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Unione EuropeaFondo sociale
europeo
Provinciadi Savona
Regione Liguria
Sul crinaleRiflessioni intorno
alla mediazione interculturale
a cura di
Giovanni Daniele
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Sul crinaleRiflessioni intorno alla mediazione interculturale
a cura di Giovanni Daniele
Dedicato aRossana Baquero
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Questa pubblicazione è stata realizzata nell’ambito del
CORSO DI QUALIFICA PER MEDIATORE INTERCULTURALE
PROGETTO COFINANZIATO DALL’UNIONE EUROPEA - P.O.R. OB. 3 2000-2006
AllieviFatma Benasla, Gentiana Bituni, Rosa Esilda Chuchuca Bustos, Andra Antoanela Farta-de, Soumia Frouni, Florica Ivanovici, Imane Kaabour, Rita Sandra Nuzzolo, Monica Pozzi, Freddy Salinas Saavedra, Claudia Rocio Sanchez Pinilla, Mara Elen Sarango Paredes, Fat-mira Tota, Merita Xhaferrllari, Rajeh Zayed.
DocentiMarco Aime, Marco Berta, Anna Maria Camposeragna, Giuliano Carlini, Andrea Censi, Li-cia Cesarini, Giovanni Daniele, Graciela Del Pino, Davide Delbono, Mario Di Maio, Ilda Dizdari, Stefania Druetti, Mara Gisella Franca, Lorenzo Frixione, Giorgio Gandolfo, Ferdez Gaxha, Marisa Ghersi, Paolo Ghibaudo, Enrico Giribaldi, Amedeo Iennaco, Mauro Mazzi, Brunella Nari, Diego Panetta, Piero Pentenero, Agostino Petrillo, Eliana Pinotti, Husein Sa-lah, Antonio Scafuro, Luisa Sciallero, Mario Sottili, Giampiero Storti, Rosita Timossi, Anna Traverso, Giovanna Zaldini, Daniela Zucchiatti.
Staff di progettoIsabella Bianchi, Luciano Cava.
Ente Promotore
via Peschiera 9/9 - 16122 Genovatel. +39 010 837301 - fax +39 010 8373029e-mail: info@isforcoop-ge.ithttp://www.isforcoop.itSede di Savona: via Molinero - 17100 Savonatel. +39 019 263097/98 - fax +39 019 862286 e-mail: isforcoop@savonaonline.it
Pubblicazione realizzata da:
Ce.D.Ri.T.T. onlusCentro di Documentazione e Ricerca sui Trasferimenti di TecnologiaVico S. Luca 4/32 - 16123 Genova tel. +39 010 25 34 168 - cedritt@infinito.it - http://www.cedritt.it
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Sul crinaleRiflessioni intorno alla mediazione interculturale
INDICE
Prefazione
Assessore Provinciale T. Ferrando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Assessore Regionale G. E. Vesco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
Parte I - Maneggiare le culture: costruire convivenza . . . . . . . . . . . . . . 9
1. Le differenze culturali tra melange globale e meticciato locale - di G. Carlini . . . 11
2. Culture che si spostano - di M. Aime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
3. Città e migranti: l’integrazione difficile - di A. Petrillo . . . . . . . . . . . . . . 23
Parte II - Mediazione interculturale in Italia e in Liguria . . . . . . . . . . . . 31
4. La querelle italiana sulla figura del mediatore: una bussola tra le diverse prospettive regionali - di S. Morano . . . . . . . . . . . . . . . . 33
5. Dieci anni di mediazione a Genova e in Liguria - di G. Daniele . . . . . . . . . 47
Parte III - Documenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
6. Il corso di qualifica per mediatore interculturale di Savona (stage e project work) - a cura di L. Sciallero . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
7. Documento finale gruppo di lavoro del CNEL “Politiche per la mediazione culturale. Formazione ed impiego dei mediatori culturali” . . . 81
8. Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86
N.B. È autorizzata la riproduzione a scopi didattici citando la fonte.
paginabianca
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Facendo tesoro delle esperienze passate – pur non numerosissime sul territorio regiona-le – e adeguandosi per la prima volta in Liguria alle nuove disposizioni emanate nella se-conda metà del 2006 dalla Regione in materia di formazione e qualifica dei mediatori in-terculturali, la Provincia di Savona ha affidato a Isforcoop un corso di 600 ore complessi-ve, per preparare 15 nuovi mediatori provenienti da tre province liguri (Savona, Genova e Imperia) a conferma del fatto che si sentiva davvero il bisogno di una nuova iniziativa formativa in questo campo.I corsisti hanno svolto un percorso teorico (studiando diritto, sociologia, psicologia, antro-pologia oltre a esercitarsi sulle tecniche della mediazione e a rinforzare le loro competen-ze linguistiche e trasversali) e si sono impegnati poi in stage presso vari servizi del territo-rio provinciale e regionale che potenzialmente potrebbero impiegarli come tecnici qualifi-cati (scuole, centri socio-educativi, centri per l’impiego, ambulatori medici ecc.) nella me-diazione interculturale.Il presente volume prova a ripercorrere le tappe dell’evoluzione storica che si è realizza-ta in Liguria nella costruzione e nella utilizzazione dei mediatori prima di questa esperien-za formativa provando a lanciare delle suggestioni e delle proposte per il futuro di questa professione e – più in generale – della funzione di mediazione interculturale, traendo an-che spunto da esperienze significative già realizzate anche in altre regioni italiane.Questo excursus è preceduto da riflessioni sui diversi aspetti del cosiddetto incontro/scon-tro/confronto tra culture, ovvero tra persone che si sentono e/o sono visti come parte di gruppi omogenei per stile di vita e di relazione.Partendo dai paradigmi più diffusi e analizzando ciò che avviene nei diversi teatri della globalizzazione, si propone al lettore una serie di spunti, di strumenti concettuali, che lo aiutino a spostare il suo punto di vista abituale, a posare uno sguardo “straniero” sul suo, sul nostro quotidiano prima di entrare nel merito delle esperienze di mediazione concre-tamente operate. In fondo è proprio questa capacità di “spostarsi” il contributo che i mediatori possono e debbono dare alla società in cui vivono, questo non per generico omaggio ad un presun-to “relativismo culturale” ma per evitare che visioni cristallizzate di sé e degli altri produ-cano ingiustizie e inaridimenti delle relazioni sociali.Una definizione – se si vuole minimalista – di mediatore interculturale recita: “Nuova figu-ra professionale che ha il compito di facilitare l’inserimento dei cittadini stranieri nel con-testo sociale italiano, esercitando la funzione di tramite tra i bisogni dei migranti e le rispo-ste offerte dai servizi pubblici” (INVALSI, Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e educazione), altre se ne potrebbero dare ma quel che importa sottolineare è che formare mediatori e poi operare nel campo della mediazione intercultu-
Provinciadi Savona
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rale è – prima di tutto – un gesto di speranza e, insieme, un atto di giustizia.Se è vero che molti “lavori” sono ormai resi possibili da presenze di varie etnie, occorre allora che soprattutto le Pubbliche Amministrazioni, pur nei limiti dei propri bilanci, indi-viduino in questi nuovi professionisti un valido supporto per valorizzare le diversità, favo-rendo lo scambio e la comunicazione tra culture diverse.Quella che ora ci appare una nuova spesa quasi insostenibile, in tempi brevi ci porte-rà ad un risparmio nei servizi che offriamo: nei centri per l’impiego noi lo abbiamo spe-rimentato.Un ringraziamento va ai mediatori culturali presenti nei nostri servizi ed un augurio di buon lavoro a quelli che hanno terminato il percorso formativo.
Teresa FerrandoAssessore alle Politiche Attive del Lavoro
e Sociali della Provincia di Savona
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Leggendo questo libro sulla mediazione interculturale ed i validi contributi che lo hanno ar-ricchito ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un panorama complesso ma estremamente stimolante, probabilmente in reazione alla ben documentata debolezza della politica e alla frammentarietà delle risposte date dagli amministratori al fenomeno dell’im-migrazione sin dal suo inizio.Il ruolo della mediazione nella gestione dei conflitti, questo suo essere “sul crinale”, secondo la felice definizione data, ne fa uno strumento chiave delle politiche di integrazione e quin-di delle politiche dell’immigrazione così come da me intese.In realtà questo testo conferma l’esistenza di conoscenze e competenze che sono andate maturando sul territorio, seppur in modo spontaneo e precario, anche grazie all’esperienza delle istituzioni liguri, esperienza di cui la Regione deve necessariamente dare conto attra-verso una sistematizzazione e un riconoscimento pieno della figura professionale del media-tore interculturale dal punto di vista normativo e mediante una progettualità politica estesa che tenga in considerazione una molteplicità di fattori.Stiamo lavorando da tempo in questa direzione e, dopo aver individuato i criteri su cui deve fondarsi la formazione professionale, ci accingiamo al riconoscimento dei crediti formativi dei corsi, come quello promosso dalla Provincia di Savona, che si sono nel frattempo tenuti sulla base delle direttive regionali. Il fine ultimo è quello di individuare un percorso chiara-mente definito che possa concludersi con l’istituzione di un elenco, come previsto dalla leg-ge regionale 7/2007, che serva a tutelare questa professione e chi di essa si avvale.Restano molti problemi da risolvere, come quello retributivo e del ruolo professionale, ov-vero degli ambiti di intervento e delle competenze dei mediatori all’interno delle istituzioni e degli enti per cui lavorano ma anche del trasferimento di parte, almeno, delle competen-ze interculturali agli operatori delle istituzioni italiane che forniscono i servizi di cui in misu-ra crescente i migranti usufruiscono.Per questo ritengo importante l’approvazione della legge regionale 7/2007 “Norme per l’ac-coglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati” che met-te a nostra disposizione nuovi strumenti e sancisce la rilevanza strategica della mediazione interculturale in ogni settore di intervento.Credo inoltre che già nel prossimo anno la Regione sarà chiamata ad un nuovo impegno fi-nanziario sia per analizzare e discutere nello specifico le singole problematiche, sia per rea-lizzare azioni di sostegno all’impiego e alla formazione dei mediatori. Ritengo prioritario de-stinare fondi alla mediazione nelle scuole e nei servizi socio-sanitari e puntare su una ver-sione innovativa di mediazione, quella “informale” delle seconde generazioni che si può at-tuare valorizzando i giovani di origine straniera già presenti negli istituti scolastici e coinvol-gendoli nell’accoglienza dei nuovi arrivati.
RegioneLiguria
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Ho notato infine con piacere che in uno dei contributi del libro si individua un elemento di positività nelle azioni intraprese dal mio Assessorato e in particolar modo nell’istituzione della Consulta per l’integrazione dei cittadini stranieri immigrati, con la quale abbiamo cer-cato di estendere la partecipazione dei migranti ai processi decisionali. Rimango infatti con-vinto che questo processo sia assolutamente fondamentale per il dispiegarsi di quelle prati-che di contaminazione e di incontro tra culture di cui abbiamo un grande bisogno in que-sta fase di profonde trasformazioni sociali.
Giovanni Enrico VescoAssessore alle Politiche Attive del Lavoro e dell’Occupazione,
Politiche dell’Immigrazione Regione Liguria
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Parte IManeggiare le culture:
costruire convivenza
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Le differenze culturalitra melange globalee meticciato locale
di Giuliano Carlini
L’approdo, nelle aree culturali che ci riguardano, di crescenti flussi migratori ha aperto da tempo una riflessione sui confronti di culture, non solo nei contesti politico sociali ma an-che, e soprattutto, nelle analisi condotte da parte degli studiosi del problema.Lasciando da parte i diversi nodi intorno ai quali si addensano le analisi sul fenomeno mi-gratorio, in generale, si vuole qui proporre alcune riflessioni sullo specifico delle differen-ze culturali il cui rilievo investe le condotte concrete di gruppi e delle istituzioni che si oc-cupano del problema.L’accresciuta mobilità delle persone, specifica della fase di globalizzazione che caratterizza il mondo in questa epoca, vede lo svilupparsi di tre fenomeni che possono apparire ana-liticamente distinti ma che, nel loro svilupparsi, si intrecciano creando il contesto di riferi-mento del problema delle differenze culturali.Il primo fenomeno è naturalmente quello che si concretizza nello spostamento nelle diver-se aree del pianeta di centinaia di milioni di persone; è un fenomeno complesso del qua-le l’aspetto che si riferisce più propriamente alle migrazioni in quanto tali incide in misura consistente (nelle stime più recenti si parla di circa centottanta milioni di migranti in sen-so proprio) ma che non può non tener conto dell’accresciuta mobilità complessiva delle persone per cui, accanto ai migranti, si devono considerare altri milioni di persone che si spostano in modo meno permanente ma tuttavia significativo a livello mondiale.Il secondo fenomeno riguarda la diffusione della comunicazione per effetto della crescita, in estensione e in capacità tecniche, dei canali comunicativi che produce come effetto cul-turalmente rilevante la costruzione di un immaginario condiviso e nello stesso tempo di-versificato sempre a livello globale e sul quale avremo occasione di ritornare.Terzo fenomeno, che si sviluppa in contemporanea e in collegamento con i primi due, è la crescente urbanizzazione a livello mondiale: la crescita esponenziale di insediamenti urbani che costituiscono sempre più spesso l’area di arrivo e/o di transito dei grandi flus-si migratori.I tre fenomeni si influenzano vicendevolmente in molti modi e hanno un’importanza de-terminante sulla identificazione e sull’interpretazione delle così dette differenze culturali, la più importante delle quali riguarda proprio la costruzione delle specificità e delle diver-sità di lettura che si attribuiscono agli attori sociali coinvolti negli spostamenti.Vale intanto quello che sostiene Appadurai (2001, p.17): “Le migrazioni di massa (volonta-rie o forzose) non sono certo un fatto nuovo nella storia dell’umanità, ma quando si affian-cano al rapido fluire delle immagini mass mediatiche, alle sceneggiature e alle sensazioni, siamo di fronte a un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività moder-ne. Quando i lavoratori turchi emigrati in Germania guardano film turchi nei loro apparta-menti tedeschi, quando coreani a Philadelphia guardano le Olimpiadi di Seul grazie ai col-legamenti via satellite dalla Corea e quando i tassisti pakistani a Chicago ascoltano le cas-sette di prediche registrate in Pakistan o in Iran, siamo di fronte a immagini in movimen-to che incrociano spettatori deterritorializzati. Tutto ciò crea sfere pubbliche diasporiche, fenomeni che mettono in crisi quelle teorie che continuano a basarsi sulla rilevanza dello
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Stato nazionale come fattore chiave dei più rilevanti mutamenti sociali”.D’altro canto i migranti, permanenti od occasionali, si muovono essenzialmente, anche se non esclusivamente, sempre più da aree urbane verso altre aree urbane i cui abitanti so-no caratterizzati da atteggiamenti culturali e quindi da pratiche d’azione fortemente con-dizionate dai processi di omologazione indotti dai modelli di consumo (e dai loro propri luoghi) globalizzati.Questa condizione influenza la scomposizione e composizione, sotto nuove forme, degli imprinting culturali originari dando origine a elementi di differenziazione che appaiono tuttavia fortemente legati alle condizioni e alle pratiche di vita contingenti.Harrison sintetizza bene i termini della questione “…i barbari odierni, non vengono dal-la selve, né la loro cultura è quella selvaggia. Al contrario hanno sperimentato prima del-l’incontro con la nostra città, l’esperienza e la socializzazione con le sterminate megalopo-li del Terzo Mondo, e qui da noi incontrano e sperimentano una città “a misura d’uomo” e da questa prospettiva ripetono con il barbaro di Eco e di Borges il loro rinnovato “voglio essere romano!”. E noi? Noi abbiamo la possibilità di sperimentare la loro esperienza ur-bana che ha gli stessi pregi e difetti della nostra, ma anche difetti e pregi differenti. E im-parando a scambiarci queste somiglianze e queste differenze – noi e loro insieme – nello spazio dell’interculturalità, la città educativa che sarà educativa proprio perché capace di inquadrare i diritti umani, ma contemporaneamente anche i doveri sociali, in un modello di multiculturalità nuova che consenta una migliore condizione di vita fondata su un con-cetto e un concerto di memorie e di relazioni diverse” (Harrison, 2003, p. 66).Naturalmente, come abbiamo sostenuto in altra sede (Carlini, 2007), noi siamo molto più cauti nel condividere l’ottimismo delle osservazioni finali di Harrison ma ci sembra che l’esordio della sua citazione fotografi efficacemente gli esiti di percorsi di ricerca ormai as-sodati.Quindi il problema delle differenze culturali non può che essere affrontato tenendo conto degli scenari che sono stati fin qui sommariamente evocati e ci sembra assolutamente fuori luogo immaginare gli attori dei processi migratori come portatori di atteggiamenti culturali definiti una volta per tutte e quindi tali da confrontarsi in termini di rigidità assoluta.Tuttavia la riflessione sulla differenza culturale oggi fa i conti con almeno tre modi di in-tenderla che nelle valutazioni delle strategie d’azione e dei comportamenti concreti si in-fluenzano, o più spesso convivono, creando possibilità di prese di posizione assolutamen-te contraddittorie.Una prima deriva, che spesso viene considerata frettolosamente obsoleta, è quella che si riferisce alla dimensione del differenzialismo e che si fonda sull’idea che sia possibile iso-lare “culture pure” caratterizzate da riferimenti territoriali precisi, quindi da confini, che si alimenta su differenze inconciliabili relative alla modalità di comunicazione principe, la lingua, sulla compattezza dei riferimenti ideologico religiosi e sull’almeno tendenziale ge-rarchia di importanza fra le diverse culture/civiltà.Sono le argomentazioni che si nutrono del differenzialismo romantico, della dottrina del-la razza e delle sue riedizioni aggiornate e nella cultura politica dello sciovinismo e porta-no nelle condotte pratiche a immaginare un mosaico di culture non comunicanti, quindi a civiltà “immutabilmente diverse” destinate a inevitabili scontri, in oggi e nel futuro, gio-cati sia a livello macro che a livello micro.Accanto a questa impostazione, differenziata ma nelle pratiche spesso confusa, vi è quel-la che pone al centro l’idea di una progressiva convergenza di tutte le differenze cultura-li verso una sorta di omogeneizzazione fondata sul prevalere delle pratiche di comporta-mento indotte dai processi strutturali di globalizzazione (consumismo piuttosto che il pre-valere di condotte individualistiche).
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Dal punto di vista dei riferimenti lontani tale approccio si riferisce agli universalismi tanto imperialistici che religiosi e in maniera più specifica all’universalismo razionalista, coniu-ga l’evoluzionismo con la modernizzazione e prevede esiti di omogeneità culturale glo-bale condizionata in ogni caso condizionata dai modi e dalle pratiche prevalenti dei “rap-porti capitalistici avanzati”.Entrambe queste impostazioni trovano difficili e contraddittorie conferme quando dall’af-fermazione perentoria di assunti si passa alla verifica concreta delle pratiche di comporta-mento delle persone nelle diverse situazioni dell’oggi. Sarebbe tuttavia una grave ingenuità sottovalutarne l’importanza dal momento che l’imma-ginario, veicolato attraverso i media e ripreso in termini anche molto più grossolani nella comunicazione politica, si alimenta di un coacervo di riferimenti confusi che hanno come riferimento comune proprio le teorie del differenzialismo e della convergenza che sem-brano riflettere inverificabili esperienze di senso comune.Molte scelte e decisioni operative, non solo dei decisori politici ma anche di operatori cul-turali, sembrano tener conto delle suggestioni ispirate da questi approcci.Per esempio si potrebbe ragionare delle pratiche di difesa delle specificità delle culture originarie messe in opera da una molteplicità di soggetti che operano nel campo dei con-fronti interculturali, ispirate tutte al lodevole intento della difesa ad oltranza di caratteristi-che culturali originarie, peraltro difficilmente presenti in soggetti concreti ma facilmente evocabili al livello dell’immaginario spesso per alimentare strategie di affermazione di in-teressi specifici o sogni di un riproposto etnosviluppo.I nostri spunti di riflessione, pur non cessando di confrontarsi con i contenuti degli atteg-giamenti culturali appena ricordati, si orientano ad una interpretazione della differenza culturale condizionata sul piano metodologico da un approccio costruttivistico.Naturalmente si condivide la consapevolezza di un mondo che sta diventando più “pic-colo” e che, in questo stesso mondo, i processi di modernizzazione hanno in vaste aree cancellato diversità culturali e biologiche accentuando i processi di razionalizzazione e di standardizzazione e di controllo finalizzato al vantaggio dei pochi su molti e alla diffusio-ne di un’idea unica su quello che è giusto e quello che è sbagliato, utile e disutile, cultu-ralmente rilevante o irrilevante per tutti.Il prezzo pagato da parte delle persone nelle aree più coinvolte da questi processi è stato comunque una crescita dell’alienazione, della disillusione e del senso di non appartenen-za a un luogo che ha dato origine al riemergere di fantasmi che costruiscono nuove iden-tità, nuove culture, nuove etnie in dimensioni di aree territoriali ridotte e al servizio di in-teressi non sempre così facilmente specificabili come “territoriali” e “di gruppo”.E tuttavia ci sembra che più facilmente sia dimostrabile a livello empirico che quello che è in atto, nelle dimensioni concrete di interrelazione, sia piuttosto un processo di mesco-lamento culturale che spazia attraverso luoghi e identità.La concretezza del mescolamento dura da sempre in quanto processo ma come immagi-ne appare come un approccio nuovo e diverso che nasce forse da aree “proibite” dei pa-radigmi che sono stati appena esposti e che fa piuttosto riferimento a sensibilità attuali le-gate alla pratica del collage, della trasgressione, e al limite della sovversione.La modernità stessa si esprime attraverso un costume che si riferisce a un’idea di ordine e di confini, nata com’è nel tempo dell’affermazione delle “specificità nazionali” forzosa-mente costruite ma non per questo, da un certo momento in poi non condivise. L’idea che si riferisce al mélange si alimenta al contrario del riconoscimento di altre forme di differenza quali quelle di genere, di identità, coniugandole tuttavia attraverso pratiche legate a percorsi individuali e di gruppo fortemente ibridi e quindi caratterizzati contem-poraneamente dal globale e dal locale.
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Da questo punto di vista la globalizzazione appare piuttosto un processo di ibridazione che dà origine non a una omogeneizzazione ma piuttosto ad un mélange locale.Sulla base di queste considerazioni la problematica della differenza assume connotazio-ni meno rigide dal momento che si tratta di modularla sulla creazione costante di nuove esperienze di vita ispirate certo dai condizionamenti imposti dalla necessità della soprav-vivenza e dell’adattamento, ma che tendono ad articolare gli elementi provenienti dalle esperienze culturali precedentemente vissute dai soggetti e a scambiarle, attraverso pro-cessi di continua mediazione, in direzione della costruzione di percorsi culturali fortemen-te meticciati e quindi proprio per questo infinitamente più ricchi di chances.I modi della sopravvivenza nelle “aree illegali” (gli slums) prodotte incessantemente dal-l’espansione delle megalopoli nascono naturalmente anche dai modi di vedere “originari” degli attori ma non possono appiattirsi solo su modelli di sopravvivenza per agire i qua-li non esistono più le condizioni materiali, si reinventano quindi nuove pratiche e nuove appartenenze sempre meno legate ad orizzonti culturali prefissati, sempre più propense a creare incessantemente nuovi percorsi che rispondano a concrete esigenze di vita e a co-struzioni di situazioni di felicità possibili.Quello che si verifica quando si percorrono vie di conoscenza sul modo d’essere delle persone oggi, è proprio il coesistere di immagini interpretative, indotte capaci di alimen-tare essenzialmente instabilità e conflitti, con gli sforzi costanti di costruire situazioni con-crete di superamento delle condizioni di disagio, continuamente proposte, mediate e poi riproposte.In termini conclusivi ci sembra di poter condividere nella sostanza le osservazioni propo-ste da Claudio Baraldi quando sostiene che il dibattito generale sui temi che abbiamo cer-cato di affrontare corre “il rischio di ipostatizzare un significato della diversità che appa-re predefinito, come se fosse cristallizzato, in qualche luogo metafisico o in qualche strut-tura latente della società…” (2005, p. 17), mentre “Diversità culturale e ibridazione, co-me fenomeni empirici osservabili, devono evidentemente essere collocati nel quadro di una teoria delle relazioni tra culture: una prospettiva interessante, a tale proposito, è quel-la di considerarle come costruzioni sociali che si producono nella comunicazione” (2005, p.16), nella comunicazione complessiva, aggiungiamo noi, quella che consente i rapporti interrelati in situazioni concrete di attori sociali verso obiettivi concreti da parte di altret-tanto concreti protagonisti.
Riferimenti bibliografici
Appadurai A., Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.Baraldi G., Ibridismo e diversità culturale, in Pieterse J.N., Mélange globale, Carocci, Ro-
ma, 2005.Carlini G., Cultura, cultura del quotidiano, cultura delle origini, in Longoni L. (a cura di),
Multiculturale a chi? Le aspettative culturali degli immigrati, Fratelli Frilli, Genova, 2007 (in pubblicazione).
Harrison G., I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma, 2002.Laplantine F., Nouss A., Il pensiero meticcio, Elèuthera, Milano, 1997.Pieterse J.N., Mélange globale, Carocci, Roma, 2005.
