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Claudio Paganini, Mystery
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CLAUDIO PAGANINI
UNDICI PICCOLE OMBRE Piccolo viaggio nel mondo del surreale e del paranormale
www.0111edizioni.com
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www.quellidized.it
www.facebook.com/groups/quellidized/
UNDICI PICCOLE OMBRE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-482-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2013 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
A mia madre…
mi manchi tanto.
Prefazione
C’è un mondo intorno a noi, impalpabile, il più delle volte
invisibile, che ci avvolge e ci avviluppa in una sorta di eterea
nebbia; ne abbiamo coscienza solo in rare occasioni o in
posti particolari, ma sappiamo che esiste, anche se non
riusciamo a spiegarcelo: un universo di sensazioni,
premonizioni, episodi senza alcuna spiegazione razionale
ma di una concretezza preoccupante. Chi vive esperienze di
questo tipo raramente ne parla ma tutti, presto o tardi,
siamo chiamati ad affrontarle cercando di vincere le nostre
paure nei confronti dell’ignoto.
Undici racconti aprono un piccolo spiraglio sul lato oscuro
della nostra esistenza, una piccola finestra su fenomeni
inspiegabili che non dovrebbero esistere, situazioni a volte
paradossali che però ci fanno riflettere su cose
all’apparenza senza significato, per comprendere meglio il
meraviglioso disegno del creato.
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L’ultimo volo di “Ala Spezzata” Liberamente ispirato a un’antica leggenda Navajo.
Ai margini di un’antica foresta, proprio dove gli ultimi alberi
cedono il posto alla prateria, viveva un vecchio pellerossa di
nome “Ala Spezzata”. Era una persona molto anziana che
aveva acquistato con gli anni una saggezza non comune,
tanto che ancora adesso, quando c’erano delle decisioni
importanti da prendere, veniva convocato dal capo tribù
perché anche lui esprimesse il suo parere.
I suoi figli, ormai grandi, avevano da molto tempo
abbandonato la casa paterna per iniziare altrove la loro vita
e il vecchio Ala Spezzata aveva deciso che quello dove si
trovava, sarebbe stato un buon posto dove abitare
nell’attesa della morte. Con l’aiuto dei giovani guerrieri,
aveva costruito una capanna di tronchi vicino a una piccola
sorgente e lì era rimasto anche quando tutta la tribù aveva
smontato il campo per trasferirlo più a sud, dove l’inverno
era più mite.
Ora che era rimasto solo, i preparativi per la stagione fredda
sarebbero stati lunghi e faticosi ma, senza perdersi d’animo,
iniziò subito raccogliendo tutta la legna che poteva portare.
I giorni trascorrevano veloci e il vecchio indiano era
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talmente impegnato nel suo lavoro da non accorgersi che
qualcosa di strano stava accadendo intorno alla sua casa.
Innanzitutto riusciva a trovare sempre della buona legna
vicino alla capanna e questo gli permise di farne una buona
scorta senza faticare troppo ma anche la selvaggina e i
frutti del bosco non scarseggiavano mai in quel luogo,
nonostante l’inverno fosse ormai alle porte.
Una sera, quando ormai il freddo vento del nord faceva
sentire la sua voce tra i rami degli alberi, l’anziano pellerossa
si sentì improvvisamente molto stanco: sdraiato sul suo
letto davanti a un bel fuoco che allegramente scoppiettava
nel camino, pensò che presto avrebbe dovuto lasciare quei
luoghi che gli erano tanto cari e iniziare l’ultimo lungo
viaggio verso le praterie del cielo. Non era triste perché, alla
sua età, la morte non faceva più paura ma diventava quasi
una dolce compagna che attendeva solo di poterti
accompagnare in un luogo dove fame e freddo non
esistono. Cullato da quegli strani pensieri, fu sorpreso
nell’udire un colpo alla porta: si alzò faticosamente dal suo
letto e, spinto dalla curiosità, andò a vedere chi c’era fuori
dalla sua capanna.
