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Opportunità di occupazione, soddisfazione e fuga dei laureati meridionali1 (versione preliminare)
Daria Ciriaci
Abstract: Questo articolo si propone di descrivere la fuga delle risorse umane qualificate dal
Mezzogiorno verso il resto del Paese e di contribuire a due dibattiti, quello sulle cause e le
conseguenze di tale fuga e quello sulla direzione di causalità tra presenza di risorse umane
qualificate e specializzazione produttiva, inserendoli nel quadro del dualismo economico italiano. A
questo fine sono stati elaborati i dati individuali dell’indagine ISTAT sull’inserimento professionale
dei laureati (considerati come proxy del capitale umano qualificato) del 2001 a tre anni dalla laurea.
L’evidenza empirica suggerisce che è la necessità di trovare un lavoro qualsiasi a motivare
la fuga dei giovani laureati meridionali dalla loro area di residenza e che l’insufficienza dell’attuale
livello di qualificazione delle risorse umane e la fuga di gran parte di quelle che si formano
costituiscono, non tanto la causa del mancato sviluppo dell’area, ma proprio la sua principale
conseguenza. È più un problema di caratteristiche strutturali della domanda piuttosto che di carenza
nell’offerta di capitale umano. La forza lavoro meridionale “laureata” si dirige laddove è richiesta
“forza lavoro” e trova occupazioni spesso inadeguate rispetto al titolo conseguito.
JEL classification: F 22; J 24; J 61
Keywords: Brain-drain, geographic labour mobility, demand for labour.
� Università degli Studi “La Sapienza”, Dipartimento di Scienze Economiche, Roma; e-mail:
dariaciriaci@msn.com.
2
Opportunità di occupazione, soddisfazione e fuga dei laureati meridionali2 (versione preliminare)
di Daria Ciriaci
1. Premessa
Questo articolo si propone di analizzare la fuga delle risorse umane qualificate (il cosiddetto
brain-drain) tra due aree appartenenti allo stesso Paese. In particolare, si vuole descrivere il brain-
drain in atto dal Mezzogiorno verso il resto del Paese e contribuire a due dibattiti piuttosto attuali -
il primo riguardante le cause e le conseguenze di tale fuga e, il secondo, la direzione di causalità tra
presenza di risorse umane qualificate e specializzazione produttiva - inserendoli nel quadro del
dualismo economico italiano. Si ritiene, infatti, che questo fenomeno non sia stato adeguatamente
considerato dalla letteratura e che, data la sua entità, meriti almeno la stessa attenzione di quella
riservata alla più contenuta fuga dei cervelli italiani all’estero.
Al fine di mostrare l’entità del problema e di porne in risalto le cause e le conseguenze,
sono stati elaborati i dati individuali dell’indagine statistica sull’inserimento professionale dei
laureati condotta dall’ISTAT nel 20043 e riguardante i laureati italiani del 2001, considerati come
proxy del capitale umano qualificato.4
� Università degli Studi “La Sapienza”, Dipartimento di Scienze Economiche, Roma; e-mail:
dariaciriaci@msn.com. 2 L’autrice ringrazia il Direttore dell’ISTAT per l’autorizzazione ad elaborare i dati individuali dell’Indagine
statistica sull’inserimento professionale dei laureati del 2001, il Dott. Giovanni Seri, responsabile del laboratorio Adele, per la sua disponibilità e collaborazione e il Dott. Stefano Prezioso della SVIMEZ. La responsabilità di quanto scritto nelle pagine seguenti rimane, naturalmente, solo dell’autrice. Questo articolo costituisce una rielaborazione del terzo capitolo della tesi di dottorato che l’autrice si appresta a discutere nel corso del 2006.
3 La popolazione di riferimento dell’Indagine statistica sull’inserimento professionale dei laureati dell’anno 2001 è costituita dai laureati dell’anno solare 2001 in tutte le sedi universitarie italiane per un totale di 155.664 individui (67.913 uomini e 87.751 donne) che sono stati intervistati nel 2004, a tre anni dalla laurea. La dimensione campionaria teorica complessiva è risultata pari a circa 26.000 unità. In questa popolazione sono inclusi anche 1.340 laureati nei nuovi corsi di primo livello (lauree triennali).
4 Abbiamo deciso di considerare il laureato come proxy del lavoratore qualificato perchè, in un’economia sempre più indirizzata verso sistemi produttivi ad alta intensità tecnologica, l’educazione di livello universitario appare il miglior completamento per i settori ad alta intensità di R&S e condizione indispensabile per utilizzare proficuamente tecnologie sviluppate in altri paesi. La dotazione di lavoratori qualificati, da noi considerata endogena, contribuisce alla
3
Per avere un’idea della rilevanza del fenomeno che approfondiremo, basti pensare che circa
il 39,5% dei laureati meridionali del 2001 e circa il 31% dei laureati meridionali del 1998, ossia di
coloro che prima dell’iscrizione all’università risiedevano in una regione del Mezzogiorno e che, a
tre anni dalla laurea, si dichiarano occupati (13.666 su 34.585 nel primo caso e 8.454 su 27.170 nel
secondo), lavora nel Centro-Nord. Per di più, circa il 63% dei laureati meridionali del 2001 e il 55%
dei laureati del 1998 che hanno studiato nel Centro-Nord, dopo aver conseguito la laurea, è rimasto
a lavorare in questa ripartizione.
La prima parte dell’articolo è dedicata all’analisi della mobilità dei laureati del 2001 (a tre
anni dalla laurea) e alla soddisfazione che questa comporta ed è stata condotta secondo la residenza
dei laureati prima dell’iscrizione all’università. Per i motivi che saranno chiariti in seguito, la
descrizione del fenomeno è stata effettuata in modo da enfatizzare la diversa soddisfazione dei
laureati che scelgono o meno di essere “mobili”, il fatto o meno che cerchino un altro lavoro, il tipo
di contratto che ottengono.
La seconda parte dell’articolo chiarirà in che modo, tramite l’analisi descrittiva al centro
del secondo paragrafo, si intenda contribuire al dibattito sulle cause e le conseguenze della fuga di
risorse umane qualificate e al dibattito, a questo ultimo strettamente connesso, sulla direzione di
causalità esistente tra specializzazione produttiva e dotazione di risorse umane qualificate nel nostro
Paese. In particolare, il terzo paragrafo è dedicato a una rassegna critica della letteratura ortodossa
su cause e conseguenze del brain-drain, mentre il paragrafo successivo analizza la corrispondenza
tra l’evidenza empirica, riportata nel secondo paragrafo, e le tesi sulle cause della fuga dei cervelli,
illustrate nel terzo. Il quarto paragrafo presenta il dibattito sulla direzione di causalità tra
specializzazione produttiva e dotazione di risorse umane e analizza la corrispondenza tra le due tesi
presentate e l’evidenza empirica emersa nel corso del capitolo. Infine, il quinto paragrafo conclude
il lavoro.
2. La fuga ante e post-lauream dei laureati del 2001 e la loro “soddisfazione”5
In questo paragrafo si definiranno laureati meridionali coloro che prima dell’iscrizione
all’università risiedevano nel Mezzogiorno e laureati centro-settentrionali coloro che, prima
dell’iscrizione all’università, risiedevano nel Centro-Nord. Per considerare tutti i casi di mobilità
formazione di quelle “social capabilities” à la Abramovitz, essenziali per gestire in modo appropriato la tecnologia e la conoscenza.
5 L’analisi della mobilità dei laureati del 2001 e del 1998 è stata condotta considerando la loro residenza prima dell’iscrizione all’università. La mobilità considerata è quella tra Mezzogiorno e Centro-Nord e non la mobilità interna alla singola ripartizione.
4
possibili, l’analisi è stata realizzata distinguendo quattro tipi di laureati: gli immobili, i mobili
tornati, i mobili non tornati e i mobili post-lauream.6
Gli immobili sono coloro che hanno studiato e lavorano nella stessa ripartizione in cui
risiedevano prima dell’iscrizione all’università. I mobili tornati e i mobili non tornati rientrano nella
definizione più ampia di “mobili ante-lauream” e rappresentano la prima fase della fuga, che si
attua al momento della scelta dell’università. I mobili tornati rappresentano un “arricchimento” per
la regione di residenza perché sono coloro che, pur avendo studiato in un’altra ripartizione rispetto a
quella di residenza iniziale, vi tornano a lavorare dopo aver ottenuto una maggiore qualificazione. I
mobili non tornati sono coloro che, invece, dopo aver conseguito la laurea in una regione centro-
settentrionale hanno deciso di rimanervi a lavorare. Infine, i mobili post-lauream hanno studiato
nella stessa ripartizione di residenza, ma lavorano in un’altra e rappresentano, quindi, i laureati che
si sono spostati solo per motivi di lavoro.
Nel complesso, se si considerano congiuntamente entrambi i momenti della mobilità (il
primo al momento dell’iscrizione all’università, il secondo al momento dell’entrata nel mondo del
lavoro) dei laureati meridionali del 2001 occupati nel 2004, si perviene al risultato che il 40,5%
lavora nel Centro-Nord o all’estero.7 Tale quota risulta molto più elevata sia rispetto a quella
rilevata per i laureati meridionali del 1998, che era pari al 31,1%, che a quella rilevata per i laureati
meridionali del 1995, che era pari al 23,5%.
A tre anni dalla laurea, su circa 55 mila laureati meridionali del 2001, più di 20.500 sono
ancora disoccupati e, dei 34.500 che lavorano, circa il 40% lavora nel Centro-Nord. Quindi, su di un
investimento formativo che ha interessato 55 mila giovani, a tre anni dalla laurea solo 21 mila
hanno trovato lavoro nel Mezzogiorno.8
In altre parole, in Italia non si verifica alcuno “scambio” di cervelli (brain-exchange) tra le
due ripartizioni: a fronte degli 8.453 laureati meridionali del 2001 occupati al di fuori del
Mezzogiorno, solo 536 laureati (di cui 508 sono centro-settentrionali) si sono spostati dal “resto del
6 Lo spunto per questa analisi ci è stato fornito da un articolo di Jahnke del 2001, avente natura descrittiva, che
analizzava la mobilità dei laureati del 1995. L’analisi da noi condotta, riferita alle due indagini successive, se ne differenzia nettamente non solo perché considera due diverse popolazioni (laureati del 1998 e del 2001) e ne consente un confronto, ma perché inserisce il fenomeno della fuga del capitale umano qualificato in un contesto teorico ben definito e pone l’accento, per i motivi che saranno chiari in seguito, non sulla mobilità di per se stessa, ma sui “benefici” che se ne traggono sia in termini economici che in termini di soddisfazione. Di Jahnke, si mantiene l’utile distinzione tra le diverse tipologie di mobilità dei laureati, già nota in letteratura, e l’impostazione di alcune tabelle.
7 Per quanto riguarda le diverse tipologie di mobilità, nel 2004 gli immobili rappresentano circa il 53,7% dei laureati meridionali (il 53,5% degli uomini e il 53,9% delle donne) e il 90% dei laureati centro-settentrionali, i mobili tornati il 6,8% dei laureati meridionali (il 7,7% degli uomini e il 6% delle donne) e lo 0,5% dei laureati centro-settentrionali, i mobili non tornati il 14% dei laureati meridionali (il 12,5% degli uomini e il 15,4% delle donne) e lo 0,2% dei laureati centro-settentrionali; infine, i mobili post-lauream il 25% dei laureati meridionali (26,3% degli uomini e il 24,8% delle donne) e il 3,7% dei laureati centro-settentrionali. Per l’analisi della mobilità dei laureati del 1998 si rimanda a Ciriaci (2005).
5
mondo” per venire a lavorare in quest’area.9 L’evidenza empirica conferma, quindi, sia gli scarsi
esiti occupazionali dei giovani laureati e il conseguente “spreco” delle loro conoscenze scientifiche
che il ruolo che il Mezzogiorno ricopre in quanto regione fornitrice di risorse umane altamente
qualificate e, infine, il netto aumento della rilevanza del fenomeno della “mobilità”, per motivi di
lavoro, dei laureati meridionali.
Tab. 1. Laureati meridionali del 2001 che nel 2004 sono occupati per ripartizione.
Gruppo corso di laureaLaureati
meridionali (totale)
Totale occupati
Tasso di occupazione
Laureati meridionali occupati …nel Mezzogiorno (%)a
…fuori del Mezzogiorno (%)a
Scientifico 1.487 1.001 67,3 54,4 45,6Chimico-farmaceutico 1.775 1.351 76,2 72,9 27,8Geo-biologico 2.315 1.270 54,9 68,3 32,3Medico 2.938 803 27,3 40,7 59,3Ingegneria 6.091 5.233 85,9 59,5 41,6Architettura 2.620 1.935 73,9 57,7 43,5Agrario 1.304 878 67,3 61,1 40,2Economico-statistico 9.712 6.455 66,5 60,7 39,9Politico-sociale 3.902 2.978 76,3 58,8 42,2Giuridico 10.591 5.218 49,3 65,0 36,0Letterario 5.641 3.224 57,2 55,6 46,1Linguistico 2.995 1.679 56,1 58,9 43,4Insegnamento 2.142 1.408 65,7 78,0 22,0Psicologico 1.375 990 72,0 41,8 58,2Educazione fisica 221 162 73,2 44,7 55,3
Totale 55.109 34.585 62,8 60,5 40,5
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT
a Il totale differisce da 100 a causa dei missing. Inoltre, non si riportano le percentuali dei laureati meridionali occupati all'estero per gruppo
di laurea perché di entità trascurabile.
L’elaborazione dei dati individuali delle due ultime indagini ISTAT10 ha anche confermato
che la fuga delle risorse qualificate dal Mezzogiorno verso il resto del Paese, pur favorendone
l’occupazione, non contribuisce alla soddisfazione di chi decide di spostarsi dalla propria
ripartizione per studiare e/o lavorare.
È proprio il laureato meridionale che lavora nel Centro-Nord (il mobile non tornato e il
mobile post-lauream) a dichiararsi maggiormente insoddisfatto del lavoro svolto.
L’analisi della soddisfazione dei laureati che hanno scelto o meno di essere “mobili” è stata
condotta incrociando una serie di quesiti presenti in entrambe le indagini e che forniscono
informazioni circa la soddisfazione del laureato rispetto a diversi aspetti del proprio lavoro:
9 Solo il 9,4% dei laureati centro-settentrionali del 2001, lavora al di fuori della propria ripartizione.
10 Nel presente paragrafo si riportano i dati relativi all’indagine ISTAT del 2004. Per i risultati dell’elaborazione effettuata sui dati individuali dell’indagine del 2001 si rimanda a Ciriaci (2005).