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Culture che si spostano
di Marco Aime
Il turismo è sempre e inevitabilmente un’attività mediata: tra il turista e il locale c’e sem-pre una guida, un accompagnatore. Il mediatore locale oltre a ricoprire l’importante ruolo di interprete linguistico, mette in atto un’opera di ammortizzamento dell’incontro, smussa e lima le diversità tra le due parti. O meglio, smussa la diversità dei suoi compaesani a fa-vore dei turisti, non viceversa. Svolge un ruolo di facilitatore in quanto, quasi sempre, è un individuo che ha già un piede nella cultura occidentale, quella che produce turisti. Proprio per questo può raccontare la cultura del posto ai visitatori. Nel farlo, però, spesso finisce per “creare” una cultura, per visualizzarla e in qualche modo fissarla.Questo processo di creazione e di visualizzazione della diversità culturale ricorda, per cer-ti versi, quanto accade a casa nostra con i mediatori culturali, i quali, in perfetta buona fe-de e per fini certamente apprezzabili, finiscono inevitabilmente per “creare l’altro”. Il me-diatore dovrebbe attenuare la distanza, ma come? Lui che, per esempio, è un po’ meno se-negalese, nel senso che è in grado di dialogare con le nostre istituzioni, finisce speso per dare l’impressione che dall’altra parte ci siano dei senegalesi tutti uguali, che ragionano da senegalesi e che solo un mediatore può comprenderli. Ecco inventato un nuovo, solido, coerente gruppo. Il mediatore reifica la cultura, la rende visibile e finisce per diventarne una sorta di rappresentante ufficiale istituzionalizzato, sottraendola alla sua natura aper-ta e fluida e impedendo così agli individui di esercitare altre opzioni disponibili. Nel ca-so del turismo, i mediatori impediscono spesso ai visitatori di poter osservare con altri oc-chi la realtà che hanno di fronte. La filtrano attraverso maglie create dai turisti stessi. Poi-ché la spinta che anima questi ultimi e che li porta a intraprendere viaggi in luoghi lonta-ni è proprio la ricerca del diverso, dello stupefacente, è naturale che si vada alla ricerca e si apprezzi quanto è più lontano, diverso, stupefacente.1. Da alcuni decenni si stanno affermando nuove forme di turismo, che si pongono in al-ternativa ai modelli di massa, e che stanno tentando, per voce di associazioni, ONG e or-ganizzazioni varie, di proporre un tipo diverso di incontro con l’altro. Il cosiddetto turi-smo responsabile, etico, sostenibile ha dato vita a nuovi immaginari, a “esotismi” diversi, che spostano il turismo dalla sua tradizionale dimensione di svago a quella dell’esperien-za. Come scrive Jean Michaud, “da circa una ventina d’anni la domanda per il cosiddetto turismo d’avventura sia costantemente in aumento, soprattutto da quando, come avviene da alcuni anni, si è unito al discorso promozionale un sapiente dosaggio di valori umani-tari alla moda (...) Si sono ora aggiunti dei concetti vedette, quali la scoperta delle cultu-re altre (a maggior ragione se in via d’estinzione), la conoscenza dell’umanità, l’esperien-za primordiale, emotiva e, paradossalmente, la fuga dai luoghi di quell’altro turismo, quel-la volgarità che è il turismo di massa”.1
Il turismo esotico in genere è caratterizzato da tre paradossi: l’impossibile ricerca dell’au-tenticità; un certo fondo di paura; lo spazio vuoto dell’incontro, la cosiddetta “bolla am-bientale”.2 Bolla che è il prodotto di tutti gli sforzi messi in atto dai molti mediatori che ac-compagnano il turista (dal tour operator alla guida locale) per attenuare lo shock dell’in-
1 Citato in F. Ferraris, Ecoturismo, turismo etnico: un accostamento ambiguo, in ‘Afriche e Orienti’, III, 3-4, 2001, p. 31.2 M-F. Lanfant, International tourism, internationalization and the challenge to identity, in M-F. Lanfant, J. B. All-cock, E.M. Bruner (a cura di), International Tourism: Identity and Change, Sage, London, 1995.
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contro: incontrare l’Africa, l’Asia o l’Australia senza mai provarle pienamente.3 La costru-zione dell’immaginario turistico, sia esso fondato sull’esotismo sia sull’attenzione alle que-stioni sociali, come nel caso del turismo alternativo, dà sempre vita a chiavi di lettura che ci accompagnano fin dalla partenza e che spesso finiscono per aprire una sola porta d’ac-cesso ai mondi visitati: quella per gli stranieri. Non ci sono dubbi che esistano modi di viaggiare più sensibili, ma il rischio è di creare una nuova retorica che propone queste nuove formule come una panacea. Nonostante tutte le attenzioni prestate dai turisti responsabili nei confronti dei contesti visitati, si trat-ta di iniziative su scala micro. La loro efficacia sul locale può essere più o meno rilevan-te, ma non può far perdere di vista il contesto globale in cui si muove ogni tipo di turista. Responsabile o meno per visitare i luoghi scelti, un turista spesso prende un volo aereo e le compagnie aeree lavorano al 90% per i turisti e proprio gli spostamenti aerei dedicati al turismo sono la causa del 7% delle emissioni che causano l’effetto serra.4 Inoltre l’incre-mento del traffico aereo provoca un inquinamento acustico e induce una forte produzione di velivoli, contribuendo così all’inquinamento industriale. Nemmeno il cosiddetto ecotu-rismo, un turismo apparentemente in armonia con la natura, come potrebbe essere quello di campeggiatori che attraversano il deserto del Kalahari, è immune da problemi. La ne-cessità di alimentare fuochi da campo, in un ecosistema così fragile, finisce per causare la distruzione di piante fondamentali per la sussistenza utilizzate dai khoisan.5 Ci si può allora domandare, per quanto riguarda i viaggi nei paesi del Sud del mondo: può il turismo essere davvero etico? Molte volte, nel corso dei miei soggiorni in Africa, mi so-no sentito chiedere: “Quanto ti è costato il biglietto aereo per venire fin qui?”. Nel caso di molti paesi del Sahel, quel biglietto vale quanto il reddito annuale di tre-quattro famiglie locali. Così come una cena in un ristorante per yovò6 a Cotonou costa quanto un salario medio mensile di un beninois. E ancora, a Lalibela, in Etiopia, il biglietto di ingresso al si-to dove si trovano le celebri chiese intagliate nella roccia, vale quanto il doppio del sala-rio medio annuo di un abitante del luogo.7
È difficile, in questi casi, pensare che l’incontro turista-nativo possa basarsi su un rappor-to etico. A meno di non voler far finta di niente, di non voler considerare questa profon-da asimmetria che ha fatto sì che io possa andare in Africa (per diletto), mentre quel ra-gazzo che mi chiede quanto è costato il biglietto non può nemmeno andare dal suo vil-laggio alla capitale con una corriera. Tutta la buona fede e i migliori intenti che possono accompagnare i turisti responsabili non possono evitare l’ostentazione, seppur involonta-ria, di una ricchezza relativa non indifferente, che rimanda a un modello di vita occiden-tale e alimenta desiderio e frustrazione tra quelli che Serge Latouche chiama “i naufraghi dello sviluppo”.8
2. Il turista, con sulle spalle il suo “fardello di uomo bianco” fatto di beni e denaro, rap-presenta uno dei fattori che condizionano l’immaginario di molti abitanti del Sud del mon-do, dove, peraltro, i media trasmettono programmi e film occidentali, mostrando un te-nore di vita sconosciuto ai telespettatori di quei paesi. Analizzando l’impatto del turismo
3 W.E.A. van Beek, African Tourist Encounters: Effects of Tourism on Two West African Societies, ‘Africa’, 2003, 73, 2, p. 254.4 Dati forniti dall’associazione Tourism Concern, www.tourismconcern.com.5 E. Chambers, Native Tours. The Anthropology of Travel and Tourism, Waweland Press, Prospect Heights, Illi-nois, 2000, p. 70.6 Termine con cui vengono chiamati i bianchi in Benin e in Togo.7 F. Michel, Altrove, il settimo senso. Antropologia del viaggio, MC, Milano, 2000, p. 207.8 S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
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nel Ladakh, Paul G. Goering constata come: “Osservando i turisti in vacanza i ladakhi – in particolare i giovani – arrivano facilmente a concludere che tutti gli occidentali sono ric-chi, che lavorano poco e che l’Occidente è un paradiso di consumatori. I giovani iniziano ad allontanarsi dal modo di pensare dei loro genitori e corrono ad abbracciare ogni cosa vista come moderna”.9 Anche la semplice osservazione dei turisti induce a cambiamenti di attitudini e valori. Come sottolinea Abdelwahab Bouhdiba: Il turismo inietta il comportamento di una società del superfluo all’interno di una società del bisogno. Ciò che il turista medio consuma in Tunisia in una settimana, in quantità di carne, burro, prodotti caseari, frutta e dolciumi è equivalente a ciò che due tunisini su tre mangiano in un anno intero. Il divario tra società ricche e povere, a questo punto, non è più una questione accademica, ma una realtà quotidiana.10
Il lato morale di questo aspetto viene spesso camuffato nella pubblicistica del turismo eti-co-responsabile. Qui le definizioni sembrano più basarsi sulla negazione dei luoghi co-muni che su una proposta vera e propria. Si mettono in evidenza le differenze tra le mete proposte rispetto ai luoghi di massa e il diverso approccio, ma anche in questo caso si co-struisce una retorica del sociale. Se da un lato viene messa in evidenza la necessità di viag-giare in modo diverso proprio per cercare di capire meglio i problemi del Sud del mon-do, dall’altro non si pone mai l’accento sull’impatto che il nostro semplice arrivo può ave-re sugli altri. L’incontro con le comunità locali è spesso descritto come un’opportunità ri-servata a pochi e con toni un po’ “parrocchiali”, che portano a immaginare la riunione di un circolo di amici, dove si discute dei problemi degli uni o degli altri in piena convivia-lità e reciproco entusiasmo. In realtà, nella maggior parte dei casi il ruolo del turista è ca-ratterizzato dalla contemplazione piuttosto che da un vero coinvolgimento: si osserva, ci si stupisce, si fotografa e spesso si discute su ciò che si è visto tra turisti stessi.3. Per fare davvero conoscenza occorre tempo, molto, ma difficilmente se ne ha a disposi-zione abbastanza per rimanere in quel luogo a lungo. Senza contare che l’avvio di un rap-porto interpersonale è solitamente un fatto individuale e spesso, invece, sono due grup-pi a trovarsi uno di fronte all’altro. Le dichiarazioni e le promesse relative all’incontro con le popolazioni o le comunità finiscono per essere condizionate dalla brevità e dall’istitu-zionalizzazione di questo incontro, peraltro sempre mediato e collettivizzato. La promes-sa di “incontri” con le popolazioni locali risulta quindi falsata. Al massimo si tratterà di un soggiorno di uno o due giorni in un villaggio dove non si sarà “amici”, come forse si de-siderava essere, ma sempre stranieri. Pertanto le relazioni tra lui e i nativi si fanno sem-pre più impersonali e per entrambi gli individui diventano “tipi”. Nasce allora la tenden-za allo stereotipo e alla categorizzazione: locali e stranieri finiscono per trattarsi l’un l’al-tro sempre più come oggetti.11
Spesso i turisti, quelli responsabili inclusi, non si accorgono di portarsi inevitabilmente ap-presso la loro immagine, il loro status. La maggior parte si percepisce come un individuo medio, non come un ricco, non come un rappresentante tipico della sua società. Il fatto di essere venuto in un paese del Sud del mondo implica, nella loro ottica, una differenza fondamentale, direi ideologica rispetto alla massa che si dirige verso le spiagge assolate e le località più alla moda. All’opposto di quello che Erik Cohen definisce turista ricreazio-nale, che non vive alcuna alienazione nei confronti della propria società di appartenen-za, sente invece la necessità di allontanarsi dalla propria esperienza quotidiana per viver-ne una nuova. Per i nativi, però, i turisti non solo appaiono come ricchi, un po’ tirchi, ma
9 P.G. Goering, The response to Tourism in Ladakh, ‘Cultural Survival Quarterly’, 1990, 14, 1, p. 21.10 Citato in C. C. Lanzano, Antropologia e turismo, cit. p. 84.11 D. Nash, Tourism as a Form of Imperialism, in V. Smith, 1989, cit., pp. 44-45.
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possiedono più di quanto mostrano e potrebbero spendere di più. I turisti sono soprattut-to dei portafogli ambulanti, ma spesso chiusi. Se ne rende conto con una certa malinco-nia Gianni Celati, che con la lievità che caratterizza i suoi scritti ben descrive questa pre-sa di coscienza: Ma più di tutto ci prende alla sprovvista il fatto di essere bianchi. Perché siamo qui a rap-presentare non quel che siamo o crediamo di essere, ma quello che dovremmo essere in quanto bianchi (ricchi, potenti, moderni, compratori di tutto). (...) Ma io sono prima di tutto un fantasma di pelle bianca, sperduto turista, c’è poco da dire. Troppo comodo fa-re gli scrittori che vanno in paesi esotici con idee molto avanzate, dimenticandosi di es-sere bianchi e turisti.12
In realtà il viaggio non è solo un’esperienza di incontro con l’altro: è fondamentale il qua-dro in cui questo incontro deve avvenire e tale quadro deve essere altrove, lontano da noi e dalle nostre abitudini quotidiane. Come dice Marc Augé: “Se fossimo animati soltan-to dal desiderio di incontrare gli altri, potremmo farlo facilmente, senza uscire dai nostri confini, nelle nostre città e nelle nostre periferie”.13 Molto più brutale la fumettista e scrit-trice Claire Bretécher: “Questa idea di andare nel terzo mondo, quando il quarto è a set-te stazioni di metrò”.14
La scusa dell’incontro è pertanto solo parziale: ciò che ci interessa è il nostro essere là. 4. Ciò che distingue il turista responsabile di oggi da quei “turisti del vuoto, viaggiatori di nessuno che non sia io o me”15, è un minor grado di fascinazione da esotico e una più spiccata sensibilità verso i problemi sociali, accompagnata da un interesse verso le realtà locali, ma anche questo nuovo sguardo rischia di occultare quel dislivello che segna ine-vitabilmente il rapporto con l’altro.L’attenzione per le problematiche che caratterizzano le regioni visitate porta a una maggio-re presa di coscienza e induce a una riflessione, spesso condivisa dal gruppo di viaggiato-ri, ma l’essere là, in quel momento esprime di per sé una contraddizione di fondo. Io sono qui, in questo villaggio a discutere e riflettere sui problemi di questa gente, magari penso anche a cosa posso fare per loro, grazie a un sistema che, nella maggior parte dei casi, è la causa principale di quei problemi. Questo è uno dei paradossi del turismo. Perché esista il turismo, sostiene Valene Smith, occorrono tre elementi essenziali: tempo libero; entrate discrezionali (cioè non necessariamente utilizzate per soddisfare i bisogni primari); approvazione sociale16, tre elementi che solo la società occidentale o meglio so-lo alcune fasce di tale società, sono in grado di esprimere tutti assieme. Questo vale an-che per il turismo responsabile che, seppur in espansione, per ora è una nicchia di mer-cato ancora limitata, ma occorre fare attenzione perché, come avverte saggiamente Dome-nico Quirico: “L’ortodossia della responsabilità presenta un rischio: essere arruolata dalle astute strategie del consumismo”.17 Il turismo responsabile non è fuori del mercato, è una sua componente che tenta di moralizzarlo, ma senza uscirne veramente.Se analizziamo la questione su un piano economico, possiamo forse affermare che il turi-smo non è mai etico se a questa parola attribuiamo il significato di “morale”, che attiene a una fondamentale correttezza nei rapporti umani. Il tema della responsabilità, così come viene posto dagli operatori del settore, passa attra-
12 G. Celati, Avventure in Africa, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 52.13 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 51.14 Citata in D. Urbain, L’idiota in viaggio. Storia e difesa del turista, Aporie, Roma, 2003, p. 257.15 Citazione dalla canzone Van Loon di Francesco Guccini.16 V. Smith, (a cura di), Hosts and Guests. The Anthropology of Tourism, The University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1989, p. 1.17 D. Quirico, Quando le vacanze sono l’arma segreta dei dittatori, in ‘La Stampa’, 24 agosto 2001.
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verso una conoscenza più approfondita delle realtà incontrate e una presa di coscienza dei problemi che eventualmente ne condizionano l’esistenza. Questo atteggiamento può essere certamente favorito dal modello di viaggio che viene proposto al turista, ma anche in questo caso entra in gioco soprattutto la sua capacità di riflessione, là e qui, a casa, sul-le cose viste e incontrate. Questo può tradursi in un nuovo atteggiamento nella sua vita quotidiana, in un lavoro di sensibilizzazione o magari nell’impegno in attività solidali. Co-sì come il commercio equo, al di là della sua reale portata economica, assume un ruolo importante nel proporre un diverso modello di rapporti nord-sud, una formula di viaggio che porti a conoscere da vicino le realtà locali, che offra la possibilità di un contatto me-no frettoloso, aiuta sicuramente a sensibilizzare il viaggiatore, a spostare il viaggio dalla dimensione puramente ludica a quella esperienziale, ma si tratta ancora una volta di una nostra esperienza, che non sempre è condivisa dagli altri, dai locali. Capire una crisi, can-tava amaramente Giorgio Gaber, non vuole dire che la crisi è risolta. Infatti, tutto questo si limita alla sfera della coscienza, la nostra, ma in che misura incide concretamente sulle persone che abbiamo visitato nei nostri viaggi?5. Se per incontro intendiamo un momento in cui due o più persone condividono lo stes-so spazio contemporaneamente, interessandosi l’uno dell’altro, allora il turismo rappresen-ta una delle occasioni più frequenti d’incontro tra stranieri. Anche se gli slogan del settore propongono, un po’ enfaticamente, “incontri con la natura”, con la storia o con la tradizio-ne, a gestire quella natura, quella storia, quella tradizione sono individui, persone.L’incontro turistico avviene sempre tra visitatori e visitati, stranieri e nativi, ospiti e ospi-tanti. Il fatto che questi attori condividano spazi e tempi comuni, non significa affatto che le relazioni che si generano tra di loro siano simili. In alcuni casi sorgono persino dubbi sull’utilizzo del termine “incontro”, se a questa parola attribuiamo anche la capacità di da-re vita a un contesto conviviale. Incontro non sempre coincide con scambio. In ogni ca-so, fuori da casa sua, il turista ha bisogno di qualcuno che in qualche modo risponda al-le sue esigenze e, se si eccettuano alcuni pacchetti tipo villaggio-vacanza tutto compreso, quel qualcuno è un locale.Ogni incontro è una scoperta, è portatore di novità, carico di aspettative, tanto più se l’al-tro è diverso, lontano da noi, esotico. Diffidenza, curiosità, sorpresa, timore si intrecciano, si sovrappongono, si susseguono in questi incontri, prevalendo, a turno, uno sugli altri. Come spesso avviene nella vita di tutti noi il tempo trasforma gli incontri in amicizia oppu-re in semplice conoscenza formale o ancora fa sì che si interrompa ogni tipo di rapporto con le persone incontrate. Il tempo può chiarire le perplessità e le ambiguità iniziali, ap-pianare le differenze o solo accantonarle, spostando il rapporto su altri binari. In ogni ca-so, solo il tempo può rivelarci se da un incontro può nascere una relazione.Questo tempo non è concesso ai turisti né ai locali che li accolgono. Il turista, quello più attento, conosce, come il protagonista dell’Educazione sentimentale di Flaubert “l’amarez-za delle simpatie interrotte” che segna ogni viaggio. L’incontro rimane sospeso e, spesso, invece che relazioni, le quali prevedono un’interazione, un confronto, un mettersi in di-scussione, ne scaturisce una sorta di gioco di specchi in cui uno proietta sull’altro ciò che pensava di lui prima di incontrarlo. 6. In questa malinconica scenetta Antonio Tabucchi mette a nudo quel gioco che spesso si determina tra il turista nei paesi esotici e gli indigeni che lo accolgono:
“È meglio non bere l’acqua di Bombay. Lo si può fare solo al Taj Mahal, che possiede i suoi depuratori e che va orgoglioso della sua acqua. Perché il Taj non è un albergo: con le sue ottocento camere è una città dentro la città. Quando entrai in questa città fui ricevu-to da un portiere travestito da principe indiano, con fusciacca e turbante rossi, che mi gui-
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dò fino alla portineria tutta ottoni dove c’erano impiegati anch’essi mascherati da maha-raja. Probabilmente pensarono che anche io ero mascherato, ma al contrario, che ero un riccone travestito da povero, e si dettero un gran daffare per trovarmi una stanza nell’ala nobile”.18
Immagini e immaginari si intrecciano in questo incontro tra locali e visitatori, che costitui-sce una realtà sempre più presente e diffusa. Tra i molti panorami, globalizzati e globaliz-zanti, c’è anche quello turistico. Tutti noi, in quanto turisti, viviamo la nostra esperienza, fin dal momento in cui la ipotiz-ziamo, all’interno di un immaginario globalizzato che ci fornisce, in grande abbondanza dati, informazioni e immagini sulla futura meta. Scegliamo di andare in un posto perché sappiamo com’è, lo abbiamo visto alla televisione, sulle riviste specializzate, sui cataloghi turistici, nelle proiezioni degli amici. Il viaggio da scoperta diventa sempre più una veri-fica di ciò che conosciamo già. Sono pochi i turisti di oggi che potrebbero condividere le parole di André Gide che, in Voyage au Kongo, a chi gli chiedeva cosa andava a cercare laggiù, rispondeva: “Aspetto di essere lì per saperlo”.Il bagaglio del turista contiene spesso una buona dose di informazioni più o meno since-re e realistiche accumulate prima di partire. Il turista sa cosa vuole vedere e fa di tutto per trovarlo, talvolta anche a dispetto dell’evidenza. Questo è particolarmente evidente nel ca-so del turismo “esotico”, che concede più spazio all’immaginazione perché percorre spazi solitamente lasciati vuoti dai nostri pensieri quotidiani. Ecco allora che l’altro, il nativo, fi-nisce per apparire, ai nostri occhi, sempre più simile a quello descritto e fotografato sulla guida, sulla rivista, sul catalogo, anche quando questo è diverso. Come recita un prover-bio africano: “l’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce”.Anche l’immagine del turista, come nella scena di Tabucchi, però subisce una trasforma-zione perché, come scriveva Henry Michaux: “Un europeo interrogato al suo ritorno dal-le Indie, non esita e risponde: “ho visto Madras, ho visto questo, ho visto quello!” E inve-ce no, è stato visto molto di più di quanto non abbia visto”.19. Quando il flusso di turisti diventa costante, l’identità individuale del visitatore scompare, agli occhi dei locali diven-ta un turista e basta. Spesso finisce per essere vittima degli stereotipi sulla sua nazionali-tà. In altri casi la nazionalità del turista perde addirittura importanza, perché la sola socie-tà capace di generare un turismo esotico è quella occidentale i cui membri finiscono per apparire culturalmente omogenei. In quanto ospite, il turista diventa oggetto di deumaniz-zazione, spesso tollerato solo perché porta denaro.20
7. Tutto questo non creerebbe troppi problemi se pensassimo al turismo come a una tran-sazione commerciale simile a tante altre: io pago, tu mi dai un bene o un servizio e il no-stro rapporto si conclude qui. È il caso del turismo tipo villaggio-vacanze, dove gli ospi-ti vivono letteralmente isolati e decontestualizzati dalla realtà esterna. Qui i turisti cercano solo divertimento unito al richiamo della moda che induce a frequentare questa o quella località. In questo caso la loro interazione economica coinvolge solo l’agente di viaggio contattato e quella sociale gli altri turisti del villaggio.Sono però sempre più numerosi i turisti che non viaggiano semplicemente per soddisfare un bisogno immediato tramite pagamento, ma per vivere un’esperienza durevole, che si imprima nella loro memoria o almeno così vorrebbero. Questo tipo di turismo non è quin-di percepito da chi lo pratica come un semplice acquisto di un pacchetto di beni o di ser-
18 A. Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio, Palermo, 1995, p. 34.19 H. Michaux, Un barbare en Asie, Gallimard, Paris, 1967, p. 121.20 V. Smith (a cura di), Hosts and Guests, cit., p. 10.
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vizi, ma come un’occasione di vivere diversamente per un breve periodo. L’incontro pertanto si carica di attese, debitamente alimentate da un nuovo immaginario turistico, fatto di visite ai villaggi, incontri con le popolazioni, vita in comune con i nativi. Questo risulta particolarmente evidente nel caso del cosiddetto turismo responsabile nel-l’ambito del quale al piacere dello svago e del riposo della vacanza classica, si sostituisco-no impegno e conoscenza. Infatti, uno studio dell’Organizzazione Mondiale del Turismo intitolato Tourism: 2020 vision arriva a concludere che il turismo culturale sarà una delle tendenze principali del nuovo secolo.21
Tutto questo avviene però dalla nostra parte, perché in larga maggioranza a fare i turisti siamo noi, gli occidentali, ma si può dire altrettanto dei tanti nativi che ci ospitano in va-ri angoli di mondo? Il nostro coinvolgimento emotivo e culturale trova un equivalente nei loro pensieri? O forse veniamo accolti, accuditi e accompagnati in giro solo per denaro?8. In realtà la nuova etica impone che il viaggio diventi non solo scambio di denaro per servizi, ma anche di emozioni ed esperienze. Il pagare per vedere o per fare non è più sufficiente, perché il nuovo esotismo non si basa più sulla ricerca dello stupore di fronte al diverso, ma sul tentativo di comprendere, conoscere, approfondire e soprattutto vive-re diversamente le relazioni, per esempio al di fuori di scambi mercantili. “Si tratta di pas-sare dal turismo come prodotto di consumo al turismo come pratica, con valenza esisten-ziale. Dall’avere all’essere” afferma in un intervista il professor Sangalli.22 Se riferita al tu-rismo in paesi del Sud del mondo l’ultima parte della frase lascerebbe intendere che que-sti luoghi dovrebbero diventare, come l’Oriente anni Settanta, una sorta di approdo psi-coanalitico per occidentali scontenti della propria civiltà, animati da un bisogno terapeu-tico di capire e aiutare gli altri. Senza contare che continuando a pensare il turismo come esperienza (nostra) si rischia di rendere per scontata l’idea che i locali esistano principal-mente per uso e consumo dei turisti.Si pensa che il rischio di incomprensione o di conflitto venga azzerato dalla volontà di-chiarata di instaurare con l’estraneo una relazione autentica e genuina, rifiutando un ap-proccio consumistico e superficiale, rifiutando cioè le regole della società occidentale, che rende strumentale la maggior parte dei contatti sociali. Si suppone insomma che i residen-ti siano mossi dallo stesso istinto conoscitivo dei turisti. Accade però che gli altri vedano le cose diversamente. Gli aborigeni australiani preferiscono i turisti di massa, perché ar-rivano tutti assieme, in un solo momento, scendono dai loro bus, acquistano un sacco di cose e ripartono lasciandoli in pace. Per gli aborigeni sono molto più fastidiosi quei turisti che vogliono vedere più da vicino la loro società, che fanno un sacco di domande e, ma-gari, vogliono vivere con loro per un po’.Ecco allora che, se a questo nostro slancio non corrisponde un altrettanto intenso coinvol-gimento dei locali, l’incontro si blocca, si interrompe alla fase delle presentazioni e del-le foto e – lo dico per esperienza diretta – può risolversi in due modi: con un senso di rammarico per non essere riusciti ad andare oltre ai saluti, non essere entrati a far parte del mondo intimo dell’altro oppure con la convinzione di avere davvero fatto comunque un’esperienza diversa dagli altri. Nel primo caso le aspettative sono state tradite, qualcosa non ha funzionato nella comu-nicazione o nella gestione dell’incontro. Come sostiene Edward Bruner: “L’esperienza tu-ristica è comperata, ma sono in pochi a ricordarsi di questo nei tour organizzati. Anche i turisti che viaggiano per proprio conto credono nel mito che loro non pagano per le loro avventure turistiche e che diventano “amici” dei locali. Molti turisti credono a questo mi-
21 F. Michel, Altrove, il settimo senso, cit., p. 184.22 S. Pochettino, Turismo, chi sei?, cit., p. 9.
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to, incoraggiati dai tour operator: si considerano ospiti e i locali i loro ospitanti”.23 Quando poi si trovano di fronte a continue richieste di denaro da parte dei locali, la loro illusione crolla e subentra una certa amarezza nel constatare di essere dei semplici visitatori a paga-mento e che la natura di quell’incontro è quasi esclusivamente commerciale.Nel secondo caso, invece, l’immagine precostruita coincide con quella osservata. Claudio Baraldi e Monica Teodorani fanno notare come da molti racconti di viaggiatori di Avven-ture nel Mondo emerga sempre un’ampia disponibilità al rapporto da parte dei locali. Una disponibilità che viene considerata un dato naturale, un aspetto dell’autenticità, che nasce da una serenità d’animo diffusa. Questo anche in situazioni ambigue come quella di un villaggio pakistano nel quale l’attività fondamentale è la fabbricazione di armi che ripro-ducono fedelmente quelle di marche famose nel mondo.24 9. Ricordo il senso di delusione provato da alcuni componenti del gruppo che accompa-gnavo i quali, dopo aver dormito per terra in una baita freddissima a Quilatoa (Ecuador) e aver esaltato il senso di ospitalità del montanaro che ci aveva ospitato, vennero a sape-re che ci aveva fatto pagare molto di più di un hotel della capitale. In fondo siamo anco-ra vittime di un evoluzionismo strisciante. Infatti, più o meno inconsciamente, misuriamo le culture umane sulla base del loro presunto grado di distanza dalla natura. Tale concet-to viene sfruttato e alimentato dalla pubblicistica turistica (guide, riviste, cataloghi) dove certe popolazioni vengono descritte come più vicine alla natura, e tale idea viene raffor-zata graficamente, giustapponendo immagini di individui a quelle di fauna e flora loca-li.25 Spesso si accostano l’ecoturismo, a vocazione naturalistica e il turismo etnico. Emer-ge così il rischio che si arrivi a una zoologizzazione delle alterità culturali con cui il turista viene in contatto.26 Ma gli individui, descritti come tradizionali dalla pubblicistica turistica, non si considerano per forza tali. Scriveva Walter Benjamin: “Non c’è mai stata un’epo-ca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna”27. Al termine “epo-ca” potremmo sostituire quello di cultura o di società e il risultato sarebbe lo stesso. Nes-suno si pensa come primitivo, siamo noi a pensarlo. James Clifford a proposito del Paci-fico (ma le sue considerazioni possono essere estese a molte altre aree del Sud del mon-do) sostiene che possiede una caratteristica: i suoi luoghi sono stati fermamente mantenu-ti in un curvatura del tempo e dello spazio primitivistico – “laggiù” e “la fuori” – non so-no mai stati percepiti come moderni28.Ciò che pertanto, caratterizza sia il senso di delusione sia il piacere della conferma è che spesso sono sensazioni attraversate da un malinteso, che nel primo caso induce all’incom-prensione, nell’altro a una presunta comprensione che in molti casi è invece parziale.