Aprì l’uscio lentamente, cercando di distinguere, nelle
ultime luci del giorno appena trascorso, chi poteva aver
causato quel suono. Il vento aveva cessato di soffiare e ora
una strana calma era scesa su quel luogo: Ala Spezzata si
guardò intorno intimorito fino a che una voce lo fece
voltare verso la sorgente. Lì, accucciato sull’erba, un grosso
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lupo grigio lo stava osservando mentre, sulla roccia da cui
scaturiva l’acqua, un falco lo stava chiamando. Il vecchio
indiano non poteva credere ai propri occhi e, intimorito,
avrebbe voluto fuggire lontano quando la voce del rapace
gli intimò di avvicinarsi.
«Chi siete?» chiese l’anziano pellerossa sorpreso più che
intimorito dal fatto di poter sentire un animale che parlava.
«Siete venuti per me, per farmi del male?»
Il grosso lupo si alzò di scatto e, con un paio di salti, si portò
a fianco del vecchio.
«Non temere, siamo venuti qua da amici e come tali ci
comporteremo. Ti abbiamo portato legna e cibo durante
tutto l’autunno affinché tu riuscissi a completare le scorte
prima che arrivasse il “grande freddo” e ora ci siamo fatti
vedere da te perché il falco ha una cosa importante da
mostrarti.»
L’anziano pellerossa, rincuorato dalle parole del lupo, si
avvicinò alla sorgente ripetendo nuovamente la domanda.
«Chi sei?»
Era, infatti, meravigliato, perché sentiva di conoscere
l’animale che gli stava innanzi ma, per quanti sforzi facesse,
non riusciva a ricordare nulla che lo potesse aiutare.
Indicando la pozza limpida ai piedi della roccia il falco
cominciò a parlare.
«Molto tempo fa mi trovavo in questo stesso luogo; ero
giovane e inesperto e avevo appena lasciato il nido quando
un cacciatore della tua tribù mi vide e mi scagliò contro la
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sua freccia. Caddi nei cespugli qui vicino, proprio accanto a
una giovane donna che aveva appena dato alla luce un
bimbo. La mia ala, trafitta dalla freccia, mi era rimasta sotto
il corpo, spezzandosi, e mentre mi dibattevo certo che sarei
morto, accadde una cosa strana; la donna depose il bimbo
fasciato sull’erba accanto a me e mi aiutò a rimettere l’ala al
suo posto, estrasse la freccia e curò la ferita con le erbe che
crescevano vicino alla sorgente. Vedendo il mio arrivo come
un presagio, chiamò suo figlio “Ala Spezzata”, unendo in
quel modo il mio destino al suo: tu eri quel piccolo infante e
nel lungo periodo in cui siamo stati vicini mentre tua madre
curava le mie ferite, i nostri spiriti si sono fusi insieme
donando a entrambi saggezza e capacità che nessun altro
possiede. Questa sera sono qui perché è giusto che proprio
da questo luogo che ci ha visto uniti partano i nostri spiriti
per le grandi praterie del cielo.»
Il vecchio ascoltò il racconto e riuscì a vedere nelle calme
acque della sorgente tutta la scena: si ricordò delle favole
che sua madre gli raccontava quando, da bambino,
chiedeva spiegazioni sul suo nome e seppe con certezza che
ciò che il falco affermava era la pura verità.
«Che cosa accadrà ora?» chiese l’indiano.
«Volerai via con me, nel vento, tra i rami degli alberi e lungo
le valli del nord, in alto nel cielo. Saremo finalmente liberi e
nuovamente uniti, là dove l’inizio e la fine sono un’unica
cosa.»
