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Medicina di genere e patologia cardiovascolare: rischio trombotico Rosanna Abbate Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica, Università di Firenze – Centro per le Malattie Aterotrombotiche, AOU Careggi, Firenze Lo studio dell'aterotrombosi è un campo in rapida evoluzione, e significativi progressi sono stati raggiunti nella comprensione dei vari aspetti della patologia proprio negli ultimi anni. Sono state ben dimostrate le differenze tra i due sessi sia nella presentazione dei sintomi, sia nella risposta al farmaco, che nella manifestazione delle complicazioni cliniche [1‐10]. La gestione della patologia aterotrombotica, comunque, è generalmente dettata dall'evidenza di dati derivati da “trial” condotti soprattutto su uomini, mentre pochi sono gli studi che hanno focalizzato la loro attenzione esclusivamente sulle donne. Studi epidemiologici hanno dimostrato un'aumentata incidenza di eventi cardiovascolari nelle donne [1‐10]. Tutti questi studi hanno evidenziato l'urgenza di identificare ed applicare strategie preventive per il controllo e la riduzione dei fattori di rischio aterotrombotici attraverso la formulazione di carte del rischio in donne asintomatiche, e strategie terapeutiche per la correzione dell'esposizione ai fattori di rischio in donne sintomatiche e asintomatiche. La differente "penetranza" dei fattori di rischio cardiovascolari nelle donne, unita all'interazione con le terapie ormonali gioca un ruolo importante nello sviluppo dei processi aterosclerotici alla base delle patologie cardiovascolari stesse. Nonostante molte strategie di prevenzione primaria e secondaria, le patologie correlate con il processo aterosclerotico rimangono le principali cause di mortalità e morbidità [1‐10]. L'infiammazione e la disfunzione endoteliale hanno un ruolo chiave nella patogenesi dell'aterotrombosi e nei conseguenti eventi cardiovascolari. Il tabagismo, le errate abitudini alimentari, la tendenza alla sedentarietà, ed, in generale, un errato stile di vita associato a ipertensione e dislipidemia condizionano la soglia del rischio. Tuttavia, la correzione dello stile di vita associato a specifiche strategie terapeutiche volte alla riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare, potrebbe contrastare l'ambiente pro‐aterogeno correggendo il processo infiammatorio e la disfunzione endoteliale. La presenza di condizioni geneticamente determinate correlate ad alterazioni del profilo coagulativo e della funzione endoteliale potrebbe interagire con componenti ambientali nel determinare un fenotipo critico ad alto rischio trombotico nelle donne. Evidenze cliniche sottolineano le differenze tra i sessi in relazione al peso dei singoli fattori di rischio tradizionali e quelli correlati con l'infiammazione (e.g. esercizio fisico, status metabolico, livelli di proteina C reattiva, citochine e chemochine infiammatorie). E' stato ipotizzato che queste differenze possono essere la diretta conseguenza di differenze cromosomiche. Il cromosoma Y contiene il gene SRY che è implicato nello sviluppo dell'ipertensione, modulando la sintesi di norepinefrina [11], mentre il cromosoma X contiene il gene che codifica per il recettore degli androgeni. Inoltre, altri geni presenti sul cromosoma X codificano per enzimi implicati nello stress ossidativo, nella sopravvivenza cellulare, nell'apoptosi e nella distribuzione del grasso corporeo. [12‐14]. Questi dati indicano che i cromosomi sessuali regolano una vasta gamma di risposte che influenzano lo sviluppo, la progressione e le complicanze cliniche della patologia aterotrombotica. Inoltre, le differenze di sesso nell'esposizione alle patologie aterotrombotiche e nella risposta alle strategie terapeutiche possono essere correlate alla completa espressione dei polimorfismi dei
geni del cromosoma X nei maschi, avendo una sola copia del cromosoma X, mentre, attraverso l'inattivazione casuale di uno dei due cromosomi X nelle donne, i polimorfismi possono essere presenti con un fenotipo a mosaico nelle donne [15,16]. Studiando i profili di espressione genica del sangue venoso periferico, così come i polimorfismi dei geni implicati nella risposta alle terapie antipiastriniche, e la funzione piastrinica nei pazienti con sindrome coronarica acuta sottoposti ad intervento coronarico percutaneo, il nostro gruppo ha identificato nuovi meccanismi che caratterizzano le patologie aterotrombotiche nelle donne. Per esempio, oltre ad alcuni geni sul cromosoma X e Y, come il gene XIST che regola l'inattivazione del cromosoma X, abbiamo trovato differenti geni su cromosomi autosomici che erano espressi in maniera significativamente differente tra uomini e donne. Tra questi geni abbiamo trovato il gene ABHD2 (contenente il dominio abhydrolasico 2). Nel 2007, Miyata e coll. hanno dimostrato che questo gene era espresso nelle lesioni aterosclerotiche ed era associato alla stabilità della placca. Bibliografia 1. Arain FA, Kuniyoshi FH, Abdalrhim AD, Miller VM. Circ J 2009;73:1774‐82. 2. Blum A, Blum N. Gend Med 2009;6:410‐8. 3. Evangelista O, McLaughlin MA. Gend Med 2009;6 Suppl 1:17‐36. 4. Ostadal B. Pharmacol Rep 2009;61:3‐12. 5. Sytkowski PA, D’Agostino RB, Belanger A, Kannel WB. Am J Epidemiol 1996;143:338–50. 6. Shaw LJ, Bairey Merz CN, Pepine CJ, et al. J Am Coll Cardiol 2006;47(Suppl):S4–S20. 7. Yusuf S, Hawken S, Ounpuu S, et al. Lancet 2004;364:937–52. 8. Kannel WB, Hjortland MC, McNamara PM, Gordon T. Ann Intern Med 1976;85:447–52. 9. Anand SA, Islam S, Rosengren A, et al. Eur Heart J 2008;29:932–40. 10. Kardys I, Vliegenthart R, Oudkerk M, et al. Am J Epidemiol 2007;166:403–12. 11. Turner ME, Farkas J, Dunmire J, et al. Hypertension 2009;53:430–5. 12. Resch U, Schichl YM, Sattler S, de Martin R. Biochem Biophys Research Commun 2008;375:156–61. 13. Bhuiyan MS, Fukunaga K. Cardiovasc Ther 2008;26:224–232. 14. Price RA, Li WD, Kilker R. Diabetes 2002;51:1989–91. 15. Avner P, Heard E. Nat Rev Genet 2001;2:59–67. 16. Singh ND, Petrov DA. Genome Dyn 2007;3:101–118.
Dolore non oncologico nel paziente anziano: peculiarità di valutazione e trattamento Massimo Alessandri U.O. Medicina Interna, Ospedale della Misericordia, AUSL 9, Grosseto Nella gestione del paziente anziano affetto da patologia cronica dolorosa il rischio di gran lunga maggiore
non è quello di determinare la comparsa di effetti collaterali con la terapia, bensì quello
dell’undertreatment. Un insufficiente controllo della sintomatologia dolorosa conduce, infatti, con il
passare del tempo, alla comparsa di gravi menomazioni funzionali ed organiche, ad uno stato di
prostrazione psicologica e ad un inevitabile isolamento sociale. Sebbene ancora molto resti da sapere, al
giorno d'oggi i clinici sono in possesso di sufficienti conoscenze per garantire un corretto approccio, sia
diagnostico che terapeutico, al dolore cronico. Per quanto concerne le metodologie di valutazione del
dolore è importante applicare quelle che hanno ottenuto una validazione sull'anziano ed è altrettanto
importante il coinvolgimento del paziente, che deve essere edotto sul significato dello strumento
diagnostico somministrato e sulla sua procedura, affinchè sia in grado di offrire una piena e consapevole
collaborazione. Quando si decide di pianificare un trattamento, questo deve essere condiviso con il
paziente e con i suoi cari, informando questi sui rischi ed i benefici della cura che si va ad intraprendere. La
scelta del farmaco deve essere accurata ed altrettanta attenzione deve essere posta nella scelta del
dosaggio e della modalità di titolazione. L'adagio "start slow, go slow" si attaglia perfettamente alle
esigenze dell'anziano che se da un lato presenta una ridotta capacità di clearance, dall’altro può mostrare
una iperresponsività all’azione farmacodinamica di molecole tipo gli oppiacei. Un monitoraggio, inoltre, sia
degli effetti benefici che di quelli collaterali deve essere messo in campo fin da subito, in modo da
intervenire prontamente per rimodulare il dosaggio o cambiare la molecola utilizzata; la rotazione degli
oppiacei è un chiaro esempio di questo virtuoso atteggiamento. Le modalità con cui si approccia il
trattamento del dolore non oncologico nell'anziano si rifanno alla scala a gradini dell'OMS. Nel dolore
lieve/moderato il farmaco di prima scelta resta il paracetamolo. Una sua mancata efficacia può rendere
necessario il ricorso ai FANS, indicati soprattutto se il dolore è di natura infiammatoria. Questi ultimi
presentano però un’alta frequenza di effetti collaterali gravi, prime fra tutti le emorragie digestive. Sotto
questo profilo un buon rapporto costo beneficio sembrano avere il naprossene e l’ibuprofene. Benché tutta
una vecchia anedottica abbia cercato di relegare gli oppiacei al ruolo di farmaci ad alto rischio nell’anziano,
soprattutto perché capaci di indurre depressione respiratoria, oggi è a tutti noto che queste molecole, se
usate correttamente (bassi dosaggi, lenta titolazione), sono più tollerate dei FANS e sono comunque di
prima scelta nel dolore moderato/grave. In particolare gli studi clinici controllati eseguiti fin qui ci
consegnano l'efficacia, nel dolore cronico non oncologico, di molecole quali morfina, ossicodone,
tramadolo e fentanyl transdermico. Nell’anziano sembrano particolarmente indicati, per la rarità di effetti
collaterali significativi, oltre alla morfina ed all’ossicodone, anche l’idromorfone e la buprenorfina
transdermica. Tra i farmaci adiuvanti, indispensabili nel dolore neuropatico, nell’anziano trovano una
particolare indicazione inibitori del reuptake monoaminergico quali nortriptilina, desipramina e doluxetina
ed antiepilettici quali gabapentina e pregabalina. Per gli effetti collaterali significativi sono invece da
evitarsi, seppure efficaci, la amitriptilina e la carbamazepina. Come ben si vede la terapia antalgica ha oggi a
disposizione una ricca farmacopea e la sua corretta esecuzione non solo è dovere di ogni medico, ma, con
la legge 38/2010, è anche diventata un obbligo a cui nessuno può più sottrarsi.
