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S C H E D EL u i g i F e d e r z o n i , Italia di ieri per U
storia di domani, Milano, Mondadori, 1967, pp. 319, L . 3000.
Pu bblicate frammentariamente su « L ’Indipendente » di Roma tra maggio e luglio del 1946, queste memorie di Federzoni vengono ora riproposte organicamente nel volume di Mondadori.
Cosa aggiungono esse di nuovo alla nostra conoscenza della crisi del vecchio Stato liberale italiano, di quel rapporto sottile e corposo nazionalismo-fascismo, del regime mussoliniano e della sua prima conclusione di palazzo il 25 luglio 1943?
Una prima considerazione ovvia: accusa e autodifesa da parte di Federzoni, giornalista tra i fondatori de «L’ Idea Nazionale», deputato, vicepresidente della Camera, ministro con Mussolini due volte alle Colonie, una all’Interno, presidente del Senato, presidente dell’Accademia d ’ Italia, ma soprattutto Gran Collare dell’Annunziata e Gran Consultore del fascismo.
Accuse al figliol traviato, a Mussolini, presunto gregario e strumento nel disegno dei nazionalisti e capo effettivo, poi, verso cui « esisteva per tutti noi un rapporto di collaborazione...: rapporto di rationabile obsequium, subordinato alla persuasione che il capo svolgesse un’opera illuminata nell’interesse della nazione. Tutti avevano avuto per lungo tempo quella persuasione. A vevano creduto nella forza creativa della sua mente e della sua passione patriottica. Avevano piaudito e partecipato con intimo consenso, per non pochi anni, ad alcuni felici risultati della sua opera. Anche dopo che da difetti e incongruenze di questa erano state svelate le lacune del suo carattere, avevano continuato ad amarlo, e per un certo tratto si erano illusi che egli potesse essere difeso da loro contro se medesimo » (p. 206).
E accuse ai figli degeneri, i fascisti, sbrigativamente definiti « aderenti di svariatissima provenienza e idee elasticamente rivoluzionarie, riassumibili in una specie di socialismo nazionale » (p. 58). In particolare « piccoli proprietari, fittavoli, molti dei quali avevano combattuto valorosamente. Essi costituirono i primi nuclei dello squadrismo fascista... forza... illegale, ma consistente in un
moto di difesa dei cittadini che miravano principalmente al riacquisto della pace interna del popolo italiano» (p. 61). Che era ipoi, nel disegno di ordine e restaurazione proprio dei gruppi nazionalisti e degli interessi che con essi facevano blocco, la funzione che si voleva assegnare a quel « movimento politico nuovo ». Utile, ma anche pericoloso perchè « svincolato dall’obbligo della solidarietà col blocco patriottico ».
Di qui la polemica di Federzoni contro tutte le venature di radicalismo antiborghese, presenti nel fascismo — e in particolare contro il velleitarismo re- pubblicano — contro la « seconda ondata », contro la sua bestia nera per eccellenza: Farinacci. E in ciò stessol'autodifesa: la funzione di traduttore, custode e cireneo che il nazionalismo si assunse nei confronti del movimento fascista prima e del regime poi (ma quale nazionalismo, dal momento che quel movimento politico, storicamente individuabile, è in parte risolto in pochi spunti cor.radiniani, espurgato dei (Rocco, dei Coppola, dei Forges Davanzali...?). Così che Federzoni ne risulta quello che Franco Gaeta ha definito un « normalizzatore nel senso che la normalità consisteva nell’affidare .la protezione del fascismo non alle squadre e alla milizia di disciplina messicana, ma ai carabinieri e alla Pubblica Sicurezza ». Definizione che non è limitabile alja sola attività del Federzoni ministro dell’Interno.
E sarebbe ingenuo pensare alla parola « dimissioni » quando uomini ed eventi parrebbero smentire nel racconto di Federzoni la sua missione e quella di altri consimili « moderatori ». Tra cui non mancano i fascisti pentiti come Balbo che in Libia « sperimentò solide abilità proconsolari e attraverso quell’insieme multiforme di problemi di politica interna, economica, militare, scolastica e perfino estera... si accostò al concetto organico dello Stato e acquisì la cognizione diretta di una realtà politica ben diversa dalle sue giovanili chimere» (p. 153). Balbo, il quale — per ammissione dello stesso suo rivale, Grandi — « esercitava su le masse popolari italiane e straniere un fascino che lo rendeva, indispensabile e insostituibile ». Speranza di un possibile « ricambio ».
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E le occasioni per saggiare la propria delusione non dovevano essere il delitto Matteotti (per accettare in quel momento « l ’arduo cimento » del Ministero dell’Interno fu sufficiente per Federzoni non tanto una designazione di Mussolini quanto una « iniziativa collegiale » del Consiglio dei Ministri... su proposta di Mussolini), nè il colpo di Stato del 3 gennaio « nel quale io non ebbi alcuna parte anche perchè fu fatto principalmente contro di me ».
La parabola discendente della fiducia di Federzoni in Mussolini e nel fascismo inizia dopo l’impresa etiopica, legata, come sembra, prima a considerazioni di carattere internazionale, man mano che si precisa ravvicinamento italo-tedesco e riconducibile, sul piano interno, al tentativo di fascistizzazione dell’esercito e al progressivo spostamento di equilibrio nella simbiosi diarchica corona-dittatura. Dove è esemplare la vicenda farsesca e vulgo umiliante per il presidente del Senato della creazione dei « primi marescialli dell’impero » (pp. 166-167). Poi la Spagna, l’Anschluss, Monaco (successo « più apparente che reale »), l ’Albania, il patto d ’acciaio e la guerra (« quell’avventura ancor più rischiosa delle precedenti »). Di fronte alla catastrofe il racconto di Federzoni è sommario. Ricorrono sempre più frequenti gli spunti « legalitari ».
Le origini del voto del 25 luglio? « Un conciliabolo di gerarchi incontratisi a Roma... Nel corso di un’udienza concessa dal Duce, Farinacci aveva perentoriamente affermato la necessità urgente di riunire il Gran Consiglio ». E soltanto Farinacci avrebbe avuto un piano preciso: il passaggio dell’esercitoitaliano alle dipendenze dello stato maggiore tedesco. « Dino Grandi, allora presidente della Camera, preparò lo schema di un ordine del giorno... ebbe il mio accordo. Subito cominciò la raccolta delle firme » (p. 193). Tutto qui. Non una parola di contatti con la Corte, con gli ambienti militari.
« Il Gran Consiglio per vent’anni era vissuto male, ma aveva saputo morire bene... ci dispiaceva di non aver potuto agire che tardi » (p. 205).
Ma sarebbe utile solo ai fini di un’ indagine psicologica seguire fino in fondo il processo accusa-autodifesa che Federzoni ha sviluppato in queste riflessioni della memoria. Troppo facile la polemi
ca con le pagine di Federzoni per le cose dette e non dette (si ammettono le sovvenzioni ai nazionalisti della grande industria di cui parlava Bonomi ne La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, ma — aggiunge Federzoni — « come se... non avesse finanziato ecletticamente partiti e giornali di tutti i colori » (p. 9) ), per i quarti di verità (vedi il D ’Annunzio precursore di marce e riti (pp. 53-57) senza insistere molto però sulle solidarietà nazionaliste alla impresa fiumana) e per i travisamenti (il nazionalismo continuatore del Risorgimento, il suo programma di ordinato espansionismo contrapposto allo « sfrenato sciovinismo » e allo « irresponsabile bellicismo» di Mussolini; «vittoria e pace » hanno preso il posto della « vittoria mutilata »; Rocco, Coppola, Tamaro dimenticati: « L ’esaltazione el’uso della violenza, una qualsiasi anche larvata idea di colpi di Stato, una tendenza a esperimenti totalitari furono del tutto estranei al nazionalismo italiano » (p. 15) ).