6
trattamento economico; mansioni svolte; stabilità/sicurezza del lavoro; possibilità di carriera;
utilizzo delle conoscenze universitarie.11
L’idea centrale attorno alla quale ruota la seconda parte di questo paragrafo è quella secondo
cui se ci si trovasse di fronte a “vera” mobilità, ossia a una mobilità che consente a un individuo di
trovare un lavoro maggiormente rispondente ai suoi desideri e alle sue aspirazioni, questa dovrebbe
essere vissuta dal laureato come un’occasione. Si presuppone che se un laureato si sposta per
guadagnare di più o per migliorare la propria condizione lavorativa, allora non solo dovrebbe
effettivamente (in termini reali) guadagnare di più di un immobile ed aver ottenuto migliori
condizioni contrattuali, ma dovrebbe ritenersi, nel complesso, più soddisfatto di un immobile e, di
conseguenza, non dovrebbe cercare un nuovo lavoro (o farlo in misura minore di un immobile),
dovrebbe ritenere che la laurea conseguita è sufficiente per il lavoro svolto e aver iniziato a lavorare
nello stesso anno, o prima, rispetto a un immobile. Infine, se il laureato lavora a tempo parziale,
dovrebbe aver scelto il part-time “liberamente”, e non perché costretto dalla mancanza di
alternative.
Dall’analisi dei dati individuali dell’indagine ISTAT del 2004 emerge che il laureato
meridionale del 2001 che emigra per motivi di lavoro (il cosiddetto mobile post-lauream) non solo
non guadagna di più dell’immobile (v. Tab. 2), ma ottiene condizioni contrattuali peggiori in
termini di stabilità del posto di lavoro rispetto al laureato che ha deciso di rimanere a lavorare nel
Mezzogiorno. Il 41,6% dei laureati meridionali che si spostano dal Mezzogiorno per andare a
lavorare nel Centro-Nord (mobili post-lauream) dichiara, a tre anni dalla laurea, un guadagno
mensile netto “percepito” minore di 500 euro, mentre se consideriamo gli immobili, questa
percentuale scende al 14,4%.12
11 Tutti questi criteri appaiono piuttosto utili se, riconosciuta l’eterogeneità del lavoro, si è interessati a
distinguere la “qualità” dell’occupazione. 12 Se confrontiamo i risultati ottenuti dall’elaborazione delle due ultime indagini ISTAT, si osserva che, tra il
2001 e il 2004, la quota di laureati meridionali, occupati nel Centro-Nord, alla ricerca di un nuovo lavoro è aumentata. Nel 2001, si dichiarava in cerca di un nuovo lavoro il 28,5% dei mobili post-lauream e il 22% dei mobili non tornati, mentre, nel 2004, queste quote sono passate, rispettivamente, al 34,6% e al 33,2%. Inoltre, tra il 2001 e il 2004 si registra un aumento della quota di mobili non tornati che dichiara di essere stato costretto ad accettare un lavoro a tempo parziale dalla mancanza di alternative.
Inoltre, tra il 2001 e il 2004 sono peggiorate le condizioni contrattuali offerte ai laureati meridionali che lavorano nel Centro-Nord: in questo periodo la percentuale dei mobili post-lauream che lavora con un contratto a tempo determinato è quasi raddoppiata passando dal 34,6% al 60,3% e quella dei mobili non tornati è aumentata dal 30,4% al 49,3%. Appare evidente, quindi, che è aumentato il ricorso a contratti atipici e alle nuove forme di flessibilità e che sono soprattutto i meridionali che si spostano dopo la laurea per trovare un lavoro qualsiasi nel Centro-Nord, a farne le spese. Il confronto tra le due indagini porta a concludere, quindi, che pur essendo relativamente sempre più facile trovare lavoro nel Centro-Nord, il lavoro ottenuto è sempre più inadeguato rispetto al titolo conseguito e alle aspettative dei laureati. Inoltre, se, nel 2001, il laureato che lavorava nel Centro-Nord guadagnava, in termini nominali, più dell’immobile, nel 2004, la quota di laureati meridionali che lavora nel Centro-Nord e che dichiara un guadagno mensile netto “percepito” inferiore ai 500 euro è nettamente maggiore della rispettiva quota di immobili. Se, quindi, nel 2001 la mobilità comportava un guadagno economico nominale, nel 2004 questo non si verifica più. Questo confronto deve essere inteso in termini generali. Nelle due indagini, infatti, il quesito posto ai laureati occupati rispetto al loro reddito mensile è diverso. Nell’indagine del 2004, si chiede al laureato qual è il guadagno mensile netto che lui ritiene
7
Per quanto riguarda le condizioni contrattuali offerte ai laureati meridionali occupati nel
Centro-Nord, si segnala che queste, almeno con riferimento alla durata del rapporto di lavoro, sono
peggiori per i mobili, piuttosto che per gli immobili: il 60,3% dei mobili post-lauream lavora a
tempo determinato a fronte del 41,7% degli immobili. Inoltre, lo 0,9% dei mobili post-lauream e il
2% dei mobili tornati dichiarano di lavorare senza un contratto.
Tab. 2. Mobilità, classe di guadagno e tipo di contratto dei laureati meridionali del 2001 che a tre anni dalla laurea si dichiarano occupati.
Tipo di contratto Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
tempo indeterminato 58,0 63,4 48,4 37,2tempo determinato 41,7 36,3 49,3 60,3senza contratto 0,3 0,4 2,0 0,9
Guadagno mensile percepito
fino a 250 14,4 14,1 21,8 41,6da più di 250 a 500 8,7 8,1 3,9 0,4da più di 500 a 750 9,0 5,3 3,5 1,6da più di 750 a 1000 25,4 19,8 19,2 11,1da più di 1000 a 1250 18,9 19,2 22,1 22,0da più di 1250 a 1500 14,8 20,6 19,0 15,3oltre 1500 8,9 12,8 10,6 8,0
Fonte: Elaborazioni su dati ISTAT
Come se non bastasse, il laureato meridionale del 2001 che si è spostato per lavorare nel
Centro-Nord continua, nel complesso, a ritenersi insoddisfatto quanto o più di un immobile, ha
iniziato a lavorare relativamente più tardi, cerca un nuovo lavoro più di un immobile e, se lavoratore
part-time, è stato costretto dalla mancanza di alternative a scegliere un orario di lavoro ridotto. Nel
complesso, diversamente da quanto registrato nell’indagine precedente, non sono più i mobili post-
lauream a risultare i più insoddisfatti di tutti, ma i mobili non tornati, ossia coloro che hanno
studiato nel Centro-Nord e vi sono rimasti a lavorare.
Nello specifico, il 46,4% dei mobili post-lauream giudica il trattamento economico poco o
per niente soddisfacente a fronte del 44,6% degli immobili, il 39,7% dei mobili tornati e ben il
47,6% dei mobili non tornati (v. Tab. 3).
Per quanto riguarda le possibilità di carriera, il 38% dei mobili post-lauream le giudica poco
o per niente soddisfacenti a fronte del 40,7% degli immobili, 37,3% dei mobili tornati e il 46,2,1%
dei mobili non tornati. Le mansioni svolte sono ritenute poco o per niente soddisfacenti dal 17,7%
dei mobili post-lauream, dal 15,9% degli immobili, dal 15,5% dei mobili tornati e dal 19,1% dei
di percepire, mentre nell’indagine del 2001, il quesito era più specifico e il guadagno che si chiedeva di indicare era quello effettivo. Di conseguenza, considerando anche gli errori e gli arrotondamenti che in genere caratterizzano una variabile di questo tipo, è preferibile effettuare il confronto tra le diverse categorie di laureati all’interno della singola indagine e non effettuare il confronto tra le due indagini. Sarebbe erroneo sostenere, ad esempio, che nel 2001 il tot.% dei mobili post-lauream guadagnava meno o più di una certa somma e che, invece, nel 2004, questa % è aumentata o diminuita.
8
mobili non tornati, percentuali che confermano un giudizio che rimane lievemente peggiore per
coloro che lavorano nel Centro-Nord.
Con riferimento ai giudizi pertinenti la stabilità/sicurezza del posto di lavoro, si riscontrano
delle differenze ancora più ampie. In questo caso, la percentuale di mobili post-lauream che ritiene
tali condizioni poco o per niente soddisfacenti è significativamente più elevata della relativa quota
degli immobili e dei mobili tornati (il 43,7% a fronte, rispettivamente, del 34% e del 29,2%),
mentre è solo leggermente superiore a quella dei mobili non tornati (40,6%).
Infine, per quanto riguarda l’utilizzo sul luogo di lavoro delle conoscenze acquisite
all’università, si registra una sostanziale uniformità di giudizio: il 36% dei mobili post-lauream
valuta l’utilizzo delle conoscenze acquisite all’università poco o per niente soddisfacenti a fronte
del 34,2% degli immobili, del 28,3% dei mobili tornati e del 34,1% dei mobili non tornati.
Tab. 3. Mobilità e soddisfazione dei laureati meridionali per i diversi diversi aspetti del loro lavoroa.
per il trattamento economico: Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
Molto 8,4 12,8 6,6 7,8Abbastanza 46,4 47,3 45,7 45,6Poco 35,1 27,5 35,1 36,6Per niente 9,5 12,3 12,4 9,7
per le possibilità di carriera: Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
Molto 19,0 27,3 14,5 17,4Abbastanza 39,3 34,2 38,5 43,7Poco 29,8 23,3 32,8 26,9Per niente 10,9 14,1 13,4 11,1
per le mansioni svolte: Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
Molto 33,8 35,8 31,9 28,3Abbastanza 50,2 48,7 49,0 53,7Poco 12,5 12,8 13,4 13,7Per niente 3,5 2,7 5,7 4,0
per la stabilità/sicurezza del posto di lavoro: Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
Molto 28,3 31,8 26,4 22,4Abbastanza 36,8 37,3 32,3 33,4Poco 22,8 17,4 22,0 27,4Per niente 11,2 11,9 18,6 16,3
per l'utilizzo delle conoscenze acquisite all'università: Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
Molto 20,3 28,5 23,6 20,2Abbastanza 45,3 43,2 42,2 43,7Poco 25,0 18,6 19,4 23,4Per niente 9,2 9,7 14,7 12,6
a Il totale colonna potrebbe differire leggermente da 100 perché non tutti gli intervistati hanno risposto.
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT
% di laureati meridionali che si dichiara molto/abbastanza/poco/per niente soddisfatta…
Nel complesso, anche se si considerano il trattamento economico e le possibilità di carriera,
sono soprattutto i meridionali che si sono laureati in un ateneo centro-settentrionale e hanno deciso
di rimanere a lavorare nel Centro-Nord a dichiararsi “per niente” soddisfatti. I mobili post-lauream,
invece, sono insoddisfatti soprattutto della stabilità/sicurezza del loro posto di lavoro e, anche in
9
questo caso, del trattamento economico ricevuto. Questi risultati, se confrontati con le risposte sulla
necessità della laurea e la soddisfazione per il suo utilizzo, ci portano a concludere che,
probabilmente, questi laureati hanno accettato un lavoro per il quale la laurea non era necessaria. In
ogni caso, in linea con l’indagine precedente, gli immobili sono più soddisfatti dei mobili post-
lauream.
Infine, i dati riguardanti la ricerca di un nuovo lavoro, l’anno durante il quale il laureato ha
iniziato a lavorare e i dati sulla libertà di scelta del part-time (v. Tab. 4) confermano la mancanza di
opportunità di lavoro nel Mezzogiorno e l’idea che, spinti dalla necessità, i laureati meridionali
abbiano accettato lavori spesso inadeguati rispetto alla propria formazione e/o aspettative.
Tab. 4. Mobilità e soddisfazione dei laureati meridionali. Ricerca di un nuovo lavoro, necessità del part-time e anno di inizio lavoro.
Immobili Mobili tornati Mobili non tornati Mobili post-lauream
…non cerca un nuovo lavoro 70,6 75,2 66,8 65,4…cerca un nuovo lavoro 29,4 24,8 33,2 34,6
Tot.
…necessità 54,5 68,4 48,7 44,0…libera scelta 45,5 31,6 51,3 56,0
Tot. 100 100 100 100
2001 24,4 19,0 27,8 17,42002 33,1 37,9 32,9 34,72003 24,5 27,2 23,3 26,62004 18,0 15,9 16,1 21,3
Tot. 100 100 100 100
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT
% di laureati che ha scelto il part-time per…
% di laureati che ha iniziato a lavorare nel…
% di laureati che…
Il 34,6% dei mobili post-lauream cerca un nuovo lavoro (versus il 29,4% degli immobili) e
ha iniziato a lavorare relativamente più tardi di un immobile, quindi, ha probabilmente cercato
lavoro in un primo momento nel Mezzogiorno e, non avendolo trovato, ha deciso di spostarsi nel
Centro-Nord. Non sorprende che siano i meridionali che hanno conseguito la laurea nel Centro-
Nord e vi rimangono a lavorare, invece, a trovare lavoro prima degli altri: il 60,7% nel 2002 ha già
un’occupazione, mentre tale percentuale scende significativamente, come anticipato, per i mobili
post-lauream. Inoltre, il 44% dei mobili post-lauream ha scelto il part-time per necessità a fronte
del 48,7% dei mobili non tornati, del 54,4% degli immobili e del 68,4% dei mobili tornati. Questo
ultimo dato sembra suggerire che il laureato meridionale che ha conseguito la laurea nel Centro-
Nord ha come priorità quella di tornare a lavorare nella sua regione di residenza e, a tal fine, è
disposto ad accettare con più facilità, rispetto ai colleghi che hanno effettuato scelte di mobilità
alternative, un lavoro a tempo parziale.
10
4. Cause e conseguenze del brain drain: una rassegna critica della letteratura ortodossa
sull’argomento.
La letteratura ortodossa sul brain-drain - parte della più ampia letteratura sulle migrazioni
internazionali del “fattore” lavoro - si concentra generalmente sulle conseguenze della fuga del
capitale umano qualificato, piuttosto che sulle sue cause.
Il fenomeno del brain drain ha riscosso un’attenzione considerevole già dalla seconda metà
degli anni ’60 (Grubel e Scott, 1966; Johnson, 1967) quando, per la prima volta, si pose in risalto la
mancanza di una teoria in tema di fuga dei cervelli, fenomeno che, fino a quel momento, non veniva
distinto da una normale migrazione internazionale del fattore lavoro.13
La conclusione generica di questi primi lavori fu che, in assenza di distorsioni,14
l’emigrazione di lavoratori qualificati, se infinitesima, non aveva effetti sul benessere dei residenti
del Paese di emigrazione. Lavori successivi (Rivera-Batiz, 1982; Blomqvist, 1986), invece,
teorizzarono che, se il numero di lavoratori qualificati che lasciano il Paese di origine non è
infinitesimo, ma finito, e non vi sono distorsioni, allora il brain drain comporta una perdita di
benessere per coloro che non emigrano.15
Nell’articolo del 1966, Grubel e Scott si concentrano sui cambiamenti nel reddito pro capite
(standard di vita) dovuti all’emigrazione degli individui high skilled.16 A differenza di quanto
postulato dalla letteratura sulla più generica migrazione internazionale del fattore lavoro, Grubel e
Scott sostengono che la migrazione di individui high skilled potrebbe avere un effetto negativo sul
reddito di lungo periodo di coloro che rimangono. Secondo l’analisi tradizionale della migrazione
del fattore lavoro, l’emigrazione di una persona aumenta il reddito medio di lungo periodo di coloro
che non emigrano perché comporta un aumento del rapporto K/L (capitale/lavoro) a livello
13 Di conseguenza, il brain drain, aumentando il rapporto capitale/lavoro nella regione di emigrazione, aveva effetti positivi sul reddito medio di lungo periodo di coloro che rimanevano.