23 E.M. Bruner, Tourism in Ghana. The Representation of Slavery and the Return of the Black Diaspora, in ‘Amer-ican Anthropologist’, 1996, 98, 2, pp. 299-300.24 C. Baraldi, M. Teodorani, Avventure interculturali, cit., p. 55.25 Un ottimo esempio di questa ‘naturalizzazione’ degli africani è descritto da Cristiano Lanzano, Antropologia e turismo, cit.26 F. Ferraris, Ecoturismo, turismo etnico: un accostamento ambiguo, in ‘Afriche e Orienti’, III, 3-4, 2001, p. 31.27 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1986, p. 701.28 J. Clifford, Ai margini dell’antropologia. Interviste, Meltemi, Roma, 2004, p. 81.
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Città e migranti:l’integrazione difficile.
di Agostino Petrillo
Un problema europeo
Per quanto da almeno due decenni la questione dell’inserimento dei migranti nelle realtà urbane europee rappresenti uno dei problemi prioritari cui si trovano confrontati gli am-ministratori locali e i governanti, la questione appare nel complesso ancora disattesa.Un po’ in tutta Europa, nonostante le differenze che le varie realtà presentano, dovute non solo ai vari contesti nazionali, ma anche a scelte ed orientamenti diversi, legati alla storia culturale, politica e sociale dei diversi paesi, emergono importanti nodi irrisolti. Non si in-travedono che risposte parziali alla questione, mentre la condizione dei migranti diviene via via più difficile. In effetti il futuro dei migranti e la loro collocazione nelle città euro-pee appare in gran parte ancora da definire. In questo ambito l’ultimo decennio pare ave-re fatto addirittura segnare una stagnazione di iniziative se non un arretramento.Altro aspetto che va certo rilevato è che i migranti giunti negli ultimi anni hanno scontato tutte le difficoltà di un contesto d’arrivo segnato dalle specifiche condizioni della moder-nità avanzata: tramonto della società del lavoro, crescente individualizzazione, rescissione dei legami familiari, insomma quei tratti della contemporaneità ben messi in evidenza dal-le sociologie del rischio, che hanno portato ad uno sconvolgimento dei mondi urbani tra-dizionali29 e che hanno reso oggettivamente più complesso tracciare dei percorsi di inseri-mento rispetto a quanto avveniva in passato. Come pure ha influito negativamente su que-sti processi una congiuntura internazionale segnata dalla guerra e dalle paure legate allo “scontro di civiltà”, che ha contribuito a creare un clima di chiusura nell’opinione pubbli-ca30. Così tra risposte inadeguate, attendismo o semplicemente rimozione del problema la situazione si è andata progressivamente incancrenendo, fino a far emergere preoccupanti tendenze alla segregazione, alla ghettizzazione e alla stigmatizzazione dei migranti. Proprio per questo pare necessario, se non addirittura urgente, cominciare a dare delle ri-sposte, come hanno mostrato molto bene gli eventi francesi del 2005-6, ma come segna-lano con forza anche le inquietudini che attraversano altri paesi, quali Germania e Regno Unito.I vari progetti messi in campo per individuare delle soluzioni o quantomeno per definire delle logiche operative sembrano però scontare difficoltà che sono in buona parte da ri-condurre ai limiti delle mentalità che hanno finora guidato gli interventi. Anche le grandi vicende degli ultimi anni hanno condizionato politiche e scelte, contribuendo non poco alla crisi di un generico “multiculturalismo europeo”31 pure nelle diverse declinazioni che
29 Due riferimenti puramente indicativi di una letteratura ormai ampia, Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino Bologna 1999; U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci Roma 2000; per una rilettura di queste tematiche calate nel contesto urbano, rimando a un mio lavoro: cfr. A. Petrillo, La città perdu-ta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Dedalo Bari 2000.30 Su questi aspetti è molto efficace l’analisi di E. Balibar, L’Europe, L’Amerique, La Guerre, La Découverte, Pa-ris 2003.31 Sulle difficoltà concettuali e applicative connesse alla ricezione in Europa delle categorie del multiculturalismo rinvio al numero speciale della rivista “aut-aut”, n.312, novembre-dicembre 2002, curato da D. Zoletto e G. Le-ghissa, tutto dedicato agli Equivoci del multiculturalismo.
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lo avevano finora caratterizzato32. Ha infatti finito per prevalere una concezione del mul-ticulturalismo che lo leggeva un po’ riduttivamente nei termini di una compresenza (stati-ca) di culture immigrate e cultura locale, vagheggiando il raggiungimento attraverso “po-litiche del riconoscimento”, di una convivenza tra diversi accettata in base a scelte di tipo emozionale, personale o politico (sulla scia di suggestioni filosofico-sociologiche america-ne, profondamente radicate in quella tradizione culturale)33. Anzi a volte un eccesso di re-torica multiculturalista ha impedito di cogliere come fosse la condizione stessa di migran-te a creare dei problemi, permettendo un approccio basato su solidarietà ideologiche e fa-cilone, ma scarsamente concrete34. Va però rilevato, e questo è un fatto positivo, che l’ul-timo decennio ha fatto anche segnare il definitivo tramonto del sogno identitario di un ri-torno ad una Europa “tradizionale”, depurata della presenza dei migranti. La speranza, uti-lizzata politicamente da forze di orientamento nazionalista o localista, di un “rientro degli immigrati”35, che ha trovato una brutale sintesi nello slogan “mandiamoli a casa”, ha dovu-to fare i conti con la realtà di una presenza indispensabile sul piano economico e demo-grafico e di un apporto tanto più utile nell’epoca della competizione planetaria generaliz-zata e della ridefinizione dei grandi equilibri mondiali. Il “demone delle origini” risveglia-tosi tra anni Ottanta e Novanta, pare in buona parte sopito, anche se continua a dormic-chiare sotto le ceneri, come mostra il fatto che le campagne xenofobe continuino ad esse-re elettoralmente paganti in gran parte dell’Europa36.La situazione è perciò quella di una impasse se non addirittura di completo blocco, che non giova certo all’Europa stessa. Gli immigrati servono, ma non si trova ancora una via soddisfacente per il loro inserimento, le ricette consolidate non bastano più, le proposte nuove scarseggiano. Etienne Balibar, riflettendo sul vero senso della rivolta delle Banlieues, ha recentemente sostenuto che uno dei fattori decisivi della crisi risiede nella difficoltà di dare risposte in chiave di stati nazionali ad un problema che è ormai evidentemente europeo, e che coin-volge profondamente le mentalità e le istituzioni37. In realtà però anche a livello di Unione Europea sono venute finora solo delle indicazioni piuttosto timide (anche per la ben nota e tormentata vicenda della costituzione europea), che hanno insistito principalmente sulla possibilità di risolvere alcuni aspetti della presenza dei migranti ricorrendo all’istituzione di una sorta di “metacittadinanza” europea in grado di superare le difficoltà nazionali. Al di là delle complesse questioni giuridiche che la questione della cittadinanza dei migranti pone tanto a livello nazionale che a livello europeo, esiste però comunque uno specifico problema spaziale, territoriale di inserimento e di modalità dell’integrazione effettiva che l’Unione ha finora solo sfiorato con dichiarazioni di principio. Una politica dell’inserimen-
32 Per l’evoluzione della questone in Germania rinvio ai numerosi lavori di H. Häussermann sul tema; per il qua-dro attuale in particolare il rimando è a un recente collettaneo: cfr., H. Häussermann, W. Siebel, M. Kronauer (Hrsg.), Stadt am Rand: Armut und Ausgrenzung, Suhrkamp, Frankfurt 2004.33 Esemplarmente intriso di un utopianism tutto americano appare sotto questo profilo il testo di L. Sanderkock, Verso Cosmopolis, Dedalo, Bari 2002, ma cfr. anche le riflessioni autocritiche della stessa autrice, in Id., Cosmo-polis 2: Mongrel Cities of the 21st Century, Continnum, New York 2003, in part. cap. IV. Un approccio più pro-blematico nel veccho lavoro di C. Taylor, Multiculturalismo, Anabasi, Bologna 1992. La crisi di questa prospet-tiva e la necessità di un discorso nuovo sulle forme dell’integrazione urbana è tratteggiata chiaramente in W.-D. Bukow, C. Nikodem, E. Schulze, E. Yildiz (Hrsg.), Die multikulturelle Stadt: von der Selbstverständlichkeit im städtischen Alltag, Leske + Budrich, Opladen 2001.34 Lo aveva intravisto molto lucidamente A. Sayad, cfr. p. es. Id., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Cortina Milano 2002.35 Su queste mitologie ha scritto pagine efficaci M. Augé, La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, Eleutera Milano 1998.36 Cfr. A. Petrillo, Identità urbane in trasformazione, (con un saggio di G. Carlini), Coedit Genova 2005.37 Cfr. E. Balibar, Uprising in the Banlieues, in “Lignes”, n. 21, Novembre 2006; ma un’analoga prospettiva “tran-snazionale” è quella che ispira un mio lavoro cui rinvio, cfr. A. Petrillo, Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Ai-res, Genova, Ombrecorte Verona 2004.
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to urbano di respiro europeo ancora manca, o se ne intravedono solo i primi segni, prin-cipalmente a livello istituzionale38.
Il caso italiano
Nel nostro paese, se pur ciclicamente riproponentesi con forza da almeno quindici anni, la questione dell’inserimento urbano dei migranti ha tardato ad essere compresa in tutta la sua importanza. Per un insieme di motivi, da ricondursi sostanzialmente ad una peculia-re congiuntura storico-politica ed economica che l’Italia ha attraversato a partire dai primi anni Novanta, la questione dell’immigrazione è stata nel complesso elusa nella program-mazione politica a livello nazionale e le soluzioni sono state a lungo demandate alle socie-tà locali. La speranza che il problema “si risolvesse da sé” è stata però di breve durata: le prime avvisaglie delle possibili ricadute conflittuali dell’assenza di governo del problema si sono manifestate già all’inizio degli anni Novanta, con l’esplodere di tensioni nelle città italiane: Firenze prima (1991) poi Torino e Genova (1993), sono state teatro di disordini e di manifestazioni antiimmigrati. L’insorgere di una conflittualità nuova, a volte sbrigativa-mente etichettata come “etnica”39, che ha visto contrapporsi “autoctoni” e migranti è da ri-condursi sia ad una crisi più generale della società civile, che ha attraversato un periodo di smarrimento dovuto alla crisi tra prima e seconda repubblica, sia al declino dei partiti e delle forme della politica che si erano andate consolidando nel dopoguerra. La mancanza di intervento diretto da parte dello stato e le forme di frammentazione che ne sono conseguite, portando ad una situazione di differenze anche rilevanti fra le varie realtà locali è stata diversamente valutata dalla letteratura sociologico-politologica. C’è che vi ha voluto vedere non solo una manchevolezza, un segno di arretratezza del nostro pae-se, ma anche una diversa chance che il destino gli offriva. La “via italiana all’immigrazio-ne” avrebbe presentato una sorta di vantaggio relativo, ancorché nato da una lacuna : una maggiore elasticità e flessibilità di manovra rispetto ad altri paesi che si obbligavano pro-grammaticamente ad una coerenza d’intenti che rischiava col tempo di divenire una ca-micia di forza. Diversamente da quanto avveniva a chi si ostinava a riproporre soluzioni elaborate in altre epoche e forse ancora a torto ritenute valide (è il caso soprattutto del-la Francia), l’Italia avrebbe avuto l’opportunità di innovare e sperimentare localmente vie diverse, in attesa di definire degli orientamenti di massima. Altri interpreti hanno invece sottolineato il vuoto che è conseguito da questo tipo di non-scelte governative, il rarefar-si delle indicazioni da parte delle strutture centrali dei partiti alle loro strutture locali, il li-mitarsi delle indicazioni dei governi ad alcune linee generali, ed il conseguente ripiega-mento su di un pragmatismo che rendeva minime le differenze di orientamento tra i di-versi schieramenti politici40.L’appiattimento su di un pragmatismo di massima dettato da contingenze locali e/o elet-torali ha condotto a politiche del “minimo ragionevole” condizionate pesantemente dal “panico elettorale”, alla necessità di rassicurare una società civile impaurita e preoccupata, priva di riferimenti utili per confrontarsi con un’epoca nuova. La situazione sarebbe stata ancora più difficile se non ci fosse stata la presenza dall’associazionismo e dalle realtà del terzo settore, che hanno svolto un ruolo importante soprattutto sotto il profilo dell’acco-glienza. Le diversità di composizione e di peso quantitativo di queste realtà, le loro speci-
38 Cfr. P. Le Galés, Le città europee Società urbane, globalizzazione, governo locale, Il Mulino Bologna 2006.39 Cfr. V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, Laterza Roma-Bari 1999.40 Una trattazione approfondita di questi aspetti in: T. Caponio, Città e immigrazione. Discorso pubblico e poli-tiche, Il Mulino Bologna 2006.
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ficità di diffusione e di radicamento territoriale hanno reso sensibili e contribuito ad am-plificare le differenze che si andavano creando tra le varie realtà metropolitane: così che a Napoli, Bologna e Milano la presenza dei migranti ha assunto aspetti diversi ed è stata caratterizzata da modalità di insediamento estremamente eterogenee. In questo senso di volta in volta la questione dell’inserimento dei migranti si è giocata su di un tavolo in cui erano presenti almeno tre attori: amministratori, esperti e rappresentanti del terzo setto-re. Da questa combinazione di voci e di intenti sono scaturiti buona parte degli interventi concreti. Ne sono in ogni caso risultate politiche minime, politiche povere, legate all’esi-genza di dare “risposte semplici”, dettate dall’immediatezza se non addirittura da situazio-ni di vera e propria emergenza. Ma in assenza di politiche nazionali l’integrazione non po-teva certo farsi unicamente sul piano locale, pure importantissimo.Tutto fa pensare che fosse necessario adottare una prospettiva più ampia: anche perché la natura profonda delle migrazioni contemporanee continuava a sottrarsi a provvedimenti di corto respiro: se la retorica mediatica insisteva nel sottolineare la monodirezionalità dei flussi, sempre più evidente appariva invece agli studiosi l’importanza di fattori quali la cir-colazione, l’appartenenza multinazionale e transnazionale, la mobilità e la componente di scelta che caratterizzano le migrazioni contemporanee41.Insomma si è da un lato sopravvalutata la dimensione quantitativa dei flussi, dall’altro sot-tovalutata la componente soggettiva, il dinamismo del migrante che lo porta sia ad operare scelte di fissazione, sia a rivederle e ad operarne delle altre, ove si diano condizioni loca-li non favorevoli. Detto in altri termini: uno dei pericoli che l’assenza di scelte lungimiran-ti comporta è che l’Italia finisca per avere l’immigrazione che si merita, nel senso che co-loro che hanno competenze spirito imprenditoriale e specializzazioni lavorative finiranno per scegliere destinazioni meno problematiche, ove le condizioni dell’inserimento nel no-stro paese rimangano quelle attuali. Se non si metteranno in atto politiche adeguate, vol-te a valorizzare le capacità dei migranti e a favorirne la stanzializzazione, da noi finiranno per restare solo coloro che altrove sarebbero poco valutati, il rischio è quello di procede-re anche involontariamente ad una sorta di “selezione dei peggiori”. In assenza di forme di integrazione effettiva il destino dei paesi di accoglienza è di non riuscire a valorizzare il contributo che i migranti possono dare. Per non parlare poi dei costi sociali ed umani del-la crescita di gruppi di migranti strutturalmente subordinati e svantaggiati.
Xenofobia, politiche e diritti di cittadinanza.
Negli ultimi anni si è andata rafforzando una tendenza per altro già emersa nei decenni precedenti in Europa che è stata studiata in vari paesi nei termini di una progressiva chiu-sura e crescente timore di fronte ai mutamenti introdotti dai processi di Globalizzazione che rischiano di sottrarle alcune delle sue prerogative storiche e addirittura di marginaliz-zarla sotto il profilo economico. Ma come si accennava nel caso italiano queste tendenze xenofobe largamente diffuse hanno assunto sfumature particolarmente acute. Sono stati ampiamente sottovalutati sia i risultati di campagne mediatiche tendenti a sfruttare in chia-ve elettoralistica la questione immigrazione, sia il formarsi di un senso comune che tende a vedere nei migranti delle presenze estranee e una potenziale minaccia.Il risultato di questo percorso peculiare in Europa che ha visto la vicenda della immigra-
41 Cfr. N. Papastergiadis, The Turbulence of Migrations. Globalization, Deterritorialization and Hybridity, Poli-ty Press, Cambridge 2000; ma per il caso italiano illuminante sulla condizione dei senegalesi nel nostro paese e sulla loro circolazione tra realtà urbane tra loro estremamente dissimili quali Dakar e Zingonia il riferimento è al-la tesi di dottorato, ora in corso di pubblicazione di G. Sinatti, Space, Place and Belonging. Senegalese Migrants between Translocal Practices and Diasporic Identities, URBEUR XVIII ciclo, Febbraio 2006.
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zione intrecciarsi strettamente alla crisi economica, politica e culturale del nostro pae-se, è che oggi i migranti vi si trovano ad affrontare situazioni di difficoltà e di isolamento che hanno pochi eguali in altri paesi. Tramontata per sempre la retorica del “buon italia-no” alieno da pregiudizi42, forme sempre più gravi di differenzialismo culturalista appaio-no largamente interiorizzate dall’opinione pubblica, anche come conseguenza di provve-dimenti discutibili quali la legge Bossi-Fini, i cui guasti non sono ancora stati valutati nel-la loro interezza. Mettendo l’accento sulla presenza dei migranti unicamente a fini stru-mentali (accettata solo la migrazione da lavoro), e mirando ad instaurare una politica del-lo sfruttamento dei migranti più che della loro integrazione, la Bossi-Fini ha fatto prevale-re l’ottica del controllo su quella dell’inserimento, in modo non solo da gettare le basi per giustificare una permanente discrimazione dei migranti sotto il profilo giuridico, ma an-che da restringere le possibilità di un accesso al welfare e ai diritti di cittadinanza. L’ere-dità più negativa che questa legge ha lasciato è comunque quella di avere creato nell’opi-nione pubblica del paese la coscienza di una distanza incolmabile tra la propria umani-tà e quella dei migranti, di avere ratificato le tendenze già operanti in direzione di una lo-ro stigmatizzazione, fino a permettere di considerarli dei “sottouomini”. Inutile allora di-scettare astrattamente sulle forme possibili della cittadinanza quando la società civile ri-mane nel complesso chiusa e arroccata su posizioni di difesa del privilegio degli “autocto-ni”43. Come ha notato giustamente un filosofo americano, Richard Rorty, dei diritti devono farsi carico i popoli prima dei governi44. Se questo non avviene, se non giungono richie-ste e pressioni in questo senso è ovvio come si inneschino dinamiche di ghettizzazione, che prendono la forma di una discriminazione esplicita nell’accesso ad alcuni diritti fon-damentali quali casa e lavoro.
Una chiave dell’integrazione possibile: le politiche della casa.
Snodo decisivo e strumento privilegiato dell’integrazione possibile rimangono le politiche della casa, proprio nella prospettiva di modelli di integrazione nuovi cui si accennava pri-ma. Ma uno degli aspetti più drammatici della condizione dei migranti nell’Europa attua-le è proprio rappresentato dal problema della casa. I migranti giunti negli ultimi due de-cenni si sono trovati ad affrontare una situazione in cui volgeva al termine la stagione del-la casa popolare sovvenzionata. L’edilizia pubblica ha fatto segnare il passo già dalla me-tà degli anni Ottanta, vuoi per scelte di tipo macroeconomico e per la riduzione progres-siva del peso del welfare vuoi per una serie di trasformazioni sociali e delle famiglie che rendeva in parte obsolete le strategie costruttive consuete45. Questa paralisi delle politiche della casa è proseguita anche quando c’è stato da fare i conti con nuovi arrivati che ave-vano un’esigenza immediata di alloggio. In Italia in una prima fase si è affrontata la que-stione con la strategia delle sistemazioni di prima accoglienza, ma sono finora mancate fa-si successive degne di nota e politiche di respiro nazionale. Il problema della casa è sta-to lasciato risolvere “autonomamente” ai migranti, si è giocato su reti di solidarietà privata “etnica” o parentale, su ospitalità e condivisione, e sulla solidarietà pubblica, sul volonta-riato. Una ricerca di qualche anno fa sull’abitazione in Lombardia rilevava: “La bassa qua-lità, la sproporzione tra qualità e costo, l’insicurezza sono tratti ricorrenti per le sistemazio-
42 Cfr. D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il saggiatore Milano 1994.43 Cfr. per questi ultimi aspetti L. Zanfrini, Sociologia della convivenza interetnica, Laterza, Roma-Bari 2004, in part. pp. 138-139.44 Cfr. R. Rorty, Per la politica la filosofia è diventata inutile, in E. Ambrosi ( a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio, Venezia 2005.45 Cfr. M. Harloe, The People’s Home? Social Rented Housing in Europe and America, Blackwell, London 1995.
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ni abitative degli immigrati…le tensioni esistenti sul mercato fanno si che le soluzioni ef-fettive siano caratterizzate da forti elementi di disagio: la precarietà per quanto riguarda il rapporto, canoni sproporzionati, condizioni abitative degradate, sovraffollamento”46.La questione abitativa rappresenta uno dei principali ostacoli al dispiegarsi di dinamiche “virtuose “ sul territorio dell’urbano, di pratiche di contaminazione e di incontro tra cultu-re. La situazione a livello nazionale è estremamente varia e frammentata, anche per quan-to riguarda nazionalità di origine simili: una cosa è la situazione abitativa dei senegalesi a Roma, altra è la loro situazione a Bergamo. Comune a tutto il territorio nazionale è inve-ce la nascita di un secondo mercato dell’abitazione riservato principalmente ai migranti e in cui viene proposto un patrimonio obsoleto, di abitazioni scadenti e in alcuni casi addi-rittura fuori mercato ad un prezzo che oscilla tra il 25% e il 30% in più di quelli del mer-cato dell’affitto per “autoctoni”. Come ha notato Antonio Tosi, “si può parlare di una spe-cie di ‘canone speciale’ per immigrati”47.È questo probabilmente il segno più eclatante delle pratiche discriminatorie in corso, al di là delle forme di xenofobia e di razzismo più clamorose. Va rilevato che tutto questo può avvenire anche perché l’offerta pubblica, che si dispiega principalmente a livello locale, rimane ristretta ad una esigua minoranza di migranti. Anche la via dell’accesso alla casa in proprietà non rappresenta di per se stessa una soluzione, dato che è forzatamente riser-vata ad un numero ristretto di migranti sia per le modalità di accesso (mutui onerosi), sia per le spese di cui comunque la proprietà è gravata. In questo senso per i migranti la casa in proprietà se risponde ad una esigenza molto forte, che cresce nel caso di ricongiungi-menti familiari, non mette al riparo da condizioni di precarietà e di povertà. Questi i moti-vi per cui politiche della casa di ampio respiro, che prendano finalmente in considerazio-ne la presenza dei migranti nelle nostre città sono non solo auspicabili, ma necessarie.
Conclusione: al di là del multiculturalismo:la città, luogo dell’incontro.
