30 Michele Tiraboschi
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Né si può infine sottovalutare la circostanza che il mondo delle
imprese – quantomeno nei Paesi del Sud Europa e,
segnatamente, in Italia (78) – dimostra una crescente insofferenza
verso i meccanismi della sospensione (retribuita) degli obblighi
contrattuali e dei congedi, tanto a favore dei lavoratori malati che
dei loro familiari. Ciò in ragione di più o meno reali eccessi di
tutela o, comunque, di vere e proprie prassi abusive di taluni
lavoratori che alla lunga, anche per l’inefficienza o la
acquiescenza dei servizi ispettivi degli istituti previdenziali e dei
medici competenti, finiscono per penalizzare quanti realmente
necessitano di lunghi periodi di sospensione della prestazione
lavorativa a causa della malattia (79).
In conclusione di questo ragionamento non si può in ogni caso
non evidenziare che le attuali tutele formali di legge e
contrattazione collettiva, incentrate su quote di riserva e sulla
sospensione e conservazione del posto di lavoro per i tempi
necessari alla cura, risultano allo stato funzionali al prototipo del
lavoratore subordinato stabile e a tempo indeterminato
(tendenzialmente maschio e assunto da una grande impresa,
almeno se pensiamo ai sistemi di welfare del Sud Europa) (80), là
78 In Italia vedi l’allarme lanciato già dieci anni fa: L’assenteismo costa l’1% del
PIL, in Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2007. Simili allarmi e preoccupazioni sono
presenti nei periodici rapporti del Centro studi di Confindustria sul
mercato del lavoro e l’economia italiana (reperibili in www.confindustria.it). 79 Si spiega così per esempio, sempre in Italia, il clamore di alcuni rinnovi
contrattuali, come nel caso del settore del commercio, dove le parti sociali
hanno convenuto di ridurre le garanzie per le assenze brevi reiterate e,
presumibilmente, opportunistiche, con l’obiettivo di concentrare risorse e
tutele sulle malattie lunghe e di maggiore gravità. Cfr. E. CARMINATI, Lotta
agli assenteisti e maggiori tutele per i malati gravi, in Boll. spec. ADAPT, 7 aprile
2011, n. 17. 80 Per una conferma di quanto argomentato nel testo è sufficiente
analizzare i tassi di occupazione femminile, ancora molto bassi nell’Europa
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 31
© 2017 ADAPT University Press
dove la recente evoluzione (e balcanizzazione) del mercato del
lavoro ha registrato una massiccia proliferazione di rapporti di
lavoro intermittenti, temporanei e atipici che non consentono al
malato cronico di godere pienamente (o comunque a lungo) di
siffatte tutele e protezioni (81).
Ancor più precaria e priva di protezione, a fronte della
progressiva perdita di centralità dello stesso lavoro dipendente, è
poi la posizione di artigiani, piccoli imprenditori, lavoratori
autonomi e, in generale, di quanti operano sul mercato del lavoro
in regime di sostanziale dipendenza economica rispetto al
proprio committente principale (c.d. monocommittenza) pur non
integrando gli estremi della nozione formale di subordinazione
giuridica posta ancora oggi – pur a fronte di evidenti segni di crisi
(82) – alla base delle tutele del diritto del lavoro.
del Sud, e anche la composizione per genere della forza-lavoro atipica e
precaria. Senza dimenticare che sulla donna gravano ancora, di regola, i
compiti di cura non solo familiari ma anche di care giver rispetto ai malati.
Sul punto cfr. S. GABRIELE, P. TANDA, F. TEDIOSI, The Impact of Long-Term
Care on Caregivers’ Participation in the Labour Market, ENEPRI Research
Report No. 98, novembre 2011, in particolare 6; e EUROPEAN
COMMISSION, Long-term Care for the Elderly, Luxembourg, Publications
Office of the European Union, 2012. 81 Cfr., tra i tanti, M. GIOVANNONE, M. TIRABOSCHI (a cura di),
Organizzazione del lavoro e nuove forme di impiego. Partecipazione dei lavoratori e
buone pratiche in relazione alla salute e sicurezza sul lavoro – Una Literature Review,
2007, in Osservatorio ADAPT Nuovi lavori, nuovi rischi, qui 9-13, e, con
specifico riferimento ai temi della nostra indagine, A.C. BENSADON, P.
BARBEZIEUX, F.O. CHAMPS, Interactions entre santé et travail, Inspection
Gènèrale des Affaires Sociales, 2013, qui 5. 82 Cfr., tra i tanti, i contributi raccolti in G. DAVIDOV, B. LANGILLE (eds.),
Boundaries and Frontiers of Labour Law, Hart Publishing, 2006, cui adde, più
recentemente, H. ARTHURS, Labour Law as the Law of Economic Subordination
and Resistance: A Counterfactual?, Comparative Research in Law & Political
Economy, Research Paper, 2012, n. 10.
32 Michele Tiraboschi
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L’invito della Commissione europea di «tenere nel debito conto i
problemi di equità» (83) impone dunque di rivisitare l’impianto
degli attuali sistemi nazionali di protezione sociale. Dovrebbe
essere oramai chiaro infatti, alla luce delle considerazioni sin qui
svolte, che i malati cronici, per rimanere o ritornare al lavoro,
necessitano non solo e non tanto, secondo quella che è
l’impostazione tradizionale del diritto del lavoro, di astratte
protezioni formali, quote di riserva e di tutele comparabili a
quelle dei lavoratori pienamente abili al lavoro. Altrettanto (se
non più) importanti risultano essere politiche di attivazione ad
hoc, tipiche di un moderno welfare della persona, e tutte quelle
misure promozionali che, in uno con una nuova concezione della
produttività e della presenza al lavoro, consentano di conciliare le
variabili esigenze del malato con quelle di efficienza e
produttività delle imprese.
Non manca, in realtà, la consapevolezza della necessità di un
cambiamento di paradigma che consenta di affrontare il rapporto
tra malattie croniche e lavoro in termini innovativi (84). Vero è,
tuttavia, che le istituzioni pubbliche e le normative sottostanti
tendono ancora oggi ad affrontare la questione in termini
segmentati (85), ora come tema di diritti, obblighi e sanzioni ora
83 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, The 2014 EU Summit on Chronic Diseases –
Conference Conclusions, cit., qui 4. Si veda altresì, con riferimenti anche al tema
delle malattie croniche, la risoluzione del Parlamento europeo del 10 aprile
2008 Combating cancer in the enlarged European Union. 84 Un invito a un cambiamento di paradigma, anche se dal punto di vista
sanitario con ricadute sul mondo del lavoro, era già stato avanzato più di
un decennio fa da WORLD HEALTH ORGANIZATION, Innovative Care for
Chronic Conditions, 2002, in particolare 4. 85 Cfr., sostanzialmente nello stesso senso, anche S. GRAMMENOS, Illness,
Disability and Social Inclusion, cit., qui spec. 1: «the public sector tends to
tackle the issue from one perspective (public health) or another (social
affairs) and usually not in a comprehensive way (physical illness but not
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 33
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come ambito di provvidenze e di altri interventi assistenziali,
senza una visione unitaria che parta dalla attivazione della
persona e dalle politiche di inclusione del malato cronico.
3. Dai sussidi, quote di riserva e tutele passive alle
politiche di attivazione, conciliazione e retention
Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo che precede,
un buon punto di partenza, per contribuire alla modernizzazione
dei sistemi di protezione sociale e delle regole del rapporto di
lavoro in funzione del fenomeno emergente delle malattie
croniche e, più in generale, dell’invecchiamento della
popolazione, può invero essere ritrovato nella Convenzione
ONU sui diritti dei disabili del 2006 (86).
La Convenzione, frutto della piena maturazione di un complesso
processo culturale e non solo tecnico-specialistico nel modo con
cui affrontiamo il tema delle diversità nella società (87), evidenzia,
infatti, come la condizione di disabilità in senso lato (88) non
derivi, in sé, da limiti, qualità o condizioni soggettive delle
mental illness; social assistance but not inclusion; benefits but not
activation). There is a lack of critical assessment about how the policies
work and what could be the best allocation of resources». 86 Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità,
New York, 13 dicembre 2006. La convenzione è stata successivamente
approvata dalla Unione europea, con la decisione n. 2010/48, e fa parte del
suo ordinamento giuridico. In Italia è stata ratificata con la l. 3 marzo 2009,
n. 18. 87 T.J. MELISH, The UN Disability Convention: Historic Process, Strong Prospects,
and Why The U.S. Should Ratify, in Human Rights Brief, 2007. 88 Disabilità in senso lato per evidenziare, come riconosciuto dalla stessa
convenzione ONU nella lett. e del Preambolo, che «la disabilità è un concetto
in evoluzione».
34 Michele Tiraboschi
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persone, bensì dalla “interazione” tra le persone con
menomazioni o svantaggi e quelle barriere, non necessariamente
fisiche ma anche «comportamentali o ambientali», che
impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società
– e, dunque, anche la loro inclusione nel mercato del lavoro – «su
una base di uguaglianza con gli altri» (89).
In questa prospettiva di analisi – al pari di quanto già rilevato
dalle istituzioni europee per i disabili in senso stretto (90) – anche
la risposta ai problemi dei malati cronici nel rapporto con il
lavoro non può dunque essere strutturalmente medico-
89 Cfr., in più punti, il Preambolo della convenzione ONU e, segnatamente, la
lett. e. Si veda altresì l’International Classification of Impairment Disabilities and
Handicaps (ICIDH) della Organizzazione mondiale della sanità, quale
appendice dell’International Classification of Diseases (ICD) e, segnatamente,
l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) del marzo
2002, che definisce la disabilità alla stregua di un processo interattivo ed
evolutivo frutto di una complessa interrelazione tra le condizioni di salute o
malattia e i fattori contestuali ambientali e personali. Nella letteratura vedi
già: S. GRAMMENOS, Illness, Disability and Social Inclusion, cit., 29-34, e J.
PITCHER, G. SIORA, A. GREEN, Local Labour Market Information on Disability,
in Local Economy, 1996, 120-130. 90 Cfr. al riguardo la direttiva europea 2000/78/CE del 27 novembre 2000,
volta a stabilire un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro dei disabili che, come noto, si
distacca definitivamente da quella impostazione di tipo preminentemente
assistenziale che, per lungo tempo, ha contrassegnato la disciplina del
settore tanto a livello europeo che nei singoli ordinamenti nazionali. In
questa prospettiva evolutiva della nozione di disabilità cfr., in relazione alla
occupazione e al mantenimento o ritorno al lavoro, la comunicazione della
Commissione europea relativa alla European Disability Strategy 2010-2020: A
Renewed Commitment to a Barrier-Free Europe, Brussels, COM(2010) 636 final,
e i chiarimenti della Corte di giustizia europea con le sentenze HK
Danmark, 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, Commissione europea c.
Repubblica italiana, 4 luglio 2013, C-312/11, e Z., 18 marzo 2014, C-363/12.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 35
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assistenziale, con il conseguente rischio di una loro definitiva
espulsione dal mercato del lavoro, e tanto meno giuridico-
formale in termini di meccanico quanto poco realistico “accesso”
alle tutele e garanzie previste dal diritto del lavoro o dalla
contrattazione collettiva per “gli altri” lavoratori. Così come la
ricerca di una soluzione al problema della loro inclusione sociale
non può neppure essere affidata alla sola buona volontà o alla
indulgenza di imprese e responsabili del personale (91) che pure,
come dimostrano talune buone pratiche (92), già si sono mossi in
questa direzione soprattutto là dove vengano adottati codici o
comportamenti in ottica di responsabilità sociale di impresa (infra,
§ 4).
La giusta premessa per l’inclusione dei malati cronici sta,
piuttosto, nell’abbattimento di tutte le barriere (non solo quelle
fisiche) che ne impediscono o limitano l’accesso al mercato del
lavoro (93). La ricerca di una soluzione al problema va dunque
91 O anche degli stessi lavoratori. Le cronache italiane, per esempio, hanno
recentemente enfatizzato il caso dell’autista di bus che, esauriti permessi e
congedi di legge e contratto collettivo, ha potuto conservare il posto di
lavoro grazie alla solidarietà di ben 250 colleghi di lavoro che hanno messo
a disposizione della lavoratrice malata alcuni dei loro giorni di permesso e
ferie. Cfr. L’autista di bus tornata alla vita con le ferie regalate dai colleghi, in Il
Tirreno, 7 maggio 2014. 92 In ambito comparato si vedano le ricerche condotte dalla European
Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions e
segnatamente il § 3.2, Examples of enterprises and/or collective agreements
implementing initiatives or establishing clauses to support people with chronic diseases,
dei report nazionali compresi nello studio A. CORRAL, J. DURÁN E I. ISUSI,
Employment opportunities for people with chronic diseases, European Observatory
of Working Life, novembre 2014. 93 Cfr. ancora una volta, per l’affinità con il tema della disabilità in senso
stretto, la comunicazione della Commissione europea relativa alla European
Disability Strategy 2010-2020: A Renewed Commitment to a Barrier-Free Europe,
36 Michele Tiraboschi
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ricercata in quelle risposte strutturali e di sistema che, nel tenere
nel debito conto le diversità umane, sappiano concorrere alla
costruzione delle premesse di un incontro tra domanda e offerta
di lavoro che non è mai meccanico o deterministico neppure
quando scandito da modelli prescrittivi di matrice legale (quote di
riserva) e dalle relative sanzioni o anche accompagnato da più o
meno generosi incentivi o sostegni di matrice economica alle
imprese.
Decisivo, pertanto, appare un quadro di riferimento concettuale
e operativo calibrato sulla specificità di ogni singola persona (94) e
anche di ogni singolo ambiente lavorativo che consenta altresì di
superare quei modelli astratti e standardizzati di valutazione della
prestazione di lavoro ereditati da un quadro giuridico-
istituzionale edificato in funzione dei fabbisogni (produttivi e
organizzativi) della fabbrica fordista (infra, § 5).
Accanto ai classici interventi di riabilitazione professionale –
unitamente a quelli di tipo psicologico, medico, farmacologico e
terapeutico (95) – l’avvio di politiche attive per il ritorno e/o il
reinserimento al lavoro passa necessariamente da un cambio di
paradigma, culturale prima ancora che normativo o istituzionale,
cit., qui 4. In letteratura: S. GRAMMENOS, Illness, Disability and Social
Inclusion, cit., qui 36-42. 94 In questa prospettiva cfr. S.J. TAMMINGA, J.H. VERBEEK, A.G. DE
BOER, R.M. VAN DER BIJ, M.H. FRINGS-DRESEN, A Work-Directed
Intervention to Enhance the Return to Work of Employees with Cancer: A Case Study,
in PubMed, 2013, 477-485. 95 Cfr., con considerazioni in linea di principio valide per tutte le malattie
croniche, la dettagliata tassonomia delle strategie di reinserimento proposta
nello studio di A. DE BOER, T. TASKILA, S.J. TAMMINGA, M. FRINGS-
DRESEN, M. FEUERSTEIN, J.H. VERBEEK, Interventions to Enhance Return-To-
Work for Cancer Patients, cit. supra alla nota 70.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 37
© 2017 ADAPT University Press
volto a considerare le capacità delle persone piuttosto che le loro
disabilità (96).
Focalizzare l’attenzione «su cosa le persone con problemi di
salute ancora possono fare al lavoro e, conseguentemente,
sviluppare adeguati sostegni e programmi che le rafforzino a
questo riguardo» (97): è questa la strada intrapresa recentemente –
e non senza fatica e problemi – in Paesi come Australia,
Danimarca, Finlandia, Olanda, Svezia, Regno Unito, Nuova
Zelanda (98), che, non a caso, registrano i maggiori progressi nelle
politiche di retention e ritorno al lavoro dei malati cronici.
Un cambio di paradigma che, al tempo stesso, può diventare un
vero e proprio piano strategico di azione per portare a piena
maturazione e compimento complessi processi di riforma dei
sistemi di welfare e di relazioni industriali oggi avviati in Europa
in chiave puramente emergenziale e, di regola, in termini passivi,
quale reazione alla crisi economica, secondo un programma
96 Cfr., in questa prospettiva, lo studio dell’OECD, Sickness, Disability And
Work Keeping On Track In The Economic Downturn, cit., qui 19, che
efficacemente parla del passaggio «from disability to ability». Cfr. altresì
OECD, Transforming Disability into Ability Policies to Promote Work and Income
Security for Disabled People, Paris, 2003. 97 Ancora OECD, Sickness, Disability And Work Keeping On Track…, cit. 98 Si vedano i rapporti nazionali condotti tra il 2006 e il 2008 dall’OECD
sul tema Sickness, Disability and Work: Breaking the Barriers, reperibili sul
relativo sito istituzionale. Più recentemente cfr. i report nazionali sulle più
innovative politiche di inserimento al lavoro di disabili e malati cronici
curati dalla European Foundation for the Improvement of Living and
Working Conditions (Employment Guidance Services for People with Disabilities) e
reperibili sul relativo sito istituzionale. Più recentemente cfr. lo studio
condotto per conto della European Foundation for the Improvement of
Living and Working Conditions su Employment opportunities for people with
chronic diseases, cit. e, in particolare, i rapporti nazionali su Danimarca,
Finlandia, Olanda, Svezia, Regno Unito.
38 Michele Tiraboschi
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difensivo e non di rado frammentario di mero riordino e
riequilibrio di una spesa sociale e sanitaria gravata da una
costante contrazione delle risorse disponibili. Porre al centro dei
processi di riforma del welfare e di revisione della spesa sociale e
sanitaria i cambiamenti demografici in atto e le future dinamiche
del mercato del lavoro imposte dai cambiamenti tecnologici
consentirebbe, per contro, agli Stati nazionali e alle istituzioni
sopranazionali una risposta non solo tecnica e contabile, ma
prima di tutto antropologica e di sistema, a quei tumultuosi
cambiamenti economici e sociali che tante preoccupazioni e
insicurezze generano nelle persone (99).
Quello dei malati cronici e del loro ritorno al lavoro potrebbe in
effetti rappresentare un tema aggregante di tematiche oggi
affrontate senza quella visione unitaria che pure, come visto,
risulta imprescindibile in un diverso contesto demografico per la
messa a punto di un moderno welfare della persona.
3.1. La rivisitazione delle politiche di welfare to work,
degli incentivi e dei sussidi pubblici
In questa direzione, un primo ambito di riflessione potrebbe
essere rappresentato, quantomeno a livello europeo, dalla
rivisitazione delle politiche di welfare to work (100) e dai relativi
incentivi economici che ancora non tengono conto, nonostante
99 Cfr. Comitato per il progetto culturale della CONFERENZA EPISCOPALE
ITALIANA, Per il lavoro. Rapporto-Proposta sulla situazione italiana, Laterza, 2013. 100 Come invero già fatto in alcuni Paesi. Cfr. OECD, New Ways of
Addressing Partial Work Capacity, Progress Report, April 2007, 4-7.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 39
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una forte sollecitazione delle istituzioni centrali europee (101),
dell’inserimento occupazionale dei malati cronici che rimangono
così intrappolati in una fragile e solo apparentemente rassicurante
trama di sussidi e provvidenze che, secondo le evidenze
empiriche (102), sono una concausa della loro esclusione dal
mercato del lavoro.
Significativa, a questo riguardo, è l’esperienza di quei Paesi che
sono intervenuti non tanto e non solo sulle procedure di verifica
della inidoneità al lavoro (103), quanto sulla stessa struttura dei
sussidi pubblici sino ad eliminare – come accaduto in Danimarca,
Lussemburgo e Olanda (104) – l’accesso a prestazioni di invalidità
per le persone con capacità lavorativa parzialmente ridotta. Non
è (ancora) stata dimostrata, sul piano empirico, una diretta
correlazione tra struttura del sistema assistenziale e previdenziale
e percorsi di inclusione (o esclusione) dal mercato del lavoro.
Vero è, tuttavia, che gli ordinamenti che hanno abolito il sistema
delle invalidità parziali o anche escluso l’accesso al trattamento di
invalidità totale per persone con ridotta capacità al lavoro hanno
101 Cfr., tra gli altri, European Commission, The 2014 EU Summit on Chronic
Diseases, cit., spec. 3, dove si sottolinea che «the use of structural, research
and other EU funds for this purpose should be improved». 102 Secondo l’OCSE la stragrande maggioranza delle persone con capacità
di lavoro parziale che percepiscono prestazioni di invalidità raramente
rientrano sul mercato del lavoro. I dati raccolti in vari Paesi suggeriscono
che, a livello statistico, dopo un anno di sussidio di invalidità sono più le
persone che muoiono che quelle che ritornano al lavoro. Cfr. OECD,
Sickness, Disability And Work Keeping On Track…, cit., qui 19. 103 Questo punto è sottolineato da OECD, New Ways of Addressing Partial
Work Capacity, cit., qui 4. Cfr. altresì, con riferimento al caso della Estonia,
M. MASSO, Estonia: Employment Opportunities for People with Chronic Diseases,
European Observatory of Working Life, novembre 2014. 104 Cfr. OECD, New Ways of Addressing Partial Work Capacity, cit., qui 4.
40 Michele Tiraboschi
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registrato una diminuzione dei tassi di inattività dei malati cronici
(105).
Siffatti processi di riforma possono indubbiamente comportare, a
loro volta, un incremento dei tassi di disoccupazione come pare
indicare, tra gli altri, il caso del Lussemburgo (106). Si tratta,
tuttavia, di una conseguenza inevitabile e anche naturale perché
permette di raggiungere l’obiettivo di affrontare in termini di
occupabilità e reinserimento al lavoro dei malati cronici quello
che, come già più volte evidenziato (supra, § 2), è un problema
principalmente di mercato del lavoro e non (solo) medico-
assistenziale. Ne consegue, al tempo stesso, un ri-orientamento
dei sussidi pubblici che, invece di essere indirizzati in una pletora
di politiche passive che conducono alla inattività, si trasformano
in incentivi economici – verso le imprese e verso lo stesso
lavoratore – per azioni di riqualificazione professionale, contrasto
alla disoccupazione e reinserimento al lavoro.
Un esempio di ciò sono i c.d. flex-jobs danesi (107), forme di lavoro
sussidiate per coloro che abbiano una riduzione della capacità
lavorativa di almeno il 50% (108). In Danimarca prestazioni di
invalidità sono ora infatti concesse unicamente a persone la cui
capacità al lavoro sia ridotta in modo permanente e a tal punto da
105 Ancora OECD, New Ways of Addressing Partial Work Capacity, cit., qui 7. 106 Ibidem. 107 Di particolare interesse, in ambito comparato, è anche il sistema
olandese su cui cfr. OECD, New Ways of Addressing Partial Work Capacity,
cit., qui 5-8. In estrema sintesi, il sistema olandese ha due componenti: una
invalidità permanente per le persone che non possono più lavorare e un
sussidio per coloro che hanno una disabilità parziale o comunque non
permanente. A questo secondo gruppo, generalmente impiegato in lavori
con una bassa remunerazione, viene riconosciuto un supplemento
retributivo. Ad ogni modo, questo secondo gruppo viene coinvolto nei
processi di ricerca del lavoro o partecipazione al mercato del lavoro. 108 Ancora OECD, New Ways of Addressing Partial Work Capacity, cit., qui 5.
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non consentire loro di svolgere, neppure dopo la partecipazione
a specifici programmi di attivazione o riabilitazione
professionale, forme flessibili e parziali di lavoro. Coloro che,
invece, sono in grado, con gli adeguati supporti medici,
terapeutici, psicologici e formativi di svolgere prestazioni parziali
ricevono una speciale prestazione di disoccupazione di entità
analoga alle soppresse prestazioni di invalidità. Il ricorso ai flex-
jobs è sostenuto da appositi incentivi economici alle imprese,
mentre i lavoratori ricevono un salario standard.
Il caso danese è di particolare rilevanza, in ambito comparato,
perché consente di evidenziare la principale differenza rispetto a
Paesi come l’Italia, dove la modulazione dei tempi di lavoro, o
anche il diritto soggettivo del malato al lavoro a tempo parziale,
prevista dalla normativa di legge (109) o di contrattazione
collettiva (110) per talune tipologie di malattie croniche, pare non
produrre risultati tangibili (111). Ciò in ragione della mancata
correlazione delle misure sui tempi di (presenza al) lavoro sia con
la struttura delle prestazioni previdenziali ed assistenziali sia con
il regime degli incentivi per il reinserimento al lavoro, che,
inevitabilmente, implicano più o meno rilevanti oneri di
109 Cfr. i rapporti nazionali contenuti in EUROPEAN FOUNDATION FOR
THE IMPROVEMENT OF LIVING AND WORKING CONDITIONS, Employment
opportunities for people with chronic diseases, cit. 110 Cfr. lo studio comparato condotto per la European Foundation for the
Improvement of Living and Working Conditions su Employment opportunities
for people with chronic diseases, cit., in particolare la sezione relativa a Examples
of Enterprises and Collective Agreements Implementing Support Initiatives. 111 In Italia, con riferimento ai malati oncologici, soltanto l’8,6% ha chiesto
la trasformazione del rapporto di lavoro in part-time (o altre modalità
flessibili o di riduzione dell’orario di lavoro), mentre quasi il 20% dichiara
di avere dovuto lasciare il lavoro, cfr. OSSERVATORIO SULLA CONDIZIONE
ASSISTENZIALE DEI MALATI ONCOLOGICI, 6° Rapporto sulla condizione
assistenziale dei malati oncologici, cit., 25.
42 Michele Tiraboschi
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adattamento del contesto lavorativo in capo al datore di lavoro
(112) che non possono essere ammortizzati unicamente con la
riduzione del trattamento retributivo del lavoratore in ragione del
minor numero di ore lavorate.
Altrettanto decisivo, per le azioni di riattivazione e reinserimento
al lavoro di quei lavoratori che, a seguito della malattia, hanno
perso il lavoro, è il ruolo dei servizi (pubblici e privati) per il
lavoro e la riqualificazione professionale (113). Significativo, tra gli
altri (114), è il caso della Norvegia (115) che ha registrato un
processo di fusione del servizio pubblico per l’impiego con
l’istituto previdenziale nazionale in modo da garantire non solo
una semplificazione e un coordinamento dei servizi, ma anche un
più stretto raccordo tra politiche passive e politiche attive del
112 Cfr. ancora il caso olandese, indicato supra alla nota 107, che a fronte di
un vero e proprio onere legale in capo al datore di lavoro di adattamento
del contesto lavorativo, prevede talune forme di incentivazione economica.
Si veda il rapporto nazionale sull’Olanda, a cura di W. Hooftman e I.
Houtman, contenuto nello studio curato per la European Foundation for
the Improvement of Living and Working Conditions su Employment
opportunities for people with chronic diseases, cit., § 3.1. 113 Per una rassegna di buone prassi cfr. le schede di sintesi curate da S.
AUTIERI, F. SILVAGGI, Buone prassi in materia di reinserimento delle persone con
disabilità: schede di sintesi, in Boll. ADAPT, 2014, n. 34. Cfr. altresì
EUROPEAN FOUNDATION FOR THE IMPROVEMENT OF LIVING AND
WORKING CONDITIONS, Employment opportunities for people with chronic
diseases, cit. 114 Cfr. F. SILVAGGI, Il ritorno al lavoro dopo il cancro: una prospettiva europea, in
Boll. ADAPT, 2014, n. 27. 115 E, almeno in parte, anche nel caso del Regno Unito dove si è avviato un
processo analogo a quello della Norvegia. Cfr. i rapporti nazionali di
Norvegia e Regno Unito contenuti nello studio comparato condotto per la
EUROPEAN FOUNDATION FOR THE IMPROVEMENT OF LIVING AND
WORKING CONDITIONS su Employment opportunities for people with chronic
diseases, cit.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 43
© 2017 ADAPT University Press
lavoro tra cui il ricorso, là dove possibile, agli incentivi al lavoro
piuttosto che ai sussidi di disabilità parziale. Un rilevante numero
di Paesi ha poi rafforzato i principi di condizionalità (116),
subordinando la concessione e il mantenimento di sussidi e
benefici previdenziali e assistenziali alla partecipazione a percorsi
di formazione e riqualificazione professionale (117), nonché il
raccordo tra centri pubblici per il lavoro e agenzie private
secondo principi di cooperazione e sussidiarietà (118).
3.2. La rivisitazione delle politiche di conciliazione e
pari opportunità: verso un work-health-life balance
Un secondo ambito di riflessione potrebbe poi essere
rappresentato, sempre a livello europeo, da una rivisitazione delle
politiche di conciliazione e di pari opportunità. Ciò nell’ottica
non più solo o prevalentemente di genere, ma di un innovativo
work-health-life balance che, nel concorrere nel breve e più ancora
nel lungo periodo agli obiettivi di produttività ed efficienza delle
imprese (119), tenga conto, anche in chiave prevenzionale, della
116 Cfr. ancora i rapporti nazionali contenuti in EUROPEAN FOUNDATION
FOR THE IMPROVEMENT OF LIVING AND WORKING CONDITIONS,
Employment opportunities for people with chronic diseases, cit. 117 Cfr. B. GAZIER, Vers un nouveau modèle social, Champs Essay, 2009; F.J.
GLASTRA, B.J. HAKE, P.E. SCHEDLER, Lifelong Learning as Transitional
Learning, in Adult Education Quarterly, 2004, n. 54; A.M. SAKS, R.R.
HACCOUN, Managing Performance Through Training and Development, Nelson
Education, Toronto, 2010. 118 Per la definizione dei principi di condizionalità cfr., con riferimento al
caso italiano, L. CORAZZA, Il principio di condizionalità (al tempo della crisi), in
DLRI, 2013, 489-505. 119 Sulla importanza di strategie che consentano in modo simultaneo il
conseguimento degli obiettivi di protezione sociale ed efficienza produttiva
44 Michele Tiraboschi
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qualità e sostenibilità del lavoro (120), delle diversità nel lavoro,
dell’impatto della rivoluzione tecnologica in atto sui tempi di vita
e di lavoro, nonché della necessaria evoluzione delle statiche
normative di sicurezza e tutela della salute nei luoghi di lavoro
che sono state pensate, sul volgere dello scorso secolo, con
riferimento a un paradigma economico e sociale di tipo
industrialista oggi in larga parte superato.
È del resto vero che, a livello europeo, il datore di lavoro è già
oggi obbligato, a seguito del processo di trasposizione negli
ordinamenti nazionali della direttiva 89/391/CEE del 12 giugno
1989 (121) a garantire non solo la sicurezza ma anche «la salute dei
lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro» (122) e
«adeguare il lavoro all’uomo, in particolare per quanto concerne
la concezione dei posti di lavoro e la scelta delle attrezzature di
lavoro e dei metodi di lavoro e di produzione» (123).
cfr. E. RAMSTAD, Promoting Performance and the Quality of Working Life
Simultaneously, in Internal Journal of Productivity and Performance Management,
2009, 423-436. 120 Sul concetto di sostenibilità del lavoro si veda EUROFOUND, Sustainable
Work and the Ageing Workforce, 2012, in particolare 7-8. 121 Cfr. la direttiva del Consiglio del 12 giugno 1989, concernente
l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori durante il lavoro (89/391/CEE). 122 Art. 5 della direttiva 89/391/CEE. 123 Art. 6, lett. d, direttiva 89/391/CEE. Con riferimento al processo di
trasposizione del principio nella legislazione nazionale si veda EUROPEAN
COMMISSION, Communication from the Commission to the European Parliament, the
Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of Regions
on the practical implementation of the provisions of the Health and Safety at Work
Directives 89/391 (Framework), 89/654 (Workplaces), 89/655 (Work
Equipment), 89/656 (Personal Protective Equipment), 90/269 (Manual Handling of
Loads) and 90/270 (Display Screen Equipment), COM(2004)62. Con
riferimento ai singoli casi nazionali si può ricordare, per il caso italiano, che
il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 45
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Sempre a livello europeo, la direttiva 2000/78/CE del 27
novembre 2000 in tema di parità di trattamento in materia di
occupazione e condizioni di lavoro (124), nel richiamare la
necessità di promuovere un mercato del lavoro che agevoli
l’inserimento sociale, propone poi ai singoli Stati membri di
formulare un insieme coerente di politiche volte a combattere la
discriminazione nei confronti di gruppi quali i disabili e i
lavoratori anziani (125). Sollecitando, in particolare, l’adozione, per
quanto ragionevole (126), di politiche di parità, la direttiva
nei luoghi di lavoro, all’art. 42, rubricato Provvedimenti in caso di inidoneità alla
mansione specifica, dispone che «il datore di lavoro […] attua le misure
indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità
alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni
equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento
corrispondente alle mansioni di provenienza»; secondo tale previsione,
perciò, sulla parte datoriale ricade l’onere di tentare il ricollocamento del
lavoratore che non sia più idoneo alla mansione ricoperta (a prescindere
dalla valutazione dello specifico grado di inabilità): sul tema dell’onere di
adibizione a mansioni diverse, anche attraverso una modifica organizzativa
ragionevole, S. GIUBBONI, Sopravvenuta inidoneità alla mansione e licenziamento.