14 In generale, si tenga in considerazione che nella realtà le distorsioni esistono e hanno un ruolo non marginale nella determinazione dei flussi internazionali del lavoro, basti pensare alla legislazione vigente in tema di restrizioni all’immigrazione. È pur vero che tale legislazione è, con riferimento a flussi in entrata, meno restrittiva nel caso di forza lavoro qualificata. Allo stesso tempo, tuttavia, esistono paesi, come ad esempio la Cina, che impongono severi limiti al flusso in uscita di “cervelli”.
15 Un altro filone di ricerca, nato dopo l’interesse suscitato dal lavoro di Grubel e Scott, si è concentrato, piuttosto che sulle conseguenze della fuga dei cervelli, ritenute negative, sull’identificazione di opportune politiche in grado di compensare la perdita di benessere sofferta da coloro che non lasciano il Paese di residenza (Bhagwati e Hamada, 1974). Il lavoro di Bhagwati e Hamada si differenzia dai primi lavori della seconda metà degli anni ’60 perchè pone in risalto che si potrebbe verificare una perdita di benessere per coloro che non emigrano se esistessero delle esternalità associate alla migrazione stessa, come quelle che potrebbero verificarsi in presenza di una perdita di “scarse skills”. Per compensare questa esternalità, Bhagwati (1976) propose una “brain drain tax”, proposta che, nella metà degli anni ’70, ricevette molta attenzione da parte degli accademici.
16 Se il fine di una nazione è la massimizzazione del benessere collettivo, scrivono i due autori, allora l’emigrazione deve essere benvenuta se sono soddisfatte due condizioni. La prima è che chi emigra ottenga un reddito più elevato e la seconda, che la sua partenza non riduca il reddito di chi rimane. A detta dei due autori, la prima condizione è normalmente soddisfatta se la scelta di emigrare è volontaria, mentre la specificazione delle circostanze soddisfatte le quali anche la seconda condizione è realizzata è meno evidente e rappresenta il cuore del loro lavoro.
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nazionale. Nel caso della migrazione di personale high-skilled, tuttavia, si potrebbe verificare un
effetto negativo sul reddito pro capite di coloro che rimangono, ma solo in rare circostanze e, nello
specifico, se “the human capital embodied in the emigrant is greater than the country’s total per
capital endowment of human and physical capital, assuming perfect substitutability of the two
forms of capital in the long run”. In questo caso, infatti, l’emigrazione di personale high-skilled
riduce il reddito complessivo da distribuirsi tra coloro che rimangono nel paese di origine e, nei
paesi in cui la distribuzione del reddito non avviene secondo le regole di mercato, questo comporta
una riduzione del benessere di chi rimane.
In un’economia di mercato, dove gli individui sono retribuiti in base al loro prodotto
marginale, invece, questa riduzione del reddito è un fenomeno statistico che non ha effetto sul
reddito di chi rimane per il semplice motivo che chi emigra rimuove sia il suo contributo al reddito
nazionale che il suo diritto a ottenerne una parte.17 Segue, quindi, che, in un’economia di mercato,
gli effetti del brain drain sul benessere di chi rimane sono circoscritti o ad aggiustamenti dei costi
di breve periodo, che però sono considerati di interesse analitico trascurabile, o a fallimenti del
libero mercato nell’allocazione efficiente delle risorse.
Tali fallimenti possono essere dovuti o all’esistenza di esternalità legate alle caratteristiche
personali dell’individuo che emigra (il mercato non riesce a compensare l’individuo per il suo
contributo alla società), o a esternalità di cui si fa carico lo Stato (ad esempio, la pubblica
educazione è un investimento sociale in individui che chi emigra “fails to repay”).18
Nel primo caso, le esternalità sono legate alle caratteristiche personali dell’individuo per il
semplice fatto che, se fossero legate alla sua professione, la perdita di benefici sociali per i quali il
professionista non è compensato dal mercato avrebbero natura transitoria: il professionista che
emigra verrebbe sostituito da un altro professionista e questi effetti positivi sarebbero persi solo per
il tempo necessario per formare il sostituto.
Il secondo caso, invece, sarebbe più rilevante se non fosse frutto, a detta degli autori, di un
fraintendimento. Grubel e Scott, infatti, non condividono l’idea secondo cui l’individuo che emigra
- e sul quale lo Stato ha investito in termini di educazione - è in debito nei confronti della società.
Esiste, infatti, una proporzionalità tra benefici ricevuti e contributo fiscale e, affinché non ci siano
effetti avversi sul benessere collettivo in seguito all’emigrazione di un individuo high skilled, è
17 Inoltre, gli autori (consapevoli della facile obiezione secondo cui a fronte di una riduzione del capitale
umano nella regione di origine se ne dovrebbe osservare un aumento della produttività marginale e quindi una variazione nella distribuzione del reddito di chi non emigra) osservano che, anche se queste piccole variazioni nella distribuzione del reddito dovute a variazioni del prodotto marginale di chi rimane si dovessero verificare, questi effetti saranno probabilmente poco significativi e, di conseguenza, trascurabili.
18 Op. cit., p. 272.
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“semplicemente” necessario che l’incidenza delle tasse sia uguale all’incidenza dei benefici ottenuti
dall’intervento pubblico, condizione che, a detta degli autori, è generalmente soddisfatta.19
Infine, anche se è vero che sono generalmente i migliori a lasciare un Paese per andare a
lavorare altrove - e questo può alimentare una sorta di processo di selezione à la Darwin che riduce
la qualità dello stock di capitale umano di una nazione - i due autori sostengono che la “fuga”
interessa generalmente un numero piuttosto limitato di individui e che, di conseguenza, questo è un
argomento di scarsa rilevanza empirica.20
Grubel e Scott concludono ponendo in risalto la possibilità che l’emigrazione di individui
high skilled produca effetti positivi, piuttosto che negativi, sul benessere di chi rimane per l’effetto
che l’esistenza di un tale fenomeno può avere sull’opinione pubblica (e, di conseguenza, sul
governo che potrebbe essere interessato ad arginarlo) e sulla possibilità che anche il Paese di origine
possa beneficiare, data la natura di “free good” della conoscenza, delle eventuali scoperte che il
“cervello in fuga” può contribuire a realizzare all’estero.21
In conclusione, nell’approccio neoclassico - che prevede che ogni individuo ottenga e
consumi il corrispettivo del suo prodotto marginale - l’emigrazione dei lavoratori più qualificati,
incentivata dalla presenza di differenziali salariali tra paese di origine e paese di immigrazione,
aumenta il reddito della collettività senza ridurre il reddito di chi rimane nel paese di origine: il
reddito degli emigrati è aumentato mentre il benessere degli “immobili” non si è ridotto.22
Nel complesso, questa prima letteratura sulla fuga delle risorse qualificate è insoddisfacente
non solo perchè considera i lavoratori skilled e unskilled come due distinti fattori della produzione,
la cui offerta è fissa, e non considera la possibilità che il brain drain possa avere un effetto sulla
stessa formazione di “skills”, ma anche perchè, come anticipato, si concentra principalmente sulle
conseguenze della fuga, piuttosto che investigarne le cause. Inoltre, questi modelli sono statici: non
19 Anche questo è un caso che non si realizza, ad esempio, nel Mezzogiorno che, storicamente, è un
beneficiario netto dell’intervento pubblico che ha sempre avuto un fine compensativo. Secondo gli autori, invece, esistendo evidenza della proporzionalità tra godimento dei servizi pubblici e ammontare di tasse pagato dagli individui, il governo è in grado di ridurre i suoi servizi nella stessa proporzione della perdita di entrate dovuta all’emigrazione di un “cervello”.
20 A questo proposito, riteniamo che occorrerebbe interrogarsi su cosa si intenda per “numero piuttosto limitato” di cervelli in fuga e considerare che il fenomeno non è limitato a un dato anno, ma prosegue nel tempo. Nel 2001, il 31% dei laureati meridionali del 1998 che, a tre anni dalla laurea si dichiaravano occupati, lavorava nel Centro-Nord e questa quota è salita, nel 2004, a ben il 39,5% e niente vieta di immaginare che lo stesso sia avvenuto per i laureati del 1999 e del 2000. Inoltre, per quanto in termini assoluti si parli di circa 13.670 laureati del 2001 e di circa 8.450 laureati del 1998, è pur vero che questi rappresentano una quota rilevante delle scarse risorse qualificate dell’area e, anche in questo caso, niente ci vieta di immaginare che all’aumentare del numero assoluto di laureati aumenti anche in simile o maggiore proporzione - come l’evidenza empirica suggerisce per il periodo (1998-2004) - il numero di chi deciderà nel futuro, per i motivi che vedremo in seguito, di lasciare il Mezzogiorno per spostarsi nel resto del Paese.
21 Nel complesso, l’articolo in questione si dilunga principalmente sulla spiegazione del perchè è poco probabile che la fuga dei cervelli produca effetti negativi sul benessere di chi rimane, mentre è evasivo circa i suoi probabili effetti positivi.
22 A questo proposito si veda anche Johnson (1967).
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considerano l’effetto del brain drain sulla crescita del reddito di lungo periodo, ma solo l’effetto sul
livello del reddito e, quindi, sul benessere collettivo.
Per quanto riguarda le conseguenze di questo fenomeno, nella letteratura degli anni ’80 e dei
primi anni ’90 prevale l’idea che la fuga delle risorse umane qualificate comporta, per il paese di
origine, una perdita sia in termini di crescita che di livello del reddito pro capite (Miyagiwa, 1991;
Haque e Kim, 1995; Wong e Kee Yip, 1999). Un ritorno alla conclusione di Grubel e Scott
caratterizza, invece, la letteratura che prevale dalla seconda metà degli anni ’90 in poi, nella quale
predomina l’idea tradizionale che il brain drain potrebbe favorire il paese di origine, inducendo un
aumento del livello medio del capitale umano e, di conseguenza, della produttività media del lavoro
(A. Mountford, 1997; J.P. Vidal, 1998; M. Beine, F. Docquier e H. Rapoport, 2001).
Miyagiwa è il primo autore, a nostra conoscenza, a proporre una teoria del brain drain che
enfatizza l’esistenza di rendimenti crescenti di scala nell’educazione “avanzata”23 dovuti alla
presenza di un’esternalità da agglomerazione:24 all’aumentare dei “cervelli” che lavorano a stretto
contatto, ne aumenta la produttività. 25
Miyagiwa osserva che esistono due ragioni per ritenere che le conseguenze dell’emigrazione
dei lavoratori skilled saranno positive per il livello del reddito pro capite del paese di
immigrazione.26 In primo luogo, l’esistenza di economie di scala aumenta il reddito dei residenti
che sono già educati; in secondo luogo, l’aumento del reddito degli skilled induce parte di coloro
non ancora in possesso di educazione ad acquisirla rendendoli in grado di guadagnare un salario più
elevato.
L’effetto del brain drain sul reddito dei residenti del paese di emigrazione, invece, è più
controverso. In generale, gli unici che ottengono un beneficio dall’emigrazione sono i “most
gifted”, mentre (a seconda dei valori assunti dai parametri del modello)27 il brain drain può avere
un effetto perverso sulla distribuzione del reddito tra i residenti del paese di emigrazione, in
particolare sul reddito di quanti sono dotati di abilità intermedie. Inoltre, non è detto che i due effetti
si compensino a vicenda, cosicché può verificarsi un declino assoluto del reddito complessivo dei
residenti (emigrati e non emigrati) del paese di emigrazione.
23 Diversamente dalla letteratura precedente, con l’eccezione del lavoro di Kwok e Leland (1982) di cui
discuteremo in seguito, l’autore pone l’accento non solo sulle conseguenze del brain drain per il paese di origine, considerate negative, ma anche sulle cause che spingono i lavoratori più qualificati a emigrare.
24 Ricordiamo, inoltre, che per questi teorici la distribuzione del reddito è sempre determinata sulla base della produttività marginale dei fattori e che il problema di distribuzione del reddito che segue dalla presenza di rendimenti di scala crescenti, è risolto trattando l’eccesso dei rendimenti sull’unità come un’esternalità.
25 Miyagiwa considera l’effetto che la fuga stessa ha sul processo di formazione degli individui e identifica una soglia di abilità in base alla quale si distinguono i lavoratori in skilled e unskilled.
26 Il contributo di Miyagiva riguardante le cause del brain drain saranno discusse successivamente. 27 I parametri sono il costo dell’emigrazione, l’effetto di scala dell’educazione e la distribuzione delle abilità
tra gli individui.
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A questo si aggiunga che, come lo stesso Miyagiwa ammette in nota28, il brain drain non
produce effetti negativi per gli unskilled, che rimangono al margine dell’analisi di Miyagiwa, solo
come conseguenza dell’assunzione della costanza del prodotto marginale di questa categoria. Niente
vieta di pensare che, come esiste un’esternalità positiva da agglomerazione, ne possa sussistere una
negativa che incida proprio sulla produttività degli unskilled: al diminuire del numero degli skilled,
diminuisce la produttività degli unskilled perché la riduzione del livello di agglomerazione di
“cervelli” non ha solo un effetto negativo per gli skilled, ma anche per gli unskilled che hanno molto
da imparare da chi è più istruito.
Con il modello di crescita di Haque e Kim (1995), che riprende molte delle assunzioni
presenti in Miyagiwa (1991), si compie un passo in avanti rispetto alla letteratura precedente poiché
si considera l’effetto del brain drain sulla crescita di lungo periodo dei due paesi interessati dal
flusso dei lavoratori qualificati. Con questo articolo, il problema del brain drain viene inserito nel
più ampio dibattito sul ruolo del capitale umano per la crescita di lungo periodo sviluppatosi dopo la
pubblicazione, nel 1988, sul Journal of Monetary Economics, del noto articolo “On the mechanics
of economic development” di Lucas. 29
Haque e Kim presentano un modello di crescita endogena con agenti eterogenei a
generazioni sovrapposte il cui apparato formale consente di modellare il comportamento di
individui dotati di diverse abilità e di trasmettere l’effetto positivo dell’accumulazione di capitale
umano tra diverse generazioni in modo da ottenere un effetto sulla crescita di lungo periodo.
In questo modello gli individui vivono per due periodi. Durante il primo, investono in
educazione e, durante il secondo, scelgono di emigrare o di rimanere nel loro paese di origine.
Questa scelta è effettuata sulla base del confronto tra il salario che l’individuo può ottenere nel suo
paese e all’estero.30
L’intuizione alla base del modello è la seguente. A fronte di un costo dell’emigrazione che è
considerato fisso e indipendente dalle diverse abilità degli individui, il “premio” che si ottiene
dall’emigrare aumenta all’aumentare dell’abilità dell’individuo. Di conseguenza, i più abili sono
anche coloro maggiormente incentivati a emigrare, perchè il salario che ottengono all’estero riesce
più che a compensare i costi fissi affrontati. I meno abili, invece, decideranno di non emigrare.