I classici del pensiero sociologico convergono nell’individuare nell’urbano il luogo prin-cipe in cui si può realizzare l’integrazione tra le diversità. Già agli inizi del Novecento per Georg Simmel la grande città è il luogo ideale per l’integrazione e la dimensione metro-politana permette di incontrarsi “come stranieri” proprio in virtù della relativa indifferenza che ne rappresenta una delle precipue caratteristiche spirituali. L’atteggiamento blasé con cui l’intelletto metropolitano misura il diverso è orientato in senso valutativo-quantitativo, l’incontro con l’altro è un momento in cui viene rapidamente soppesata la diversità di cui questi è portatore e ne vengono colti solo gli elementi di qualche valore materiale.Il cittadino della metropoli non ti chiede “chi sei?” ma “quanto puoi servirmi?”. Proprio in questo processo di semplificazione risiede la chiave delle nuove libertà metropolitane, che non dipendono dalla “buona volontà”, dalla disposizione, dalla tolleranza o dalla genero-sità dei cittadini, ma sono consustanziali invece a un modo di cogliere il mondo, a delle strutture mentali generalizzate che formano l’ossatura del funzionamento della metropo-li48. Non è solo filosofia, è un pezzo di storia dell’Europa, che la distingue profondamente da quanto è avvenuto per esempio negli Stati Uniti, in cui le città fin dall’inizio dal loro
46 Cfr. A. Tosi, La domanda abitativa degli immigrati stranieri, in A. Tosi, ( a cura di) Verso l’edilizia sociale. Le politiche abitative in Lombardia tra nuovi bisogni e ridefinizione dell’azione pubblica, Guerini e Associati, Mila-no 2003, pp. 51-66, in part. pp. 55-56 47 A. Tosi, Case, Quartieri Abitanti, Politiche, CLUP Milano 2004, p.167.48 Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando. Roma 1995.
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nascere si frammentano in communities e la segregazione etnica, di classe e persino per età ne diviene quasi un fatto naturale. La tradizione europea è una tradizione di apertura e i quartieri etnici in Europa rappresentano ancora per ora un fatto eccezionale, per que-sto è difficile utilizzare il concetto di ghetto se lo si considera in senso stretto, come con-finamento di un determinato gruppo in un luogo fisicamente circoscritto. Certo oggi assi-stiamo allo sviluppo di tensioni nuove e i rischi di vedere tramontare questa tradizione di apertura si moltiplicano. In particolare nel nostro paese il pericolo maggiore sembra pro-venire da una sorta di prolungamento ad oltranza delle condizioni iniziali. In effetti l’in-terminabile emergenza che sembra contrassegnare la questione immigrazione in Italia ri-schia di perpetuare ad infinitum le condizioni di arrivo dei migranti. In assenza di poli-tiche pubbliche che abbiano una progettualità e non si limitino ad intervenire sull’emer-genza il rischio è quello di creare popolazioni perennemente caratterizzate da subalternità con accesso solo alle fasce basse del mercato del lavoro o definitivamente schiacciate ver-so le economie informali/irregolari. Se questo dovesse diventare anche lo scenario futuro allora andrebbero perdendo di senso le distinzioni ancora in voga tra segregazione fun-zionale e segregazione strutturale, come perderebbero di significato quegli orientamen-ti teorici che ancora insistono sui fattori di autosegregazione come protezione, come scel-ta dei migranti. Si verrebbe invece sempre più nettamente evidenziando un tendenza alla discriminazione e all’esclusione. Nonostante quanto si è affermato in precedenza, già da più parti si segnalano, anche nel resto dell’Europa, le prime avvisaglie dell’emergere di si-tuazioni di tipo “americano”, con il consolidarsi di forme di segregazione destinate a per-manere nel tempo e ad interessare più generazioni. Si profilano forse anche da noi quel-le “comunità” di esclusi, quelle caste di poveri in cui le catene vengono trasmesse di pa-dre in figlio, così bene descritte dalla sociologia americana. In particolare, cambiate tut-te le cose da cambiare potrebbero consolidarsi quelle accoppiate di discriminazione lavo-rativa e abitativa che formano un cocktail micidiale, esplorato meglio di tutti dai lavori di William Julius Wilson49. È vero come ha rilevato più volte Loic Wacquant, raffrontando le situazioni dei quartiers sensibles francesi con i quartieri in cui vive la underclass statuni-tense, che le vicende della segregazione urbana in Europa finora hanno seguito altre, di-verse linee di sviluppo, ma è anche innegabile che forme inedite di marginalizzazione e di povertà urbana si stanno radicando anche in tessuti urbani e civili dove sarebbero sta-te un tempo impensabili50. Per impedirlo occorre valorizzare le controtendenze, richiama-re gli amministratori ai loro compiti, sostenere quegli aspetti dell’associazionismo e quel-le realtà del terzo settore che già nei difficili anni passati hanno mostrato con la loro vi-talità e con la loro concreta capacità di promuovere solidarietà e integrazione il volto mi-gliore di questo paese. Le nostre città possono salvaguardare la loro preziosa eredità solo se il multiculturalismo non si limita a rappresentare posizioni di principio, ad essere foto-grafia di assetti culturali cristallizzati o dati per tali, ma diventa un fattore di sincretismo, di potente di produzione di nuove forme sociali e culturali e di un diverso modo di inten-dere e vivere gli spazi urbani.
49 Cfr. W.J. Wilson, The Truly Disadvantaged: The Inner City, the Underclass, and Public Policy, University of Chi-cago Press, Chicago 1987.50 Cfr. L. Wacquant, Parias Urbains.Ghetto, Banlieues, Etat, La Découverte, Paris 2006.
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Parte IIMediazione interculturale
in Italia e in Liguria
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La querelle italianasulla figura del mediatore:una bussolatra le diverse prospettiveregionali
di Simona Morano
“Ecco, vedete: la ragione, signori miei, è una buo-na cosa, questo non si discute, ma la ragione è pur sempre e soltanto ragione e soddisfa soltanto le fa-coltà razionali dell’uomo; la volontà invece è ma-nifestazione di tutto il nostro essere, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e tutto il resto. E sebbe-ne la nostra vita, nelle sue manifestazioni, si pre-senti spesso sotto un aspetto piuttosto miserabile, essa è pur sempre vita e non soltanto un’estrazione di radice quadrata.”
Fëdor DostoevskijRicordi dal Sottosuolo, 1864
I flussi migratori che hanno interessato il nostro Paese sono stati caratterizzati, per quan-to concerne il primo periodo (anni ’70-’90), da poca visibilità sociale. La ‘ondata migrato-ria’ era rappresentata dunque da stranieri in fuga dai loro Paesi per motivi politici (esuli e profughi, ad esempio), a cui si sono aggiunti motivi di tipo lavorativo (orientati soprattutto al lavoro domestico), e di studio. Dagli anni Novanta in poi, l’incidenza sociale degli stra-nieri comincia ad essere importante, quindi si passa da 350.000 nel 1985 a 1.250.214 uni-tà nel 1998 (ovvero il 6,5% della popolazione totale). Soprattutto in questo momento sto-rico, di cambiamenti politici significativi, l’Italia ha ricoperto una posizione geopolitica so-stanziale e, come paese dalla lunga storia di migrazione, ha assorbito le conseguenze del-le tendenze generali dei flussi che sono stati registrati nell’intera Europa. Non si può non considerare quindi, che nel 1999, nei diversi paesi dell’Europa Occidentale, gli stranieri re-sidenti legalmente erano 21 milioni 720 mila, di cui 19 milioni erano residenti nei 15 Pae-si dell’UE (i restanti in Svizzera e Norvegia). Si sottolinea, inoltre, che di questi 19 milioni nei paesi UE, circa 14 erano cittadini non-comunitari (ovvero il 79,6%), mentre solamen-te 3.520.000 (il 20,4%) cittadini dell’Unione. La metà dei cittadini immigrati in quegli anni nei paesi non UE, sono mussulmani, infatti il loro numero era stimato nel 1991 a 7 milio-ni e mezzo, inoltre la maggior parte era originaria dei paesi del Maghreb, della Turchia e del Pakistan. Dopo i conflitti balcanici, si sono aggiunti profughi bosniaci, albanesi e Ko-sovari. In sintesi nel 1991 il 90% dei mussulmani viveva in 3 Paesi: la Germania (soprattut-to per i turchi), la Francia (per i maghrebini) e la Gran Bretagna (per i pakistani)51. Si può notare come il 36% degli stranieri siano originari del Bacino Mediterraneo. Alle soglie del XXI secolo, precisamente nell’anno 1998, anche l’Italia cerca di regolarizza-
51 A. Belpiede nel testo “Mediazione Culturale. Esperienze e percorsi formativi”, Torino, UTET Editrice, 2002, de-dica nel capitolo 1.2.5. “I dati sugli stranieri” e nel capitolo 1.3.1. “Breve inquadramento dei processi migratori in Italia”, uno spazio all’inserimento dei dati qui riportati.
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re la popolazione immigrata, promulgando la Legge Quadro sull’Immigrazione (legge n. 40), che descrive il fenomeno migratorio eludendo dal carattere di emergenzialità e impe-gnandosi a definire aree di orientamento strategiche e omogenee per quanto riguarda ac-coglienza e convivenza.Da qui inizia l’emersione del dibattito pubblico sulla figura del mediatore culturale; nel medesimo anno, all’interno della stessa legge, con il decreto n. 28652, si specifica la neces-sità dell’utilizzo del mediatore interculturale nelle pubbliche istituzioni. Ed allora si pongono le questioni tanto contese, su chi debba essere codesto nuovo opera-tore sociale, quindi su chi e su come si debba impartire la formazione lui rivolta53. In con-temporanea, un supporto di tipo economico, veniva dal Fondo Sociale Europeo che, pro-prio negli anni Novanta, era teso a concentrare le proprie risorse e i propri orientamen-ti sulla formazione professionale dei migranti. Lo Stato e le Regioni venivano quindi chia-mate a sperimentare in tale campo.All’interno di questo clima si delineano le differenti posizioni sostenute sia dagli esper-ti del settore, sia dalle istituzioni che si fanno promotrici della mediazione interculturale, quale prassi neonata e discussa, così come non è complesso cogliere i processi di svilup-po, che hanno accompagnato l’evoluzione della stessa. Adottando prima il paradigma ‘multiculturalista’, e poi quello ‘interculturale’, quest’attività si è diffusa con celerità nei luoghi, pubblici e privati, della sanità, della scuola, delle pro-cedure giudiziarie e di quelle proprie della consulenza etnopsichiatrica. Vi sono però ulte-riori differenziazioni da considerare se si vuole approcciare alla mediazione interculturale con puntualità, che riguardano le conclusioni tratte dalle diverse realtà locali, in risposta alle caratteristiche dei territori nei quali la stessa agisce, corrispondenti a diversificazioni circa la denominazione assunta dalle figure professionali appositamente create. Le Regio-ni, in tal senso, hanno adottato etichette molteplici per inquadrare la figura del mediatore, che ad un sguardo superficiale possono apparire simili, ma che esprimono l’adeguamen-to a quelle concezioni teoriche oggetto di contesa tra gli autori che hanno analizzato que-sta tematica. Se ci si attende una coerenza interna alle singole normative locali, si rimar-rà sorpresi dal valutare la velocità con cui, invece, le Regioni hanno mutato il loro sguar-do, adeguandosi ai mutamenti sociali e all’avanzamento nel confronto ideologico portato avanti dagli intellettuali sul piano nazionale.Dall’introduzione pionieristica, ed esclusivamente a livello normativo, del termine ‘me-diatore’, proposta dal Ministero della Pubblica Istruzione nella circolare n. 205 del 26 Lu-glio 1990, (che raffigura il mediatore di madrelingua con la funzione di agevolare i rap-porti scuola-famiglia, facilitare la comunicazione nell’ambito scolastico e la valorizzazio-ne della lingua di origine), è seguito un periodo di maggior considerazione dell’importan-za di ottenere l’inserimento di una tale figura all’interno delle pubbliche istituzioni, e so-
52 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione dello stra-niero”.53 Sulle modalità e sui parametri entro i quali gli interventi formativi sarebbero dovuti essere inseriti, riflette F. Balsamo nel testo “Autonomia e rischi della mediazione culturale”, sottolinea come gli anni Novanta siano corri-spondenti al “momento successivo a quello della sperimentazione e del ‘pensiero’, quello dell’investimento nel-la formazione. La prima formazione era stata molto ben pensata, con il coinvolgimento delle migliori risorse pre-senti sul territorio nelle associazioni, negli istituti di ricerca, nelle Università”. Da qui si apre un “periodo suc-cessivo di proliferazione di agenzie formative che si sono giocate su questo terreno, senza che la loro produzio-ne formativa fosse accompagnata da una verifica di qualità del percorso formativo”. In aggiunta, secondo l’au-trice, nel medesimo contesto, “sono scese in campo, in maniera autonoma, le Università, attraversate nel frat-tempo dalla riforma che, con l’autonomia e i nuovi percorsi di studi triennali, si stavano trasformando in agen-zie di formazione professionalizzante, con apertura anche su nuovi campi. In questa nuova logica, le Universi-tà diventavano un terreno fertile, almo potenzialmente, per offrire una formazione anche in quest’area dai con-fini e dalla natura ancora così incerti. Alcune si attivavano con lauree triennali, altre, con master o con corsi di perfezionamento post-laurea”.
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prattutto di valorizzarne l’efficienza e la preparazione. Si è pensato di utilizzare tale figu-ra, andando oltre la collaborazione sporadica o il volontariato, e attendendo dapprima la sintesi dei suoi tratti caratteristici all’interno di un profilo professionale (connesso, al con-tempo, al tentativo di definire le linee guida del suo percorso formativo) provvisoriamen-te e non ufficialmente raggiunta con il Seminario promosso nell’anno 1993 dal COSPE54 (Cooperazione per lo sviluppo dei Paesi Emergenti), poi aspettando l’ufficializzazione con il T.U. sull’Immigrazione del 1998, di una pianificazione strategica e sistematica di attività nel campo della mediazione, che fosse esauriente, ma che in realtà, specificatamente al-l’art. 42, delinea le funzioni del mediatore senza entrare nel merito però delle attività cor-relate a tale profilo. Considerazioni di questo tipo sul mediatore culturale, precarie, ambigue e nebulose, sem-brano costringere la legiferazione spontanea delle Regioni, che, sollecitate dalle direttive europee, hanno dovuto affrontare le tematiche della mediazione interculturale, con la pos-sibilità di radicare ai caratteri territoriali, le linee guida del proprio intervento. Sebbene le classificazioni in cui la figura del mediatore è inserita siano diffuse, così come lo sono le pubblicazioni in merito, e le analisi intraprese da alcuni organismi nazionali che hanno tentato di raggiungere una definizione comune a tale tipologia di operatore sociale, riman-gono ancora le Regioni a sopperire a questa carenza di sistematicità e di riconoscimento condiviso, attraverso le proprie normative.Infatti, nonostante il prolungato momento di riflessione sul mediatore, durato appunto quasi due decenni, il carattere emergenziale e temporaneo dell’azione definitoria sem-bra permanere come comune denominatore in tutto il Paese. Quest’ultimo sembra guar-dare quindi con nostalgia alle considerazioni avviate dal CNEL nel 200055, che tendevano al raggiungimento di una terminologia e di un inquadramento unitario sul mediatore cul-turale poiché, seppur rimaste sulla carta, rappresentavano un riferimento comune, ricono-sciuto da più parti. Per ritrovare un momento di valutazione allargata su tali tematiche si è dovuto aspettare il 2004, anno in cui il CREIFOS ha condotto una ricerca integrata, che ha cercato di pro-porre una definizione comune della figura socio-professionale e di quella linguistico-cul-turale del mediatore culturale, che mantenesse forti legami all’esperienza professionale dei mediatori intervistati allora già in servizio.56 La volontà di raccordare la teoria ad una pras-si già avviata da anni, trova in questi termini un luogo di riflessione condivisa. Così i me-diatori interculturali si ritrovano finalmente riconosciuti nelle proprie funzioni sociali, cul-turali e linguistiche, nonché valorizzati nella qualità della propria attività lavorativa, attra-verso un’ottimizzazione della preparazione professionale e la richiesta di sempre più det-tagliati requisiti d’accesso di formazione. La ‘voice’ del mediatore sembra acquisire salien-za, all’interno della querelle che la trova protagonista, anche attraverso le biografie e le interviste spesso riportate dagli autori sui manuali. La scienza con cui la sua professione veniva tracciata, s’abbassa in questo ultimo periodo a considerare le valutazioni promos-
54 COSPE, “La figura del mediatore culturale, le prime esperienze e percorsi formatici a confronto”, Atti del Con-vegno , Bologna, 13/10/1993.55 Il CNEL, l’Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri”, ha co-stituito un gruppo di lavoro con l’intento di definire le “Politiche per la mediazione culturale. Formazione e im-piego dei mediatori culturali”, che ha prodotto questo Documento in data 30/04/2000.56 CREIFOS (Centro di Ricerca sull’Educazione Interculturale e la Formazione allo Sviluppo) del Dipartimento di Scienze dell’ Educazione, Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi “Roma Tre”, realizza-ta all’interno del progetto Equal : “la mediazione linguistico-culturale per l’inserimento socio-lavorativo dei mi-granti”, IT MDL S 251, finanziato dal Fondo Sociale Europeo, realizzato dalle partnership di: CIES (capofila), Mi-nistero della Giustizia, Almaterra, Kantara, Progetto Integrazione, UCODEP, PERFORMARE Associazione, ACLI. I risultati della ricerca sono pubblicati sul testo Susi F., Fiorucci M. “Mediazione e mediatori in Italia. La mediazio-ne linguistico-culturale per l’inserimento socio-lavorativo dei migranti”, Anicia, Roma, 2004.
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se da chi ne agisce le competenze e quotidianamente ne rappresenta le prassi, godendo della alterazione prospettica che ne consegue. Si può affermare che il supporto dato alle ultime ricerche dagli stessi mediatori, abbia contribuito notevolmente ad innescare il mi-glioramento sia degli inquadramenti normativi, sia dei corsi di formazione rivolti a que-sta tipologia di lavoratori. Intensamente le istituzioni hanno lavorato a contatto con i rap-presentanti di questa nuova prassi di integrazione sociale, accostandosi progressivamen-te all’idea di una società interculturale, con interventi diretti verso una maggior sistemati-cità e professionalità. Anche l’associazionismo, che aveva fatto da paravento agli interven-ti emergenziali promossi dalle istituzioni all’origine della diffusione nel nostro Paese57, si trova in questo momento ad affiancare i diversi stakeholders della mediazione nella co-stituzione di interventi di maggior efficacia, all’interno di servizi che ne promuovano l’ef-ficienza. Le collaborazioni provano ad avvolgere nelle maglie strette di questa rete di re-lazioni, i personaggi principali della mediazione interculturale, che cominciano a ricopri-re ruoli di maggior spessore politico e sociale, elevandosi dalle funzioni di sportello o di operatori destinati alla mera traduzione linguistica, in cui inizialmente erano stati relega-ti. Alcuni sostengono l’idea di costituire un Albo Professionale, che garantisca con la sor-ta di azione autotutelante, sia una progettualità politica estesa, sia un riconoscimento so-ciale e salariale ai mediatori stessi.58 L’accettazione della disomogeneità sociale e gli stimoli ad intervenire attivamente per in-crementare le dinamiche coesione sociale tra diversi, pare abbia favorito la capacità de-gli interessati alla mediazione culturale, a ragionare a diversi livelli, per creare azioni con-divise a lungo raggio e soprattutto a lungo termine. Tuttavia, il localismo che determina la nascita di questa prassi, non viene meno nemmeno in questo periodo di sintesi teori-ca, e si radica ancora alle forme che caratterizzano i servizi e l’immigrazione delle singo-le zone d’Italia. Allora, ciascuna Regione determina autonomamente i requisiti di accesso ai corsi di forma-zione ovvero l’età, la provenienza, il titolo di studi conseguito, il riconoscimento di crediti formativi e lavorativi, le modalità di inquadramento in qualifiche o in corsi di formazione, la conoscenza dalla madrelingua e dell’italiano ed il corrispondente livello desiderato, al-cuni requisiti particolari (come il permesso di soggiorno, la residenza da almeno due an-ni in Italia, la conoscenza del territorio di accoglienza, o buone capacità relazionali e co-municative) ed ovviamente strutture, contenuti, monteore dei corsi stessi. Si comprende come sia complesso procedere verso una panoramica nazionale esaustiva, se si considera la dimensione processuale attraverso cui i singoli interventi tendono, e la celerità con cui i tempi delle normative inseguono i tempi della realtà e quelli della teoresi. Un ulteriore dubbio ci è posto da Silvia Camilotti e Simona Sebastianis che chiosano:“Sulla denominazione del mediatore, la confusione sembra dimostrata dal fatto che spes-so, anche all’interno della stessa Amministrazione pubblica, i termini utilizzati sono stati discordi e non siano state chiarite le differenze nel ruolo e negli ambiti di intervento. C’è
57 A. Belpiede nel testo “Mediazione Culturale. Esperienze e percorsi formativi”, Torino, UTET Editrice, 2002, ri-corda che “la nascita di forme di associazionismo di immigrati o di associazioni miste è un’espressione partico-lare e importante dei processi migratori in Italia, una realtà che ha fatto da contrappeso agli interventi emergen-ziali e frammentari delle istituzioni pubbliche”, ed aggiunge “nascono soprattutto al nord e al centro, associazio-ni, agenzie di mediatori/mediatrici interculturali, e/o le associazioni miste che intervengono nell’intercultura. In molte realtà dal Nord al Sud Italia, gli immigrati trovano spazio soprattutto negli interventi interculturali, in par-ticolar modo nelle scuole e nel sociale”.58 F. Balsamo nel testo “Autonomia e rischi della mediazione culturale”, chiosa: “l’idea che circola da molti an-ni ma che solo ora sembra trovare una situazione matura per una realizzazione, è quella della costituzione di un Albo Professionale, con il quale garantire un autocontrollo e, soprattutto, assicurarsi una presenza in quei luo-ghi dove si decide l’utilizzo o/e il destino in genere della mediazione culturale, quasi sempre in assenza dei me-diatori stessi.”
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da chiedersi se tali opzioni definitorie siano l’esito di riflessioni o piuttosto di scelte che non riflettono una disamina precisa, ma semplicemente l’espressione del contesto territo-riale e del suo linguaggio”59.Non dimenticando quest’ultima ipotesi, ci si appresta a comparare i riferimenti normativi su tale professione, con la convinzione che entrambi i fattori espressi dalle autrici, abbia-no contribuito a creare un tale contesto italiano così frammentario .Analizzando appunto le differenti definizioni sotto elencate, che sono state attribuite a ta-le figura professionale, si ci rende maggiormente conto delle difficoltà incontrate dalle Re-gioni nel determinare gli aspetti essenziali della sua funzione, ed a sintetizzare in una ter-minologia univoca, i caratteri sostanziali del suo mandato.
Definizione:MEDIATORE CULTURALE
Definizione:MEDIATORE INTERCULTURALE
Definizione:MEDIATORE LINGUISTICO CULTURALE PER IMMIGRATI
Regione Campania Regione Emilia Romagna Regione Toscana
Regione VenetoUfficio Immigrazione
Regione Piemonte Regione LazioAssessorato Sanità
Comune di Desenzanodel Garda (Brescia)
Regione Liguria
Regione Valle d’Aosta
Provincia Autonomadi Trento
Provincia Autonomadi Bolzano
Comune di Roma
Comune di Schio (Vicenza)
Queste denominazioni, celando paradigmi differenti, come precedentemente detto, privi-legiano ora gli elementi culturali della relazione tra mondi diversi, ora gli aspetti dell’inter-pretariato e della traduzione linguistica. La terminologia, come il mediatore culturale ap-prende sia durante il corso della sua esperienza migratoria o di rappresentante di ‘secon-da generazione’, sia durante i corsi di formazione, racchiude in sé un orizzonte di sen-so. Tale sfera di significato, dovrebbe esser esplorata e compresa nei limiti che ne veico-lano l’utilizzo, affinché non si cada in superficiali giudizi. Ad esempio, la definizione ‘cul-turale’ differisce dal termine ‘interculturale’, che supera il primo presentificando al para-digma dell’interculturalità, e determinando la caduta delle considerazioni che afferivano alla sfera del multiculturalismo. Entrando nel merito delle singole leggi regionali, questi aspetti sarebbero più evidenti e mostrerebbero palesemente le scelte ideologiche partico-lari attuate.Tenterò di svolgere questa operazione riferendomi però alla medesima categoria di clas-sificazione del mediatore, che in particolare la Regione Liguria, Emilia Romagna e le Pro-vince Autonome di Trento e di Bolzano hanno adottato, ovvero quella del mediatore in-terculturale, ritenuta da molti autori contemporanei come la più utilizzata, e la più attua-
59 S. Camillotti, S. Sebastianis in “Definire e promuovere la ‘mediazione’: il ruolo delle Regioni”, 2005.
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le. Questa scelta intende mostrare come anche all’interno di una medesima categoria for-male, siano rintracciabili tendenze dissimili, che fanno emergere gli aspetti di autonomia e libertà delle istituzioni a legiferare nel rispetto delle peculiari necessità del territorio e del-la tipologia migratoria incontrata.A tal proposito Adel Jabbar, sociologo e ricercatore nell’ambito dei processi migratori e culturali, rappresenta sinteticamente la mediazione interculturale, sotto una prospettiva socio-politica, che sembra essere conforme al pensiero di alcuni mediatori di professione già negli anni Novanta. Il ‘ruolo della mediazione interculturale’, secondo l’autore, è quel-lo ‘di accompagnamento al processo di cambiamento prodotto dalla migrazione’, di ‘pro-mozione dei diritti sociali, dalla realizzazione di pari opportunità alla valorizzazione delle risorse soggettive’, e guarda ai mediatori come ‘agenti di sviluppo che attraversano diver-si contesti culturali creando processi e percorsi di cambiamento’60. Sembra corretto ripor-tarne il pensiero critico, in quanto conduce una riflessione capillare che discerne tra dif-ferenti valenze del termine ‘intercultura’ (che lo denotano di positività o al contrario, di negatività), da lui riscontrate nelle sperimentazioni condotte negli ultimi anni in Italia, ta-le da indirizzare interventi e progetti futuri verso un modello auspicabile. Individua tre ti-pologie di ‘intercultura’:
intercultura residuale: la più diffusa, in cui il gruppo maggioritario o che si assegna potere decisionale determina e fissa le differenze e le eventuali valorizzazioni conse-guenti, producendo identità imposte;
intercultura coloniale: implicita in maniera ambigua e sottile negli stereotipi e pregiu-dizi fossilizzati dell’immaginario collettivo, pervade, più di quanto si creda, molteplici iniziative alcune delle quali sfociano nell’atteggiamento alla ‘Mia Africa’ o nella ricerca romantica e spasmodica dell’ esotico o dell’etnico;
intercultura democratica: presente nelle intenzioni e nelle indicazioni teoriche (nor-mative), ma che fatica a diventare prassi consolidata, anche se potremmo enumerare sporadiche esperienze che ci inducono alla speranza…
A suo avviso si rende necessaria un’analisi delle esperienze locali, che abbracci il senso del terzo tipo di intercultura, l’intercultura democratica, e che richiami i criteri di parteci-pazione e di decisione dei soggetti coinvolti, esclusivi di un progetto interculturale di citta-dinanza. Per l’autore, questo coinvolgimento degli immigrati, quindi dei mediatori inter-culturali, all’interno di un comune spazio di confronto e di collaborazione con le istituzio-ni, determina l’attuarsi originale e sostanziale del paradigma dell’intercultura.A ben guardare le normative che hanno costituito la storia legislativa di tali Regioni, che hanno preferito tale modello teorico, sottolineano la funzione del mediatore intercultura-le come attore neutro tra due parti linguistico-culturali considerate paritetiche. Le tre real-tà riportate vogliono perciò raffigurarsi come esempi di ritorno ai primordi della era in cui tale prassi nacque, ovvero di avvicinamento di una ‘professione nata dal basso’ (nell’area del volontariato e dell’associazionismo) ad un livello istituzionale superiore, che conside-ra il ruolo realmente agito nella quotidiana attività lavorativa svolta nei diversi ambiti del sociale.Ad esempio, la Regione Emilia Romagna s’accosta alla logica politica espressa dal so-ciologo Adel Jabbar, il 7 Febbraio 2006 la Giunta Regionale ha approvato il ‘Programma triennale 2006-2008 per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri (sulla base dell’art. 3 della Legge regionale) in cui, al punto 14 “Comunicazione e mediazione interculturale” in-
60 A. Jabbar in “Mediazione socioculturale e percorsi di cittadinanza”, in “Animazione Sociale”, 10/2000 aggiun-ge anche che il mediatore sarà necessario fintanto che vi sarà una condizione di ‘integrazione subalterna’ che ca-ratterizza le attuali politiche migratorie e gli odierni interventi istituzionali.