Qui il libro di memorie va accolto più come testimonianza complessiva che per l’utilità di notizie altrimenti verificabili. A l livello delle responsabilità ricoperte dall’ autore in quegli anni di storia italiana sono le stesse interpretazioni che egli dà di se stesso e degli altri che fanno documento. Federzoni guarda indietro al ventennio con gli occhi del 25 luglio, il tentativo estremo suo e di quei suoi amici, in quel ruolo, di gettare ancora ponti nel naufragio a soluzioni moderate. L ’accusa a Mussolini di sdoppiamento di personalità sembra ritorcersi continua- mente proprio su quella dirigenza nazionalista cacciatrice e catturata nei confronti del fascismo, ma più di tanti fascisti conscia del grande esperimento autoritario — pazienza se forcaiolo — in atto. Per la politica estera ecco il sogno velleitario di un equilibrio europeo quasi nittiano da parte del critico acerrimo di Rapallo, quando la fame nazista è ormai insaziabile.
Non ci interessano direttamente i distinguo che Federzoni introduce tra nazionalismo e fascismo o quelli, per esempio tra la sua azione e il ruolo ricoperto da Rocco, qui interpretato come un puro visionario irretito nei suoi schemi, perchè sappiamo quanto complementare fu l’opera concreta di quei due
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uomini. Quello che importa è proprio la misura in cui le vicende del fasci- smo ne escono anche dalle pagine di questo libro più complesse e contradditorie per genesi e sviluppi.
Sono le contraddizioni patenti nella memoria polemica di Federzoni a richiamare il problema della verifica della dialettica interna del regime. Al centro e nelle più oscure provincie italiane il rapporto tra gruppi vecchi e nuovi all’ interno del partito apparentemente monolitico deve essere ancora tutto studiato.
T eodoro Sala.
A n g e l o T a r c h i , Teste dure, Milano,Editrice S. E . L . C ., 1967, pp. 283,L . 2800.
11 signor ministro dell’Economia corporativa della « repubblica sociale italiana » ci ha « offerto » le sue presuntuose memorie. Labili alquanto, come « memorie », tanto da farci sospettare che .l’ex ministro non sappia che la censura sui libri è caduta e che dal 1945 ad oggi sono usciti, in piena legalità, trattati, ricostruzioni e studi, i quali, se non altro, hanno messo a posto le date in cui si sono verificati certi fatti, ci hanno rivelato certi retroscena e tutto ciò senza dover attendere l’ « illuminata » parola degli ex gerarchi di Salò, gerarchi ora del neofascismo.
Che, del resto, se avessimo dovuto attendere gli scritti rivelatori dei personaggi che si muovevano, nemmeno con tanta disinvoltura, fra i « due laghi », come si dice oggi, non saremmo in grado nemmeno di conoscere i nomi esatti degli attori, o meglio dei registi, di quei giorni tragici. Perchè Tarchi non ricorda esattamente nemmeno quei nomi, pronunciati e scritti, con tutte le caratteristiche grafiche al loro posto, in decine di libri rintracciabili presso editori, biblioteche, librai e anche sulle bancarelle.
Cominciamo da qui. Tringali-Casano- va diventa ostinatamente Tringalli; Vez- zalini, nell'indice dei nomi diventa Vez- zolin; Apollonio si trasforma in Appo- lonio; i] gappista Fanciullacci si muta in Fanciul-letti; il capo della polizia tedesca di Roma, gen. Màlzer si trasforma in Malher. Il rifugio di Hitler, la « tana
del lupo », Wolffschanze diventa Wols- chauz. Ma il massimo di variazioni al suo nome, l’ha subito il personaggio più importante, dopo Rahn, dell’ambasciata ■ nazista, Moellhausen, il quale di volta in volta è : Molausen, Ma-nlausen, Molt- hausen o Molthansen.
Ma in fondo questi sono incidenti da .poco, in confronto ad altri. Come ad esempio con l’affermazione di pag. 35 : « . . . tra un arrivo di squadristi e militari riuscii ad avere notizie da Olo [Nunzi] del come fosse riuscito a liberare il 12 mattino da Forte Boccea, Buf- farinin Candelori, Tanzi, Cavallero; mi parlò degli ultimi fatti di Roma, della morte di Bruno Buozzi... ». Siamo a Roma mentre febbrilmente Pavolini tenta di mettere in piedi un governo per il ■« duce » che deve tornare dalla Germania, cioè intorno al 20 -settembre 1943. Ebbene Tarchi dà per morto Buozzi il quale invece verrà fucilato alla Storta, come ognuno sa e ci sembra quasi superfluo ricordare, non quando i tedeschi occuparono Roma, ma quando i tedeschi se ne andarono da Roma, cioè il 4 giugno 1944, nove mesi dopo, quindi, il periodo indicato da Tarchi.
E sorvoliamo poi, sulla figurazione di comodo dei tedeschi « ingannati » da Badoglio, da De Courten, da Ambrosio, i quali, secondo Tarchi, sarebbero riusciti a far credere alle buone intenzioni italiane di intensificare la guerra, dandoci dei poveri nazisti un’immagine di buoni fanciulli creduloni sviati per troppa lealtà. Ma passiamo a parlare del ruolo di Tarchi nella compagine ministeriale della RSI.
Dunque Tarchi ci dice che non potè entrare nel governo nella sua -prima formazione romana per l’antipatia di un collega a cui si piegarono Pavolini, il « duce » e i tedeschi. Nemmeno tre mesi dopo tuttavia, l’-ing. Tarchi è chiamato da Mussolini che gli offre la poltrona ministeriale e lo -nominerà con decreto del 3 1 dicembre 1943. Come mai? Ce lo svela Tarchi -stesso. La proposta -partì dagli industriali, da un gruppo di industriali d-i cui si -fece portavoce ring. Leone Castelli « che era stato con Papa Ratti, non solo il costruttore delle Opere del Vaticano dopo il concordato, ma un collaboratore molto intimo del Papa... » e dal quale Castelli, Tarchi, fu invitato a una conversazione il 3 dicembre .
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Nè l’ interessato nasconde questo fatto. « Capii », egli dice, « che egli [il Castelli] era un abile ambasciatore della classe industriale ».
Sette giorni dopò avveniva la chiamata di Mussolini. Gli industriali erano sempre potenti presso Mussolini 1
Poco dopo la nomina, Tarchi riferisce di aver avuto una visita dall’ing. Falk a Padova. Lasciamo all’ex ministro di Salò di riferire i termini dell’incontro: « Mi dichiarò a nome degli industriali del suo settore siderurgico e di altri produttori milanesi che la mia nomina a ministro era stata accolta con piacere, in quanto si era certi che finalmente si avrebbe avuto una voce italiana atta a frenare l’arbitrio del R U K e dellaWehrmacht. Gli comunicai che il compito affidatomi dal Duce era appunto questo. Gli esposi chiaramente il mio pensiero: non bastava Ja mia volontà ma occorreva la collaborazione di tutti, tenendo presente però che la volontà del governo era quella di rimanere fedele ai patti, e continuare la guerra vicino all’alleato. Esso mi disse che gli industriali si erano resi conto che dasoli di fronte alla forza non era 'possibile nessun diritto e nessuna opposizione; ma se il governo avesse funzionato, essi erano al mio fianco. Mi lasciò dicendo: ’ Lei ci guidi e ci difenda, noi ed i nostri operai lavoreremo, la seguiremo, e la difenderemo ’ ».