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A primavera la tribù di Ala Spezzata tornò in quei luoghi;
aveva nevicato parecchio quell’inverno e un manto bianco
copriva ancora il tetto della capanna e tutta la zona
circostante. Dopo aver montato il campo, tutti i guerrieri
andarono a far visita al vecchio saggio e lo trovarono
disteso, nei pressi della sorgente, con il viso sereno e
sorridente rivolto al cielo. Accanto a lui, nella stessa
posizione, c’era un falco con le ali spiegate, quasi stesse
ancora volando verso chissà quali orizzonti.
In alto, sulla montagna, l’ululato di un lupo rese la scena
ancora più suggestiva e irreale e i pellerossa, intimoriti,
lasciarono in silenzio la radura. Da allora la capanna vicino
alla sorgente è il posto più sacro per la tribù, dove i
discendenti di Ala Spezzata vengono a cercare la saggezza e
la pace che non trovano i nessun altro luogo.
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Il traghettatore di anime
Jack era sempre vissuto lì, nel vicolo, o così almeno riuscivo
a ricordare, circondato da un numero impressionante di
oggetti raccolti qua e là. Era un personaggio strano,
enigmatico, ma del tutto innocuo; si vestiva con quello che
la gente gli regalava e aveva la passione, o per meglio dire la
mania, di collezionare gli oggetti più disparati, raccolti
chissà dove. Li teneva tutti ordinati su mensole
improvvisate, puliti e lucidi, quasi fossero tesori inestimabili;
a volte ne prendeva uno, lo stringeva al petto e cominciava
a parlare all’aria che lo circondava, con calma e dolcezza,
come se avesse avuto davanti una persona cara.
Io lo osservavo dalla finestra della mia camera, spiando quel
suo soliloquio continuo e, a volte, ne provavo invidia; io non
avevo nessuno con cui parlare, tenuto prigioniero nella mia
stanza da un morbo oscuro che mi stava divorando
lentamente dall’interno.
Jack era sempre lì, a custodire il suo tesoro con un amore
che non conosceva sosta, pronto a ringraziare il prossimo
per un gesto gentile o a condividere quel poco che aveva
con i randagi che andavano a trovarlo in cerca di cibo o di
affetto.
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Solo una volta l’avevo visto diventare violento: un gruppo di
ragazzini aveva voluto fargli un dispetto e, mentre alcuni lo
distraevano, il più grande di loro era riuscito a rubare uno
dei suoi oggetti. La sua reazione aveva spiazzato
completamente tutti, me compreso: un lamento profondo,
lugubre e triste, era salito dalla sua gola diventando sempre
più forte e minaccioso. Aveva rincorso il ragazzo
bloccandogli le spalle con le sue mani nodose, terribilmente
forti: non aveva proferito parola ma lo aveva fissato a
lungo, negli occhi, con uno sguardo terribile, quasi volesse
strappargli l’anima.
Il ragazzo, tremante, aveva riposto con cura l’oggetto dove
l’aveva preso e, dopo aver balbettato le sue scuse, era
scappato via piangendo. Nessuno di loro si era più
avvicinato al vicolo e mai più anima viva aveva toccato la
roba di Jack.
Non avendo altro modo per passare il tempo, avevo preso
l’abitudine di osservarlo con attenzione, studiando con cura
i suoi rituali quotidiani, cercando di capire con chi credeva di
parlare e, cosa ancora più misteriosa, che cosa diceva nei
suoi sproloqui. Dalla mimica del suo viso, infatti, si capiva
che doveva trattarsi di qualcosa di molto importante,
almeno per lui, spiegazioni di vitale importanza per chi
aveva innanzi; il suo viso era concentrato ma sereno quasi
stesse insegnando a qualcuno, usando dolcezza e pazienza
per meglio far comprendere il concetto, come un maestro
d’asilo con i suoi piccoli scolari.
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Lo vedevo gesticolare con enfasi, indicando un punto
lontano, poi sorridere e riporre soddisfatto l’oggetto che
aveva stretto al petto fino a quel momento, non sul ripiano
insieme con gli altri, ma in un angolo appartato, quasi non
servisse più.