Note per una interpretazione “adeguatrice”, in RIDL, 2012, 304-308. 124 Cfr. la direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 125 Considerando 8 della direttiva 2000/78/CE, che dispone: «gli
orientamenti in materia di occupazione per il 2000, approvati dal Consiglio
europeo a Helsinki il 10 e 11 dicembre 1999, ribadiscono la necessità di
promuovere un mercato del lavoro che agevoli l’inserimento sociale
formulando un insieme coerente di politiche volte a combattere la
discriminazione nei confronti di gruppi quali i disabili. Esse rilevano la
necessità di aiutare in particolar modo i lavoratori anziani, onde accrescere
la loro partecipazione alla vita professionale». 126 L’art. 5 della direttiva 2000/78/CE dispone che, «per garantire il
rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste
soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i
46 Michele Tiraboschi
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prevede, anche a livello aziendale, la messa a punto di «misure
appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare
il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio
sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la
ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di
inquadramento» (127).
È noto come parte della letteratura (128) abbia seriamente messo
in discussione l’interesse delle imprese a realizzare interventi
efficaci per adattare il posto di lavoro alle condizioni fisiche del
malato cronico ovvero ad offrire altre mansioni ovvero, in caso
di disoccupati, nuove occasioni di lavoro suggerendo, in
provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni
concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o
di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a
meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un
onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata
allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel
quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». 127 Considerando 20 della direttiva 2000/78/CE che dispone: «è opportuno
prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a
sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio
sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la
ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di
inquadramento». 128 Cfr. S.H. ALLAIRE, J. NIU, M.P. LAVALLEY, Employment and Satisfaction
Outcomes from a Job Retention Intervention Delivered to Persons with Chronic
Diseases, in Rehabilitation Counseling Bulletin, 2005, qui 108, dove si afferma
che «it’s not clear that employers would be interested in intervention that
helps employees identify and request accommodation». Con riferimento
alla scarsa disponibilità a occupare lavoratori con disabilità e ai costi
connessi all’adattamento del posto di lavoro, cfr. altresì DEPARTMENT FOR
WORK AND PENSIONS, Economic and Social Costs and Benefits to Employers of
Retaining, Recruiting and Employing Disabled People and/or People with Health
Conditions or an Injury: A Review of the Evidence, 2006, qui 88.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 47
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alternativa, la scelta prioritaria verso interventi pubblici di
riabilitazione professionale, preferibilmente da effettuarsi quando
l’attività lavorativa non si è ancora interrotta. Non si può tuttavia
sottovalutare la circostanza che siffatti obblighi di matrice legale
(e talvolta contrattuale) risultano ancora oggi dotati di scarsa
effettività proprio perché non supportati da una vera e dinamica
azione di conciliazione che sia incentrata sulla occupabilità e la
reciproca adattabilità delle parti coinvolte e che per questo veda
l’impresa aderire in termini convinti, consapevole non tanto di
adempiere a un obbligo formale e burocratico, quanto del
notevole impatto che simili azioni possono avere a livello
aziendale in termini di produttività, efficienza, risparmio di costi
(diretti e indiretti) e fidelizzazione dei propri dipendenti (infra, §
5).
È solo in questa prospettiva, di sostenibilità del lavoro tanto per
l’impresa che per il malato cronico (129), che si può del resto dare
concretezza alla “raccomandazione” (130), ampiamente scontata
ma di difficile attuazione, secondo la quale i programmi di
reciproco adattamento dovrebbero intervenire nella fase in cui il
malato cronico è ancora occupato, focalizzandosi soprattutto
sull’obiettivo di prevenire l’insorgenza delle condizioni di
inabilità lavorative, piuttosto che di tentare ex post di porvi
rimedio quando il decremento della padronanza delle
competenze professionali (c.d. job mastery) è tale, tuttavia, da
129 Cfr., sul punto, EUROFOUND, Sustainable Work and the Ageing Workforce,
cit. 130 Cfr. la prima e, indubbiamente, la più scontata delle nove
Recommendations from ENWHP’s Ninth Initiative Promoting Healthy Work for
Employees with Chronic Illness – Public Health and Work, qui 10.
48 Michele Tiraboschi
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rischiare di escluderlo definitivamente dal mercato del lavoro
(131).
4. Segue: promuovere la prevenzione delle malattie
croniche nei luoghi di lavoro
Che la prevenzione sia l’obiettivo di medio e lungo periodo è ora
chiarito in termini ampi e convinti anche dalla Commissione
europea (132) secondo cui occorre prioritariamente agire sui
fattori di rischio (fumo, alcol, abitudini alimentari, stili di vita)
prestando altresì particolare attenzione ai gruppi più vulnerabili e
suscettibili di subire le conseguenze di una malattia cronica.
In questa prospettiva, i luoghi di lavoro sono, accanto alle scuole
e alle università, uno degli ambiti di azione privilegiati per una
politica di prevenzione che voglia essere mirata e maggiormente
incisiva di quanto non lo sia stata fino a ora (133). Tanto più che
alcune delle principali situazioni di criticità rispetto al rapporto
tra malattie croniche e lavoro sono da ricondurre a ben precise
determinanti economiche e sociali (in particolare: livelli di reddito
e istruzione), di modo che le capacità di reazione a una grave
patologia e il ritorno al lavoro dipendono anche dalle diverse
condizioni di resilienza e vulnerabilità (134) delle persone
131 Nella letteratura cfr., in questa prospettiva, tra gli altri: S.H. ALLAIRE, J.
NIU, M.P. LAVALLEY, Employment and Satisfaction Outcomes…, cit. 132 Cfr. EUROPEAN COMMISSION, The 2014 EU Summit on Chronic Diseases,
cit., qui 2 e 4. 133 Ibidem. Cfr. altresì A.C. BENSADON, P. BARBEZIEUX, F.O. CHAMPS,
Interactions entre santé et travail, Inspection Générale des Affaires Sociales, Paris,
2013, qui 6. 134 “Resilienza” e “vulnerabilità” sono concetti chiave nel dibattito
scientifico sulle strategie di prevenzione e mitigazione e stanno acquisendo
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 49
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coinvolte su cui non poco possono incidere, anche in termini di
effettiva agibilità delle previsioni formali di legge, gli stessi luoghi
importanza anche a livello micro (persona, comunità e impresa) a fronte,
da un lato, dei numerosi cambiamenti di diversa natura (demografica,
economica, finanziaria, ambientale) che il mondo del lavoro sta
affrontando, e dall’altro lato delle specificità che sempre più
contraddistinguono persone e contesti lavorativi, tali per cui la regola “one
size fits all” vale sempre meno. La parola “resilienza” è stata in un primo
momento utilizzata nel campo della fisica e dell’ecologia, in questo secondo
ambito in particolare grazie al lavoro di C.S. HOLLING, Resilience and
Stability of Ecological Systems, in Annual Review of Ecology and Systematics, 1973,
1-23. Il termine è stato poi successivamente impiegato anche con
riferimento alle persone, alle famiglie, alle comunità, alle organizzazioni. In
caso di una situazione di disturbo, disagio o avversità la resilienza viene
definita come una traiettoria positiva di adattamento (cfr. F.H. NORRIS,
S.P. STEVENS, B. PFEFFERBAUM, K.F. WYCHE, R.L. PFEFFERBAUM,
Community Resilience as a Metaphor, Theory, Set of Capacities, and Strategy for
Disaster Readiness, in American Journal of Community Psychology, 2008, 127-135)
e costituisce «the capacity for successful adaptation, positive functioning or
competence […] despite high-risk status, chronic distress, or following
prolonged or severe trauma», cfr. B. EGELAND, E. CARLSON, L.A. SROUFE,
Resilience as Process, in Development and Psychopathology, 1993, 517-534.
Accogliendo la definizione contenuta nel report dell’UNISDR, The United
Nations International Strategy for Disaster Reduction, 2010, la
“vulnerabilità” è invece quell’insieme di caratteristiche e di circostanze che
rendono un sistema, una comunità, una risorsa suscettibile agli effetti di un
pericolo (UNI-SDR Glossary). Tale concetto è strettamente correlato a
quello di resilienza, come sostenuto da C. FOLKE, Social-Ecological Resilience
and Behavioural Response, Beijer International Institute of Ecological
Economics, Royal Swedish Academy of Sciences, 2002, 3, e da T.
CANNON, Vulnerability Analysis and the Explanation of “Natural” Disasters, in
A. VAREY (a cura di), Disasters, Development, Environment, Wiley, 1994, 19,
per il quale la vulnerabilità è una caratteristica complessa che dipende dalla
combinazione di fattori primari (classe di appartenenza, genere, etnia) e
secondari (ad esempio età).
50 Michele Tiraboschi
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di lavoro e le risposte (positive o negative) di volta in volta
fornite dalle singole comunità aziendali.
Il c.d. wellness at work non pare, del resto, una grande novità
neppure per il sistema produttivo e delle imprese.
Non poche aziende infatti, su base volontaria (135) e di regola
nell’ottica della Corporate Social Responsibility (136), hanno nel corso
del tempo esteso il loro campo di azione dalla mera prevenzione
delle malattie professionali imposta da norme inderogabili di
legge e contratto collettivo a veri e propri programmi di welfare
aziendale volti, tra le altre cose (137), alla sensibilizzazione attiva
rispetto a comportamenti e stili di vita che possono nuocere in
termini generali alla salute dei propri dipendenti (138).
Si tratta di iniziative di particolare importanza – e per questo non
di rado sostenute da istituzioni pubbliche e private e dalle stesse
imprese anche attraverso sistemi di incentivazione economica e
135 Per una rassegna di alcune delle principali iniziative adottate in materia a
livello di impresa cfr., tra gli altri, The Willis Health and Productivity Survey,
New York, 2014. Cfr. altresì S. MATTKE, H. LIU, J.P. CALOYERAS, C.Y.
HUANG, K.R. VAN BUSUM, D. KHODYAKOV, V. SHIER, Workplace Wellness
Programs Study, Final Report, RAND Health, 2013, che segnalano come circa
la metà delle aziende statunitensi con più di 50 addetti (pari a 3/4 della
forza-lavoro USA) offrono programmi di wellness. 136 Cfr. già il libro verde della Commissione europea su Promoting a European
Framework for Corporate Social Responsibility, 18 luglio 2001, COM(2001) 366
final, spec. § 2.1.2. 137 Cfr. E. MASSAGLI (a cura di), Il welfare aziendale territoriale per la micro,
piccola e media impresa italiana, ADAPT Labour Studies e-Book series, 2014,
n. 31. 138 Cfr., tra i primi a segnalare lo slittamento delle policies aziendali dalla
prevenzione di infortuni e malattie professionali alla conservazione attiva
della salute, R.E. GLASGOW, J.R. TERBORG, Occupational Health Promotion
Programs to Reduce Cardiovascular Risk, in Journal of Consulting and Clinical
Psychology, 1988, 365-373.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 51
© 2017 ADAPT University Press
finanziaria (139) – che operano su due livelli strategici: prevenire,
per un verso, le malattie croniche prima della loro insorgenza
intervenendo sui fattori di rischio (c.d. prevenzione primaria);
diagnosticare e trattare, per l’altro verso, le malattie in una fase
iniziale e cioè prima che si verifichino quelle complicanze che poi
pregiudicano la salute del lavoratore e la sua permanenza in
azienda (c.d. prevenzione secondaria) (140).
In realtà, programmi aziendali incentrati sulla prevenzione delle
malattie croniche (tra i tanti: gestione del peso, opzioni salutiste
nelle mense aziendali, divieto di fumo, educazione alla salute,
controlli medici periodici, esercizi fisici in loco, buoni o sconti
per l’iscrizione in palestre, ecc.) e su coperture sanitarie o
previdenziali integrative si collocano ben oltre la Corporate Social
Responsibility e la diffusa emulazione delle c.d. buone prassi (141).
139 Il tema è affrontato, da ultimo, da Z. BAJOREK, V. SHREEVE, S. BEVAN,
T. TASKILA, The Way Forward: Policy Options for Improving Workforce Health in
the UK, The Work Foundation, London, 2014, spec. 27-32. Cfr. altresì, con
riferimento ai sistemi di incentivazione su base aziendale, lo studio di K.M.
MADISON, K.G. VOLPP, S.D. HALPERN, The Law, Policy, and Ethics of
Employers’ Use of Financial Incentives to Improve Health, in Journal of Law
Medicine, Ethics, 2011, 450-468, ove si affronta il delicato nodo della
opportunità e anche legittimità di siffatti sistemi di incentivazione in
termini di coercizione o anche discriminazione verso determinati gruppi di
lavoratori in ragione dei loro stili di vita. 140 Ampia casistica in S. MATTKE, H. LIU, J.P. CALOYERAS, C.Y. HUANG,
K.R. VAN BUSUM, D. KHODYAKOV, V. SHIER, Workplace Wellness Programs
Study, Final Report, cit. In generale, sul tema del benessere al lavoro OECD,
How’s Life? 2013 – Measuring Well-Being, OECD Publishing, 2013, qui spec.
147-171. 141 Sullo spirito di emulazione come leva per l’adozione di politiche
aziendali di wellness at work cfr. S. ZAMAGNI, People Care: dalle malattie critiche
alle prassi relazionali aziendali, cit.
52 Michele Tiraboschi
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Come oramai indica una ampia letteratura internazionale (142),
siffatte iniziative di wellness at work comportano infatti, soprattutto
là dove si tratti di iniziative strutturate e di lungo periodo (143),
rilevanti benefici diretti (e talvolta indiretti) anche per le stesse
imprese coinvolte non solo in termini di riduzione dei costi
dovuti alla disabilità dei propri lavoratori, ma anche di maggiore
produttività, fidelizzazione della forza-lavoro, retention dei talenti,
diminuzione dell’assenteismo e delle richieste di congedi e
permessi, nonché degli effetti negativi del c.d. presenteismo (144)
e cioè della presenza al lavoro nonostante condizioni di salute
non adeguate al lavoro da svolgere.
Includere il benessere e la salute dei propri dipendenti nelle
politiche aziendali offre dunque alle imprese una significativa
142 Si veda la rassegna curata da L.S. CHAPMAN, Meta-Evaluation of Worksite
Health Promotion Economic Return Studies: 2012 Update, marzo-aprile 2012,
vedila in Osservatorio ADAPT su Work & Chronic Disease che raccoglie i
risultati di oltre 100 studi pubblicati in materia su riviste referate. Si vedano
altresì, tra i tanti, L.L. BERRY, A.M. MIRABIT, W.B. BAUN, What’s the Hard
Return on Employee Wellness Programs?, in Harvard Business Review, 2010, 105-
112; K. BAICKER, D. CUTLER, Z. SONG, Workplace Wellness Programs Can
Generate Savings, in Health Affairs, 2010, 304-311; C. HOCHART, M. LANG,
Impact of a Comprehensive Worksite Wellness Program on Health Risk, Utilization,
and Health Care Costs, in Population Health Management, 2011, 111-116; H.
VAUGHAN-JONES, L. BARHAM, Healthy Work: Evidence into Action. The
Oxford Health Alliance, The Work Foundation – RAND Europe, London,
2010; PRICEWATERHOUSECOOPERS, Building the case for wellness 4th February
2008, Report for the UK Department for Work and Pensions, 2008. 143 Cfr. S. MATTKE, H. LIU, J.P. CALOYERAS, C.Y. HUANG, K.R. VAN
BUSUM, D. KHODYAKOV, V. SHIER, Workplace Wellness Programs Study, Final
Report, cit., spec. 3, dove parlano di «selected employers with strong
commitments to wellness». 144 Sul concetto di presenteismo cfr. K. KNOCHE, R. SOCHERT. K.
HOUSTON, Promoting Healthy Work for Workers with Chronic Illness: A Guide to
Good Practice, cit., qui 9.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 53
© 2017 ADAPT University Press
occasione di riposizionamento dei propri modelli organizzativi e
produttivi rispetto alle nuove sfide lanciate dalle trasformazioni
del lavoro nella economia e nella società in ragione dei più volte
ricordati imponenti cambiamenti tecnologici e demografici (145).
Se noti e apprezzati sono i risultati delle politiche di wellness a
livello aziendale resta invero ancora da capire perché molte
imprese e organizzazioni siano lontane dall’adottare
concretamente pratiche di sensibilizzazione e prevenzione della
salute nei luoghi di lavoro (146).
Gli effetti della crisi economica e finanziaria degli ultimi anni sui
bilanci aziendali possono essere una parziale spiegazione (147), al
pari delle dimensioni aziendali ridotte che caratterizzano il
tessuto produttivo di Paesi come l’Italia e che non consentono
l’adozione capillare di siffatte iniziative (148), anche se occorre
145 In questi termini, nell’ambito di uno studio sull’impatto dei programmi
di wellness at work sulla efficienza delle organizzazioni aziendali, cfr. il
WORLD ECONOMIC FORUM, The Wellness Imperative Creating More Effective
Organizations, Geneva, 2010, 16. 146 È questo l’interrogativo che si pone lo studio di Z. BAJOREK, V.
SHREEVE, S. BEVAN, T. TASKILA, The Way Forward: Policy Options…, cit., qui
9. 147 In questa prospettiva ancora Z. BAJOREK, V. SHREEVE, S. BEVAN, T.
TASKILA, The Way Forward: Policy Options…, cit., qui 10. 148 Da segnalare tuttavia, con riferimento al sistema di relazioni industriali
italiano, la diffusione in numerosi settori produttivi, caratterizzati dalla
presenza di piccole e piccolissime imprese, di innovative forme di welfare
contrattuale comprensive di prestazioni sanitarie ed assistenziali (c.d.
bilateralismo). Rinvio sul punto a M. TIRABOSCHI, Bilateralism and Bilateral
Bodies: The New Frontier of Industrial Relations in Italy, in E-Journal of
International and Comparative Labour Studies, 2013, 113-128, cui adde la ricerca
condotta da Italia Lavoro (Agenzia tecnica del Ministero del lavoro) nel
2012-2013 su compiti e funzioni dei sistemi bilaterali e, segnatamente, la
parte relativa ai sistemi bilaterali di welfare e alla sanità integrativa (cfr.
54 Michele Tiraboschi
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rilevare come numerosi e diversi restino ancora oggi gli ostacoli –
giuridici, fiscali, organizzativi e culturali – alla piena
implementazione di pratiche di wellness at work (149).
5. Una prospettiva di relazioni industriali: il nodo della
produttività/sostenibilità del lavoro e l’importanza di
ripensare i concetti di “presenza al lavoro”, “prestazione
lavorativa”, “esatto adempimento contrattuale”
L’analisi sin qui condotta ha consentito di individuare la
progressiva emersione, seppure con gradi di maturazione e
implementazione ancora deboli e molto frammentari, di tre
precise linee di azione concorrenti:
1) modernizzazione dei sistemi nazionali di protezione sociale
nella direzione di un welfare della persona;
2) potenziamento delle politiche di attivazione, conciliazione e
retention;
3) misure di prevenzione nei luoghi di lavoro.
Nella gestione del delicato rapporto tra malattie croniche e
lavoro, nessuno spazio viene per contro ancora assegnato al
possibile ruolo dei sistemi di relazioni industriali come bene
ITALIA LAVORO, Gli enti bilaterali in Italia – Primo rapporto nazionale, 2013,
127-146). 149 Cfr. S. MATTKE, H. LIU, J.P. CALOYERAS, C.Y. HUANG, K.R. VAN
BUSUM, D. KHODYAKOV, V. SHIER, Workplace Wellness Programs Study,
RAND, Santa Monica, 2013, e anche R.Z. GOETZEL, R.M. HENKE, M.
TABRIZI, K.R. PELLETIER, R. LOEPPKE, D.W. BALLARD, J. GROSSMEIER,
D.R. ANDERSON, D. YACH, R.K. KELLY, T. MCCALISTER, S. SERXNER, C.
SELECKY, L.G. SHALLENBERGER, J.F. FRIES, C. BAASE, F. ISAAC, K.A.
CRIGHTON, P. WALD, E. EXUM, D. SHURNEY, R.D. METZ, Do Workplace
Health Promotion (Wellness) Programs Work?, in Journal of Occupational and
Environmental Medicine, 2014, 927-934.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 55
© 2017 ADAPT University Press
testimonia una approfondita ricognizione della letteratura
nazionale e internazionale di riferimento (150).
Invero, qualche sporadico e apprezzabile studio di frontiera non
ha mancato di rilevare come la contrattazione collettiva abbia
talvolta provveduto, nel corso del tempo e nei diversi settori
produttivi, a rafforzare la posizione del lavoratore colpito da
“gravi patologie” (151) integrando le previsioni formali di matrice
legale (supra, § 2). Di regola attraverso:
1) l’estensione della durata dei periodi di congedo e di comporto
stabiliti dalle norme di legge;
2) l’integrazione del reddito nei periodi di sospensione del
rapporto di lavoro (152);
3) la concessione di brevi pause regolari per le cure sul lavoro o
in chiave di compensazione degli sforzi fisici e mentali;
150 Cfr. la literature review curata da S. VARVA, Malattie croniche e lavoro: una
rassegna ragionata della letteratura di riferimento, cit. 151 Cfr., per il caso italiano, S. BRUZZONE, Disabilità e lavoro – Una disamina
delle disposizioni contrattuali per la conciliazione dei tempi di lavoro e cura: il caso della
Sclerosi Multipla, Associazione Italiana Sclerosi Multipla, 2012, e già S.
BRUZZONE, Il lavoro come precondizione di inclusione sociale nell’ambito dei diritti
umani, in AA.VV., Lavoro e disabilità: la sclerosi multipla e le patologie croniche
progressive nel mercato del lavoro, in Osservatorio Olympus, 2002
(http://olympus.uniurb.it). Per una dettagliata rassegna dei contenuti della
contrattazione collettiva (nazionale e anche aziendale) cfr. ADAPT,
Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), ADAPT University
Press, 2015, e, segnatamente, la parte Malattie croniche e lavoro nella
contrattazione collettiva. 152 Cfr., tra i primi interventi in materia, il contratto integrativo aziendale
Luxottica del 17 ottobre 2011 che dispone, per i dipendenti affetti da gravi
patologie, una integrazione fino al 100% della retribuzione oltre i 180
giorni di assenza.
56 Michele Tiraboschi
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4) politiche di conciliazione incentrate sulla modulazione degli
orari di lavoro, sul telelavoro e sull’accesso a forme di part-time
volontario e reversibile (153);
5) misure di conciliazione per quei lavoratori che agiscono a
sostegno di familiari affetti da malattie croniche in qualità di care
givers (154);
6) misure e tutele relative a mobilità mansionale (155) e/o
mobilità geografica (156).
153 In chiave comparata, seppure con specifico riferimento al solo tema
delle patologie oncologiche, M. TIRABOSCHI (a cura di), Promoting New
Measures for the Protection of Women Workers with Oncological Conditions by Means
of Social Dialogue and Company-Level Collective Bargaining, 2008, studio condotto
per la Commissione europea, nell’ambito della linea di finanziamento
Industrial Relations and Social Dialogue, ora consultabile in Osservatorio
ADAPT su Work e Chronic Diseases. 154 Con riferimento alle tutele dei care givers un primo passo normativo in
Italia (con specifico riferimento alle patologie oncologiche) è stato
compiuto dall’art. 46 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. legge Biagi),
che riconosce il diritto al part-time che, assieme ai congedi e ai permessi,
può consentire una migliore conciliazione tra lavoro e cure mediche. Sul
punto si veda: M. TIRABOSCHI, Lavoro e tumori: Quali tutele?, in Boll. spec.
ADAPT, 2014, n. 16. Con riferimento al caso americano cfr. K. MATOS, E.
GALINSKY, 2014 National Study of Employers, Families and Work Institute,
2014. 155 Con riferimento al caso italiano CCNL Energia, ad esempio, dispone
che, in caso di malattie che abbiano colpito il lavoratore, compatibilmente
con le esigenze organizzative e produttive dell’azienda, si terrà conto delle
indicazioni delle strutture pubbliche (servizi sanitari delle ASL o strutture
specializzate riconosciute dalle istituzioni) che hanno seguito il programma
terapeutico e riabilitativo del lavoratore per una eventuale diversa
collocazione dello stesso al fine di facilitarne il reinserimento nell’attività
produttiva, anche utilizzando (ove possibile) orari flessibili e/o part-time
nei casi in cui sia ritenuto opportuno dalle suddette strutture. La norma
lascia intendere, seppur non in maniera esplicita, che le indicazioni fornite
dalla struttura pubblica che ha seguito il lavoratore possano essere inerenti
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 57
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Si tratta di interventi certamente meritevoli e che, tuttavia,
risultano ancora disorganici e lacunosi in quanto privi di una
sufficiente comprensione del fenomeno che intendono regolare
così come di elementari logiche di collegamento tanto con i
sistemi di welfare pubblici quanto con i sistemi di welfare privati
anche aziendali (157). Emblematico, al riguardo, è il caso
dell’Italia, dove una ricca per quanto alluvionale casistica
contrattuale (158) ha determinato una estesa e generosa
applicazione del diritto, di fonte legale, al part-time in caso di
patologia oncologica (159), ingenerando tuttavia situazioni di
non solo all’utilizzo di orari di lavoro flessibili o part-time, ma anche al
contenuto della prestazione. Cfr. Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia
(2012-2014), cit. 156 Sempre con riferimento al caso italiano CCNL Edilizia prevede una
norma legata ai trasferimenti disponendo che qualora l’operatore comprovi
di non potersi trasferire per motivi di salute o familiari, l’impresa in grado
di continuare ad occuparlo nella medesima unità produttiva non procederà
al licenziamento. I motivi di salute rilevano quindi, in questo caso, per
evitare il licenziamento ai dipendenti che comprovino di non poter
ottemperare all’ordine datoriale a causa di motivi di salute. La misura è
rilevante in quanto, in materia di trasferimenti, l’unica disposizione
legislativa a prevedere tutele in capo al lavoratore malato è l’art. 33 della l. 5
febbraio 1992, n. 104, che tuttavia riguarda il trasferimento del lavoratore
disabile o del familiare di soggetto disabile. Cfr. Rapporto sulla contrattazione
collettiva in Italia (2012-2014), cit. 157 Ho affrontato il tema in Oltre il conflitto: le nuove prospettive del welfare
aziendale in Italia, in C&CC, dicembre 2014, n. 12, 4-5. Sul punto, con
riferimento al caso italiano, cfr. lo studio curato da E. MASSAGLI, Il welfare
aziendale territoriale per la micro, piccola e media impresa italiana, cit. 158 Cfr. Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), cit. 159 Art. 46, d.lgs. n. 276/2003, su cui cfr. la circ. Min. lav. n. 40/2005. Per
una analisi della disposizione e della contrattazione collettiva di riferimento
rinvio a P. TIRABOSCHI, M. TIRABOSCHI, Per un diritto del lavoro al servizio
58 Michele Tiraboschi
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palese difformità – se non di vera e propria discriminazione – nei
confronti dei lavoratori affetti da altre patologie croniche gravi
che, infatti, non godono di tutele comparabili senza che vi sia alla
base della scelta del Legislatore, così come degli attori del sistema
di relazioni industriali, un sufficiente criterio di ragionevolezza
(160).
Un conto, in effetti, è riconoscere come, in termini di tutele e
diritti sul lavoro, le malattie croniche possano in via di prima
approssimazione rappresentare, tanto per il giurista che per il
responsabile del personale o il sindacalista, un insieme indistinto
e indifferenziato di situazioni di grave vulnerabilità dei lavoratori
tali da comportare periodi più o meno lunghi di assenza
giustificata dal lavoro e che, di conseguenza, richiedano
adattamenti contrattuali relativamente ai tempi di lavoro e, più in
generale, alle modalità di esatto adempimento degli obblighi
contrattuali. Altra cosa, tuttavia, è l’estensione e
l’implementazione delle tutele e dei diritti per il tramite degli
attori della contrattazione collettiva che, come è naturale che sia,
difettano di quelle minime cognizioni tecniche (mediche,
psicologiche e terapeutiche) che consentano di trattare in modo
sufficientemente differenziato le conseguenze delle diverse
patologie croniche sul singolo rapporto di lavoro non in ragione
della persona: le tutele per i lavoratori affetti da patologie oncologiche e tumore al seno, in
q. Rivista, 2006, n. 2, 524-530. 160 Diffusamente S. BRUZZONE, Disabilità e lavoro…, cit., spec. 11-16, 19-20,
23, 28-29. Vero è, peraltro, che il cancro si differenzia ancora,
nell’immaginario sociale, da tutte le altre malattie croniche per quello
stigma che segna, a partire dall’ambiente di lavoro, la persona che ne è
colpita come se non fosse possibile non solo un ritorno al lavoro ma
anche, come pure la scienza oggi dimostra, un superamento della malattia
grazie alle nuove cure e ai progressi della scienza.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 59
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di fattori del tutto fortuiti (161) quanto dei diversi gradi di
intensità e gravità della malattia sul lavoratore e sulla sua (residua)
capacità di adempiere (in tutto, in parte o solo temporaneamente)
alle obbligazioni contrattuali.
Non è del resto un caso che gli studi, invero ancora poco
numerosi (162), che si sono occupati di monitorare l’impatto della
malattia sul lavoro o sul ritorno in azienda dopo le cure e la
riabilitazione siano stati condotti, per la quasi totalità dei casi, da
gruppi di medici e con riferimento a una singola e specifica
patologia.
La letteratura che, per contro, si è episodicamente occupata di
valutare gli effetti sul lavoro in relazione a diverse tipologie di
malattie croniche è giunta alla conclusione che, accanto ad
esigenze comuni a tutti i malati (capacità di affrontare la malattia,
supporto dei colleghi e dei superiori, condizioni di lavoro adatte,
supporto medico e sociale, sussistenza di incentivi, orari e carichi
di lavoro compatibili, gestione delle assenze, presenteismo, ecc.),
esistano nondimeno specifiche esigenze di conciliazione e di
“adattamento” degli impegni (contrattuali) di lavoro che variano,
anche in modo significativo, a seconda della diversa patologia
(163) e, persino, del tipo di reazione da parte di ogni singola
persona alla malattia e alle relative cure.
161 Come avvenuto in Italia per il caso del diritto al part-time in caso di
malattie oncologiche frutto di una segnalazione in via informale del
presidente della Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici,
professor De Lorenzo, all’allora viceministro del lavoro Maurizio Sacconi
nella fase di redazione della c.d. legge Biagi. 162 Cfr. la literature review curata da S. VARVA, Malattie croniche e lavoro: una
rassegna ragionata della letteratura di riferimento, cit. 163 Cfr., con riferimento a lavoratori affetti da artrite reumatoide, diabete
mellito e perdita dell’udito, S.I. DETAILLE, J.A. HAAFKENS, F.J. VAN DIJK,
60 Michele Tiraboschi
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Come già rilevato con riferimento ai sistemi di protezione sociale
(supra, § 2), anche la contrattazione collettiva, là dove è
intervenuta a tutela del lavoratore affetto da malattia cronica, ha
dunque sin qui adottato modelli di regolazione standardizzati
(c.d. one-size-fits-all) e che, tuttavia, risultano alla prova dei fatti
largamente inadeguati sia sul piano delle opzioni definitorie sia
nella gestione dei singoli casi concreti posto che non ammettono
valutazioni dinamiche mirate sulla persona e, conseguentemente,
sull’impatto concreto della specifica malattia sulla prestazione di
lavoro anche in relazione al tipo di occupazione e mestiere, alla
tipologia contrattuale, alle mansioni contrattuali, ecc. L’invito a
fare a livello aziendale ogni adattamento ragionevole in ragione
dei bisogni (e delle concrete possibilità) del singolo lavoratore
malato (164) rimane così largamente disatteso.
La verità è che gli interventi del sistema di relazioni industriali, di
regola circoscritti al solo lavoro subordinato e ai rapporti c.d.
standard (supra, § 2), si caratterizzano per una impostazione
puramente difensiva rispetto agli effetti della malattia cronica con
l’obiettivo di contenere, in chiave di tutela del posto di lavoro e
del reddito del lavoratore, la meccanica applicazione di logiche di
matrice privatista nella misurazione dell’adempimento
contrattuale e nella conseguente valutazione della sopravvenuta
inidoneità alla mansione come ipotesi di risoluzione del rapporto
di lavoro (165).