Bibliografia essenziale:
Arnstein P & Herr K. Pain in the older person. In Bonica’s management of pain. Wolter Kluver, 2010. Cap. 55
Gianni W et al. Opioids for the treatment of chronic non‐cancer pain in older people. Drugs Aging 2009; 26
(suppl 1): 63‐73
Le emorragie digestive Claudio Belcari ASL 5 Pisa U.O. Medicina Interna 1^ Ospedale di Pontedera. La Medicina Interna ha oramai posto attenzione negli ultimi anni alla gestione del paziente critico. Da studi condotti sulla popolazione dei pazienti ricoverati nei reparti di medicina interna, sia in Toscana che in altre regioni italiane, emerge che esiste una quota di ricoverati, che varia dal 10 al 20%, che si può definire critico sulla base di score di valutazione ( es. il MEWS ) e che necessita di un setting assistenziale più intensivo sia in termini di personale sanitario che di tecnologia disponibile. Si calcola che l’incidenza annua di sanguinamenti del tratto digestivo superiore (EDS) è pari a 100/100.000 abitanti e per il tratto digestivo inferiore (EDI) è pari a 20/100.000 abitanti con una mortalità maggiore nel paziente anziano e nel paziente cirrotico. La mortalità globale per emorragia digestiva rimane tra il 6‐12% e non ha mostrato sensibili variazione negli ultimi decenni e questo può essere dovuto all’aumento dell’età media della popolazione generale ed al maggior rischio di sanguinamenti nell’anziano; nel paziente cirrotico con sanguinamento da varici esofagee la mortalità negli aa 50 era intorno al 50‐60%: la mortalità si è ridotta a circa il 30% in anni più recenti per il miglioramento delle tecniche rianimatorie, endoscopiche e per il trattamento farmacologico della fase acuta. Da parte di alcuni autori sono stati elaborati vari sistemi di punteggio per una valutazione del rischio di morte o di risanguinamento del paziente ( es.Score di Blatchford) e quindi per l’identificazione di paz. a più alto rischio che richiedono l’ospedalizzazione. Importante per l’inquadramento del paziente quando giunge in DEA è una attenta valutazione dei parametri vitali ed una accurata anamnesi sia patologica che farmacologica.: da ricercare una recente assunzione di FANS, l’abuso di alcool, una storia di epatopatia cronica e di varici esofagee, di recenti/pregressi sanguinamenti, una familiarità per malattie intestinali o ematologiche, assunzione di TAO. L’EDS si presenta con ematemesi e/o melena, mentre in corso di EDI l’ematochezia e la rettorragia sono i sintomi guida. La gestione del paziente emorragico con compromissione emodinamica inizia con la valutazione dei parametri vitali e la stabilizzazione del quadro clinico, il posizionamento di sondino naso‐gastrico ( o sonda di Sengstaken‐Blakemore), e l’ esplorazione rettale. Nel paz. emodinamicamente stabile l’esame da eseguire è quello endoscopico sia EGDS che colonscopia. Nel paziente giovane stabile con perdita ematica modesta oltre alla sorveglianza clinica l’endoscopia può essere rinviata di 24 ore; nel soggetto anziano, anche se emodinamicamente stabile e con perdita ematica modesta invece il controllo endoscopico deve essere eseguito entro le 12‐24 ore(evidenza IA). Nei paz. emodinamicamente stabili con EDI è possibile rinviare il paz. a colonscopia elettiva. Nel paz. con sanguinamento rilevante ed in cui è stato escluso un sanguinamento superiore potrebbe essere utile l’esecuzione di angio‐TC e successiva angiografia mesenterica per eventuale embolizazione dei rami arteriosi responsabili dell’emorragia in particolare se il paz. non può essere sottoposto a colonscopia d’urgenza. Nel 20% dei casi in cui l’emorragia è persistente e/ ricorrente l’EGDS in urgenza è invece obbligatoria: in questi casi l’EGDS terapeutica può far diminire la morbilità e la mortalità dell’EDS ( emostasi con adrenalina, posizionamento di clips, legatura elasica o eventuale scleroterapia o collanti tissutali). I fattori che aumentano il rischio di morte e pertanto impongono il ricovero anche nel paz. con sanguinamento non attivo sono: età> 60 aa, PA< 100 mmHg e/o FC > 100 bpm, Hb< 10 mg/dL, presenza di comorbidità, emorragia in corso con ematemesi fresca: in tali condizioni l’esame endoscopico deve essere
eseguito entro le 12‐24 ore dall’ingresso in DEA. Causa di EDS: UD (24%), UG (21%), gastrite erosiva ( 23%), varici esofago/gastriche (10%), sindrome di Mallory‐Weiss (15%), miscellanea (tumori oro‐faringei, esofagei, gastrici), esofagite, TAO, emobilia, ingestione di caustici, angiodisplasie, lesione di Dieulafoy). Le EDI comprendono angiodisplasie, diverticoli, emorroidi, polipi, carcinomi, colite ischemica, RCU, fistole aorto‐enetriche, lesioni rettali ( es, Dieulafoy). In circa l’85‐90% le EDI si arrestano sopontaneamente; nel 10‐15% recidivano in modo importante ( terapia iniettiva, clips). La gestione di questo tipo di paziente nel reparto di Medicina Interna è possibile grazie ad una sempre più frequente professionalità ottimale/eccelente che comporta tra l’altro quella di organizzare l’assistenza ai pazienti a più elevato rischio o con episodi ricorrenti di sanguinamento GI, proporre gli score di rischio per l’dentificazione dei pazienti con prognosi severa, attivare un approccio multi‐disciplinare coinvolgendo le figure specialistiche ed i servizi dedicati, formulare un piano di cura complessivo (farmacologico, nutrizionale, endoscopico o chirurgico), coordinare/partecipare al team multidisciplinare ed alla stesura di linee guida e percorsi assistenziali per rendere efficiente ed efficace l’assistenza ai pazienti con sanguinamento GI, riconoscere le condizioni cliniche di stabilizzazione e di possibile dimissione del paziente e/o trasferimento ad altro setting assistenziale, attivare le misure preventive per evitare gli episodi di sanguinamento o le possibile recidive ed in molti casi anche competenze distintive come eseguire manovre di endoscopia digestiva anche in urgenza e gestire una emorragia varicosa con legatura/sclerosi. Ottimale la presenza di una Subintensiva Internistica con letti monitorizzati nella direzione della gestione da parte della medicina interna del paziente critico: all’interno di queste aree l’internista ha competenze non solo di ordine culturale ma anche capacità di utilizzo di devices e di tecnologie. Questo è un processo soltanto agli inizi e quindi diventa fondamentale la formazione dei medici internisti sia nella fase di specializzazione che in quella successiva e l’integrazione con gli altri specialisti che si occupano di medicina critica in particolare gli anestesisti rianimatori ed i medici del’emergenza‐urgenza:tale integrazione è tanto più vera e necessaria, quanto più andiamo nell’ospedale per intensità di cure a creare percorsi assistenziali strutturati per i pazienti critici.
Ruolo dell’internista Paolo Biagi UOC Medicina Interna Ospedali Riuniti della Val di Chiana La fibrillazione atriale rappresenta un evento di comune riscontro nella pratica dell’internista: è infatti l’aritmia che è più frequente nella popolazione generale e nella popolazione spedalizzata. E’un fenomeno età dipendente e il rischio di ff aa aumenta con l’età tanto che attorno agli 80 anni si stima che circa il 10% delle popolazione generale ne sia affetta e quindi in considerazione dell’età avanzata dei ricoveri ospedalieri in Medicina , la prevalenza in questi reparti è elevata. Ciò a maggior ragione in quanto l’aritmia può esser causata da una numerosa serie di patologie dell’anziano ( Ipertensione, Scompenso cardiaco, BPCO etc ) ed essa stessa può aggravare le patologie che l’hanno causata. Essere affetti di ff aa espone ad un rischio di morte 5 volte più elevato e di ospedalizzazione 20 volte più elevato. L’internista quindi si pone di fronte ad essa tenendo presente che in genere deve trattare persone anziane in cui il corso naturale dell’aritmia ha definito essa come persistente/permanente. Di fronte a tale fatto deve porsi considerando un duplice aspetto : da una parte come essa influisca sulla emodinamica del paziente e quindi sulle copatologie presenti e dall’altra deve considerare che la ff aa è fattore di rischio per eventi embolici fra i quali il più importante quello cererale e quindi deve impedire o ridurre al minimo tale eventualità. Per quanto attiene il problema legato all’impatto emodinamico che l’aritmia induce la tendenza ( anche evidente nello studio Realisee ) è quella di controllare la frequenza ( si ricorda che agiamo per lo più su una popolazione anziana in cui il ripristino del ritmo sinusale anche se ottenibile è transitorio ) quando non sia necessario intervenire acutamente con approccio elettrico. L’altra faccia del problema è quella di prevenire gli eventi embolici: questi sono correlati al tempo di esposizione all’aritmia ( maggiore rischio in chi ha l’aritmia da più tempo e quindi maggiore età – considerato come sopra detto la ff aa fenomeno età dipendente ‐ maggiore rischio ) e al fatto che la necessaria e ancora non ottimalmente diffusa prevenzione con terapia anticoagulante espone il soggetto anziano a maggior rischio di sanguinamento ( si ricorda che l’età anziana è uno dei più importanti fattori di rischio di sanguinamento maggiore dopo terapia con TAO ). Ed inoltre, vale la pena di ricordarlo, la varia copatologia che in genere presenta l’anziano ospedalizzato, e quindi l’esposizione a vari trattamenti farmacologici da essa derivante, può complicare ulteriormente sia la gestione del profilo emodinamico della aritmia e che dei rischi delle varie terapia ad essa connessi, basti pensare a quanto la ff aa possa complicare la gestione dello scompenso cardiaco. Di fronte a tale problematica l’internista deve svolgere il ruolo che è suo proprio e cioè, tenendo conto di quanto le linee guida suggeriscono, di gestire clinicamente la aritmia effettuando le scelte ottimali per quel paziente .
Focus on FIBRILLAZIONE ATRIALE ‐ Prospettive di gestione complessa e integrata: Società scientifiche a confronto: il ruolo del Cardiologo Andrea Boni, Francesco Bovenzi UO Cardiologia Dipartimento Cardio‐respiratorio ASL 2 Lucca La fibrillazione atriale (FA) è l’aritmia sostenuta di più frequente riscontro nella pratica clinica. La sua prevalenza nella popolazione generale risulta essere poco meno dell’1%, con un andamento che sembra prevedere un incremento negli Stati Uniti di 2‐3 volte entro l’anno 2050 (dagli attuali 2.5‐6 milioni a 6‐15 milioni). La prevalenza della FA aumenta inoltre con l’aumentare dell’età (0.1% nei soggetti di età <55 anni e del 9% in quelli di età >80 anni). Nello studio di Framingham la prevalenza sale dallo 0.5% nella fascia di età tra 50 e 59 anni a 1.8% tra 60 e 69 anni, 4.8% tra 70 e 79 anni e 8.8% tra 80 e 89 anni. Si stima che il 70% dei pazienti affetti da FA ha più di 65 anni. Dati più limitati sono disponibili circa la prevalenza della FA in Italia. Un recente studio prospettico condotto in Veneto in una popolazione di pazienti con età >65 anni ha mostrato una prevalenza del 4.2% tra 65 e 74 anni, 9.4% tra 75 e 84 anni e 17% negli ultraottantacinquenni. Se adattiamo alla popolazione italiana attuale (60 milioni) i dati disponibili nella letteratura internazionale si può calcolare che il numero dei pazienti affetti da FA nel nostro Paese sia di 600 000 persone. Si tratta dunque di un problema di sanità pubblica che ha pesanti ripercussioni in termini di assorbimento delle risorse sanitarie, di costi e di complicanze. Tra queste il rischio di ictus si innalza di cinque volte nei pazienti con FA. Nel mondo ogni anno fino a tre milioni di persone vengono colpite da un ictus collegato alla FA, spesso si tratta di ictus gravi ed invalidanti e la metà dei pazienti perde la vita entro un anno (aumentata probabilità di morte del 20% e di invalidità 60%). Lo studio ATA‐AF (AntiThrombotic Agents Atrial Fibrillation) realizzato dall’ANMCO e da FADOI e presentato in occasione del congresso dell'ANMCO, Firenze 11‐14 maggio 2011, e successivamente al congresso FADOI, 15‐18 maggio 2011 sempre a Firenze, ha messo in evidenza differenze cliniche e demografiche e di conseguenza differenze gestionali tra reparti di Medicina Interna e Cardiologia. Sono stati coinvolti 7.148 pazienti seguiti in 164 centri cardiologici e 196 centri di medicina interna. Lo studio ha permesso di rilevare alcune importanti differenze tra i soggetti gestiti da reparti di Cardiologia o di Medicina Interna: diversità demografiche e cliniche che hanno delineato differenti profili di paziente e diversi approcci terapeutici utilizzati. Ad esempio, il 71,3% dei pazienti ricoverati presso la Medicina Interna presenta più di 75 anni, contro il 44,6% della Cardiologia; la presenza contemporanea nello stesso individuo di più patologie (coefficiente di comorbilità) è stata registrata nel 71,8% delle persone trattate dagli internisti e nel 49,7% di quelle prese in carico dai cardiologi. Lo studio ha evidenziato un sotto‐utilizzo della terapia anticoagulante in circa un quarto dei pazienti a medio e alto rischio di ictus. Inoltre, la somministrazione di tali farmaci non appare guidata dal livello di rischio dei pazienti e l´andamento della prescrizione non cambia utilizzando il nuovo score adottato nelle nuove linee guida europee di cardiologia CHA2DS2‐VASc: il 53.1% dei pazienti delle Cardiologie aveva un punteggio CHADS2 ≥ 2 (medio alto) contro il 75.3% dei pazienti delle Medicine Interne e il trattamento con anticoagulante era prescritto nel 64% dei casi per le Cardiologie rispetto al 46% dei pazienti delle Medicine Interne. Le ragioni che spingono i medici a
non prescrivere i farmaci anticoagulanti orali sono molteplici: difficoltà nella gestione degli attuali farmaci a disposizione, problemi organizzativi, scelte del paziente o controindicazioni al trattamento, paura degli effetti collaterali e difficoltà a rispettare la regolarità delle analisi del sangue. La spiegazione di questa differenza è dovuta al fatto che nei reparti di medicina interna arrivano pazienti in media cinque‐sei anni più anziani, spesso con più patologie associate che espongono a un elevato rischio di emorragie o con scarsa collaborazione nella gestione di terapie per deficit cognitivi. Anche per quanto riguarda il controllo del ritmo rispetto al controllo della frequenza, sono state evidenziate delle importanti differenze di approccio fra Cardiologia e Medicina Interna. Il controllo della frequenza cardiaca è stata la scelta preferita dal 43,6% dei cardiologi rispetto al 60,5% degli internisti. E’ evidente che permangono problemi di gestione più che di ordine scientifico e culturale dal momento che sono di recente pubblicazione le linee guida sia dell’ESC che dell’ AIAC, che hanno ampiamente focalizzato l’attenzione sul management del paziente con FA. Spesso però le direttive ed i suggerimenti delle linee guida rimangono disattesi. Da tempo l’ANMCO è impegnata attraverso campagne di educazione ed informazione rivolti alla popolazione e con percorsi formativi rivolti ai propri associati per promuovere una maggiore adesione dei medici alle linee guida più aggiornate e per migliorare l’assistenza a questi pazienti così numerosi ed a elevato rischio di complicanze. Partendo dal presupposto che la FA è un grave problema di salute pubblica, dai costi elevati di gestione e che le conoscenze dell’epidemiologia in Italia così come l’aderenza alle linee guida sono deficitarie, l’ANMCO ha promosso la Survey Percorsi diagnostico‐terapeutici per la cura della fibrillazione atriale in Italia in collaborazione con la rete della SIMG coinvolgendo 250 Medici di Medicina Generale con un’indagine su 295.906 persone, per la quale sono previste informazioni su oltre 6036 (2.04%) pazienti con FA per ottenere una fotografia dell’epidemiologia della FA in Italia, della gestione dei percorsi diagnostico‐terapeutici e dell’aderenza alle linee guida. Nuovi impegni sono in arrivo con la realizzazione di un grande registro italiano della FA che coinvolgerà 38 centri, coordinato dal Prof. Santini ed il protocollo del registro sarà presentato a breve. Una migliore conoscenza del problema unitamente alla collaborazione sempre più effettiva delle altre società scientifiche insieme all’introduzione di nuovi anticoagulanti orali che comportano un minor rischio di emorragie e semplificano la gestione del paziente con FA potranno essere i punti di partenza per realizzare una gestione complessa e integrata del paziente con FA.