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centivava dichiaratamente:“la promozione all’approccio interculturale attraverso una serie di opportunità operative, con lo scopo di conoscere e valorizzare gli apporti culturali diversi, al fine di costruire as-sieme nuove solidarietà, nuove comunità socialmente coese in una logica di pari oppor-tunità di diritti e di rispetto dei doveri socialmente definiti”.Inoltre l’Emilia Romagna si è impegnata a condividere con gli altri attori inseriti nella rela-zione di mediazione interculturale, l’approvazione della figura professionale e si è propo-sta di chiarirne ambiti di intervento e competenze. Per questo motivo la sua completezza normativa non la sbilancia a favore di taluni aspetti della mediazione interculturale rispet-to ad altri (come, invece, le Province Autonome di Trento e Bolzano faranno per la com-ponente linguistica). La collaborazione con le associazioni, il settore del volontariato e del cooperativismo, ha facilitato la costruzione di un inquadramento professionale equilibrato, avente un forte aggancio alla realtà concreta in cui la figura professionale viene agita.Anche le Province Autonome di Trento e di Bolzano premiano gli aspetti indicati co-me rilevanti nell’adozione di un modello virtuoso di mediazione interculturale, consape-voli della particolarità di un territorio da tempo abituato alla convivenza tra lingue, cultu-re e tradizioni differenti. Queste zone si contraddistinguono proprio per il carattere aperto al bilinguismo e al confronto tra appartenenza multiple. Si consideri, ad esempio, che ne-gli ultimi anni la popolazione straniera residente a Bolzano è cresciuta in modo conside-revole tanto da arrivare al 9% degli abitanti (fine 2006); nel capoluogo risiede il 31,8% del-la popolazione straniera in Alto Adige. In due circoscrizioni su cinque (Centro-Piani-Ren-cio e Oltrisarco-Aslago) gli immigrati superano il 10% (rispettivamente il 13,6% e l’11,7%). Due comunità straniere superano le 1.000 unità: la maggiore è quella albanese, che al 31 dicembre 2006 contava 1.818 residenti (l’1,82% della popolazione), seguita da maroc-chini (1.111), pakistani (567), germanici (491), peruviani (371), ucraini (333) e macedo-ni (327). Abbondantemente sopra le 100 unità anche romeni, tunisini, serbi e montenegri-ni, moldavi, cinesi, austriaci, polacchi, bengali, senegalesi e croati. Le nazionalità presenti al 31/12/2006, erano 105 e in numeri assoluti Bolzano ha il maggior numero di immigrati della regione. In città sono presenti molte associazioni di stranieri, una radio bolzanina de-dica programmi multilingui alle principali comunità e il comune ha istituito la Consulta im-migrati di Bolzano, eletta dai cittadini e dalle cittadine extracomunitari residenti in città61.Infatti, anche secondo l’esperta Anna Aluffi Pentini62, questa realtà protende con motiva-zione verso la mediazione interculturale, siccome: “è una diretta conseguenza della riaf-fermazione antropologica, che dietro alla lingua ci sia una cultura e che non si possa as-solutamente trattare in un modo adeguato la comunicazione interculturale recludendo la lingua”.É possibile rintracciare nella scelta della Provincia di favorire l’aspetto linguistico della me-diazione, il primo passo per attuare le dinamiche di integrazione socio-culturale degli stra-nieri che la distinguono da tempo, quindi: “il termine ‘mediatore interculturale’, adottato dal percorso formativo realizzato dalla Provincia Autonoma di Bolzano risulta prossimo al-le funzioni tipiche dell’operatore dell’integrazione sociale dei cittadini stranieri, e quindi, a quelle competenze che rientrano nel campo dell’animazione interculturale”.Vi sono altri due principi significativi, per l’autrice, da cui non si può prescindere, ovvero: quello che concerne la collocazione dei mediatori interculturali, e che trova la sua fonte nella relazione tra utente straniero e operatore di un servizio pubblico o privato. In que-sto senso il mediatore opera, non nei servizi specifici ai margini della società, ma nei co-
61 I dati sono tratti dall’enciclopedia Wikipedia62 A.A. Pentini, “La mediazione interculturale. Dalla biografia alla professione”, Milano, Franco Angeli 2004.
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siddetti ‘servizi di diritto comune’, cioè nei servizi predisposti non solo per gli immigra-ti stranieri, ma per tutti i cittadini: scuola, sanità, sociale, formazione professionale, lavo-ro...Vi è poi un altro principio vede gli intermediari della relazione interculturale, tenere a mente la necessità di rispettare l’autonomia delle parti, al fine di garantire la riservatezza del colloquio, la promozione del dialogo e del confronto costruttivo. Sempre a proposito dell’importanza data da tale approccio alla mediazione interculturale, nell’ambito della legislazione locale, Anna Aluffi Pentini, esperta di intercultura e del terri-torio dove esercita la sua professione chiosa: “l’aspetto dell’intermediazione interculturale, che di per sé definisce l’insieme delle differenze costitutive della mediazione intercultura-le rispetto alle altre forme di mediazione sociale, collega la conoscenza della madre lingua e della lingua veicolare alle competenze interculturali. Si tratta in questo caso di compe-tenze sociali fondamentali per chi intende sistematicamente operare nei contesti plurilin-guistici, pluriculturali e plurireligiosi”.Il canale d’azione preferito da tale legislazione sembra proprio essere quello della lingua, che è decisamente valorizzata, nonostante l’attenzione particolare attribuita alla mediazio-ne culturale in sé.Il corso proposto dalla Provincia Autonoma di Bolzano della durata di 800 ore, spicca nel-la comparazione con altre regioni che hanno deliberato in merito, per monte ore comples-sivo, di durata superiore anche a quello previsto nel 2000 dal CNEL. Questa cura nell’im-postazione del percorso formativo del mediatore interculturale, non può essere che ap-prezzabile, se considerata all’interno di un territorio caratterizzato da una ricchezza cultu-rale e linguistica, tale da rendere complesso l’intervento del mediatore interculturale e da richiederne un bagaglio di competenze importante. Tuttavia merita una riflessione la pos-sibilità di esportare le logiche che sottendono ad un tale approccio alla mediazione inter-culturale, al di là dei contesti particolari che ne hanno guidato la costruzione teorica.Per quanto concerne il terzo termine di raffronto interregionale, il contesto regionale li-gure, si presenta attento alle logiche della mediazione interculturale, e ne dimostra l’in-teresse proprio con le normative che ha emanato nell’ultimo periodo, considerando non solo le esigenze territoriali, ma anche le esperienze pregresse avviate in Italia, in merito a questo tipo di pratica finalizzata ad accrescere la coesione sociale. Se dalla legge emiliana ha tratto l’equilibrio tra la formazione della componente linguistico-culturale e quella delle competenze trasversali nella sfera comunicativo-relazionale, alcuni passi sono ancora da fare nel secondo contesto, rivolgendo un’attenzione particolare alle tematiche del conflitto (che sembra ai mediatori stessi, caratterizzare in buona parte la tipologia degli interventi a cui partecipano, ipotizzando l’approfondimento di tale ambito in parallelo alla sistematiz-zazione della mediazione all’interno dei servizi). La particolare attenzione data dalle Pro-vince Autonome di Trento e di Bolzano, alla dimensione linguistica della mediazione in-terculturale, non trova da parte della Liguria, lo stesso interesse. Si potrebbe affermare che l’attaccamento alla lingua proprio di quei territori, in cui l’identificazione al gruppo socia-le di appartenenza, è veicolato soprattutto dall’appartenenza linguistica ad un gruppo de-terminato, non rispecchi la condizione ligure, in cui la dimensione linguistica, non sconfi-na dall’essere veicolo di comunicazione e avvicinamento tra culture. La giunta della Regione Liguria approvando, nella seduta di venerdì 19 ottobre 2007, l’isti-tuzione della Consulta Regionale per l’integrazione dei cittadini stranieri immigrati e no-minandone i suoi componenti63, continua ad avvicinarsi al modello di mediazione inter-culturale democratica, a cui Adel Jabbar si riferisce per appoggiare la strada verso l’inte-grazione sociale partecipata. Le differenti strade intraprese dalla stessa, sottolineano l’im-
63 Informazione tratta dal sito www.immigrazioneoggi.it
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pegno a decentrare i poteri e ad estendere l’accesso alle sfere decisionali alla popolazio-ne immigrata.Come è possibile notare, far rientrare in categorie specifiche tali professionisti, nel rispetto di una concezione teorica, non dovrebbe permettere, secondo la logica della mediazione interculturale, la disparità nel trattamento dei mediatori attualmente discriminati nell’acces-so al lavoro. La mobilità interregionale di questi professionisti è tuttora ostacolata dal loro riferimento locale, quindi dall’impari percorso formativo che hanno seguito.Concludendo dunque andrebbero premiate le attività sinergiche tra istituzioni, governi, re-gioni, enti, ed i rappresentanti dei mediatori interculturali, affinché si crei una rete di espe-rienze condivise tale da costituire una riferimento concordato e riconosciuto di esperienze pregresse. Finanziando da subito la crescita sistematica di questa prassi, si potrebbero ria-prire i momenti di discussione interregionali attesi dagli interessati a questo settore, non-ché avviare processi integrativi delle Regioni che tuttora rimangono escluse da queste te-matiche, quindi, all’interno di questo ampio ventaglio di teorie e di sperimentazioni, de-lineare un profilo comune che ne accompagni lo sviluppo.
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libera n. 265 del 30 Luglio 2004; Delibera n. 1576 del 30 Luglio 2004; Delibera n. 2212 del 10 Novembre 2004; Delibera n. 177/2003 del 14 Febbraio 2005; Program-ma triennale 2006-2008 per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri del 7 Feb-braio 2006).
Province Autonome di Trento e Bolzano: (Delibera n. 4266 del 29 Novembre 2001; Pro-getto di qualifica del ‘mediatore/mediatrice interculturale’ dell’Agosto 2001; Reper-torio delle professioni- Mediatore Interculturale).
Regione Liguria: (Delibera n. 2409 del 27 Giugno 1997; Delibera n. 874 del 4 Agosto 2006; Delibera n. 1027 del 6 Ottobre 2006; Delibera n. 1517 del 22 Dicembre 2006; Deli-bera n. 1745 del 15 Gennaio 2007).
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Dieci anni di mediazionea Genova e in Liguria64
di Giovanni Daniele
Dove serve mediazione
Il concetto di mediazione si può trovare operativizzato in contesti molto diversi così ad esempio si può parlare di:• Mediazione sociale: finalizzata a costituire relazioni sociali in contesti dove maggior-
mente è percepito il declino del concetto di comunità e dei suoi strumenti di regolazio-ne onde gestire situazioni conflittuali e ricostruire valori comuni e punti di riferimento condivisi all’interno della comunità stessa.
• Mediazione scolastica: volta ad insegnare agli studenti come gestire i conflitti e le di-spute all’interno della scuola, nella convinzione che essi siano parte inevitabile del vi-vere sociale e delle relazioni fra individui e che la ricerca di strumenti risolutivi delle situazioni di crisi possa considerarsi “educativa” al pari di altre materie di insegnamen-to.
• Mediazione ambientale: volta alla soluzione dei conflitti sorti nel rapporto fra i cittadini e le Pubbliche Amministrazioni, miranti a riaprire fra le parti il canale comunicativo e a porre ciascuna di esse in una situazione di comprensione delle esigenze dell’altro.
• Mediazione al lavoro: finalizzata a supportare soggetti alla ricerca di una collocazione sul mercato del lavoro.
• Mediazione nei luoghi di lavoro: è finalizzata a gestire i conflitti che possono sorge-re all’interno dei luoghi di lavoro e a ricercarne una possibile composizione. Possono pertanto rientrare nella competenza del mediatore aziendale, ad esempio, i conflitti in-terpersonali dovuti ad episodi di mobbing, le difficoltà di convivenza dovute a diver-sità etniche, linguistiche o religiose ovvero tutti quei problemi che rendono problema-tica, se non impossibile, la tranquilla e proficua collaborazione, senza per questo arri-vare a costituire materia di competenza sindacale o giudiziaria.
• Mediazione penitenziaria: mira a ridurre la conflittualità fra la popolazione carceraria e fra questa e la polizia penitenziaria cercando al contempo di sviluppare interazioni si-gnificative caratterizzate dal dialogo fra i membri dei due gruppi.
• Mediazione culturale e linguistica: tesa ad intervenire in presenza di conflitti tra perso-ne di etnie o culture diverse, spesso originati alla scarsa conoscenza dei reciproci usi e costumi assai diversi tra loro.
L’elenco potrebbe senz’altro continuare ma ci interessa sottolineare che quando si parla di mediazione ci si trova senz’altro nel campo della gestione dei conflitti – latenti o in atto – tra attori portatori di diverse letture del contesto nel quale si trovano a convivere.Oltre a questa collocazione che potremmo definire “di crinale” e perciò di per sé critica e instabile, la molteplicità di significati ed attribuzioni che alla mediazione sono collegati non contribuisce a farne un oggetto facilmente maneggiabile sia per chi cerca di fare me-diazione che per chi dovrebbe o vorrebbe utilizzarla come beneficiario.
64 Questo saggio è stato elaborato a partire da documentazione prodotta dal Cedritt insieme all’Ufficio Stranie-ri della CGIL di Genova nel 2005.
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Una presa di coscienza collettiva
Ripercorrere quindi i momenti che negli ultimi 3 o 4 lustri hanno visto l’affermarsi e il con-solidarsi del concetto di mediazione culturale (o interculturale) nel dibattito pubblico li-gure (e delle pratiche di mediazione nel quotidiano in ambito istituzionale e non) com-porta giocoforza una rilettura della recente storia delle migrazioni verso la Liguria (a par-tire dal capoluogo che ha anticipato tempi e dinamiche dei flussi poi ampliatisi alle altre province) con il suo carico di tensioni, di energie e di impulsi spesso non lineari e sem-pre dibattuti con calore.In altre parole la storia della mediazione culturale – dapprima a Genova e via via in tut-ta la regione – è la storia di una presa di coscienza, collettiva e condivisa ma anche ondi-vaga e conflittuale di una collettività che ha imparato – e tutti i giorni impara – a vivere le trasformazioni legate ai processi globali ed in particolare alla mobilità sempre più accen-tuata delle persone a livello planetario.Visti gli scopi più circoscritti di questo saggio non ci avventureremo però in una disanima articolata del fenomeno migratorio contemporaneo (che può datarsi a partire dai primi an-ni ’70 del secolo scorso con la stabilizzazione in città di piccole comunità somale ed eri-tree cui si aggiunsero presto i profughi politici cileni65) lasciando alla bibliografia il com-pito di facilitare la ricerca a chi voglia approfondire questo aspetto.Utilizzeremo piuttosto una cronologia (riportata al termine di questo saggio) parziale e – per certi versi – senz’altro incompleta, che ci aiuti a porre in evidenza quelli che ritenia-mo essere i momenti più significativi del processo di “costruzione sociale” della figura del mediatore culturale nel contesto genovese e ligure.Nei giorni in cui si cominciava a porre all’ordine del giorno la questione della mediazione culturale come possibile “leva del cambiamento”, le caratteristiche dell’immigrazione ver-so Genova erano alquanto lontane da quelle dei giorni odierni sebbene si cominciasse a registrare l’aumento dei migranti latinoamericani che avrebbe poi caratterizzato i primi an-ni del nuovo millennio, riprendiamo da un saggio dell’epoca66 alcuni cenni descrittivi:“Se fino all’inizio degli anni ‘80 le presenze straniere a Genova si limitavano ai gruppi di esuli cileni, agli studenti/rifugiati iraniani, alle colf del Corno d’Africa e ai primi vendito-ri stagionali dal Maghreb, nella passata decade cambia e si amplia la geografia dei nuovi genovesi, cambiano anche le motivazioni che da eminentemente politiche diventano sem-pre più economiche: i maghrebini si stabiliscono definitivamente e consolidano quella ca-tena migratoria che alimenta il loro flusso verso tutto il Nord Italia trovando a Genova le condizioni “ideali” per organizzare la prima accoglienza e la distribuzione di merci e la-voro tra i connazionali; a loro si aggiungono nella seconda metà degli anni ‘80 i senega-lesi anch’essi impegnati soprattutto nella vendita ambulante ma con un minor livello di strutturazione gerarchica del mercato del lavoro interno e una maggiore propensione alla mobilità verso altre zone d’Italia.Le due comunità citate da sole costituiscono circa la metà degli immigrati presenti a Ge-nova.Dall’America Latina non giungono più profughi ma persone dal progetto migratorio orien-tato all’accumulazione di un capitale da investire poi in patria e si collocano in vari set-tori del mercato del lavoro genovese (edilizia, servizi alle famiglie, ristorazione); fuggono dal paese in guerra cingalesi e tamil dello Sri Lanka e trovano impiego soprattutto preso le
65 Cfr. Carlini G., La terra in faccia, Ediesse, Roma, 1991 ed altri saggi del periodo 1980-1990 riportati in biblio-grafia.66 Daniele G., Genova: Pubblica Amministrazione, volontariato e immigrazione, in “Dossier-CEDRITT”, n. 9, Ge-nova, 1995.
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famiglie genovesi come collaboratori nelle faccende domestiche, settore questo che vede oc-cupati anche i filippini.I cinesi infine dopo un primo insediamento di piccoli nuclei impiegati in attività di risto-razione proprie cominciano a espandere la loro attività (e presenza) aprendo laboratori tessili e di pelletteria.Volendo definire quindi l’attuale immigrazione proveniente da paesi poveri verso Geno-va, potremmo dire che si tratta di una “immigrazione di passaggio lento” (ciò vale soprat-tutto per maghrebini e senegalesi), intendendo così sottolineare il carattere tendenzial-mente temporaneo della permanenza degli stranieri a Genova ma anche la difficoltà in-contrata spesso da questi nel trovare sistemazioni migliori in breve tempo nelle cosiddet-te “zone di secondo approdo” (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna), difficol-tà che si traduce in lunghi periodi di “pendolarismo a lungo raggio” sugli assi Genova-Ri-viere e Genova-Milano e di sotto-occupazione in attività ai limiti della legalità o anche il-legali a Genova.Dopo la “sanatoria” (provvedimento di regolarizzazione prevista dalla Legge 39/1990 “leg-ge Martelli) del 1990 le presenze di stranieri provenienti da paesi poveri (regolari e irrego-lari) a Genova erano stimate intorno alle 10/12mila unità, cifra probabilmente rimasta in-variata fino all’estate del 1993.Nel Luglio 1993 la città ha vissuto momenti di grande tensione a causa dell’esplosione di sentimenti xenofobi da tempo diffusi tra la popolazione, in particolare nella città antica dove massima è la concentrazione di immigrati arabi e neri; per alcuni giorni le strade del centro storico sono state teatro di scorribande di gruppi di giovani italiani armate di basto-ni e bottiglie alla caccia di presunti “spacciatori stranieri”.Al di là delle possibili interpretazioni dei fatti, questi hanno avuto come effetto immediato il calo delle presenze di stranieri, molti hanno preferito spostarsi, temporaneamente o defi-nitivamente, in altre zone della città e della regione o in altre città.Inoltre nel corso dell’inverno 93/94 sono stati effettuati numerosi sgomberi ai danni di im-migrati che abitavano in case del centro storico, la conseguente mancanza di sistemazioni abitative (il Comune di Genova non ha provveduto ad offrire alternative agli sgomberati) ha costretto altri a partire.La situazione brevemente esposta ha profonde ripercussioni sulle politiche possibili verso gli immigrati, troppo mobili e troppo marginalizzati per intrattenere rapporti fruttuosi con la Pubblica Amministrazione verso la quale peraltro è difficile nutrire sentimenti di gran-de fiducia visto l’atteggiamento eccessivamente burocratico e, spesso, vessatorio che ha nei confronti degli “cittadini terzomondiali”.Tali politiche peraltro sono state attivate con grave ritardo visto che solo nella seconda me-tà degli anni ‘80 l’Italia si è dotata di normative specifiche per la gestione delle migrazio-ni (Legge 943/86 e Legge 39/90) e solo nel 1990 è stata varata la Legge Regionale Ligure sull’immigrazione.Sono quasi inesistenti rappresentanze istituzionali degli immigrati presso la Pubblica Am-ministrazione, nel 1992 il Consiglio Comunale ha negato il diritto di voto agli immigrati residenti anche in caso di semplici e non vincolanti referendum consultivi cittadini.Lasciamo al lettore la valutazione di analogie e differenze rispetto all’oggi, certamente il 1992-3 si può considerare un momento di crisi che ha anche segnato l’avvio di una ri-flessione collettiva, anche se non sempre visibilissima, alla ricerca di risposte positive alle istanze di trasformazione poste dai nuovi cittadini.Certo, come si evince dalle tappe evidenziate in cronologia, associazionismo e sindacati erano già in movimento da tempo anche se le azioni si concentravano da un lato sulla co-struzione di forme di rappresentanza degli immigrati e dall’altro sulla creazione di servizi
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di accoglienza e supporto per i nuovi arrivati. Abbiamo scelto la nascita del Coordinamento Regionale delle Comunità immigrate, delle Associazioni di volontariato e delle OO.SS. come “punto zero” della cronologia proposta proprio per sottolineare come dalla maturazione delle esigenze di rappresentanza – che per tutti gli anni ‘80 sono cresciute nella città al crescere della presenza di immigrati – de-riva in via diretta l’individuazione della mediazione culturale quale strumento di gestione dei conflitti che inevitabilmente si creano tra i “loro” e i “noi” generati dai flussi migratori: quando nasce un “nuovo noi” i “noi pre-esistenti” devono fare spazio (o almeno questa è la percezione diffusa) e – di norma – questo non avviene in maniera indolore. “Volevamo braccia e sono arrivate persone”67 è uno modo davvero azzeccato per descri-vere le dinamiche sociali innescate dalle migrazioni contemporanee e spiega come le po-litiche locali si muovano spesso in maniera più avanzata rispetto a quanto avvenga nella legislazione nazionale; sono i comuni, le scuole, le ASL, gli uffici decentrati dei ministe-ri, le questure ecc. che si confrontano appunto con le persone e devono adattarsi, trova-re soluzioni che evitino la crescita esponenziale del disagio.È da concrete esperienze di confronto nei luoghi di erogazione di servizi che nasce la spe-rimentazione di forme di mediazione che sfociano poi nel 1996-97 in due esperienze più strutturate di formazione (corso del Comune di Genova per consulenti interpreti e media-tori culturali nel ‘96 e corso di formazione per mediatori culturali della Provincia di Geno-va nel ‘97) che si inquadrano – a livello nazionale – nell’ampia gamma di esperienze sca-turite quasi sempre dall’incontro tra enti locali e associazionismo.Queste esperienze segnano il passaggio da una fase caratterizzata dal “volontariato” degli stranieri più coinvolti nel mondo dell’associazionismo ed in quello sindacale e dal “volon-tarismo” delle istituzioni (con esempi di grande dedizione e impegno da parte di opera-tori pubblici e del privato sociale) ad una in cui si fa faticosamente strada l’idea del “pro-fessionismo del mediatore” come esito di quella presa di coscienza della complessità dei problemi posti dalla presenza straniera cui si accennava sopra. Un’eco di tale sforzo creativo si ritrova a livello nazionale in un gruppo di lavoro orga-nizzato dal CNEL nel 1999-2000 (i cui lavori sono sintetizzati in alcuni documenti circolati quasi esclusivamente tra addetti ai lavori68) dove si sottolinea come la pratica della media-zione culturale sia “utile e necessaria al processo di integrazione degli immigrati e di mu-tamento della società di accoglienza”, perciò la mediazione culturale va considerata come una sorta di “ponte” fra due parti, in grado di favorire la reciproca conoscenza in una pro-spettiva di interscambio ed arricchimento. “La mediazione culturale va considerata come dimensione costante delle politiche di integrazione sociale indicate dal Testo Unico e dai provvedimenti programmatici del Governo…” – il riferimento è qui alla legge 40 del 1998 – e le finalità dei processi di mediazione cultu-rale sono così individuate:• rimozione degli ostacoli culturali che impediscono la comunicazione tra servizi/istitu-
zioni italiani e utenza straniera;• promozione di un più esteso utilizzo dei servizi e delle istituzioni italiane da parte del-
l’utenza straniera;• miglioramento delle prestazioni offerte dai servizi italiani all’utenza straniera per favo-
rire l’integrazione sociale nelle comunità locali, nei servizi sociali, nelle istituzioni sco-lastiche e culturali, nel settore della sanità e del lavoro;
67 È un aforisma di Max Frisch molto citato ma non per questo meno efficace.68 La mediazione interculturale in Italia: esperienze a confronto, Atti del Convegno Nazionale, Consiglio Nazio-nale dell’Economia e del Lavoro, Modena, 14/01/00. Si veda inoltre il documento CNEL riprodotto nella parte III di questo volume.