What Employees with Rheumatoid Arthritis, Diabetes Mellitus and Hearing Loss
Need to Cope at Work, in Work Environ Health, 2003, 134-142. 164 In questa prospettiva cfr. le raccomandazioni del EUROPEAN NETWORK
FOR WORKPLACE HEALTH PROMOTION, Recommendations from ENWHP’s
Ninth Initiative Promoting Healthy Work for Employees with Chronic Illness – Public
Health and Work, cit., 5. 165 Il tema è affrontato, in chiave comparata, da S. FERNÁNDEZ
MARTÍNEZ, Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 61
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Si comprende così perché, nell’ambito delle patologie croniche,
importanti diritti formali di matrice non solo legale ma anche
contrattuale, soprattutto là dove siano privi di una adeguata
connessione con gli interventi medici, formativi e psicologici di
recupero e riabilitazione (166) o, comunque, non inseriti in precise
policies aziendali di wellness at work (supra, § 4), finiscano il più delle
volte col risultare dotati, nella prassi applicativa del mondo del
lavoro, di un bassissimo livello di effettività (167).
Eppure proprio il sistema di relazioni industriali potrebbe giocare
un ruolo decisivo nelle politiche di attivazione e ritorno al lavoro
dei malati cronici se solo comprendesse – e ovviamente recepisse
attraverso la contrattazione collettiva e i sistemi bilaterali di
gestione del welfare a livello aziendale e/o territoriale – le
profonde modificazioni del lavoro frutto dei cambiamenti non
solo tecnologici ma anche demografici e organizzativi che non
poco incidono sui concetti di “presenza al lavoro”, “prestazione
lavorativa”, “esatto adempimento contrattuale”.
Nella messa a punto delle tutele di nuova generazione si tratta, in
altri termini, non solo di tenere in debita considerazione la
recente evoluzione delle tipologie contrattuali e delle forme di
lavoro, ma anche di interpretare la grande trasformazione dei
modi di lavorare e produrre (168) che incide profondamente, a
comparata, cit. Con riferimento al caso italiano cfr. S. GIUBBONI,
Sopravvenuta inidoneità alla mansione e licenziamento, cit. 166 Vedi supra, nota 70. 167 Cfr., per il caso italiano, F. DE LORENZO, Lavorare durante e dopo il cancro:
una risorsa per l’impresa e per il lavoratore, cit. supra, nota 69. 168 Sui nuovi modi di fare impresa e organizzare i processi produttivi,
l’evoluzione di tipologie contrattuali atipiche e delle forme di lavoro, anche
autonome, l’evoluzione dei mestieri, delle competenze e delle professioni,
la sfida della modernizzazione del mercato del lavoro, si veda La Grande
62 Michele Tiraboschi
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maggior ragione in un contesto di progressivo invecchiamento
della forza-lavoro, sul «concetto di lavoratore e di sue capacità
lavorative, di idoneità, in origine generica e indifferenziata, ed oggi
necessariamente sempre più specifica in relazione alla mansione»
(169) così come alle diverse fasi evolutive o anche involutive delle
carriere lavorative.
Il tema delle malattie croniche si presenta, insomma, come
terreno privilegiato per la sperimentazione per via contrattuale di
nuovi modelli organizzativi e regolatori del lavoro che
consentano, in ragione dei cambiamenti socio-economici e
demografici in atto, una migliore misurazione della produttività
del lavoro (170) in aderenza ai percorsi professionali e di carriera
Trasformazione del Lavoro, blog ADAPT su Nòva, Il Sole 24 Ore
(http://adapt.nova100.ilsole24ore.com). 169 Così, assai meglio di quanto potremmo dire noi: R. LINARES, V.
MORTARA, Abilità, idoneità, capacità, validità: problematiche dell’inserimento,
riammissione e reinserimento al lavoro, in F. PELONE (a cura di), Atti VII
Convegno Nazionale di Medicina Legale Previdenziale, INAIL, 2009, qui 303. 170 Già si è ricordato (supra, § 1) che la leva della produttività è oggi messa
in crisi da un quadro demografico in cui l’aumento dell’indice di
dipendenza economica (European Commission, Directorate-General of
Economic and Financial Affairs, The 2012 Ageing Report: Economic and
Budgetary Projections for the EU27 Members States (2010-2060), 2012, in
particolare 71-75) accompagnato da crescenti costi (diretti e indiretti)
connessi alla cura delle malattie croniche (si veda, a titolo di esempio, sul
contesto europeo: F. DE LORENZO, Presentazione Progetto ProJob: lavorare
durante e dopo il cancro, cit., cui adde, per il caso americano, U.S. WORKPLACE
ALLIANCE, The Burden of Chronic Disease on Business and U.S. Competitiveness,
2009) e alla mancata partecipazione al mercato del lavoro dei malati cronici
(i costi più alti sono infatti quelli derivanti per “gli anni persi dal lavoro”),
comporta una serie di criticità per la sostenibilità dei sistemi economici e
sociali che urge un ripensamento dei meccanismi di retention e ritorno al
lavoro di questo gruppo di persone. Il punto è ben sottolineato da R.
BUSSE, M. BLÜMEL, D. SCHELLER-KREINSEN, A. ZENTNER, Tackling
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 63
© 2017 ADAPT University Press
dei singoli lavoratori e alla idea emergente di una “sostenibilità
del lavoro” che sia tale da includere nella valutazione della
prestazione negoziale anche le condizioni di salute fisica e
mentale sul lavoro (171).
È del tutto evidente, in questa prospettiva, lo spazio (potenziale)
dei sistemi di relazioni industriali, oggi in uno stato di profondo
declino (172), e che, tuttavia, nel solco della tradizionale ricerca di
un punto di equilibrio tra le ragioni di impresa e le istanze di
tutela del lavoro, potrebbero ora perseguire una strada di radicale
Chronic Disease in Europe: Strategies, Interventions and Challenges, European
Observatory on Health Systems and Policies, World Health Organization, 2010,
qui 20: «with regard to labour supply and labour productivity, chronic
conditions and diseases mean fewer people in the workforce, with early
retirement, barriers to employment, and stigma. There is reasonable
evidence on the negative impact of chronic disease and risk factors on the
labour market, showing that chronic disease affects labour supply in terms
of workforce participation, hours worked, job turnover and early
retirement as well as wages, earnings and position reached». 171 In questo senso cfr. l’importante studio realizzato dalla EUROPEAN
FOUNDATION FOR THE IMPROVEMENT OF LIVING AND WORKING
CONDITIONS, Sustainable Work and the Ageing Workforce, 2012, ove vengono
individuati, in dettaglio, i principali indicatori del concetto di “lavoro
sostenibile”. Nella letteratura cfr. P.P. DOCHERTY, J. FORSLIN, A.B. SHANI,
Creating Sustainable Work Systems – Emerging Perspectives and Practice,
Routledge, 2002. 172 Sul declino dei sistemi di relazioni industriali – e degli studi scientifici
sottostanti – cfr., nella abbondante letteratura, B. KAUFMAN, Il principio
essenziale e il teorema fondamentale delle relazioni industriali, in E. MASSAGLI, R.
CARAGNANO (a cura di), Regole, conflitto, partecipazione, Giuffrè, 2013, 3-40,
nonché il dibattito dottrinario innescato dal saggio di A. HASSEL, The
Erosion of the German System of Industrial Relations, in British Journal of Industrial
Relations, 1999, 483-505.
64 Michele Tiraboschi
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rinnovamento (173) delle tecniche di misurazione (e re-
distribuzione) del valore del lavoro.
Se tutta da valutare – e da affidare alle determinazioni di un
libero e responsabile sistema di contrattazione collettiva – è la
possibilità di inserire nello scambio contrattuale un rinnovato
“contenuto assicurativo”, tale da garantire una migliore gestione
delle evenienze di una malattia cronica nell’ambito di un rapporto
di lavoro a fronte di contropartite sul versante della flessibilità e
produttività del lavoro (174), si tratta quantomeno di mettere a
punto un rinnovato e più elastico contenuto della prestazione
lavorativa in funzione dei radicali cambiamenti in atto nella
società come nei contesti produttivi e di organizzazione del
lavoro. Un contenuto della singola prestazione lavorativa – della
sua misurazione e dei relativi scambi negoziali – che contenga
una valutazione analitica e complessiva di diversi parametri non
più solo “oggettivi”, ma anche “soggettivi” in funzione della
sostenibilità del lavoro in un contesto produttivo e fattuale dato.
Lungi dal rappresentare un capitolo marginale del diritto del
lavoro, il complesso rapporto tra malattia (cronica) e lavoro può,
in conclusione del nostro ragionamento e come premessa per
ulteriori percorsi di ricerca e riflessione, consentire di superare
173 Sulle prospettive di rinnovamento del sistema di relazioni industriali
ancora B. KAUFMAN, Il principio essenziale e il teorema fondamentale delle relazioni
industriali, cit., e, con riferimento al caso tedesco ma con implicazioni
teoriche di più ampia portata, W. STREECK, Re-forming Capitalism.
Institutional Change in the German Political Economy, Oxford University Press,
2010. 174 Emblematico, in Italia, il già richiamato caso del contratto collettivo del
commercio dove, nel rinnovo del 26 febbraio 2011, a fronte della esigenza
datoriale di recuperi di produttività anche sul tema delle assenze dal lavoro
si sono “penalizzate” le assenze brevi in modo da fornire maggiori e più
robuste tutele ai lavoratori in casi di malattie gravi e di lunga durata, cfr. E.
CARMINATI, Lotta agli assenteisti e maggiori tutele per i malati gravi, cit.
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare 65
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quelle logiche standardizzate – bene evidenziate dai rigidi e
largamente obsoleti sistemi di classificazione e inquadramento
del personale definiti nella contrattazione collettiva nazionale di
molti Paesi (175) – tipiche del Novecento industriale di
misurazione della prestazione di lavoro aprendo la strada a un
sistema maggiormente incentrato sulle esigenze della persona e
sul suo effettivo contributo al processo produttivo ben oltre una
valutazione di tipo esclusivamente mercantile del rapporto di
lavoro sotteso allo scambio lavoro contro retribuzione (176).
175 Sulle prospettive di superamento dei rigidi criteri di classificazione e
inquadramento del personale cfr., con riferimento al caso italiano, quanto
sostenuto in L. RUSTICO, M. TIRABOSCHI, Standard professionali e standard
formativi, in M. TIRABOSCHI (a cura di), Il testo unico dell’apprendistato, Giuffrè,
2011, 423-450. Sul punto vedi già, per l’impostazione del problema, M.
MAGNANI, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del
lavoro, in DLRI, 2004, 165 ss. 176 Si tratta indubbiamente di una prospettiva che apre a logiche
partecipative e istituzionali della impresa ben oltre le tradizionali, e ancora
oggi dominanti, logiche mercantilistiche di matrice rigorosamente
contrattuale. Per l’impostazione tradizionale cfr. invece, per tutti, U.
CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto
di lavoro e post-taylorismo, in DLRI, 2004, 1 ss.
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Malattie croniche
e licenziamento del lavoratore:
una prospettiva comparata*
di Silvia Fernández Martínez
Sommario: 1. Inquadramento del problema. – 2. La malattia come causa di
discriminazione. – 3. Obbligo di adattamento del posto di lavoro. – 4.
Malattie croniche e inidoneità sopravvenuta. Il licenziamento
oggettivo. – 5. Conclusioni.
1. Inquadramento del problema
Attualmente, secondo il report Eurostat People having a long-
standing illness or health problem, by sex, age and labour status (ultima
visita novembre 2014), il numero di persone appartenenti alla
popolazione attiva che soffrono di un qualunque tipo di malattia
cronica è aumentato rispetto al secolo passato senza, tuttavia, che
questo fenomeno sia stato accompagnato da una risposta
normativa adeguata né a livello europeo né da parte dei singoli
Stati membri. Secondo il report Health del 2011 (1), nel Regno
Unito, mentre nel 1972 un adulto su 4 affermava di aver sofferto
di una malattia per un periodo prolungato nel tempo, questa cifra
* Pubblicato in DRI, 2015, n. 3. 1 D. SWEET, Health, in Social Trends, 2011, vol. 41, n. 1.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 67
© 2017 ADAPT University Press
sale a 1 su 3 nel 2009. Nell’ambito della categoria delle malattie
croniche sono ricompresi, tra gli altri, il cancro, il diabete e
l’obesità (2).
La conseguenza è l’inesistenza di un sistema in grado di far
fronte a questo problema crescente, tanto sul piano giuridico,
quanto su quello dell’organizzazione del personale e delle
relazioni industriali, situazione, questa, dovuta alla mancanza di
consapevolezza in merito all’impatto che tale fenomeno può
provocare sul mercato del lavoro.
L’assenza di un regime giuridico specifico applicabile ai malati
cronici comporta che, nella maggior parte degli Stati europei, a
questi spettino null’altro che i medesimi diritti degli altri
lavoratori. In particolare, per quanto riguarda il licenziamento, il
loro contratto potrà essere legittimamente risolto a seguito della
perdita di capacità o dell’assenteismo quali conseguenze del fatto
di soffrire della malattia, a condizione, però, che sia rispettata una
serie di requisiti. Posto che l’uscita di queste persone dal mercato
del lavoro produce un effetto diretto sulla riduzione della
popolazione attiva, la presenza dei malati cronici nel mercato del
lavoro, mediante adattamento delle loro mansioni alle nuove
capacità, risulterà imprescindibile ai fini della sostenibilità dei
sistemi di welfare (3), ancor più se si tiene conto della previsione
2 Per un maggior approfondimento si veda S. VARVA (a cura di), Malattie
croniche e lavoro. Una prima rassegna ragionata della letteratura di riferimento, in
ADAPT University Press, 2014, 11. 3 M. TIRABOSCHI, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e
tutele delle persone con malattie croniche, in M. TIRABOSCHI (a cura di),
Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, ADAPT University
Press, 2015, 13.
68 Silvia Fernández Martínez
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secondo cui nel 2030 l’Europa conterà 20 milioni in meno di
persone in età lavorativa (4).
Contrariamente a quanto possa sembrare, il fatto che un
lavoratore soffra di una malattia cronica produce implicazioni
non soltanto nei confronti dell’impresa, ma anche del sistema di
previdenza sociale di ciascuno Stato, poiché è su di esso che
ricadranno i costi conseguenti all’uscita di un lavoratore dal
mercato del lavoro. Questa circostanza comporta un aumento dei
costi economici per il sistema di welfare, minacciandone la
sostenibilità nel lungo periodo. Di conseguenza, l’incremento
delle malattie croniche produce effetti tanto sui lavoratori che le
soffrono quanto sull’impresa per cui lavorano, nonché sulla
società in generale.
L’evoluzione del diritto del lavoro e dei sistemi di previdenza
sociale svolge un ruolo fondamentale per poter offrire una
risposta adeguata rispetto all’impatto delle malattie croniche sul
contratto di lavoro e, in particolare, sulla risoluzione dello stesso
per ragioni oggettive. Nonostante tutte le implicazioni che
comporta, si tratta di un tema che non è stato, sino ad ora,
studiato in profondità nei vari Stati dell’Unione europea (5).
Alla luce di quanto esposto, emerge l’importanza di realizzare
un’analisi in chiave comparata volta a comprendere i diversi modi
in cui gli Stati dell’Unione europea tutelano, contro il
licenziamento, i lavoratori che soffrono di una malattia cronica.
In particolare, verranno presi in considerazione i casi di Spagna,
Italia, Francia, Germania e Regno Unito.
4 RANDSTAD, Flexibilidad en el trabajo 2014. Informe anual sobre la flexibilidad
laboral y el empleo, 2014. 5 M. TIRABOSCHI, op. cit., 5.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 69
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2. La malattia come causa di discriminazione
A livello comunitario, la malattia cronica del lavoratore non
figura tra le cause di discriminazione previste dalla direttiva
2000/78/CE del 27 novembre 2000 (6), in cui viene delineato un
quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e condizioni di lavoro. L’obiettivo di tale normativa
è quello della creazione di un mercato del lavoro volto a favorire
l’integrazione sociale, ragion per cui si sottolinea la necessità di
lottare contro la discriminazione fondata sulla disabilità, senza
però fare alcun cenno alle malattie croniche, nonostante possano
anch’esse esser causa di esclusione sociale. Il fatto che le malattie
croniche non vengano richiamate espressamente dalla direttiva
provoca un vuoto legislativo per il caso in cui il lavoratore soffra
di una malattia di questo tipo, la quale, pur producendo
ripercussioni sulla prestazione lavorativa, non viene ricompresa
nel novero delle disabilità riconosciute a livello amministrativo,
ricevendo il lavoratore, pertanto, lo stesso trattamento degli altri
lavoratori.
Anche a fronte del silenzio della normativa comunitaria, la
maggioranza degli Stati membri non ha tuttavia optato, a livello
interno, per l’inclusione in maniera espressa delle malattie
croniche tra i motivi di discriminazione vietati dalla legge,
riservando la qualificazione di condotta discriminatoria
unicamente agli atti discriminatori fondati sulla disabilità. In linea
con questa posizione maggioritaria si collocano Spagna e Italia, i
cui ordinamenti giuridici in materia di lavoro vietano
esplicitamente unicamente la discriminazione fondata sulla
disabilità (in Spagna nell’articolo 4, comma 2, lettera c,
dell’Estatuto de los trabajadores (ET) e in Italia nell’articolo 15 Stat.
6 In Boletín ADAPT, 2015, n. 3.
70 Silvia Fernández Martínez
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lav.), non anche, quindi, quella basata su una malattia cronica.
Nel Regno Unito, questa previsione è ricompresa nell’Equality
Act del 2010 (sezioni 6 e 15), mentre in Germania la Costituzione
prevede un divieto generale di discriminazione in base ad
impedimenti fisici o psichici (articolo 3). Al contrario di quanto
accade in questi Stati, in Francia è invece stato riconosciuto, in
maniera espressa, il divieto di discriminazione per ragioni di
salute (articolo L122-45 del Code du travail).
L’inclusione della malattia tra le cause di discriminazione o la sua
assimilazione alla disabilità, risulta, dunque, determinante in
relazione alla protezione di questi lavoratori contro il
licenziamento. Così, nel Regno Unito, sebbene la malattia non sia
espressamente ricompresa tra le cause di discriminazione, il
concetto di disabilità viene regolato in maniera talmente ampia da
portare la giurisprudenza a ritenervi compresa anche la malattia
di lungo periodo. Viene poi riconosciuta l’esistenza di un tipo di
discriminazione “by association”, che consente di estendere la
tutela contro la discriminazione fondata sulla disabilità anche ai
trattamenti illeciti sofferti da coloro che non trovino
riconoscimento a livello amministrativo o la cui malattia non
comporti disabilità. In particolare, si prevede l’estensione della
tutela apprestata per la disabilità alle malattie progressive, tra le
quali il cancro e la sclerosi multipla (7).
In altri Stati, tuttavia, come nel caso della Spagna, la
giurisprudenza ha adottato una posizione opposta a quella
inglese, sostenendo che la protezione specifica contro la
discriminazione fondata sulla disabilità non possa estendersi per
7 M.J. GÓMEZ-MILLÁN HERENCIA, Discapacidad, estados de salud y
discriminación en el marco jurídico de la igualdad de Reino Unido, in Revista de
Información Laboral, 2014, n. 4, 43 e 57.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 71
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analogia alla malattia (8). Viene negata, altresì, la possibilità che la
malattia possa essere inclusa nel generico divieto di
discriminazione per «qualunque altra circostanza personale o
sociale» di cui all’articolo 14 della Costituzione spagnola.
Posizione, questa, che ha trovato accoglimento anche nell’ambito
dei tribunali tedeschi, dai quali emerge che il licenziamento per
motivi di salute del lavoratore non costituisce, di per sé, una
discriminazione fondata sulla disabilità, e dunque oggetto di
divieto ai sensi della direttiva 2000/78/CE, salvo il caso in cui la
malattia dia luogo al riconoscimento di una disabilità (9). In
Spagna, tuttavia, è questo un tema tutt’altro che pacifico, posto
che i tribunali di prima istanza ritengono, invece, che la malattia
del lavoratore sia riconducibile al divieto generico di
discriminazione di cui all’articolo 14 della Costituzione spagnola,
e che pertanto dovrebbe godere della medesima tutela prevista
per i casi di discriminazione fondata sulla disabilità (10).
In Italia, pur non esistendo un divieto esplicito di
discriminazione fondata sulla malattia, la dottrina ritiene che
l’estensione della tutela antidiscriminatoria a tutti i lavoratori
dichiarati inidonei allo svolgimento delle mansioni tipiche del
proprio posto di lavoro, indipendentemente dal grado di
disabilità riconosciuto, fornirebbe una risposta adeguata alla loro
situazione (11).
Un caso paradigmatico è quello francese, ove, accanto al
riconoscimento espresso della malattia come causa di
8 Tribunal supremo 29 enero 2001, n. 1566/2000; Tribunal constitucional
26 mayo 2008, n. 3912/2005. 9 R. SANTAGATA, I licenziamenti in Germania: i presupposti di legittimità, in q.
Rivista, 2013, n. 3, 890. 10 Tribunal superior de justicia de Cataluña 28 febrero 2000, n. 7041/1999. 11 S. GIUBBONI, Sopravvenuta inidoneità alla mansione e licenziamento. Note per
una interpretazione “adeguatrice”, in RIDL, 2012, n. 2, I, 303.
72 Silvia Fernández Martínez
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discriminazione (articolo L122-45 del Code du travail), esiste una
tutela specifica contro il licenziamento per i lavoratori che
soffrano di una malattia grave, la quale abbia determinato
un’incapacità sopravvenuta. L’articolo L1226-9 del Code du travail
prevede che durante i periodi di sospensione del contratto di
lavoro a seguito di una malattia o di un incidente il datore di
lavoro potrà estinguere il rapporto di lavoro solo per un motivo
di grave interesse o per una ragione estranea all’incidente o alla
malattia. Ne deriva che il licenziamento basato unicamente sulla
malattia del lavoratore è da considerarsi nullo in quanto
discriminatorio (articolo L122-45 del Code du travail).
In definitiva, è possibile affermare che, a livello nazionale, il
licenziamento del lavoratore basato unicamente sulla sua malattia
è ritenuto discriminatorio in Francia e Regno Unito, mentre in
Spagna, Italia e Germania lo è solo nel caso in cui la malattia dia
luogo al riconoscimento di una disabilità da parte delle autorità
amministrative competenti.
Per quanto riguarda l’inclusione delle malattie croniche
nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/CE, la Corte
di giustizia europea si è pronunciata in due occasioni. In primo
luogo, con la sentenza Chacón Navas (12), ha definito la disabilità
come «limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche,
mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona
considerata alla vita professionale» (punto 43). La Corte precisa
che la direttiva non reca alcuna indicazione che porti a ritenere
che il divieto di discriminazione fondata sulla disabilità debba
operare immediatamente rispetto alla comparsa di una malattia.
Ne deriva, pertanto, che la scelta del legislatore comunitario di
utilizzare il termine disabilità, e non un altro, è tesa chiaramente
12 C. giust. 11 luglio 2006, causa C-13/05, Sonia Chacón Navas c. Eurest
Colectividades SA.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 73
© 2017 ADAPT University Press
ad indicare l’intenzione dello stesso di escludere dall’ambito di
applicazione della direttiva quelle malattie, di cui soffra il
lavoratore, non ancora catalogate come invalidanti a livello
amministrativo. La Corte rifiuta, dunque, un’equiparazione pura
e semplice dei due concetti, giungendo così alla conclusione
secondo cui la tutela contro la discriminazione fondata sulla
disabilità non possa estendersi in via analogica alla malattia.
Tuttavia, più recentemente, la Corte di giustizia, nella sentenza
Danmark (13), nonostante non lo si affermi espressamente,
realizza un vero e proprio cambio di rotta rispetto a quanto
affermato nella sentenza Chacón Navas, il che rappresenta un
cambiamento di enorme rilevanza concettuale, soprattutto per gli
Stati in cui viene negata l’equiparazione tra malattia e disabilità
(Spagna, Germania e Italia), con una molteplicità di conseguenze
pratiche in diversi settori. In primo luogo, la Corte precisa che il
concetto di disabilità debba essere interpretato in modo tale da
farvi rientrare ogni «condizione patologica causata da una
malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale
malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da
menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con
barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva
partecipazione della persona interessata alla vita professionale su
base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di
lunga durata» (punto 47).
Quel che conta nel concetto di disabilità è l’esistenza di un limite
alla piena partecipazione alla vita professionale, che sia causa di
una riduzione della capacità del lavoratore, indipendentemente
13 C. giust. 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK
Danmark, che agisce per conto del Jette Ring c. Dansk almennyttigt Boligselskab (C-
335/11) e HK Danmark, che agisce per conto del Lone Skouboe Werge c. Dansk
Arbejdsgiverforening che agisce per conto del Pro Display A/S (C-337/11), in Boletín
ADAPT, 2015, n. 3.
74 Silvia Fernández Martínez
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dalla ragione che ne è alla base. Questa stessa posizione si ritrova
nella sentenza Fag og Arbejde (FOA) della Corte di giustizia (14). Se
ciò si verifica, la malattia potrà ricondursi all’ambito di
applicazione della direttiva 2000/78/CE. Quel che determina
questa sentenza non è una totale equiparazione dei concetti di
malattia e disabilità, bensì la creazione di una terza categoria: la
malattia di lunga durata che produce limitazioni nella vita
professionale del lavoratore. È quest’ultima tipologia, e non la
malattia genericamente intesa, che si assimila al concetto di
disabilità, rientrando, di conseguenza, nell’ambito di applicazione
della direttiva. Detta equiparazione produce effetti sulla
qualificazione del licenziamento della persona che soffre di una
malattia cronica, che potrà considerarsi, soltanto, o valido o nullo
in quanto discriminatorio. Nel caso in cui non ricorrano tutti i
requisiti necessari a considerare valido il licenziamento, il giudice
non avrà altra possibilità che dichiararlo nullo, con il conseguente
obbligo, in capo al datore di lavoro, di reintegrare il lavoratore.
Verrebbe meno, dunque, la possibilità di risolvere il contratto di
lavoro del lavoratore che soffra di una malattia cronica mediante
pagamento di un indennizzo economico, quale effetto della
qualificazione del licenziamento come illecito per mancanza di
un giustificato motivo.
3. Obbligo di adattamento del posto di lavoro
L’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE prevede l’obbligo in capo
al datore di lavoro di effettuare gli adattamenti opportuni
affinché le persone disabili possano accedere al lavoro, prendervi
14 C. giust. 18 dicembre 2014, causa C-354/13, Fag og Arbejde (FOA) c.
Kommunernes Landsforening (KL).
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 75
© 2017 ADAPT University Press
parte, crescere professionalmente o essere formate. Tra le
modalità attraverso cui possono realizzarsi tali adattamenti, la
norma individua, fra le altre, l’adeguamento dei locali, delle
attrezzature, dei ritmi di lavoro, l’assegnazione di particolari
mansioni o la predisposizione di servizi di formazione e
inquadramento. L’estensione di tale obbligo gravante sul datore
di lavoro ai casi in cui il lavoratore soffra di una malattia cronica
dipende dall’assimilazione di quest’ultima alla disabilità,
nonostante questa si sia realizzata con il caso Danmark. Sebbene
questa sentenza non abbia trovato applicazione normativa negli
Stati che in precedenza non riconoscevano tale tutela ai malati
cronici, il tentativo di realizzare gli opportuni adattamenti è un
tratto comune a tutti gli Stati nell’ambito della valutazione di
legittimità del licenziamento oggettivo per incapacità
sopravvenuta del lavoratore malato. L’obbligo di adattamento
viene a rappresentare, così, la più importante tutela di cui quei
lavoratori godono contro il licenziamento.
Nel Regno Unito, dove i malati cronici ricevono la medesima
tutela delle persone con disabilità, nessun problema si pone con
riferimento all’obbligo del datore di lavoro di realizzare gli
adattamenti necessari previsti ai sensi della direttiva
2000/78/CE, essendo quest’ultimo espressamente ricompreso
nell’Equality Act del 2010 (sezioni 20-21). Poiché, tuttavia, tale
disposizione non procede all’elencazione delle misure da
considerarsi adattamenti opportuni, per determinare quale sia il
grado di ragionevolezza in ciascuna situazione concreta, il giudice
dovrà fare riferimento alle persone che occupino la medesima
posizione del lavoratore malato e che non siano affette da
disabilità (15), potendo considerarsi ragionevoli quegli adattamenti
15 La disposizione parla di individuazione dello “step”, vale a dire di un
termine di paragone.
76 Silvia Fernández Martínez
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destinati ad evitare una situazione di svantaggio a carico della
persona malata rispetto a quella che si trovi in una condizione
analoga. Dette misure comprenderebbero, tra le altre,
l’adeguamento dei tempi e dei metodi di lavoro all’interno
dell’impresa (16).
Al contrario di quanto ci si possa aspettare, anche nel resto degli
Stati in cui ai malati cronici non si applica la normativa relativa
alle persone con disabilità, il datore di lavoro è obbligato ad
adattare il lavoro alla persona, in particolare per quanto riguarda
la progettazione delle postazioni, così come la scelta delle
attrezzature e dei metodi di lavoro e produzione. Ciò si deve alla
trasposizione dell’articolo 6, § 2, lettera d, della direttiva
89/391/CEE del 12 giugno 1989 (17), relativa all’applicazione di
misure finalizzate alla promozione del miglioramento della salute
e sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro all’interno dei vari
ordinamenti giuridici nazionali.
In particolare, per quanto riguarda la Spagna, dove l’obligo di
adattamento è previsto dall’articolo 15, comma 1, lettera d, della
ley n. 31/1995 de prevención de riesgos laborales, l’articolo 25 della
stessa legge impone al datore di lavoro di garantire in modo
specifico la protezione di quei lavoratori i quali, in ragione delle
loro personali caratteristiche, risultino particolarmente sensibili ai
rischi derivanti dal lavoro. In concreto, non potranno essere
destinati a quei posti di lavoro che espongano a situazioni di
pericolo se stessi o i propri colleghi. Di conseguenza, una volta
che il medico responsabile della sorveglianza sanitaria dichiari il
lavoratore «idoneo, ma con limitazioni», allo svolgimento delle
proprie mansioni, il datore di lavoro dovrà procedere ad adattare
16 A. LAWSON, Disability and Employment in the Equality Act 2010: Opportunities
Seized, Lost and Generated, in ILJ, 2011, vol. 40, n. 4, 364. 17 In Boletín ADAPT, 2015, n. 3.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 77
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la postazione di lavoro e, ove questo non sia possibile, assegnarlo
ad altra che non preveda l’esposizione a detti rischi. I malati
cronici possono considerarsi ricompresi nella categoria dei
lavoratori particolarmente sensibili e, dunque, tra gli aventi diritto
a queste tutele. La dottrina segnala che nel caso in cui la
trasformazione del posto di lavoro risultasse impossibile si
potrebbe accedere ai meccanismi di mobilità funzionale o
geografica, o alla modifica sostanziale delle condizioni di lavoro
(18). A parere della giurisprudenza, invece, in mancanza di una
protezione specifica per i malati cronici, in capo al datore di
lavoro non sussiste un obbligo assoluto di adattamento del posto
di lavoro alla persona, bensì solo in relazione all’attività di
impresa e al processo produttivo, non potendosi esigere che lo
stesso offra al lavoratore un nuovo posto di lavoro (19).
Una regolazione normativa simile a quella spagnola esiste in Italia
(20) e in Francia (21), anche se gli orientamenti della
giurisprudenza e della dottrina vanno in un’altra direzione. Nel
18 D. TOSCANI GIMÉNEZ, M. ALEGRE NUENO, El despido por ineptitud del
trabajador, Tirant Lo Blanch, 2009, 110. 19 Tribunal superior de justicia de Navarra 25 marzo 2009, n. 442/2008. 20 L’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008 stabilisce che, nel caso in cui il lavoratore
sia ritenuto da un medico inidoneo allo svolgimento delle mansioni
specifiche del proprio posto di lavoro, il datore di lavoro è obbligato ad
adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a
mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni
di provenienza. La medesima tutela è contenuta nell’art. 4 della l. n.
68/1999 sul diritto al lavoro dei disabili, il quale prevede l’obbligo in capo
al datore di lavoro di adattare il posto di lavoro in caso di incapacità
sopravvenuta del lavoratore. 21 Dove l’art. L1226-2 del Code du travail prevede l’obbligo per il datore di
lavoro di realizzare gli adattamenti necessari affinché il lavoratore rimanga
nell’impresa una volta che il medico del lavoro abbia dichiarato impossibile
il ritorno dello stesso al suo precedente posto di lavoro.
78 Silvia Fernández Martínez
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caso dell’Italia, la dottrina ritiene che dall’interpretazione del
combinato disposto della normativa in materia di salute e
sicurezza dei lavoratori e di quella relativa alle persone con
disabilità, in rapporto con il decreto legislativo n. 216/2003, che
recepisce la direttiva 2000/78/CE all’interno dell’ordinamento
giuridico italiano, debba desumersi che l’adattamento del posto di
lavoro non solo comprenda il trasferimento del lavoratore ad
altro posto già esistente, ma possa anche comportare delle
modifiche al modello organizzativo d’impresa ai fini della
conservazione del posto di lavoro da parte di quest’ultimo (22).