Ruolo dell’emergenza Alberto Conti Medicina Interna e Dipartimento Emergenza Accettazione Policlinico Careggi, Firenze Il termine fibrillazione atriale indica un’aritmia sopraventricolare che presenta diversi aspetti clinici in base alla durata e alla presenza di patologia strutturale. Si parla di FA parossistica quando l’aritmia termina spontaneamente; si definisce FA persistente l’aritmia che si auto mantiene e viene interrotta soltanto dall’intervento medico. Infine, si parla di FA permanente quando l’aritmia viene lasciata persistere definitivamente. Queste definizioni hanno una rilevanza terapeutica, perché le prime due forme possono essere trattate farmacologicamente per il ripristino e il mantenimento del ritmo sinusale. La presenza di patologia strutturale miocardica comporta una più facile recidiva di FA e una minore tolleranza emodinamica. Le patologie più frequentemente in causa nei Paesi Occidentali sono la cardiopatia ischemica e quella ipertensiva; la patologia valvolare è invece divenuta di rara osservazione. Vanno inoltre ricordate la cardiomiopatia ipertrofica e le cardiopatie congenite.Comunque, in una percentuale variabile di casi non sono evidenziabili cause strutturali e si parla di “lone fibrillation”; tale variante è comune nei soggetti più giovani (attualmente si considera che la percentuale sia molto bassa 2%). Una condizione frequentemente associata alla FA è lo scompenso cardiaco; in realtà le due patologie interagiscono fra loro e può non essere possibile inizialmente determinare se sia stata la FA ad alta risposta ventricolare ad aver determinato lo scompenso, o viceversa. Il controllo e la quantificazione della FA si può ottenere facilmente nei pazienti portatori di pacemaker o defibrillatori impiantabili. È anche possibile impiantare loop recorders sottocutanei, che possono essere collegati mediante un allarme telefonico al centro cardiologico di riferimento. Il controllo della durata del periodo aritmico (FA burden) consente non solo di verificare l’efficacia dell’eventuale terapia antiaritmica, ma anche di guidare l’inizio o l’interruzione della terapia antitrombotica. La FA è l’aritmia sostenuta più frequente: la prevalenza è dell’1% circa, ma diviene del 4% dopo i 60 anni e del 9% dopo gli 80 anni. La FA comporta un elevato rischio tromboembolico: in particolare, circa il 20% degli ictus risultano associati a FA, ma il dato è probabilmente sottostimato poiché la FA può non essere presente al momento del ricovero. In assenza di profilassi, il rischio di ictus è del 4,5% all’anno. Il costo sociale è estremamente rilevante ed è influenzato dalle spese di ospedalizzazione e di gestione cronica. Non va ignorato in questo contesto il disagio del paziente (e dei familiari che lo supportano) causato dai frequenti controlli cui deve sottoporsi per il monitoraggio delle terapie. Gli anticoagulanti orali riducono il rischio di ictus con un NNT di 40 vs placebo, in profilassi primaria. Il rischio emorragico non è sostanzialmente aumentato. Gli antiaggreganti piastrinici hanno un’efficacia molto ridotta, con un NNT di 111. Si raccomanda quindi l’uso di AO ad eccezione dei pazienti con CHADS‐2 = 0, in cui è indicata l’ ASA, o 1, in cui si può scegliere tra AO ed ASA. La stima del rischio emorragico nel paziente con TAO è insoddisfacente e la sovrapposizione tra fattori di rischio emorragico e di rischio trombotico spesso induce i clinici a limitare la prescrizione di AO. A fronte di solide evidenze che documentano l’efficacia degli AO, una quota rilevante di pazienti con FA e indicazione alla terapia non riceve TAO e, anche tra coloro che la ricevono, vi è un’elevata percentuale di abbandono del trattamento
riconducibile sia al rischio emorragico che alle difficoltà del monitoraggio e all’inadeguata aderenza dei pazienti. I nuovi anticoagulanti, con efficacia pari o superiore a quella del warfarin, potranno contribuire a superare questi problemi.I farmaci da utilizzare nella cardioversione farmacologica sono catalogati tra la classe di antiaritmici come IC e III (rispettivamente Propafenone e Flecainide tra i primi e Amiodarone tra i secondi). In Medicina d’urgenza sono preferibili i farmaci della classe IC poiché in pazienti privi di cardiopatia organica favoriscono la cardioversione a ritmo sinusale in tempi brevi fino all’80‐90% dei casi.
La continuità assistenziale per garantire la massima efficienza ed efficacia del Sistema Sanità Rocco Donato Damone*; Tiziana Bechelli** *Direttore Generale Azienda USL5 Pisa ** Dirigente Medico Staff Direzione Azienda USL5 Pisa Alla luce delle attuali condizioni socio‐economiche del Paese, la continuità ospedale‐territorio rappresenta lo snodo fondamentale per vincere la sfida sulla sostenibilità nell’erogazione dell’assistenza sanitaria. I nuovi e crescenti bisogni di salute impongono una revisione del processo di cura con la creazione di una rete di servizi ad alta integrazione multi professionale e multidisciplinare in cui il cittadino possa trovare agevolmente una risposta strutturata e qualificata basata su una cultura della salute non estemporanea e frammentata ma globale ed efficace. I cardini su cui costruire operativamente questa strategia sono: promozione del lavoro di squadra con la condivisione dei percorsi assistenziali da parte di tutti gli attori che ne prendono parte; utilizzo appropriato della tecnologia diagnostico‐terapeutica avanzata; qualificazione ed autonomia delle professioni sanitarie emergenti; informatizzazione di tutti i servizi per facilitare la condivisione in tempo reale dei dati; implementazione di una cultura partecipativa già dalla fase di programmazione delle attività tra la componente gestionale‐manageriale e quella professionale; sviluppo di un processo di empowerment individuale e collettivo; rimodulazione della funzione del sistema di emergenza‐urgenza in raccordo con il modello dell’ospedale per intensità di cure; apertura delle politiche socio‐sanitarie agli altri settori che contribuiscono alla salute dei cittadini; gestione della complessità con competenza e flessibilità in un’ottica di sistema organizzato e funzionale alle esigenze della popolazione.
La cronicità in un sistema complesso Enrico Desideri Direzione Generale Azienda Sanitaria di Arezzo L'evoluzione della cronicità in Italia e, in generale, nei paesi occidentali, nonostante l'ampia prevedibilità, sembra avere “preso di sorpresa” legislatori, managers e, in parte, gli operatori sanitari stessi. Le malattie croniche, a dispetto di un sistema socio‐sanitario incerto sulle contromisure da assumere, crescono ben al di là, della crescita dell'aspettativa di vita, così che a tale favorevole parametro non è possibile attribuire se non una parte della crescita di tali patologie. Non solo, esse sono presenti ,e in crescita, in tutte le età (naturalmente con prevalenze ben diverse!). La loro distribuzione è – come è noto – diseguale sulla base dello stato socio‐economico delle aree geografiche di residenza e in relazione al genere! Un approccio organizzativo per la gestione delle patologie croniche richiede una solida revisione del ruolo delle Cure Primarie e al loro interno del ruolo della medicina “di famiglia”. Un ruolo nuovo dei servizi territoriali più forte e più autorevole, in un nuovo assetto organizzativo, pur indispensabile, non è da solo però sufficiente. Centrale rimane, infatti, la capacità delle equipe mediche ed infermieristiche ospedaliere di raccordarsi con il territorio, svolgendo con sempre più forza e convinzione quel ruolo indispensabile che da tempo hanno iniziato a giocare nella rete dei servizi specialistici “patient oriented”. Il sistema informativo, infine, deve sapere integrare i vari setting assistenziali, fornendo al management e ai professionisti informazioni sul percorso assistenziale seguito dalle diverse coorti di pazienti, in particolare, quelli affetti da patologie croniche.