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• promuovere azione di sostegno culturale nelle situazioni di conflitto tra le comunità immigrate e le istituzioni.
Come si vede qui l’accento è posto sulla “funzionalità” del mediatore rispetto alle diverse forme di contatto tra la società italiana complessivamente considerata e lo “straniero” sin-golo o in “comunità”; non emerge – se non implicitamente nell’ultimo punto – quello che è forse l’elemento di maggiore spessore del processo di mediazione: la modificazione del-la realtà sociale complessiva69.Se nel periodo 96-97 si pongono concretamente le basi per il consolidamento professio-nale di un primo nucleo di mediatori, ancora lunga è la strada per il pieno riconoscimento istituzionale di tale professionalità. Ragioni pratiche e ragioni teoriche si intrecciano infat-ti nel rendere questo percorso complicato e non lineare: come inquadrare questa profes-sione, a quale qualifica corrisponde? Come retribuire i mediatori che operano in strutture pubbliche dove non sono previsti in pianta organica? Come valutare i titoli di accesso al-la professione visto che spesso le persone che la svolgono hanno titoli non riconosciuti in Italia? In che rapporto devono essere i mediatori con le altre figure professionali? I media-tori devono essere solo stranieri o anche italiani? Come inserire lavoratori extracomunita-ri in posti di lavoro pubblici a loro preclusi? Fino a quando servono i mediatori? La capa-cità di mediare tra culture è una professione specifica oppure deve diventare una parte di ciascuna professionalità con contenuto relazionale nell’Italia del 2000?Molte di queste domande sono ancora senza risposta definitiva, anche se a tutte queste e ad altre ancora si è cercato di dare risposta nell’operare quotidiano e nella riflessione teo-rica sull’argomento, certo è che i mediatori operanti a Genova nel 2000 hanno sentito il bisogno di riunirsi in associazione (ASMEC), sotto l’egida di una delle principali cooperati-ve sociali genovesi, per tutelare meglio il loro specifico professionale e proprio nello stes-so anno si registra una nuova “ondata” di eventi che evidenziano un maggiore radicamen-to soprattutto nel mondo della scuola e dei servizi sociali.Parallelamente si sviluppano anche iniziative di aggiornamento professionale dei mediato-ri (sono passati ormai tre anni dalla conclusione della “stagione formativa” 96-97), a questo proposito va segnalata – in questa fase – una certa perdita di centralità dell’iniziativa pub-blica in questo campo che probabilmente non gioca positivamente nel rendere più forte la posizione professionale dei mediatori. I corsi di aggiornamento – pur fondamentali per chi esercita la professione – nascono per rispondere alle esigenze di specifici servizi e non consentono di far crescere una “conoscenza diffusa” sulla mediazione. Sembra che la so-luzione dell’outsourcing – attivata per ovviare ad alcune delle questioni sopra ricordate – sia comoda per molti e sollevi le istituzioni locali dal compito – gravoso ma essenziale – di riflettere a fondo sulle politiche integrative e culturali da mettere in opera per far cre-scere la città in un contesto migratorio.In altre parole la mediazione culturale – ormai diffusamente accettata e utilizzata nei ser-vizi pubblici – viene delegata ai vari soggetti del cosiddetto terzo settore per contener-ne i costi e per eludere la questione di un riconoscimento professionale esplicito da par-te delle istituzioni; una vicenda questa che ha più di un punto in comune con molte altre “nuove professioni” che – faticando ad ottenere riconoscimenti formali – sono comunque ben presenti ed utilizzate nei servizi pubblici grazie a convenzioni e affidamenti a sogget-ti esterni.Non si vuole qui dare un giudizio su questo stato di cose ma soltanto evidenziare il fatto che la mediazione culturale come tanti altri servizi rivolti a bisogni reali dei cittadini tro-
69 Cfr. per un approfondimento teorico sui concetti di cultura e di mediazione culturale in un’ottica costruzioni-sta: G. Mantovani, L’elefante invisibile, Firenze, Giunti, 1998.
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vi risposte non pienamente convinte da parte dei servizi pubblici: da un lato c’è la consa-pevolezza della indispensabilità della funzione, dall’altro la mancanza di scelte politiche pienamente conseguenti.È in questo contesto che nel biennio 2000-2001 la mediazione culturale approda anche ai servizi per l’impiego (sempre attraverso una convenzione con soggetti del privato socia-le) inserendosi nel processo di trasformazione del collocamento che vede i neo-nati cen-tri per l’impiego provinciali sostituirsi ai vecchi uffici di collocamento ministeriali e offrire un ampia gamma di servizi ai cittadini che sono alla ricerca di un lavoro (tra questi infat-ti molti sono extracomunitari).Pur essendo stata la Provincia di Genova a realizzare direttamente uno dei primi interventi di formazione e riconoscimento della figura del mediatore culturale non si è ancora giun-ti al passo deciso dell’assunzione diretta di tali professionisti anche se non è chiaro se ciò avvenga per motivi meramente organizzativi (contenimento dei costi, rispetto dei vincoli imposti dal blocco del turn-over nel settore pubblico, vincoli normativi relativi ai concorsi, ecc.) oppure per una valutazione di complessiva transitorietà della funzione di mediazio-ne destinata a “diffondersi” nel servizio con il tempo e anche grazie a percorsi di aggior-namento di tutto il personale che ha relazioni con un pubblico sempre più eterogeneo dal punto di vista culturale (tali percorsi di aggiornamento sono stati effettivamente avviati per il personale dei centri per l’impiego genovesi).Una risposta univoca non è al momento possibile anche se va detto che l’abolizione for-male del vincolo d’accesso ai concorsi banditi dalla Provincia di Genova per i cittadini ex-traUE avvenuta nel 2005 potrebbe segnare una svolta nel percorso di consolidamento pro-fessionale del mediatore culturale.Va comunque ascritto alla Provincia di Genova il merito di aver voluto anche riflettere sul ruolo dei mediatori senza limitarsi ad enunciazioni di principio superficiali; in un recen-te lavoro di analisi sulle politiche di integrazione rivolte ai migranti presso i servizi gesti-ti direttamente da questo ente nel campo del supporto all’occupazione70, si precisa infat-ti il ruolo di fatto assunto dai mediatori operanti nei centri per l’impiego sottolineando la tensione sempre presente tra funzioni di mero interpretariato e presa in carico dell’uten-za straniera in senso complessivo (con ampli sconfinamenti e sovrapposizioni rispetto ai compiti del servizio di orientamento). Il tentativo di governare tali tensioni attraverso ca-pitolati d’appalto risulta spesso poco adatto allo scopo mentre di certo gioverebbe un in-vestimento maggiore in termini di aggiornamento e di crescita professionale degli opera-tori.Attualmente71 nei Centri Provinciali per l’Impiego i mediatori – pur in un ottica di integra-zione con le altre professionalità presenti – sono essenzialmente chiamati a svolgere fun-zioni di:♦ accoglienza ed analisi della domanda dell’utente (nei casi in cui non sia possibile per
il CPI prendersene carico, l’operatore deve indirizzare l’utente al servizio più idoneo);♦ l’informazione inerente a legislazione, mercato del lavoro, opportunità formative, nor-
mativa e adempimenti relativi ai CPI, servizi offerti dai centri;♦ affiancamento e supporto nelle attività di orientamento.Il fenomeno della cosiddetta “fidelizzazione” dell’utente straniero a questo o quel media-tore (e della conseguente eccessiva personalizzazione del servizio registrata in questi an-ni) dovrebbe essere stato ricondotto ad un più corretto equilibrio anche grazie alla divi-
70 Cfr. Ermino D., Quali politiche di integrazione degli immigrati? un’analisi delle politiche attive del lavoro e dei servizi per l’impiego, report del maggio 2005 disponibile sul sito www.provincia.genova.it/lavoro71 Ibidem.
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sione dei bacini di utenza dei diversi CPI secondo il criterio della residenza/domicilio del-l’utenza.Sull’utilizzo di mediatori culturali nei Centri per l’impiego delle altre province liguri non si dispone di analisi altrettanto puntuali ma è lecito supporre che laddove sono presenti si abbiano problematiche simili di integrazione nei servizi; va anche detto che al di fuo-ri della provincia di Genova l’impiego di mediatori nei servizi per l’impiego è – ad oggi – meno intenso.Nel biennio 2000-01 assume contorni più definiti la strategia del Comune di Genova nel-l’erogazione dei servizi rivolti ai cittadini extracomunitari: si va verso un’agenzia che sia un soggetto collettivo e unico dove i diversi attori privati che operano nei servizi agli im-migrati confluiscano per razionalizzare il loro rapporto con l’ente comunale. Tale percorso presenta alcune incognite dal punto di vista del profilo giuridico da adottare72, ma il car-dine sul quale regge è senz’altro la co-progettazione che dovrebbe consentire di supera-re le difficoltà di omogeneizzazione dei servizi in un contesto di esternalizzazione dei me-desimi, un giudizio più preciso potrà venire una volta definito il percorso avviato con la costruzione del Piano Regolatore Sociale.I mediatori culturali sono dunque utilizzati in ambiti sempre diversi cha spaziano dalla sa-nità al carcere, dalla scuole di ogni ordine e grado ai diversi sportelli pubblici, cresce di conseguenza la domanda mentre l’offerta di mediazione qualificata, in ragione della ine-sistente formazione pubblica, è sempre la stessa; si arriva quindi ad una richiesta da parte della cooperativa che più massicciamente ha investito in tale settore (SABA) di un corso che consenta di formare nuovi mediatori come avvenuto nell’ormai lontano 1997.Tale corso – realizzato da Isforcoop su convenzione della Provincia di Genova – ha per-messo la qualificazione di 15 mediatori nel corso dell’anno formativo 2002-03, tuttavia – a differenza di quanto avvenuto nelle precedenti esperienze – il corso rispondeva soprat-tutto ad una esigenza “aziendale” – certamente legittima e rilevante anche collettivamente – piuttosto che essere frutto di una concertazione amplia e condivisa dai diversi soggetti istituzionali interessati a tali figure professionali.Da segnalare a questo proposito alcune difficoltà patite in questa esperienza quali il non sempre semplice riconoscimento dei titoli di studio per l’accesso al corso, l’individuazione di criteri validi per la selezione dei numerosissimi candidati ed altre sopraggiunte nei mo-menti d’aula che forse avrebbero potuto essere gestite con meno fatica senza il citato di-fetto di concertazione alla base di tale momento formativo.Sempre nel 2002-2003 si realizza il primo corso per mediatori culturali a Savona (sempre a cura di Isforcoop) che, pur rispondendo ad una esigenza esistente nel territorio provin-ciale, soffre di analoghi problemi nella costruzione di una “rete di accoglienza” per i neo- mediatori che coinvolga sufficientemente le istituzioni locali.Oggi in provincia di Savona servizi di mediazione culturale sono attivi presso i CPI in di-verse lingue ed esistono diverse esperienze di utilizzo di mediatori nelle scuole della pro-vincia.In occasione del corso di formazione per mediatori interculturali realizzato da Isforcoop a Savona nel 2007 si sono – tra l’altro – sperimentati inserimenti di mediatori in formazione per un periodo di stage presso strutture della ASL2.Nella Provincia di Imperia nello stesso lasso di tempo (2002-2003) viene realizzata la – fi-nora – unica iniziativa di formazione nel settore mediazione, questa prende corpo in seno ad un progetto più amplio che prevede anche azioni di erogazione servizi diretti agli im-
72 Cfr. G. Giorgetti (a Cura di), “Rapporto di ricerca del progetto LICURGO”, CELIVO, Genova, 2005, par 5.5 “Ge-stione dei servizi ai cittadini immigrati” a cura di Marco Capecchi – www.licurgo.org
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migrati dove gli stessi mediatori possono essere impiegati.Più in generale – dal 2001 ad oggi – la Provincia di Imperia ha messo in atto diversi pro-getti che hanno l’obiettivo di favorire il successo formativo degli studenti, l’inserimento la-vorativo dei giovani, inclusione sociale dei cittadini a rischio di esclusione; in ognuna di queste azioni ci sono, come destinatari, anche cittadini extracomunitari e sono stati im-piegati per questo nei progetti dei mediatori culturali. Nel corso del 2007 si è avviata una azione per l’integrazione che prevede – oltre al rinforzo di azioni nei servizi per l’impiego e nella scuola – l’utilizzo di mediatori nel settore sanitario.Nell’estremo ponente ligure va anche segnalata l’iniziativa messa in campo dai comuni della Zona 1 “ventimigliese” e da diverse realtà del privato sociale nel periodo 2003-2004 che ha messo a disposizione della popolazione immigrata servizi di assistenza e di media-zione cercando nel contempo di far crescere la consapevolezza sul tema della mediazio-ne stessa tra gli operatori pubblico-privati del territorio interessato attraverso percorsi di aggiornamento professionale.Nel biennio 2004-2005 a Genova in particolare si segnalano alcune iniziative di aggiorna-mento professionale rivolte ai mediatori già attivi sul territorio volte a migliorare la pre-parazione specifica necessaria per operare nei singoli ambiti lavorativi, mentre è solo nel 2007 che anche a La Spezia le richieste emergenti di mediazione trovano una prima rispo-sta in termini di formazione di operatori professionalizzati a tal fine, con un corso di ag-giornamento rivolto ad operatori di cooperative, questo ultimo intervento si segnala per la scelta di articolare su due livelli la formazione portando in un’unica aula tecnici, educatori e mediatori per una parte comune centrata sulle problematiche aperte dai flussi migrato-ri e sulla “cultura della mediazione”, il corso poi si sdoppia per rispondere a bisogni for-mativi specifici di mediatori da un lato (tecniche di interpretariato) e degli altri operatori (aggiornamento sui servizi cui accedono gli immigrati e problematiche specifiche); questa scelta – non sappiamo quanto consapevole ma senz’altro originata da una richiesta con-creta da parte di strutture che operano nel sociale – ci sembra comunque interessante co-me modello per un futuro dove l’aggiornamento professionale in tema di mediazione de-ve essere capace di coinvolgere anche i non mediatori.In questa sommaria ricostruzione “storica” mancano senz’altro notizie specifiche su inizia-tive volte alla formazione di mediatori culturali sviluppate per soddisfare esigenze interne alle strutture operanti con migranti73, non si tratta di ignorare tali esperienze ma piuttosto della oggettiva difficoltà di mapparle compiutamente; ci si è limitati quindi a considerare quelle legate più immediatamente con iniziative o servizi istituzionali.
Scuola e mediazione
Per quanto riguarda lo specifico della scuola si è già detto che in tutta la regione si utiliz-zano – anche se non in maniera sistematica – servizi di mediazione per supportare l’inse-rimento di giovani di origine straniera; nel capoluogo regionale le iniziative gravitano per lo più intorno al “Laboratorio Migrazioni”, anch’esso operante dal fatidico 1992, che – par-tendo dall’esigenza di supportare alunni e docenti alle prese con la difficile opera di edu-cazione interculturale resa ineludibile dalla crescita dei ragazzi stranieri nelle scuole geno-vesi – si occupa in questi ultimi anni di una vasta gamma di interventi collegati certamen-te alla mediazione culturale ma che ormai si configurano piuttosto come “proposta edu-
73 Soggetti quali la Caritas, Arci, i patronati sindacali o il Villaggio del Ragazzo (di S. Salvatore di Cogorno) e – probabilmente – anche altri hanno realizzato momenti di formazione per propri operatori addetti alla media-zione.
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cativa globale”.È probabile che anche in Liguria si realizzi quanto riportato in un recente saggio a propo-sito della situazione a livello nazionale relativamente al fatto che nelle “scuole dove in cui si è adottata la figura del mediatore culturale o del facilitatore linguistico si sono registra-ti maggiori esiti positivi”74, sarebbe comunque di qualche interesse verificarlo direttamen-te per adeguare al meglio gli strumenti in uso.Va comunque rimarcato che la visibilità dei giovani della seconda e terza generazione mi-gratoria (ma loro giustamente non si considerano migranti) non migliora troppo in quali-tà; significativo a questo proposito il fatto che dopo anni di aumento costante della pre-senza straniera nelle scuole (uno degli aspetti più analizzati dai ricercatori locali negli ul-timi anni) e di sostanziale “sollievo” per l’argine così posto agli effetti del declino demo-grafico degli anni ’80 del secolo scorso, si arrivi ai titoli strillati ad esempio da il Secolo XIX a proposito dei “troppi” giovani di origine estera che metterebbero “in crisi” la scuo-la genovese75.La speranza di salvare posti di lavoro in tempi di contrazione dell’investimento pubblico nella scuola era ben riposta (le presenze straniere hanno in effetti bilanciato la forte di-minuzione di alunni “autoctoni”) ma dal punto di vista della sfida pedagogica la presunta svolta manageriale ha, di fatto, diminuito la capacità di risposta.Al proposito si è visto anche il ritorno di riflessioni pubbliche sull’opportunità del ritorno a classi differenziali76 che si pensava potessero appartenere al passato.In questo quadro si inserisce la presenza di mediatori culturali stretti tra un corpo docen-te sempre più esiguo e poco valorizzato e una massa crescente di studenti immersi nella globalizzazione con scarsi strumenti socio-culturali per comprenderne e gestirne gli effet-ti nella vita quotidiana; strumenti trasmessi per lo più da un mondo adulto spesso impan-tanato a discutere di “difesa dell’occidente” e di “bisogno di sicurezza” e sempre meno at-tento ai bisogni di bambini e ragazzi (salvo quando questi non siano declinabili in termi-ni di consumo commercializzabile).Gli spazi per la socialità e l’approccio alla persona nella scuola di oggi sono sempre più lasciati alla buona volontà degli insegnanti chiamati a “erogare informazioni” piuttosto che a riprodurre cultura viva. Il nodo se si vuole è tutto qui: che ci stanno a fare i mediatori culturali in luoghi dove troppe volte la cultura è avvilita e malintesa come insieme di no-zioni standard?La scuola in questi anni è stato uno dei pochi luoghi di inclusione reale (non facile certo ma concreta) e non è forse un caso che oggi la Liguria sia una delle regioni italiane con il tasso di scolarità dei giovani immigrati più elevato d’Italia. Sarebbe dannoso e probabil-mente pericoloso deludere chi ha fatto quest’investimento sul futuro chiudendo le porte delle scuole o anche limitando a questa sola realtà il processo di inclusione. La mediazio-ne culturale non è senz’altro al risposta a questi problemi che si pongono ad un livello di scelte politiche strategiche ma è senz’altro uno strumento utile a gestire con minori scosso-
74 Ravecca A., La scuola e i servizi educativi a sostegno delle famiglie, in Ambrosini M.- Torre A. (a cura di), Se-condo rapporto sull’immigrazione a Genova, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2005. Sulle attività di CRAS e Labora-torio Migrazioni nelle scuole genovesi, si veda al recente C. Nosenghi-D. Berretti (a cura di), Un futuro credibile, USR Liguria-Ministero Pubblica Istruzione, Genova, 2007, e il sito www.scuolenuoveculture.org.75 Cfr. l’articolo pubblicato il 29/08/2005 sul Secolo XIX a firma Donata Bonometti – pagine 1 e 3. Sulla questio-ne della visibilità negativa dei giovani di origine straniera si sofferma anche un saggio di Maurizio Ambrosini che – pur argomentando pacatamente e con cognizione di causa sulla questione – rimane vittima di un significativo lapsus a proposito della presunta appartenenza alla razza bianca (sic!) dell’italiano ante flussi migratori [Ambrosi-ni M , Le conseguenze inattese di un’integrazione subalterna, in Ambrosini M.-Torre A. (a cura di), Secondo rap-porto sull’immigrazione a Genova, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2005, p.21]76 Ci si riferisce nello specifico al dibattito avvenuto a Savona nel novembre 2000 nel corso di un convegno dal titolo “il mio compagno Aziz” proprio sul tema dell’integrazione di alunni stranieri nella scuola ma comunque è una prassi strisciante la separazione per gruppi nazionali/etnici.
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ni un processo di armonizzazione sociale che è “la” sfida del prossimo decennio almeno
Sul crinale
Continuando con la metafora utilizzata in apertura va sottolineato come siano quelli di crinale i percorsi privilegiati per favorire la mobilità in territori accidentati e non attrezza-ti con strade sicure e ben tracciate, così i mediatori culturali operano come guide di mon-tagna nell’attesa che le vie di comunicazione meno impervie siano più facilmente percor-ribili e collaudate.Da un punto di vista organizzativo si può dire che la mediazione culturale si pone spesso come strumento-cerniera tra servizi pubblici e nuovi cittadini e – con riferimento alla si-tuazione ligure ma con valenza crediamo più generale – ha trovato una collocazione nel mercato del lavoro per così dire “a fianco” del nucleo forte del lavoro pubblico migrando da una sfera molto legata al volontariato (anche di matrice sindacale) verso l’ambito sem-pre più vasto delle esternalizzazioni operate dalla P.A. verso il terzo settore.Proprio in considerazione della marcata tendenza all’esternalizzazione delle funzioni di mediazione culturale mostrata dalle amministrazioni pubbliche che necessitano dell’ap-porto professionale di mediatori culturali, sembra utile e urgente un’azione volta a valo-rizzare le esperienze realizzate in questi anni garantendo una maggiore certificazione e un aggiornamento professionale qualificante da parte delle strutture pubbliche preposte al-la formazione professionale; percorsi formativi riconosciuti e corrispondenti a livelli con-trattuali omogenei e congrui potrebbero consentire un consolidamento di figure profes-sionali importanti e la loro integrazione nelle piante organiche di organizzazioni pubbli-che e private.Il rischio che si sta correndo è infatti quello di una tendenza alla deresponsabilizzazio-ne delle istituzioni che delegano al mediatore la gestione dei rapporti con gli utenti stra-nieri77.Il livello istituzionale responsabile per un processo di questa portata è senz’altro quello re-gionale anche se per alcuni aspetti normativi generali sarebbe necessaria una dimensione nazionale (una attivazione transregionale in tal senso avrebbe senz’altro un ruolo propul-sore decisivo); va comunque ricordato a questo proposito l’orientamento espresso alcuni anni or sono dall’Autorità Garante per la Concorrenza a proposito delle cosiddette nuo-ve professioni che non dovrebbero essere tutelate nella forma protezionistica propria de-gli ordini professionali quanto piuttosto valorizzate attraverso un processo di certificazio-ne dei profili formativo-professionali tale da consentire una libera scelta informata da par-te dei fruitori delle prestazioni professionali siano essi singoli cittadini o soggetti pubbli-co-privati in qualità di acquirenti di servizi.Le recenti Delibere Regionali in materia di mediazione culturale78 e la nuova Legge Re-gionale 7/2007 costituiscono un importante passo avanti cui deve seguire – oltre all’ap-plicazione rapida di quanto previsto in materia di riconoscimento delle qualifiche profes-sionali – un puntuale monitoraggio delle attività di mediazione su scala regionale e l’in-dividuazione di proposte condivise di crescita e diversificazione della figura del mediato-
77 Questa tendenza è stata evidenziata dall’indagine del CISP finalizzata alla mappatura delle esperienze di me-diazione interculturale realizzate in Italia e che ha consentito il censimento di oltre 700 servizi di mediazione cul-turale per conto del Ministero del Welfare (www.welfare.gov.it). 78 Si fa qui riferimento alle Delibere della Giunta Ragionale Ligure: n. 874 del 4 agosto 2006 – Definizione della figura professionale di “mediatore interculturale” e approvazione degli indirizzi per i contenuti minimi dei per-corsi formativi di 1° livello (qualifica) e di 2° livello (specializzazione). n.1517 del 22 dicembre 2006 – Definizio-ne delle modalità di riconoscimento di crediti formativi per la figura professionale di “Mediatore Interculturale”.
5757
re culturale.In futuro sarebbe inoltre interessante e utile studiare l’immagine che del mediatore si so-no costruiti i “mediati” ovvero – eminentemente – gli operatori pubblici che lavorano al loro fianco nei diversi servizi e gli utenti di questi servizi che beneficiano dell’azione dei mediatori.Un’indagine di questa portata consentirebbe – tra l’altro – di individuare le aspettative im-proprie e contribuirebbe a chiarire un percorso di “superamento” della mediazione come strumento peculiare verso una diffusione degli strumenti di mediazione nei diversi profili professionali, superamento che è senz’altro auspicabile nel medio periodo per evitare che l’apporto importante e qualificato dei mediatori di oggi non diventi un alibi per la rigidità e la mancata crescita degli operatori dei servizi di domani.Possiamo legittimamente aspirare ad avere percorsi di crescita e diversificazione profes-sionale per chi oggi fa il mediatore e domani potrebbe diventare responsabile di servizio, insegnante, operatore sanitario, ecc. con competenze specifiche nella gestione delle di-versità, così come auspichiamo che tutti gli operatori di origine italiana debbano acquisi-re nel loro curriculum elementi di conoscenza atti a gestire le diversità culturali portate in evidenza dai processi migratori.