Per quanto riguarda l’effetto del brain drain sui tassi di crescita dei due paesi, quello di
emigrazione e quello di immigrazione, i due autori mostrano che la fuga determina una riduzione
28 Op. cit., p. 752. 29 In questo articolo, che costituisce una variante della nuova teoria della crescita e che rimane fedele,
comunque, al modello neoclassico di Solow, Lucas poneva in risalto la duplice natura della formazione di capitale umano nella sua veste di attività sia privata che sociale. Gli individui, attraverso il loro investimento in capitale umano, sono in grado di ottenere salari più elevati e contribuire al livello aggregato della produttività. La formazione del capitale umano è così trainata dagli incentivi individuali e dall’esistenza di esternalità intergenerazionali.
30 Haque e Kim (1995), p. 579.
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permanente del tasso di crescita del reddito pro capite del paese di emigrazione e che l’effetto sulla
crescita del paese di immigrazione varia nel tempo con l’evoluzione del rapporto tra i livelli medi
del capitale umano nei due paesi.
La crescita di lungo periodo, infatti, dipende dall’accumulazione di capitale umano e,
quindi, dalle scelte di investimento in educazione degli individui.31 Il brain drain comporta una
perdita per il paese di emigrazione perchè “the people who remain in the country are the less able
and accumulate less human capital than those who go abroad”.32 La condizione essenziale affinché
nel modello si generi una crescita positiva è la presenza di una esternalità che però, in questo caso,
non è una dovuta all’agglomerazione come quella di Miyagiwa, ma è una “intergenerational
externality” attraverso la quale il capitale umano dei genitori è trasferito ai figli.
Questi ultimi due lavori (Miyagiwa, 1991; Haque e Kim, 1995) sono accomunati dalla
conclusione che il brain drain ha sempre un effetto negativo per il paese di emigrazione: nel primo
caso, riduce il livello del reddito pro capite del paese di emigrazione, nel secondo, sia il livello che
il tasso di crescita di lungo periodo.
Questa visione è stata criticata, dalla seconda metà degli anni ’90 in poi, dalla quella parte
della letteratura “endogena” che analizza l’impatto dell’emigrazione sulla formazione del capitale
umano in una piccola economia aperta33 in un contesto di incertezza.
L’idea alla base di questi lavori è la seguente. In un’economia povera con un potenziale di
crescita inadeguato, il rendimento del capitale umano è basso e, di conseguenza, è scarso l’incentivo
ad investire in educazione, che è il motore della crescita. La possibilità di migrare verso una regione
dove prevalgono salari più elevati, una volta raggiunto un dato livello di educazione, aumenta il
rendimento dell’educazione34 e induce un aumento della formazione di capitale umano che può
31 Come nel modello di Lucas (1988). 32 Op. cit., p. 592. A questo proposito osserviamo che - sempre se si condivide l’idea che una laurea conseguita
con una votazione elevata sia indicativa di una maggiore abilità dell’individuo che la consegue rispetto a chi, invece, ottiene una votazione media o, nel complesso, poco elevata – l’evidenza empirica suggerisce che non sono più solo i migliori laureati meridionali ad abbandonare il Mezzogiorno per andare a lavorare nel Centro-Nord: tra il 1998 e il 2004, la quota di coloro che si spostano pur avendo ottenuto votazioni medie o basse è in crescita. Nel 2004 trova conferma, infatti, un fenomeno emerso anche dalle due indagini precedenti: la percentuale dei laureati meridionali che si sono spostati dopo il conseguimento della laurea e che si sono laureati con una votazione pari a 110 o 110 e lode (il 35,3%) è in netta diminuzione rispetto alla due precedenti indagini ISTAT, mentre è in aumento la quota dei mobili post-lauream che hanno ottenuto una votazione compresa tra 66 e 99.
È chiaro che se si parte dal presupposto teorico che i migliori (i più abili) guadagnano di più se emigrano e se si considera l’esistenza di differenziali salariali quale unico motivo che spinge all’emigrazione, non si è in grado di spiegare in modo convincente un’evidenza empirica di questo tipo. Se, invece, si parte dal presupposto che ciò che induce alla fuga è la mancanza di opportunità di occupazione, questi dati possono essere spiegati. Per chi si è laureato con votazioni poco elevate, trovare lavoro nel Mezzogiorno, è ancora più difficile che per un laureato con il massimo dei voti. Il mobile post-laream, come l’evidenza empirica conferma, ha cercato prima lavoro nel Mezzogiorno e, non avendolo trovato, si è spostato.
33 Questo equivale ad assumere che la migrazione in atto non possa influire sui salari prevalenti nel resto del mondo e, di conseguenza, si mantengono costanti i differenziali salariali tra i due paesi.
34 In questo caso, l’aumento del rendimento dell’educazione deve essere inteso nel senso che l’ottenere un certo livello di istruzione garantisce all’agente la possibilità di emigrare all’estero dove prevalgono salari più elevati.
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prevalere sull’effetto negativo (rappresentato dalla perdita netta di lavoratori qualificati che
abbandonano il paese di origine) della fuga. In altre parole, la possibilità di emigrare se si raggiunge
un certo livello di educazione induce modifiche nella formazione endogena delle cosiddette
“educational classes” (Mountford, 1997) che evita la formazione delle classi “under-educated”.
Questo risultato è ottenuto in modelli di brain drain nei quali gli agenti sono eterogenei e
sono solo i più abili a migrare (Mountford, 1997), in modelli con lavoro omogeneo (Stark e altri,
1998; Vidal, 1998) e in modelli con informazione imperfetta (Stark e altri, 1997).
Mountford (1997), 35 che è il primo autore a criticare i risultati di Haque e Kim, mostra che,
se non tutti i lavoratori hanno la possibilità di emigrare, l’effetto positivo della fuga dei cervelli
(l’incentivo ad accumulare capitale umano) prevale sull’effetto negativo (la perdita netta di
lavoratori qualificati che abbandonano il paese di origine).36
Nel modello di Mountford (1997), le condizioni/assunzioni necessarie affinché l’effetto
positivo della fuga dei cervelli prevalga sull’effetto negativo sono numerose e non sempre
realistiche: si assume che all’aumentare della probabilità di emigrare, si riduca il livello minimo di
abilità ritenuto necessario dall’individuo per investire in educazione e aumenti, di conseguenza, la
quota di individui “educati”; si assume che ci sia un’esternalità positiva sulla crescita al tempo t
legata positivamente alla quota dei lavoratori “educati” nel periodo precedente (t-1); infine, che la
probabilità di emigrare sia indipendente dal numero di individui che desiderano emigrare.
Inoltre, affinché l’effetto positivo prevalga è necessario che esista un numero sufficiente di
individui che sarebbero incentivati a investire in educazione da una piccola prospettiva di
emigrazione. Così, una fuga di cervelli determinerebbe un incremento della percentuale di individui
“educati” nella regione di emigrazione “[…] if the probability to emigrate is low, if there is a high
wage differential and if the proportion of educated people in the economy was previously low.”37
Inoltre, come scrive Mountford (1997) “in order to motivate the desire for emigration, we assume that the wage per efficiency unit of labour in the world economy is always higher that that in the small open economy (la regione di partenza, n.d.a.)” (p. 293) il che implica che un aumento (diminuzione) della dotazione di capitale umano qualificato nella regione di immigrazione (origine) non riduce (aumenta) il rendimento dell’educazione. Questo è implicato, comunque da due assunzioni fondamentali del modello: in primo luogo, l’autore assume che “there is an economic wide growth externality related to the proportion of educated workers in the economy in the previous period” cosicché la produttività del lavoro al tempo t è funzione crescente della proporzione di individui istruiti nel periodo t-1; in secondo luogo, si assume che il paese di origine è una “small open economy” e i prezzi dei fattori della produzione sono dati.
35 Mountford applica, al contesto delle migrazioni internazionali del fattore lavoro, il modello di crescita endogena con agenti eterogenei a generazioni sovrapposte sviluppato da Galor e Tsiddon (1996, 1997), in cui l’evoluzione della disuguaglianza nella distribuzione del reddito si conforma all’ipotesi di Kuznets (con il progresso economico, la disuguaglianza prima aumenta e poi diminuisce) e si analizza la relazione tra la distribuzione del capitale umano e la crescita.
36 Beine e altri (2001), invece, concludono che il brain drain produce entrambi gli effetti, quello negativo suggerito da Haque e Kim (1995) e quello positivo suggerito da Mountford (1997) e derivano la condizione richiesta affinché l’effetto positivo (brain effect) domini su quello negativo (drain effect). Questi autori distinguono tra un effetto ex ante, la prospettiva di emigrare incentiva gli investimenti in educazione a causa dei differenziali remunerativi esistenti tra i due paesi, e un effetto ex post, legato al flusso effettivo di “cervelli”.
37 Cfr. Mountford (1997), p. 295.
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In generale, se il brain drain riesce a ridurre le classi “under educated”, allora il livello della
produttività media del lavoro “would be higher under a brain drain because all agents remaining in
the country would be at the high education steady state, whereas under a general emigration only a
fraction of the population would be at the high steady state”.38
L’elemento chiave del modello - che garantisce l’effetto di lungo periodo del brain drain
sulla crescita e che sarà positivo o negativo a seconda che siano o meno soddisfatte le condizioni
appena enunciate - è la presenza di una esternalità positiva dell’educazione, come nel modello di
Haque e Kim. Il secondo elemento cardine è il considerare la probabilità di migrare come una
variabile esogena, mentre nella realtà non solo essa è endogena, ma è legata proprio al livello medio
di istruzione conseguito che nelle intenzioni di Mountford dovrebbe spiegare.39 In conclusione, a
seconda di quanto sia elevata la probabilità di migrare, il modello genera dinamiche diverse: se è
abbastanza elevata, prevarrà l’effetto positivo.
In ogni modo, il caso da noi analizzato – una fuga di cervelli all’interno dello stesso Paese in
assenza di barriere all’emigrazione – è l’unico che trova concordi entrambi i filoni della crescita
endogena citati (Miyagiwa e Haque e Kim da un lato, Mountford dall’altro): quando la probabilità
di migrare è uguale a uno (perchè non esistono barriere legislative all’immigrazione), la fuga ha
solo un effetto negativo per il paese di origine poiché emigreranno tutti coloro che raggiungono il
livello minimo di educazione richiesto per emigrare.40
Nei pochi casi a nostra conoscenza in cui la letteratura sulla fuga dei “cervelli” pone
l’accento sulle sue cause, piuttosto che sulle sue conseguenze, si considera come suo unico motivo
l’esistenza di differenziali salariali tra il paese di emigrazione e quello di immigrazione, dovuti, a
seconda dei casi, all’esistenza di asimmetrie informative nel mercato del lavoro (Kwok and Leland,
1982); all’esistenza di rendimenti crescenti nell’educazione che generano un’esternalità da
38 Op. cit., p. 302. 39 Questa assunzione di esogenità, sulla base della quale sono state compiute anche alcune ricerche empiriche -
i cui risultati sono di dubbia significatività anche per la qualità dei dati utilizzati (Beine e altri, 2001) - risulta non solo particolarmente stringente nel caso da noi analizzato, ma anche in aperta contraddizione, come vedremo nel paragrafo successivo, con l’evidenza empirica. Sono soprattutto i meridionali che hanno conseguito un livello di istruzione piuttosto elevato (la laurea), infatti, a spostarsi nell’altra ripartizione suggerendo che sia proprio il possesso di una laurea a garantirgli, rispetto ai lavoratori meno qualificati o ad altri immigrati, una maggiore forza contrattuale e una probabilità maggiore di trovare un lavoro.
40 Inoltre, questo è un caso che, data l’evidenza empirica che ha suggerito che il laureato meridionale emigrato del 2001 non ha la percezione di conseguire un reddito più elevato di quello percepito da chi è rimasto nel Mezzogiorno, troverebbe concordi anche Grubel e Scott:infatti, essi scrivono che, affinché l’emigrazione sia “benvenuta” e abbia un effetto positivo sul reddito disponibile di tutti, è comunque necessario che siano soddisfatte, a priori, due condizioni. La prima di esse, che a detta degli autori è normalmente soddisfatta, riguarda la necessità che chi emigra riesca, come conseguenza di questa “libera” scelta, a ottenere un reddito più elevato; la seconda è che la fuga della singola risorsa qualificata non riduca il reddito di chi rimane. La prima condizione, nel nostro caso, non è soddisfatta. Non solo non riteniamo “libera” la scelta di mobilità che il laureato meridionale compie, perchè dettata dalla necessità, ma questa scelta non garantisce al laureato meridionale “mobile” neanche un reddito più elevato di quello che poteva ottenere rimanendo a lavorare nel Mezzogiorno.
18
agglomerazione41 (Miyagiwa, 1991); o, infine, all’esistenza di diverse “government policies” che
determinano “after-tax wage differentials” (Haque and Kim, 1995).
Il lavoro di Kwok e Leland è particolarmente interessante perchè è l’unico,42 se si condivide
l’impostazione teorica neoclassica, che individua nell’esistenza di informazione imperfetta una
causa plausibile della fuga dei cervelli. L’idea è quella secondo cui i datori di lavoro del paese dove
gli studenti compiono gli studi hanno un’informazione maggiore sulla loro produttività rispetto ai
datori di lavoro del paese di residenza degli studenti. Di conseguenza, i primi possono offrire un
salario più adeguato di quello offerto da questi ultimi, che offrono uno stipendio basato sulla
conoscenza della produttività media del lavoro degli studenti che sono tornati nel loro paese di
origine, che si ipotizzano essere i meno produttivi. L’esistenza di questo differenziale salariale
motiva il flusso delle risorse qualificate tra i due paesi. Anche questo modello, come i precedenti, si
basa su una serie di assunzioni non sempre realistiche.43
L’elemento chiave del modello di Miyagiwa (1991), invece, è l’assunzione di un effetto di
scala secondo cui, all’aumentare del numero di individui in possesso di educazione, aumenta il
reddito di ogni individuo “educato”. 44 Questo effetto di scala è dovuto all’esistenza dell’esternalità
da agglomerazione cui si accennava precedentemente: “the productivity of professional work
increases with an increase in the number of similar professionals concentrated in one location.
Scholars, scientists and engineers, operating in close propinquity and engaging in constant
interactions [...] are in general more productive than those who work alone.”45 Questo implica che,
data l’assunzione di una maggiore numerosità della popolazione del paese di immigrazione e,
41 La fonte di questa esternalità e le conseguenze che derivano dalla sua presenza sono già state discusse. 42 Sia in Miyagiwa che in Haque e Kim si assume, implicitamente ed esplicitamente, informazione perfetta. 43 L’assunzione iniziale, comune a tutti i modelli discussi, è che il mercato del lavoro sia competitivo in
entrambi i paesi tra i quali si analizza il flusso di risorse qualificate (Stati Uniti e Taiwan), il che significa che il salario pagato è uguale al prodotto marginale del lavoratore. In questo modo, i due autori evitano, come loro stessi dichiarano, di considerare l’esistenza di diverse opportunità di occupazione tra i due paesi considerati. Inoltre, Kwok e Leland assumono che la produttività del lavoratore sia la stessa sia che lavori negli Stati Uniti sia che lavori in Taiwan. L’assunzione chiave, chiaramente, è quella per la quale “employers in the United States can observe the productivity of each potential employee [...]. Employers in Taiwan, however, cannot observe the exact productivity of a returning Taiwanese graduate prior to hiring. But because of past experience and market knoledge, it is assumed that Taiwanese employers know the average productivity of all returning graduates”. In ogni caso, non è necessario che l’informazione dei datori di lavoro negli Stati Uniti sia perfetta, ma solo che sia maggiore di quella ottenuta dai datori di lavoro in Taiwan. Op. cit., p. 92.