Il censimento regionale 2010 Hospitalist FADOI Toscana Mario Felici U.O. Medicina Interna e Geriatria USL8 Arezzo I dati epidemiologici degli ultimi 10 anni confermano che i pazienti ricoverati sono sempre più anziani , con polipatologia e polifarmacologia. Vengono ricoverati per lo più per un problema acuto nel contesto tuttavia di una polipatologia cronica spesso associata a problematiche socioassistenziali più o meno complesse. Molto spesso è proprio il management della polipatologia cronica più che di quella acuta “specialistica” che determina la maggiore difficoltà nel garantire un percorso di sicurezza e qualità per il paziente . L’organizzazione tradizionale dell’Ospedale per patologia di organo ( cardiologia ‐ neurologia ‐ nefrologia ) per patologia di sistema ( gastroenterologia ‐ reumatologia ‐ oncologia ‐ malattie infettive) , per popolazione ( pediatria ‐ geriatria ) o per setting tecnologico ( rianimazione , utic , utip , hdu ) si presenta sempre meno adeguata in termini di efficacia / efficienza nel garantire l’ottimizzazione dei costi ed il miglioramento della qualità e della sicurezza fornita al paziente. Da qui la necessità di studiare nuovi modelli assistenziali ( intensità di cura) e nuovi modelli gestionali ( dal co‐management multidisciplinare con le altre specialità medico chirurgiche a nuovi modelli organizzativi come la medicina postoperatoria , l’ortogeriatria , l’hospital medicine ..) per riscrivere i nuovi ospedali e gestire il cambiamento della cura del paziente attraverso una vera “clinical governance”.In questa ottica la FADOI Toscana ha deciso di portare avanti nel 2010 un censimento di tutte le attività “hospitalist/hospital medicine” già esistenti , con lo scopo di valorizzare tali esperienze e di favorire il dibattito culturale circa il ruolo della Medicina Interna Ospedaliera in questo particolare momento di trasformazione organizzativa e socio‐economica della Sanità Toscana. Sono state coinvolte 24 U.O. di Medicina Interna operanti in 20 ospedali della regione . Il censimento è avvenuto attraverso un questionario inviato tramite e‐mail a tutti i primari delle U.O. riguardanti dati organizzativi degli ospedali in generale e poi della singola Unità Operativa ‐ in particolare veniva richiesto se erano presenti esperienze di co‐management di posti letto di degenza , di posti letto ambulatoriali , di percorsi assistenziali strutturati medico chirurgici , di attività multidisciplinare sia in area clinica che in area formativa , di gestione del rischio clinico e di budget. In sintesi i dati di maggiore interesse : 6 U.O. di Medicina Interna sono collocate in 6 Ospedali con meno di 100 posti letto dove è presente solo U.O. Chirurgia Generale e talora U.O. Ortopedia. 4 U.O. di Medicina Interna in 4 Ospedali con 100‐300 posti letto dove sono presenti la maggior parte delle altre specialità medico chirurgiche . Infine 14 U.O. di Medicina Interna si trovano in Ospedali di grandi dimensioni con oltre 300 posti letto dove sono presenti attività specialistiche di elevato livello medico chirurgico ( dall’angioplastica primaria alle chirurgia vascolare , neurochirurgia ecc..). In tabella il numero ed il tipo di esperienze osservate:
Tipo esperienza Area medica Area chirurgica
consulenza programmata 6 gastro pneumo ‐ algologia ‐ nutrizione clinica
3 ( orto ‐ chir ‐ urol )
co‐management posti letto (DH ‐ DS ‐ PL funzionali)
3 dialisi/nefro 2 gastro 3 oncologia
modelli strutturati hospital medicine
2 medicina perioperatoria 1 ortogeriatria
co‐management percorsi multidisciplinari
1 ematologia 1 dialisi 2 oncologia
3 chir vasc. 1 urologia
Ricerca clinica interdiscipl. 2 nefro 2 cardiologia 2 chir gen 1 chir vasc 1 ortop
Implementazione buone pratiche mediche
3 chir generale 1 ortop
condivisione Budget dipartimento medico 4 chirurgia
Per quanto riguarda la correlazione fra tipo di esperienze e dimensioni ospedale , si segnala che i modelli strutturati tipo “hospital medicine” si ritrovano nei grandi ospedali mentre il co‐management di posti letto per lo più con altre specialità mediche si ritrovano nei piccoli ospedali. Negli ospedali di medie dimensioni è più frequente invece il co‐management di percorsi multidisciplinari di patologia. Interessante appare infine il dato della ricerca clinica interdisciplinare fra le varie Unità Operative.
Perché nonostante tanti farmaci a disposizione è difficile normalizzare la pressione arteriosa?
Lorenzo Ghiadoni e Stefano Taddei U.O. di Medicina Generale 1 – AOUP Pisa
In molte condizioni cliniche le Linee Guida richiedono un controllo dei valori pressori cha vada oltre i “classici” 140‐90 mmHg ed arrivi a 130‐80 mmHg. Tuttavia nella pratica clinica la situazione è ben differente. Infatti, raggiungere un soddisfacente controllo dei valori pressori non è sempre operazione facile, come dimostrato dalla percentuale relativamente bassa di pazienti ipertesi che raggiungono la normalizzazione pressoria nella pratica clinica. Oltre alla difficoltà intrinseca nel normalizzare la pressione arteriosa, esiste anche il problema dell’utilizzo corretto dei farmaci antipertensivi soprattutto per quanto riguarda l’impiego della posologia e delle associazioni corrette. Il fatto di avere molte molecole a disposizione può aiutare, ma può anche complicare la vita in quanto può creare problemi con la scelta di dosaggi o di associazioni poco razionali. La potenza e la durata d’ azione sono parametri di cruciale importanza per utilizzare in modo appropriato i farmaci antipertensivi. Nella pratica clinica, è molto frequente osservare modificazioni dei dosaggi dei farmaci nella convinzione di poter modulare l’efficacia antipertensiva. In realtà, l’ aumento della dose è possibile solo se il farmaco in oggetto ha una curva dose‐risposta in termini di efficacia, e cioè che all’ aumento della dose corrisponde un parallelo aumento della riduzione dei valori pressori. Questa
caratteristica riguarda i diuretici, i beta‐bloccanti, gli 1‐antagonisti ed i Ca‐antagonisti. Viceversa per i farmaci quali gli ACE‐inibitori e AT‐1 antagonisti, che presentano una curva dose‐risposta piatta, la differenza tra le varie dosi non è nell’ entità assoluta della riduzione della pressione arteriosa (che è sempre la stessa), ma nella durata d’ azione. Pertanto, nella terapia antipertensiva, non è razionale utilizzare farmaci quali gli ACE‐inibitori e gli AT‐1 antagonisti a dosi basse, in quanto non riduciamo la loro potenza antiipertensiva, ma solo la durata d’ azione. Nel paziente con ipertensione di grado I‐II (lieve‐moderata), l’ associazione razionale di due farmaci migliora in modo significativo la risposta terapeutica in quanto circa il 75‐80% dei pazienti risponde ad una associazione di due differenti agenti farmacologici. Va però sottolineato che molte associazioni non sono razionali in termini di effetto di potenziamento sulla pressione arteriosa. Le associazioni devono essere costituite da farmaci con lo stesso profilo farmacocinetico, ma con meccanismi d’ azione diversi e complementari (ad es. un farmaco che attiva il SRA con un farmaco che lo inibisce). E’ quindi intuitivo che non bisogna mai associare due farmaci della stessa classe (ad es. due ACE‐inibitori o due ß‐bloccanti) o della stessa sottoclasse (ad es. due calcio‐antagonisti diidropiridinici o due diuretici tiazidici). Inoltre non bisogna associare farmaci con effetti simili sui principali meccanismi omeostatici (ad es. ACE‐inibitori e ß‐bloccanti, in quanto entrambi questi farmaci inibiscono il SRA). E’ infine necessario fare molta attenzione a non
associare farmaci con effetto d’ azione opposto (tipico errore è l’ associazione di un 1‐antagonista con un
simpatico‐modulatore ‐agonista quale la clonidina), in quanto i due farmaci annullano reciprocamente il proprio effetto. E’ ovvio che nel caso di una triplice associazione è sufficiente che due dei tre farmaci abbiano un meccanismo d’azione complementare
Esperienze di co‐management medico‐chirurgico: il paziente vascolare con ischemia critica degli arti inferiori Giancarlo Landini Direttore SC Medicina Interna Ospedale Santa Maria Nuova Firenze L’ Ischemia critica degli arti inferiori è una patologia in aumento a causa sia dell’invecchiamento della popolazione sia dell’alta prevalenza dei fattori di rischio vascolare. Ha una prognosi grave e vi sono difficoltà a vari a livelli per effettuare un efficace percorso assistenziale. La prognosi ad un anno è molto pesante: amputazione 30% dei casi, morte 25% dei casi . La malattia è trattabile con successo solo se si riescono ad intercettare in tempo gli ammalati e se si effettua un iter diagnostico terapeutico appropriato :il paradigma è quello della presa in carico multidisciplinare in tempi adeguatamente rapidi del paziente .Va instaurato un percorso diagnostico –terapeutico condiviso dal sospetto clinico al trattamento e fino al follow‐up. La malattia è considerata tutt’oggi una “malattia orfana” dato che non vi è un medico di riferimento che si faccia carico del percorso globale dell’ammalato. Un sistema cooperativo è stato messo a punto fra FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti)Toscana e Sezione Toscana della SICVE(Società Italiana di Chirurgia Vascolare e Endovascolare) dato che gli Internisti e Chirurghi Vascolari sono gli specialisti che più trattano questa patologia. Il fine è quello di un vero e proprio Co‐management e presa in carico a comune nei singoli presidi ospedalieri. Sono stati configurati dei veri e propri percorsi locali multi specialistici in associazione a percorsi ospedale territorio con i MMG e le cure primarie. Il sistema non funziona solo all’interno di un ospedale ma crea dei rapporti preordinati fra le Chirurgie Vascolari di riferimento e le Medicine Interne del loro bacino di utenza. I rapporti sono instaurati con riunione operative e organizzative locali e il coinvolgimento dei MMG con anche corsi di aggiornamento mirati . In particolare il paziente è intercettato dal MMG che ha a disposizione un canale preferenziale di accesso ai Day Service Vascolari delle Medicine Interne e delle Chirurgie Vascolari ( entro 48‐72 ore dalla diagnosi).I Day Service Vascolari confermano la diagnosi ,eseguono terapia endovenosa con prostanoidi , usano protocolli per il controllo del dolore e per le complicanze internistiche. Si eseguono gli esami diagnostici di II° livello(Angio TC e/o Angio RM) per programmare l’eventuale salvataggio d’ arto. L’Internista e il Chirurgo Vascolare prendono in carico l’ammalato e si si decide per amputazione primaria o tentativo di rivascolarizzazione chirurgica open con angioplastica o ibrida. ‐E’ previsto anche il regime di ricovero H24 in reparto internistico di pazienti selezionati sia prima che dopo l’intervento con particolare riferimento alla co morbilità e alla presenza di complicanze infettive o difficoltà nel controllo del dolore. Il sistema garantisce , con variazioni dovute alle varie realtà locali, la presa in carico internistica per il trattamento post‐chirurgico e il follow up compresa la gestione domiciliare e le cure intermedie. Pere rendere più agevole la comunicazione fra i vari soggetti coinvolti è stata approntata una cartella in formato cartaceo ed elettronico che è implementata in tutti i centri internistici e di chirurgia vascolare. Sotto l’impulso della FADOI e delle SICVE queste esperienze di co management stanno prendendo piede nella nostra regione e sono state già attuate a Firenze, Pistoia‐Pescia, Arezzo, Siena e Pisa.
In una visione globale di Governo Clinico è auspicabile che dalla iniziativa delle società scientifiche tragga spunto anche la programmazione regionale e che nell’ambito dell’ospedale per Intensità di Cura trovi spazio strutturalmente la collaborazione medico‐chirurgica per questa patologia di così difficile trattamento.. Bibliografia G. Landini, G .Panigada , S. Meini ,E. Melillo ,R .Cappelli ,G. Bellandi Rete gestionale toscana per il trattamento dell’ischemia critica degli arti inferiori: proposta di un network operativo multidisciplinare ” Italian Journal of Medicine(2011)5,155‐142.