Inutile dire che Tarchi era lì a difendere la proprietà privata « che io intendevo salvaguardare nel modo più ampio, ritenendo lo Statalismo la fossa dell’ iniziativa e del senso della personalità e la corsa verso il comuniSmo ». E in questo non poteva mancargli l ’aiuto riconoscente di Valletta che « fu uno dei primi » scrive Tarchi, « che mi pregarono di assumere la carica del ministero dell’Economia...». « Il comm. Pozzi fu i] suo delegato [di Valletta] che settimanalmente a Bergamo od in piazza S. Sepolcro a Milano mi informava sulla situazione e sulle necessità che occorreva affrontare ».
In questo clima di abbraccio generale e di « comuni intenti » s ’incontrano via via, pronunciati da Tarchi, nomi d ’industriali o di rappresentanti degli interessi industriali, noti ancor oggi: Furio Cicogna, Giuseppe Pella, Reggiani.
Nè a Tarchi mancò l ’appoggio degli industriali nel momento stesso in cui
varando il decreto della « socializzazione », il fascismo tentava di mostrare un volto « anticapitalistico ». Perchè a stare a quanto dice l’ex ministro di Salò, «Valletta si recò personalmente da Mussolini per dichiarare d ’aver profondamente studiato i principi del decreto e di averli discussi con i suoi dirigenti e di non aver trovato nulla da modificare. Valletta espresse la sua adesione sul concetto e soprattutto sulla figura del Capo d ’Azienda ». Rimessosi in viaggio, Valletta volle passare da Bergamo per riferire quello che Mussolini gli aveva detto come commiato : « Andate acongratularvi con Tarchi e seguitelo, coadiuvatelo con le Associazioni Industriali, nella preparazione delle norme di attuazione ».
Pur nella tragedia' che la RSI rappresentò per la storia d ’ Italia in quei due anni, non possiamo non rilevare ■ tutto il ridicolo e il farsesco di questi fatti e di questa narrazione.
Tarchi, che poche pagine prima ci aveva detto di essere stato uno degli artefici della dichiarazione « sociale » del congresso di Verona, procede poi, a braccetto degli industriali, a preparare quei decreti che avrebbero dovuto espropriare gli industriali delle loro aziende e dei loro beni. Ma forse qui c’è qualcosa di più; c’è il tentativo di mostrare le complicità degli industriali italiani nella sopravvivenza della RSI, c’è la « chiamata di correo » per il sostegno dato al fascismo sotto spoglie repubblicane, e, anche, una lontana malinconia per i tempi in cui fascismo e industria erano affratellati e andavano ancora insieme in attesa di più potenti alleati politici ;— per il capitale — con cui continuare la strada. Una patetica aria di uomo tradito, di ministro tradito sembra sorreggere queste pagine e fare da sottofondo alla storia ridicolmente narrata da Tarchi.
Il quale non ci risparmia esilaranti giudizi come questo sul suo compagno di partito Edmondo Cione: « Fu ai primi d’aprile 1945, mentre gli avvenimenti incalzavano, che a Mussolini, dopo un lungo rapporto, facevo presente che secondo il mio punto di vista, la nostra riforma sociale stava slittando paurosamente verso il comuniSmo, nè d’altra parte, mi sembrava che il ’ Raggruppamento repubblicano sociale ’ creato dal filosofo napoletano Edmondo Cione, detto O’ Vaccariello, scismatico del
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la scuola di Croce e quindi ripudiarne il liberalismo, mantenesse i presupposti con i quali era sorto, e che esso polarizzasse verso di se, forse senza volerlo, infiltrazioni socialcomuniste, che in tal modo avevano libero gioco negli organi stessi della RSI ».
Davanti a così « acuti » giudizi, non ci resta che fermarci.
Adolfo Scalpelli.
A n t o n io R ic c h e z z a , La Resistenza dietro le quinte, Milano, De Vecchi, 1967, pp. 623, L . 5800.
L ’autore dichiara di aver tentato « una ricostruzione, sia pure episodica, del triennio 1943-45, proprio come noi10 soffrimmo »; e in particolare, di aver voluto tracciare, più che la storia di un periodo, la « storia di un popolo e della sua riscossa ». Ha quindi steso un racconto senza pretese di completezza, trattando vari episodi considerati più importanti o esemplificativi, con una notevole padronanza delle più disparate fonti.
Questo amplissimo materiale si articola in quattro punti, il primo dedicato al crollo dell’ esercito all’8 settembre ed all’eroica resistenza di alcuni reparti; il secondo, illustrante soprattutto la rinascita delle forze regolari del governo italiano; il terzo, su alcuni momenti della lotta partigiana; il quarto, sulle operazioni dell’ aprile 1945.
Molto spazio è sempre dedicato al contributo dei membri dell’esercito, sia organizzati nei reparti regolari, sia dispersi nelle formazioni partigiane o nelle molteplici attività della resistenza.
Il libro è corredato da numerosi documenti; suo pregio maggiore è però il materiale fotografico, eccezionalmente abbondante, tipograficamente molto curato, che costituisce una documentazione di primo ordine.
Giorgio R achat.
O la o C o n f o r t i , Guadalajara, la prima sconfìtta del fascismo, Milano, Mursia, 1967, pp. 440, L . 3000.
Con questo volume, la guerra di Spagna entra nella produzione storica divulgativa, che da qualche anno inonda11 mercato librario italiano. Il libro del
Conforti risente fortemente dell'impostazione patriottica e giornalistica comune a -tutta questa letteratura, ma merita ugualmente di essere segnalato per uno sforzo di obiettività e di documentazione, nonché per la novità dell’argomento.
Si tratta di una ricostruzione ampia e interessante della battaglia di Guadalajara, inquadrata nella storia della guerra di Spagna. Il libro non vuole essere freddamente accademico : la fonte delle informazioni è quindi indicata solo saltuariamente e sono invece inserite situazioni e dialoghi inventati, per drammatizzare l’azione. L ’ insieme però è abbastanza completo e attendibile.
L ’autore mantiene una studiata imparzialità tra le parti in lotta, evitando ogni accenno di polemica politica; così presenta Franco senza accennare alle cause della sua ribellione e registra, ma non ne spiega il perchè, che le popolazioni appoggiavano il governo legittimo. Le pagine sulle brigate inter-nazionali, -più di tutte, risentono di questa voluta apoliticità : il Conforti è assaigeneroso con i combattenti di queste brigate, ma evita con cura di spiegare perchè si trovassero in Spagna; e questo silenzio infirma anche le altre -pagine, che perdono in efficacia. Il combattimento tra -italiani -fascisti e antifascisti, pur debitamente drammatizzato, non ha -perciò -riferimento politico o -temporale e diventa del tutto gratuito.
La parte migliore del libro è quella che riguarda le truppe fasciste. Il giudizio politico è qui -implicito: l’ intervento italiano è condannato nettamente e ne sono messi in luce i moventi meschini e la leggerezza. Tutto quanto riguarda il corpo di spedizione fascista è trattato con molta ampiezza di dati: l’opera del comando di iRoatta e Faldella è bollata come merita, l ’improvvisazione con cui erano state costituite le unità della milizia è documentata, le mosse delle forze contrapposte sono seguite con molta cura. Salvando i singoli combattenti e molti ufficiali, il Conforti mette invece in evidenza l’ arrivismo e l ’impreparazione di tanti altri, causa prima dello sbandamento delle truppe. Solo la divisione « Littorio » (l’unica formata di reparti dell’esercito regolare) ed il suo gen. Bergonzoli sono ■ presentati con rispetto e simpatia.
Tanta abbondanza di dati proviene
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chiaramente dagli archivi dell’ Ufficio Storico dell’esercito italiano, anche se il Conforti non indica mai da dove tragga le numerose relazioni ufficiali da lui citate ampiamente. Non c’è che da rallegrarsi che gli archivi militari si aprano almeno in parte e proprio su uno degli argomenti più scottanti; si desidererebbe però che la provenienza dei documenti citati fosse precisata e che uguale liberalità fosse norma costante di questi archivi. Il libro del Conforti ci pare dimostrare che la disponibilità di dati consente di indicare precise responsabilità, portando l’ intera materia fuori dalla leggenda e dalla polemica con vantaggio indubbio anche delle tradizioni militari.