Detta interpretazione è in linea con l’ampia nozione di
“adattamenti ragionevoli” presente nella Convenzione Onu sui
diritti delle persone con disabilità del 2006 che definisce gli
adattamenti ragionevoli nell’articolo 2: «per adattamenti
ragionevoli si intenderanno le modifiche e gli adeguamenti
necessari ed appropriati che non impongano un onere
sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in
casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il
godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di
tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali», ed è confermata
dalla sentenza della Corte di giustizia del 4 luglio 2013 (23).
L’obbligo di repêchage configurato per la Corte di cassazione come
l’obbligo di adattamento del posto di lavoro prima di procedere
al licenziamento oggettivo del lavoratore (24) è espressione della
“intangibilità” dell’organizzazione aziendale e, di conseguenza,
dell’impossibilità di imporre al datore di lavoro l’obbligo di
realizzare modifiche nella stessa. Questa prospettiva verrebbe in
tal modo superata ritenendo che le modifiche ai modelli
22 S. GIUBBONI, op.cit., 306. 23 Causa C-312/11, Commissione europea c. Repubblica italiana. 24 Cass. 7 agosto 1998, n. 7755.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 79
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organizzativi fossero da ricomprendersi nella nozione ampia di
adattamenti ragionevoli di cui alla Convenzione. La
giurisprudenza francese accoglie questa impostazione e segnala
che l’obbligo di adattamento non può ritenersi rispettato a fronte
della sola constatazione dell’impossibilità di assegnare il
lavoratore ad altro posto di lavoro esistente nell’impresa,
prevedendo invece l’obbligo per il datore di lavoro di realizzare,
secondo le indicazioni fornite dal medico del lavoro, gli
opportuni adattamenti al sistema organizzativo d’impresa, per
esempio mediante la modifica dell’orario di lavoro (25).
Nonostante quanto affermato dalla dottrina, esistono in Italia
sentenze che continuano a sostenere che l’introduzione di una
modalità di lavoro non presente nell’impresa non sia da
ricomprendersi tra gli adattamenti ragionevoli cui è tenuto il
datore di lavoro (26).
Tuttavia, anche ove si accetti un’interpretazione ampia della
nozione di “adattamenti ragionevoli”, l’obbligo di adeguare il
posto di lavoro non può avere carattere assoluto e
incondizionato, posto che la stessa direttiva 2000/78/CE
esonera il datore di lavoro da tale obbligo nel caso in cui lo stesso
comporti un onere eccessivo. La valutazione della sproporzione
della misura dovrà essere effettuata in funzione della dimensione,
delle risorse finanziarie e del volume di affari dell’impresa. La
direttiva precisa, però, che il costo non potrà essere considerato
eccessivo nel caso in cui si ricevano fondi pubblici per questo
scopo precipuo. La Corte di giustizia, nella sentenza Danmark,
sottolinea che la stima dell’onere a carico del datore di lavoro per
l’adattamento del posto di lavoro è compito che spetta ai
tribunali di ciascuno Stato membro.
25 Cour de cassation 16 septembre 2009, n. 08-42212. 26 Trib. Ferrara 22 ottobre 2008, n. 219.
80 Silvia Fernández Martínez
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4. Malattie croniche e inidoneità sopravvenuta. Il
licenziamento oggettivo
La possibilità di licenziare liberamente un lavoratore non esiste in
nessuno degli Stati oggetto del presente studio, e ciò in quanto,
in linea con la convenzione ILO n. 158/1982 relativa
all’interruzione del rapporto di lavoro per iniziativa del datore di
lavoro, si segue la teoria della causalità, secondo la quale affinché
un licenziamento sia legittimo deve sussistere un motivo valido.
Le ragioni che giustificano un licenziamento possono avere
distinta natura ed essere relazionate con la figura del lavoratore o
con le circostanze dell’impresa. La classificazione delle cause di
licenziamento viene effettuata in modo diverso nei vari Stati
dell’Unione europea. Una delle possibilità consiste nella
suddivisione in due gruppi, includendo, nel primo, le circostanze
personali del lavoratore rilevabili in maniera oggettiva, vale a dire
a condizione che quest’ultimo non abbia colpa, e le circostanze
economiche; e, nel secondo, i casi in cui il licenziamento sia
dovuto, invece, alla presenza di colpa. È questo il caso di Spagna
e Italia, mentre in Francia, benché anche qui si individuino due
gruppi di cause, queste si dividono in modo diverso: da una
parte, si collocano quelle relazionate con la persona del
lavoratore, – comprensive sia dei casi in cui ricorre colpa del
lavoratore, sia di quelli di carattere oggettivo – e, dall’altra, quelle
di natura economica. In Germania si distinguono due tipi di
motivi che giustificano il licenziamento: quelli relazionati con la
persona o con il suo comportamento e quelli economici (27).
27 M. PEDRAZZOLI (a cura di), Le discipline dei licenziamenti in Europa.
Ricognizioni e confronti, Franco Angeli, 2014, 296.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 81
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Caso totalmente distinto è quello del Regno Unito, in cui
l’Employment Relations Act del 1996 individua le cause che possono
dar luogo ad un licenziamento valido (fair dismissal) senza
utilizzare le classificazioni presenti negli altri Stati, bensì
accorpando, ad esempio, le circostanze relazionate con la
persona del lavoratore a quelle che determinano la cessazione del
contratto a tempo determinato. Paiono confondersi, in tal modo,
le cause soggettive e oggettive di licenziamento.
Questo quadro generale della disciplina del licenziamento risulta
utile ai fini del presente studio, in particolare per determinare
quale sia la via da percorrere per estinguere il rapporto di lavoro
di un lavoratore parzialmente inabile al lavoro a causa della
malattia di cui soffre. In mancanza di colpa da parte di
quest’ultimo, il licenziamento potrà realizzarsi unicamente
attraverso la modalità basata sulle circostanze personali
oggettivamente rilevabili, che in Spagna e in Italia ricevono il
nome di licenziamento oggettivo. In linea generale, questo tipo di
licenziamento si giustifica con il fatto che il lavoratore perde le
capacità necessarie per svolgere le mansioni tipiche del proprio
posto di lavoro, circostanza, questa, che può dipendere da
diverse cause, ma non da un colpevole inadempimento
lavorativo.
Il licenziamento dovuto a circostanze personali del lavoratore
viene regolato diversamente nei vari ordinamenti giuridici
europei. Nella maggior parte degli Stati la regolamentazione
avviene in modo generico, vale a dire senza che vengano raccolte
in un elenco tassativo le possibili cause dello stesso. È quanto
avviene, ad esempio, in Francia e Italia, in cui l’obiettivo è quello
di attribuire una più ampia discrezionalità al giudice rispetto al
caso concreto. Per quanto riguarda la Spagna, invece, l’ET
effettua un elenco delle cause di questo tipo che giustificano
l’estinzione del rapporto di lavoro, tra le quali si trovano
82 Silvia Fernández Martínez
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ricomprese l’inidoneità sopravvenuta del lavoratore e le assenze
dal lavoro a carattere intermittente. In tal modo, e con
riferimento all’oggetto del presente lavoro, negli Stati in cui non
si utilizza il sistema dell’elenco, la possibilità di addurre
l’inidoneità del lavoratore quale causa di licenziamento per
giustificato motivo è stata creata a livello dottrinale e
giurisprudenziale.
In particolare, in Francia il Code du travail (articolo L1232-1) si
limita a prevedere che, affinché il licenziamento basato su motivi
personali sia valido, debba ricorrere una cause réelle et sérieuse, senza
però fornire una definizione della stessa. A colmare un tale vuoto
è intervenuta la dottrina, delineando i contorni della fattispecie e
stabilendo che, affinché la causa possa considerarsi reale,
debbano ricorrere tre requisiti: oggettività (fatti oggettivi e
determinati, suscettibili di tradursi in manifestazioni esteriori
concretamente verificabili); certezza (fatti realmente esistenti e
suscettibili di essere provati in giudizio); esatta corrispondenza (i
motivi addotti dal datore di lavoro devono corrispondere
esattamente a quelli del licenziamento). Quando si richiede che la
causa sia seria, si intende che questa sia di una certa gravità, vale a
dire tale da rendere impossibile la prosecuzione del contratto di
lavoro, risultando il licenziamento l’unica via percorribile per
evitare un danno all’impresa. La giurisprudenza fa rientrare la
insuffisance professionnelle, relativa allo scarso rendimento, e la
insuffisance de résultats, relativa al mancato raggiungimento di
risultati, tra i motivi di carattere personale che giustificano il
licenziamento oggettivo, a condizione che siano rilevabili
mediante circostanze oggettive e verificabili e producano
ripercussioni negative sull’organizzazione del lavoro. Nei casi in
cui la malattia dia luogo a tali mancanze dal punto di vista
professionale, sia per la perdita di capacità lavorative, sia per il
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 83
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maggior numero di assenze che essa comporta, il datore di lavoro
potrà licenziare il lavoratore.
Neppure in Italia si elencano le cause di licenziamento oggettivo,
visto che l’articolo 3 della legge n. 604/1966 sui licenziamenti
individuali si limita a prevedere la possibilità che il datore di
lavoro licenzi il lavoratore a fronte dell’esistenza di un motivo
oggettivo, in caso di notevole inadempimento dei suoi obblighi
contrattuali, o per ragioni inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro o al regolare funzionamento
dell’azienda, senza formulare, però, alcun esempio. È questo il
motivo per cui si attribuisce alla giurisprudenza il compito di
delineare le cause del licenziamento oggettivo. La malattia può
giustificare il licenziamento per due ragioni differenti, vale a dire
per incapacità sopravvenuta del lavoratore (28) o per scarso
rendimento. In primo luogo, per potersi considerare ricompresa
la malattia cronica nell’ambito del concetto di inidoneità
sopravvenuta, la giurisprudenza italiana ha evidenziato come non
sia sufficiente che il lavoratore soffra di una malattia per
dichiararlo inidoneo, bensì è necessario che la stessa sia tale da
comportare una incapacità in relazione allo svolgimento delle
mansioni tipiche del posto di lavoro. Non potrà prescindersi,
dunque, dall’analisi della fattispecie concreta e, ad ogni modo, in
nessun caso un licenziamento oggettivo basato sul fatto di
soffrire di una malattia, qualunque essa sia, potrà considerarsi
lecito se questa non comporta una perdita di capacità da parte del
lavoratore. In secondo luogo, per quanto riguarda lo scarso
rendimento, questo può derivare dall’assenza reiterata dal lavoro
a causa del fatto di soffrire di una malattia, e ciò anche quando,
pur non essendo stato superato il periodo di comporto, sia
comunque venuta meno l’utilità della prestazione per il datore di
28 Cass. n. 7755/1998, cit.
84 Silvia Fernández Martínez
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lavoro, il quale, dunque, avrebbe una ragione oggettiva per
licenziare (29). Le assenze reiterate, benché non volontarie,
comportano un calo del rendimento ogni qualvolta il datore di
lavoro dimostri che le stesse determinano uno squilibrio tra gli
obiettivi di produzione fissati nel contratto di lavoro e quelli
effettivamente conseguiti dal lavoratore malato, utilizzando come
termine di paragone la media dei risultati complessivi del resto
dei lavoratori. In tal caso, dunque, il licenziamento non si basa
sulla malattia del lavoratore ma sull’assenza dal lavoro che la
stessa determina, nonché sugli effetti negativi che ne conseguono
in termini di produttività aziendale.
Esiste in Italia una tesi dottrinale secondo cui il fatto che la legge
n. 604/1966 faccia riferimento espresso a situazioni oggettive sta
a significare che debba prescindersi totalmente dalla figura del
lavoratore, le cui circostanze personali in nessun caso potrebbero
giustificare un licenziamento di questo tipo, dovendo piuttosto
ricorrere ai principi generali del diritto delle obbligazioni. In tal
senso, l’articolo 2110 c.c. prevede la possibilità per il datore di
lavoro di recedere dal contratto una volta decorso il periodo di
comporto, senza necessità di provare l’esistenza di una ragione
oggettiva, l’incapacità sopravvenuta del lavoratore o
l’impossibilità di assegnarlo a un differente posto di lavoro.
In Germania è contemplata la possibilità di ricondurre al
licenziamento oggettivo per motivi personali quelle circostanze
in cui il lavoratore soffra di una malattia che gli impedisca di
prestare servizio nei termini contrattualmente pattuiti o che, in
previsione di un probabile aggravamento, si ritiene possa
produrre tali effetti in futuro (articolo 8
dell’Entgeltfortzahlungsgesetz – EFZG) (30). In tal senso, la malattia
29 Cass. 4 settembre 2014, n. 18678. 30 Si veda R. SANTAGATA, op.cit., 890.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 85
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determina la risoluzione del contratto di lavoro ogni qualvolta
l’interesse dell’impresa sia soggetto a notevole pregiudizio. La
giurisprudenza segnala i requisiti di cui tener conto laddove si
intenda procedere al licenziamento di un lavoratore basato sulla
sua malattia: l’esistenza di una prognosi negativa e di un serio
pregiudizio per gli interessi dell’impresa e del datore di lavoro
(31). Spetterà dunque al giudice, all’esito della ponderazione degli
interessi in conflitto per ciascun caso concreto, pronunciarsi sulla
liceità del licenziamento. Quest’ultimo si riterrà parimenti
giustificato quando si verifichi un calo del rendimento dovuto
alla malattia o alle assenze che ne conseguono, quando vi sia
prova, in entrambi i casi, dell’impossibilità di un ricollocamento
del lavoratore.
In Spagna, benché l’inidoneità sopravvenuta del lavoratore trovi
espresso richiamo nell’articolo 52, comma 1, ET tra i motivi che
giustificano il licenziamento oggettivo, in mancanza, però, di una
definizione della stessa, è spettato a dottrina e giurisprudenza,
come avvenuto in Italia, Francia e Germania, fornirne una
definizione. Viene dunque stabilito che la stessa debba essere:
1) a carattere permanente e non meramente temporanea;
2) reale e non simulata, posto che ciò comporterebbe un
inadempimento contrattuale da parte del lavoratore;
3) a carattere generale, vale a dire tale da incidere sul complesso
delle mansioni assegnate o, quantomeno, sulle principali e
prevalenti, quelle, cioè, che rappresentano il contenuto essenziale
dell’attività lavorativa;
4) di sufficiente entità, tale da comportare una capacità inferiore
alla media (32). Per misurare il rendimento normale di lavoro si
31 LAGA, International Dismissal Survey, 2012, 55. 32 In questo senso, V. MANTECA VALDELANDE, Despido en que la causa
aducida por la empresa no se corresponde con la causa real del despido, in Actualidad
Jurídica Aranzadi, 2008, n. 758, 3.
86 Silvia Fernández Martínez
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può fare riferimento a parametri oggettivi sulla produttività in
alcune aziende, ovvero ai contratti collettivi che contengono
regole per rilevare la produzione corrispondente a un
determinato periodo di tempo;
5) imputabile al lavoratore, anche se indipendente dalla sua
volontà, per cui non può essere dovuta ad una organizzazione
difettosa degli strumenti di lavoro.
Pertanto, nella misura in cui la malattia cronica del lavoratore gli
impedisca di svolgere le mansioni tipiche del proprio posto di
lavoro con conseguente riduzione del proprio rendimento,
sempre che ricorrano i requisiti individuati dalla giurisprudenza e
dalla dottrina, il rapporto di lavoro potrà essere lecitamente
risolto mediante licenziamento oggettivo per inidoneità
sopravvenuta, e ciò in quanto, venuta meno la capacità di
svolgere la prestazione pattuita, parimenti viene meno l’obbligo
in capo al datore di lavoro di proseguire nel rapporto (33). Inoltre,
nel caso in cui la malattia dia luogo a episodi di assenteismo,
l’articolo 52, lettera d, ET consente al datore di lavoro di
licenziare il lavoratore per questo motivo, quando cioè si assenti
dal lavoro in modo intermittente, a prescindere dal fatto che
sussista una giustificazione per tali assenze. Ai sensi di tale
articolo, introdotto dal real decreto-ley n. 3/2012 de medidas
urgentes para la reforma del mercado laboral, le assenze devono
raggiungere il 20% dei giorni lavorativi in 2 mesi consecutivi
sempre che il totale, nei 12 mesi precedenti, raggiunga il 5% dei
giorni lavorativi o il 25% in 4 mesi discontinui in un periodo di
12 mesi. In questo caso, dunque, il licenziamento trova
giustificazione nell’elevato costo economico che comportano,
per il datore di lavoro, le continue assenze del lavoratore,
indipendentemente dal motivo che le determina e, di
33 D. TOSCANI GIMÉNEZ, M. ALEGRE NUENO, op.cit., 108.
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 87
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conseguenza, non si basa direttamente sulla malattia ma sugli
effetti che questa produce.
Nel Regno Unito, al pari di quanto avviene in Spagna, la sezione
98 dell’Employment Rights Act del 1996 indica tra le cause che
possono dar luogo ad un licenziamento valido (fair dismissal) la
capacità del lavoratore, facendo però un passo ulteriore rispetto
alla disciplina spagnola nel momento in cui fornisce una
definizione di capacità in rapporto alle abilità del lavoratore, alle
sue attitudini, alla sua salute o ad altre qualità fisiche o mentali.
Ne deriva che, in tal caso, la malattia rientra perfettamente nella
fattispecie del licenziamento del lavoratore dovuto a perdita della
sua capacità.
Affinché il licenziamento sia valido, oltre al venir meno della
capacità del lavoratore di svolgere le mansioni tipiche del proprio
posto di lavoro, il datore di lavoro deve aver constatato
l’impossibilità di realizzare quei ragionevoli adattamenti che
potrebbero consentirne la permanenza in azienda. Detta esigenza
è sorta in Italia, Germania, Spagna e Francia a livello
giurisprudenziale, non essendovi, infatti, alcuna norma che lo
preveda. In Italia con le sentenze della Corte di cassazione del 14
giugno 2005, n. 12769, e del 2 agosto 2013, n. 18535. Nel caso
della Spagna la sentenza del Tribunal superior de justicia di
Madrid del 14 gennaio 2013, n. 4701/12, segnala che l’obbligo di
adattamento imposto dalla ley n. 31/1995 non è meramente
teorico, bensì trattasi di una disposizione imperativa, di modo
tale che il datore di lavoro non può limitarsi a licenziare per
inidoneità sopravvenuta senza avervi adempiuto (34). Dal canto
suo, nel Regno Unito la sezione 21 dell’Equality Act del 2010
34 In tal senso, A. MORENO SOLANA, Las diversas controversias que se plantean
en torno a los trabajadores especialmente sensibles, in Revista de Información Laboral,
2014, n. 7, 112.
88 Silvia Fernández Martínez
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segnala espressamente che il datore di lavoro che non rispetti
l’obbligo di realizzare i ragionevoli adattamenti, quando un
lavoratore soffra di una malattia, commette un atto
discriminatorio. Tuttavia, ove si accerti che la malattia del
lavoratore abbia determinato un’incapacità al lavoro non
colmabile mediante la realizzazione di adattamenti, il datore di
lavoro è legittimato a portare a termine un licenziamento
oggettivo valido, posto che, se gli si imponesse di mantenere un
lavoratore non più in grado di svolgere alcuna delle mansioni
relazionate con l’attività economica dell’azienda, si entrerebbe in
conflitto con il principio della libertà d’impresa. Al contrario,
laddove il licenziamento si basi unicamente sul fatto che il
lavoratore soffra di una malattia e il datore di lavoro non abbia
verificato l’influenza che questa produce sull’idoneità al lavoro
dello stesso ovvero non abbia provato a realizzare gli opportuni
adattamenti, quello sarà da considerarsi illecito o nullo, a seconda
che nel singolo Stato esista o meno equiparazione tra malattia
cronica e disabilità.
5. Conclusioni
Dall’analisi delle normative dei vari Stati sul licenziamento basato
su una malattia cronica emerge che, nonostante la tutela di questi
lavoratori sia maggiore in quegli ordinamenti in cui sia
espressamente previsto il divieto di discriminazione in ragione
dello stato di salute, o in quelli in cui la malattia cronica viene
equiparata alla disabilità, neppure in questi casi, tuttavia, esiste un
divieto assoluto di licenziare i malati cronici né un obbligo pieno
di realizzare gli adattamenti necessari a consentir loro di
mantenere il posto di lavoro. Di conseguenza, il fatto di
ricomprendere la malattia tra i motivi di discriminazione non è di
Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata 89
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per sé sufficiente a risolvere il problema dell’uscita di tali
lavoratori dal mercato del lavoro.
Nel caso in cui il lavoratore soffra di una malattia cronica che
non gli consenta di svolgere il proprio lavoro allo stesso modo di
prima, entrano in conflitto due interessi meritevoli di protezione:
da un lato, la libertà d’impresa e, dall’altro, il diritto
all’uguaglianza di questi lavoratori. Pertanto, l’imposizione di un
obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di mantenere il
lavoratore che ha perduto la propria capacità di svolgere le
mansioni tipiche dell’attività economica dell’azienda risulterebbe
incompatibile con la libertà d’impresa.
La soluzione per cercare di trovare un punto di equilibrio tra gli
interessi del lavoratore e del datore di lavoro passerebbe per la
messa in atto di politiche attive del lavoro, che aiutino a
potenziare le capacità di cui i malati cronici sono ancora dotati,
piuttosto che concentrarsi su quelle che hanno perduto. Soltanto
così al datore di lavoro può risultare attrattivo mantenere il
lavoratore presso la propria azienda. Il ricorso a politiche attive
del lavoro svolge un ruolo chiave per permettere la
conservazione del posto di lavoro da parte dei malati cronici, a
fronte dell’incidenza che stanno avendo e che sempre più
avranno in futuro le malattie di questa natura, aiutando anche a
garantire, in tal modo, la sostenibilità dei sistemi di previdenza
sociale.
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Sezione I
MALATTIE CRONICHE:
ASPETTI DEFINITORI
Equiparazione malattie croniche
e disabilità: una via per riconoscere maggiori
tutele ai malati cronici?*
di Silvia Fernández Martínez
Una delle questioni principali rispetto alla tematica delle malattie
croniche è la difficoltà di stabilire un concetto chiaro di
malattia cronica a livello giuridico. Detta criticità deriva della
mancanza di una regolazione ad hoc nell’ordinamento giuridico
italiano, situazione che dà luogo a una grande incertezza
giuridica quando si tratta di determinare quali sono i diritti
specifici dei lavoratori affetti da malattie croniche. Tentativi
di regolazione di questo fenomeno sono stati realizzati, di recente
con l’art. 8 comma 3 decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81,
recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione
della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1,
comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 che ha esteso il
diritto al part-time ai lavoratori affetti da “gravi patologie
cronico-degenerative ingravescenti”, diritto già introdotto
dall’art. 46 del Decreto legislativo n. 276/2003 di attuazione della
c. d. legge Biagi, per i soli lavoratori affetti da patologie
* Pubblicato in Boll. spec. ADAPT, 18 maggio 2016, n. 7.
92 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
oncologiche. Anche se, in questo caso, il legislatore italiano si sta
riferendo alle malattie croniche, manca una vera definizione
tecnica di questo concetto. Pertanto, non si può dire che esista
in Italia un concetto chiaro di malattia cronica a livello
giuridico che consenta di offrire una tutela integrale ai
lavoratori che soffrono di queste malattie.
Di fronte a questa situazione, il principale rischio è quello di
confondere le malattie croniche con altri concetti con i
quali può avere caratteristiche in comune e che siano
destinatari di una regolamentazione ad hoc nell’ordinamento
giuridico italiano e comunitario: in particolare, la disabilità. La
possibilità di far rientrare le malattie croniche nel concetto
di disabilità è un tema al centro del dibattito ormai da qualche
tempo a livello europeo in conseguenza di alcune sentenze della
Corte di giustizia europea (si veda C. giust 11 aprile 2013, causa
C-335/11 e C-337/11, HK Danmark e C. giust 18 dicembre
2014, causa C-354/13, Fag of Arbejde). In queste sentenze, l’alto
Tribunale utilizza una definizione ampia di disabilità ispirandosi
nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone
con disabilità ed stabilisce che, nel caso in cui la malattia del
lavoratore comporti una limitazione di lunga durata che possa
ostacolare la sua piena ed effettiva partecipazione nella vita
professionale, rientra nella nozione di disabilità ai sensi della
Direttiva 2000/78, in materia di parità di trattamento.
L’utilizzo di una definizione o un’altra di disabilità non ha effetti
soltanto nell’ambito teorico e concettuale poiché dalla
riconduzione alla nozione dipende tra l’altro l’acceso dei malati
cronici alla protezione antidiscriminatoria.
Equiparazione malattie croniche e disabilità 93
© 2017 ADAPT University Press
La nuova definizione di disabilità utilizzata dalla Corte di giustizia
avrà un impatto particolarmente importante nei Paesi dove non
esiste una definizione così ampia di disabilità. Nel caso dell’Italia,
non esiste un concetto unitario di disabilità, ma esistono
definizioni diverse nelle diverse norme che regolamentano
la questione. Il Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216 di
attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro
non contiene, allo stesso modo della Direttiva, non contiene una
definizione espressa di disabilità. Tuttavia, la legge 1 marzo 2006,
n. 67. Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità
vittime di discriminazioni si riferisce alle persone con disabilità di
cui all’articolo 3 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Legge-
quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate, per tanto, la protezione
antidiscriminatoria si garantisce alle persone che rientrano in
questo concetto di disabilità che è più ampio di quello utilizzato
nella Legge 12 marzo 1999, n. 68. Norme per il diritto al lavoro
dei disabili, per la quale disabili sono soltanto le persone a cui
viene riconosciuto una determinata percentuale di disabilità.
Nessuna delle definizioni di disabilità dell’ordinamento giuridico
è conforme con la definizione utilizzata dalla Corte di giustizia
perché anche la definizione della legge 104 richiede
l’accertamento dell’esistenza di limitazioni. Per questo motivo, si
pone il problema della necessità di interpretare la definizione
di disabilità a effetti di tutela antidiscriminatoria d’accordo
con quanto stabilito dalla Corte di giustizia.
Le ultime sentenze della Corte di giustizia assimilano la
malattia di lunga durata alla disabilità unicamente
nell’ambito della parità di trattamento e non
94 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
discriminazione posto che in dette sentenze, la Corte sta
interpretando il concetto di disabilità ai sensi della Direttiva
2000/78. L’equiparazione che realizza la Corte di giustizia ha,
pertanto, effetti limitati a questo ambito e per questo motivo,
sussisterebbero concetti di disabilità diversi all’interno di un
unico ordinamento giuridico: uno a effetti di tutela
antidiscriminatoria, un altro nell’ambito previdenziale e un altro
ancora nell’acceso al lavoro.
Questa situazione potrebbe creare confusioni e differenziazioni
all’interno della categoria ampia dei soggetti considerati disabili,
che lo potrebbero essere alla luce di una normativa ma non di
un’altra.
In particolare, nel caso dei malati cronici, anche se questi
potrebbero essere considerati disabili secondo la
definizione della Corte di giustizia ed avere accesso alle
tutele in materia antidiscriminatoria previste nel Decreto
Legislativo 9 luglio 2003, n. 216, così come integrato dal
Decreto-legge 28 giugno 2013, non avranno acceso alle
tutele previste nella Legge 12 marzo 1999, n. 68, tra le quali,
il collocamento mirato.
Sebbene, la possibilità di far rientrare le malattie croniche nel
concetto di disabilità per via interpretativa sembra essere
l’opzione più adeguata a legislazione vigente per poter offrire
protezione antidiscriminatoria ai malati cronici, questo porta a
confusioni dal punto di vista terminologico. Anche se questa
equiparazione consente ai malati cronici di accedere agli
accomodamenti ragionevoli e, pertanto, dà loro più possibilità di
conservare il proprio posto di lavoro, per evitare l’esistenza di
concetti di disabilità diversi, una soluzione potrebbe essere quella
Equiparazione malattie croniche e disabilità 95
© 2017 ADAPT University Press
di includere la malattia cronica come motivo di
discriminazione vietato nella Direttiva 2000/78 e nella
normativa a livello nazionale. In questo modo, i malati cronici
potrebbero avere accesso alla tutela in materia antidiscriminatoria
come una categoria a sé, e non attraverso l’equiparazione alla
disabilità.
© 2017 ADAPT University Press
Persone con malattie croniche
nel mondo del lavoro in Europa e
modello biopsicosociale della disabilità.
Il progetto PATHWAYS*
di Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
Transizione epidemiologica e malattie croniche
Nell’ultimo secolo sono aumentate le patologie croniche,
fenomeno noto come transizione epidemiologica, e si assiste ad un
progressivo invecchiamento della popolazione dovuto
all’innalzamento della aspettativa di vita in molti Paesi. Durante
l’invecchiamento si ha anche una concentrazione di patologie
croniche che prende il nome di compressione della morbidità. Questo
cambiamento epidemiologico globale, con un aumento delle
malattie croniche non trasmissibili, costringe a focalizzare
l’attenzione sulle conseguenze delle malattie, anziché fossilizzarsi
solo sulla diagnosi, sul trattamento e sulla terapia. La diagnosi da
sola infatti non può predire quali siano i bisogni reali delle
persone o il loro effettivo livello di funzionamento. Secondo i
più recenti dati del Global Burden on Disease Study (GBD), le
malattie non trasmissibili rappresentano la principale causa di
malattia e disabilità al mondo (circa il 78%), in particolare nei
* Pubblicato in Boll. spec. ADAPT, 18 maggio 2016, n. 7.
Il progetto PATHWAYS 97
© 2017 ADAPT University Press
Paesi più sviluppati, quali quelli europei, dove tale percentuale è
pari ad 87%.
Malattie croniche e disabilità alla luce del modello
biopsicosociale
Il rischio attuale della medicina, sempre più incentrata sul
risultato come intervento risolutivo, è quello di perdere di vista la
totalità del paziente inteso come persona e concentrarsi
solamente sulla malattia. Talvolta, quando essa risulta cronica e
inguaribile, la medicina tende erroneamente a considerare
esaurito il proprio compito. Fermarsi alla diagnosi e non
considerare il funzionamento di una persona fa perdere di vista
tutto quello che è invece possibile fare per curare, “prendersi
cura” anche se non si può guarire.
Nel maggio 2001 l’OMS ha pubblicato la Classificazione
Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità
(ICF), riconosciuta da 191 Paesi come il nuovo strumento per
descrivere la salute e la disabilità delle popolazioni. La
Classificazione ICF permette, attraverso la definizione di un
linguaggio comune, di far dialogare diverse professionalità e di
descrivere olisticamente la persona nella sua complessità. Tale
quadro descrittivo rappresenta, unito alla diagnosi, il primo step
per la definizione di una possibile presa in carico e di una
successiva definizione degli interventi possibili per sostenere un
soggetto in difficoltà a causa di una condizione di salute.
Le caratteristiche della classificazione, i costrutti teorici che ne
stanno alla base ed i suoi molteplici risvolti applicativi
costituiscono le ragioni per cui l’ICF è in grado di racchiudere ed
organizzare in un unico strumento ed in maniera completa le
informazioni relative alla condizione di salute e di funzionamento
98 Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
www.bollettinoadapt.it
globale di ciascun individuo. Il modello teorico della
Classificazione ICF soddisfa innanzitutto la necessità di
considerare la globalità delle dimensioni coinvolte nello sviluppo,
proprio perché categorizza in maniera sistematica e completa una
serie vastissima di informazioni che si possono raccogliere per
descrivere le condizioni di salute di ciascun individuo. L’ICF
considera e classifica le funzioni e le strutture corporee, le attività
ed il grado di partecipazione dell’individuo nei contesti di vita
quotidiana e, per la prima volta, introduce la descrizione dei
fattori contestuali, relativi all’ambiente fisico e sociale con cui
l’individuo entra in contatto. Pur non classificandole per la loro
estrema soggettività, l’ICF suggerisce e sottolinea inoltre la
possibile influenza che le caratteristiche personali possono avere
nella determinazione di una data condizione di salute. In questo
senso l’ICF non deve essere assolutamente considerato una
classificazione delle persone, ma delle caratteristiche della salute
all’interno del contesto delle situazioni di vita individuali e degli
impatti ambientali. Secondariamente, l’ICF fornisce una
descrizione assolutamente specifica delle caratteristiche di salute
e funzionamento dell’individuo, secondo le sue peculiari
caratteristiche personali e contestuali. La raccolta di informazioni
che si può ottenere tramite le checklist ICF, è paragonabile ad
una istantanea che coglie gli aspetti propri della condizione di
salute attuale dell’individuo, mettendo in relazione non le
caratteristiche generiche di una data patologia, bensì gli esiti e
l’impatto che quella determinata condizione di salute può avere
su ciascun individuo in relazione anche agli aspetti ambientali che
caratterizzano la sua vita. Nella Classificazione ICF infatti i
fattori ambientali vengono considerati per la prima volta come
elementi determinanti nella condizione di salute di un individuo.