La mia malattia, intanto, subdolamente aveva preso il
sopravvento sulle cure ed ero stato trasferito, mio
malgrado, nel reparto oncologico dell’ospedale cittadino;
sapevo che stavo giungendo al termine del mio triste
percorso ma, stranamente, quello che più mi mancava era
Jack e il suo parlare al vento.
Ero riuscito a scoprire, chiedendo a tutti quelli che mi
venivano a trovare, alcune informazioni su quello strano
personaggio; non era sempre stato un barbone, anzi: anni
prima era stato un rispettato professore universitario,
amato e benvoluto da tutti, specialmente dai suoi studenti.
Conduceva una vita regolare, suddivisa tra la passione per
l’insegnamento e il suo unico grande amore: sua figlia Emily
di quindici anni. La moglie era morta qualche anno prima,
coinvolta in un brutto incidente automobilistico che aveva
lasciato quasi in fin di vita anche Jack; era stato l’affetto dei
suoi studenti e l’amore per la figlia a dargli la forza di guarire
e di ritornare quello di prima.
A volte però il destino si accanisce proprio con le persone
più buone: Emily morì anch’essa qualche anno dopo,
stroncata da un male che non le diede scampo. In pochi
mesi la sua giovane vita si spense e così pure la voglia di
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vivere del professore; si lasciò andare sempre di più,
incurante di tutto e di tutti, fino ai limiti della disperata
pazzia, dopo di che scomparve senza lasciare traccia.
Coloro che si erano affezionati al povero insegnante non si
diedero per vinti e dopo più di un anno di ricerche
estenuanti riuscirono a rintracciarlo in un vicolo della mia
città, dove raccoglieva oggetti tra i rifiuti e parlava al vento
con la sua voce calma e cordiale: Jack appunto.
Pensavo a lui molto spesso durante le lunghissime ore
passate a fissare il soffitto della mia camera, mentre i
medicinali, sempre più forti, alteravano le mie percezioni e il
mio senso del tempo e dello spazio; arrivavo perfino a
immaginarmi seduto vicino a lui mentre insegnava alle
persone irreali che aveva innanzi come trovare la strada di
casa. Deliravo in quei momenti, ne ero consapevole; un
delirio lucido, dove tutto sembra reale ma distorto, dove le
presenze davanti a Jack erano stranamente opache, quasi
incorporee. Lui, stringendo i suoi tesori al petto, svelava a
quelle incorporee entità cosa dovevano fare per trovare la
pace, per passare finalmente nella luce, verso la
destinazione finale.
A quel punto, immancabilmente, riprendevo il contatto con
la realtà e ogni volta ciò che rimaneva di quell’esperienza
era la frustrazione di essere arrivato a un passo dalla
comprensione solo per vedersela scivolare lentamente tra
le dita.
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La fine arrivò improvvisa, di notte. Non posso dire di aver
sofferto, imbottito com’ero di antidolorifici, ma me ne
accorsi e fui preso dal panico; sentivo le ultime energie
scivolare via, lentamente, mentre una terribile stanchezza
mi ghermiva: avevo gli occhi spalancati nella vana ricerca di
un po’ di luce, poi il buio totale e quel terribile silenzio. Non
vidi nessun tunnel né tantomeno una figura cara che mi
attendeva come tante volte avevo sentito raccontare,
leggende metropolitane di persone che erano morte per
qualche istante e poi rianimate; solo una patetica figura in
un letto sudato, circondato da medici e infermieri
impotenti: io appunto, o ciò che ero stato fino a quel
momento… poi fui risucchiato via.
Jack era di fronte a me, calmo e sorridente come sempre;
non da solo questa volta, ma circondato da persone che
erano in attesa, come me di una sua parola.
«Jack» sussurrai timidamente, quasi avessi paura di farmi
sentire.