In conclusione, ci sembra che l’ampiezza e la serietà con cui il Conforti tratteggia l’azione del corpo di spedizione italiano siano degne di considerazione, anche se limitate dall’ inquadramento giornalistico e dalla rinuncia ad un più ampio giudizio politico.
Giorgio Rochat.
Nullo Baldini nella storia della cooperazione, Milano, Giuffré, 1966, pp.IX-767, L . 6500.
Scrivere di Nullo Baldini — precisa Luigi Dal Pane — « è scrivere anche dell’economia, della società, del lavoro, delle lotte politiche del tempo suo » (p. VII). E se questa osservazione ci sembra più che ovvia (guida indispensabile per la ricostruzione biografica di ogni persona storica), non possiamo non osservare che questo volume offre la non frequente caratteristica di « cercare nella storia e nella scienza i criteri essenziali per una valutazione oggettiva dell’opera del Baldini » (p. V). Questo ci preme innanzitutto sottolineare: come, cioè, attraverso il perno centrale dell’esame dell’opera di Nullo Baldini, questo lavoro curato da Dal Pane costituisca il più valido e principale studio delle condizioni politiche, economiche e sociali del Ravennate (e della Romagna) negli anni dall’Unità alla Repubblica.
Obiettivamente parlando, il ruolo svolto dalla Romagna in quegli anni fu di particolare valore, contribuendo in maniera determinante ad operare attivamente nella lotta per il progresso de
mocratico, non solo dei lavoratori della campagna. Se infatti le cooperative bal- diniane rappresentarono una « svolta » innegabilmente profonda ed irreversibile per il processo evolutivo delle classe operaia agricola, lungo l’arco degli avvenimenti (e vorremmo dire intimamente legata a quella « educazione cooperativistica » che Nullo Baldini riteneva giustamente inscindibile dal suo ideale di organizzazione operaia) non possiamo certo dimenticare la partecipazione degli stessi braccianti e mezzadri (in una percentuale notevole ed oltre la media nazionale) alla Lotta di Liberazione nella XXVIII Brigata Garibaldi, decorata al Valor Militare. Questo legame, graduale passaggio e maturazione economico-so- ciale, trova innegabilmente la sua base nella costruzione baldiniana, senza tuttavia che Nullo Baldini riuscisse a comprendere a fondo l’evolversi politico della situazione locale e nazionale, come dimostra tra l’ altro il suo « strano » anticomunismo di principio con un assurdo tentativo di escludere i rappresentanti del PCI dagli organismi clandestini antifascisti nel In questoquadro di una Romagna che giornalisti e politici dipingevano con i colori foschi della perenne rivolta, ricordandola più quale protagonista della Settimana Rossa che come realizzatrice delle vaste opere di bonifica e redenzione delle paludi, Baldini inserì la sua opera improntata ad una particolare concezione « positi- sta» del socialismo che voleva ogni movimento politico subordinato alla emancipazione economica dei lavoratori nel senso ■— in questa sede per la prima volta, forse, così a fondo rilevato — di anteporre gli aspetti economici a quelli politici in maniera determinante.
A ta] punto il problema dell’occupazione dei braccianti dominava l’attività pratica e teorica di Baldini che, non a torto, l’Associazione Braccianti da lui guidata era considerata dal Prefetto di Ravenna un elemento catalizzatore, atta cioè a risolvere in parte il « problema del sovversivismo ». Al lume di questa considerazione non è quindi fuor di luogo ricordare come la politica propugnata da Nullo (e non mancarono chiari richiami dalla direzione del Partito) portava come conseguenza ad una « subordinazione della vita della Federazione provinciale [socialista] alle idee e agli interessi della cooperazione » (p. 58).
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Dove tuttavia il saggio di Berselli non sembra a nostro avviso approfondire l’esame politico come a noi sarebbe parso indispensabile è, forse, nella valutazione delle « due anime » del partito socialista in Romagna, in connessione sia con le lotte fra le cooperative rosse e gialle, sia, soprattutto, con origini del fascismo, agrario e anticooperativistico. Ovviando tuttavia in parte a questo lo scritto più specifico di Nardi, resta non completamente chiarito i] profilo biografico di Nullo Baldini ad iniziare dal periodo fascista e, in special modo, ci pare non completamente chiarita la sua posizione durante la lotta di Liberazione.
La segnalazione del volume è « d ’ob- bligo » per il quadro generale della situazione prefascista che esso offre e che appare come la più completa fra quanto finora si è scritto. Oltre le monografie (cui abbiamo fatto più volte cenno) di Aldo Berselli (Profilo di Nullo Baldini) e Sergio Nardi (Il movimento cooperativo ravennate dalle origini al fascismo) che più direttamente ci interessava esaminare, vai certo la pena ricordare il lavoro di G. Porisini {Aspetti e problemi dell’agricoltura ravennate dal 1883 al 1922), ampliamento di un precedente saggio comparso in limitato numero di copie nel 1964 a Bologna (L ’agricoltura ravennate nell’ età giolit- tiana. Prime ricerche), di A . Berton- dini {La vita politica e sociale a Ravenna e in Romagna dal 1870 al 1910), di A . Pagani {Sindacato e cooperativa agricola nel Ravennate).
Segnalazione a parte meriterebbe il vigoroso e lucido saggio conclusivo di Luigi Dal Pane su La cooperatone e la scienza economica italiana.
Luciano Casali.
A b r a m L a n z m a n , Youth on the Roads 1939-1945, Tel-Aviv, Ben-Josef, 1964, p. 324.
Nel quadro delle informazioni intorno a quanto viene pubblicandosi sulla storia della Resistenza e del fascismo in Europa, giunge assai opportuno segnalare questo volume edito in Israele, in uno Stato, cioè, dove de ricerche sul tragico periodo della persecuzione antisemita hitleriana sono per ovvi motivi assai avanzate e dove diversi istituti e
centri scientifici raccolgono e vanno stampando da parecchi anni materiale di notevole interesse.
Il presente lavoro è, in sostanza, un libro di ricordi : ricordi filtrati attraverso una vigile consapevolezza critica, ma allo stesso tempo vivi, immediati, profondamente drammatici. L ’autore, infatti, israelita di origine polacca (var- saviese per la precisione), residente oggi nello Stato ebraico, sviluppa in un centinaio di rapidi articoli, di bozzetti, di notazioni, raccolti in più ampi capitoli, l ’odissea della sua giovinezza, un’odissea incredibile e pure vera, nel tempestoso mare della guerra, delle torture e dei morti senza fine : dal ghetto di Varsavia, l ’ infelice capitale chiusa nella morsa nazista, alla fuga dalla città ed alla peregrinazione per le campagne circostanti, dai quatto - cinque campi di concentramento nei quali venne successivamente trascinato, a mano a mano che il fronte avanzava, alla liberazione ad opera d’un soldatino russo che annunzia l ’apertura dei cancelli del campo e che, pur avendo percorso mezza Europa combattendo, rimane quasi sopraffatto dalla realtà concentrazionaria che improvvisamente gli si rivela di fronte.
Comunque due sono sostanzialmente le parti fondamentali dell’opera : la v icenda del ghetto e la testimonianza sui campi della morte dopo la cattura. E se questo secondo aspetto, con le lucide descrizioni del lavoro nelle fabbriche di gomma o di aeroplani, con l’ eterno dramma della scarsità del cibo, con il veloce affacciarsi e sparire di tipi e figure costituisce una valida ed incisiva conferma di un noto, ma indimenticabile aspetto della barbarie tedesca, più originali ci paiono le osservazioni sulla strana vita del quartiere ebraico di Varsavia.