La disabilità nell’ICF si svincola dall’identificazione con una
diagnosi e diventa un concetto relazionale e multidimensionale
Il progetto PATHWAYS 99
© 2017 ADAPT University Press
caratterizzandosi, in sintesi, con il risultato negativo delle
interazioni fra menomazioni delle strutture e funzioni del corpo
(caratteristiche di salute), limitazioni delle attività, restrizioni della
partecipazione e fattori contestuali (personali o ambientali), che
possono fungere da barriere, limitando il funzionamento della
persona e creando disabilità, oppure da facilitatori.
Nel modello biopsicosociale alla base dell’ICF, è l’intera persona
con i suoi problemi e con le sue capacità, la tutela della qualità di
vita e il suo benessere che vengono presi in considerazione,
individuando gli ostacoli da rimuovere e gli interventi da
realizzare in suo favore affinché possa vivere un’esistenza attiva e
serena. L’ICF è uno strumento che permette di riflettere sulla
condizione della persona e proprio in questo consiste la
rivoluzione concettuale introdotta. Ragionando e utilizzando la
terminologia innovativa dell’ICF è possibile concludere che la
disabilità diventa un problema che tutte le persone possono
incontrare poiché tutti, in qualsiasi momento della vita, possono
sperimentare una condizione di salute che in un contesto
ambientale sfavorevole può diventare disabilità. Ciò rappresenta
un richiamo costante alla fragilità della nostra condizione umana,
della nostra struttura corporea e psichica, poiché tutti possiamo,
appunto, considerarci “persone con disabilità” dopo una malattia
o un incidente traumatico in rapporto a un ambiente di vita
sfavorevole. L’ICF perciò riconosce la disabilità come
un’esperienza umana universale, dandone una definizione
innovativa e rivoluzionaria.
Disabilità come risultato di interazione persona-ambiente
Si evidenzia in questo modo l’importanza di un approccio
integrato alla disabilità che, per la prima volta, tiene conto anche
100 Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
www.bollettinoadapt.it
dei fattori ambientali, poiché li classifica in maniera sistematica.
Cambia quella che è l’idea di persona: essa non è definita dalle
qualità che possiede o non possiede, bensì dal suo essere persona
in quanto tale, in tutte le fasi della sua vita. Il merito dell’ICF ai
fini pratici degli interventi multidisciplinari, sta nel far emergere
l’importanza di considerare i fattori ambientali e personali in
un’ottica biopsicosociale, e di fare in modo che gli interventi
stessi tengano conto di tutti i fattori in gioco. L’ICF definisce
infatti il funzionamento non come concetto negativo riferito alle
“abilità residue”, ma va ad indicare gli aspetti positivi
dell’interazione tra l’individuo, nella sua attuale condizione di
salute, ed i fattori contestuali in cui è inserito, che possono essere
ambientali o personali. Il concetto di disabilità rappresenta
invece, secondo l’ICF, gli aspetti negativi dell’interazione tra
l’individuo ed il suo ambiente. L’approccio biopsicosociale alla
disabilità fornisce una visione completa delle dimensioni della
salute a livello biologico, personale, sociale, ed è il risultato
dell’integrazione tra il modello medico e il modello sociale della
disabilità.
Il progetto PATHWAYS 101
© 2017 ADAPT University Press
Figura 1: il modello biopsicosociale di salute e disabilità e le interazioni tra
le componenti dell’ICF. Fonte: Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS, 2002).
Partecipazione e diritti delle persone con disabilità
Il significato “politico” dell’ICF consiste nel fornire una guida e
un modo di lavorare che presentino come un obiettivo per ogni
persona la sua «partecipazione». Il riferimento alla
«partecipazione» in ICF è inteso quale obiettivo per tutte le
persone, e non solo per le “persone con disabilità”.
Il tema della definizione di chi sono le persone con disabilità non
si esaurisce infatti nella contrapposizione tra modello medico e
modello sociale e non può essere risolto semplicemente
attraverso il riferimento al modello biopsicosociale di ICF:
occorre, infatti, anche avere la consapevolezza critica del fatto
che la persona umana non si definisce unicamente per le qualità
102 Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
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che possiede, bensì in forza del suo essere in quanto tale, in tutte
le fasi della sua vita. Tale questione è fondamentale dal momento
che nel panorama attuale, per problemi politici, economici,
sociali e concettuali, molti Paesi non soltanto non riconoscono
appieno i diritti fondamentali e civili delle persone con disabilità,
ma spesso non ne riconoscono nemmeno la qualità di persone.
La difficoltà ad accordarsi su chi siano le persone con disabilità è
emersa chiaramente durante il percorso che ha portato alla
Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità,
approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13
dicembre 2006. In effetti è facile comprendere perché le
questioni relative alla definizione di disabilità siano e restino
molto complesse anche nell’ambito della riflessione sui diritti
umani e dell’ONU. Quando si cerca di comprendere la disabilità
si finisce infatti per riflettere su temi diversi: come definire la
disabilità, chi è la persona con disabilità, a quale popolazione
concretamente si sta pensando e, in fondo, quale immagine della
persona umana implicitamente si è assunta come riferimento.
Le persone con disabilità sono quelle con malattie
croniche?
La distinzione tra “normale” e “non normale” è spesso la radice
delle difficoltà legate ai problemi concettuali qui esposti. In tal
senso è utile porsi delle domande sull’uomo e riflettere sul tipo
medio d’uomo che è stato a lungo considerato, e per alcuni
aspetti lo è ancora, l’unico rappresentante a pieno titolo della
razza umana: esempio di quell’utenza “reale” cui si fa riferimento
nella progettazione a qualsiasi livello, dall’urbanistica al design,
dalla legislazione alla ricerca scientifica. Ora, è certamente
difficile definire le caratteristiche dell’uomo “normale”,
Il progetto PATHWAYS 103
© 2017 ADAPT University Press
soprattutto quando è evidente che non si può fare riferimento
alle consuetudini o ai costumi di una specifica cultura per
elaborare un criterio di valutazione comunemente accettabile.
Ciò che si può dire con certezza, però, alla luce dell’ICF, è che la
distinzione tra “normali” e “disabili” è priva di significato e
assolutamente errata, dal momento che è normale che una
persona possa trovarsi, nell’arco della sua vita, nella condizione di
disabilità – essendo questa data dalla relazione tra una condizione
di salute e le diverse barriere ambientali. Superata, quindi, l’idea
che sia possibile definire realmente l’“uomo normale”, si rende
necessario chiarire un altro equivoco su cui l’ICF getta luce, vale
a dire sull’equazione: disabile = malato. Il concetto stesso di
“persona disabile” come equivalente di persona malata infatti
non è corretto: vi sono persone con disabilità che hanno una
determinata condizione di salute non a seguito di una patologia
progressiva o cronica, ma per cause accidentali (incidenti sul
lavoro, incidenti d’auto ecc.). D’altro canto, all’opposto, a volte si
tende a non considerare la persona malata come persona con
disabilità per il pregiudizio che grava sul concetto di disabilità,
considerato, in vari contesti, secondo un’accezione puramente
negativa. In questo modo una persona cardiopatica, asmatica,
depressa od obesa, ad esempio, difficilmente viene considerata
“una persona con disabilità”, anche se, di fatto, presenta evidenti
difficoltà di funzionamento. Occorre dunque fare riferimento ad
un’immagine della persona umana che sia coerente sino in fondo
con il modello biopsicosociale: da questo punto di vista, soltanto
una concezione che comprenda sia le fasi esistenziali della
crescita, sia quelle del declino, metterà nelle condizioni di
riflettere in modo adeguato su ciò che la società dovrebbe
prevedere per garantire la giustizia per tutti gli uomini. È proprio
quanto avviene nella Convenzione ONU sui diritti delle persone
con disabilità che è anche la base su cui l’Italia ha definito il suo
104 Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
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Piano Nazionale di Azione adottato dal Parlamento nel dicembre
2013. Il paradigma fornito dai nuovi approcci proposti da ICF
riguardo alla questione della disabilità dovrà allora essere letto in
primo luogo come questione antropologica. Questo non per la
volontà di una negazione delle differenze, sulla base dell’assurda
affermazione secondo cui “siamo tutti disabili” ma, come più
volte sottolineato, perché la disabilità è una forma della
dipendenza tra gli uomini e come tale non può, e non deve, mai
diventare motivo di discriminazione e di limitazione del duplice
riconoscimento della dignità e della cittadinanza di ogni persona.
Quale integrazione/reintegrazione nel mondo del lavoro
per chi ha una malattia cronica: il progetto europeo
PATHWAYS
È in questo scenario complesso che coinvolge tutti i Paesi
sviluppati, ma che inizia ad interessare anche quelli in via di
sviluppo, che si sta svolgendo il Progetto Europeo PATHWAYS
(www.path-ways.eu) che in 3 anni si propone di fornire delle
linee guida all’Unione Europea rispetto a come reintegrare o
integrare nel mondo del lavoro il sempre crescente numero di
persone con malattie croniche, o malattie non trasmissibili. Il
lavoro rappresenta un tema cruciale in quanto, a fronte della
permanenza sempre più prolungata nel mondo del lavoro di
persone che sviluppano malattie croniche, sembra avere sistemi
non preparati a quanto epidemiologicamente oramai è un fatto
acclarato.
Ad un anno dall’inizio del progetto i 12 partner europei,
coordinati dalla Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Besta di
Milano, hanno eseguito una mappatura delle strategie presenti nei
vari Paesi europei coinvolti nel progetto in tema di lavoro per le
Il progetto PATHWAYS 105
© 2017 ADAPT University Press
persone affette da malattie croniche, in termini di politiche,
sistemi e servizi esistenti (Figura 2).
Figura 2: (da “Report on the comparison of the available strategies for
professional Integration and Reintegration of persons with chronic diseases
and mental health issues”, PATHWAYS Project Consortium).
Sono state selezionate sette categorie di malattie croniche in base
al loro peso epidemiologico letto in base agli anni persi per
disabilità (years lost due to disability) (utilizzando le stime dell’OMS
2012): problemi di salute mentale, malattie neurologiche,
disordini metabolici, disturbi muscoloscheletrici, malattie
respiratorie, malattie cardiovascolari e cancro.
106 Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
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I paesi considerati nello studio sono: Austria, Repubblica Ceca,
Germania, Grecia, Italia, Norvegia, Polonia, Slovenia, Spagna e
Regno Unito e secondo uno schema consolidato in letteratura
rappresentano i vari modelli di welfare europeo.
La mappatura nei suddetti Paesi delle politiche, dei sistemi e dei
servizi che facilitano l’inclusione delle persone con malattie non
trasmissibili ha rivelato che, nella maggior parte dei casi, le
persone con malattie croniche sono considerate come parte del
gruppo di persone con disabilità, comprese le persone con
ridotte capacità lavorative a causa di malattie. In molti casi le
persone con malattie croniche possono ricevere sussidi e
supporti relativi al lavoro solo quando la loro condizione è
riconosciuta/certificata come una disabilità (raggiungimento di
un certo grado di invalidità/inabilità) o ha un impatto negativo
sulla loro capacità di lavoro, a seconda delle normative nazionali
e regionali.
In termini di politiche, tutti i paesi hanno quadri legislativi contro
la discriminazione e mirati a fornire un supporto alle persone con
disabilità. D’altra parte, le leggi rivolte specificatamente alle
persone con malattie croniche sono più limitate. Queste ultime
rientrano infatti in strategie più ampie rivolte alle persone con
disabilità, gruppi sociali vulnerabili, fragilità, anziani, ecc. Inoltre,
l’esistenza di cornici legislative a tutela del lavoro delle persone
con patologie croniche non coincide necessariamente con un
cambiamento di atteggiamento verso il loro impiego nella società.
In termini di sistemi, i Paesi differiscono tra loro in base al tipo di
enfasi messa sui supporti, sugli incentivi o sugli obblighi al fine di
facilitare l’integrazione delle persone con disabilità e ridotta
capacità di lavoro.
In termini infine di servizi, quelli specificatamente rivolti alle
persone con varie categorie di malattie croniche sono limitati,
Il progetto PATHWAYS 107
© 2017 ADAPT University Press
fatta eccezione per i problemi di salute mentale per i quali
esistono strategie più mirate.
A partire dal lavoro di mappatura effettuato, i successivi step del
progetto Pathways prevedono una valutazione dell’efficacia delle
strategie identificate e una successiva analisi dei bisogni lavorativi
delle persone affette da malattie croniche in Europa, che
forniranno le basi per lo sviluppo di raccomandazioni e linee
guida per facilitare l’inserimento e la permanenza al lavoro delle
persone con malattie non trasmissibili.
Referenze
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108 Matilde Leonardi, Chiara Scaratti
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Italiana . Edizioni Erickson, Trento.
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Programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione
delle persone con disabilità, 2013.
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Sezione II
ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI
L’inclusione lavorativa
e gli “accomodamenti ragionevoli”:
prime riflessioni*
di Silvia Bruzzone
Premessa: cronicità e disabilità
Il dibattito sulle patologie croniche si sta facendo sempre più
approfondito, sia a livello internazionale che nazionale (Cfr. M.
Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e
tutele delle persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e
tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M.
Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n.
36/2015 con ampi riferimenti alla bibliografia e agli studi più recenti sul
tema; S. Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro: una rassegna
ragionata della letteratura di riferimento, ADAPT University Press,
2014).
Sono condivisibili le riflessioni circa l’inadeguatezza dell’attuale
sistema di Welfare, a fronte dell’innalzamento dell’aspettativa di
vita delle persone, che determinerà sicuramente un progressivo
aumento della domanda di servizi sanitari e delle prestazioni
sociali. Altrettanto immaginabile è l’ulteriore irrigidimento dei
* Pubblicato in Boll. spec. ADAPT, 18 maggio 2016, n. 7.
110 Silvia Bruzzone
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parametri di accesso ai trattamenti pensionistici e assistenziali che
impongono, ed imporranno sempre più in futuro, alle persone di
prolungare il periodo della loro attività lavorativa.
Il tema della salute è di rilevanza essenziale per tutti gli esseri
umani, senza distinzione di età. Sono, infatti, numerosissime le
patologie croniche congenite (presenti alla nascita) e quelle che
compaiono durante i primi decenni di vita. Esse determinano
non pochi problemi, in termini di affermazione dei diritti, già
nella fase di inclusione scolastica, nella formazione, nella
riqualificazione professionale e – non ultimo – nell’inserimento
nel mercato del lavoro e nello svolgimento dell’attività lavorativa.
Almeno da un paio di decenni le Istituzioni comunitarie
sottolineano la necessità di affrontare la questione dell’accesso ai
diritti sociali attraverso una strategia integrata in grado di offrire
una garanzia di riduzione reale delle forme di discriminazione e
di disuguaglianza sociale: più misure associate che si completino
e si rafforzino vicendevolmente nei settori dell’occupazione,
dell’educazione, della sanità, della previdenza sociale, ma anche
della mobilità, della comunicazione ecc. Il tutto per rimettere al
centro delle politiche la persona, come “essere umano” e come
“risorsa”.
Il rispetto dei diritti umani e l’accesso ai diritti economici e sociali
sono i due presupposti indispensabili per lo sviluppo, la coesione
sociale, la non discriminazione, le pari opportunità. Sono
essenziali per garantire stabilità sociale, economica e politica.
Un mercato del lavoro inclusivo, in particolare, è ovviamente una
precondizione di inclusione sociale, perché l’occupazione è fonte
di reddito e canale di partecipazione attiva alla vita sociale ed
economica per tutte le persone.
L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni 111
© 2017 ADAPT University Press
In taluni principi espressi dalla Convenzione ONU sui diritti
delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con Legge
18/2009, sono indicati spunti importanti a favore degli aspetti
della conciliazione tra lavoro e cura.
Nella Convenzione è indicato chiaramente il concetto di
disabilità, considerato non un tratto caratterizzante della persona,
ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte
delle quali sono create dall’ambiente sociale: vengono definite
“persone con disabilità” tutte coloro che “hanno minorazioni
fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in
interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed
effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza
con gli altri” (art. 1, comma 2).
Se si agisce anche sull’ambiente sociale, avvalendosi degli
“accomodamenti ragionevoli”, molte più persone potranno
inserirsi nel mercato del lavoro e conservare la propria
occupazione.
Ricerca di una definizione o necessità di “passare ai fatti”
La citata Convenzione ONU considera quale accomodamento
ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed
appropriati che non impongano un carico sproporzionato o
eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare
alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di
eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà
fondamentali” (art.2). Un richiamo agli accomodamenti
ragionevoli è previsto anche nell’art. 27, lett. I) per cui gli Stati
112 Silvia Bruzzone
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Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro
per tutti, prendendo appropriate iniziative – comprese le misure
legislative – “in particolare al fine di garantire che siano forniti
accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro”.
Già nell’art. 5 della Direttiva 2000/78/Ce, (recante un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e
di condizioni di lavoro) è stabilito che “Per garantire il rispetto
del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti
accomodamenti ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro
prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze
delle situazioni concrete, per consentire alle persone con
disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una
promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno
che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro
un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è
sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo
sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato
membro a favore delle persone con disabilità”.
Il tenore dell’articolo è decisamente generico e, a tratti,
“ambiguo”. Un suggerimento importante per cercare di chiarire
meglio il significato e la portata degli “accomodamenti
ragionevoli” si è tratto dai “considerando n. 20 e n. 21” del
preambolo della direttiva secondo cui “è opportuno prevedere
misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a
sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio
sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la
ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di
inquadramento”; “per determinare se le misure in questione
danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener
conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse
L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni 113
© 2017 ADAPT University Press
comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie
dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere
fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Il recepimento dell’art. 5 della Direttiva da parte degli Stati
membri non è stato uniforme, in tutti i casi è alquanto astratto.
Non a caso vi sono già alcune sentenze della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea: in particolare la sentenza della Corte
(seconda Sezione) dell’11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, con
cui i giudici si sono pronunciati su un dubbio interpretativo
derivante dalla normativa danese relativo all’estensione della
nozione, non solo ai profili di accessibilità fisica dei luoghi di
lavoro ma, più in generale, di compatibilità dell’ambiente di
lavoro con le funzionalità della persona.
I giudici lussemburghesi hanno chiarito che:
1) La nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78/CE del
Consiglio deve essere interpretata nel senso che essa include una
condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come
curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una
limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche,
mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa
natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della
persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza
con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata. La
natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è
determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una
persona sia riconducibile a tale nozione.
2) L’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel
senso che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei
provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo. Spetta al
giudice nazionale valutare se, nelle circostanze dei procedimenti
principali, la riduzione dell’orario di lavoro quale provvedimento
114 Silvia Bruzzone
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di adattamento rappresenti un onere sproporzionato per il datore
di lavoro.
Nel nostro paese, solo dopo la condanna da parte della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea (cfr. causa C-312/11,
Commissione contro Repubblica Italiana), è stato introdotto l’art.
3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 [con il d.l. n. 76/2013
(conv. l. n. 98/2013)] il quale dispone che: “Al fine di garantire il
rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con
disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad
adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con
disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei
luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena
eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici
devono provvedere all’attuazione del presente comma senza
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse
umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione
vigente”.
Nel procedimento giudiziario che ha visto condannata l’Italia è
stata respinta la tesi prospettata dalla difesa italiana (ved. punto
55 della motivazione della sentenza) secondo cui l’applicazione
dell’art. 5 della direttiva non può basarsi su un’unica modalità,
fondata sugli obblighi imposti ai datori di lavoro, ma deve
avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema
pubblico e privato atto ad affiancare il datore e la persone con
disabilità (un sistema di promozione dell’inclusione che sarebbe
già in parte previsto dalla Legge 68/99, dalla legge 104/1992, dal
T. U. 81/2008 e dalla normativa su cooperative e imprese
sociali). Per la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, invece,
per trasporre correttamente e completamente l’art. 5, letto alla
luce dei considerando 20 e 21 (richiamati al punto 60 della
L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni 115
© 2017 ADAPT University Press
motivazione), non è sufficiente disporre misure pubbliche di
incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a
tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci
e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le
persone con disabilità, che riguardino i diversi aspetti
dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano ad
essi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una
promozione o di ricevere una formazione.
Oltre alla normativa contro le discriminazioni, sono stati inseriti
numerosi riferimenti agli accomodamenti ragionevoli nella legge
sul collocamento mirato: le Regioni, attraverso il Fondo regionale
per l’occupazione delle persone con disabilità, dovranno
finanziare le spese di adeguamento delle postazioni di lavoro di
coloro che presentano una riduzione della capacità lavorativa
superiore al 50% compreso; la rimozione delle barriere
architettoniche; l’istituzione di un responsabile dell’inserimento
lavorativo; l’apprestamento di tecnologie di telelavoro.
Non è questa l’occasione per esaminare le modifiche apportate
alla Legge 68/99. Un’osservazione per tutte è però necessaria
perché non si può giudicare positivamente l’inserimento del
“limite della riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%”:
esso rappresenta un elemento di discriminazione di non poco
conto che costituisce un retaggio culturale e normativo lontano
dall’ICF (ovvero dalla Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della Salute). Non averne
ancora imposto l’utilizzo generalizzato (ricordiamo che è un
linguaggio unificato e standard di riferimento per la descrizione
della salute e degli stati ad essa correlati) e voler restare ancorati a
percentuali che poco rappresentano la funzionalità e le capacità
delle persone, fa comprendere come vi sia ancora molto da fare
su questo versante.
116 Silvia Bruzzone
www.bollettinoadapt.it
Tutta la normativa citata richiede sicuramente provvedimenti
interpretativi ed esplicativi circa il significato da attribuire ai
termini “reasonable accomodation”, al fine di poter adottare soluzioni
realmente utili per le persone e non limitarsi a fornire dei meri
risarcimenti del danno non patrimoniale in caso di
discriminazione. Si tratta di passaggi essenziali considerato che
nel nostro ordinamento gli obblighi datoriali sono sempre stati
ricondotti – fino ad oggi – alla categoria civilistica della
“cooperazione all’adempimento”, in virtù dei principi di buona
fede e correttezza, richiedendo al datore di lavoro solo
modificazioni della postazione o dei mutamenti di mansioni,
senza far riferimento alcuno all’organizzazione aziendale.
Stante l’onere della prova in capo al datore di lavoro sarà
essenziale formare organismi competenti e procedure sul
modello di altri paese come gli Stati Uniti e il Regno Unito dove
non vi sono solo previsioni di legge (The Americans with
Disabilities Act 1990 e il UK Equality Act 2010), ma sono stati
creati specifici enti volti ad attuare concretamente tali
disposizioni [ad esempio negli Stati Uniti l’U.S. Equal
Employment Opportunity Commission-ADA (EEOC)e il Job
Accommodation Network (JAN); nel Regno Unito The Equality
and Human Rights Commission (EHRC)].
Restano da sciogliere taluni nodi applicativi evidenziati anche nel
rapporto 2016 dell’European network of legal experts in gender
equality and non-discrimination della Commissione Europea
(“Reasonable accommodation for disabled people in
employment contexts. A legal analysis of EU Member States,
Iceland, Liechtenstein and Norway”, in Boll. ADAPT, 11 aprile
2016, n. 12).
L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni 117
© 2017 ADAPT University Press
Primo aspetto di non poco conto da chiarire è quello del
momento in cui sorge l’obbligo in capo al datore di lavoro di
conoscere la necessità di adottare un accomodamento
ragionevole.
In alcuni Stati membri (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca,
Estonia, Francia, Irlanda, Norvegia, Portogallo, Svezia e Regno
Unito) il dovere di fornire soluzioni ragionevoli sembra sorgere
quando il datore di lavoro sa o dovrebbe sapere dell’esistenza
della “disabilità”. Quindi, quando la disabilità è evidente, il datore
di lavoro è immediatamente soggetto all’obbligo, ma è poco
chiaro comprendere i casi in cui “avrebbe dovuto sapere” vista
l’esistenza della normativa sulla privacy e quella sulle visite
mediche e/o di idoneità.
In Estonia l’obbligo sorge solo quando perviene al datore di
lavoro un certificato medico. In Bulgaria e Lussemburgo, il
dovere sorge quando il datore di lavoro è informato dai servizi
sanitari o delle autorità pubbliche circa la situazione di salute e la
necessità di adottare delle soluzioni ragionevoli.
In altri paesi come Cipro, Paesi Bassi, Polonia e Spagna è
richiesta la comunicazione da parte del soggetto interessato.
In Italia nulla è disposto in merito. Il Decreto Legislativo n.
81/2008 (recante Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro il
T.U. 81 del 2008) ha delineato un sistema in cui l’azione del
datore di lavoro non deve risolversi in interventi episodici e
frammentari, ma in un sistema di gestione permanente ed
organico diretto all’individuazione, riduzione e controllo costante
dei fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il
ruolo del medico competente nell’ambito dell’individuazione di
accomodamenti ragionevoli, in collaborazione con altri
professionisti (quali ad esempio architetti, ingegneri informatici e
biomedici), è ancora tutto da definire ed approfondire.
118 Silvia Bruzzone
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Quanto ad eventuali limiti circa l’obbligo di adozione degli
accomodamenti ragionevoli il nostro Paese si distingue dagli altri
per aver inserito una disposizione di tutto vantaggio per la
Pubblica Amministrazione (che peraltro potrà vederci
nuovamente condannati dalle Istituzioni comunitarie)
considerato che qualsiasi iniziativa non dovrà prevedere nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane,
finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
L’unico spiraglio – per il momento – è previsto nell’articolo 17
(1) lett. z) della legge delega 124/2015 (sulla riorganizzazione
della pubblica amministrazione) il quale stabilisce che, “al fine di
garantire l’effettiva integrazione nel mondo del lavoro delle
persone con disabilità” le pubbliche amministrazioni con più di
200 dipendenti nominano, senza oneri nuovi o maggiori sulla
finanza pubblica e delle risorse umane, entro i limiti finanziari e
materiali previsti nella legislazione corrente, un responsabile dei
processi di integrazione”.
Conclusioni
Nella pratica, sempre riferendoci alle esperienze ormai
consolidate di altri Paesi, gli accomodamenti ragionevoli
rappresentano molto spesso delle soluzioni di “buon senso”,
tutt’altro che dispendiose: l’apposizione di strisce luminose nelle
vetrate e/o di strisce antiscivolo nei gradini di marmo; l’utilizzo
di hardware e/o software specifici; l’applicazione degli aspetti
ergonomici della postazione, degli strumenti, degli aspetti psico-
sociali (cfr. http://www.leas.unina.it/download/
Manuale_Raccomandazioni_Ergo.pdf).
L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni 119
© 2017 ADAPT University Press
Nel caso statunitense, il Job Accommodation Network fornisce
tutta una serie di informazioni e feed-back che si possono trovare
facendo la ricerca per patologia (peraltro descritte in modo molto
chiaro, per non esperti) o rispetto all’arto/organo di cui è
compromessa la funzionalità. Si tratta di una banca dati formata
in ottica multidisciplinare che è in continuo aggiornamento e che
meriterebbe di essere presa ad esempio dall’Italia dove alle
persone – nell’inserimento nel mercato del lavoro e nel
mantenimento dell’occupazione – interessano tempestività e
concretezza.
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Disabilità oncologica.
Accomodamenti ragionevoli e flessibilità
per il lavoratore malato di cancro:
la giusta via per la reale
inclusione lavorativa*
Intervista all’Avv. Elisabetta Iannelli
(Vicepresidente AIMaC, Segretario Generale FAVO)
di Silvia Fernández Martínez
In ADAPT studiamo da tempo il filone di ricerca sul rapporto tra lavoro e
malattie croniche, con l’obbiettivo di trovare soluzioni che servano a conciliare
i bisogni di cura dei malati cronici con lo svolgimento di una prestazione
lavorativa, riducendo al minimo l’onere per l’imprese (Cfr. M. Ti- raboschi,
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle
persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone
con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR
STUDIES e-Book series, n. 36/2015). Tuttavia, gli ultimi sviluppi
normativi in materia di licenziamento non prestano sufficiente attenzione alle
specifiche esigenze di questi lavoratori, disincentivando la loro permanenza
nel mercato del lavoro (Cfr. Fernández Martínez, S., Jobs Act e malattia:
verso un diritto per il mercato del lavoro?, Bollettino ADAPT, 26 ottobre
2015). Esistono invero altre proposte legislative che intendono rafforzare le
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 18 luglio 2016, n. 26.
Disabilità oncologica: la giusta via per la reale inclusione lavorativa 121
© 2017 ADAPT University Press
tutele a favore dei lavoratori che soffrono di malattie croniche, facilitando di
conseguenza la conservazione del posto di lavoro (Cfr. Fernández Martínez,
S., Una proposta per modificare la disciplina del periodo di comporto e
garantire la conservazione del posto di lavoro dei malati cronici, Bollettino
ADAPT, 14 dicembre 2015). Per tale ragione, risulta essenziale un
confronto con le associazioni di tutela e rappresentanza dei malati cronici e
dei disabili che conoscono nel dettaglio i bisogni e le attenzioni che richiedono
quanti soffrono di malattie croniche. Per questo motivo, nel corso del nostro
lavoro di studio, ricerca e progettazione abbiamo incontrato anche in altre
occasioni (Cfr. Silvaggi, F., Rapporto tra malattie croniche e mercato del
lavoro – A tu per tu con Elisabetta Iannelli, Bollettino ADAPT, 19
agosto 2015), l’avvocato Elisabetta Iannelli che è Vicepresidente di
AIMaC (Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici) e
Segretario Generale di FAVO (Federazione italiana delle Associazioni di
Volontariato in Oncologia). In questo caso, approfondiamo il tema degli
accomodamenti ragionevoli, argomento centrale e di grande attualità per la
reale inclusione lavorativa dei malati cronici.
Nella sua opinione, le persone con cancro o con altre
malattie croniche, devono essere considerate disabili o
rappresentano una categoria a sé indipendente dai disabili?
Il cancro come altre malattie croniche può essere causa di
disabilità temporanee o permanenti più o meno gravi, ma
caratterizzate da una condizione instabile, evolutiva in senso
positivo o, in alcuni casi, ma ancora troppo spesso, negativo.
Potremmo definire le “disabilità oncologiche” come quegli stati
di diminuita capacità psico-fisica che creano ostacoli al normale
svolgimento delle attività quotidiane a causa degli esiti della
patologia tumorale sui diversi organi e apparati o anche in senso
122 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
sistemico, o a causa degli effetti collaterali delle terapie
antineoplastiche i quali possono presentarsi a breve, medio e
lungo termine.
Ritengo sia difficile arrivare ad una classificazione univoca delle
“disabilità oncologiche” poiché tanti e diversi sono i tipi di
tumore e le relative conseguenze invalidanti su chi ne è affetto.
Basti pensare alla disabilità derivante da un intervento di
laringectomia piuttosto che da un’amputazione di un arto o un
intervento di stomia o ancora alle necessità di un malato di
cancro al quale sia stato rimosso lo stomaco.
Al malato e all’ex malato oncologico può essere riconosciuta una
condizione di disabilità, più o meno grave o temporanea, nelle
diverse accezioni giuridiche riconosciute dal nostro ordinamento:
invalidità, inabilità, handicap, disabilità ai fini del collocamento
obbligatorio, ma queste diverse definizioni sono spesso subite
con sofferenza dalle persone malate di cancro che rifiutano
l’etichetta della disabilità percepita come un marchio fonte di
possibili discriminazioni. Chi si ammala di cancro molto spesso è
un “disabile invisibile” per timore dello stigma che affligge questa
malattia e ciò è vero tanto più sul posto di lavoro. Vi è poi da
dire che le diverse tutele normative previste dal vigente
ordinamento per le persone con disabilità, non sono state
pensate e scritte per le persone con malattie ad andamento
eventualmente evolutivo come il cancro e questo fa sì che le
relative tutele giuridiche non rispondano agli effettivi bisogni
mutevoli nel tempo di queste persone.
Secondo lei, le persone con cancro devono aver accesso a
tutte le tutele previste dall’ordinamento giuridico in materia
di disabilità o solo ad alcune?
Disabilità oncologica: la giusta via per la reale inclusione lavorativa 123
© 2017 ADAPT University Press
Non v’è dubbio che quando e nella misura in cui la patologia
tumorale o i trattamenti terapeutici antitumorali sono causa di
disabilità, debbano essere riconosciute ed applicate tutte le tutele
giuridiche che garantiscono i diritti sociali e lavorativi dei malati.