Curare l’ipertensione arteriosa nel tempo: una gestione complessa e integrata Salvatore Lenti Centro Ipertensione Arteriosa – Medicina Interna e Geriatria – Ospedale San Donato USL8 Arezzo L’ipertensione arteriosa è una tra le malattie più diffuse nei paesi industrializzati, tant’è che si riscontra nel 20% della popolazione adulta ed è considerata uno dei maggiori problemi clinici del Ventesimo secolo. Quest’ultima constatazione deriva dal fatto che da un lato molte volte chi è iperteso lo scopre occasionalmente in una visita medica senza sapere magari di esserlo da tempo e dall’altro perché non sempre è facile per il medico decidere quando occorre intervenire farmacologicamente e quali medicine somministrare. Infatti sono molti i farmaci antiipertensivi, numerose le possibili associazioni fra loro e, di grande importanza per l’adesione o meno del malato alla terapia, frequenti gli effetti collaterali negativi che questi possono dare. Storicamente, la gestione di malattie croniche come l'ipertensione tende a essere reattiva, con i pazienti che diventano soggetti passivi della cura. Negli ultimi anni, il modello di assistenza cronica è stato sviluppato e implementato in alcune realtà per la massima cura proattiva delle persone affette da patologie croniche. Il modello e i suoi principi tende ad affrontare le infrastrutture e il sostegno che è necessario per attivare questa assistenza di alta qualità. Il ruolo del paziente, primario team di assistenza, il sistema e la comunità sono tutte coinvolte in questo modello. L'esperienza suggerisce che l'applicazione dei principi di gestione della malattia cronica come l’ipertensione può portare a vantaggi significativi a tutti gli interessati. Il Chronic Care Model (CCM) dell’ipertensione arteriosa è un modello di assistenza medica dei pazienti affetti da malattie croniche e propone una serie di cambiamenti a livello dei sistemi sanitari utili a favorire il miglioramento della condizione dei malati cronici e suggerisce un approccio “proattivo” tra il personale sanitario e i pazienti stessi, con questi ultimi che diventano parte integrante del processo assistenziale (paziente esperto). Il CCM è caratterizzato da sei componenti fondamentali: Le risorse della comunità Le organizzazioni sanitarie Il sostegno all’autocura L’organizzazione del team Il sostegno alle decisioni I sistemi informativi per tentare di valutarne la fattibilità di applicazione allo specifico contesto nazionale. Mentre i primi due punti sono caratterizzati da una forte valenza politica, gli ultimi quattro caratterizzano il percorso assistenziale dei pazienti affetti da disturbi cronici. Secondo il CCM, informare i pazienti e fornire loro un valido supporto all’autocura è un processo di fondamentale importanza per il raggiungimento di un miglior stato di salute che, nel caso dei malati cronici, può essere mantenuto anche in assenza di una continua assistenza medica. L’organizzazione del percorso assistenziale deve garantire un perfetto coordinamento tra tutto il personale sanitario, compreso quello non medico, che riveste un ruolo fondamentale nel supporto ai pazienti affetti da ipertensione arteriosa (infermiere esperto). Il personale sanitario deve poter accedere a fonti d’aggiornamento continue di sviluppo professionale per l’assistenza ai
malati cronici e ogni decisione clinica deve essere supportata da protocolli e linee guida che garantiscano la massima efficacia del trattamento assistenziale. Se tutto ciò avvenisse si potrebbe avere un sostanziale calo delle malattie cardiovascolari, in quanto i pazienti ipertesi verrebbero presi in carico in un percorso stabilito e si potrebbero curare meglio gli ipertesi noti ma anche quelli che non lo sanno ed inoltre ci sarebbe più aderenza all’assunzione delle terapie: ciò consentirebbe non soltanto una sensibile riduzione di eventi cardiovascolari minori e maggiori, ma anche una enorme riduzione della spesa sanitaria.
Clinical Competence dell’Internista Giuseppe Lombardo Direttore UOC Medicina Generale ASL 11 ‐ Empoli Tutte le Aziende, Sanitarie e non Sanitarie, pubbliche e private, partendo dall’assunto che “gli uomini sono la principale fonte del vantaggio competitivo”, hanno riservato sempre maggiore attenzione alla “people strategy”, la componente del business strategy finalizzata all’accrescimento del valore del capitale umano. La people stategy rappresenta una evoluzione significativa rispetto alla “politica delle risorse umane”: quest’ultima era orientata ai bisogni individuali (identità, stabilità, sviluppo,…) mentre la people strategy fa riferimento alla specificità della persona: competenze, attitudini, esperienze, valori. La somma di questi 4 ultimi elementi, quando essi siano presenti in misura notevole, si definisce talento, parola di origini greche che significava inizialmente bilancia, peso, e poi “moneta”: avere talento significa essere ricchi. Forse, riferita alle organizzazioni, è meglio usare la parola “talenti”, perché la diversità rappresenta un valore molto importante per l’Azienda. Le competenze sono sicuramente il patrimonio più importante in una Azienda basata sui talenti e quindi è importante curarne l’apprendimento, lo sviluppo, il mantenimento e inevitabilmente anche la certificazione. Nell’orientare la people strategy due elementi sono importanti: il contesto strategico in cui opera l’azienda (out) e il capitale umano di cui dispone (in). Questi due elementi interagiscono fortemente tra loro ed un esempio semplice è rappresentato dalla possibilità di produrre nuove idee e individuare nuove opportunità di core business: questa osservazione, pur nel difficile momento storico in cui siamo, vale anche per la Aziende Sanitarie. In sanità i profili identificabili di people strategy sono cinque: di continuità (rispetto ai buoi livelli acquisiti), di spinta (verso posizioni più competitive), di posizionamento (la parola chiave è la competenza: acquisire e mantenere), di amplificazione (verso nuove opportunità) e di turnaround (per sostenere il cambiamento strategico con un cambiamento culturale). Nel 1990 lo psicologo cognitivo George Miller, famoso per “la regola del 7”, propose per la prima volta il concetto della multidimensionalità della competenza, un concetto che assolutamente riguarda anche la “Clinical Competence”. La nota piramide di Miller vede al primo gradino la conoscenza, al secondo la competenza (know how), al terzo la performance (show how) e, nella cima, l’esecuzione (action). La competenza non si identifica con la conoscenza, e neppure con la capacità tecnica. Nel Modello delle competenze di David Mc Clelland (uno psicologo americano cui negli anni 70 fu affidata la selezione dei funzionari della FSIO ‐ Foreign Service Information Officers): “La Competenza è una caratteristica intrinseca individuale causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in una mansione secondo criteri prestabiliti”. Quella citata è solo una delle tante definizioni presenti in letteratura: diverse ma infondo simili nell’indicare conoscenze, capacità e atteggiamenti necessari per svolgere un compito.
I domìni della Competenza Professionale in Medicina Interna definiti dall’EFIM (European Federation of Internal Medicine, 2007) sono: la conoscenza medica, la capacità di comunicazione, gli aspetti tecnico‐professionali, i problemi etici e medico‐legali, la pianificazione e il management e le attività accademiche. Su questi temi si è sviluppato il lavoro sulla Clinical Competence svolto dalla FADOI Nazionale e la SDA Bocconi di Milano circa un’anno e mezzo fa. Qualunque sia la definizione della clinical competence, si deve presupporre un bilanciamento tra sapere, saper fare e saper essere, ed il grado di competenza che viene raggiunto individua tre crescenti livelli di professionalità: di base, ottimale, eccellente. A questi tre livelli si affianca il tema delle competenze distintive, cioè di quelle competenze “speciali” che non di rado gli internisti possiedono, che sono tali rispetto alle competenze “medie” di un internista ma rappresentano un valore enorme in un determinato contesto. Nel lavoro svolto da FADOI e SDA‐BOCCONI è stato utilizzato un metodo di acquisizione del consenso detto Delphi‐Rand, con un panel di esperti indipendenti che, in 2‐3 rounds, si sono cimentati sui contenuti degli items potendo esprimere in ogni occasione 3 opzioni possibili: accordo completo, disaccordo completo, versione alternativa. Sia sui livelli di professionalità che, tanto più, sulla definizione delle competenze distintive si è manifestata una difficoltà derivante dal fatto che ogni Unità Operativa di Medicina Interna vive in un contesto diverso e adatta le proprie competenze a tale contesto. Con una variabilità, da caso a caso, che correla con la maggiore ampiezza della casistica che l’internista deve trattare, soprattutto rispetto alle altre specialistiche presenti dove opera. I risultati emersi sono molto interessanti e, nel rileggerli, ognuno di noi rivive inevitabilmente la propria difficoltà a definire in modo “oggettivo” le competenze “core” e quelle “distintive” di un internista del terzo millennio. Ai classici items della conoscenza medica (in senso nosografico) ne sono stati aggiunti altri molto attuali e che tagliano longitudinalmente la casistica: il paziente complesso, il paziente fragile, il paziente critico, il paziente instabile. Ciascuno, leggendo il risultato pubblicato sull’Italian Journal of Medicine può trovare spunti di riflessione e, perché no?, di critica. Rimangono aperti i punti più delicati: l’accesso alla valutazione/certificazione, le modalità pratiche della valutazione, gli standards minimi, le modalità pratiche di certificazione, l’individuazione dei soggetti certificatori, il valore legale delle certificazioni. Gli aspetti medico‐legali non possono infatti essere sottovalutati, come da sempre sappiamo ma amche come stiamo nella pratica costatando: è lecito fare solo ciò che si è appreso e deontologicamente si può fare solo ciò che effettivamente si sa fare. Nel frattempo i Direttori di Struttura complessa un po’ ovunque si sono già cimentati con le Job description in modo dipendente o indipendente dalla Certificazione JCI. Il tema della clinical competence e quello delle competenze distintive deve riprendere nella nostra Associazione: rappresenta un’occasione per riflettere sulla formazione dell’internista del futuro e una traccia per il lavoro che una associazione così importante come la nostra può e deve svolgere.
Problematiche infettivologiche emergenti per l’internista Simone Meini(1), Francesco Menichetti(2), Carlo Tascini(2) 1) UOC Medicina Interna. Spedali Riuniti Santa Maria Maddalena di Volterra. ASL 5 Pisa 2) UOC Malattie Infettive. Ospedale Cisanello Pisa. AOUP. Negli ultimi anni si è assistito ad un importante incremento delle antibioticoresistenze, tanto che germi un tempo considerati “facili” rappresentano oggi, sempre più frequentemente, una vera e propria sfida per le nostre scelte terapeutiche. È il caso ad esempio dell’E. coli, che secondo l’ultimo report ECDC 2009 presenta una proporzione di ceppi resistenti alle cefalosporine di terza generazione del 10‐25%, nella maggior parte dei casi mediata dalla produzione di ESBL: in Italia la proporzione di ceppi di Enterobacteriaceae ESBL+ raggiunge quasi il 30%; per i fluorochinoloni i ceppi di E. coli resistenti salgono poi addirittura al 25‐50% degli isolati. Altre Enterobacteriaceae presentano resistenze anche più complesse: sempre più spesso, specie nei settings delle “residenze sanitarie assistite”, si assiste all’isolamento di ceppi di K. pneumoniae produttori di carbapenemasi, quali la KPC, che rendono il nostro armamentario farmacologico ristretto e in certi casi inadeguato, obbligando all’uso di nuovi/vecchi antibiotici, all’uso di associazioni sinergiche e a nuove strategie. Il problema assume quindi una dimensione più ampia, di igiene pubblica, imponendo talvolta di adottare difficili misure di isolamento per situazioni che invece sono sempre più frequenti. Tutto ciò, in gran parte, è stato causato dall’uso indiscriminato e irrazionale che si è fatto nel tempo degli antibiotici, ma è arrivato oggi il momento di ripensare seriamente ad un nuovo approccio mentale alla gestione di terapie, non solo empiriche ma anche mirate (necessità di uno sforzo ad una approfondita lettura “fenotipica” dell’antibiogramma), che sono la conseguenza di ragionamenti effettivamente complessi ma ineludibili. Tra gli aspetti più importanti al momento di impostare una “terapia empirica ragionata”, dovremmo quindi considerare come centrale il potenziale “impatto ecologico” delle nostre scelte, sia nei confronti dell’equilibrio microbiologico del singolo paziente sia di quello della comunità. Il problema è poi reso più articolato e fortemente diversificato rispetto al recente passato dal fatto che l’Italia, dal gennaio 2011, ha aderito ai criteri EUCAST, e quindi la situazione delle antibioticoresistenze è incrementata semplicemente per la scelta, ex‐officio, di adottare dei limiti di sensibilità più bassi di una, due, spesso tre, diluizioni rispetto al passato e rispetto agli analoghi criteri CLSI per molte combinazioni antibiotico/batterio. Stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione in campo medico, e l’impressione è che fino ad ora troppo poco se ne sia percepita la reale importanza. Inoltre sono state fatte delle “scommesse”, ragionate ma comunque frutto di esperienze cliniche molto limitate, quale ad esempio quella di riportare sempre per le Enterobacteriaceae le MIC alle cefalosporine “as found”, fornendo al clinico la possibilità di usare in certi casi questi antibiotici anche in caso di ceppi ESBL+, a differenza di quanto avveniva fino appena ad un anno fa: solo il tempo dirà se questa scommessa sia stata vincente. Tra i molti quesiti aperti dalle riflessioni sopra fatte, ci si chiede inoltre quanto sia corretto il modello organizzativo attuale dei grandi servizi centralizzati di microbiologia che garantiscono i grandi numeri ma non sono sempre capaci di gestire problemi di livello più elevato, mentre invece le difficili situazioni di antibioticoresistenza oggi presenti rendono necessario uno stretto dialogo e una interazione sinergica tra
Clinico e Microbiologo, e quindi imporranno da parte di entrambi la condivisione di un unico linguaggio e di un unico fine.