« Strana » abbiamo definito resistenza del ghetto perchè, come ribadisce il Lanzman, manteneva per più d ’un aspetto forme di normalità, pur essendo in concreto non molto diversa da quella che si conduceva nei campi di sterminio. E di tale stranezza — la terribile fame, i rastrellamenti e gli assassini inspiegabili, il persistere, presso gruppi di arricchiti col mercato nero, d ’una certa agiatezza, la presenza d'una polizia e d ’una autorità ebraiche colla- borazioniste ■— abbiamo qui in modo semplice e dimesso, ma appunto per
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questo .più autorevole una vivida rappresentazione. Tra tanti personaggi minori, ci sia concesso ricordarne a mo’ d ’esempio almeno una: quella dellostraccione Rubinstein (del quale è anche riportata a pag. 64 una chiara fotografia), che con i suoi motti e le sue canzonette, con i suoi gesti da invasato e le sue battute di spirito, fune- ramente allegro, costituisce un poco il simbolo della volontà di sopravvivere, della volontà di resistere alla bufera.
Abram Lanzman, tornando a rievocare le sue vicissitudini, ci pare essere il primo a constatare la eccezionalità del caso che lo ha fatto superare tante spaventose avversità. Non c ’è, in effetti, altra soluzione della casualità che possa spiegare raggiramento di così numerosi rischi mortali, malattie, fucilazioni, decimazioni. Eppure, ed è questa un’ indicazione specialmente suggestiva provenendo da chi ha visto tante orribili cose, il Lanzman ribadisce la sua fiducia nell’uomo in molte e in molte pagine: il caso sì, ma anche una mano amica, un suggerimento giusto al momento opportuno, un appiglio nell'istante del pericolo. Ritornando con la mente dopo tanti anni a quel periodo infernale, l’ autore ribadisce la sua certezza nella possibilità di scelta: ieri si sbagliava in molti, in molti cadevano, ma c ’erano anche i pochi — una contadina, un semplice operaio, un collaborazionista non troppo vile — che aiutavano, che sceglievano giusto.
Guido Valabrega.
Jean Plum yÈNE, Pétain, Parigi, Editionsdu Seuil, 1964, pp. 190.
Non si saprebbe raccomandare abbastanza al lettore italiano la lettura di questa breve ma incisiva biografia del maresciallo Pétain, che è altresì una storia in controluce di mezzo secolo di vita francese. Giacche non bisogna dimenticare che, prima di essere un capo di stato collaborazionista, Pétain fu un ufficiale boicottato nella sua carriera per aver sostenuto che, nella guerra moderna, il fuoco avrebbe avuto la supremazia sull’urto, e poi un eroe nazionale, tanto popolare tra i soldati quanto criticato dai colleghi. Stranamente, quest’uomo che legò il proprio nome ad un’infamante collaborazione col nazismo
non aveva le caratteristiche psico-tecniche del fascista. Come militare era un teorico della difensiva e come uomo rivendicava per se stesso più la vocazione dell’educatore che quella del guerriero. II culto che la nazione intera ebbe per lui è visto dal Plumyiène come una gigantesca manifestazione d’ immaturità, il culto de! « grande vecchio », che ricorre con una certa regolarità nella storia di Francia, da Carlomagno a Clemenceau. In conformità con queste premesse, il fascismo di Pétain, almeno per quanto dipese direttamente dal maresciallo, fu essenzialmente una reviviscenza di paternalismo, una rivincita della campagna sulla città, del lavoro a mano sulla macchina, dell'antico sul moderno, nel senso, almeno, in cui ai concetti di « campagna », « lavoro a mano » e « antico » si ricollega un ideale di vita patriarcale. Da questo punto di vista, l’analisi di alcune tipiche manifestazioni culturali del regime è piuttosto illuminante: del resto, nulla è più indicativo, a questo proposito, della triade Travail, Famille, Patrie, con la quale il vecchio maresciallo volle sostituire la triade repubblicana Liberté, Egalité, Fraternité. Indubbiamente egli fu un conservatore e, nella misura in cui la sua azione tendeva a ristabilire condizioni di vita rese superate non tanto dall’effimera vittoria del Fronte popolare nel 1936 ma dalla stessa vita moderna, fu anche un reazionario, nel senso più stretto della parola. Ma il contenuto concreto della sua opera di reazionario era quanto di più diverso si può immaginare dall’ attivismo irrazionalistico che costituiva, bene o male, l’ ideologia ufficiale dei fascisti di casa nostra. Se costante fu nei fascisti il richiamo ad un non meglio identificato « spirito », contro un pure non meglio identificato « materialismo », nessuno invece ebbe come Pétain il culto della « calza di lana ». La destra francese ha sempre rivendicato il monopolio della « concretezza » e del « buon senso » contro le « fumisterie » della sinistra. Il fascismo di Pétain affondava, dunque, ben solide radici nel terreno francese e si rifaceva a stati d ’animo ben anteriori al fascismo mussoliniano e al nazismo. Donde la sua innegabile popolarità, compromessa solo dall’odiosità del padrone-alleato tedesco e dalla precarietà della sua posizione nel contesto internazionale. La caduta della
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Germania hitleriana doveva necessariamente trascinare con sè tutti coloro che si erano compromessi nella turpe alleanza; ciò non significa, peraltro, che tutto ciò che nell’esperienza pétainista fu sostanzialmente estraneo al fenomeno nazista non sia riuscito, per proprio conto, a sopravvivere.
Aldo Giobbio.
L eo V a l i a n i , La dissoluzione dell’Au- stria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore,
1966, pp. 505, L . 2700.
L. Valiani ha raccolto, in questo libro, una serie di saggi sulla situazione interna dell’ impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, ed ha fatto molto bene a portare a più diretto contatto con il pubblico questi scritti che erano già stati pubblicati su riviste specializzate: ha fatto molto bene perchè essi ci esortano, cosa estremamente importante per la nostra cultura storica sempre malata di italocen- trismo, a rivolgere l'attenzione a tutte le nazionalità che si agitavano nella vecchia Duplice Monarchia e ad allargare, in tal modo, la nostra conoscenza ad aspetti che di solito sono trascurati oppure soggiacciono alla tradizionale retorica patriottarda e nazionalistica. E ’ questa, purtroppo, che ci ha abituato a considerare i popoli dell’Europa balcanica e centrale, e, in particolare, quello jugoslavo quasi come popoli inferiori destinati a subire la guida del popolo superiore, che sarebbe stato l ’ italiano, succeduto all’Austria nel dominio di quella zona. A tale umiliante visione dei rapporti fra i popoli ci aveva abituato
.il fascismo, e questo libro è, pertanto, da accogliere come l’effettivo sintomo che una simile atmosfera è definitivamente superata e dimenticata.