44 Si assume, inoltre, che il costo dell’educazione sia lo stesso per tutti gli individui, che questi siano razionali e che le loro abilità siano distribuite in modo continuo nell’intervallo [0,1]. Inoltre, “once educated an individual with a given level of ability earns a proportionately higher level of income than another educated worker who possesses a lower level of ability”. Infine, affinchè il modello presenti una soluzione interna, deve esistere “an economic incentive for the most gifted to acquire education even when no one else has yet received an education” e, allo stesso tempo, “it never pays for the least gifted to acquire a higher education”. Op. cit., p. 746.
45 Op. cit., p. 745.
19
quindi, del numero di individui educati, cui segue un maggiore effetto di scala, il reddito di due
professionisti dotati della stessa abilità sia più elevato nel paese di immigrazione.46
In Haque e Kim (1995), l’esistenza di differenziali salariali rimane l’unico incentivo
all’emigrazione considerato ed è dovuto all’esistenza, nei due paesi interessati dal flusso di
lavoratori qualificati, di due diversi regimi di legislazione fiscale.
Nel complesso, il filone di letteratura che analizza anche le cause del brain drain è
insoddisfacente soprattutto per due motivi. Prima di tutto, il limite più stringente è l’assenza di
considerazioni sul ruolo che l’esistenza di diverse opportunità di lavoro tra paese di origine e paese
di immigrazione ha nell’influenzare la fuga di cervelli47 (e l’emigrazione in generale). Riteniamo
che siano proprio queste differenze ad avere un ruolo decisivo nelle scelte di mobilità interna dei
“cervelli” e, più in generale, nelle scelte di migrazione tra Mezzogiorno e Centro-Nord.
Inoltre, la letteratura esistente si concentra sulla fuga di “cervelli” da paesi in via di sviluppo
(principalmente asiatici) verso paesi industrializzati (principalmente gli USA) e, quando essa si
verifica tra paesi industrializzati, la considera, piuttosto che una fuga, un “brain exchange”. In Italia,
invece, non si verifica alcuno “scambio” di cervelli tra le due ripartizioni, nel senso che, come posto
in risalto nei paragrafi precedenti, il saldo della fuga dei cervelli è fortemente negativo per il
Mezzogiorno.
Infine, osserviamo che, a nostra conoscenza, non è ancora stato formalizzato un modello che
distingua il caso in cui gli individui emigrano per ottenere un’istruzione e poi decidono di rimanere
all’estero (quelli che nella nostra analisi abbiamo definito “mobili non tornati”) e coloro che
ottengono un’istruzione nel loro paese/regione di origine e decidono di emigrare per motivi di
lavoro (che corrispondono, nella nostra analisi, ai “mobili post-lauream”).
4.1. L’evidenza empirica e il dibattito sulle cause e le conseguenze della fuga delle risorse umane
qualificate: la fuga come necessità.
La maggior parte della letteratura sulla fuga del capitale umano qualificato identifica
nell’esistenza di differenziali salariali tra l’area di origine e l’area di immigrazione l’unica causa del
brain-drain.
46 Miyagiwa osserva, in ogni modo, che l’assunzione che il paese di emigrazione e quello di immigrazione
differiscano in termini di “size” non è essenziale ai fini della trattazione. Op. cit., p. 748. 47 L’unico articolo che accenna alle “job opportunities” è quello di Kwok and Leland che, dopo aver assunto
che la produttività di un lavoratore è la stessa sia che lavori negli USA, sia che lavori in Taiwan, scrivono: “Thus we explicitly avoid the empirical questionable assumption that employment opportunities are less favorable in the native country”. Cfr. op. cit., p. 93.
20
Parte dell’elaborazione dei dati individuali delle due indagini ISTAT, oggetto dei paragrafi
precedenti, è stata condotta al fine di confutare l’idea secondo cui i laureati decidono di spostarsi
dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord per guadagnare di più e migliorare la propria condizione
lavorativa e sostenere invece che è la necessità di trovare un’occupazione qualsiasi a spingere alla
mobilità. Come scrive Kaldor, “the migration of labour, both intra-national and inter-national, is not
determined by earning differences alone; given such differences, it is very much conditioned by the
existence of employment opportunities at the receiving end.”48
Al fine di verificare questa ipotesi, si è supposto che, se un laureato si sposta per guadagnare
di più o per migliorare la propria condizione lavorativa, allora, l’evidenza empirica dovrebbe
confermare che il mobile post-lauream ottiene condizioni economiche e contrattuali più
vantaggiose di un immobile. Non solo. Visto che, tra il 2001 e il 2004, dal confronto tra le due
indagini ISTAT sugli sbocchi professionali dei laureati a tre anni dalla laurea è emerso che la
mobilità, soprattutto post-lauream, è nettamente aumentata, ci si aspetta che i dati confermino che,
nello stesso periodo, siano migliorate anche le condizioni lavorative offerte ai laureati meridionali
che lavorano nel Centro-Nord.
Inoltre, se il motivo principale per cui un laureato si sposta è quello di migliorare la propria
condizione lavorativa, allora, visto che la mobilità è aumentata, i laureati del 2001 dovrebbero
ritenersi, nel complesso, più soddisfatti dei loro colleghi laureati nel 1998. Inoltre, per lo stesso
motivo, dovrebbero essere più soddisfatti, almeno con riferimento al trattamento economico, dei
loro colleghi laureati meridionali del 2001 che hanno deciso di rimanere a lavorare nel
Mezzogiorno.
Oltre a ciò, si è ritenuto che, se questo laureato “mobile” è più soddisfatto di un immobile
perché ha trovato un lavoro rispondente alle proprie esigenze economiche e alle proprie aspettative,
allora non dovrebbe cercare un nuovo lavoro (o farlo in misura minore di un immobile), dovrebbe
ritenere che la laurea conseguita è sufficiente per il lavoro svolto e aver iniziato a lavorare nello
stesso anno, o prima, rispetto a un immobile (ricordiamo che si sposta non perché non riesce a
trovare un lavoro nella sua ripartizione, ma solo per “migliorare” la propria condizione lavorativa).
Infine, se lavoratore part-time, dovrebbe aver scelto il tempo parziale “liberamente”, e non perché
costretto dalla mancanza di altre opportunità.
Innanzitutto, l’evidenza empirica ha mostrato che, mentre nel 2001 il laureato meridionale
che lavorava nel Centro-Nord guadagnava, in termini nominali, più dell’immobile, nel 2004 la
quota di laureati meridionali che lavora nel Centro-Nord che dichiara un guadagno mensile netto
“percepito” inferiore ai 500 euro è nettamente maggiore della rispettiva quota di immobili. Se,
48 Cfr. Kaldor (1981), p. 212.
21
quindi, nel 2001 la mobilità comportava un guadagno economico nominale, nel 2004 questo non si
verifica più.49
In secondo luogo, mentre nel 2001 le condizioni contrattuali ottenute dai mobili post-
lauream in termini di stabilità del posto di lavoro erano lievemente migliori di quelle ottenute
dall’immobile, nel 2004 sono peggiori. Nel 2004, infatti, il 60,3% dei laureati meridionali che, dopo
la laurea, sono andati a lavorare nel Centro-Nord ha ottenuto un contratto a tempo determinato e lo
0,9% lavora senza contratto (a fronte del 41,7% e dello 0,3% degli immobili). Le condizioni
contrattuali offerte agli immobili nel Mezzogiorno sono migliori anche rispetto a quelle ottenute
dall’altra categoria di laureati meridionali che lavorano nel Centro-Nord, i mobili non tornati.
In terzo luogo, entrambe le indagini confermano che i laureati meridionali che lavorano nel
Centro-Nord sono i più insoddisfatti di tutti e non solo in termini di trattamento economico, ma
anche in termini di possibilità di carriera, di stabilità/sicurezza del posto di lavoro etc. Inoltre, i
mobili post-lauream e i mobili non tornati cercano un nuovo lavoro più degli immobili e, se
lavoratori part-time, sono più spesso costretti dalla mancanza di alternative a scegliere un orario di
lavoro ridotto.
Infine, è interessante notare che i mobili non tornati iniziano a lavorare prima degli altri,
mentre i mobili post-lauream dopo, a conferma che i primi devono avere almeno un buon motivo
per non tornare nella propria ripartizione (un lavoro) e i secondi hanno probabilmente cercato
lavoro prima nel Mezzogiorno e, non avendolo trovato, hanno deciso di “fuggire”.
Questa prima parte dell’analisi confuta l’ipotesi ortodossa secondo cui è l’esistenza di
differenziali salariali (da noi interpretata anche in senso più generale, in termini di migliori
condizioni contrattuale offerte ai laureati meridionali nel Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno) a
motivare la fuga dei cervelli. I cervelli meridionali che lavorano nel Centro-Nord non solo non
guadagnano di più e non hanno ottenuto condizioni contrattuali migliori rispetto ai colleghi che
sono rimasti a casa, ma sono più insoddisfatti e alla ricerca di un nuovo lavoro.
Per sostenere l’idea che sia, invece, la presenza di maggiori opportunità di lavoro nel Nord
del Paese, piuttosto che nel Sud, il motivo principale50 che ha indotto circa il 39,5% dei laureati
meridionali del 2001 e il 31% dei laureati del 1998 a lavorare nel Centro-Nord, inizieremo con
l’analizzare la domanda di lavoro nelle due ripartizioni, confrontando gli esiti occupazionali e i tassi
di disoccupazione dei giovani in età 25-29 anni per titolo di studio nelle due aree. In un secondo
49 Vedi nota 16.
50 A questo proposito, teniamo a precisare che nella nostra analisi abbiamo trascurato il ruolo che la condizione economica delle famiglie di provenienza dei laureati meridionali ricopre nelle scelte di mobilità non perchè ritenute poco significative, ma perchè il questionario non prevedeva un quesito specifico sul reddito delle famiglie, ma solo informazioni sul titolo conseguito dai genitori, sulla loro condizione lavorativa etc. È chiaro che l’appoggio economico della famiglia è indispensabile per mantenere chi si sposta nel Centro-Nord per lavorare e/o studiare.
22
momento, ricorrendo alle due indagini ISTAT già utilizzate, si confronteranno gli esiti
occupazionali dei laureati del 2001 e del 1998 nelle principali macro-ripartizioni del Paese a tre
anni dalla laurea. In questa parte dell’analisi, diversamente da quanto avvenuto per l’analisi della
mobilità, la distribuzione sul territorio è determinata dalla regione di residenza dei laureati nel 2004
e nel 2001, al momento dell’indagine ISTAT.
Una prima considerazione riguarda i tassi di disoccupazione dei giovani in età 25-29 anni
che nel nostro Paese, contrariamente a quanto teorizzato dalla teoria economica ortodossa51 e a
quanto avviene negli altri paesi OCSE, non diminuiscono con l’aumentare del livello di istruzione,
ma solo all’aumentare dell’età.
Una correlazione positiva tra titolo di studio ed occupazione si recupera, tuttavia, nelle fasce
di età più elevate, poiché in Italia i tempi per il conseguimento del titolo di studio e della transizione
dalla scuola al lavoro sono in media più lunghi, rispetto alla media degli altri paesi industrializzati.
Questo è vero soprattutto nel Mezzogiorno, dove il tasso di disoccupazione dei giovani in età 25-29
anni con un’istruzione universitaria è pari al 40,2% (più che triplo rispetto al 12,9% registrato nel
Centro-Nord) a fronte del 28,6%-25,8% registrato per coloro in possesso di un’istruzione
secondaria. Inoltre, mentre nel Centro-Nord, negli ultimi otto anni, il tasso di disoccupazione dei
giovani in possesso di un’istruzione universitaria è diminuito significativamente e in modo
continuativo, passando dal 26,1% del 1996 al 12,9% del 2003, nel Mezzogiorno si è ridotto molto
meno (dal 45,5% al 40,2%).
Inoltre, tale riduzione non è stata continua poiché il trend positivo emerso a partire dal 1996
si è interrotto nel 1999, anno durante il quale si registra un forte incremento della disoccupazione
dei giovani meridionali con formazione universitaria, per riprendere successivamente. In ogni caso,
sul calo del tasso di disoccupazione dei giovani in età 25-29 anni osservato nel Meridione hanno di
certo influito la ripresa dell’emigrazione verso il Centro-Nord e il fenomeno dello scoraggiamento,
che hanno determinato una tendenza alla riduzione delle persone in cerca di occupazione.
Sul fronte dei tassi di occupazione, la situazione non migliora: nel 2003 il tasso di
occupazione dei giovani in età 25-29 anni con formazione universitaria è del 71,8% nel Centro-
Nord e solo del 42% nel Mezzogiorno. Anche in questo caso, inoltre, la dinamica, pur positiva, è
significativamente più favorevole nel Centro-Nord: tra il 1996 e il 2003, mentre nelle regioni
centro-settentrionali il tasso di occupazione è aumentato di 12,5 punti percentuali, passando dal
59,4% al 71,8%, nel Mezzogiorno tale incremento risulta molto più contenuto, pari solo a 4,5 punti
percentuali (dal 37,5% al 42%). In ogni caso, anche il trend positivo dell’occupazione dei giovani
51 Checchi (1999) definisce la relazione inversa tra tasso di disoccupazione e livello di istruzione un vero e
proprio “fatto stilizzato”.
23
meridionali con formazione universitaria, oltre che quello della disoccupazione, si interrompe tra il
1998 e il 1999, riprende nel 2000 e prosegue fino al 2002.
Tab. 5. Tasso di disoccupazione dei giovani in età 25-29 anni per livello di istruzione, 1996-2003 (%)
Livello di istruzione: 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Dottorato, Laurea, Laurea breve 26,1 23,9 22,0 19,3 16,4 13,5 14,0 12,9Diploma accesso Università 10,7 11,0 10,7 10,0 9,0 7,3 6,6 6,0Qualifica lic. non accesso Università 8,5 8,4 7,1 6,2 5,8 4,9 5,1 5,0Licenza Media 8,5 9,6 9,6 9,1 8,5 7,6 7,4 7,5Licenza elementare, Nessun titolo 14,7 16,4 16,2 14,8 13,4 10,8 8,9 7,6Totale 10,8 11,4 11,1 10,3 9,4 8,0 7,7 7,3
Dottorato, Laurea, Laurea breve 45,5 44,1 44,2 46,8 44,0 42,4 37,6 40,2Diploma accesso Università 36,9 39,0 39,2 37,8 37,1 34,4 30,6 28,6Qualifica lic. non accesso Università 38,9 37,0 38,6 36,8 34,7 31,9 29,5 25,8Licenza Media 29,1 32,2 32,8 32,9 31,7 29,1 29,0 28,0Licenza elementare, Nessun titolo 38,5 38,5 39,2 40,6 44,7 39,5 38,9 36,2Totale 33,9 36,1 36,8 36,7 35,8 33,3 31,0 29,9
Dottorato, Laurea, Laurea breve 31,4 29,6 28,2 26,8 23,7 21,2 20,4 20,2Diploma accesso Università 18,0 19,0 19,2 18,4 17,3 15,7 14,3 13,1Qualifica lic. non accesso Università 12,7 12,5 11,7 10,5 10,0 8,6 8,5 8,1Licenza Media 15,2 17,1 17,4 17,1 16,6 15,0 14,8 14,6Licenza elementare, Nessun titolo 28,0 28,1 28,8 29,0 29,8 25,2 23,4 21,2Totale 17,7 18,8 19,0 18,4 17,5 15,8 15,0 14,3
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT, Indagine sulle forze lavoro
Centro-Nord
Mezzogiorno
Italia
Nel complesso, anche se consideriamo livelli di istruzione inferiori a quello universitario, i
dati riportati nelle Tabb. 5 e 6 confermano ancora una volta il carattere fortemente dualistico del
mercato del lavoro in Italia: nel Centro-Nord, dove vi è una situazione prossima alla piena
occupazione, anche i meno “scolarizzati” non sembrano incontrare eccessive difficoltà nel trovare
un impiego; essi appaiono, invece, fortemente penalizzati nel Mezzogiorno. In realtà, l’aver
raggiunto maggiori livelli di scolarità non garantisce maggiori probabilità di occupazione, almeno
nel breve periodo.