Quale è la sua opinione circa il panorama esistente nel
Regno Unito, dove i malati oncologici vengono considerati
automaticamente come disabili a effetti di tutela
antidiscriminatoria?
In Gran Bretagna, dal 2010, vige una legge (Equality Act) che
impone ai datori di lavoro di non discriminare le persone disabili
e tra queste anche i malati di cancro. Invero anche l’Italia vanta
una normativa a tutela della parità di trattamento sul lavoro che è
precedente a quella anglosassone: il decreto legislativo n.
216/2003, recante «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro», integrata dalla legge 99/2013 (di conversione del decreto
legge 76/2013) che, tra i diversi emendamenti al testo originale,
ha introdotto per la prima volta il concetto di “accomodamento
ragionevole”.
Il decreto legislativo n. 216/2003, però, riguarda tutte le persone
disabili e, quindi, anche i malati oncologici che vengano
riconosciuti tali a seguito del procedimento di accertamento
medico legale da parte dell’INPS. Ma superato questo passaggio,
che negli anni si è cercato di semplificare e rendere più rapido
possibile, la tutela antidiscriminatoria è, anche per la normativa
italiana, di natura risarcitoria in termini economici. Certamente,
dal punto di vista dello snellimento delle procedure burocratiche,
sarebbe preferibile un automatismo nel riconoscimento della
124 Silvia Fernández Martínez
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disabilità (nelle diverse accezioni di invalidità e di handicap)
conseguente alla diagnosi di malattia oncologica e questo non
solo per semplificare l’accesso alla tutela antidiscriminatoria in
ambito lavorativo ma, prima ancora di questo, per l’accesso ai
diversi benefici giuridici ed economici riconosciuti dal nostro
ordinamento ai malati oncologici. Il passaggio, però, è complesso
e richiede un’attenta e approfondita riflessione anche perché non
esiste “il cancro” ma tanti “tipi di cancro” che si diversificano per
gravità, effetti invalidanti temporanei o permanenti, possibilità di
cura, guarigione o aggravamento nel medio e lungo periodo. Ed
infine, non si può sottovalutare la ricaduta psicologica di un
automatismo cancro=disabilità per la persona malata che spesso
non si sente “disabile” né vuole sentirsi considerata tale.
Secondo lei, quali sono gli accomodamenti del posto di
lavoro di cui hanno bisogno le persone con cancro per
mantenere la propria attività lavorativa?
I ragionevoli accomodamenti necessari ed auspicabili per i
lavoratori malati di cancro possono essere molto diversi da quelli
ormai entrati nella pratica comune per gli altri tipi di disabilità,
dopo anni di non facili battaglie. Non si tratta, spesso, solamente
di rimuovere barriere architettoniche o di dotare la postazione di
lavoro di strumenti informatici in grado di supplire ad un deficit
visivo o uditivo. Il lavoratore malato di cancro potrebbe aver
bisogno di modulare i tempi di lavoro per conciliarli con quelli
delle cure e delle visite mediche o diagnostiche, oppure anche per
consentire tempi di recupero delle ridotte capacità psicofisiche,
quantomeno durante le fasi acute di malattia, quando i
trattamenti terapeutici sono più pesanti. Ma anche nelle fasi
successive di cronicizzazione o di assenza di malattia, il
lavoratore potrebbe soffrire di disturbi cognitivi che richiedono
Disabilità oncologica: la giusta via per la reale inclusione lavorativa 125
© 2017 ADAPT University Press
tempi di lavoro meno intensi o una maggiore flessibilità oraria o
di luogo di svolgimento della prestazione lavorativa. In questi
casi strumenti come il part-time, l’orario flessibile o il telelavoro
possono essere considerati ragionevoli accomodamenti che
soddisfano le esigenze del lavoratore come quelle del datore di
lavoro.
Le diverse tipologie tumorali e le loro conseguenze disabilitanti
su chi ne è affetto richiedono risposte personalizzate anche in
ambito lavorativo. Basti pensare alle diverse necessità derivanti
da un intervento di laringectomia, nel qual caso il malato
oncologico deve superare l’ostacolo derivante dal deficit vocale,
rispetto a quelle di un lavoratore al quale sia stato rimosso lo
stomaco e che quindi deve continuare a lavorare
compatibilmente con l’esigenza di fare pasti ripetuti e ravvicinati;
oppure alle esigenze di un lavoratore stomizzato al quale deve
essere garantita una postazione di lavoro non distante da idonei
servizi igienici, o al lavoratore che a causa di un intervento
chirurgico soffra di linfedema agli arti superiori o inferiori, con
conseguente limitazione all’uso delle braccia per lavori
particolarmente pesanti o che non possa stare in piedi per troppo
tempo. Gli ostacoli che si vengono a creare a causa del tumore
del lavoratore dipendente, da difficoltà individuale rischiano di
diventare crisi aziendale, ma possono essere superati con il
dialogo e la comprensione nel reciproco rispetto. È questa la via
da percorrere per una reale inclusione sociale e lavorativa di chi
lotta per vincere la vita dopo il cancro. Per favorire questa
evoluzione culturale AIMaC ha stilato un decalogo, contenuto
nella brochure Lavoratori malati di tumore: 10 consigli al
datore di lavoro.
I datori di lavoro possono impegnarsi per capire come gestire le
diverse disabilità oncologiche sul luogo di lavoro, individuando le
126 Silvia Fernández Martínez
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mansioni più idonee ed eventualmente adattandone le modalità
di svolgimento alle specificità del singolo lavoratore, recuperando
in tal modo professionalità che altrimenti potrebbero andare
perdute. Alla medicina di precisione o medicina personalizzata
devono corrispondere “accomodamenti personalizzati” sul posto
di lavoro.
Nella sua opinione, le forme di lavoro flessibile, come il
lavoro agile, rappresentano un’opportunità per evitare
l’uscita prematura dei lavoratori con cancro del mercato del
lavoro?
Il lavoratore che si ammala di cancro desidera continuare a
lavorare, non solo per necessità economiche ma proprio per
affermare di essere ancora vivo, per non perdere la propria
identità e far rispettare la propria dignità di persona. Ed è questo
il vero valore del lavoro!
Certamente il lavoro agile e le diverse forme di flessibilità sul
lavoro sono strumenti utili a rispondere ai bisogni dei lavoratori
che si ammalano di cancro ed anche per evitare pensionamenti
prematuri per inabilità che, a volte, sono conseguenza di una
incapacità, legata all’ignoranza di come gestire il problema cancro
sul posto di lavoro in termini di inclusione socio-lavorative. Una
fuoriuscita non necessaria né veramente voluta dal mondo
produttivo genera costi altissimi umani ed economici per il
singolo e per la collettività che sarebbe molto meglio evitare.
L’inclusione ed il reinserimento lavorativo devono essere intesi
non come costi ma come un vero e proprio investimento anche
perché la persona che si è dovuta confrontare con una malattia
grave come il cancro e lo ha superato ha certamente una marcia
in più nel saper affrontare e gestire grandi e piccole
Disabilità oncologica: la giusta via per la reale inclusione lavorativa 127
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problematiche nella vita quotidiana e, quindi, anche in ambito
lavorativo, costituisce una risorsa e non un peso per la società.
© 2017 ADAPT University Press
Sclerosi multipla e disabilità:
il lavoro agile come misura
di “accomodamento ragionevole”?*
Intervista a Paolo Bandiera
(Direttore Affari Generali AISM)
di Silvia Fernández Martínez
In ADAPT studiamo da tempo il filone di ricerca sul rapporto tra lavoro e
malattie croniche, con l’oggettivo di trovare soluzioni che servano a conciliare i
bisogni di cura dei malati cronici con lo svolgimento di una prestazione
lavorativa, riducendo al minimo l’onere per l’imprese (Cfr. M. Tiraboschi,
Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle
persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone
con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR
STUDIES e-Book series, n. 36/2015). Tuttavia, gli ultimi sviluppi
normativi in materia di licenziamento non prestano sufficiente attenzione alle
specifiche esigenze di questi lavoratori, disincentivando la loro permanenza
nel mercato del lavoro (Cfr. Fernández Martínez, S., Jobs Act e malattia:
verso un diritto per il mercato del lavoro?, Bollettino ADAPT, 26 ottobre
2015). Esistono invero altre proposte legislative che intendono rafforzare le
tutele a favore dei lavoratori che soffrono di malattie croniche, facilitando di
conseguenza la conservazione del posto di lavoro (Cfr. Fernández Martínez,
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 2 maggio 2016, n. 15.
Sclerosi multipla, disabilità e il lavoro agile 129
© 2017 ADAPT University Press
S., Una proposta per modificare la disciplina del periodo di comporto e
garantire la conservazione del posto di lavoro dei malati cronici, Bollettino
ADAPT, 14 dicembre 2015). Per tale ragione, risulta essenziale un
confronto con le associazioni di tutela e rappresentanza dei malati cronici e
dei disabili che conoscono nel dettaglio i bisogni e le attenzioni che richiedono
quanti soffrono di malattie croniche. Per questo motivo, nel corso del nostro
lavoro di studio, ricerca e progettazione abbiamo incontrato l’avvocato Paolo
Bandiera che è Direttore di Affari Generali di AISM (Associazione
Italiana Sclerosi Multipla).
Nella sua opinione, le persone con sclerosi multipla o con
altre malattie croniche, devono essere considerate disabili o
rappresentano una categoria a sé indipendente dai disabili?
La sclerosi multipla è una malattia che con il progredire dei
sintomi può comportare disabilità, intesa come il risultato
dell’interazione tra persone con limitazioni e barriere attitudinali
ed ambientali, che ne impediscono la piena ed efficace
partecipazione nella società su una base di parità con gli altri. E’
questo infatti il concetto di disabilità – un concetto in evoluzione
– da tenere presente, come viene affermato dalla Convenzione
ONU per i diritti delle persone con disabilità, recepita dalla legge
dello Stato n. 18/2009: si tratta di una condizione che, prima di
tutto, si sostanzia in una relazione, cioè, in un rapporto tra una
persona con menomazioni o limitazioni e l’ambiente. Una
persona che soffre limitazioni o menomazioni funzionali può
quindi essere considerata una persona che non presenta
condizioni di disabilità se il contesto di vita, di lavoro, di relazioni
sociali risulta accogliente e in grado di non porre o comunque
rimuovere barriere e ostacoli alla partecipazione.
130 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
Pertanto se è certamente vero, dal punto di vista clinico, che la
sclerosi multipla è una patologia, in quanto cronica,
ingravescente, degenerativa che, con l’avanzare degli anni e delle
fasi della malattia comporta disabilità, misurata attraverso scale
specifiche tra cui la più diffusa è l’EDSS di ampio impiego anche
ai fini degli accertamenti medico-legali (che misura appunto il
grado di compromissione dei vari sistemi funzionali), è
altrettanto vero sotto un profilo bio-psico-sociale che anche in
presenza di valori di EDSS significativi la persona che viva e
operi in un contesto favorevole può mantenere una condizione e
uno stile di vita inclusivo.
Per questo motivo, per la necessaria attenzione da prestarsi al
contesto in relazione con le caratteristiche della persona, che
l’approccio di AISM in tema di occupazione è fortemente
centrato sul tema delle misure di flessibilità, sull’accomodamento
ragionevole, sull’adattamento o meglio sul ripensamento
dell’ambiente e delle forme e articolazione del lavoro: perché la
disabilità così come la sua assenza dipendono, fortemente, dal
contesto culturale, dalla accoglienza, dal livello di riconoscimento
dei diritti, dall’esistenza o meno di norme e soluzioni intelligenti
che superino le barriere fisiche, organizzative, anche quelle
intangibili, che ostacolano percorsi di inclusione e partecipazione.
Pertanto, in conclusione, si può dire che la diagnosi di sclerosi
multipla non comporti automaticamente una condizione di
disabilità ai fini lavorativi, sia perché persone con SM, in
particolare giovani e con forme meno severe di malattia
mantengono ottime capacità e autonomie, sia perché anche con
l’avanzare ed il progredire dei sintomi è assolutamente possibile
che la persona con SM venga messa nelle condizioni di poter
esprimere le proprie abilità e non ne venga intaccato il
“funzionamento” sotto il profilo della produttività.
Sclerosi multipla, disabilità e il lavoro agile 131
© 2017 ADAPT University Press
Secondo lei, le persone con sclerosi multipla devono aver
accesso a tutte le tutele previste dall’ordinamento giuridico
in materia di disabilità o solo ad alcune?
In primo luogo, rispetto alla tutela antidiscriminatoria, questa si
deve garantire a tutte le persone con sclerosi multipla perché
vengano prima di tutto riconosciute cittadini titolari di diritti,
oltre la malattia. Purtroppo dobbiamo constatare che ancora oggi
la sclerosi multipla, per una mancanza di conoscenza e
d’informazione presso la popolazione generale, i colleghi, i datori
di lavoro, viene spesso impropriamente associata ad una perdita
automatica delle capacità produttive. La tutela antidiscriminatoria
è quindi fondamentale per poter garantire il rispetto dei diritti
umani a tutte le persone con SM, anche quali lavoratori, oltre lo
stigma della malattia.
In secondo luogo, rispetto ai percorsi previsti dalla legge 68, le
persone con sclerosi multipla come le altre persone con disabilità
hanno accesso laddove venga loro riconosciuta la soglia di
invalidità stabilita dalla legge. D’altronde, ci sono molte persone
con sclerosi multipla che lavorano senza essere state inserite nei
percorsi di inserimento mirato. Ancora, ci sono persone con
sclerosi multipla dedite a lavori autonomi, all’esercizio di libere
professioni, che richiederebbero tutele maggiori perché ad oggi il
nucleo di garanzie apprestato dall’ordinamento in generale per
tali forme di lavoro è oggettivamente minimale.
Parlando di tutele dovrebbe poi essere garantito un sistema di
valutazione della disabilità – ad oggi essenzialmente centrato su
un modello medico-legale – che vada oltre la dimensione
dell’incapacità lavorativa generica. Nel caso della SM ad esempio
132 Silvia Fernández Martínez
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l’handicap grave molto spesso non viene riconosciuto se non in
presenza di alte percentuali di invalidità, con una penalizzante ed
impropria tendenza della commissioni medico legali ad assimilare
il concetto di svantaggio sociale alle menomazioni, situazione da
cui deriva frequentemente l’impossibilità di fruizione dei
permessi previsti dalla Legge 104 pur in presenza di una
condizione di effettivo handicap grave. Per questo motivo AISM,
con FISH e gli altri partecipanti dello specifico gruppo di lavoro
all’interno dell’Osservatorio attivato dal Governo per l’attuazione
della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità,
sta contribuendo all’elaborazione di un nuovo sistema di
valutazione della disabilità, che non tenga solo conto del dato
sanitario ma valorizzi un approccio bio-psico-sociale a partire
dall’impostazione ICF e sta portando avanti da anni un proficuo
lavoro di confronto e impegno comune con INPS per il
miglioramento del processo valutativo.
Secondo lei, quali sono gli accomodamenti del posto di
lavoro di cui hanno bisogno le persone con sclerosi
multipla per mantenere la propria attività lavorativa?
Una grande parte delle persone con sclerosi multipla, specie nella
prima fase di malattia, possiede buoni livelli di autonomia e può
non avere particolari limitazioni funzionali. In questo caso
bisogna primariamente sostenere il mantenimento del lavoro
consentendo alla persona di potere conciliare gli impegni
professionali con i tempi e le esigenze di cura. A volte, in effetti,
il vero problema è l’incapacità del sistema di conciliare la
prevenzione, la riabilitazione, le cure, la somministrazione dei
farmaci, con il mantenimento dell’attività lavorativa, quando
basterebbe introdurre ed applicare, anche attraverso una buona
contrattazione nazionale e decentrata, soluzioni di flessibilità
Sclerosi multipla, disabilità e il lavoro agile 133
© 2017 ADAPT University Press
organizzativa, permessi, prolungamenti dei periodi di comporto
per persone con SM che possano andare incontro a episodi acuti
o comunque a periodi di aggravamento, anche considerando che
la SM è una malattia imprevedibile, con un andamento spesso
discontinuo, caratterizzata prevalentemente da una forma ad
andamento recidivante e remittente. Per questo il nostro ufficio
studi analizza sistematicamente i principali CCNL e formula
proposte di clausole attente alle esigenze delle persone con
disabilità e gravi patologie come la SM, avendo da tempo avviato
tavoli strutturali di confronto con i principali Sindacati e con le
rappresentante dei Datori di Lavoro su questi temi, anche
pubblicando e mettendo a disposizione guide e supporti per
facilitare la gestione della condizione di SM in azienda secondo
un approccio collaborativo (cfr. www.aism.it).
Nel nostro caso infatti il 48% delle persone con SM in età
lavorativa ha accesso ad un’occupazione ma quando la disabilità
(intesa come parametro clinico) è superiore a 7 EDSS il dato si
riduce al 17%: le persone con SM lamentano che i principali
fattori sfavorenti sono, al di là dell’andamento della malattia e
della rilevanza di alcuni sintomi come la fatica, prima di tutto un
ambiente ostile, l’atteggiamento dei colleghi e del capo, il
mancato adattamento della postazione e dei ritmi e carichi di
lavoro. Il 32% delle persone con SM poi riduce in media di 12
ore a settimana le ore di lavoro e in particolare le donne con SM
hanno difficoltà nel mantenere il lavoro a partire dai 35 anni (-
10% rispetto a maschi con SM), quando proprio le donne sono le
più colpite dalla malattia. Va quindi promosso un approccio da
parte dei datori di lavoro di tipo collaborativo, che valorizzi le
capacità delle persone con SM di mantenere il lavoro pur con il
progredire della malattia, e assuma la diversità e in essa la
disabilità in genere non solo come un elemento costitutivo della
134 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
realtà umana ma, in chiave squisitamente aziendale, come un
autentico fattore strategico di successo e di sviluppo.
Un’organizzazione in grado di comprendere ed adattarsi ai
bisogni dei propri lavoratori, è un’organizzazione che porta con
sé un DNA che le consente di affrontare le sempre crescenti
sfide del cambiamento e dell’innovazione. Altro tema su cui
lavoriamo fortemente è quello relativo alla valutazione di idoneità
alla mansione: partendo dalla constatazione che il 44% dei medici
del lavoro dichiara di aver incontrato difficoltà nella
formulazione del giudizio di idoneità di persone con SM,
abbiamo congiuntamente con SIMLII – la società dei Medici del
Lavoro e Igiene Industriale – predisposto degli orientamenti per i
medici del lavoro in materia di idoneità e SM e ne promuoviamo
la diffusione e l’utilizzo.
Nella sua opinione, le forme di lavoro flessibile, come il
lavoro agile, rappresentano un’opportunità per evitare
l’uscita prematura dei lavoratori con sclerosi multipla del
mercato del lavoro?
Noi, di AISM, le consideriamo una grandissima opportunità. In
primo luogo perché nel nostro ordinamento esiste un’accezione
astratta di accomodamento ragionevole. In materia, come noto,
vige un obbligo normativo in base al decreto Giovannini per i
datori di lavoro pubblici (anche se per questi ad invarianza di
costi) e privati ma, in realtà, ancorché si stia cercando di
promuoverne la pratica (esistono delle sperimentazioni virtuose
di disability management) ed a livello di Osservatorio Convenzione
ONU Diritti persone con Disabilità si sta affrontando il tema,
molto è rimasto sulla carta ed a livello di petizione di principio.
Ciò si deve in primis alla mancata adozione di linee guide
applicative, la cui elaborazione richiede l’apporto di una pluralità
Sclerosi multipla, disabilità e il lavoro agile 135
© 2017 ADAPT University Press
di soggetti e competenze, tra cui le stesse associazioni di
rappresentanza delle persone con disabilità. AISM riconosce in
questo senso nello smart working una forma per antonomasia di
accomodamento ragionevole, perché non si tratta soltanto
dell’adattamento della postazione lavorativa come ambiente
fisico, di ergonomia, di dispositivi e ausili, ma ancor più di
riconciliare il ciclo vita-cura-lavoro. Ad esempio, per chi non ha
possibilità di acquistare un mezzo di trasporto attrezzato e ha
una disabilità motoria tale da impedirgli di utilizzare i mezzi di
trasporto pubblico – spesso non attrezzati – diventa complicato
spostarsi da e per il lavoro. Per favorire la conciliazione
dovremmo quindi riuscire a valorizzare e a promuovere formule
secondo cui le persone, pur mantenendo un adeguato livello di
appartenenza organizzativa e di partecipazione ai processi
inclusivi che l’ambiente di lavoro porta con sé, possano godere di
ampia libertà nello scegliere il luogo e l’orario di lavoro. E’ quindi
molto importante promuovere lo smart working come forma di
accomodamento ragionevole, anche prevedendo che si possano
utilizzare gli incentivi contenuti nella normativa per
l’occupazione delle persone con disabilità.
Lo smart working è una soluzione avanzata in assoluto, per tutti i
lavoratori e per la sostenibilità del sistema, ma può avere una
straordinaria ricaduta, un forte valore aggiunto, per le persone
con disabilità e nel nostro caso, delle persone con sclerosi
multipla consentendo di rispondere con elasticità a
quell’imprevedibilità che caratterizza la malattia. Lo smart working
è quindi uno strumento potenzialmente potente per mantenere
l’occupazione, sfruttare al massimo la capacità produttiva, evitare
oneri e provvidenza passive a carico dello Stato. Sappiamo infatti
che per la SM che un terzo del costo sociale di malattia è legato
alla perdita di produttività.
136 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
Con riferimento al DDL Lavoro Autonomo ed in particolare alla
sezione dedicata al lavoro agile, dobbiamo quindi fare in modo
che venga riconosciuta questa valenza dell’istituto, sempre su
base volontaria, per le persone con disabilità – e per questo
stiamo sostenendo audizioni e incontri istituzionali – cosicché in
fase applicativa se ne possa promuovere un effettivo impiego per
ciò che ci interessa.
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Sezione III
LICENZIAMENTO
E MALATTIE CRONICHE
Licenziamento per sopravvenuta
inidoneità fisica dopo un trapianto:
“inaccettabile” o legittimo?*
di Silvia Fernández Martínez
Nei giorni scorsi è apparsa sui media la notizia di un operario di
Torino licenziato dopo un trapianto di fegato. Il caso ha
acquisito così tanto rilievo a livello mediatico che anche la classe
politica, tra cui, il ministro Poletti e il presidente della
commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, si sono
pronunciati a riguardo mostrandosi contrari alla decisione presa
dall’azienda. Senza entrare nel merito di tutte le considerazioni
che sono state fatte, quello che interessa in questa sede è
analizzare il caso da un punto di vista giuridico per capire
se, anche in relazione ad altre fattispecie concrete, un
licenziamento siffatto possa essere considerato legittimo o
meno. Sebbene, raramente raggiungano le cronache nazionali e
l’opinione pubblica sono infatti decisamente numerosi i casi
come quello in esame. Secondo alcune stime CENSIS, per
esempio, sarebbero ben 274mila i lavoratori licenziati dopo aver
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 13 marzo 2017, n. 10.
138 Silvia Fernández Martínez
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ricevuto la diagnosi di tumore (CENSIS, FAVO, Quarto Rapporto
sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, 2012).
Il lavoratore dell’azienda torinese, trapiantato in seguito ad un
tumore al fegato, è rientrato al lavoro dopo 8 mesi in assenza per
malattia. Tuttavia, una volta tornato dopo 3 settimane di ferie
forzate è stato licenziato. Il lavoratore è stato sottoposto ad
accertamenti sanitari per la verifica dell’idoneità alle mansioni di
“operaio universale” e l’azienda sostiene che ha dovuto prendere
atto delle stringenti limitazioni rilevate dal giudizio del medico
competente. Così, afferma di aver verificato la possibilità di
adibire il lavoratore a una diversa collocazione in altri reparti,
postazioni o stabilimenti, e in mansioni equivalenti, o di livello
contrattuale inferiore, senza aver ottenuto un risultato positivo.
L’azienda giustifica l’impossibilità di individuare ipotesi di
impiego alternativo poiché le postazioni lavorative risultano
incompatibili con la residua capacità lavorativa accertata dal
medico competente o non corrispondenti con le competenze
maturate dal lavoratore. Peraltro, tutte le posizioni lavorative in
azienda risultano occupate. Di fronte a questa situazione e
sebbene le conseguenze derivanti della malattia di un lavoratore
possano tradursi in diverse ipotesi di licenziamento, come il
licenziamento per superamento del periodo di comporto o per
scarso rendimento, la fattispecie giuridica è il licenziamento per
sopravvenuta inidoneità fisica.
La sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore è stata
ricondotta dalla giurisprudenza alla disciplina dei licenziamenti
per giustificato motivo oggettivo regolamentati dall’art. 3 della
legge 15 luglio 1966, n. 604., Norme sui licenziamenti individuali,
anche se l’articolo non la menziona espressamente. Tuttavia,
nell’ambito del licenziamento per sopravvenuta inidoneità
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica dopo un trapianto 139
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sopravvenuta risulta applicabile anche l’obbligo di repêchage
così come stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione,
Sezione Unite, 7 agosto 1998, n. 7755. Seguendo
quest’interpretazione, la sopravvenuta inidoneità psicofisica
costituisce giustificato motivo di licenziamento unicamente nel
caso in cui il datore di lavoro abbia verificato che la capacità
lavorativa residua del lavoratore non è compatibile con le
mansioni assegnatagli o con altre equivalenti o, se questo è
impossibile, anche ad altre inferiori, a condizione che l’attività sia
utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito
dall’imprenditore.
Nel caso che ci occupa, l’azienda afferma nella lettera di
licenziamento di aver svolto l’attività di verifica circa la possibilità
di trovare un’occupazione diversa per il lavoratore rispettando
così l’obbligo di repêchage. Tuttavia, l’azienda fa
quest’affermazione in maniera generica senza apportare prove a
riguardo. Invece, qualora il lavoratore facesse causa allegando
l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
il datore di lavoro avrebbe l’onere di provare l’impossibilità
di ricollocare il lavoratore in altra posizione lavorativa
disponibile. Inoltre, nel caso in cui il lavoratore fornisse
elementi per individuare posti disponibili all’interno dell’azienda
compatibili con il suo bagaglio professionale, il datore di lavoro
dovrebbe provare l’impossibilità di adibirlo alle posizioni
lavorative da lui indicate come disponibili. La prova acquisisce
una grande rilevanza in questi casi, così come la necessità di
analizzare il caso concreto per comprendere le possibilità
effettive di ricollocare il lavoratore in funzione delle
caratteristiche dell’azienda così come in funzione della sua
capacità lavorativa. Qualora l’azienda riuscisse a dimostrare
in sede di giudizio che non è possibile trovare una
140 Silvia Fernández Martínez
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sistemazione diversa per il lavoratore all’interno
dell’azienda, considerando il quadro giuridico vigente, il
licenziamento per inidoneità sopravvenuta potrebbe essere
qualificato come legittimo.
Nel caso oggetto di analisi, il lavoratore torinese non farà causa
posto che, a seguito del grande impatto mediatico del caso,
l’azienda ha riconsiderato la sua decisione e la vicenda è
stata risolta attraverso un accordo con le organizzazioni
sindacali. Il lavoratore potrà scegliere tra tornare a lavorare in
azienda oppure accordarsi per una buonuscita con aggancio alla
pensione. In attesa di sapere quale sarà la decisione finale che
prenderà il lavoratore, può dirsi che in questo caso concreto,
trattandosi di un “operaio universale” di 55 anni di un’azienda
metalmeccanica, anche se di dimensioni non ridotte, adibirlo a
mansioni diverse da quelle finora svolte, senza una adeguata
qualificazione professionale, non sembra un compito facile.
Sebbene questo caso concreto sia stato risolto grazie al sistema
di relazioni industriali che potrebbe giocare un ruolo
decisivo nel ritorno al lavoro dei malati cronici (Cfr. M.
Tiraboschi, “Le nuove frontiere dei sistemi di welfare:
occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche”,
in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, a cura di
M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n.
36/2015) questo non sempre sarà possibile posto che spesso non
si hanno le condizioni per arrivare a un accordo. In questo caso
si è svolto anche uno sciopero di solidarietà da parte dei
colleghi.
In casi come questi, il principale problema è garantire
l’equilibrio tra la libertà d’iniziativa economica del datore di
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica dopo un trapianto 141
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lavoro e l’interesse del lavoratore alla stabilità del lavoro
così come alla protezione della propria salute. Per questo
motivo, risulterà difficile esigere dall’impresa la “responsabilità di
garantire un’opportunità ai lavoratori che vivono situazioni come
quelle dell’operaio torinese” come afferma il ministro Poletti, se
poi non si offrono alle aziende gli strumenti per poter
garantire la conservazione e il ritorno al lavoro dei lavoratori
con malattie croniche. In questo contesto, è necessario capire
che la responsabilità è attribuibile non soltanto alle aziende ma
anche alla società in generale e, in primis, al Governo. Serve a
ben poco condannare le aziende che licenziano i lavoratori
con una capacità lavorativa ridotta a causa di una malattia
quando nell’ordinamento giuridico italiano la sopravvenuta
inidoneità fisica costituisce una causa legittima di
licenziamento. A questo punto, una soluzione potrebbe
consistere in un intervento volto a reinterpretare il concetto
d’inidoneità sopravvenuta e la possibilità che essa costituisca un
motivo di licenziamento per motivo oggettivo nel caso di
malattie gravi che, come nel caso che ci occupa, possono tradursi
in una capacità lavorativa ridotta con carattere permanente.
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Neoplasie e licenziamento:
tra norme e responsabilità sociale*
di Silvia Bruzzone
Ancora negli ultimi mesi vi sono stati casi di lavoratori, con
patologie oncologiche, licenziati per aver superato il
periodo di comporto per malattia o per essere stati gli unici ad
essere stati licenziati per non meglio chiariti “motivi economici”.
In un certo numero di situazioni si è ottenuta la reintegra dalle
aziende dopo le segnalazioni dei sindacati e, soprattutto, la
pressione mediatica.
I temi della tutela della salute in relazione alla conservazione del
lavoro presentano questioni più ampie e complesse che
dovrebbero essere valutate in modo organico e completo, con un
approccio multidisciplinare di intervento, in quanto richiamano
diversi ambiti di riflessione tra cui l’etica dei diritti umani, la
scienze della salute, le scienze demografiche e sociali, le
scienze economiche e politiche: ora più che mai visto che ci
sono da affrontare la necessità di rigenerare la competitività dei
territori per far fronte alla crescente domanda di bisogni sociali
per l’invecchiamento, la non autosufficienza, la precarizzazione
del lavoro, l’impoverimento, l’emarginazione e il disagio.
* Pubblicato in Boll. spec. ADAPT, 21 maggio 2015, n. 14.
Neoplasie e licenziamento: tra norme e responsabilità sociale 143
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Questo contributo ha l’obiettivo di evidenziare come tutti i casi
di licenziamento che possono coinvolgere una persona con gravi
problemi di salute presentano non poche criticità applicative.
Alcuni più di altri.
Il licenziamento discriminatorio vietato, tra l’altro, dal d.lgs. n.
216/2003, così come il licenziamento per sopravvenuta
inidoneità fisica alla mansione, pongono una serie di aspetti
delicati: l’uno, ad esempio, in ordine alla presentazione delle
prove; l’altro soprattutto per le valutazioni medico legali e per
le difficoltà nell’individuazione concreta di nuove mansioni,
compatibili con lo stato di salute, che non sono dovute sempre e
solo motivate dalle dimensioni aziendali ma anche all’assenza di
“adattamenti ragionevoli”.
Ancora più complesso, per motivi diversi, è il licenziamento per
superamento del periodo di comporto: tanto la normativa,
quanto le clausole contrattuali inserite nel corso degli anni, sono
frammentarie ed eterogenee, nonostante non sia mancato
l’impegno del Legislatore, delle associazioni di rappresentanza e
delle stesse parti sociali.
In tutti i contratti del settore pubblico, e in molti del settore
privato, sono aumentate le clausole che fanno riferimento
alle “gravi patologie”, alle “patologie oncologiche”, e indicano
talune patologie espressamente. Va ricordato tuttavia che, al
momento, continua a permanere l’assenza di un elenco
completo di cd. “patologie gravi”. Vi sono solo taluni
interventi normativi parziali: il D.P.R. 23 dicembre 1978, n.
915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra)
con tabelle annesse; l’elenco delle malattie considerate croniche
144 Silvia Bruzzone
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ed invalidanti ai sensi dell’art. 5 comma 1, lettera a) del d.lgs. del
Ministero della sanità del 29 aprile 1998 n. 124.
Un’indicazione più dettagliata è inserita solo nell’art. 2 del dm n.