Il Valiani, dunque, oltre a fare opera rigorosa di storico, che parte da una completa e sicura e approfondita conoscenza delle fonti e della documentazione che si trova negli archivi dei vari paesi interessati, ha anche fatto un’opera schiettamente civile, contribuendo a disperdere gli ultimi residui di un nazionalismo gretto e meschino oltre che sopraffattore. E questa opera è tanto più significativa, in quanto egli respinge, come abbiamo detto, il punto di vista angustamente italiano e si sforza di con
siderare, dall’interno, le ragioni degli altri popoli. Ma, a questo proposito, occorre fare una importante precisazione, perchè il Valiani mostra chiaramente di propendere per la posizione tenuta allora da quelli che sono stati detti gli interventisti democratici, come un Bis- solati o un Salvemini. Era rinato, in questi uomini, di fronte alla guerra che sconvolgeva l ’Europa, lo spirito di un Mazzini che aveva sempre auspicato, nella fratellanza di tutti i popoli del vecchio continente, una particolare alleanza fra il popolo italiano e quello slavo sull’altra sponda dell’Adriatico. Ed a tale impostazione gli interventisti democratici si mantennero fedeli in una misura forse sconosciuta, spesso, ai loro interlocutori jugoslavi, tanto che il Salvemini, il io febbraio ’ 17, si dichiarava riluttante a promettere la sua collabo- razione alla « New Europe », perchè, osservava, « mentre in Italia vi sono persone che combattono apertamente l’imperialismo italiano, ed insistono sulla necessità di un compromesso italo- slavo, e ritengono inique e pericolose le pretensioni imperialistiche su Spalato, Sebenico e su tutte le isole della Dalmazia, nessun movimento analogo è venuto da parte degli slavi. Non una voce si è levata fra di essi per deplorare gli eccessi del loro nazionalismo e per riconoscere esplicitamente che il compromesso italo-slavo deve avere per base anche la rinuncia, da parte degli jugoslavi, a Gorizia, Trieste e l’Istria occidentale, salvo, ben inteso, a ricevere dall’ Italia l ’ assicurazione formale, garantita da un trattato internazionale, che la libertà d'insegnamento e l'eguaglianza giuridica saranno riconosciute agli slavi incorporati nelle nuove frontiere italiane ».
Il fatto era che, nel quadro dell’interventismo italiano, quello democratico, pur avendo avuto molta importanza nel determinare l’ intervento in guerra, era andato, nel corso del conflitto, a poco a poco affievolendosi di fronte all’altro interventismo, quello nazionalistico o imperialistico. Talora, anzi, le due posizioni erano sembrate coincidere come quando il Bissolati, alla Camera, dopo Caporetto, aveva esclamato con foga che sarebbe stato pronto a far sparare sui socialisti se ve ne fosse stato bisogno. Era naturale, pertanto, che tutto ciò rendesse alquanto diffidenti gli jugoslavi verso la supposta, ma non in
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teramente dimostrata, volontà di un sincero accordo nutrito dagli italiani. Questo avvenne nella prima, .lunga parte della guerra, fino all’inizio del ’ 18 anche perchè l’interventismo imperialistico, come ilo diceva il Salvemini, aveva sull’altro il vantaggio di presentare un programma forse più coerente e compatto, o almeno un programma che rispondeva a precisi interessi di determinati ambienti italiani. Soprattutto di quelli economici, che, dall’inizio del secolo avevano intensificato in misura notevole le esportazioni verso la penisola balcanica, dove si erano scontrati con la penetrazione austriaca che mirava ad impadronirsi degli stessi mercati. Diventava, pertanto, indispensabile, per vincere la concorrenza austriaca, occupare la sponda adriatica ed assicurarsi, in tal modo, saldamente le vie d ’accesso all’interno. Il Sonnino, quando stipulò il Patto di Londra, si lasciò evidentemente influenzare da queste correnti e da questo programma che, ripetiamo, aveva senza dubbio maggior efficacia dell’ altro opposto programma della fratellanza dei popoli e dell’accordo italo-slavo (d’altra parte non è del tutto detto che soprattutto il Bissolati non avesse risentito di queste esigenze di natura economica, come dimostrano i suoi soritti prima della guerra raccolti nel voi. La politica estera dell’ Italia; la differenza sostanziale, peraltro, consisteva nel fatto che egli sperava di raggiungerne la soddisfazione mediante una leale intesa con gli jugoslavi e non con la violenza della conquista, che avrebbe creato un lungo risentimento e alimentato odi profondi).
Ma la guerra dell’ Italia, come quella degli altri paesi, può dividersi in due parti nettamente distinte: una prima,abbiamo detto, sin verso la fine del 1917 e la seconda nel ’ r8. In quest’ultimo anno si ebbe, infatti, la riunione a Roma di tutte le nazionalità oppresse dell’Austria e la firma del Patto di Roma che poneva come obiettivo indispensabile la disgregazione e la rottura dell’ impero austro-ungarico. Sembrava che si fosse giunti al trionfo dell’interventismo democratico, eppure — e il Va- liani lo mette giustamente in rilievo — il convegno di 'Roma fu permesso dal governo italiano — dall’Orlando, non dal Sonnino che si dimostrò sempre molto diffidente verso di esso — dal fatto che nel gennaio precedente sia il
Wilson sia Lloyd George avevano, il primo nei suoi 14 punti e il secondo in un discorso, lasciato capire che la dissoluzione dell'Austria - Ungheria non rientrava nei loro piani. L ’Orlando, in particolare, come ci ha rivelato il Sa- landra nel suo Diario, venne allora preso da un senso come di ansia e di turbamento profondo, che parve dovesse spingerlo anche a consentire una revisione dell'art. 15 del Patto di Londra che escludeva la Santa Sede dalla conferenza della pace, nella speranza di avere il suo appoggio (che sarebbe stato, d ’altronde, molto problematico, date le non segrete simpatie del Vaticano per Ja Duplice Monarchia, sebbene il Valiani ricordi che dagli studi fondamentali di Engel-Janosi sull’ argomento risulta una certa tepidezza del papato per l ’Austria).
Il congresso di Roma esercitò una influenza abbastanza sensibile sugli alleati, che da allora, come afferma il Valiani, fecero capire che nei loro piarti rientrava anche la fine dell’impero austro-ungarico: prospettiva questa, però, che sconvolgeva profondamente tutte le posizioni del Sonnino, che non contemplava tale dissoluzione e che a- vrebbe voluto servirsi del baluardo costituito dagli Asburgo contro una espansione del germanesimo e dello slavismo. Sicché, si ebbe questo curioso contrae sto, che mentre l ’idea della dissoluzione andava facendosi strada, il nostro responsabile del ministero degli Esteri, si arroccava su tesi assolutamente inte- nibili e che quanto più quella dissoluzione si precisava, tanto più egli, per ovviare ai supposti .pericoli che essa avrebbe generato lasciando liberi gli slavi, era portato ad esigere l’ applicazione integrale del Patto di Londra e la cessione all’ Italia della costa dalmata. Era, indubbiamente, un programma contraddittorio perchè la fine del- l’Austria-Ungheria avrebbe dovuto accompagnarsi con un rimodellamento della carta di quella zona in base al principio di nazionalità. Ma proprio le vicende del ’ 18, con il suo notevole fermento politico, ' avevano rafforzato, o almeno erano sembrate rafforzare, l’ interventismo democratico; cosi il contrasto, in seno al governo italiano, di quest’ultimo con l’opposto interventismo nazionalistico, si fece molto acuto, ed appunto i nazionalisti finirono, come è noto, con il vincere, favoriti
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anche dall’atmosfera generale, che vide, a Parigi, lo scontro tra il Wilson e il Clemenceau.