Le indagini condotte dall’ISTAT sugli sbocchi occupazionali dei laureati consentono di
precisare il quadro appena disegnato mostrando che, in generale, la situazione occupazione dei
neolaureati in Italia appare in leggero miglioramento. Tra il 2001 e il 2004, la percentuale di laureati
che, a tre anni dalla laurea, si dichiara occupato è aumentata dal 72,6% al 73,5%. In questo ultimo
caso, l’aumento del tasso di occupazione medio dei laureati del 2001 a tre anni dalla laurea rispetto
a quello dei laureati del 1998 è conseguenza dell’aumento del tasso di occupazione delle donne
laureate – dal 68,5% al 70,1% - che, pur rimanendo inferiore a quello dei colleghi uomini, ne ha più
che compensato la leggera riduzione.
24
Tab. 6. Tasso di occupazione dei giovani in età 25-29 anni per livello di istruzione, 1996-2003 (%)
Livello di istruzione: 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Dottorato, Laurea, Laurea breve 59,4 60,9 63,4 65,6 69,6 71,9 71,5 71,8Diploma accesso Università 65,5 64,5 64,4 65,3 67,2 69,2 70,1 71,3Qualifica lic. non accesso Università 81,0 82,3 82,9 82,8 86,0 86,3 85,8 87,7Licenza Media 74,3 73,7 73,7 74,9 74,8 75,9 78,2 78,7Licenza elementare, Nessun titolo 42,3 42,3 41,8 44,0 41,3 42,4 52,7 57,6Totale 69,2 68,6 68,7 69,7 70,9 72,3 73,7 74,4
Dottorato, Laurea, Laurea breve 37,5 38,9 41,5 39,4 41,1 42,4 45,8 42,0Diploma accesso Università 35,5 34,4 34,7 35,3 35,6 37,8 41,3 41,5Qualifica lic. non accesso Università 39,6 40,3 41,4 44,2 47,7 47,9 49,1 50,7Licenza Media 42,0 40,6 40,7 40,2 41,3 43,4 44,9 45,1Licenza elementare, Nessun titolo 24,9 23,7 25,3 24,9 22,3 26,0 29,5 33,1Totale 37,7 36,7 37,1 37,0 37,7 39,9 42,7 42,6
Dottorato, Laurea, Laurea breve 52,6 54,1 56,9 58,0 61,4 63,3 63,8 62,8Diploma accesso Università 55,4 54,3 54,0 54,7 56,0 57,6 59,3 60,2Qualifica lic. non accesso Università 73,6 74,3 75,3 76,1 79,2 79,8 79,4 80,6Licenza Media 61,4 60,4 60,4 60,6 60,7 62,4 64,5 64,7Licenza elementare, Nessun titolo 31,7 31,2 32,0 32,5 30,5 33,7 40,5 44,9Totale 57,7 56,9 57,0 57,7 58,6 60,3 62,2 62,6
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT, Indagine sulle forze lavoro
Centro-Nord
Mezzogiorno
Italia
A livello territoriale, tuttavia, il quadro che emerge dal confronto tra l’indagine ISTAT del
2001 e quella del 2004 conferma l’esistenza di netti differenziali nelle opportunità di occupazione
offerte ai laureati nelle principali macro-ripartizioni del nostro Paese (v. Tab. 7). Tra il 2001 e il
2004, il tasso di occupazione dei laureati si mantiene costante nel Nord-Ovest (83,6%), aumenta dal
77,1% al 79,9% nel Nord-Est e dal 71% al 74,1% nel Centro e si riduce dal 59,8% al 58,7% nel
Mezzogiorno. Tra il 2001 e il 2004, quindi, osserviamo un aumento dei differenziali territoriali a
sfavore della ripartizione meridionale che conferma quanto più marcata sia divenuta la necessità,
per un neolaureato, di lasciare l’area e spostarsi nel resto del Paese. In particolare, è il Nord-Ovest
che rimane l’area dove maggiormente si dirigono i laureati meridionali per studiare e lavorare,
anche se, tra il 2001 e il 2004, è aumentata la percentuale di coloro che, lasciato il Mezzogiorno, si
dirigono nel Nord-Est e nel Centro. Nel periodo considerato, quindi, il “deflusso” dei laureati
meridionali dal Mezzogiorno suggerisce che ci si diriga laddove esistono opportunità di
occupazione, a prescindere dal salario e dalle condizioni contrattuali che si ottengono.
Se si effettua una distinzione di genere, tra il 2001 e il 2004, i differenziali nei tassi di
occupazione a sfavore delle regioni meridionali, già molto elevati, aumentano: nel 2004 il tasso di
occupazione delle laureate del 2001 è pari al 52,4% (versus il 53,3% nel 2001) nel Mezzogiorno e
all’81,3% (versus l’80,9% nel 2001) nel Nord-Ovest. L’evidenza empirica mostra, quindi, un
25
aumento, per le laureate meridionali, della difficoltà di trovare lavoro nel Mezzogiorno che, a nostro
avviso, spiega, in parte52, l’aumento della mobilità delle donne osservata nello stesso periodo.
Tab. 7. Tassi di occupazione dei laureati italiani del 1998 nel 2001, per sesso, gruppo di corso di laurea e ripartizione geograficaa
Nord-Ovest Nord-Est Centro Centro-Nord Mezzogiorno Italia
Uomini 87,2 81,5 75,0 81,8 68,6 78,2Donne 80,9 73,6 68,8 74,7 53,3 68,5
Gruppo scientifico 86,1 81,1 80,9 83,0 71,4 80,0Gruppo chimico-farmaceutico 86,4 80,1 85,0 83,8 74,8 81,6Gruppo geo-biologico 73,5 71,4 60,7 68,6 60,0 66,0Gruppo medico 27,6 21,7 19,0 22,8 17,3 21,0Gruppo ingegneria 94,5 94,8 91,9 93,9 88,1 92,7Gruppo architettura 89,3 87,2 83,3 87,3 73,4 83,6Gruppo agrario 84,9 86,3 72,0 81,7 62,9 76,6Gruppo economico-statistico 91,7 82,1 81,4 85,6 70,0 81,6Gruppo politico-sociale 90,5 89,2 79,9 86,7 64,3 81,6Gruppo giuridico 68,6 59,0 53,5 60,0 45,4 54,6Gruppo letterario 82,5 75,1 69,9 75,6 53,1 68,5Gruppo insegnamento 91,2 87,2 80,7 86,6 64,5 78,7
Totale 83,6 77,1 71,0 77,7 59,8 72,6
a Si considera la residenza dei laureati al momento dell'indagine
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT
Gruppo di corso di laurea
Di conseguenza, si conferma che nelle regioni meridionali, sia nel 2001 che nel 2004, si
verifica un doppio “spreco di cervelli” (o brain waste), che si riflette da un lato in elevati tassi di
disoccupazione e in scarsi livelli di occupazione e, d’altro lato, in una situazione professionale
spesso inadeguata rispetto al titolo acquisito.53
5. Specializzazione produttiva e dotazione di risorse umane qualificate: il recente dibattito in Italia.
Negli ultimi anni uno degli argomenti maggiormente dibattuti dalla letteratura economica
italiana ha riguardato le cause del declino economico del nostro Paese,54 divenuto più evidente a
partire dal 2001. A differenza di quanto accaduto nel passato, questa brusca decelerazione
dell’economia italiana “non ha coinciso con un periodo di forti spinte salariali o con shock
significativi dal lato dell’offerta”55 e, al tempo stesso, non è attribuibile neanche all’andamento
52 L’aumento della mobilità femminile può essere spiegata anche dalla modifica dei costumi che avviene nel
tempo e che ne favorisce l’indipendenza. 53 Le difficoltà in cui versa il mercato del lavoro nelle regioni meridionali è confermata ulteriormente
dall’elevata percentuale di laureati inoccupati in cerca di lavoro nelle regioni meridionali. Nel 2004, a tre anni dalla laurea, ben il 60,9% dei laureati del 2001, residenti al momento dell’indagine nel Mezzogiorno, cerca ancora lavoro a fronte del 36% dei colleghi centro-settentrionali che, come confermano i dati, trovano lavoro prima e più facilmente.
54 Cfr. Ciocca (2004); Toniolo e Visco (2004); Nardozzi (2004). 55 Cfr. R. Faini e A. Sapir (2005), p. 1.
26
complessivo dell’economia mondiale che, negli ultimi tre anni, è cresciuta mediamente più di
quanto registrato negli anni novanta.
In generale, la letteratura attribuisce questo declino, piuttosto che a fenomeni congiunturali,
a problemi strutturali, la cui dimensione e i cui effetti si sono aggravati negli ultimi anni. La sua
causa principale dovrebbe essere ricercata, in altre parole, “in una struttura industriale che ha
conservato un modello di specializzazione divenuto obsoleto perché incapace di affrontare due
ostacoli apparsi negli anni ’90: l’entrata sulla scena dei PVS e la rivoluzione dell’ICT”.56 Nel
complesso, la dimensione economica del declino italiano è riassumibile nella mancata capacità di
adattamento di un modello di successo a condizioni diverse da quelle che avevano garantito il
successo stesso (Toniolo, 2004) e, quindi, nella scarsa presenza nei settori ad alta tecnologia, nella
scarsa capacità brevettuale, nella modesta spesa in R&S, in una modesta crescita della produttività
media del lavoro, nelle piccole dimensioni dell’impresa media italiana e, in generale, nel declino
delle grandi imprese, tutti fattori posti in risalto nel capitolo precedente.
Se, da un lato, la letteratura concorda sulle cause del declino, dall’altro lato, non concorda
sulla direzione di causalità tra specializzazione produttiva italiana e offerta di capitale umano
qualificato (Spaventa, 2005). In un recente lavoro, Faini e Sapir (2005) hanno posto in risalto che
l’Italia si trova ad affrontare una crescente concorrenza dei paesi emergenti, che possono contare su
bassi salari e su una forza lavoro che è progressivamente più qualificata, che sta erodendo anche il
vantaggio comparato che il nostro paese ancora possiede nelle gamme produttive di maggiore
qualità dei settori tradizionali. Inoltre, i settori in cui l’Italia fruisce di un vantaggio comparato sono
quelli in cui la domanda mondiale tende a crescere più lentamente; in linea con la letteratura
sull’argomento,57 i due autori sostengono che il vantaggio comparato dell’Italia è eccessivamente
sbilanciato verso settori che utilizzano principalmente capitale umano poco qualificato e investono
relativamente poco in R&S.
Tra i fattori strutturali che hanno influito sul declino italiano, in particolare sulla perdita di
competitività delle nostre esportazioni, Faini e Sapir si concentrano sul modello di specializzazione
dell’economia italiana a livello internazionale e sull’influenza che la scarsa dotazione di capitale
umano qualificato ha avuto su di essa. I due autori pongono in evidenza che “ha poco senso porsi
elevati obiettivi di R&S se il nostro Paese rimane povero di quei fattori produttivi, in primis la forza
lavoro qualificata, che favoriscono la crescita di settori ad alta tecnologia e alta intensità di capitale
umano che più hanno beneficiato della crescita del commercio mondiale”.58
56 Cfr. L. Spaventa (2005). 57 Cfr. SVIMEZ (2001, 2002, 2003). 58 Op. cit., p. 3.
27
L’idea di fondo sembra quella neoclassica secondo cui il modello di specializzazione di un
paese riflette la sua dotazione relativa di fattori produttivi, considerata esogena al processo di
sviluppo, ma influenzabile da opportune politiche economiche. In questo caso, tuttavia, rispetto alla
teoria ortodossa standard, assume rilievo la differenziazione qualitativa del fattore lavoro: la
divisione internazionale del lavoro è dominata dalla disponibilità, nei vari paesi, della forza lavoro
con elevate qualifiche o con lunga esperienza professionale. In ogni caso, come già rimarcato, tale
approccio non spiega perchè la dotazione di fattori produttivi differisce da paese a paese.
Se da un lato non troviamo alcuna difficoltà a concordare con le prime conclusioni di Faini e
Sapir circa l’incapacità del modello di specializzazione italiano di trarre pieno vantaggio dalla
dinamica delle esportazioni mondiali, dall’altro lato, non condividiamo la direzione di causalità tra
specializzazione italiana e offerta di capitale umano proposta da questi autori, secondo cui una
bassa offerta di capitale umano qualificato induce, ceteris paribus, un modello di specializzazione
low-tech. I due autori sembrano sostenere, sia pure con qualche esitazione, che la causa
dell’esistenza di una specializzazione low-tech va identificata in una insufficiente dotazione di
capitale umano qualificato dovuta a una inadeguata qualificazione della forza lavoro e che, quindi,
il peso dei settori tradizionali e il nanismo delle imprese italiane riflettono la scarsità di manodopera
qualificata. In questo caso, infatti, non si spiega perché la dotazione di capitale umano qualificato
in Italia è così scarsa.59
Da un lato, condividiamo l’idea che sia necessario promuovere la formazione di lavoratori
qualificati e creare le condizioni che garantiscano un adeguato sbocco nella domanda del sistema
produttivo a questa accresciuta offerta di lavoro qualificato. Dall’altro lato non siamo d'accordo
sulla tesi secondo cui “l’inefficienza di manodopera qualificata perpetua un modello di
specializzazione obsoleto che a sua volta scoraggia la domanda stessa di capitale umano”.60
In particolare, non condividiamo la tesi che l’accentuazione del ritardo relativo dell’Italia in
termini di dotazione di capitale umano, causato dall’inadeguata qualificazione della forza lavoro
rispetto agli altri paesi industrializzati, spieghi di per sé le ragioni per cui il modello di
specializzazione del nostro Paese continui a divergere rispetto a quello degli altri paesi avanzati.
Come gli stessi autori scrivono immediatamente dopo aver sostenuto questa tesi61, dando luogo a
qualche perplessità circa l’effettiva interazione tra i due fenomeni da loro condivisa e sostenuta, il
livello di istruzione della popolazione e della forza lavoro è un fenomeno endogeno allo stesso
progresso tecnologico che, in ultima analisi, ne determina la domanda (Acemoglu, 2003).