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Il corso di qualifica per mediatore interculturale di Savona (Stage e Project work), Marzo/Ottobre 2007
a cura di Luisa Sciallero
Il corso: aspetti organizzativi e contenutistici
Il corso è stato progettato e realizzato dall’Isforcoop di Savona, e costituisce la prima espe-rienza formativa realizzata dopo l’emanazione da parte della Regione Liguria nella secon-da metà del 2006, delle nuove disposizioni in materia di formazione e qualifica dei me-diatori interculturali.Il percorso formativo, della durata di 600 ore distribuite in un arco temporale da marzo a ottobre 2007, era strutturato in moduli teorici di base (180 ore) e professionalizzanti (140 ore), integrati da un “project work” (30 ore) e da un modulo pratico realizzato attraverso “stage” individuali (250 ore).I partecipanti erano 15 – 13 donne e 2 uomini – appartenenti a 10 diverse nazionalità e provenienti da 3 diverse province (Genova, Savona, Imperia).Gli argomenti affrontati in aula erano riconducibili a discipline quali: - sociologia, con approfondimenti sulla sociologia delle migrazioni - psicologia, con riferimento ad aspetti relativi al sé e alla gestione dei rapporti interper-
sonali- pedagogia, soprattutto per gli aspetti relativi alla didattica interculturale- antropologia culturale- teorie e tecniche della comunicazione- analisi delle normative a livello comunitario, nazionale e regionale in materia di immi-
grazione - tecniche di interpretariato e traduzione- organizzazione del sistema dei servizi di pubblica utilità in Italia - tecniche e i modelli di progettazione e programmazione di interventi di mediazione in-
terculturale - analisi di buone prassi a livello comunitario, nazionale e regionale. Il project work ha rappresentato un momento di elaborazione di gruppo e individuale ri-spetto alle tecniche, le conoscenze e le competenze acquisite in aula, funzionale all’avvio della fase di esperienza pratica rappresentata dallo stage.L’obiettivo del project work era quello di consolidare negli allievi competenze integrate sullo specifico della mediazione interculturale e – in generale – sul fenomeno migratorio e sul contesto nel quale questo si realizza. La metodologia proposta era quella dell’appren-dimento cooperativo, nel quale ognuno era chiamato a dare il proprio contributo e diven-tare una risorsa per tutti gli altri.Lo stage ha rappresentato la “discesa in campo” dei partecipanti, quindi la possibilità di misurarsi e confrontarsi con il concreto del lavoro.Le attività di stage sono state avviate a metà circa del percorso formativo e si sono svolte in diversi contesti settoriali e territoriali; ognuno dei corsisti ha potuto suddividere la pro-pria esperienza pratica in più contesti.Nel riportare l’esperienza del corso, ci sembra utile fare riferimento a quanto emerso dai
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project work e dagli stage, perché a livello teorico e pratico ci danno conto di quello che è stata l’esperienza degli allievi.
Sintesi dei project work
Come detto il project work consisteva in un lavoro di gruppo e individuale: in particolare l’insieme dei corsisti è stato suddiviso in tre sottogruppi, ognuno dei quali doveva svolge-re un lavoro di ricerca e di elaborazione su:- il fenomeno migratorio nel suo complesso e nello specifico verso la Liguria, in termini
di analisi delle diverse fasi storiche, dati statistici, normative, politiche adottate…- la rilevazione dei principali nodi problematici che la componente immigrata della no-
stra società si trova ad affrontare nel quotidiano e che potrebbe richiedere interventi di mediazione
- la figura del mediatore interculturale e le sue esigenze conoscitive e strumentali per po-ter lavorare
Ad integrazione di questo lavoro si è chiesto ai corsisti di approfondire a livello personale un tema riguardante uno degli ambiti possibili di intervento del mediatore interculturale, mettendo in evidenza anche gli aspetti correlati alle strategie operative.Qui di seguito riportiamo una sintesi delle relazioni elaborate dai corsisti.
Il fenomeno migratorio
I processi migratori, in epoca di globalizzazione, costituiscono ormai un fenomeno strut-turale delle società contemporanee, seppure in continua evoluzione.Questo comporta rilevanti trasformazioni sul piano istituzionale, culturale e sociale Si stima che nel 2005 fossero 191 milioni le persone che vivevano al di fuori del proprio paese di origine. Le ragioni che spingono le persone ad emigrare sono principalmente ri-conducibili a motivazioni economiche, persecuzioni e oppressioni di tipo politico o reli-gioso, disastri naturali o motivazioni personali (ricongiungimento familiare, fuga da pro-blemi giudiziari, studio...); una componente non trascurabile è costituita dai lavoratori for-zati, fra i quali vanno ricomprese le vittime della tratta e della prostituzione. I flussi migratori quantitativamente più rilevanti partono dal sud del mondo anche se so-lo una percentuale minore raggiunge il nord. I migranti si concentrano in pochi paesi di destinazione, basti pensare che il 53% si concentra nei primi 10 paesi di accoglienza del-la graduatoria a livello mondiale (Usa e Canada, per il continente americano; Fed. Russa, Ucraina, Germania, Francia Gran Bretagna e Spagna, per l’Europa; India e Arabia Saudi-ta, per l’Asia).Per quanto riguarda l’Italia, un dato rilevante e peculiare è il passaggio da paese di emi-grazione a paese di immigrazione, avvenuto intorno alla metà degli anni ’70: nella prima fase i flussi migratori in ingresso si manifestano in modo lento, graduale, poco evidente, concentrandosi in pochi grandi centri (Roma, Milano) o in città portuali come Genova e Napoli. È a partire dagli anni ’90 che il fenomeno si intensifica, in conseguenza anche del-l’aumentata componente migratoria dai paesi dell’Est europeo: in termini quantitativi, si passa dai 649.000 soggiornanti del 1991 al 1.341.000 del 2000, e si stima che nel 2006 gli stranieri residenti in Italia fossero oltre 2.670.000.La Liguria rispecchia questo andamento, costituendo soprattutto con Genova, una zona di primo approdo in attesa di spostarsi verso aree maggiormente appetibili dal punto di vi-
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sta lavorativo, mentre Savona, soprattutto a partire dagli anni ’90, costituisce una scelta per chi ha già sperimentato l’impatto con le grandi città.Nel contesto ligure attuale, le presenze più significative risultano essere sudamericani (con particolare rilevanza della componente ecuadoriana), maghrebini ed est europei. I setto-ri prevalenti di inserimento lavorativo sono i servizi alle famiglie (soprattutto per le don-ne) e l’edilizia.Dal punto di vista normativo, l’Italia comincia ad occuparsi di immigrazione solo nella se-conda metà degli anni ’80, con la legge 943 del 1986, concernente essenzialmente i lavo-ratori immigrati dipendenti. Con la successiva legge 39/90 (nota come legge Martelli), si allarga il campo di azione che comincia a contemplare, oltre agli aspetti lavorativi, anche qualche intervento sul piano dei diritti di cittadinanza. Ma è con la legge 40 del 1998 (leg-ge Turco Napolitano) che si arriva ad un mutamento significativo con l’allargamento in senso universalistico dei destinatari della normativa, attraverso il riconoscimento di diritti sociali agli stranieri in tutte le posizioni giuridiche, compresi gli irregolari (con riferimen-to all’assistenza medica urgente o essenziale).Sul piano delle politiche d’integrazione sociale la successiva legge 189/2002 (legge Bos-si Fini) non introduce sostanzialmente modifiche, caratterizzandosi piuttosto per l’introdu-zione di misure più restrittive in materia di ingressi e di durata dei permessi di soggiorno, che viene correlata alla durata del contatto di lavoro.Sul piano regionale, va ricordata la legge 7/2007 concernente le “Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati”, che mira a favori-re l’integrazione dei cittadini non comunitari nella nostra regione, a partire dalla afferma-zione e dalla difesa dei diritti fondamentali della persona. Questa legge, inoltre, valorizza la figura del mediatore interculturale, riconoscendola come Professione, prevedendo di-sposizioni per l’attivazione di specifici percorsi formativi di qualificazione professionale.
Nodi critici della quotidianità degli stranieri in Liguria
L’esperienza della migrazione comporta quasi sempre, nella fase di impatto con la società di arrivo, una forma di disagio legato al fatto di trovarsi in un paese straniero, con usi, co-stumi, lingua, tradizioni diversi. A questo disagio “d’impatto”, si correlano e si aggiungo-no nel tempo, a vari livelli, altre problematiche che caratterizzano la quotidianità dell’im-migrato e il suo percorso di integrazione.Senza voler definire alcun ordine prioritario, passiamo a considerare alcuni di questi am-biti problematici:documenti di soggiorno: la durata breve dei permessi, le lungaggini burocratiche per i rin-novi, il vincolo del permesso al contratto di lavoro, costituiscono una fonte di stress e di senso di precarietà per le persone immigrate.casa: il diritto alla casa in Italia non è riconosciuto né agli italiani, né agli stranieri. La con-dizione abitativa spesso è precaria, insana e si registrano frequenti situazioni di sovraffol-lamento. Un altro aspetto del problema sono le diffuse forme di discriminazioni nel setto-re immobiliare privato e per l’accesso all’edilizia pubblica. Anche in relazione ai ricongiun-gimenti familiari la normativa fa riferimento a parametri abitativi incongruenti (numero di vani anziché metratura). I Centri di prima accoglienza sono inadeguati perché immaginati per una tipologia ben specifica di immigrato (maschio, lavoratore, adulto, solo).lavoro: il modello di inserimento lavorativo è ancora prevalentemente “duale”, che distin-gue cioè i posti di lavoro per gli stranieri da quelli per gli italiani. Inoltre gli stranieri so-no adibiti a mansioni ed attività di basso profilo, marginali, spesso ad alto rischio infortu-
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nistico, spesso irregolari; il lavoro femminile è quasi tutto concentrato sulle attività di as-sistenza familiare e servizi domestici, senza che peraltro a questo lavoro venga riconosciu-ta la giusta dignità.C’è poi il problema del riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze (spesso di livello alto e qualificato), che è fortemente correlato alla possibilità di conseguire migliori e più adeguate posizioni lavorative. sanità: in riferimento alle problematiche legate alla salute, per gli immigrati sussiste un ri-schio più elevato di infortuni sul lavoro e un rischio più elevato di contrarre malattie per le condizioni malsane di lavoro e abitative. Manca spesso una conoscenza delle normati-ve sull’assistenza socio-sanitaria e per il timore di essere denunciati se irregolari, non ci si rivolge alle strutture sanitarie pubbliche. Ma anche quando si arriva ai servizi sanitari, ol-tre a rilevare una difficoltà di comunicazione da un punto di vista linguistico ci si scontra con la diversità degli approcci culturali alla malattia e alla cura. È inoltre spesso sottova-lutata e sottostimata la rilevanza dell’insorgenza di problemi psicologici connessi alla mi-grazione, allo sradicamento e alle difficoltà di integrazione, per la lontananza dagli affet-ti, la nostalgia, la perdita di status. scuola: i problemi sono legati principalmente all’inserimento dei bambini che spesso han-no difficoltà con la lingua e sul piano comportamentale. In molte situazioni, emergono inoltre problemi di comunicazione tra la famiglia e la scuola, in parte conseguenza della scarsa conoscenza dell’organizzazione e del sistema scolastico di inserimento.seconde generazioni: in parte connesso al discorso della scuola – fra gli adolescenti è mol-to frequente l’abbandono scolastico – ma anche in senso più generale si rilevano proble-mi di integrazione per le seconde generazioni, che più seriamente soffrono degli atteggia-menti di etichettamento e discriminazione: per questi ragazzi risulta particolarmente diffi-cile conciliare lo stile di vita dei coetanei italiani e le loro origini. Di fatto, è ancora poco diffusa la frequentazione tra ragazzi italiani e stranieri al di fuori dell’ambito scolastico.ambito giudiziario: qui i problemi richiamati riguardano essenzialmente la mancanza di chiarezza sulle modalità di rinnovo o di ottenimento del permesso di soggiorno per le per-sone che vivono un periodo di detenzione.
Il ruolo del mediatore culturale
La mediazione culturale si pone come strumento ponte tra la cultura del paese di prove-nienza e quella del paese che accoglie i migranti. A livello normativo formale manca ancora, in Italia, una definizione univoca della figura del “mediatore culturale”. Tuttavia, al di là delle definizioni formali, si può dire che il mediatore interculturale sia una figura professionale che si pone come facilitatore della comunicazione tra persone immi-grate e diversi attori sociali. In altre parole, il mediatore culturale è un operatore che inter-viene in specifiche situazioni per individuare ed esplicitare i bisogni di persone straniere e per rispondere in modo adeguato alle loro domande, svolgendo attività di tramite con i servizi pubblici di primo contatto, con l’obiettivo di promuovere l’integrazione sociale.È molto importante che il mediatore interculturale, nell’esercizio del proprio ruolo, lasci da parte i propri pregiudizi o le proprie convinzioni, ascoltando autenticamente ed empa-ticamente i problemi, senza schierarsi né per l’una né per l’altra parte, ma garantendo al-le parti la propria imparzialità.Il mediatore deve inoltre garantire riservatezza riguardo ai contenuti dei colloqui, deve es-sere il più possibile aggiornato sulle normative che riguardano la situazione degli utenti e
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degli operatori, deve chiarire i presupposti culturali e gli stereotipi delle due culture mes-se a confronto.Fondamentalmente, oltre all’interpretariato, alla traduzione, all’informazione, alle funzioni di accompagnamento, sostegno e aiuto, un importante compito del mediatore è quello di essere agente e creatore di cultura: le culture infatti non sono immutabili, ma sono proces-si in movimento che attraverso la mediazione si contaminano per creare nuove culture.In Italia la mediazione culturale ha storia breve, in quanto comincia ad affermarsi come strumento utile e necessario a partire dagli anni ’90, con l’incremento dei flussi migrato-ri in ingresso. Da allora è diventata sempre più frequente la richiesta di mediazione cultu-rale in diversi ambiti della società italiana, per poter interpretare ed integrare i codici cul-turali dei nuovi arrivati.Vediamo in breve come si caratterizza l’operato del mediatore nei diversi ambiti di inter-vento:ambito sanitario: in questo ambito la mediazione è particolarmente delicata, in quanto ri-guarda la sfera intima, profonda e soggettiva della persona, legata al rapporto col proprio corpo, alla malattia, alla morte. È quindi importante porre attenzione alle rappresentazio-ni simbolico-culturali, senza però cadere in stereotipi spersonalizzanti. In ambito sanitario normalmente l’intervento può essere richiesto nei reparti ospedalieri per interpretariato e accoglienza di pazienti stranieri, spesso in relazione ad urgenze; oppure presso le struttu-re socio-sanitarie territoriali, con funzione di supporto linguistico agli operatori o per pro-getti di prevenzione ed educazione sanitaria.ambito istituzionale sociale: in questo ambito il mediatore culturale agisce in tutte quelle aree istituzionali e servizi alla persona che forniscono agli immigrati sostegno per il su-peramento del disagio sociale, o che ne controllano, registrano e sanzionano comporta-menti devianti oppure che gli forniscono i requisiti della regolarizzazione: carceri, tribuna-li, questure, servizi per la rieducazione dei minori, servizi comunali per l’assistenza socia-le, cooperative sociali, associazioni di volontariato e prima accoglienza. Purtroppo spes-so questi soggetti limitano l’uso del mediatore culturale alla semplice traduzione ed inter-pretariato, mentre in realtà gli immigrati che arrivano in Italia portano con sé tutta una se-rie di problematiche che dovrebbero essere affrontate in maniera più approfondita anche dal punto di vista culturale. Fanno eccezione a questa tendenza alcune aree come la prostituzione, i centri di riedu-cazione per i minori e in alcuni casi le carceri, dove l’intervento del mediatore risulta es-sere più costruttivo.ambito lavorativo: un altro contesto importante dove la mediazione culturale risulta fon-damentale è quello lavorativo. Presso gli sportelli inerenti questo ambito, gli operatori so-no l’interfaccia tra realtà locale e immigrati e hanno il compito di creare condizioni di ac-cesso facilitate alle informazioni relative al lavoro nelle sue diverse componenti: tutela e diritti, contrattualistica, documentazione, orientamento professionale, formazione, inseri-mento lavorativo. ambito educativo: nel corso degli anni le scuole si sono dotate di strumenti atti al supera-mento della logica di emergenza dell’inserimento di nuovi alunni stranieri, istituendo cor-si di formazione per i dirigenti, per i docenti e gli operatori scolastici. Gli insegnanti e gli educatori sono infatti mediatori in quanto hanno il compito di creare spazi comunicativi aperti alla comprensione e condivisione reciproca e alla formazione collettiva di una di-mensione culturale condivisa. In questo fertile campo l’educazione interculturale non do-vrebbe essere vista come una qualcosa in più aggiunto alla scuola “normale” ma costituire la normalità dell’educazione nelle società multietniche. Quando un bambino viene inserito in una scuola bisogna tenere conto della differenza di genere, della sua cultura di origine
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e delle differenze che questa include rispetto a quella del paese che lo ospita, delle cause che hanno spinto la persona a migrare, dell’esistenza o meno di una famiglia e soprattutto di che tipo di famiglia si tratta, ecc. L’intervento del mediatore culturale soprattutto nella fase di inserimento diventa cruciale in quanto deve aiutare l’alunno a inserirsi nella classe in maniera ottimale, egli non sostituisce la figura dell’insegnante ma agisce come supporto interagendo con essa per costruire percorsi di integrazione dell’intera classe.
Gli approfondimenti tematici
Gli approfondimenti tematici di project work svolti a livello individuale hanno riguardato vari aspetti, anche se si è rilevata una maggiore attenzione verso l’ambito educativo/sco-lastico, visto comunque da diverse angolature. Data la necessaria brevità, ci soffermiamo sugli aspetti più caratterizzanti dei contribu-ti raccolti. Il rapporto scuola, religione, integrazione: si prende spunto dalle polemiche suscitate in relazione all’affissione o meno dei crocefissi nelle scuole per svolgere una serie di rifles-sioni a partire dal fatto che la scuola italiana, in quanto scuola laica ha una responsabilità primaria nella trasmissione di un atteggiamento di apertura, nei confronti di ogni diversità religiosa, fisica, culturale, etnica. Si sottolinea inoltre che l’appartenenza religiosa rappre-senta un elemento di forte coesione in riferimento al riconoscimento identitario di molte comunità immigrate e al tempo stesso, che la potenza dei simboli è tale perché i simboli racchiudono la storia e la memoria, le tradizioni e lo spirito dei popoli. Nei casi come quello relativo alla presenza o meno del crocefisso nelle scuole, la scelta di una soluzione ragionevole non deve trascurare il dato inconfutabile per cui le immagini e i simboli, tuttavia, hanno bisogno e sono oggetto di interpretazione.Al di là della scelta se e cosa esporre in aula, resta la necessità di sviluppare un discorso critico fornendo agli allievi gli strumenti conoscitivi adeguati per disinnescare il messaggio di intolleranza esclusiva che i simboli possono suscitare.Compito del mediatore culturale in questo ambito è quello di prevenire e gestire i conflitti e saper ricavare dalla presenza o dal confronto fra le diverse culture motivi buoni per tut-ti gli allievi per sviluppare una maggiore consapevolezza della propria identità e insieme di interessi e atteggiamenti di apertura verso gli altri.Il gioco e le favole al servizio della mediazione culturale: in questo lavoro si sottolinea l’im-portanza e l’efficacia dell’utilizzo dei giochi e delle fiabe per favorire un apprendimento orientato ad una visione interculturale. L’utilizzo di giochi può essere interdisciplinare e prevedere una progettazione comune tra il mediatore culturale e gli insegnanti. Viene quindi presentato, a titolo esemplificativo un gioco sulle differenze, la cui imposta-zione parte dal presupposto che le differenze non devono essere giudicate, mitizzate o nascoste, ma semplicemente descritte, raccontate e sperimentate: solo così possiamo “co-noscerle” ed attribuire loro una giusta dimensione. L’evidenziare le differenze (tra indivi-dui, tra culture,…) ci obbliga per contrasto a valutare anche le uguaglianze o le similitudi-ni e ci introduce ad una categoria irrinunciabile, che è quella del “punto di osservazione” o prospettiva da cui guardiamo le persone, le situazioni, i valori.La stessa potenza di trasmissione concettuale attribuita al gioco viene qui riconosciuta an-che alla fiaba. La fiaba rappresenta un genere narrativo universale che si ritrova nella tra-dizione orale di ciascun popolo e che si tramanda da una generazione ad un’altra modifi-candosi e adattandosi via via ai cambiamenti di tempo e di spazio. Pur nella estrema va-rietà e ricchezze di linguaggi, situazioni, ambienti, accadimenti che caratterizzano le fiabe di tutti i paesi, l’immaginario collettivo riconduce ogni volta alle scoperte essenziali sul-
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la condizione umana, la vita, la morte, l’amicizia, l’amore, la paura e i desideri. L’imma-ginario ha dunque il potere di congiungere trasversalmente popoli e culture e, nello stes-so tempo, di raccontare delle loro specificità. Scoprire e riscoprire insieme le fiabe di qui e d’altrove diviene allora uno strumento di confronto e di conoscenza fra tradizioni cultu-rali, mondi e popoli differenti.Il sistema scolastico nazionale e mediazione interculturale: in questo contributo si ricono-sce come l’integrazione piena degli immigrati nella società di accoglienza sia un obiettivo fondamentale e, in questo processo, il ruolo della scuola sia primario. Per capire la situa-zione italiana vanno fatte due considerazioni che hanno rilevanza sulle strategie educati-ve da adottare e anche sulla percezione che di questo fenomeno hanno gli insegnanti, le famiglie e l’opinione pubblica in generale.La prima è che la presenza di alunni stranieri è molto disomogenea e differenziata sul ter-ritorio nazionale e la seconda è che il cambiamento da scuola monoculturale a scuola mul-ticulturale è stato rapidissimo. Attualmente l’Italia sta passando da una prima fase, nella quale la scuola si è trovata ad af-frontare il fenomeno come emergenza, ad una fase di valutazione delle esperienze già rea-lizzate e di programmazione degli interventi. Al di là delle buone pratiche e delle singole iniziative di accoglienza e d’integrazione, si riscontra la necessità di un impegno organico e un’azione strutturale capaci di sostenere l’intero sistema formativo nazionale.In questo quadro, da un punto di vista operativo, il ruolo del mediatore linguistico cultu-rale deve essere concentrato sull’area della comunicazione, sugli aspetti socio-culturali e relazionali, con un’azione limitata sul piano della didattica che rimane di pertinenza del-l’insegnante e, eventualmente, dei facilitatori.L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione ed il rafforzamento di comunità etniche chiuse, ed è orientata a favorire il confronto, il dialogo, il reciproco arricchimento entro la convivenza delle differenze.La migrazione marocchina, la seconda generazione e la scuola: nell’analizzare la condi-zione dei ragazzi marocchini immigrati in Italia, si sottolinea anzitutto come il destino dei ragazzi provenienti dalle zone rurali, precocemente avviati al lavoro, sia stato decisamente diverso da quelli provenienti dalle grandi città, generalmente inseriti nelle scuole. Il percorso formativo che questi ragazzi hanno seguito ha permesso loro un aumento del capitale culturale e ha favorito la nascita di una rete di rapporti esterni al gruppo di appar-tenenza, anche se vivono spesso ancora situazioni di marginalità. I ragazzi, crescendo, co-minciano a disegnare per sé un destino diverso, più radicato in Italia, e tendono a sottoli-neare la loro distanza dai genitori esprimendo il disprezzo per il loro mancato inserimen-to nella società italiana e sviluppando spesso un immagine negativa dei compaesani, dal-la quale cercano di staccarsi. Questi ragazzi si trovano alla ricerca di nuove identità metic-ce che da una parte si distaccano dalle origini ma che dall’altra non appartengono piena-mente al contesto socio-culturale in cui sono stati inseriti.A fronte di questo scenario la scuola dovrebbe rappresentare lo snodo cruciale per la cor-retta realizzazione dei processi di integrazione tra passato e presente, e tra esigenze indivi-duali e comunitarie, ma fino ad ora per arrivare a questa integrazione le singole istituzioni hanno adottato modalità diverse che spesso sono dipese dalle risorse del territorio, dalle intese con altre enti o dalla disponibilità o meno di sostegni e dispositivi specifici. Negli ultimi anni è dunque cresciuta la richiesta da parte degli insegnanti di avere un mo-dello di riferimento per definire i modi d’inserimento dei ragazzi nelle classi, per inqua-drare gli aspetti organizzativi, i tempi, i bisogni linguistici, i percorsi didattici da seguire e i criteri di valutazione da adottare in modo univoco.Il mediatore linguistico a scuola: anche in questo contributo viene riconosciuto il ruolo
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cruciale che la scuola ricopre nei processi di integrazione sociale e culturale dei figli degli immigrati, e viene approfondita quella che è la funzione propria del mediatore in questo ambito, nelle sue diverse sfaccettature. Da un lato, si sottolinea come i mediatori lingui-stici debbano fornire un servizio di supporto complementare alle attività di insegnamento, nelle diverse fasi dell’accoglienza, dell’inserimento e del sostegno all’alunno straniero du-rante le lezioni, senza porsi come alfabetizzatori e senza sostituire i docenti; dall’altro lato, si pone in evidenza come il mediatore debba anche occuparsi di mettere in relazione le famiglie degli studenti con i docenti e in generale con l’istituzione scuola, con l’obiettivo di rendere i genitori consapevoli e partecipi del processo educativo dei propri figli. Vengono quindi individuate nello specifico tutte le situazioni che definiscono l’interven-to del mediatore culturale in ambito scolastico e da questo emerge con grande evidenza la necessità di una trasversalità rispetto a tutti i compiti della scuola: affiancamento in au-la, ma anche presenza in fase di programmazione e di valutazione, partecipazione ai mo-menti di riunione collegiale, assistenza nella produzione di materiale, affiancamento nel-la relazione con le famiglie ecc.In base a queste considerazioni sulla crucialità della mediazione linguistica rispetto ai pro-cessi di integrazione e sulla necessaria articolazione su diversi piani dell’intervento a livel-lo scolastico, si sottolinea come sarebbe importante definire un monte ore concordato e inserito nella programmazione ordinaria, ribadendo quanto sia di fatto indispensabile che gli insegnanti e i mediatori lavorino insieme per condividere strategie di intervento e per concordare gli obiettivi individuali sulla base delle osservazioni comuni.Le strategie migratorie al femminile: l’immigrazione femminile in Italia risale indicativa-mente agli anni ’60, e da allora è andata sempre incrementandosi e al tempo stesso diffe-renziandosi in relazione ai paesi di provenienza e alle tipologie di scelta migratoria. Con riferimento a quest’ultimo aspetto si distinguono, nel panorama attuale, alcune tipo-logie: chi è partita da sola, chi per ricongiungimento familiare, chi subito dopo il matri-monio, chi è arrivata con la famiglia, chi per il matrimonio con un italiano, chi attraverso il racket della prostituzione.Da questo punto di vista l’Italia si presenta in modo anomalo rispetto ad altri paesi per la scarsa rilevanza degli arrivi per ricongiungimento familiare, che solitamente sono preva-lenti.Le modalità di arrivo influenzano molto le successive condizioni di vita e la qualità del-l’inserimento: la situazione delle donne arrivate in Italia qualche anno dopo il marito sembra essere ap-parentemente più vantaggiosa, ma presenta anche elementi di vulnerabilità legati ai rischi di isolamento e totale dipendenza. D’altro canto, le donne che arrivano da sole possono spesso contare su una rete sociale di sostegno e di aiuto costituta da altre connazionali, che contribuisce ad attutire l’impatto con la nuova realtà e facilita l’inserimento soprattut-to a livello lavorativo.Per quanto riguarda i motivi che spingono le donne ad emigrare, oltre a quelli comuni an-che agli uomini (di tipo economico, culturale, politico,...) se ne aggiungono altri tipica-mente femminili che comprendono un desiderio di emancipazione e talvolta di fuga da una condizione subalterna legata alla cultura e alle tradizioni del paese di origine.Viene inoltre evidenziato come durante la migrazione avvenga una modificazione e una ridefinizione, a volte dolorosa, dei ruoli familiari, e come, in queste situazioni, la donna più dell’uomo sia chiamata a gestire i conflitti all’interno della coppia e della famiglia, per farsi portavoce ora della continuità ora del cambiamento.Proprio per il suo coinvolgimento in fatti ed eventi che la espongono al cambiamento, la donna ha un ruolo decisivo e fondamentale di mediazione tra i due riferimenti culturali,
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fra i due mondi. Soprattutto nel caso in cui siano presenti figli, sarà la madre a dover tes-sere e ristabilire i legami tra il mondo del padre, che spesso è quello del passato e della tradizione, ed il mondo del futuro, della contaminazione e della metamorfosi culturale. La figura della colf/badante: lo scenario demografico italiano, che ha visto negli anni re-centi una crescita costante della componente anziana della popolazione, i mutamenti dei modelli familiari e l’incremento quantitativo delle donne inserite nel mondo del lavoro, hanno determinato una lievitazione nella domanda di personale femminile straniero in grado di occuparsi di servizi domestici e di cura.Nonostante il bagaglio lavorativo e culturale di partenza, l’esperienza migratoria causa per le donne un declassamento del loro capitale umano che le rende adatte a svolgere solo determinate mansioni. È un dato di fatto che le lavoratrici straniere trovano quasi esclusi-vamente lavoro nel settore domestico e di cura.Tuttavia, se entrare nel mercato della cura familiare è relativamente facile, molto più diffi-cile è uscirne: per chi ha progetti a lungo termine, si può tutt’al più contare sulla possibi-lità di promozione orizzontale, passando dalla badante “fissa” alla colf a ore, potendo co-sì riconquistare qualche spazio di vita privata.In questo ambito si rileva la grande importanza delle reti sociali (amicali e/o parentali) che influenzano il processo migratorio dalla partenza dal proprio paese all’arrivo e alla succes-siva permanenza in Italia, definendo le strategie di inserimento e di mutuo aiuto.Accanto a queste si registrano anche reti di istituzioni “facilitatrici” costituite da organiz-zazioni volontarie religiose o laiche che fanno da mediatori tra gli immigrati e la popola-zione locale, oppure ancora, soprattutto per l’inserimento lavorativo, strutture pubbliche o del privato sociale che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.Per quanto riguarda il contenuto del lavoro, si sottolinea come il compito della badante sia molto delicato e articolato, e vada oltre la semplice collaborazione domestica, doven-do prioritariamente garantire il benessere della persona assistita. La badante sostituisce i familiari all’interno della casa, gestendo anche le situazioni emotive e di solitudine della persona assistita. Spesso si dice che la badante viene considerata “come una di famiglia”, ma questo non si traduce necessariamente in termini positivi, in quanto sovente significa dover rispondere a richieste maggiori, al di fuori dei termini contrattuali, che possono de-terminare delle costrizioni e delle tensioni a livello personale.Un altro problema riguarda la difficoltà di comunicazione non solo verbale (lingua stra-niera da un lato ed espressioni dialettali dall’altro), ma anche di tipo culturale: assumendo una badante straniera si pensa che le competenze richieste siano riconducibili a mansioni “universalmente” femminili, ma spesso invece l’adeguamento non è così immediato.Le problematiche di inserimento nel mercato del lavoro di immigrati con titolo di studio su-periore o laurea: diffusi stereotipi culturali portano a pensare alle persone immigrate co-me ad una massa di disperati, poveri, alla ricerca della sopravvivenza, e a rinforzo, si ag-giunge lo stereotipo dell’immigrato delinquente e ignorante.Nella realtà spesso l’immigrato ha un titolo di studio superiore o una laurea, e in molti ca-si, di fatto, ad emigrare non sono tanto i più disperati quanto le élites. Per quanto il dato della scolarizzazione elevata degli immigrati sia confermato da diversi studi, in Italia essi continuano ad essere sottoutilizzati ed impiegati in mansioni che non ri-chiedono specializzazione. Una delle ragioni principali di ciò risiede nel fatto che ad oggi sono ancora troppi gli ostacoli per far valere il proprio titolo di studio. Questo perchè:- Mancano accordi bilaterali con molti paesi- Il titolo straniero non è riconosciuto per l’esercizio di molte professioni, per cui per ac-cedervi, le persone devono sostenere esami integrativi all’Università
- Ottenere i documenti relativi al titolo di studi originale è complesso: l’equivalenza dev’es-
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sere certificata dall’ambasciata italiana nel paese di origine e chi non l’ha fatto prima di partire deve spendere molto in termini di tempo e di denaro per ottenerla, senza avere comunque la certezza di poter ottenere un lavoro di livello adeguato.