278/2000 (Regolamento recante disposizioni di attuazione
dell’articolo 4 della L. 8 marzo 2000, n. 53, concernente congedi
per eventi e cause particolari) che prevede il cd. congedo per
“gravi motivi familiari”.
Anche il riferimento alle terapie salvavita e la dicitura “effetti
invalidanti temporanei o permanenti” sono indicati in molti
contratti del pubblico e in taluni del settore privato, ma va detto
che anche in questo caso mancano chiarimenti normativi e
indicazioni medico-legali precise circa il significato da attribuire a
tali termini.
Normalmente si citano come esempi la chemioterapia e
l’emodialisi; talune volte viene è affiancata la dicitura “altre
assimilabili” (anche se dal punto di vista medico legale non è
chiaro cosa voglia o possa intendersi per “assimilabilità”): in ogni
caso andrebbe chiarito se occorre fare riferimento alle sole
terapie che impediscono o rallentano “l’evento morte”, oppure a
tutte quelle terapie che impediscono la determinazione di effetti
invalidanti più gravi della patologia progressiva diagnostica e che,
quindi, “salvano la vita” e la qualità della stessa in un’accezione
più ampia.
Appaiano evidenti la necessità e l’urgenza di colmare le gravi
lacune esistenti, quantomeno sul concetto ed eventuale elenco di
“gravi patologie” e di “terapie salvavita”. Anche l’elaborazione di
linee guide per tutti i medici legali rappresenta un essenziale
punto di partenza.
Neoplasie e licenziamento: tra norme e responsabilità sociale 145
© 2017 ADAPT University Press
Nel frattempo le Parti sociali dovrebbero utilizzare formulazioni
“non escludenti”, facendo riferimento a situazioni che
contemperino l’esigenza di specificità e determinatezza con
quella di eguaglianza e non discriminazione; individuando
clausole che abbiano un senso nel concreto delle varie realtà, ad
esempio dal punto vista medico.
Solo cosi si potrà garantire maggiore efficacia alle disposizioni
stesse, evitare dubbi interpretativi e trattamenti differenziati sia
tra gli stessi lavoratori con patologie oncologiche, sia tra
quest’ultimi e i lavoratori con malattie parimenti gravi,
tralasciando sempre i “cronici” su cui molto andrebbe scritto e
fatto.
I problemi non sono solo quelli appena descritti.
Vi sono ancora contratti collettivi che risultano inadeguati in
materia poiché non prevedono nessuna clausola per cui il
lavoratore deve ricorrere a ferie e permessi per poter
assentarsi dal lavoro, nonostante sia notorio che l’assenza sia
dovuta ai cicli di terapia.
Per l’aspettativa non retribuita (volta quantomeno a prolungare il
periodo di conservazione del posto di lavoro ed utile in situazioni
di salute che richiedono cure più lunghe) è necessaria la richiesta
del lavoratore stesso, magari impegnato in cure stressanti e
dolorose. Il datore di lavoro non ha alcun obbligo di informare
della possibilità, così come non ha alcun obbligo di avvisare
dell’avvicinarsi della scadenza del periodo di comporto.
Spesso la persona si trova senza più lavoro, nessuna copertura
assicurativa/previdenziale (per assenza dei requisiti previsti dal
146 Silvia Bruzzone
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sistema previdenziale), nessuna opportunità di riqualificazione e
di reinserimento lavorativo (non solo per la capacità lavorativa,
ma per questioni anagrafiche, geografiche, ecc).
Quali le possibili soluzioni? Come prevedere una tutela più
uniforme? Come non caricare sui datori di lavoro i costi
sociali delle malattie?
Dall’esame di alcune esperienze straniere posso derivare utili
spunti di operatività.
La legislazione inglese in tema di diritti delle persone con
disabilità, regolata dal Disability Discrimination Act (DDA)
del 1995, è stata integrata – nel 2005 – con una serie di
disposizioni che hanno esteso la tutela per le persone con
patologie progressive (ad esempio cancro, HIV, sclerosi multipla)
a partire dal momento stesso della diagnosi e non da
quando si verifica una compromissione della capacità
lavorativa.
Con tale normativa è stata vietata, fra l’altro, la
discriminazione diretta di rifiutare l’assunzione di una
persona perché ha una particolare patologia progressiva
prevedendo tutele nelle procedure di selezione del personale.
Il Disability/Diversity Management – inteso come flessibile
organizzazione del rientro del lavoratore in azienda modulato
da interventi ed azioni specifiche di tipo riabilitativo,
ergonomico, organizzativo, in relazione alle concrete necessità,
professionalità e con i cicli produttivi aziendali – è un processo
ormai consolidato in altri Paesi dove numerosi studi hanno
dimostrato che è un processo vantaggioso per tutti gli attori in
campo: prevede un contenimento delle spese per i Governi; il
Neoplasie e licenziamento: tra norme e responsabilità sociale 147
© 2017 ADAPT University Press
risparmio economico e l’aumento della produttività per i datori di
lavoro; una miglior protezione dell’occupazione dei lavoratori.
Su questi temi il nostro Paese ha un ritardo almeno
ventennale. Cercare di ridurre il gap è una sfida da intraprendere.
Possibilmente in modo più convinto di quanto non sia stato
ancora fatto.
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Jobs Act e malattia: verso un diritto
per il mercato del lavoro?*
di Silvia Fernández Martínez
La pubblicazione del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015, recante la
disciplina relativa al contratto di lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti, ha aperto il dibattito sulla disciplina applicabile in
caso di licenziamento illegittimo fondato sulla malattia del
lavoratore. A differenza della legge 28 giugno 2012 (legge
Fornero) che, anche senza esplicito riferimento alla malattia,
richiamava il licenziamento per inidoneità sopravvenuta e per
superamento del periodo di comporto (figure giuridiche che
coprono alcuni specifici casi di licenziamento derivante della
malattia), il d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 non regola il
licenziamento illegittimo per malattia e non contiene riferimento
alcuno circa le conseguenze da ricondurre a questo tipo di
licenziamento.
Ci si chiede dunque quale sia la disciplina applicabile in
tale circostanza: se quella contenuta nell’art. 2, d.lgs. n. 23 del 4
marzo 2015 riferita al licenziamento discriminatorio, nullo e
intimato in forma orale, o quella dell’art. 3, riferita al
licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 26 ottobre 2015, n. 37.
Jobs Act e malattia: verso un diritto per il mercato del lavoro? 149
© 2017 ADAPT University Press
La questione non è banale e non appartiene soltanto all’ambito
meramente tecnico-concettuale, dal momento che le
conseguenze giuridiche sono totalmente diverse in funzione
dell’inquadramento giuridico che si sceglie di dare al
licenziamento del lavoratore malato. Infatti, qualora si
considerasse il licenziamento illegittimo per malattia
discriminatorio o nullo (art. 2, d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015), il
lavoratore avrebbe diritto alla reintegra nel posto di lavoro;
se, invece si inquadrasse la questione come un licenziamento
per giustificato motivo carente di motivazione (art. 3, d.lgs.
n. 23 del 4 marzo 2015), il lavoratore avrebbe soltanto diritto
a un’indennità commisurata all’anzianità.
Queste due possibilità interpretative hanno anche implicazioni
diverse dal punto di vista della permanenza nel mercato del
lavoro di questo gruppo di lavoratori. Mentre la prima delle due
possibilità risponde a una prospettiva più favorevole alla
permanenza dei malati cronici nel mondo del lavoro, sempre
attraverso l’adattamento delle condizioni di lavoro in conformità
alle specifiche necessità di questi lavoratori, la seconda opzione,
invece, risponde a una visione che utilizza modelli medically-driven
del problema, che rischiano di provocare l’ uscita dal mercato del
lavoro, con tutte le criticità che poi si pongono nella fase di
reinserimento nel mercato del lavoro (Cfr. M. Tiraboschi, Le
nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle
persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone
con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR
STUDIES e-Book series, n. 36/2015, p. 14).
Posto che il legislatore non include in maniera espressa la
malattia e neanche altre figure giuridiche che coprono alcuni
150 Silvia Fernández Martínez
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specifici casi di licenziamento derivante della malattia (inidoneità,
superamento del periodo di comporto, scarso rendimento) tra le
circostanze che danno luogo a un licenziamento discriminatorio
o nullo, il licenziamento intimato in base alla malattia del
lavoratore, nel caso in cui non dovesse essere considerato
legittimo, non potrebbe essere inquadrato nell’art. 2 ma, in
base alla lettera della legge, nell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 4
marzo 2015.
Al contrario, se si optasse per un’interpretazione flessibile
degli estremi menzionati nell’art. 2, relativo al licenziamento
discriminatorio e nullo, sarebbe possibile considerare il
licenziamento fondato sulla malattia del lavoratore come
discriminatorio (comma 1 del art. 2) o come nullo per
accertamento di difetto di giustificazione per motivo
consistente nella “disabilità fisica o psichica del lavoratore”
(comma 4 del art. 2). Il comma 1 del art. 2, quando si riferisce al
licenziamento discriminatorio, rimanda ai casi di
discriminazione vietati contenuti nell’art. 15 della legge 20
maggio 1970, n. 300, tra i quali non si menziona la malattia.
Tuttavia, l’art. 15 considera l’handicap come causa di
discriminazione. Per questo motivo, facendo un’interpretazione
ampia del concetto di handicap, e seguendo la linea delle ultime
sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, si potrebbe
equiparare la malattia di lunga durata all’handicap,
aprendosi in questa maniera la possibilità di considerare
discriminatorio il licenziamento fondato sulla malattia del
lavoratore.
Un’altra opzione per riconoscere la tutela reintegratoria piena ai
malati cronici consiste nel far rientrare la malattia nella
Jobs Act e malattia: verso un diritto per il mercato del lavoro? 151
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espressione di “disabilità fisica o psichica” del comma 4
dell’art. 2. Alcuni autori (Cfr. D. Garofalo, “Il giustificato motivo
oggettivo nella riforma Renzi: le fattispecie controverse”, in Le
tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs Act 2
(a cura di E. Ghera e D. Garofalo), Cacucci Editore, Bari, 2015,
p. 140) sostengono che, anche se il legislatore non lo enuncia
esplicitamente, l’inidoneità sopravvenuta derivata
dell’insorgere di una malattia è un sinonimo della
espressione di “disabilità fisica o psichica” e, pertanto, il
licenziamento basato su questo motivo deve essere considerato
nullo quando manca una giustificazione valida.
Tutte le opzioni esposte riscontrano argomenti a favore e contro.
Tuttavia, l’intero dibattito sorto in tema di licenziamento per
malattia si fonda sulla necessità di erogare o meno tutele ai
lavoratori malati basate nella conservazione del posto di lavoro.
In tale ambito, ciò che emerge chiaramente è la mancanza di una
prospettiva di mercato del lavoro in grado di offrire risposte
adeguate ai malati cronici una volta perso il proprio posto
di lavoro.
Infatti, si rileva che nel d.lgs. n. 150 del 14 settembre 2015
recante le disposizioni per il riordino della normativa in materia
di servizi per il lavoro e di politiche attive mancano disposizioni
specifiche per favorire il reinserimento e il ritorno al lavoro di
queste persone nel caso in cui perdano il loro posto di lavoro a
conseguenza di una interpretazione letterale del d.lgs. n. 23 del 4
marzo 2015.
Per questi motivi, si può affermare che il Jobs Act non adotta
una prospettiva di mercato del lavoro ma di diritto del
lavoro nel trattamento della malattia, risultando del tutto
152 Silvia Fernández Martínez
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carente la necessaria attenzione alle specifiche esigenze di questi
lavoratori che, in quanto soggetto deboli, necessitano invece di
una prospettiva di diritto per il mercato del lavoro, in grado
di favorire il mantenimento e il ritorno al mercato del
lavoro.
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Una proposta per modificare
la disciplina del periodo di comporto
e garantire la conservazione
del posto di lavoro dei malati oncologici*
di Silvia Fernández Martínez
La proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati il 25
settembre 2015 per la modifica della disciplina del periodo di
comporto per i lavoratori affetti da malattie oncologiche nasce
dalla necessità di creare una normativa specifica che
regolamenti il periodo di comporto nei casi di malattie
oncologiche come già accennato nella Circolare del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali 22 dicembre 2005, n. 40 che
consente all’autonomia collettiva di estendere tale periodo, in
particolare, nei casi di malattie oncologiche che spesso
necessitano di un periodo di comporto più ampio rispetto a
quello previsto dalla normativa che regola le normali assenze per
malattia.
Questa proposta di legge ha lo scopo di modificare la
normativa relativa al periodo di comporto unicamente nei
casi in cui il lavoratore abbia una malattia oncologica. La
proposta specifica che tale scelta non creerebbe differenze di
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 14 dicembre 2015, n. 44.
154 Silvia Fernández Martínez
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trattamento o situazioni di discriminazione tra questi soggetti e
gli altri lavoratori affetti da patologie croniche diverse perché, la
patologia oncologica, a differenza di altre patologie gravi e
croniche, comporta una grave disabilità temporanea nella fase
acuta di malattia, anche se i casi di guarigione sono sempre più
frequenti. Tuttavia, seguendo gli orientamenti normativi più
recenti (art. 8.3 decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante
la disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della
normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7,
della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sarebbe più equo se la
modifica della disciplina del periodo di comporto si applicasse a
tutti i lavoratori affetti da patologie cronico-degenerative
ingravescenti e non solo ai malati oncologici (Cfr. S. Fernández
Martínez, F. Silvaggi, Jobs Act e part-time: l’estensione di un diritto per i
malati cronici, Bollettino ADAPT, 2 marzo 2015).
La proposta di legge si prefigge di eliminare le attuali
differenze nella regolamentazione del periodo di comporto
esistenti tra il settore pubblico e privato uniformando tale
periodo per tutti i lavoratori dipendenti. Il periodo di
comporto non è regolato per legge ma si rinvia alla
contrattazione collettiva comportando, pertanto, un’importante
disomogeneità. Allo stato attuale, nella maggioranza dei contratti
di lavoro nel settore pubblico si prevede che i lavoratori abbiano
diritto a conservare il periodo di lavoro per un periodo di
diciotto mesi: i primi nove mesi di assenza sono interamente
retribuiti, nei successivi tre mesi la retribuzione si riduce del 10
per cento e, infine, negli ultimi sei mesi la retribuzione si riduce
del 50 per cento. Nei casi particolarmente gravi, i lavoratori
pubblici hanno diritto a un ulteriore periodo di conservazione del
posto di lavoro pari a diciotto mesi durante i quali non hanno
diritto a retribuzione. Tuttavia, nel settore privato, sebbene il
Periodo di comporto e conservazione del posto di lavoro dei malati oncologici 155
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periodo di comporto sia anche regolato dalla contrattazione
collettiva, la sua durata non è assimilabile a quella esistente nel
settore pubblico. Per questo motivo, la proposta di legge
equipara il trattamento dei lavoratori del settore privato a
quello previsto per i lavoratori pubblici. Oltre alla
equiparazione, la proposta prevede che ai diciotto mesi di
periodo di comporto, che vengono retribuiti nel modo sopra
specificato, venga aggiunto un ulteriore periodo di
comporto retribuito di tre mesi, durante i quali la
retribuzione viene ridotta del 75 per cento. Pertanto, tutti i
lavoratori con patologie oncologiche hanno diritto a un periodo
di comporto retribuito di ventuno mesi e a un ulteriore periodo
non retribuito di quindici.
La proposta di legge attribuisce allo Stato il compito di fissare la
durata del periodo di comporto perché, in ragione delle
differenze sopra indicate, si ritiene che una materia così delicata
non possa essere regolata da un accordo tra parti. La proposta
di legge parte dall’idea che la fissazione della durata del
periodo di comporto da parte della contrattazione collettiva
non serva a garantire l’omogeneità di trattamento tra i
lavoratori i quali, anche se hanno la stessa malattia ricevono un
trattamento diverso in funzione dell’azienda di appartenenza. Un
esempio, in tal senso, è osservabile nel settore pubblico dove,
sebbene la maggioranza dei contratti di lavoro preveda la stessa
durata del periodo di comporto, il computo di tale periodo può
essere diverso in funzione dei settori di impiego. In ragione
delle differenze osservate, lo Stato sembra l’unico soggetto
in grado di attuare i diritti alla salute e al lavoro garantiti
dalla Costituzione attraverso il giusto bilanciamento tra
tempi di cura e di lavoro.
156 Silvia Fernández Martínez
www.bollettinoadapt.it
Di particolare interesse risulta anche la previsione della proposta
di legge secondo la quale i giorni di ricovero ospedaliero e i
giorni di assenza dovuti agli effetti collaterali di dette
terapie, debitamente certificati, si escludono del computo
del periodo di comporto. Questa previsione va a riprendere
quanto previsto in alcuni settori del pubblico impiego e cerca di
non penalizzare i lavoratori per il fatto di avere una malattia i cui
effetti si prolungano nel tempo, introducendo un’eccezione alla
regola generale sul computo delle assenze per malattia. Sebbene
questa disposizione risponda all’idea di un welfare della
persona, dando risposte diverse ai differenti bisogni dei
lavoratori, (per un approfondimento sul concetto di welfare
della persona si veda, Lavoro e welfare della persona. Un libro “verde”
per il dibattito pubblico, a cura di ADAPT), sono da considerare,
tuttavia, anche altre assenze non certificate o non derivanti delle
terapie ma correlate comunque alla malattia che saranno
computate nel periodo di comporto e che verranno pertanto a
penalizzare il trattamento del lavoratore.
L’art. 2110 del Codice Civile, il quale prevede che al termine
del periodo di comporto il datore di lavoro possa recedere
dal rapporto di lavoro secondo le procedure previste per i
licenziamenti individuali, ha importanti implicazioni per la
conservazione del posto di lavoro, anche se il tema di
licenziamento non è trattato in maniera diretta all’interno della
proposta di legge. In questa materia, la proposta di legge si
limita a introdurre l’obbligo per il datore di lavoro di
comunicare al lavoratore, con un anticipo di almeno trenta
giorni, che il periodo di comporto sta per scadere. Non
sembra che questa sia una misura che consenta la conservazione
del posto di lavoro per i malati oncologici perché anche se i
lavoratori sono consapevoli della prossima scadenza del periodo
Periodo di comporto e conservazione del posto di lavoro dei malati oncologici 157
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di comporto e di dover ritornare al lavoro a rischio di poter
essere licenziati per giustificato motivo oggettivo, se gli effetti
della malattia continuano, questa comunicazione non avrà nessun
effetto positivo perché il malato non potrà comunque tornare al
lavoro.
Le previsioni della proposta di legge hanno effetti in
maniera indiretta sulla disciplina del licenziamento.
L’estensione della durata del periodo di comporto a diciotto mesi
(e ulteriori diciotto mesi nei casi specialmente gravi), per tutti i
lavoratori rappresenta un grande passo in avanti per i lavoratori
del settore privato perché normalmente il periodo di comporto
regolato dalla contrattazione collettiva è di durata molto
inferiore. Pertanto, i lavoratori del settore privato vedono
incrementato il periodo di tempo durante il quale il loro
posto di lavoro è protetto. Tuttavia, di fatto, la proposta di
legge non aumenta il periodo di comporto che è previsto
per il settore pubblico ma si limita ad aumentare di tre
mensilità il periodo di comporto retribuito. Anche se questa
estensione è positiva, la proposta di legge non risolve
totalmente il problema collegato al periodo di comporto
non retribuito o comunque poco retribuito, visto che in un
periodo in cui le spese derivanti della malattia aumentano, i
malati oncologici hanno diritto a una retribuzione molto ridotta
dopo i primi dodici mesi di assenza per malattia e non avranno
diritto a nessun tipo di retribuzione dopo i ventuno mesi di
periodo di comporto.
Oltra a quanto detto, si pone anche il problema dei casi in
cui il periodo di comporto previsto non sia sufficiente a
guarantire il recupero totale del malato oncologico poiché
non tutti i lavoratori hanno bisogno degli stessi tempi di cura.
158 Silvia Fernández Martínez
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Una soluzione potrebbe essere quella di estendere il periodo di
comporto per un tempo superiore a quello previsto dalla
proposta di legge facendo riferimento al caso concreto e
alla previsione medica di evoluzione della malattia di ogni
lavoratore (anche se questa previsione può non essere
attendibile al cento per cento). Questa opzione sarebbe
espressione di un vero welfare della persona che tenga conto dei
bisogni specifici delle persone.
Un’altra possibilità per garantire la conservazione del posto di
lavoro per i malati oncologici potrebbe essere, oltre a quella di
modificare la disciplina del periodo di comporto, quella di
intervenire direttamente anche sulla disciplina del
licenziamento che permette il licenziamento per
superamento del periodo di comporto, introducendo
un’eccezione per i casi di malattia oncologica o comunque
cronica.
In conclusione, il giudizio generale sulla proposta di legge è
positivo perché risolve, innanzitutto, il problema dell’evidente
differenza di trattamento tra lavoratori pubblici e privati.
Tuttavia, oltre alle criticità esposte se ne deve aggiungere un’altra:
la proposta si riferisce principalmente ai lavoratori
contrattualizzati a tempo indeterminato e anche se segnala
che si deve aumentare il periodo previsto per il
riconoscimento dell’indennità di malattia per i lavoratori
autonomi, non si specifica in che modo. La proposta non
tiene conto, pertanto, della recente evoluzione del mercato del
lavoro in cui si è registrata una proliferazione di rapporti di
lavoro atipici (intermittenti, temporanei) e una diffusione sempre
maggiore del lavoro autonomo, posto che non consente a questi
lavoratori di godere delle tutele e protezioni previste per i
Periodo di comporto e conservazione del posto di lavoro dei malati oncologici 159
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lavoratori assunti a tempo indeterminato o per i lavoratori
pubblici (Cfr. M. Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare:
occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in
Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche,
a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book
series, n. 36/2015, p. 20).
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Sezione IV
LAVORO AUTONOMO
E MALATTIE CRONICHE
Lavoro autonomo:
quali tutele in caso di malattia cronica?*
di Silvia Fernández Martínez, Elisabetta Iannelli
Il Titolo I del disegno di legge governativo, Misure per la tutela del
lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione
flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato a tempo indeterminato
(ci vorrebbe una virgola dopo “luoghi”) contiene, agli articoli 10
e 11, tutele per i lavoratori autonomi nel caso di riduzione della
capacità lavorativa. In concreto, l’articolo 10 contiene tutele per i
casi di gravidanza, malattia e infortunio, mentre l’articolo 11 si
riferisce alla tutela specifica relativa alle malattie
oncologiche.
L’art. 10 del disegno di legge prevede che «la gravidanza, la
malattia e l’infortunio dei lavoratori autonomi che prestano la
loro attività in via continuativa per il committente non
comportano l’estinzione del rapporto di lavoro, la cui esecuzione
rimane sospesa, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non
superiore a centocinquanta giorni per anno solare». Durante il
periodo in cui il lavoratore non ha diritto al corrispettivo, può
avere diritto ad un’indennità di malattia, la cui durata e importo
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 21 marzo 2016, n. 10.
Lavoro autonomo: quali tutele in caso di malattia cronica? 161
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economico dipendono dai contributi previdenziali effettivamente
pagati nel periodo precedente all’insorgere della circostanza.
Il disegno di legge prevede anche tutele specifiche in caso di
malattie gravi che impediscano lo svolgimento dell’attività
lavorativa per oltre sessanta giorni. In questo caso «il
versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi è
sospeso per l’intera durata della malattia o dell’infortunio fino ad
un massimo di due anni, decorsi i quali il lavoratore è tenuto a
versare i contributi ed i premi maturati durante il periodo di
sospensione in un numero di rate mensili pari a tre volte i mesi di
sospensione».
L’articolo 11 si riferisce agli iscritti alla gestione separata
che incorrano in malattia oncologica ed equipara ai periodi
di degenza ospedaliera i periodi di malattia c.d.
domiciliare, qualora si tratti di «periodi di malattia
certificata come conseguente a trattamenti terapeutici di
malattie oncologiche». Con questa disposizione si eliminano,
nel caso di malattie oncologiche, le disparità esistenti tra i periodi
di malattia con degenza ospedaliera e quelli domiciliari. Queste
differenze potrebbero essere notevoli, visto che il numero
massimo di giorni di degenza ospedaliera nell’anno solare è di
180 mentre negli altri casi è pari a 1/6 della durata complessiva
del contratto. In questo modo, i lavoratori autonomi con una
malattia oncologica possono sospendere l’attività lavorativa
per un periodo complessivo di 180 giorni,
indipendentemente dal fatto che siano di degenza
ospedaliera.
Queste previsioni accolgono alcune delle misure contenute
nell’art. 5 della proposta di legge, Disposizioni per la tutela e la
162 Silvia Fernández Martínez, Elisabetta Iannelli
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promozione del lavoro autonomo, presentata il 14 ottobre 2015
alla Camera dei deputati e nella Petizione Diritti e tutele per i
lavoratori che si ammalano. Tuttavia permangono dei profili
problematici cui il disegno di legge governativo non dà risposta.
Il primo riguarda l’ambito di applicazione: il comma 1 dell’art. 12
si riferisce ai lavoratori autonomi «che prestano la loro attività in
via continuativa per il committente». Pertanto, questo disegno
di legge lascia fuori dell’ambito applicativo delle tutele i
liberi professionisti che non abbiano un rapporto
continuativo con un cliente. Un disegno di legge sul lavoro
autonomo che tenesse conto dei grandi mutamenti in atto nel
mercato del lavoro e della sempre maggiore proliferazione di
rapporti di lavoro autonomo e non continuativo (Cfr. M.
Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e
tutele delle persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e
tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M.
Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n.
36/2015, p. 20) dovrebbe includere nel proprio ambito di
applicazione anche i liberi professionisti che non operino in
regime di monocommittenza. In caso contrario, le attuali
discriminazioni tra lavoratori autonomi e lavoratori
subordinati si riprodurrebbero tra diverse tipologie di
lavoratori autonomi.
Un’altra questione che non è del tutto chiara è la sospensione nel
versamento dei contributi previdenziali: il versamento
successivo dei contributi, una volta superato il periodo
massimo di due anni di sospensione, non dovrebbe
implicare il pagamento di alcun tipo di oneri aggiuntivi di
mora che verrebbero a gravare ingiustamente sul lavoratore
autonomo malato. Il problema si pone, in particolar modo, per
Lavoro autonomo: quali tutele in caso di malattia cronica? 163
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i lavoratori affetti da patologie croniche o ingravescenti i cui
effetti invalidanti si protraggono o si ripresentano anche nel
lungo periodo. In questi casi, il lavoratore autonomo, trascorsi i
due anni di tutela prevista dal disegno di legge in esame, potrebbe
trovarsi nell’impossibilità di riprendere il lavoro o di essere
produttivo come prima dell’insorgere della patologia e, pertanto,
potrebbe non essere in grado di soddisfare gli oneri relativi ai
contributi previdenziali dovuti che, inoltre, si verrebbero a
sommare a quelli maturati successivamente.
Sarebbe poi auspicabile la previsione di altre forme di
sostegno per i lavoratori autonomi gravemente malati,
sempre relative agli oneri contributivi, prevedendo, ad
esempio, misure eccezionali, un tantum, di esonero totale o
parziale dal pagamento dei contributi previdenziali dovuti,
per almeno una annualità nel periodo contributivo che
segue la diagnosi e cura delle patologie oncologiche e delle
altre gravi patologie croniche o ingravescenti.
Si potrebbe prendere a modello una buona pratica messa in atto
dal 2015 dalla Cassa forense, che prevede l’esonero dal
pagamento della contribuzione minima soggettiva ed integrativa
per una annualità nel corso dell’intera vita professionale, ai sensi
dell’art. 101 del Regolamento di attuazione della legge 247/2012.
La Cassa Forense concede detto esonero contributivo, tra gli
altri, agli avvocati affetti da malattia che ne ha ridotto
grandemente la possibilità di lavoro ed agli avvocati che svolgono
assistenza continuativa di congiunti/coniuge affetti da malattia
che ne determini totale non autosufficienza. L’esonero dal
versamento dei contributi minimi soggettivo ed integrativo
dovuti è concesso per una sola volta e limitatamente ad un anno
164 Silvia Fernández Martínez, Elisabetta Iannelli
www.bollettinoadapt.it
solare e con riconoscimento dell’intero periodo di contribuzione
ai fini previdenziali.
Per quanto riguarda l’equiparazione tra giorni di degenza
ospedaliera e il resto dei giorni di malattia, sebbene questa
previsione normativa possa considerarsi favorevolmente, va
rilevato che per le patologie gravi, come ad esempio quelle
oncologiche cui si riferisce specificatamente ed esclusivamente la
norma, 180 giorni di malattia o di degenza ospedaliera non sono
sufficienti ad assicurare il diritto alla cura poiché, come è
noto, soprattutto nelle fasi acute di malattia i trattamenti
terapeutici salvavita si protraggono per tempi lunghi e
causano rilevanti effetti collaterali che impediscono in tutto
o in parte le normali attività anche lavorative.
Per una piena ed effettiva riabilitazione della persona
gravemente malata, sono necessari strumenti di inclusione
sociale e lavorativa che tengano conto dei tempi di recupero
necessari nei casi di malattie croniche o ingravescenti.
L’articolo 11 prevede l’equiparazione della cura domiciliare al
ricovero solo per i lavoratori autonomi iscritti alla gestione
separata INPS. Si evidenzia, dunque, ancora una volta il
problema relativo all’ambito di applicazione di queste tutele, di
cui non potranno godere i lavoratori autonomi ed liberi
professionisti non iscritti alla gestione separata INPS.
Si rileva, infine, che il disegno di legge in esame prevede
l’equiparazione tra giorni di degenza ospedaliera e le altre
giornate di assenza per malattia solo nei casi di malattie
oncologiche mentre tale tutela dovrebbe essere estesa a tutti i
lavoratori affetti da patologie croniche o ingravescenti, come
Lavoro autonomo: quali tutele in caso di malattia cronica? 165
© 2017 ADAPT University Press
già evidenziato in altre occasioni (cfr. S. Fernández Martínez, F.
Silvaggi, Jobs Act e part-time: l’estensione di un diritto per i malati cronici,
Bollettino ADAPT, 2 marzo 2015).
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Sezione V
OBESITÀ
Prevenzione dell’obesità
sul luogo di lavoro. Requisito essenziale
per l’allungamento della vita lavorativa*
di Francesca Sperotti
I dati OCSE pubblicati nel 2014 sulla crescente “epidemia
dell’obesità” – così definitiva dall’International Obesity Task
Force e dall’European Association for the Study of Obesity nel
2002 – sembravano aver rassicurato, per un breve istante,
l’opinione pubblica.
In un contesto mondiale dove si registrano più di 1,9 miliardi di
persone adulte in sovrappeso, e di questi, circa 600 milioni di
obesi (World Health Organization, Obesity and Overweight,
Fact Sheet N°311, gennaio 2015), la diffusione dell’obesità e
dello stato di sovrappeso sembrava, infatti, essersi stabilizzata per
alcuni Paesi (tra cui l’Italia, Regno Unito e Stati Uniti), e cresciuta
a tassi inferiori rispetto al passato per altri (come Canada, Corea e
Spagna) (si veda grafico 1).
E invece le proiezioni dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità per il 2030 presentate durante il 22° Congresso
europeo sull’obesità (e non ancora rese ufficiali), hanno fatto
suonare nuovamente il campanello di allarme. Secondo tali
* Working Paper ADAPT, 18 maggio 2015, n. 177.
Prevenzione dell’obesità sul luogo di lavoro 167
© 2017 ADAPT University Press
proiezioni, infatti, nel 2030 molti Paesi avranno più della metà
della popolazione adulta sopra il limite di peso ritenuto “sano”.
Per dare alcuni esempi, nel 2030 circa un terzo delle donne
inglesi e il 30% degli uomini della stessa nazionalità sarà obeso
(nel 2010 rappresentavano entrambi il 26% della popolazione
totale). Spostandoci verso il Mediterraneo, la porzione di uomini
greci obesi aumenterà più del doppio, dal 20% (2010) al 44%
(2030), mentre quella delle donne raggiungerà i 40 punti
percentuali. Anche in quei Paesi in cui attualmente la condizione
di obesità e sovrappeso non rappresenta particolari criticità si
osserveranno trend simili. È il caso della Svezia, dove nel 2030
circa il 26% degli uomini e il 22% delle donne sarà obeso (nel
2010 i due gruppi rappresentavano rispettivamente il 14% e il
12%).
168 Francesca Sperotti
www.bollettinoadapt.it
Grafico 1: Tasso di obesità
Fonte: OECD, Obesity Update, giugno 2014, p. 2.