L’hospitalist e l’hospital medicine: una nuova realtà della medicina interna Carlo Nozzoli Dip.to Area Medica ‐ A.O. "Careggi" La Hospital Medicine nasce negli Stati Uniti con la creazione di una figura di specialista capace di prendersi cura all’interno degli ospedali dell’iter assistenziale dei pazienti in maniera da garantire continuità durante il ricovero e nella fase di dimissione. L’organizzazione americana degli ospedali infatti per molti anni prevedeva che questa continuità, al di la degli interventi degli specialisti, fosse garantita dal medico di famiglia. Questo sistema ha visto crescenti difficoltà anche per la variazione della tipologia dei pazienti sempre più critici e complessi e che quindi richiedevano interventi medici frequenti nell’arco delle 24 ore. L’hospitalist in oltre il 90% dei casi è un internista che segue il paziente dall’ingresso alla dimissione nelle sue diverse problematiche mediche sia in condizioni di stabilità che di urgenza. In questa sua attività si sono sviluppate negli anni competenze sia sulla medicina critica che su quella post‐operatoria e sono in essere programmi di co‐management sia con i rianimatori che con i chirurghi. In Italia in maniera del tutto autonoma e in una organizzazione profondamente diversa il ruolo dell’internista si sta avvicinando molto a quello dell’hospitalist americano soprattutto per le esperienze realizzate in diversi ospedali di co‐management in area critica, di chirurgia generale e di ortopedia. La popolazione che si ricovera in ospedale anche in reparti specialistici è oggi sempre più anziana, affetta da polipatologia e in polfarmacoterapia. Per assistere al meglio il paziente con una visione globale delle sue necessità assistenziali e anche per un corretto rapporto con il territorio e i suoi attori, l’internista appare, anche in Italia, la figura specialistica più adatta a svolgere questo delicato compito di regia del piano assistenziale del paziente e di intervento nelle situazioni di urgenza del paziente stesso durante il ricovero ospedaliero.
I quadri infiammatori addominali acuti (tra Medicina e Chirurgia) Alessandro Pampana Dir. U.O. Medicina Interna Ospedale di Cecina, Asl 6 Livorno Sempre più spesso sono ricoverati in ambiente internistico, con diagnosi di quadro infiammatorio addominale acuto o con segni e sintomi che ne facciano sospettare la presenza, pazienti che in passato erano affidati alla Chirurgia. Sono stati scelti, come emblematici, i quadri della diverticolite acuta, della pancreatite acuta e della colecistite acuta. La diverticolite acuta non complicata (75% dei casi) può essere trattata in ambiente internistico; non è sempre facile diagnosticare una diverticolite complicata (25% dei casi), che richiede quasi sempre l'intervento del chirurgo, ed il tipo di complicazione. La Tc è utile in questo contesto, anche se è segnalata una percentuale del 2‐21% di falsi negativi. La collocazione nel tempo dell'intervento chirurgico è controversa. Anche la pancreatite acuta edematosa (75‐85% dei casi) può essere trattata in ambiente internistico, anche se molti aspetti della terapia medica sono tuttora controversi; è indispensabile stabilire sin dal primo momento le caratteristiche del caso in esame attraverso l'uso di scores noti e diffusi per definire la presenza della forma più grave, necrotica (15‐25% dei casi) e verificare comunque l'evoluzione di tutti i casi in esame con gli stessi scores. In base ai risultati i pazienti dovranno esser affidati alla terapia intensiva o alla chirurgia. Vi sono proposte di punteggi, alla valutazione con scores, che indicano l'opportunità di trasferimento del paziente in Centri di riferimento. Le attuali evidenze in letteratura indicano che la colecistectomia laparoscopica entro le 72 ore è il trattamento della colecistite acuta che, quando possa essere attuato, riduce il tempo di ricovero e il rischio di nuovi ricoveri, con il miglio rapporto costo/beneficio; i casi severi, con disfunzioni d'organo, dovrebbero essere trattati chirurgicamente quando queste difunzioni siano state affrontate. Non vi è alcuna evidenza dell'utilità della terapia antibiotica ed antiinfiammatoria. Queste situazioni indicano l'opportunità di un nuovo tipo di interazione tra Medicina e Chirurgia piuttosto che di un passagio di consegne dall'una all'altra.
Dalle linee guida del TEV della Regione Toscana alla pratica clinica Grazia Panigada U.O.C. Medicina Interna Ospedale "Santi Cosima e Damiano" – Pescia (PT) La maggior parte dei pazienti ospedalizzati presenta almeno un fattore di rischio per TEV e circa il 40% ne ha tre o più. In assenza di profilassi, l’incidenza di TVP oggettivamente documentata varia dal 10 al 40%, e raggiunge il 40‐60% nei pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia ortopedica. La mortalità e la morbosità a breve e lungo termine ed i costi correlati al TEV supportano la necessità di misure di profilassi almeno nei pazienti a rischio moderato‐elevato. Numerosi studi clinici documentano che la profilassi antitromboembolica rimane sottoutilizzata, e questo soprattutto in ambito medico. Nonostante nella nostra realtà gli episodi trombo embolici venosi in ospedale si siano ridotti, tuttavia eventi sentinella hanno indotto il Centro per la Gestione Rischio Clinico e Sicurezza dei Pazienti della Regione Toscana a implementare un progetto di sviluppo di strumenti di prevenzione del TEV che ha coinvolto specialisti di tutte le branche tra cui diversi internisti che ha condotto alla promulgazione di linee guida. Il paziente internistico acuto è a rischio di tromboembolismo venoso (TEV) al pari del paziente chirurgico: in assenza di profilassi è infatti possibile documentare una trombosi venosa profonda (TVP) nel 15% dei casi(Geerts 2008). Lo studio italiano GEMINI (Gussoni 2009), prospettico,osservazionale, condotto su oltre 4000 pazienti ricoverati in ospedali distribuiti su tutto il territorio nazionale, ha documentato nei pazienti ricoverati in Medicina Interna un’incidenza di TEV sintomatico del 3.65%. Questo dato è in linea con i 3 grandi trials: MEDENOX( Samama 1999), PREVENT (Leizorovicz 2004), ARTEMIS (Cohen 2006)che hanno definito l’entità del problema e stabilito l’efficacia della profilassi antitrombotica con eparina a basso peso molecolare (EBPM) e fondaparinux in questa categoria di pazienti. Il TEV continua ad essere un riscontro più frequente nel paziente internistico rispetto al paziente chirurgico: negli ultimi 20 anni infatti l’embolia polmonare fatale si è ridotta del 78% in Chirurgia a fronte di una ben più modesta diminuzione (18%) in Medicina Interna(Geerts 2008) . Numerosi studi documentano che nei reparti di Medicina Interna non vi è un corretto utilizzo della profilassi antitrombotica (Gussoni 2009)con una tendenza alla sotto‐prescrizione con percentuali di uso comprese fra meno del 30% e circa il 50% nei pazienti che ne avrebbero indicazione nonostante le evidenze di provata efficacia. Nello studio ENDORSE (Cohen 2008) (cross‐sezionale, internazionale, condotto su oltre 60.000 pazienti ospedalizzati) solo il 40% dei pazienti internistici con indicazione a profilassi secondo le raccomandazioni dell’American College of Chest Physicians (ACCP) veniva effettivamente trattato. Un insoddisfacente impiego della profilassi viene riportato anche nel registro IMPROVE. (Tapson 2007) Nella realtà italiana lo studio GEMINI ha evidenziato un’applicazione della profilassi nel 58.7% dei casi in cui vi era l’indicazione in accordo alle linee‐guida internazionali ACCP. Uno studio americano ha mostrato che il 52% dei pazienti che sviluppava TEV in ospedale aveva ricevuto una tromboprofilassi per lo più a dosi inappropriate. La difficoltà di eseguire una corretta profilassi, nei tempi e nei modi, nelle degenze internisti che nasce da diversi elementi: in primo luogo, dalla problematica stratificazione del rischio in classi omogenee per l’eterogeneità dei pazienti dovuta alla loro complessità, alla costante polipatologia e all’ età avanzata e, in
secondo luogo, dalla frequente presenza contemporanea di un elevato rischio emorragico(Fontanella 2008). Tali problematiche sono state attentamente ponderate nella stesura delle linee guida regionali, pur tuttavia non riuscendo a risolverle tutte. Nel paziente internistico, oltre le già descritte incertezze di ordine statistico‐epidemiologico, vi sono poi problemi connessi con altre difficoltà intrinseche quali: una diagnosi precoce di fatto difficile, l’insorgenza spesso asintomatica del TEV, la bassa sensibilità delle tecniche non invasive, ma soprattutto, l’ampia scelta di diagnosi alternative al TEV. La parte delle linee guida riguardante la Medicina Interna ha tenuto conto dell’ esperienza di pratica clinica svolta in 23 unità di Medicina Interna della nostra Regione mediante la somministrazione a tutti i pazienti al momento del ricovero di una scheda che stratificava il rischio individuale e proponeva la conseguente profilassi da adottare nel singolo paziente. Tale strategia è stata già ben accolta, non si sono verificati problemi nell’utilizzo. Nessuno dei partecipanti ha lamentato eccessivo dispendio di tempo. E’ risultato che il 68% dei pazienti ricoverati necessitava di profilassi farmacologica. Il 30% era da considerare ad altissimo rischio tanto da prevedere l’aggiunta di mezzi fisici di prevenzione. I pazienti presentavano spesso polipatologia tanto che il 40% aveva più di tre fattori di rischio. I risultati indicano che nella maggioranza dei ricoverati nei Reparti di Medicina Interna della Toscana è indicata una profilassi per il TEV. Questo è giustificato dall’ età avanzata e dalla polipatologia dei pazienti ricoverati. Le linee guida regionali hanno scelto diffusamente di utilizzare un approccio individualizzato basandosi sulla stima del rischio nel singolo paziente come somma tra fattori individuali e fattori legati al motivo di ospedalizzazione. Nel caso del paziente internistico i due tipi di fattori coincidono. I fattori di rischio sono stati graduati in base al peso che essi comportano come rilevato in letteratura (Anderson 2003, Di Minno 2005, Samama 2006) e suddivisi in quelli ad alto grado ed in quelli a grado moderato‐lieve. I fattori di alto grado presentano tutti un OR fra 2 e 9 e a ciascuno è stato attribuito arbitrariamente il punteggio di 2:Storia personale di TEV, Trombofilia congenita, Sindrome da anticorpi antifosfolipidi, Emiplegia o paraplegia da danno neurologico, Cancro in fase attiva, Sindrome mieloproliferativa, Chemioterapia o radioterapia, Insufficienza respiratoria con NIV, Scompenso cardiaco classe NYHA III/IV, Sepsi, Gravidanza o puerperio. Ai fattori di medio‐basso grado che hanno un OR < 2 è stato attribuito un punteggio di 1: Storia familiare di TEV, Obesità ( BMI > 30), Pillola contraccettiva e terapia ormonale sostitutiva post‐menopausa già dal primo mese di assunzione e per 30 giorni dalla sospensione, Trombofilia congenita eterozigote, Varici importanti (insufficienza venosa cronica), Malattia infiammatoria cronica intestinale, Insufficienza respiratoria o BPCO riacutizzata, Presenza di CVC, Sindrome nefrosica, Recente ( < 1 mese) chirurgia e/o trauma, IMA, Malattia infettiva acuta. Per quanto riguarda la ipomobilità si è considerata solo l’immobilità totale > 3 giorni, attribuendogli un punteggio di 1,5 ( Hull 2010). Per l’età è stato considerato che l’età > 40 anni espone ad un rischio superiore che tende a raddoppiare per ogni successiva decade (Anderson 2003). Pertanto è stato attribuito il punteggio di 0,5 per l’età fra 40‐60 anni, 1 per l’età fra 60‐75 anni, 1,5 per l’età > 75 anni.( Di Minno 2005). Le linee guida enfatizzanto la necessità di stimolare la mobilizzazione e la adeguata idratazione su tutti i pazienti ricoverati come misure generali di prevenzione re quindi anche nel paziente interni stico.