Ci sembra, pertanto, inutile ramina' ricarsi che negli jugoslavi non sia prevalsa una valutazione più democratica dei problemi della pace e dei rapporti con l’ Italia, dal momento che questa non si dimostrava disposta a rinunciare a nessuna delle posizioni che si era assicurata con il Patto di Londra, contro cui la polemica degli slavi era stata, naturalmente, continua ed anche aspra. La realtà fu che un nazionalismo favorì l’altro e viceversa e questo nuovo clima esasperato e teso caratterizzò appunto i) periodo fra le due guerre. Fu una conclusione piuttosto amara quella che generò dalla dissoluzione di un impero supernazionale, residuo superato del passato, come era l’Austria-Unghe- ria, un così acuto conflitto fra le varie nazionalità. Ma era, questo, uno stadio attraverso il quale l ’umanità doveva necessariamente, purtroppo, passare (ed il fatto che diciamo purtroppo non toglie che lo valutiamo, da un punto di vista storico, nella sua inevitabile necessità) perchè potesse, poi, giungere alla fase successiva, che è quella in cui ora viviamo, in cui i nazionalismi sembrano, per fortuna, frantumati e dispersi. Con questo ci pare di avere implicitamente risposto al problema che rimane al fondo del libro del Valiani, cioè a queU'atteggiamento che è stato in tanti, anche storici, di rimpianto per la caduta della Duplice Monarchia. Era una costruzione ormai anacronistica che, sebbene riuscisse a mantenersi dando esempio di correttezza e di sapienza amministrativa, violava tuttavia le aspirazioni dei popoli all’autonomia e al- l’ indipendenza. Era, insomma, un carcere che teneva insieme popolazioni diverse che non .potevano più convivere tenute insieme dal lealismo monarchico. Il rimpianto per la vecchia Austria-Un- gheria è molto simile al rimpianto, di cui abbiamo avuto molti esempi anche noi in Italia, per la vecchia dinastia dei Borboni, incapace di promuovere il progresso e lo sviluppo economico, politico e civile. Di conseguenza, la sua dissoluzione era un destino cui non si poteva sottrarre, e la correttezza burocratica ed amministrativa non era più sufficiente: nelle seguenti parole dell ’ex ministro degli Esteri austriaco, Bu- riam, si può trovare ]a .più netta, anche
se venata da malinconia, condanna del vecchio regime austriaco : « Laddovec’era comprensione, non c’era coraggio [ .. .] . Di riforme interne non eravamo capaci nella misura necessaria. Terribile nemesi storica. 1.1 frutto di 50 armi di .politica cattiva, anacronistica [...] ». Il fatto era che l ’Austria- Ungheria, per rinnovarsi dal profondo come esigevano le varie nazionalità che convivevano nel suo seno, avrebbe dovuto appunto dissolversi: e ciò chenon poteva assolutamente fare essa stessa, da sola, fu fatto dalla guerra, i cui risultati, rivoluzionari sotto questo aspetto, portarono alla scomparsa delle ormai superate monarchie feudali o pseudo- feudali con una esteriore pàtina di modernità.
Franco Catalano.
C. E . T r a v e r s o , V . It a l i a , M. B a s s a n i , I partiti politici. Leggi e statuti, Istituto editoriale Cisalpino, 1966, pp. XXXVII-454.
Lo studio dei tre giovani assistenti dell’Istituto di diritto pubblico dell’U- niversità di Milano ci offre una completa documentazione sui partiti dal punto di vista giuridico : materiale normativo e paranormativo reperibile nel nostro ordinamento statuale e nei singoli ordinamenti partitici.
Di particolare interesse ai nostri fini la prima e la quarta parte di questa pubblicazione.
Nella prima parte viene infatti ordinato in quattro sezioni il materiale documentario relativo al periodo costituzionale transitorio (1943-1948): un primo gruppo di Regii Decreti Legge, dal luglio ’43 al R. D. per la nomiina di Umberto di Savoia a Luogotenente generale del Re (5 giugno 1944), sono tutti relativi alla soppressione di istituti del precedente regime fascista (Tribunale Speciale, P. N . F ., Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Gran Consiglio del fascismo, Milizia Volontaria): di .particolare interesse il R. D. L. del 14 gennaio 1944 sulla « disciplina della stampa durante l ’attuale stato di guerra; obbligo di denunciare alla Prefettura l’eventuale affiliazione ipolitica ».
Un gruppo successivo di documenti, il più numeroso, abbraccia tutto il pe
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riodo dal 25 giugno 1944 alla fissazione delle norme per la Costituente (in particolare alcuni decreti relativi alla Sicilia, alla Sardegna, alla Valle d ’Aosta; il D. Lgt. del 28 febbraio 1945 sulle attribuzioni del CLNA I come rappresentante del governo nella lotta contro11 nemico; i decreti relativi alla formazione e al funzionamento della Consulta Nazionale).
Infine dell'ultima sezione di questa prima parte, due i decreti di particolare rilievo: uno sui risultati del referendum istituzionale e il secondo per la repressione della attività fascista e della attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico (legge del 3 dicembre 1947).
La quarta parte, in appendice, tende a completare il quadro che la pubblicazione intende offrirci sui partiti sia nell’ ambito delle vigenti istituzioni che sul piano della struttura interna dei partiti medesimi (la parte terza è infatti costituita dagli statuti degli undici partiti attualmente rappresentati nel parlamento italiano), con una documentazione sul partito nell’ordina- mento fascista e nella repubblica sociale italiana, dal manifesto agli italiani della nuova direzione del P. N . F . del12 novembre 1921, alle sanzioni penali previste per quei militari o civili che si fossero uniti alle « bande » operanti contro militari o civili dello « Stato » (D. LgsI., 18 aprile 1944).
La pubblicazione si apre con una prefazione del prof. Serio Galeotti, ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Pavia.
Gino Rocchi.
S. W i e n s e n t h a l , Gli assassini sono tra noi, Milano, Garzanti, 1967, pp. 347, L . 2800. II
II libro si chiude con le ultime battute di un dialogo avvenuto nel settembre 1944 in Polonia, presso il campo di sterminio di Lvov, fra un caporale delle SS e l’autore stesso del libro, uno dei trentaquattro superstiti che le SS sorvegliavano, tanto per poter giustificare la ritirata tedesca verso Occidente dinanzi all’armata rossa che a- vanzava.
Il caporale Merz si era sempre com
portato umanamente con 1 prigionieri; in quel momento rimasto solo col Wie- senthal gli confidò il senso di alcune sue meditazioni sulla terribile realtà vissuta. Ad un tratto domandò: « Immagini Wiesenthal che lei stia arrivando a New-York e la gente chieda ’ come andavano le cose in quei campi di concentramento tedeschi? Che cosa vi facevano? ’ ». Al che l ’interpellato con esitazione rispose: « Credo che direi allagente la verità...». « S ì, ci ho pensato molte volte. Ho visto che cosa è successo alla sua gente. Sono una SS, ma a volte mi sveglio nel cuore della notte e non so se sia un sogno o la realtà... Lei direbbe la verità alla gente in America. E ’ giusto. E sa che cosa accadrebbe, Wiesenthal? ». Si alzò lentamente e mi guardò, poi sorrise. « Non le crederebbero. Direbbero che è matto. Forse la metterebbero perfino in manicomio. Come può un uomo credere a questa terribile faccenda... se non ci è passato personalmente? ».
A più di vent’anni di distanza, pur dopo l’infinito numero di testimonianze, ogni volta che ci capiti di leggere un libro in cui si parli dei campi di concentramento tedeschi, a ciascuno di noi par sempre di leggere un racconto uscito da una fantasia demente, agitata da fantasmi di orrore e di morte. E ’ difficile perciò al nostro senso umano riuscire a raffigurare quella che fu la più terribile situazione di fatto dei nostri tempi.
Questo libro del Wiesenthal nella successione delle rappresentazioni retrospettive di storie di uomini, delle quali alcune sono tessute di elementi e di circostanze che qualunque più audace e più strano ingegno inventivo non sarebbe mai stato in condizioni di creare, avvince così profondamente che non possiamo, se non a stento, interrompere la lettura di quelle pagine, che pur ci opprimono e ci fanno soffrire.
E ’ la storia dei più avventurosi ed allucinanti incontri che toccarono ad un superstite dei campi di sterminio, durante questi anni di ricerche per tutto il mondo al fine di scovare i principali responsabili, mandanti ed esecutori, dei crimini nazisti; un superstite che per placare il ricordo della sua famiglia distrutta e dei milioni di seviziati e di uccisi si dedicò nel 1945 ad un’opera di collaborazione con le autorità alleate
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per aiutare profughi nelle ricerche dei parenti sopravvissuti, e contemporaneamente sviluppò la creazione di un centro di documentazione a Linz per indagare sui molti assassini nazisti che circolavano ancora in libertà.