L’attuale proposta di legge Amato-Ferrero vorrebbe introdurre una corsia privilegiata per l’immigrazione qualificata, ma finora l’orizzonte della piena valorizzazione dei talenti stra-nieri sembra lontano.Ad oggi, la strada più breve di promozione nell’ambito del lavoro rimane, per gli stranieri, l’imprenditoria e l’autopromozione, raggiungendo spesso, dopo un primo periodo di sta-bilizzazione, buoni risultati. La mediazione culturale negli enti pubblici: l’aumento della componente straniera nella nostra società comporta delle necessità di adeguamento e di agevolazione di accesso ai servizi pubblici, che dovrebbe tradursi da un lato, in una semplificazione amministrativa ed una eliminazione dei doppioni procedurali e documentali, e dall’altro, nella messa a disposizione di una figura facilitatrice, che sostenga le persone nelle diverse pratiche da espletare, evitando malintesi, ritardi, conflitti e conseguente rischio di rinuncia, di perdita dei propri diritti e, in certi casi, di ritorno all’illegalità.Secondo un recente studio, rispetto all’impatto con i servizi pubblici i problemi segnalati dagli immigrati coincidono con le esigenze dei dipendenti della pubblica amministrazione e riguardano, in ordine di priorità: la diversità della lingua, la complessità delle procedure amministrative, la diversità culturale e la poca conoscenza delle normative. A fronte di queste difficoltà il mediatore interculturale dovrebbe:- lavorare insieme ai funzionari della pubblica amministrazione per migliorare le infor-
mazioni disponibili agli stranieri e per semplificare le procedure amministrative - mediare sulla capacità dei funzionari nel gestire i rapporti con persone di culture diffe-
renti grazie alla conoscenza di entrambi delle norme e l’intermediazione linguistica tra l’utente e il funzionario.
A questo livello è importante che la mediazione interculturale, a differenza dell’interpre-tariato che facilita semplicemente l’accesso ai servizi dell’immigrato, operi per favorire una transizione culturale che impegni italiani e immigrati, favorendo percorsi di recipro-co scambio e adattamento.
L’esperienza degli stage
Come detto in apertura, le 250 ore di stage previste dal progetto si sono svolte in diver-si contesti territoriali e lavorativi, e ciascun corsista ha potuto effettuare anche più di una esperienza, presso strutture o enti diversi.Nella tabella che segue sono riportati schematicamente gli ambiti e le realtà lavorative toc-cate:
ambito sanitario
Ospedale Galliera (Coop. Saba) – Genova Ospedale San Paolo – SavonaCairosalute srl – Sportello socio-sanitario – Cairo Montenotte (SV)U.O. Igiene e sanità pubblica – ASL 2 Savonese – Savona
ambito dei servizi pubblici
Comune di Albisola Superiore – Ambito Territoriale SocialeInformagiovani (Cooperarci) – SavonaMondo Paese/Informagiovani – Cairo Montenotte (SV)Ufficio Stranieri Comune di Genova(Coop. Saba) – Genova
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ambito socio-lavorativo
ANOLF – Cisl – SavonaCampo Scuola Cisl/ANOLF 2007 – Cinisi (PA)Centro per l’Impiego (Cooperarci) – SavonaCentro per l’Impiego (Cooperarci) – AlbengaCGIL Imperia/Sanremo/VentimigliaCGIL GenovaCentro per l’Impiego Centro Levante (Coop. Saba) – GenovaCentro per l’Impiego Medio Ponente (Coop. Saba) – GenovaCentro per l’Impiego Val Bisagno (Coop. Saba) – GenovaPatronato ACLI – Savona
ambito educativo
Scuola secondaria di I° grado “Sandro Pertini” – SavonaCircolo Didattico Villapiana – SavonaDirezione didattica Secondo Circolo – ImperiaComunità “Le Terre” (Coop. Progetto Città) – SavonaCampo Solare XXV Aprile (Coop. Progetto Città) – SavonaC.P.F.P. “F. Varaldo” – Corso Triennale (Aesseffe) – SavonaComunità “L’Ancora” – Varazze (SV)Scuola secondaria di I° grado “N. Barabino” – GenovaDirezione Didattica Voltri – Genova Scuola secondaria di I° grado “Ugo Foscolo” – Genova Scuola secondaria di I° grado “Bertani-Ruffini” – Genova
In riferimento agli stage è stato chiesto ai corsisti di elaborare una relazione di sintesi sul-l’attività svolta. Senza soffermarci sul dettaglio di ogni singola esperienza, riprendiamo dal-la documentazione prodotta alcune considerazioni di ordine generale.Una prima considerazione riguarda il fatto che nelle esperienze svolte si è avvertita una differenza tra quei servizi che hanno già introdotto la figura del mediatore culturale – per cui è stato possibile un vero e proprio affiancamento nel lavoro ordinario – e quelle real-tà dove questa figura non è ancora prevista a livello strutturale ma è tutt’al più presente in modo saltuario. Questa differenza è stata rilevata su due diversi piani, tra loro connessi: il piano dell’accoglienza degli stagisti, laddove si è riscontrata talvolta una sorta di diffiden-za e una minore disponibilità all’interazione, e il piano organizzativo/operativo, laddove, in molti casi, non sono stati definiti compiti precisi e si è lasciato piuttosto spazio all’ini-ziativa del singolo sulle attività da svolgere o si è ridotto l’intervento alla mera traduzione di testi di carattere informativo.Questa diversità di approccio fa capire quanto questa professione sia ancora “giovane” e come la limitata conoscenza delle competenze ad essa riconducibili, porti ad atteggia-menti “protettivi” rispetto ai propri contesti lavorativi e “riduttivi” rispetto alla potenziali-tà del lavoro integrato.Un’ulteriore considerazione concerne l’importanza degli aspetti economici rispetto alle possibilità di ampliamento e di sviluppo dei servizi di mediazione culturale: in diverse si-tuazioni i corsisti hanno potuto rilevare come a fronte di un bisogno effettivo, gli interventi dovessero essere limitati per la necessità di ottimizzare le risorse economiche disponibili.Attraverso l’esperienza diretta, i corsisti hanno potuto anche rilevare alcune difficoltà di carattere organizzativo che caratterizzano questa professione: non sempre la pianificazio-ne è possibile, soprattutto in quegli ambiti dove si lavora sull’emergenza o in realtà di pic-cole dimensioni.Le esperienze effettuate sono comunque state valutate in modo ampiamente positivo, co-me un’occasione importante di arricchimento personale e di sperimentazione delle com-
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petenze acquisite. Da più parti si è evidenziata l’importanza della capacità di comunicare in modo empatico con le persone, pur mantenendo una giusta equidistanza tra le parti e rispetto alle proble-matiche: si è sottolineato come, in questa professione, sia fondamentale conquistare la fi-ducia dei propri interlocutori, presupposto necessario per qualsiasi possibilità di successi-vo intervento, a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito.Quando questo meccanismo scatta, si è compensati dalla grande soddisfazione di “aver fatto qualcosa”, di essere stati in qualche modo utili, di aver facilitato un passaggio, di aver contribuito a risolvere un problema.
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Documento finale gruppo di lavoro del CNEL
CNELORGANISMO NAZIONALE DI COORDINAMENTO PER LE POLITICHE
DI INTEGRAZIONE SOCIALE DEGLI STRANIERIGruppo di lavoro
“POLITICHE PER LA MEDIAZIONE CULTURALE. FORMAZIONE ED IMPIEGO DEI MEDIATORI CULTURALI”
Premessa
Il T.U. introduce e riconosce, per la prima volta, la figura del “mediatore culturale”, “al fi-ne di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai di-versi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi” (art. 42, c. 1, lett. d). L’ausilio di media-tori culturali qualificati è poi evocato, specificatamente, rispetto alla comunicazione della scuola con le famiglie degli alunni stranieri (art. 38, c. 7, lett. b).È un riconoscimento che avviene dopo lo sviluppo di una ricca ed articolata esperienza, negli anni ’90, di formazione e di impiego di questi nuovi operatori culturali soprattutto nelle regioni del centro nord, promossa da Regioni, Province, e Comuni, e dall’associa-zionismo del volontariato con diverse specializzazioni, protagonisti in molti casi gli stes-si cittadini stranieri. I settori di impiego sono quelli della sanità, della scuola, dei servizi sociali, in particolare per le donne e i minori, delle iniziative culturali, dei centri di accoglienza, delle questu-re, degli uffici per gli stranieri e di anagrafe degli EE.LL., degli Uffici del lavoro, dei servi-zi giudiziari, dell’organizzazione aziendale.I rapporti di impiego sono quelli della cooperazione, della prestazione professionale, del lavoro coordinato e continuativo, del lavoro dipendente privato, dei lavori socialmente utili. Si stanno concludendo anche 17 progetti occupazionali per immigrati (due solo al sud, Sicilia e Abruzzo), con il partenariato finanziario europeo, che prevedono la figura del mediatore culturale. La diffusione delle esperienze, le ricerche, il dibattito degli ultimi anni – da ultimo in gennaio nel convegno nazionale di Modena molto partecipato, orga-nizzato dalla Provincia e dal Cnel, e in quello del Comune di Roma a carattere locale – il confronto con le iniziative di altri paesi europei, hanno in gran parte diradato la proble-maticità della figura del mediatore culturale con riferimento ad una più precisa definizio-ne del ruolo, senza la quale è difficile il rapporto con gli altri operatori, alla individuazio-ne del profilo delle competenze professionali necessarie, al carattere non emergenziale e temporaneo, come è dimostrato nei paesi di più antica immigrazione. Il riconoscimento del T. U. non comporta ancora una definizione univoca di questa nuova figura professionale : il ruolo, le funzioni, le competenze professionali, i requisiti, i percor-si formativi, il riconoscimento legale, gli ambiti di impiego e i tipi di rapporto di lavoro.A questo fine uno specifico gruppo di lavoro dell’O. N. C. nello scorso anno si è impe-gnato nell’elaborazione di questo documento con il contributo diretto di gran parte delle associazioni ed istituzioni che in questi anni hanno compiuto le esperienze più significa-tive di formazione e di impiego dei mediatori culturali. (cfr. CNEL-ONC, Sintesi dei grup-pi di lavoro, Roma luglio 1999).Il documento vuole essere la base di un confronto:con le Regioni, per un comune indirizzo rispetto alla qualifica professionale da compren-
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dere nella programmazione della F. P., per la valorizzazione dei mediatori culturali nei progetti finanziati anche con la quota del Fondo nazionale, per il riconoscimento della fi-gura professionale e la promozione del suo impiego nelle leggi regionali di adeguamento al T. U.; con il Governo, ad iniziare dalla sede della Consulta per l’immigrazione, per l’as-sunzione di un indirizzo di promozione dell’impiego dei mediatori culturali nelle ammini-strazioni statali (scuola, servizi giudiziari, questure, uffici del lavoro ecc.).
Modello di integrazione
L’integrazione, così come definita nel Documento Programmatico del Governo, è una pro-gressiva acquisizione di cittadinanza attraverso un “processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, quindi di contaminazione e di sperimentazione di nuove for-me di rapporti e comportamenti, nel costante tentativo di tenere insieme principi univer-sali e particolarismi”.Il modello di integrazione recepito dalla Legge 40/98 afferma l’universalismo dei dirit-ti, ma riconosce e ritiene un valore per tutti le diversità, che non contrastino con i valo-ri fondamentali.In altri termini, l’integrazione si pone come risultato della coesistenza di due condizioni opposte: la differenziazione, come aspetto delle differenze individuali, e l’assimilazione, come opportunità di assorbire caratteristiche altrui; l’integrazione come l’equilibrio fra l’es-sere tutti uguali e l’essere tutti diversi.Il modello di integrazione verso il quale si orienta la nostra società, riconosce al suo inter-no l’esistenza di una pluralità culturale, lasciando però alla sfera privata l’espressione e la perpetuazione delle identità culturali.Un modello d’integrazione non deve tendere ad annullare le varie culture nel modello so-ciale del paese ospitante, ma deve promuovere un progetto dialettico fra sistemi valoria-li diversi.Un approccio interculturale è basato sulla conoscenza reciproca e la disponibilità all’in-contro e allo scambio, al cambiamento degli uni e degli altri, di chi “ospita” e di chi è “ospitato”.Un quadro di riferimento di valori fondamentali nel quale ogni cittadino possa riconoscer-si, in cui i valori e le culture originarie di ognuno devono essere salvaguardate, nel costan-te e continuo tentativo di tenere insieme principi universali e particolarismi, previene si-tuazioni di marginalità, di emarginazione e di ghettizzazione che minacciano l’equilibrio e la coesione sociale e afferma principi universali sui quali non sono possibili deroghe nem-meno in nome del valore della diversità: questo è il modello relazionale.Un modello sociale flessibile aperto alle trasformazioni nel tempo fa scaturire un approc-cio favorevole allo scambio e alla reciprocità nella dinamica fra culture diverse. Le diverse identità non vengono minacciate nè rifiutate, ma anzi, confluiscono in un terreno di valo-rizzazione reciproca in cui possono scaturire anche opzioni di appartenenza multiple.L’affermazione di un tale modello di integrazione richiede un impegno concreto per fa-vorire e promuovere l’educazione interculturale intesa quale processo di riconoscimen-to delle diversità e di rimozione dei pregiudizi, degli stereotipi e della discriminazione fra le persone.In positivo educare all’interculturalità significa aprirsi al confronto e al dialogo con l’altro, nella prospettiva di una trasformazione e di un arricchimento della propria cultura come risultato della “contaminazione” con culture diverse.
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Mediazione culturale
La mediazione culturale rappresenta una funzione utile e necessaria per agevolare il pro-cesso di integrazione degli immigrati e di mutamento interculturale della società di acco-glienza.La mediazione culturale va considerata come “ponte” fra due parti, favorendo così la co-noscenza reciproca di culture, di valori, di tradizioni, del diritto, di sistemi sociali, in una prospettiva di interscambio e di arricchimento reciproco.La mediazione culturale contribuisce a determinare le condizioni per il raggiungimento dell’integrazione sociale attraverso un processo “ di non discriminazione e di inclusione delle differenze” e la collaborazione su obiettivi comuni di sviluppo.La mediazione culturale va considerata come dimensione costante delle politiche di inte-grazione sociale indicate dal Testo Unico e dai provvedimenti programmatici del Gover-no, sia per l’accesso degli stranieri all’esercizio dei diritti fondamentali sia per la trasfor-mazione della nostra società, con l’incontro di culture diverse che si mescolano e si mo-dificano reciprocamente.Accanto alla dimensione personale della mediazione culturale c’è quella collettiva: ossia quella dei gruppi di e delle associazioni, in cui gli immigrati sono in grado di esprimere capacità di confronto con gli altri gruppi, per lo sviluppo di progettualità.
Le finalità dei processi di mediazione culturale:♦ rimuovere gli ostacoli culturali, che impediscono e intralciano la comunicazione tra i
servizi/istituzioni italiani e utenza straniera;♦ promuovere un più esteso e razionale utilizzo dei servizi e delle istituzioni italiane da
parte dell’utenza straniera;♦ migliorare la qualità e l’adeguamento delle prestazioni offerte dai servizi italiani all’uten-
za straniera;♦ favorire l’integrazione sociale della popolazione immigrata nella comunità locale , a li-
vello regionale e nazionale, nei servizi sociali, nelle istituzioni scolastiche e culturali, nel settore della sanità e del mondo del lavoro;
♦ promuovere azione di sostegno culturale alla mediazione sociale nelle situazioni di con-flitto tra le comunità immigrate e le istituzioni italiane;
♦ individuare opportunità e percorsi positivi di prevenzione e superamento dei conflitti.
Mediatore culturale
Il mediatore culturale è un agente attivo nel processo di integrazione e si pone come fi-gura “ponte” fra gli stranieri e le istituzioni, i servizi pubblici e le strutture private, senza sostituirsi nè agli uni né alle altre, per favorire invece il raccordo fra soggetti di culture di-verse. Il mediatore si propone inoltre come punto di riferimento e risorsa per promuovere specifiche iniziative e progetti nel campo dell’immigrazione, a livello locale.Il mediatore culturale si pone quindi come un nuovo operatore sociale con specifiche competenze ed attitudini in grado di interagire con le istituzioni pubbliche e private, non-ché come interprete delle esigenze e delle necessità degli stranieri.Il mediatore culturale contribuisce a :♦ prevenire potenziali occasioni di conflitto favorendo le condizioni per l’integrazione
sociale e facilitando le pari opportunità nel godimento dei diritti, nonché valorizzando le risorse di culture e valori diversi propri dei cittadini immigrati;
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♦ aiutare il cittadino straniero ad inserirsi nella società italiana, favorendo la conoscen-za dei diritti e dei doveri, l’uso dei servizi sociali, sanitari, educatori, culturali ecc., sia pubblici che privati, dislocati sul territorio, nell’intento di consentire un accesso e una fruibilità dei servizi a pari condizioni;
♦ facilitare l’incontro tra persone diverse attraverso la funzione di mediazione linguisti-co-culturale che si esprime nella capacità di decodificare i codici dei due attori della relazione (migrante ed operatore), codici che sottostanno il linguaggio ovvero l’intero mondo di sensazioni, esperienze e valori;
♦ aiutare il cittadino straniero a leggere e comprendere la cultura italiana anche alla luce delle culture di appartenenza e delle reciproche aree di pregiudizio;
♦ promuovere e valorizzare il ruolo degli stranieri come risorsa ed opportunità nel tessu-to socio-economico.
Tutto ciò nel rispetto di un codice deontologico nell’esercizio della sua azione di media-zione.
I requisiti per svolgere la funzione di mediatore culturale :♦ origine preferibilmente straniera con esperienza personale di immigrazione;♦ buona conoscenza della cultura e della lingua parlata e scritta italiana;♦ buona conoscenza della cultura e della realtà socioeconomica del paese di origine;♦ sufficiente conoscenza della realtà italiana e del territorio in cui opera;♦ possesso di un titolo di studio medio-alto;♦ congrua permanenza in Italia;♦ motivazione e disposizione al lavoro relazionale e sociale, capacità personali di empa-
tia e riservatezza.
Vanno valorizzate in termini di “crediti”, eventuali esperienze formative specifiche.
Formazione. Percorsi disciplinari e tirocini
Il percorso formativo deve coinvolgere il corsista nella sua dimensione “persona” e valo-rizzare il gruppo come “laboratorio relazionale di esperienze, conoscenze, competenze”.Il percorso formativo dovrebbe avere una struttura modulare di base nelle seguenti aree:Area della comunicazione e della relazione interculturali:- psicologia del sé e psicologia relazionale;- antropologia culturale e sociale;- teorie e tecniche della comunicazione sia per ciò che concerne il canale verbale che quello analogico (non verbale);
- tecniche di interpretariato;Area normativa:- la Costituzione italiana la Comunità Europea ed il sistema dei diritti umani;- organizzazione sociale e assetti istituzionali;- legislazione sull’immigrazione con elementi di diritto del lavoro e di legislazione socia-le;
Area dell’organizzazione e dei servizi:- tecniche dei modelli di progettazione dell’intervento;- conoscenze informatiche di base.Il percorso formativo di secondo livello deve prevedere una ulteriore articolazione di mo-duli disciplinari per settori, secondo gli ambiti di impiego del mediatore culturale, tra cui
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possono essere individuati:- area socio-sanitaria;- area educativo-scolastica;- area della sicurezza e della giustizia ;- area dell’emergenza e della prima accoglienza;- area del lavoro.È indispensabile che siano previste esperienze alternate di tirocinio in enti ed istituzioni pubbliche e private, nonché nelle associazioni del terzo settore. Si deve inoltre prevede-re sia nella formazione che negli stage un lavoro comune tra operatori di servizi pubbli-ci e corsisti nella mediazione culturale al fine di favorire non solo la conoscenza recipro-ca degli aspetti organizzativi e legislativi ma anche per valorizzare modelli culturali e or-ganizzativi diversi.Si deve altresì prevedere un aggiornamento “in itinere” dei mediatori culturali per render-li capaci di rispondere alle sfide di una società multiculturale, sempre in continua evolu-zione e cambiamento.
Monte oreIl percorso formativo di base prevede un monte ore complessivo di almeno 500 ore, di cui 100 ore di indirizzo settoriale e almeno un terzo del monte ore dovrebbe essere impiega-to in esperienze di tirocinio.Il percorso formativo di secondo livello di specializzazione prevede almeno 300 ore di cui metà di tirocinio svolto, in una o più aree sopra menzionate.Esso prevede inoltre la individuazione di tempo e risorse per l’aggiornamento e la for-mazione permanente. L’articolazione dei percorsi formativi potrà essere adattato in modo flessibile a secondo dei bisogni e delle esigenze espresse dal territorio, dove i mediatori culturali saranno impiegati, salvo il rispetto per il monte ore minimo.
AccreditamentiLe agenzie di formazione dei mediatori culturali per svolgere tale attività dovranno essere accreditate dalle Regioni, d’intesa con gli enti titolari dei progetti di integrazione degli im-migrati nel territorio. Per acquisire l’attestato di accreditamento le Agenzie formative do-vranno possedere i requisiti previsti dagli standard regionali, relativi a titoli di studio, ed esperienze professionali nelle varie aree del percorso formativo. Le stesse Agenzie, inol-tre, avranno titolo di preferenza a svolgere l’attività formativa, se potranno produrre ido-nea documentazione atta a dimostrare corsi già realizzati, che comunque hanno consenti-to l’inserimento lavorativo, con risultati positivi formalmente riconosciuti dagli enti e dagli organismi locali titolari dei progetti per l’integrazione degli stranieri.
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2007presso Coop Tipograf, Savona
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