Come già sostenuto da ADAPT in un breve studio del 2011,
il fenomeno sempre più diffuso dell’obesità e del
sovrappeso, causato da un lato dalla crescente inattività fisica,
che annualmente contribuisce a circa 3,2 milioni di decessi e alla
perdita di 69,3 milioni di anni di vita “sana” (World Health
Organization, Global status report on NCDs 2014, 2014, p.xii
disponibile in Osservatorio ADAPT Chronic Diseases and Work), e
dall’altro da diete poco salutari (ad alto contenuto calorico o di
sodio) è una problematica che non ha solo implicazioni per
Prevenzione dell’obesità sul luogo di lavoro 169
© 2017 ADAPT University Press
lo stato di salute della società, ma pone anche una serie di
sfide per il mercato del lavoro. Questo è tanto più vero alla
luce delle ultime riforme pensionistiche adottate da molti
Paesi che, allungando la vita lavorativa delle persone,
rendono prioritario lo stato di salute delle stesse perché da
esso dipende la loro effettiva partecipazione al mercato del
lavoro. Il problema dell’obesità deve essere dunque
affrontato non solo come una questione di salute pubblica
ma come un fenomeno economico (come già argomentato a
suo tempo da E. A. Finkelstein, C. J. Ruhm e K.M. Kosa,
“Economic Causes and Consequences of Obesity” in Annual
Review of Public Health, 26: 239-57, 2005) e segnatamente del
mercato del lavoro.
Ai costi diretti legati alle spese mediche, infatti, si
aggiungono i costi indiretti derivanti da minori livelli di
produttività, più alti tassi di assenteismo e presentismo, e
un maggior rischio di infortunio sul posto di lavoro (per una
panoramica sulla letteratura in questi temi si rinvia al precedente
studio di F. Sperotti, Literature Review: Gli effetti dell’obesità sul
mercato del lavoro, in Bollettino ADAPT
21 febbraio 2011). Questi elementi danno spesso origine a
comportamenti discriminatori osservabili sia nella fase di
ingresso nel mercato del lavoro sia durante lo stesso rapporto di
lavoro. Nel primo caso, il comportamento discriminatorio può
rendere più improbabili le possibilità di assunzione della persone
in condizione di obesità o sovrappeso, circostanza che si verifica
soprattutto per le donne (come recentemente rilevato da M.
Caliendo e M. Gehrsitz, Obesity and the Labor Market: A Fresch
Look at the Weight Penalty, IZA Discussion Paper No. 7947,
febbraio 2014) e per certe figure professionali. Si pensi, a titolo di
esempio, a quelle impiegate nelle attività commerciali di
170 Francesca Sperotti
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rappresentanza, di servizio al pubblico o alla clientela (come
descritto per l’ambito della vendita al dettaglio da K.O. Cowart,
M.K. Brady, “Pleasantly Plump: Offsetting Negative Obesity
Stereotypes for Frontline Service Employees”, in Journal of
Retailing, Vol. 90 Issue 3, p.365, settembre 2014). Nel secondo
caso, oltre agli stereotipi, si può addirittura verificare la possibilità
che il datore di lavoro proceda al licenziamento per giustificato
motivo oggettivo per inidoneità sopravvenuta o per scarso
rendimento (si legga S. Fernández Martínez, Obesità e licenziamento:
quali sfide alla luce della giurisprudenza comunitaria?, 12 maggio 2015).
Entrambe le situazioni portano le persone affette da obesità o
sovrappeso ad essere escluse dal mercato del lavoro.
Le persone in sovrappeso e obese sembrano essere anche
penalizzate dal punto di vista salariale, soprattutto se donne e
di bassa statura (Wang-Sheng Lee, Big and Tall: Is there a Height
Premium or Obesity Penalty in the Labor Market?, IZA Discussion
Paper No. 8606, ottobre 2014).
Non solo. L’aumento dell’indice di massa corporea, oltre ad
avere gli effetti sopra descritti è il principale fattore di
rischio per alcune malattie croniche quali: malattie
cardiovascolari, diabete, disordini muscoloscheletrici, e
alcuni tipi di cancro. Malattie che oltre ad incidere sui tassi di
mortalità, incidono sui tassi di disabilità (e quindi di richiesta di
sussidi che compromettono ulteriormente la sostenibilità dei
sistemi di welfare) e il numero di casi di convivenza con la
malattia, rendendo così nuovamente centrale il tema della
permanenza e del ritorno al lavoro delle persone affette da
tali malattie (come studiato da M. Tiraboschi, Le nuove frontiere
dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie
croniche in M. Tiraboschi (a cura di), Occupabilità, lavoro e
Prevenzione dell’obesità sul luogo di lavoro 171
© 2017 ADAPT University Press
tutele delle persone con malattie croniche, ADAPT LABOUR
STUDIES e-Book series, 2015, n. 36).
Quindi l’innalzamento della vita lavorativa introdotto dalle
riforme pensionistiche di molti Governi passa
necessariamente attraverso il contenimento di questa nuova
epidemia. Obiettivo che rientra, infatti, nei targets che
l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è prefissata per il 2020
tramite il Global Action Plan for the prevention and control of
noncommunicable diseases 2013-2020 (si veda il Box 1), e che
oggi più che mai richiede il sostegno da parte di attori pubblici e
privati.
Box 1: WHO Global Targets
World Health Organization, Global Action Plan for the Prevention and Control of
Noncommunicable Diseases 2013-2020, 2013, p. 5.
172 Francesca Sperotti
www.bollettinoadapt.it
Assumono così nuovamente rilievo le indicazioni che
l’Organizzazione Internazionale del Lavoro rivolgeva già
nel 2005 a datori di lavoro e sindacati. Il rapporto Food at work:
workplace solutions for malnutrition, obesity and chronic diseases individua
una serie di fattori che tali attori dovrebbero considerare in
materia di ambiente di lavoro, pasti e alimentazione per propri
dipendenti: numero di lavoratori interessati e rispettive
caratteristiche demografiche; budget a disposizione per un
programma di alimentazione; spazio a ambiente della mensa
interna; utilizzo finale dei tickets (laddove non viene offerta la
possibilità della mensa, verificare dove è possibile utilizzare i
tickets e il prezzo e la tipologia di pasto offerto); durata della
pausa pranzo e spazi ad essa dedicati; rispetto delle norme
igieniche e di salute nelle fasi di conservazione, preparazione,
cottura e servizio del pasto; tipologia del pasto servito; rispetto
delle diverse necessità alimentari (allergie, norme religiose,
intolleranze etc.); servizi di vending offerti sul posto di lavoro;
educazione alimentare etc. Più in generale lo studio sottolinea
il ruolo chiave che il luogo di lavoro può svolgere nel
contenere “obesity epidemic” e promuovere l’attività fisica
e una sana alimentazione. Corretti programmi di
alimentazione sul posto di lavoro possono, infatti, prevenire non
solo l’obesità ma anche le altre principali malattie croniche e, di
conseguenza, aumentare il livello di produttività e il morale
dei lavoratori nonché ridurre i giorni di malattia e il rischio
di infortuni.
Nonostante questi comprovati benefici, e anche le
numerose iniziative intraprese da istituzioni e governi (ad
esempio a livello di campagne promozionali, progetti nelle
scuole, misure nel mercato dei prezzi degli alimenti etc.) il tema
Prevenzione dell’obesità sul luogo di lavoro 173
© 2017 ADAPT University Press
rimane ancora un tabù sul luogo di lavoro che, al contrario,
può svolgere un ruolo centrale nella riduzione di questa
malattia e quindi nella promozione di migliori livelli di
produttività e benessere dei lavoratori.
Le recenti proiezioni dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità dimostrano ancora una volta che la prospettiva
demografica è parte integrante del mondo delle relazioni di
lavoro, e come tale non può più essere sottovalutata.
© 2017 ADAPT University Press
Obesità e licenziamento:
quali sfide alla luce
della giurisprudenza comunitaria?*
di Silvia Fernández Martínez
Le ultime proiezioni dell’OMS sul numero di persone che in
Italia soffriranno di sovrappeso e di obesità nel 2030
evidenziano un fatto rilevante: saranno queste le epidemie del
futuro. I dati, che trattandosi di previsioni devono essere presi
con cautela, segnalano che nel 2030 il 50% delle donne e il 70%
degli uomini saranno in sovrappeso. Si preannuncia, quindi, una
crescita rispetto ai dati del 2010, quando la percentuale di
sovrappeso delle donne era del 39% e tra gli uomini del 58%.
Non molto più incoraggianti sono i dati rispetto alle percentuali
di obesi: si prevede che la percentuale di donne obese passi dal
10% al 15% e quelle degli uomini dal 12% al 20%.
Oltre agli effetti che l’incremento del numero di persone con
problemi di sovrappeso causa sul sistema sanitario e di Welfare,
questa nuova epidemia ha anche un importante impatto sul
mercato del lavoro. Riguardo al rapporto di lavoro della
persona affetta da queste malattie, si presenta la possibilità che il
datore di lavoro proceda al suo licenziamento per giustificato
* Pubblicato in Boll. ADAPT, 18 maggio 2015, n. 19.
Obesità e licenziamento alla luce della giurisprudenza comunitaria 175
© 2017 ADAPT University Press
motivo oggettivo per inidoneità sopravvenuta o per scarso
rendimento. La mancanza di una normativa che conceda diritti
specifici alle persone affette da malattie croniche e, in questo
caso concreto, da sovrappeso e obesità, determina l’applicazione
del regime generale che interessa tutti i lavoratori. In questo
senso, la perdita d’interesse del datore di lavoro alla prosecuzione
del rapporto di lavoro si giustifica in ragione della perdita delle
capacità di cui il lavoratore era in possesso al momento della
conclusione del contratto. L’inidoneità sopravvenuta deriva
dall’impossibilità del lavoratore di svolgere le funzioni
proprie del suo rapporto di lavoro, mentre lo scarso
rendimento riguarda l’incapacità di raggiungere gli obiettivi
nel modo che precedeva l’insorgere della malattia. Il
presentarsi di tali condizioni porta al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo con preavviso, a norma dell’art. 3
della legge n. 604 de 5 giugno 1966, rientrando nelle ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa.
Il Jobs Act interviene sulla materia eliminando la possibilità di
reintegra per licenziamento oggettivo illegittimo nel caso in
cui non sia accertata la inidoneità sopravvenuta del lavoratore o
lo scarso rendimento. Queste regole in materia di licenziamento
hanno come conseguenza l’uscita prematura delle persone
affette da una malattia cronica del mercato del lavoro con la
consegna di un indennizzo. Visti i dati che prevedono che più
della metà della società sarà affetta da problemi di questo tipo, e
quindi anche una buona parte della popolazione attiva, diventa
una priorità assicurarsi che queste persone possano continuare a
svolgere la propria prestazione lavorativa attraverso
l’adattamento del posto di lavoro, qualora non fosse possibile
svolgerla nelle condizioni iniziali. Questa nuova epidemia
176 Silvia Fernández Martínez
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rappresenta una vera minaccia per la sostenibilità dei sistemi
di Welfare che potrebbero assistere ad una forte diminuzione
dei contributi versati dovuta all’uscita delle persone con
sovrappeso e obesità del mercato dal lavoro , anche
accompagnata da un aumento dei costi di cura dovuti
all’incremento del numero di persone che ne necessitano.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea negli ultimi
pronunciamenti adotta tutta un’altra posizione rispetto a quella
sostenuta nella legislazione italiana mirata a tutelare la
situazione dei lavoratori con malattie croniche, come
l’obesità, ma che non hanno ottenuto il riconoscimenti di
disabilità a effetti amministrativi (Cfr. Occupabilità, lavoro e tutele
delle persone con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT
LABOUR STUDIES e-Book series, 2015, n. 36). Nello specifico,
la sentenza di 18 dicembre 2014, Fag og Arbejde (FOA) contro
Kommunernes Landsforening (KL), causa 354/13 che tratta il
caso di un lavoratore affetto da obesità, stabilisce che sebbene lo
stato di obesità non costituisca, in quanto tale un handicap, può
rientrare nel concetto di disabilità della Direttiva 2000/78,
«qualora determini una limitazione risultante segnatamente da
menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in
interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena
ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita
professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori».
Questa sentenza prevede l’equiparazione tra obesità e
disabilità se questa malattia impatta nello svolgimento della
prestazione lavorativa. L’equiparazione ha effetti importanti nella
disciplina del licenziamento dell’ordinamento giuridico italiano.
Nel caso in cui il datore di lavoro non riesca a provare di aver
cercato di adattare il posto di lavoro alle nuove condizioni del
lavoratore con obesità, il licenziamento rientrerebbe nel
Obesità e licenziamento alla luce della giurisprudenza comunitaria 177
© 2017 ADAPT University Press
motivo di nullità con obbligo di reintegra previsto dall’art. 2
Decreto legislativo n. 23 di 4 marzo di 2015. In altri termini, si
tratterebbe di un licenziamento nullo per vulnerare il divieto di
discriminazione per handicap previsto dall’art. 15 dello Statuto
dei lavoratori ovvero per fondarsi nella disabilità fisica o psichica
del lavoratore in base al comma 4 dell’articolo 2 del
summenzionato Decreto.
La posizione adottata dalla Corte di Giustizia costituisce una via
per favorire la tutela dei lavoratori con sovrappeso e obesità
sebbene non rappresenti la soluzione definitiva del problema
dell’uscita prematura del mercato del lavoro di questi lavoratori.
Si tratta infatti di una tutela difensiva e non preventiva dato
che risulta applicabile solo quando il licenziamento si è
perfezionato. La vera sfida per permettere la sostenibilità del
lavoro delle persone con malattie croniche, tra le quali,
l’obesità, dovrebbe consistere nell’adattamento delle
condizioni lavorative durante la vigenza del contratto, e non
nel momento successivo al perfezionamento del
licenziamento.
© 2017 ADAPT University Press
Obesità e sovrappeso:
nuove sfide in materia di salute
e sicurezza sul lavoro*
di Sergio Iavicoli e Antonio Valenti
L’obesità rappresenta uno dei principali problemi di salute
pubblica a livello mondiale sia perché la sua prevalenza è in
costante e preoccupante aumento sia perché
contemporaneamente pone anche una serie di sfide per il
mercato del lavoro, in particolare per quanto riguarda l’aspetto
della salute e sicurezza sul lavoro (SSL), aspetto spesso trascurato
o non sufficientemente analizzato. Ciò vale maggiormente a
seguito delle ultime riforme pensionistiche adottate da molti
Paesi che, allungando la vita lavorativa delle persone, rendono
prioritario lo stato di salute delle stesse perché da esso dipende la
loro effettiva partecipazione al mercato del lavoro.
In tale ottica, gli studi presenti in passato risultano essere
poco esaustivi circa la correlazione obesità e SSL dato che la
loro attenzione si era soffermata sul potenziale impatto
dell’obesità relativamente ad alcune categorie di rischi
occupazionali (Henschel A, Obesity as an occupational hazard, Can J
Public Health. 1967;58:491–493).
* Pubblicato in Boll. spec. ADAPT, 7 luglio 2015, n. 16.
Obesità e sovrappeso: nuove sfide in materia di salute e sicurezza sul lavoro 179
© 2017 ADAPT University Press
Tuttavia, negli ultimi decenni, sono in aumento studi che
evidenziano una correlazione positiva tra
l’obesità/sovrappeso con condizioni lavorative sfavorevoli.
In primo luogo va precisato che la relazione tra obesità e rischio
occupazionale va letta in una duplice veste, nel senso che, se da
un lato l’obesità è la causa o concausa principale nel favorire
l’esposizione del lavoratore al rischio di infortuni o malattie
lavoro-correlate, dall’altro lato l’esposizione a taluni fattori di
rischio (lavori a turni, stress, ecc.) può favorire lo sviluppo dell’
obesità. Essa, infatti, risulta essere statisticamente più frequente
nei lavoratori la cui occupazione prevede un prolungata
sedentarietà, in coloro che svolgono lavoro a turni e in quelli di
sesso maschile che lavorano più di 35 ore settimanali (Schulte PA
et al., Work, Obesity, and Occupational Safety and Health, Am J Public
Health, 2007 March; 97(3): 428–436).
C’è ormai una evidente prova scientifica nel ritenere che i
lavoratori obesi o in sovrappeso abbiano un maggior rischio
di sviluppare malattie professionali quali i disturbi
muscolo-scheletrici essendo maggiormente suscettibili alle
lesioni e ad una maggiore compromissione muscolare, vascolare
e nervosa indotte da vibrazioni, movimenti ripetitivi e carichi
eccessivi. I lavoratori obesi hanno una probabilità doppia rispetto
a quelli normopeso di sviluppare tendinopatie dell’arto superiore
e una probabilità quattro volte maggiore di sviluppare una
sindrome del tunnel carpale (Viester L et al., The relation between
body mass index and musculoskeletal symptoms in the working population,
BMC Musculoskeletal Disorders 2013, 14:238).
Inoltre, sono aumentati gli studi da cui risulta una
correlazione tra obesità ed asma grave a cui si aggiunge
180 Sergio Iavicoli, Antonio Valenti
www.bollettinoadapt.it
l’osservazione che la diminuzione del peso corporeo rende l’asma
più facilmente controllabile. La correlazione tra obesità ed asma
grave è più evidente nel sesso femminile e sembra accompagnarsi
ad influenze ormonali (Varraso R et al., Asthma Severity Is
Associated with Body Mass Index and Early Menarche in Women, Am J
Respir Crit Care Med 2005;171:334-9). È stato stimato che una
percentuale variabile dal 2 al 15% di tutti i casi di asma sia
attribuibile all’esposizione professionale ad agenti sensibilizzanti
vari (farine, derivati epidermici animali, vapori di isocianati,
lattice di gomma, ecc.) (Tarlo SM et al, Diagnosis and management of
work-related asthma: American College Of Chest Physicians Consensus
Statement, Chest. 2008; 134: S1-41).
Non bisogna dimenticare che numerosi studi epidemiologici
attribuiscono alla obesità/sovrappeso la comparsa di
numerose malattie di natura fisica ed anche psichica tra cui
le malattie cardiovascolari, il diabete mellito di tipo 2, alcune
forme di tumore e la depressione (Hamilton MT, Hamilton DG,
Zderic TW, Role of low energy expenditure and sitting in obesity, metabolic
syndrome, type 2 diabetes, and cardiovascular disease, Diabetes 2007; 56
(11): 2655-67; Carey M et al., Prevalence of comorbid depression and
obesity in general practice: a cross-sectional survey, British Journal of
General Practice, March 2014).
Altro aspetto lavorativo, di recente importanza, è la
correlazione tra obesità e stress lavorativo, nel senso che un
lavoro stressante è spesso associato ad un maggiore Indice
di Massa Corporea (IMC) raddoppiando, in modo particolare
negli uomini, la probabilità di insorgenza della sindrome
metabolica dovuta a dieta ipercalorica e scarsa attività fisica (De
Vogli R et al, Unfairness and health: evidence from the Whitehall II
Study, J Epidemiol Community Health 2007; 61 (6): 513-8).
Obesità e sovrappeso: nuove sfide in materia di salute e sicurezza sul lavoro 181
© 2017 ADAPT University Press
Riguardo l’aspetto della sicurezza sul lavoro, si registra una
maggiore esposizione dei lavoratori obesi o in sovrappeso
agli infortuni sul lavoro, basti pensare al fatto che l’obesità
limita la funzionalità fisica compresa la mobilità e la flessibilità, di
conseguenza, questo può portare ad un più elevato rischio di
lesioni rispetto a persone senza tali limitazioni.
La maggior parte delle stime inerenti la correlazione
obesità/SSL, presenti in letteratura, si devono agli Stati
Uniti, Paese in cui si registra la percentuale più alta di obesi in
età adulta. Secondo alcuni studi statunitensi, il rischio di incorrere
in infortuni è maggiore del 15% per i soggetti in sovrappeso e del
48% per gli obesi rispetto ai lavoratori normopeso. Inoltre, i
lavoratori in sovrappeso sarebbero esposti a un rischio di
invalidità superiore del 26% rispetto ai loro colleghi
normopeso, percentuale, questa, che salirebbe al 76% per i
lavoratori obesi (Arena VC, Padiyar KR, Burton WN, Schwerha
JJ, The impact of body mass index on short-term disability in the workplace,
J Occup Environ Med, 2006 Nov;48(11):1118-24). Secondo uno
studio condotto in Finlandia nel 2013 su un campione di quasi 70
mila lavoratori del settore pubblico, i lavoratori in sovrappeso
registrarono un rischio maggiore di incorrere in infortuni sul
lavoro rispetto ai lavoratori normopeso pari ad una percentuale
compresa tra il 14% e il 30%; nel caso dei lavoratori obesi tale
percentuale sale al 62% (Kouvonen A et al., Obesity and
Occupational Injury: A Prospective Cohort Study of 69,515 Public Sector
Employees, PLoS ONE 2013; 8(10):1-8).
Da uno studio realizzato nel 2011 sulla forza lavoro canadese,
risulta che i lavoratori obesi sperimentarono un rischio di
infortunio superiore al 40-49% rispetto ai colleghi con IMC
182 Sergio Iavicoli, Antonio Valenti
www.bollettinoadapt.it
regolare; particolarmente esposte a rischio di infortunio
risultarono le donne, i lavoratori oltre i 40 anni e i lavoratori
impiegati in attività sedentarie (Janssen I, Bacon E, Pickett W,
Obesity and its relationship with occupational injury in the canadian
workforce, J Volume 2011, Article ID 531403).
Particolarmente esposti sono i lavoratori obesi appartenenti
a determinate categorie professionali quali:
autotrasportatori, vigili del fuoco, infermieri, ecc. Ovvero
personale che svolge determinate mansioni che ne accentuano il
livello di esposizione a fattori di rischio infortunio; ad esempio è
il caso di mansioni comportanti il mantenimento di posture fisse
prolungate (rischio muscolo-scheletrico), con interfaccia uomo-
macchina complessa, che potrebbero indurre ansietà con
accresciuta possibilità di errori oppure mansioni svolte in
condizioni ambientali sfavorevoli (Gauchard G et al, Determinants
of accident proneness: a case-control study in railway workers, Occup Med
2006; 56 (3):187-90; Soteriades ES et al, Obesity and risk of job
disability in male firefighters, Occup Med 2008; 18; Thompson DL,
The costs of obesity: what occupational health nurses need to know,
AAOHN J 2007; 55 (7): 265-70).
Secondo un’altra ricerca condotta negli Stati Uniti nel 2011, a
livello aggregato i lavoratori sovrappeso o obesi si
assentano dal lavoro 450 milioni di giorni in piùall’anno
rispetto ai colleghi normopeso, il che si traduce in una perdita
di produttività pari a 153 miliardi di dollari l’anno. Oltre alle
perdite in termini di produttività, le aziende sostengono spese
mediche del 42% più alte per i dipendenti obesi o sovrappeso
rispetto agli altri (Gallup, Healthways Being Index, 2011). Infine, ma
sicuramente non meno importante, si è riscontrato come
l’obesità rappresenti uno dei principali fattori di rischio per
l’abbandono precoce del lavoro (Friis K, Ekholm O, Hundrup
Obesità e sovrappeso: nuove sfide in materia di salute e sicurezza sul lavoro 183
© 2017 ADAPT University Press
YA, The relationship between lifestyle, working environment, socio-
demographic factors and explusion from the labour market due to disability
pension among nurses, Scand J Caring Sci, 2008 Jun; 22(2):241-8).
Anche riguardo ai dispositivi di protezione individuale (DPI) i
lavoratori obesi hanno maggiore difficoltà a reperire DPI «idonei
alla loro conformazione fisica che, indossati male e risultando
scomodi, non assicurano la dovuta protezione».
I possibili interventi nel tutelare una categoria particolarmente a
rischio, quale quella del lavoratore obeso, possono comprendere
l’adozione da parte del datore di lavoro di programmi
miranti ad incentivare la perdita di peso tramite ad esempio
l’esercizio fisico e la promozione di una alimentazione sana sul
luogo di lavoro. Inoltre, il medico competente, quale figura della
prevenzione incaricata di recarsi in azienda a svolgere
periodicamente visite mediche per stabilire l’idoneità lavorativa o
meno di un dipendente, nel caso di visita periodica a lavoratori
obesi o in sovrappeso dovrebbe prestare particolare attenzione
nel valutare, tramite la raccolta di alcuni parametri (altezza, peso,
pressione arteriosa) i possibili rischi per la salute, e ove
adeguatamente formati, informare sui rischi della non corretta
alimentazione e valorizzare gli effetti positivi sulla salute della
dieta. Inoltre, l’azienda deve essere in grado di accogliere una
persona obesa.
Devono essere effettuati, quindi, interventi strutturali ed
ergonomici per la postazione di lavoro in modo da garantire
una sistemazione ottimale allo scopo di minimizzare
l’esposizione al rischio e la limitazione della capacità lavorativa.
(Baccolo TP, Gagliardi D, Marchetti MR, II perché di una corretta
alimentazione dei lavoratori, G Ital Med Lav Erg 2010; 32:4, Suppl,
184 Sergio Iavicoli, Antonio Valenti
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92-94). Inoltre, le attrezzature di lavoro per i grandi obesi
dovrebbero essere scelte ponendo particolare attenzione ai
requisiti di portata, solidità, adattabilità e regolazione, in merito ai
criteri di sicurezza e accessibilità (Capodaglio P, Obesità e lavoro: un
problema emergente, G Ital Med Lav Erg 2011; 33:1, 47-54).
© 2017 ADAPT University Press
Notizie sugli autori
Silvia Bruzzone ADAPT Professional Fellow. Direttore
responsabile dell’Osservatorio ADAPT
Chronic Diseases and Work
Silvia Fernández Martínez Dottoranda della Scuola internazionale di
dottorato in Formazione della persona e
mercato del lavoro di ADAPT-CQIA,
Università degli Studi di Bergamo
Elisabetta Iannelli Avvocato. Vicepresidente dell’Associazione
Italiana Malati di Cancro, parenti ed amici
(AIMAC). Segretario generale della
Federazione delle Associazioni di
Volontariato in Oncologia (FAVO)
Sergio Iavicoli Dirigente di ricerca, Dipartimento di
Medicina, Epidemiologia, Igiene del Lavoro
ed Ambientale. Inail – Centro Ricerche
Monte Porzio Catone (Roma)
Matilde Leonardi Dirigente medico, Fondazione IRCCS
Istituto Neurologico “C. Besta” di Milano
Chiara Scaratti Fondazione IRCCS Istituto Neurologico
“C. Besta” di Milano
Francesca Sperotti ADAPT Research Fellow
186 Notizie sugli autori
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Michele Tiraboschi Professore ordinario di diritto del lavoro,
Università degli Studi di Modena e Reggio
Emilia
Antonio Valenti Contrattista di ricerca, Dipartimento di
Medicina, Epidemiologia, Igiene del Lavoro
ed Ambientale. Inail – Centro Ricerche
Monte Porzio Catone (Roma)
ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro
1. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma a metà del guado, 2012
2. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma sbagliata, 2012
3. M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recessionary Times, 2012
4. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2012, 2012
5. AA.VV., I programmi alla prova, 2013
6. U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo, Certificazione delle competenze, 2013
7. L. Casano (a cura di), La riforma francese del lavoro: dalla sécurisation alla flexicurity europea?, 2013
8. F. Fazio, E. Massagli, M. Tiraboschi, Indice IPCA e contrattazione collettiva, 2013
9. G. Zilio Grandi, M. Sferrazza, In attesa della nuova riforma: una rilettura del lavoro a termine, 2013
10. M. Tiraboschi (a cura di), Interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale, 2013
11. U. Buratti, Proposte per un lavoro pubblico non burocratico, 2013
12. A. Sánchez-Castañeda, C. Reynoso Castillo, B. Palli, Il subappalto: un fenomeno globale, 2013
13. A. Maresca, V. Berti, E. Giorgi, L. Lama, R. Lama, A. Lepore, D. Mezzacapo, F. Schiavetti, La RSA dopo la sentenza della Corte costituzionale 23 luglio 2013, n. 231, 2013
14. F. Carinci, Il diritto del lavoro in Italia: a proposito del rapporto tra Scuole, Maestri e Allievi, 2013
15. G. Zilio Grandi, E. Massagli (a cura di), Dal decreto-legge n. 76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”: schede di sintesi, 2013
16. G. Bertagna, U. Buratti, F. Fazio, M. Tiraboschi (a cura di), La regolazione dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero, 2013
17. R. Zucaro (a cura di), I licenziamenti in Italia e Germania, 2013
18. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2013, 2013
19. L. Mella Méndez, Violencia, riesgos psicosociales y salud en el trabajo, 2014
20. F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013, 2014
21. M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act - Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il sistema delle tutele, 2014
22. M. Tiraboschi (a cura di), Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese - Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, 2014
23. G. Gamberini (a cura di), Progettare per modernizzare. Il Codice semplificato del lavoro, 2014
24. U. Buratti, C. Piovesan, M. Tiraboschi (a cura di), Apprendistato: quadro comparato e buone prassi, 2014
25. M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle riforme del lavoro, 2014
26. F. Carinci (a cura di), Il Testo Unico sulla rappresentanza 10 gennaio 2014, 2014
27. S. Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro. Una prima rassegna ragionata della letteratura di riferimento, 2014
28. R. Scolastici, Scritti scelti di lavoro e relazioni industriali, 2014
29. M. Tiraboschi (a cura di), Catastrofi naturali, disastri tecnologici, lavoro e welfare, 2014
30. F. Carinci, G. Zilio Grandi (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi - Atto I, 2014
31. E. Massagli (a cura di), Il welfare aziendale territoriale per la micro, piccola e media impresa italiana. Un’indagine ricostruttiva, 2014
32. F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi - Atto II, 2014
33. S. Stefanovichj, La disabilità e la non autosufficienza nella contrattazione collettiva italiana, alla luce della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020, 2014
34. AA.VV., Crisi economica e riforme del lavoro in Francia, Germania, Italia e Spagna, 2014
35. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2014, 2014
36. M. Tiraboschi (a cura di), Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, 2015
37. F. Carinci, M. Tiraboschi (a cura di), I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni, 2015
38. M. Soldera, Dieci anni di staff leasing. La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato nell’esperienza concreta, 2015
39. M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recessionary Times, 2015
40. F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi. Atti del X Seminario di Bertinoro-Bologna del 23-24 ottobre 2014, 2015
41. F. Carinci, Il tramonto dello Statuto dei lavoratori, 2015
42. U. Buratti, S. Caroli, E. Massagli (a cura di), Gli spazi per la valorizzazione dell’alternanza scuola-lavoro, in collaborazione con IRPET, 2015
43. U. Buratti, G. Rosolen, F. Seghezzi (a cura di), Garanzia Giovani, un anno dopo. Analisi e proposte, 2015
44. D. Mosca, P. Tomassetti (a cura di), La trasformazione del lavoro nei contratti aziendali, 2015
45. M. Tiraboschi, Prima lettura del decreto legislativo n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, 2015
46. F. Carinci, C. Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, 2015
47. F. Nespoli, F. Seghezzi, M. Tiraboschi (a cura di), Il Jobs Act dal progetto alla attuazione, 2015
48. F. Carinci (a cura di), Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, 2015
49. Studio Legale Tributario D. Stevanato (a cura di), Introduzione al processo tributario, in collaborazione con ADAPT ANCL Padova e Regione Veneto, 2015
50. E. Dagnino, M. Tiraboschi (a cura di), Verso il futuro del lavoro, 2016
51. S. Santagata (a cura di), Lavoro e formazione in carcere, 2016
52. A. Cassandro, G. Cazzola (a cura di), Il c.d. Jobs Act e i decreti attuativi in sintesi operativa, 2016
53. M. Del Conte, S. Malandrini, M. Tiraboschi (a cura di), Italia-Germania, una comparazione dei livelli di competitività industriale, 2016
54. F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio. Atti del XI Seminario di Bertinoro-Bologna del 22-23 ottobre 2015, 2016
55. G. Rosolen, F. Seghezzi (a cura di), Garanzia Giovani due anni dopo. Analisi e proposte, 2016
56. L. Casano, G. Imperatori, C. Tourres (a cura di), Loi travail: prima analisi e lettura. Una tappa verso lo “Statuto dei lavori” di Marco Biagi?, 2016
57. G. Polillo, ROMA – reset. Una terapia contro il dissesto, 2016
58. J.L. Gil y Gil (dir.), T. Ushakova (coord.), Comercio y justicia social en un mundo globalizado, 2016
59. F. Perciavalle, P. Tomassetti (a cura di), Il premio di risultato nella contrattazione aziendale, 2016
60. M. Sacconi, E. Massagli (a cura di), Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0, 2016
61. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2016, 2016
62. E. Dagnino, F. Nespoli, F. Seghezzi (a cura di), La nuova grande trasformazione del lavoro. Lavoro futuro: analisi e proposte dei ricercatori ADAPT, 2017
63. G. Cazzola, D. Comegna, Legge di bilancio 2017: i provvedimenti in materia di assistenza e previdenza, 2017
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