I mezzi fisici sono consigliati in caso di controindicazioni alla profilassi farmacologica per alto rischio emorragico e in combinazione con la profilassi farmacologica allo scopo di ridurre l’incidenza di TVP nei pazienti ad altissimo rischio. Molto utilmente le linee guida ribadiscono la necessità di una valutazione anche del rischio emorragico nei pazienti che devono eseguire la profilassi farmacologica attenendosi alle controindicazioni assolute e relative di tali farmaci e stimolando la profilassi meccanica quando quella farmacologica non può essere effettuata. Viene anche ribadita la necessità di iniziare la profilassi farmacologica non appena rischio emorragico è controllato se persiste ancora il rischio trombotico. Dunque la valutazione del rischio deve essere dinamica, non solo all’ingresso in reparto , ma reiterata quando le condizioni varino. Per la scelta delle molecole da utilizzare si fa riferimento alla letteratura internazionale. Nel paziente interni stico con ampie metanalisi (Wein 2007, Kannan 2007) la ENF si è dimostrata inferiore rispetto a EBPM/Fondaparinux che si associano anche a minori complicanze emorragiche sia in sede di iniezione che generali. Per Enoxaparina, Dalteparina e Fondaparinux sono disponibili studi in pazienti internistici (Samama 1999, Leizorovicz 2004, Cohen 2006)che ne hanno dimostrato l’efficacia rispetto al placebo. Per la Nadroparina sono disponibili solo studi in particolari subset internistici (insufficienza respiratoria)(Fraisse 2000) con campioni di numerosità limitata . Le linee guida segnalano inoltreche solo l’ Enoxaparina e il Fondaparinux hanno riportato nell’AIC(Autorizzazione all’Immissione in Commercio rilasciata dal Ministero della Salute italiano) la indicazione alla profilassi del TEV nel paziente internistico. Per altre EBPM (Parnaparina e Reviparina) la indicazione afferma : “ Profilassi della trombosi venosa profonda in chirurgia generale ed ortopedica e nei pazienti a rischio maggiore di TVP” Le EBPM, come l’ENF, necessitano di un controllo periodico dell’emocromo per evidenziare una eventuale piastrinopenia da eparina (HIT) che peraltro si verifica con una frequenza significativamente inferiore rispetto all’ENF (< 1% vs 1‐3% ). Il Fondaparinux non necessita di questi controlli in quanto non si associa a HIT (ne sono stati descritti casi sporadici e dubbi) e può essere usato nei pazienti con allergia o intolleranza alle EBPM non presentando allergia crociata con l’eparina. Inoltre per Fondaparinux sono disponibili più dati circa l’utilizzo della stessa dose anche nei pazienti obesi (BMI > 30) mentre questo è meno chiaro per le EBPM. Particolare attenzione è da prestare al paziente con insufficienza renale cronica (frequente nei reparti internistici). Il Fondaparinux presenta un dosaggio apposito di 1,5 mg da usare in tutti i pazienti con clearance della creatinina fra 20 e 50 ml/min mentre il farmaco è controindicato in pazienti con clearance < 20 ml/min. Per le EBPM si ritiene di rimandare a quanto indicato nelle schede tecniche dei diversi preparati (vedi parte generale) in quanto esistono pochi e controversi dati sulla necessità e sull’entità di una riduzione delle dosi in questi pazienti( Douketis 2008). Nei pazienti con emorragia in atto (cerebrale, gastrointestinale) o gravemente piastrinopenici (<20.000 mm3) o con altri gravi deficit dell’emostasi, la terapia farmacologica anticoagulante è controindicata e bisogna adottare metodi meccanici che nel paziente internistico sono da individuare nelle calze antitrombo. La durata della profilassi è indicata durante il periodo di ricovero e anche più a lungo se permane ipomobilità a domicilio fino ad un massimo di 28 giorni come è indicato dalla studio EXCLAIM (Hull 2010). Di seguito le RACCOMANDAZIONI
Per il paziente medico a rischio di TEV ricoverato in ospedale si raccomanda tromboprofilassi con: Eparina non frazionata (ENF) a basse dosi (Livello I Grado A) Eparina a basso peso molecolare (EBPM) (Livello I Grado A) Fondaparinux (Livello II Grado A) Per i pazienti a rischio di TEV ma con controindicazione alla tromboprofilassi per rischio emorragico si raccomanda l’uso di mezzi meccanici (calze antitrombo e/o compressione pneumatica intermittente) (Livello I Grado B). Come buona pratica clinica il gruppo di esperti raccomanda : � Non considerare routinario l’uso di ENF dato i confronti sfavorevoli con EBPM (sia in termini di efficacia e sicurezza che di praticità di uso) (Livello VI Grado A) � Considerare le EBPM e il Fondaparinux come i farmaci di riferimento per la profilassi (Livello VI Grado A) � Il Fondaparinux andrà preferito nelle seguenti condizioni : (Livello VI Grado A) a) paziente con intolleranza o allergia all’ eparina b) paziente a rischio di HIT o piastrinopenico c) paziente obeso Se queste sono le condivisibili raccomandazioni resta la problematica dell’uso nella pratica clinica. Nella mia azienda nel processo di revisione della cartella clinica condivisa di Area medica, sostenuto dalla gestione del Rischio clinico è stata adottata la scheda che viene utilizzata per la stratificazione iniziale del rischio e per la scelta di profilassi, giornalmente poi nel diario clinico viene richiesta la indicazione del grado di rischio, col fine di correggere eventuali errori e intercettare variazioni del rischio. Vanno comunque utilizzate strategie aggiuntive per sensibilizzare gli internisti e implementarne l’uso, quali per esempio audit clinici e studi ad ok. Una corretta applicazioni di tali strategie permetterà di ottenere un’adeguata stratificazione del rischio ed una conseguente profilassi standardizzata riducendo ulteriormente nel futuro l’incidenza del TEV nel paziente internistico. BIBLIOGRAFIA ‐Geerts WH, Bergqvist D, Pineo GF, Heit JA, Samama CM, Lassen MR, Colwell CW; American College of Chest Physicians. Prevention of Venous Thromboembolism. American College of Chest Physicians Evidence‐Based Clinical Practice Guidelines (8th Edition). Chest 2008; 133: 381S‐454S ‐Gussoni G, Campanini M, Silingardi M, Scannapieco G, Mazzone A, Magni G, Valerio A, Iori I, Ageno W; GEMINI Study Group. In‐hospital symptomatic venous thromboembolism and antithrombotic prophylaxis in Internal Medicine. Thromb Haemost 2009; 101: 893–901 ‐Leizorovicz A, Cohen AT, Turpie AG, Olsson CG, Vaitkus PT, Goldhaber SZ; PREVENT Medical Thromboprophylaxis Study Group. Randomized, placebo controlled trial of dalteparin for the prevention of venous thromboembolism in acutely ill medical patients. Circulation 2004;110:874‐ 879 ‐ Samama MM, Cohen AT, Darmon JY, Desjardins L, Eldor A, Janbon C, Leizorovicz A, Nguyen H, Olsson CG, Turpie AG, Weisslinger N. A comparison of enoxaparin with placebo for the prevention of venous thromboembolism in acutely ill patients. N Engl J Med 1999;341:793‐800. ‐Hull RD, Schellong SM, Tapson VF, Monreal M, Samama MM, Nicol P, Vicaut E, Turpie AG, Yusen RD; EXCLAIM (Extended Prophylaxis for Venous ThromboEmbolism in Acutely Ill Medical Patients With
Prolonged Immobilization) study.Extended‐duration venous thromboembolism prophylaxis in acutely ill medical patients with recently reduced mobility: a randomized trial. Ann Intern Med. 2010;153:8‐18 ‐Douketis J, Cook D, Meade M, Guyatt G, Geerts W, Skrobik Y, Albert M, Granton J, Hébert P, Pagliarello G, Marshall J, Fowler R, Freitag A, Rabbat C, Anderson D, Zytaruk N, Heels‐Ansdell D, Crowther M; Canadian Critical Care Trials Group. Prophylaxis against deep vein thrombosis in critically ill patients with severe renal insufficiency with the LMWH Dalteparin: an assessment of safety and pharmacodynamics” Arch Internal Med 2008;168:1805‐1812 ‐Fontanella A. Stratificazione del rischio e profilassi nel paziente medico. – nel capitolo “Disease Management del tromboembolismo venoso. Nuovi aspetti di profilassi, diagnosi e terapia.” Italian Journal of Medicine 2008; 2(3 Suppl 1): 15‐20.
Scompenso di cuore nelle donne Giuseppe Pettinà U.O. Medicina P.O.Pistoia Nelle donne la mortalità per malattie cardiovascolari supera di gran lunga quella determinata dal tumore del seno o del polmone e anche se per il 50% è causata da coronaropatia (CHD) , lo scompenso cardiaco (SC) è responsabile almeno del 30% dei casi. L’incidenza dello SC aumenta con l’età ed è maggiore nei maschi; tuttavia la prevalenza è maggiore nelle femmine nelle fascie di età oltre 80 anni : questa apparente discrepanza è determinata dalla minor mortalità delle donne in parte dovuta al fatto che è più frequente la situazione emodinamica di SC con conservata funzione ventricolare sinistra . Le dimissioni ospedaliere per SC sono in aumento , ma l’incremento è maggiore per le donne. Ipertensione arteriosa, obesità e diabete sono fattori di rischio più frequenti nelle donne Tuttavia i dati disponibili, relativi alla popolazione americana dove esiste una consistente differenza di distribuzione dei vari fattori di rischio fra donne bianche e di colore, vanno interpretati non solo come differenze di genere ma anche di razza. L’eziologia dello SC nelle donne è meno frequentemente dovuta a CHD e più spesso a ipertensione arteriosa e malattia valvolare. La sintomatologia non è sostanzialmente diversa nei due sessi . La situazione emodinamica di disfunzione ventricolare sinistra è più rara nelle femmine ( 49% vs 72%) ma la prognosi in questo gruppo è peggiore che nei maschi . La terapia dello SC nelle donne può essere considerata empirica in quanto la presenza femminile nei vari studi che hanno determinato il corretto uso dei farmaci e dei presidi è stata mediamente del 28%. Dai dati disponibili sembra dimostrata l’efficacia di riduzione di morbilità/mortalità per beta bloccanti, antialdosteronici e CRT , mentre non mostrano gli stessi benefici ACEI o ICD.