Il libro testimonia questa energica ed affannosa attività, che da anni si sta ancora svolgendo, attraverso momenti ed episodi di intensa drammaticità.
Il pregio di questa narrazione che non indulge mai alla descrizione di particolari orrori sta soprattutto nel fatto che essa riesce a ricreare con tale forza l ’atmosfera di quella realtà troppo spesso non umana ma ferina, che il lettore deve talvolta fare uno sforzo per persuadersi che, al di là dell’in- cubo, c’è per lui ancora un’altra condizione umana fatta di serenità e di equilibrio nella quale può liberamente respirare. Ed è ogni volta quasi una sorpresa consolante scoprirlo.
A parte la materia avventurosa ed i suoi corollari minori, dalla .lettura di queste pagine affiorano soprattutto due problemi, l’uno morale, che se pur spontaneamente si pone, è pertanto destinato a rimanere ancora una volta insoluto; l ’altro storico, che riceve da questo contributo una maggiore chiarificazione. Il primo iriflette la nostra perplessità nell’ammettere possibile l’esercizio della giustizia umana che, forse, mentre persegue il colpevole perchè sia condotto ad espiare le sue colpe, diventa nello stesso tempo inconscio strumento di una superiore giustizia, che va al di là dell’individuo per coinvolgere una più vasta corresponsabilità. Una società che protegge i singoli e fa sua la loro causa, pone già di per sè il riconoscimento della corresponsabilità; di fronte a questo il cacciatore di criminali Wiesenthal e la sua pratica missione di giustizia devono troppo spesso cedere. La situazione storica che ne nasce è strettamente legata al problema morale; la guerra è finita e lascia dietro di sè il caos che non è, purtroppo, soltanto la distruzione di città e di uomini, la miseria e lo sfacelo di ogni opera umana, ma è soprattutto la terribile stanchezza dei vincitori, che affievolisce e spegne ogni reazione morale, lasciando libero il campo agli istinti ed alle opposte passioni. Di qui la situazione caotica che si manifestò alla fine
della guerra, riguardo al problema dei nazisti, nella stessa Germania occupata dagli eserciti alleati.
La testimonianza del Wiesenthal è, a questo proposito, preziosa. Egli passò, infatti, parecchio tempo quale investigatore della Commissione dei crimini di guerra dell'OSS e della CIC e dovette assistere all’ottimo trattamento che ricevevano gli internati da parte degli americani, che, o per insensibilità, o per ignoranza, o per ragioni di rivalità fra i vari servizi di informazione, o soprattutto per diffidenza ed ostilità verso l’alleato sovietico, si prestarono presto al subdolo gioco dei nazisti. Molti di questi criminali, infatti, fra il 1946 e il 1x947 furono liberati dagli stessi americani, per essere poi più tardi arrestati dalle stesse polizie tedesca e austriaca. Commenta il Wiesenthal:
« Costoro non capivano il problema nazista, che appariva ai loro occhi come un capitolo chiuso della Storia. Molti di loro non si preoccupavano di imparare il tedesco e si affidavano alle interpreti tedesche e austriache, così che spesso divennero vittime della migliore arma segreta nazista... le Fràulein. Era logico che un giovane americano si interessasse di più a una ragazza graziosa e compiacente che a una di - ’ quelle SS ’ che tutti volevano dimenticare come un brutto sogno. Questi americani consideravano noi, che volevamo veder fare giustizia, come della gente animata da spirito di vendetta, degli allarmisti incapaci di veder il mondo se non attraverso una siepe di filo spinato. Un capitano americano che aveva un compito importante nella rieducazione dei tedeschi, mi disse una volta : ’ Le opinioni della gente sarannosempre diverse. Da noi ci sono i democratici e i repubblicani ’ , disse. ’ Qui voi avete i nazisti e gli antinazisti. E ’ questo che fa andare il mondo. Non è il caso di prendersela troppo ’ ».
Purtroppo, non dobbiamo nasconderci che proprio questa mentalità irresponsabile è destinata a generare il ripetersi di situazioni di fatto, che ci portano ancora una volta a meditare amaramente sulla dubbia verità che la storia sia proprio magistra vitae.
Perchè tutto ciò non ritorni, forse bisogna tener desti gli spiriti col ricordo di così inumana tragedia; forse ha ragione il Wiesenthal neH’ammonire che,
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se tutti dimenticano, in un avvenire non lontano, tutto potrebbe ripetersi ancora; egli crede infatti di poter af- fermare che :
« le inchieste sull’opinione pubblica dimostrano che fra la condanna dei cri mini nazisti e i fenomeni di neonazismo esiste un rapporto inversamente proporzionale. Quanti più processi si celebrano, tanto più trascurabile è la rinascita del nazismo. Il processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961, segnò una grave battuta d ’arresto per il movimento neonazista in Germania e
in Austria. Milioni di persone che non conoscevano, o non volevano conoscere la verità, per la prima volta dovettero ascoltare i fatti. Oggi, qui nessuno può dire che non conosceva ’ queste cose ’ . E se ancora simpatizza con i criminali, si mette inequivocabilmente dalla parte del male. E non sono molti quelli che desiderano farlo ».
Forse è ancora il vigile senso della responsabilità umana che può incoraggiare un maggior ottimismo nell’interpretazione del valore positivo della storia.
Bianca Ceva.
N O T I Z I A R I OCONSIGLIO GENERALE D ELL’ISTITUTO
Domenica 4 giugno si è riunito a Milano il Consiglio generale del- l’Istituto.
Erano presenti il presidente sen. Ferruccio Farri; il vice-presidente sen. P. Secchia; il segretario generale dr. B. Ceva; i membri del Comitato Direttivo proff. F. Catalano, E. Collotti, G. Quazza e E. Ragio- nieri; il direttore dell’Istituto dr. M. Legnani; gli avv. M. De Meis e E. Frigè in rappresentanza del Collegio dei Revisori dei Conti; il dr. A. Pranzetti in rappresentanza del nuovo Collegio dei Revisori dei Conti; il prof. G. Stendardo in rappresentanza della Direzione Accademie e Biblioteche del Ministero della Pubblica Istruzione; il dr. R. MorotZfl Della Rocca della Direzione generale degli Archivi di Stato; il ten. col. C. Gramazio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito; l’avv. G. B. Stucchi in rappresentanza della Fondazione C.V.L.; i membri cooptati proff. L. Bulferetti e G. Vaccorino; i delegati degli Istituti regionali ; avv. M. Cassiani Ingoni, sig, A. Viale, avv. G. B. Lazagna (Genova); proff. A. Berselli e G. Bonfiglioli (Bologna); prof. F. Antomcelh, avv. G. Agosti, dr. C. Gobetti (Torino); proff. C. Pavone, G. Stendardo, dr. L. Mercuri (Roma); proff. E. Opocher e L. Briguglio (Padova); prof. T. Sala e sigg. G. Fogar e S. Poletto (Trieste); sen. M. Fabiani, dr. N. Niccoli e prof. C. Francovich (Firenze); i delegati degli Istituti provinciali: dr. E. Pacchioni (Modena), dr. M. Pacor (Novara), avv. V. Pellitti (Reggio Emilia), dr. S. Nardi (Ravenna), sig. R. Politzi (Parma), dr. M. Calandri (Cuneo), gen. Ubaldo Barberis (Pavia).
Dopo la relazione della dr. Ceva sull’attività dell’Istituto nello scorso anno, il sen. Parri ha illustrato le nuove prospettive che si aprono nella vita
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