Lentamente tutti si voltarono verso di me, come se solo ora
si accorgessero della mia presenza; c’erano visi conosciuti di
cui stentavo a ricordare il nome, altri mai visti, ma alcuni, ne
ero certo, erano di persone decedute proprio nel quartiere.
Tutti lì, in attesa di qualcosa o di qualcuno; percepivo il
legame tra loro e gli oggetti che Jack aveva raccolto e
lentamente cominciavo a intuire il mistero che da sempre mi
aveva affascinato.
«Chi sei tu?» gli chiesi, indicando tutto ciò che mi circondava.
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«Che senso ha tutto questo?»
Mi sorrise con quell’espressione benevola che tante volte
avevo visto nascere sul suo volto; m’indicò prima quelli che
avevo vicino e poi gli oggetti sui ripiani: una sorta di fluida
energia legava gli uni agli altri in un vincolo indissolubile…
poi lo vidi.
Mia madre, probabilmente, aveva riordinato la mia stanza,
buttando via le cose che ormai non servivano più, come il
mio orsacchiotto di peluche che da bambino mi teneva
compagnia mentre dormivo; era lì insieme alle altre cose,
ma per me brillava più di tutte.
«Mia figlia morì di un brutto male, ma non andò subito via:
venne da me perché non poteva andare oltre senza
risolvere la questione che la legava ancora a questo mondo.
Mi consolò e mi parlò di quante povere anime si ritrovano
smarrite subito dopo la morte, impossibilitate a raggiungere
la fase finale perché inconsapevoli del legame che le
legavano ancora a questa vita. Non avevano nessuno che
insegnasse loro a liberarsi dagli ultimi vincoli terreni,
nessuno che potesse traghettare il loro spirito verso la
destinazione finale. Presi io quel pesante fardello, per mia
figlia e per tutti quelli che ne avevano bisogno: da allora io
sono semplicemente Jack, il traghettatore di anime.»
Non so quanto tempo rimasi in quel vicolo; vedevo spiriti
passare oltre, serenamente, e altri aggiungersi a quelli già
presenti in un ricambio continuo. Nuovi oggetti arricchivano
la collezione di Jack e altri erano messi da parte perché
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avevano compiuto il loro compito: poi toccò anche a me
liberarmi dal mio pesante fardello terreno. L’ultima cosa che
vidi fu il suo sorriso radioso mentre m’innalzavo sempre più
in alto nel cielo, verso una luce che non aveva eguali nel
creato.
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Una giornata davvero movimentata
Sembrava una giornata come tante altre, di quelle che
scivolano via senza lasciare traccia, la solita routine di tutti i
giorni. Io e i miei fratelli ci stavamo riposando dopo un
pasto forse troppo abbondante; faceva caldo e l’aria,
umida, aveva un lieve odore di menta misto agli aromi del
cibo appena consumato. Nel buio, uno accanto all’altro, ci
godevamo il meritato riposo, pensando che quello era il
modo migliore di passare il resto della giornata; eravamo
del tutto ignari di quello che di lì a poco sarebbe successo. I
rumori del mondo esterno arrivavano attutiti, simili a una
ninna nanna lontana, come il suono delle onde sulla risacca;
qualcuno si lamentava, una flebile vocina che non aveva
un’ubicazione ben precisa.
“Forse uno dei miei fratelli si sente poco bene…” pensai tra
me cercando di capire chi fosse; poi scese nuovamente il
silenzio e non ci feci più caso.
Il risveglio fu a dir poco traumatizzante: una luce bianca,
violenta, quasi ci accecò; l’aria divenne improvvisamente
fredda mentre qualcosa di metallico, appuntito, cominciò a
graffiarci, uno dopo l’altro. Nessuno aveva il coraggio di
emettere il benché minimo suono, timorosi che anche il più
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piccolo accenno di vita potesse attirare l’attenzione di
quello strano arnese; rimanemmo in silenzio, uno vicino
all’altro, come bravi soldatini o, più probabilmente, come
tanti agnellini pronti al macello.