Anomalie del transito: quadri occlusivi e sub occlusivi Guidantonio Rinaldi U.O.Medicina Ospedale Media Valle di Lucca L'occlusione intestinale da sempre è stata studiata e trattata in termini ed ambiti chirurgici .Tuttavia la complessità assistenziale del paziente che oggi si ricovera negli Ospedali Toscani, spesso anziano ed affetto da pluripatologie, ha coinvolto in misura sempre più pressante l'Internista ed altri Specialisti di area Medica, vuoi per la stabilizzazione del paziente prima dell'intervento, vuoi per la gestione delle eventuali complicanze mediche periprocedurali . Scopo della relazione è una revue degli aspetti della alterata canalizzazione intestinale, con particolare attenzione alla clinica, oggi talora trascurata a vantaggio di tecnologie sempre più complesse e prevaricanti, e non sempre appropriatamente adoperate. Una particolare attenzione è stata destinata alla pseudostruzione intestinale, acuta e cronica, che pur condividendo manifestazioni cliniche con l'ileo meccanico ,è in realtà patologia di interesse prevalentemente medico e necessita di un approccio terapeutico quanto meno integrato e multidisciplinare.
Focus on fibrillazione atriale ruolo del MMG Mauro Ruggeri MMG Presidente Regionale SIMG Toscana La fibrillazione atriale ( FA) con una prevalenza del 1‐2% rappresenta l’aritmia cardiaca più frequente nella popolazione, in particolare in quella anziana. La FA si associa allo scompenso cardiaco ne è spesso causa o concausa ma anche conseguenza . Inoltre può favorire la formazione di trombi atriali con conseguenti fenomeni trombo embolici. I pazienti con FA vanno incontro ad un rischio di ictus cinque volte maggiore rispetto alla popolazione che non presenta questa aritmia. La FA comporta una riduzione della qualità della vita e raddoppia il rischio di morte. Secondo i dati di Health Search , istituto di ricerca di SIMG, ogni MMG ha in carico dai 18 ai 20 pazienti di età maggiore di 40 anni con FA ogni 1000 assistiti. Tuttavia, visto l’alto numero di forme silenti, la prevalenza della FA è sicuramente sottostimata. Ruolo e competenze del MMG nella gestione della FA si caratterizzano in relazione alle principali modalità di presentazione dei pazienti con FA in medicina generale:
Pazienti con FA cronica misconosciuta : non tutti i pazienti con FA vengono identificati, il MMG è in grado di attuare una valutazione sistematica ed opportunistica dei soggetti a rischio. La palpazione del polso radiale può rilevare una FA con una sensibilità del 94%, ma con una specificità del 72% ; pertanto un ECG è sempre necessario.
Pazienti con FA in atto : nel caso di primo riscontro di FA se l’insorgenza è sicuramente recente (< 48 ore) il MMG invia il paziente a consulenza immediata utilizzando possibilmente canali preferenziali, per la valutazione della opportunità della cardioversione ed eventuale trattamento. Se l’insorgenza non è sicuramente recente o la FA è persistente, il MMG effettua una valutazione preliminare dell’opportunità della cardioversione,in caso di dubbio invia allo specialista. Effettua una valutazione anamnestica , clinica e laboratoristica dei fattori predisponenti e/o scatenanti e dello stato emocoagulativo . Prescrive e gestisce l’eventuale terapia antitrombotica in autonomia o in collaborazione con lo specialista.
Follow‐up del paziente con FA cronica : il MMG valuta la frequenza cardiaca e ne attua l’eventuale controllo farmacologico da solo o in collaborazione con lo specialista. Valuta l’opportunità di instaurare una terapia antitrombotica attraverso la stratificazione del rischio trombo embolico ( uso schema CHADS2 per FA non associata a patologia valvolare), considerando il rischio emorragico ( schema HAS‐BLED) e giudicando la fattibilità di una adeguata TAO. Prescrive e gestisce l’eventuale terapia antitrombotica in autonomia o in collaborazione con lo specialista.
Follow‐up del paziente con FA parossistica : il MMG attua il monitoraggio della eventuale terapia antiaritmica e analogamente alla gestione del paziente con FA cronica, valuta l’opportunità della terapia antitrombotica, prescrive e gestisce la terapia stessa. In conclusione la corretta gestione del paziente con FA deve prevedere la realizzazione di efficienti percorsi clinico‐assistenziali e la profonda integrazione delle competenze del MMG con quelle dello Specialista.
BPCO all’ultimo respiro: la terapia broncodilatatoria Emilio Santoro UOC Medicina Casentino, Bibbiena , AUSL 8 Arezzo La BPCO è una malattia che presenta più componenti quali la broncoostruzione, l’infiammazione delle vie aeree e sistemica, le modifiche strutturali causate dal rimodellamento delle vie aeree e dall’enfisema, e la disfunzione mucociliare . La terapia della BPCO è stata classicamente focalizzata sulle alterazioni del flusso aereo e sul declino della funzione respiratoria. Poiché i sintomi della BPCO riflettono la natura complessa della BPCO, l’approccio terapeutico corrente ha come bersagli sia l’infiammazione che sottende la BPCO che i sintomi legati alle alterazioni della ventilazione . Principi ed obiettivi della terapia farmacologica sono migliorare sintomi e qualità della vita, aumentare la tolleranza allo sforzo, migliorare le alterazioni funzionali (ostruzione, iperinflazione polmonare, lavoro respiratorio) ridurre le riacutizzazioni, rallentare la evoluzione della malattia, ridurre la mortalità. I broncodilatatori hanno un ruolo centrale nel trattamento della BPCO in quanto riducono i sintomi respiratori, aumentano la tolleranza allo sforzo, riducono le riacutizzazioni e migliorano la qualità di vita, ma non rallentano la progressione della malattia né riducono la mortalità . La via di somministrazione raccomandata è quella inalatoria . I farmaci broncodilatatori a breve durata d’azione (salbutamolo, ipratropio bromuro e loro combinazione) sono i farmaci più efficaci per la riduzione al bisogno dei sintomi respiratori. I broncodilatatori a lunga durata d’azione sono efficaci nel trattamento regolare per controllare o migliorare i sintomi e lo stato di salute. I beta2‐agonisti a durata d’azione > 12 ore (salmeterolo, formoterolo) e i beta2 agonisti (indacaterolo) e gli anticolinergici (tiotropio) a durata d’azione > 24 ore sono i broncodilatatori inalatori di prima scelta per il trattamento regolare . Tutti sono farmaci sicuri. E’ prevista la combinazione di broncodilatatore beta2‐agonista (salmeterolo,formoterolo, indacaterolo) con anticolinergico (tiotropio) a lunga durata d’azione e la combinazione di broncodilatatore beta2‐agonista (salmeterolo o formoterolo) con steroide inalatorio. Come pure la combinazione di beta‐2 agonista (salmeterolo o formoterolo) +anticolinergico + steroide inalatorio. Talora è possibile l’ aggiunta di teofillina.
Binomio Etica‐Economia Sandro Spinsanti Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica di Roma Il modello di etica dell’organizzazione sociale dei servizi sanitari fa riferimento ai valori sottostanti all’organizzazione e alla erogazione dei servizi sanitari. In passato esistevano criteri etici diversi. Per esempio, era considerato giustificato che potessero accedere alle cure mediche i ricchi e benestanti sulla base di una prestazione professionale, e quindi a pagamento; per i poveri, invece, erano previsti dei servizi di tipo caritativo o di beneficenza. La nostra organizzazione sociale dei servizi sociali e sanitari è andata modellandosi sempre più sul criterio universalistico: tutti i cittadini hanno diritto alle cure sanitarie, indipendentemente dal loro reddito. In Italia questo modello è diventato legge nel 1978, con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Le modifiche sopravvenute negli anni ’90 ‐ decreti di riordino e razionalizzazione del Ssn ‐ non hanno mutato questo impianto generale; tuttavia, introducendo le modifiche che si sintetizzano nel concetto globale di “aziendalizzazione”, hanno cambiato i parametri di riferimento con cui valutiamo la quantità etica dei servizi sanitari erogati. Il malato non deve essere solo informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve anche essere considerato come un “cliente” al quale vengono rivolti dei servizi. Non ha solo dei bisogni di salute ai quali vuole una risposta efficace; né basta considerarlo come un cittadino con dei diritti da rivendicare: in quanto “cliente”, vuole anche essere soddisfatto. Soddisfare i pazienti diventa un'esigenza strategica per la sopravvivenza dell'azienda sanitaria territoriale. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all'altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell'azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un'altra struttura, l'azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per motivi ideali (carità cristiana o filantropia) oppure per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell'azienda, e quindi per il proprio interesse, in quanto partecipi dell’azienda. Il modello di qualità postmoderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l'azione sanitaria. Innanzi tutto l'interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l'uso delle risorse e produrrà un paziente‐cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell'interrogativo etico viene modificata. Nell'etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l'azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l'azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l'azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l'equità sociale, sia l'attenzione agli interessi dell'azienda. La qualità, ovvero il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma integrarsi con essi. La "buona" medicina deve sempre mirare a guarire in maniera rapida, efficace e duratura; per questo deve fornire le cose giuste. Ma ciò non basta:
deve anche preoccuparsi di fornirle nel modo giusto, rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste esigenze si aggiungono ora anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell'orizzonte della giustizia in considerazione dell'accesso ai servizi e dell'equa distribuzione delle risorse: la buona medicina deve fornire le cose giuste, nel modo giusto, a tutti coloro che ne hanno diritto e bisogno. L'ideale medico dell'epoca post‐moderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell'azienda post‐moderna: è necessario di dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell'équipe. Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma bisogna subito aggiungere che il nostro obiettivo non è il cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì il cliente “giustamente” soddisfatto (in medicina non si potrà mai applicare lo slogan secondo cui “il cliente ha sempre ragione”!). Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio. La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall'integrazione delle esigenze che nascono dall'etica medica, da quelle della bioetica, e delle esigenze infine di quella nuova stagione dell'etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell'economia, e che possiamo chiamare etica dell'organizzazione. Per la precisione, da tutt'e tre contemporaneamente. Le stagioni dell'etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell'assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali.
La BPCO… Infiammazione e terapia steroidea Guido Vagheggini Unità Respiratoria ‐ Centro di riabilitazione Auxilium Vitae Volterra Il trattamento regolare con corticosteroidi inalatori è indicato nei pazienti con VEMS ≤50% del teorico (stadio III grave e stadio IV molto grave) con riacutizzazioni frequenti (3 o più negli ultimi 3 anni) trattate con corticosteroidi sistemici e/o antibiotici (prova di efficacia A). Il loro uso va valutato in relazione al rischio di effetti collaterali dell’uso cronico a dosi elevate (effetti sistemici e rischio di polmoniti). Nei pazienti in cui sono indicati sia i broncodilatatori a lunga durata d’azione che i corticosteroidi inalatori (BPCO moderata‐grave, molto grave), la somministrazione di questi farmaci in combinazione mostra una migliore efficacia rispetto ai singoli componenti su diversi parametri clinico‐funzionali (sintomi, funzione polmonare, tolleranza allo sforzo e qualità della vita) e, soprattutto, determina una riduzione del numero e della gravità delle riacutizzazioni (prova di efficacia A). Nel caso dei beta2‐agonisti a lunga durata d’azione, l’uso delle combinazioni precostituite (salmeterolo più fluticasone, formoterolo più budesonide) può migliorare l’adesione al trattamento (prova di efficacia C). In un recente studio clinico prospettico randomizzato e controllato condotto su oltre 6000 pazienti, l’associazione salmeterolo/fluticasone ha prodotto una riduzione della mortalità (obbiettivo primario dello studio) del 17,5%, ai limiti della significatività statistica (Calverley 2008). Gli inibitori delle PDE‐4 (fosfodiesterasi 4) cilomilast e roflumilast agiscono aumentando la concentrazione cellulare dell’AMP ciclico ed esplicando effetti prevalentemente antinfiammatori. In studi randomizzati e controllati, hanno lasciato intravedere qualche potenzialità di attenuare il declino della funzione respiratoria e di diminuire le riacutizzazioni della malattia, specie in aggiunta ai broncodilatatori inalatori a lunga durata d’azione (salmeterolo e tiotropio) (Calverley 2009, Fabbri 2009).
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