59 La spiegazione è rinviata alle politiche dell’istruzione e a fattori di carattere sociale. 60 Op. cit., p. 4. 61 Op. cit., pp. 27-30.
28
Spaventa (2005) ritiene che non sia la scarsa dotazione di capitale umano qualificato a
indurre una specializzazione in settori tradizionali, ma sia la presenza di una specializzazione
tradizionale, legata in parte alla struttura del mercato italiano, all’esperienza artigianale e industriale
storicamente acquisita dalla nostra forza lavoro e a variabile tecnologiche e organizzative, ad aver
indotto una scarsa domanda di lavoratori qualificati.
Se vi fosse una domanda per un capitale umano qualificato, continua Spaventa, non si
comprenderebbe perché il tasso di disoccupazione dei laureati italiani è il più elevato, dopo Spagna
e Grecia, tra quelli dei paesi Ue, perchè i nostri “cervelli” emigrati all’estero non tornano, perchè in
Italia la percentuale di immigrati qualificati è irrisoria.
Spaventa prosegue il suo intervento ponendo in risalto che le imprese italiane di media
dimensione appaiono poco interessate alla formazione della loro forza lavoro, come dimostrano i
dati riguardanti le assunzioni di personale tra il 2001 e il 2004: in questo periodo, solo il 6,5% della
forza lavoro assunta da imprese di medie dimensioni è laureata, a fronte del 17,8% nelle imprese di
grandi dimensioni.
Inoltre, come osservato da Spaventa, la struttura produttiva esistente in Italia, con la
presenza di produzioni di nicchia, è del tutto compatibile con la presenza di manodopera qualificata,
erroneamente approssimata da Faini e Sapir con i dipendenti in R&S.
5.1 L’evidenza empirica e il dibattito sulla direzione di causalità tra dotazione di risorse umane e
specializzazione produttiva.
In generale, a prescindere dalle carenze, assolute o relative, del nostro sistema di istruzione,
sarebbe opportuno domandarsi, in linea con Spaventa (2005), se non sia la carenza di imprese
industriali moderne ad aver indotto una scarsa opportunità di occupazione per la parte più
qualificata della forza lavoro. L’idea è semplicemente che se non esiste una domanda per “laureati”
non c’è motivo per laurearsi o ci si laurea nelle materie “sbagliate”, perché lo studio diventa un
modo per ottenere uno status e non un investimento per il futuro.
L’interpretazione del rapporto tra dotazione di capitale umano qualificato, sviluppo
economico e specializzazione produttiva, inoltre, è profondamente diversa a seconda che si
consideri un’economia matura quale quella del Centro-Nord, che fatica a tenere il passo delle
economie più sviluppate a causa delle difficoltà di adattamento ai cambiamenti tecnologici in atto, o
un’economia quale quella meridionale, tuttora caratterizzata da un apparato produttivo insufficiente
a occupare la forza lavoro disponibile. Se il problema del Mezzogiorno fosse semplicemente ed
esclusivamente un problema di offerta (Faini e Sapir, 2005), poco si comprenderebbe perchè, tra il
29
2001 e il 2004, aumenta nettamente la quota di coloro che hanno studiato nel Mezzogiorno e, dopo
la laurea, si sono spostati per lavorare nel Centro-Nord (dal 18% nel 2001 a ben il 25% nel 2004);
come mai sempre più meridionali che si spostano nel Centro-Nord per studiare non tornano nella
loro ripartizione (ben il 14% dei laureati meridionali del 2001 occupati nel 2004); infine, perché
l’immigrazione di laureati per motivi di lavoro dalle altre parti del paese o dall’estero si mantiene
nel tempo così scarsa.
Se si adotta, invece, una visione circolare e cumulativa della crescita economica, si è in grado
di interpretare l’evidenza empirica emersa dalla nostra analisi in un modo che a noi appare piuttosto
coerente: i laureati meridionali fuggono dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord perchè nessuno li
domanda e pochi laureati immigrano nel Mezzogiorno dalle altre aree per lo stesso motivo.
Dato il riconoscimento generalizzato della necessità di adattare la specializzazione
produttiva italiana all’andamento della domanda mondiale, riteniamo che il problema della fuga di
capitale umano qualificato dalle regioni meridionali verso quelle centro-settentrionali meriti molta
più attenzione di quella che gli è stata dedicata sino a questo momento, proprio perché, a causa dei
cambiamenti organizzativi e delle innovazioni di processo necessari per modificare la
specializzazione, si determinerà una crescente esigenza di lavoratori qualificati. Tale fuga potrebbe
contribuire a facilitare l’adattamento della struttura produttiva del Centro-Nord e costituire
un’ulteriore difficoltà per le imprese meridionali.
La principale conseguenza della fuga in atto all’interno dei confini del nostro Paese è di
favorire un processo “perverso” di accumulazione di capitale umano qualificato nelle regioni più
ricche (e caratterizzate da un livello di partenza della produttività media del lavoro superiore
rispetto a quello prevalente nelle regioni meridionali) che si avvantaggiano ancora di più - nella
misura in cui si concordi che un incremento di capitale umano qualificato incide ulteriormente sui
differenziali di produttività media del lavoro tra le due aree - rendendo il catching-up sempre più
difficile.
Di conseguenza, ricollegandoci al dibattito teorico sulle conseguenze del brain drain, la
fuga delle risorse qualificate dal Mezzogiorno e la loro accumulazione nel Centro-Nord hanno,
senza dubbio, un effetto negativo di lungo periodo.
L’evidenza empirica sembra suggerire che sia proprio la carenza di imprese industriali
moderne, la scarsa dimensione d’impresa e la composizione settoriale dell’offerta ad aver indotto,
nel Mezzogiorno e, in misura relativamente minore, nel resto del Paese, una scarsa opportunità di
occupazione per la parte più qualificata della forza lavoro; in tal modo si inverte la direzione di
causalità tra specializzazione e offerta di capitale umano proposta da una parte dell’autorevole
30
letteratura sull’argomento, secondo cui una bassa offerta di capitale umano qualificato induce,
ceteris paribus, un modello di specializzazione low-tech.62
Tab 8. Settore di lavoro dei laureati del 2001 nel 2004 e dei laureati del 1998 nel 2001a.
2001 2004 2001 2004 2001 2004
Agricoltura, pesca e caccia 0,8 1,1 1,5 2,4 1,0 1,5
Industria 20,8 20,6 21,9 19,7 13,5 14,8 di cui : - Industria in senso stretto 20,3 18,3 21,6 17,1 13,1 12,9 - Costruzioni 0,5 2,3 0,3 2,6 0,3 1,9
Industria Manifatturierab 17,9 17,2 19,1 16,2 12,0 11,4
Servizi 78,4 78,2 76,6 77,9 85,5 83,6 di cui : - Commercio, alberghi e pubblici esercizi 7,9 7,3 8,5 8,3 6,8 7,4 - Trasporti, viaggi, poste e telecomunicazioni 3,4 3,5 3,0 4,2 6,1 6,4 - Credito e assicurazioni 10,4 10,6 8,7 8,5 5,7 6,4 - Attività professionali e consulenza 16,9 20,0 15,8 17,6 18,9 22,2 - Immobiliari e di noleggio, sondaggi 6,8 5,5 5,8 4,5 7,5 6,1 - Informatica e attività connesse 9,8 11,0 10,5 12,1 11,8 10,5 - Manutenzione e riparazioni elaborati elettronici 6,0 7,0 6,4 8,8 6,9 8,4 - Istruzione e formazione 2,4 6,5 2,3 7,2 3,5 8,3 - Sanità e assistenza sociale 4,9 6,9 7,1 6,7 8,4 7,8
Agricoltura, pesca e caccia 1,2 2,5 1,1 1,6 1,1 1,9
Industria 12,8 13,8 19,0 18,5 17,6 17,5 di cui : - Industria in senso stretto 12,6 10,8 18,6 16,3 17,2 15,0 - Costruzioni 0,2 3,1 0,4 2,3 0,3 2,5
Industria Manifatturierab 11,2 10,0 16,5 15,1 15,3 13,9
Servizi 86,0 83,6 79,9 79,8 81,3 80,7 di cui : - Commercio, alberghi e pubblici esercizi 7,0 6,3 7,8 7,7 7,6 7,4 - Trasporti, viaggi, poste e telecomunicazioni 3,4 4,4 4,1 4,6 3,9 4,6 - Credito e assicurazioni 6,6 5,6 8,5 8,7 8,1 8,0 - Attività professionali e consulenza 20,3 26,5 17,1 20,0 17,9 21,4 - Immobiliari e di noleggio, sondaggi 4,3 3,7 6,7 5,4 6,1 5,0 - Informatica e attività connesse 18,4 15,1 10,6 11,2 12,4 12,1 - Manutenzione e riparazioni elaborati elettronici 6,5 9,4 6,4 8,0 6,4 8,3 - Istruzione e formazione 2,5 7,4 2,7 7,3 2,7 7,3 - Sanità e assistenza sociale 7,5 5,2 6,6 7,1 6,8 6,7
a Si considera la residenza dei laureati al momento dell'indagineb Al lordo del settore petrolchimico.
Fonte : Elaborazioni su dati ISTAT
Nord-EstNord-OvestSettore
ItaliaCentro-NordMezzogiorno
Centro
Inoltre, sulla base dell’attuale composizione qualitativa della forza lavoro, sarebbe
interessante capire quale sia l’effettivo ruolo che le risorse umane qualificate ricoprono o
potrebbero ricoprire nell’adattamento strutturale della specializzazione produttiva del nostro Paese
all’andamento della domanda mondiale. A questo fine, occorre capire, in primo luogo, quanti dei
62 Questi autori sembrano sostenere, con qualche esitazione, che la causa dell’esistenza di una specializzazione
low-tech sia da identificarsi in una insufficiente dotazione di capitale umano qualificato dovuta a una inadeguata qualificazione della forza lavoro e che, quindi, il peso dei settori tradizionali e il nanismo delle imprese italiane riflettono la scarsità di manodopera qualificata.
31
laureati italiani lavorano nell’industria manifatturiera italiana e, in secondo luogo, verificare se,
oltre a un problema di scarsità di risorse qualificate, non si abbia un problema più grave relativo alla
composizione della forza lavoro, legato alla considerazione che la nostra industria manifatturiera,
come vedremo tra breve, domanda relativamente pochi laureati. Infatti, se ad un aumento del
numero assoluto di laureati non seguisse una modifica nella composizione della forza lavoro
occupata nell’industria manifatturiera, il dibattito sul loro ruolo per l’adattamento della
specializzazione produttiva dovrebbe assumere connotati diversi.
L’elaborazione dei dati individuali delle due indagini sugli sbocchi professionali dei laureati
del 2001 e del 1998 a tre anni dalla laurea ha consentito di identificare i principali settori di attività
che domandano lavoro qualificato.
In primo luogo, come ci si aspetta in un’economia avanzata, i laureati italiani lavorano
principalmente nel settore dei servizi: nel 2004 l’incidenza dei laureati italiani occupati nei servizi
sul numero complessivo di laureati occupati è dell’80,7% (v. Tab. 8), quota nettamente superiore
all’incidenza degli addetti nei servizi sull’occupazione complessiva rilevata, nel 2001, dall’8°
Censimento generale dell’industria e dei servizi, pari al 65,3% (v. Tab. 9).
Nello stesso anno, nel Mezzogiorno, l’83,6% dei laureati lavora nel settore dei servizi (a
fronte del 79,8% del Centro-Nord), il 13,8% nell’industria in senso stretto (16,3% nel Centro-Nord)
e il 2,5% nel settore agricolo (1,6% nel Centro-Nord).63 Nel 2004, quindi, la quota meridionale di
laureati occupati nel settore dei servizi sull’occupazione complessiva è più elevata di quella
registrata nel Centro-Nord, mentre in quest’ultima area appare più elevata la quota di laureati
occupati nell’industria in senso stretto e, in particolare, nell’industria manifatturiera.
Questi dati riflettono la struttura economica delle due aree, come emerge dai dati censuari
del 2001 che confermano la maggiore incidenza sull’occupazione complessiva degli occupati nel
settore terziario nel Mezzogiorno e la minore incidenza degli addetti nell’industria manifatturiera
rispetto al Centro-Nord (v. Tab. 9). 64A questo si deve aggiungere, però, che nel 2004 l’incidenza
dei laureati del 2001 occupati nei servizi sul numero complessivo dei laureati occupati (83,6%) è
superiore all’incidenza degli addetti nei servizi sull’occupazione complessiva (72%).
63 Questa differenza è imputabile al fatto che, nel Mezzogiorno, il peso dell’agricoltura (10% in termini di
addetti) è significativamente più elevato rispetto a quello che si registra nel Centro-Nord (3,9%). 64 La maggiore presenza di addetti alle attività terziarie che, apparentemente, sembra caratterizzare la struttura
produttiva del Mezzogiorno è un fenomeno qualitativamente differente dalla tendenza all’espansione dei servizi verificatasi nel Centro-Nord. In quest’area, infatti, la compiuta realizzazione del processo di industrializzazione ha reso possibile il raggiungimento di elevati livelli di reddito pro capite accompagnati da elevati livelli di occupazione della forza lavoro. Nel Mezzogiorno, la prevalenza dei servizi è dovuta alla limitata presenza di attività industriali che si riflette, inoltre, nella minore diffusione relativa di attività terziarie collegate ad imprese manifatturiere, o a più elevato valore aggiunto. Nel Mezzogiorno, quindi, il forte peso rivestito dai servizi è strettamente connesso ad un sistema economico le cui dimensioni assolute permangono complessivamente limitate, soprattutto per le attività in grado di competere sui mercati.
32
L’evidenza empirica conferma che l’industria manifatturiera meridionale domanda meno
forza lavoro qualificata delle imprese manifatturiere centro-settentrionali; che l’industria
manifatturiera meridionale domanda meno forza lavoro qualificata delle imprese meridionali del
terziario; infine, che il “contenuto” di forza lavoro laureata nel settore è relativamente scarso. Nel
2004, infatti, solo il 10% dei laureati meridionali del 2001 che si dichiarano occupati a tre anni dalla
laurea (nel 2004) lavora nell’industria manifatturiera meridionale; tale quota, oltre ad essere
inferiore a quella registrata nel Centro-Nord (15,1%), è inferiore all’incidenza degli addetti
nell’industria manifatturiera sull’occupazione complessiva (17,1%). Questo potrebbe spiegarsi
considerando che una struttura dimensionale molto ridotta e una specializzazione produttiva
maggiormente indirizzata verso settori tradizionali65 richiede meno personale qualificato di quanto
non accade in presenza di imprese di dimensione più elevata e specializzate in settori
tecnologicamente più avanzati. Ricordiamo che, tra il 2001 e il 2004, solo il 6,5% della forza lavoro
assunta da imprese di medie dimensioni ha conseguito una laurea, a fronte del 17,8% nelle imprese
di grandi dimensioni e che, nel medesimo periodo, nelle medie imprese le assunzioni per lo
sviluppo della ricerca si sono ridotte di circa il 12% medio annuo.66
A queste considerazioni deve aggiungersene un’altra. Tra il 1991 e il 2001, nel Mezzogiorno
l’aumento degli addetti nei diversi settori dell’economia si è concentrato proprio nelle imprese di
classe dimensionale minore67 (microimprese, da 1 a 2 addetti, e piccole imprese, da 10 a 49 addetti)
mentre in quelle più grandi (oltre 100 addetti) vi sono state variazioni di segno opposto. Poiché le
unità locali di piccolissima e piccola dimensione sono numericamente prevalenti, mentre gli addetti
sono relativamente maggiori negli impianti più grandi, la “ricomposizione” intervenuta nel periodo
censuario ha determinato, a livello di intero comparto manifatturiero, un aumento del numero delle
unità locali a fronte di una caduta dello stock di occupati. In termini dinamici, quindi, l’aumento del
numero di imprese di piccole e piccolissime dimensioni e la diminuzione di quelle di medie
dimensioni non consente ottimismo rispetto alle possibilità occupazionali attuali e future delle
risorse umane meridionali più qualificate.