Il tempo non passava mai sotto quella luce impietosa,
costantemente minacciati da quel freddo metallo; poi tornò
improvvisamente il buio e con esso la speranza che l’incubo
fosse finito: ma era soltanto l’inizio.
Una sferzata di gelo fu il primo avviso che la tortura stava
ricominciando; prima un vento ghiacciato, poi un turbine
d’acqua ci colse di sorpresa, mentre quella luce impietosa ci
illuminava nuovamente: sentii uno dei miei fratelli gridare di
dolore mentre veniva investito da quella tempesta senza
fine. Era il più sensibile di noi, quello più delicato del gruppo;
avevamo cercato più volte di proteggerlo anche lavorando
a turno al posto suo… ma non era servito a nulla: alla fine
era stato ugualmente scoperto.
Lo sentivo tremare sopra di me, gemere sommessamente,
mentre gli altri cercavano di incoraggiarlo a resistere: presto
sarebbe stato tutto finito, in un modo o nell’altro.
Poi iniziò la tragedia; dall’altro, come una macchina
infernale, con un rumore simile a un enorme tuono,
qualcosa calò, come falco in picchiata, sul mio sventurato
compagno: i suoi denti sottili, simili a schegge di diamante,
fecero scempio della sua pelle, penetrando in profondità.
L’aria si riempì dell’acre odore di osso tritato, mentre una
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nuvola di polvere bianca mista ad acqua faceva penetrare il
nostro terrore ancora più in profondità.
Non doveva finire così, povero amico mio: avevamo fatto
tutto il possibile ma lui era troppo debole e in questo
mondo sopravvive solo il più forte.
Lo sventurato fratello si lamentava e si contorceva in preda
al dolore più intenso; per un attimo sembrò che il tempo si
fosse fermato, ma solo per riprendere a scorrere verso una
nuova, insopportabile tortura: una lancia acuminata,
enorme, fece scempio delle sue carni più tenere.
Non più un lamento udii uscire dal corpo straziato del
nostro fratello, mentre la macchina infernale faceva la sua
ricomparsa per terminare il suo nefasto compito; strato
dopo strato penetrò in lui sottraendogli parti preziose del
corpo, lasciandolo esposto come un macabro trofeo. Forse
mossi da una pietà inusuale, colmarono la voragine che
avevano appena creato con un pietoso sudario argentato,
quasi a cercare di nascondere il crimine appena compiuto;
poi fu di nuovo il buio e il caldo, umido abbraccio del nostro
rifugio.
Tesi l’orecchio nel tentativo di percepire i suoni esterni,
cercando di capire se era veramente finita, oppure se era
solo una pausa tra una tortura e l’altra. Qualcosa riusciva a
filtrare tra le voci terrorizzate dei miei compagni che
chiedevano a gran voce notizie, ma era tutto troppo
confuso per capire qualcosa.
«State zitti!» gridai con tutto il fiato che avevo.
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Di colpo il silenzio regnò nella stanza e io, finalmente, riuscii
a capire cosa succedeva fuori.
«Non si preoccupi, signora, era solo una piccola carie che si
era insinuata fino a toccare la polpa… ho pulito tutto per
bene e le ho fatto una bella otturazione in lega d’argento.
Mi raccomando: non mangi per due ore e nel caso sentisse
ancora qualche fastidio, torni pure da me che ci diamo
un’altra occhiata… io sono in studio tutto il giorno oppure
può chiamarmi sul cellulare…»
Ora ne ero certo: l’incubo era davvero finito. Potevamo
riposare tranquilli almeno per altre due ore, poi tutto
sarebbe tornato come prima: anche il nostro compagno
sarebbe guarito tornando quello di prima, probabilmente
più forte. Avrebbe sicuramente mostrato a tutti le sue
cicatrici facendosene un vanto, ma poi la nostra vita
sarebbe ripresa come al solito… fino alla prossima visita dal
dentista.
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