Lo stesso vale, in termini relativi, anche per l’industria manifatturiera centro-settentrionale
che, pur domandando più laureati dell’industria manifatturiera meridionale, ne domanda meno
rispetto alle imprese centro-settentrionali operanti nel terziario. La quota di laureati occupati
65 Questo non è in contraddizione con il fatto che i vantaggi comparati delle esportazioni meridionali si
concentrano nei settori caratterizzati da una crescita della domanda mondiale più elevata e, in generale, nei settori con forti economie di scala, dominato da imprese di grandi dimensioni a controllo esterno, più di quanto non accade nel Centro-Nord. Tale contraddizione non sussiste per la semplice osservazione che le imprese esportatrici rappresentano una minima parte delle imprese meridionali.
66 Cfr. Spaventa (2005). 67 Nel 2001, nella classe da 1 a 9 addetti era compreso il 33,9% dell’intera occupazione manifatturiera
meridionale, mentre nel 1991 tale percentuale era pari al 33,4%.
33
nell’industria manifatturiera è pari al 15,1%, mentre la quota di addetti sull’occupazione
complessiva è pari al 27,9%, mentre l’incidenza dei laureati nei servizi (79,8%) è nettamente
maggiore dell’incidenza degli addetti sull’occupazione complessiva68 (63,2%; v. Tabb. 8 e 9).
Tab. 9. Addetti totali alle unità locali, per settore di attività economica, ai Censimenti 1991-2001
1991 2001 1991 2001 1991 2001
Agricoltura e Pesca 29.286 45.793 71.685 72.774 100.971 118.567
IndustriaIndustria manifatturiera 832.353 808.744 4.395.196 4.097.571 5.227.549 4.906.315 Industria estrattiva ed energia 67.333 53.026 158.044 118.521 225.377 171.547 Costruzioni 381.393 414.778 951.703 1.116.139 1.333.096 1.530.917 Totale 1.281.079 1.276.548 5.504.943 5.332.231 6.786.022 6.608.779
ServiziServizi (esclusa la P.A.) 1.722.936 1.854.601 5.214.994 6.225.735 6.937.930 8.080.336 Commercio 911.118 835.527 2.396.144 2.321.079 3.307.262 3.156.606 Alberghi e pubblici esercizi 162.062 185.768 572.310 673.285 734.372 859.053 Trasporti e comunicazioni 293.516 288.190 827.375 904.837 1.120.891 1.193.027 Credito, assicuraz., aus. Fin. 112.239 106.560 457.296 483.666 569.535 590.226 Intermediazione immobiliare e noleggio macchinari11.307 25.618 91.516 238.320 102.823 263.938 Attività informatiche 27.204 50.673 153.748 304.183 180.952 354.856 Ricerca e sviluppo 7.634 12.294 35.824 42.399 43.458 54.693 Attività professionali 197.856 349.971 680.781 1.257.966 878.637 1.607.937 Pubblica amministrazione 1.446.937 1.550.226 2.704.561 3.052.648 4.151.498 4.602.874 Totale 3.169.873 3.404.827 7.919.555 9.278.383 11.089.428 12.683.210
Totale 4.480.238 4.727.168 13.496.183 14.683.388 17.976.421 19.410.556
Agricoltura e Pesca 0,7 1,0 0,5 0,5 0,6 0,6
IndustriaIndustria manifatturiera 18,6 17,1 32,6 27,9 29,1 25,3Industria estrattiva ed energia 1,5 1,1 1,2 0,8 1,3 0,9Costruzioni 8,5 8,8 7,1 7,6 7,4 7,9Totale 28,6 27,0 40,8 36,3 37,7 34,0
ServiziServizi (esclusa la P.A.) 38,5 39,2 38,6 42,4 38,6 41,6Commercio 20,3 17,7 17,8 15,8 18,4 16,3Alberghi e pubblici esercizi 3,6 3,9 4,2 4,6 4,1 4,4Trasporti e comunicazioni 6,6 6,1 6,1 6,2 6,2 6,1Credito, assicuraz., aus. Fin. 2,5 2,3 3,4 3,3 3,2 3,0Intermediazione immobiliare e noleggio macchinari0,3 0,5 0,7 1,6 0,6 1,4Attività informatiche 0,6 1,1 1,1 2,1 1,0 1,8Ricerca e sviluppo 0,2 0,3 0,3 0,3 0,2 0,3Attività professionali 4,4 7,4 5,0 8,6 4,9 8,3Pubblica amministrazione 32,3 32,8 20,0 20,8 23,1 23,7Totale 70,8 72,0 58,7 63,2 61,7 65,3
Totale 100 100 100 100 100 100
Fonte : ISTAT
Settori di attività
Composizione %
Valori assoluti (migliaia di unità)
Mezzogiorno Centro-Nord Italia
68 A questo proposito, occorre porre in risalto che questo dato potrebbe essere distorto dal peso che la Pubblica
Amministrazione ricopre, in termini di occupati, nel Mezzogiorno e dal fatto che in molti concorsi pubblici la laurea è un requisito essenziale. Nonostante questo, riteniamo che tale distorsione non sia tale da contraddire i risultati ottenuti.
34
In ogni caso, i dati suggeriscono che nelle regioni centro-settentrionali, soprattutto nelle
regioni del Nord-Ovest, le imprese manifatturiere richiedono personale più qualificato rispetto a
quanto richiesto dalle imprese meridionali. Non a caso, nel Nord-Ovest la dimensione media delle
imprese manifatturiere è maggiore che nel resto del Paese, a parziale conferma che il capitale
umano qualificato, per essere domandato e utilizzato in modo efficace, ha bisogno di un’impresa la
cui dimensione abbia superato una determinata soglia critica.
In conclusione, quindi, anche nel Centro-Nord l’incidenza dei laureati occupati
nell’industria manifatturiera nel 2004 è inferiore alla quota di addetti sull’occupazione complessiva
rilevata dall’ultimo censimento. Di conseguenza, pur se l’industria manifatturiera del Centro-Nord
occupa una quota più elevata di laureati rispetto a quanto registrato nel Mezzogiorno, tale quota
indica che anche l’industria manifatturiera centro-settentrionale domanda relativamente pochi
laureati.
Il confronto con i risultati ottenuti dall’elaborazione dei dati individuali dell’Indagine sugli
sbocchi professionali dei laureati del 1998 consente qualche ulteriore e interessante osservazione:
mentre nei servizi, tra il 2001 e il 2004, la quota di laureati occupati rimane pressoché invariata sia
nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord, nell’industria in senso stretto e in particolare nell’industria
manifatturiera, se ne osserva una riduzione in entrambe le ripartizioni. Nel Mezzogiorno la
percentuale di laureati occupati nell’industria manifatturiera si riduce dall’11,2% del 2001 al 10%
del 2004, mentre nel Centro-Nord passa dal 16,5% al 15,1% (v. Tab. 8). Quindi, non solo le imprese
manifatturiere meridionali e centro-settentrionali domandano relativamente poco lavoro qualificato,
ma tale domanda, nel corso degli ultimi tre anni, si è ridotta. Deve essere posto in risalto, tuttavia,
che il calo dell’incidenza dei laureati occupati nell’industria manifatturiera, sia meridionale sia
centro-settentrionale, è dovuto al fatto che il numeratore è cresciuto meno del denominatore a
conferma che, in questa fase di crisi dell’industria manifatturiera italiana, le imprese del settore, nel
tentativo di contenere i costi, hanno preferito assumere lavoratori meno qualificati, ricorrendo
spesso anche a contratti atipici legati alle nuove forme di flessibilità.
5. Considerazioni conclusive
La fuga di “cervelli” in atto dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord69 si colloca all’interno di
una più ampia tendenza all’emigrazione che, tra il 1998 e il 2002, ha portato all’emigrazione di
69 Per un’analisi più approfondita della mobilità dei laureati meridionali del 2001 e del 1998 si rimanda al terzo
capitolo della tesi di dottorato dell’autrice.
35
circa 75 mila meridionali all’anno, la maggior parte dei quali di età compresa tra i 20 e i 29 anni e
con un buon livello di istruzione.
Dalla lettura parallela dei dati sugli esiti occupazionali nelle due aree del nostro Paese e di
quelli sulla mobilità e sulla soddisfazione che ne deriva, si perviene alla conclusione che la fuga
delle risorse qualificate dal Mezzogiorno in atto non sia che una delle conseguenze più
macroscopiche del dualismo del mercato del lavoro italiano dovuto alla non adeguata capacità
produttiva meridionale e alla mancanza di opportunità di lavoro per i più qualificati.
È la necessità che spinge più di 8 mila laureati l’anno ad abbandonare la propria area di
residenza per trovare un’occupazione qualsiasi nel resto del Paese.
Non deve stupire che una quota rilevante della forza lavoro meridionale che si è spostata nel
Centro-Nord sia costituita da laureati (in netta contraddizione, come discusso nel terzo paragrafo,
con l’idea che la decisione di migrare sia esogena e indipendente dal livello di educazione
raggiunto): in primo luogo, questi ultimi possiedono una maggiore forza contrattuale rispetto ai
lavoratori meno qualificati; in secondo luogo, non subiscono la concorrenza dei lavoratori
immigrati da altri paesi, sofferta, invece, da chi svolge lavori meno qualificati. Non stupisce, inoltre,
che la forza di lavoro più qualificata, nella speranza di trovare un lavoro qualsiasi, si diriga
soprattutto verso il Nord, area dove le opportunità di occupazione non mancano.
La fuga delle risorse qualificate dal Mezzogiorno verso il resto del Paese, dovuta alle
condizioni del mercato del lavoro meridionale, pur favorendone l’occupazione, non contribuisce
alla soddisfazione di chi decide di spostarsi dalla propria ripartizione per studiare e/o lavorare. È
proprio il laureato che ha deciso di spostarsi dal Mezzogiorno per andare a lavorare nel Centro-
Nord a dichiararsi maggiormente insoddisfatto del lavoro svolto, non solo rispetto al trattamento
economico e all’utilizzo delle conoscenze universitarie, ma anche, soprattutto, rispetto alla stabilità
e alla sicurezza della propria occupazione. La mobilità fotografata in questo lavoro sembra nascere
dalla necessità e non essere frutto di una libera scelta del laureato.
A nostro avviso, mentre il dibattito sulle cause del brain-drain trascura l’importanza
dell’esistenza di diverse opportunità di occupazione tra regione di origine e di immigrazione, il
dibattito sulle conseguenze della “fuga di cervelli” e sulla direzione di causalità tra dotazione di
capitale umano qualificato e specializzazione produttiva trascura tre elementi essenziali: e l’impatto
che la fuga di cervelli avrà sulla crescita potenziale delle due macro-aree italiane e sull’effettiva
capacità di adattamento delle rispettive strutture produttive all’andamento della domanda mondiale.
Il Mezzogiorno è un’area ancora piuttosto giovane in cui la disponibilità di capitale umano
inutilizzato costituisce, allo stesso tempo, uno dei principali elementi di disagio civile e uno dei più
36
importanti fattori di crescita potenziale.70 L’economia del Centro-Nord è un’economia matura che
fatica a tenere il passo con le economie più sviluppate a causa delle difficoltà di adattamento ai
cambiamenti tecnologici in atto. L’accumulazione di capitale umano qualificato nell’area
proveniente, in parte, dalle regioni meridionali, se seguito da un aumento della quota di lavoratori
qualificati sull’occupazione complessiva, potrebbe aumentare la probabilità che, nel futuro, il
Centro-Nord adatti la propria struttura produttiva all’andamento della domanda mondiale. La fuga
del capitale umano qualificato dal Mezzogiorno, invece, aggravata dalla scarsa incidenza dei
laureati sull’occupazione complessiva,71 potrebbe consolidare sempre più la specializzazione
tradizionale dell’area.
Nelle regioni meridionali, l’insufficienza dell’attuale livello di qualificazione delle risorse
umane e la fuga di gran parte di quelle che si formano costituiscono, non tanto la causa del mancato
sviluppo dell’area, ma proprio la sua principale conseguenza. È più un problema di caratteristiche
strutturali della domanda piuttosto che di carenza nell’offerta di capitale umano.
La questione vera, come posto in risalto in Spaventa (2005), è quella di un modello di
specializzazione industriale obsoleto a cui deve aggiungersi un declino del numero di grandi
imprese e una crescita di quelle di piccole e piccolissime dimensioni che produce esternalità
negative su istruzione, formazione, R&S, attività brevettuale72 e opportunità di occupazione per la
parte più qualificata della forza lavoro e che, nel Mezzogiorno, appare a nostro avviso più grave che
nel resto del Paese.
L’evidenza empirica discussa nel corso ddell’articolo, inoltre, conferma l’idea che se in una
regione la disoccupazione ha raggiunto il suo livello strutturale e ha bisogno di forza lavoro, quando
non esistono barriere legali all’immigrazione, lo importerà da quelle regioni dove la forza lavoro è
sottoutilizzata o disoccupata (Thirlwall, 2002).
Dall’altra parte, il “brain drain” in atto impoverisce le “social capabilities” meridionali che
rappresentano il necessario supporto al cambiamento tecnologico e all’innovazione. In assenza di
domanda, i lavoratori più qualificati decidono di emigrare e solo i meno qualificati rimangono. La
fuga del capitale umano73 può lasciare il Mezzogiorno esposto “to the negative consequences of the
70 Al Sud risiedono oltre 6,1 milioni di persone di età compresa tra 0 e 24 anni, pari a circa il 30% della
popolazione dell’area, mentre nel Centro-Nord tale quota è pari ad appena il 21%. 71 Solo l’11% della popolazione meridionale di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha conseguito una laurea, a
fronte del 19% nel Centro-Nord. 72 Il ruolo che il livello di educazione e il capitale umano ricoprono nella generazione dell’innovazione è stato
introdotto formalmente nel modello di Dixon e Thirlwall (1975), discusso nel capitolo precedente, da León-Ledesma (2002). 73 Furthermore, this “brain drain” is likely to contribute to the unequal distribution of income between northern and southern regions and to the impoverishment of demand in the more depressed part of Italy: the more the unskilled workers, the less their wages (in relative terms), the less their demand.
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policy and technological regime changes, and ill-equipped to benefit from the growth of industries
encouraged by these changes”.74
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