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Amadeus Periodico di cultura musicale edito da Paragon edizioni Anno XXVI numero 7 (296) luglio 2014 Direttore responsabile Gaetano Santangelo In copertina, Domenico Mason, Lea Birringer, Laura Bortolotto (Foto di Renato Bianchini) Christoph Willibald Gluck: con il temperamento “selvaggio” delle sue opere il compositore di “Orfeo ed Euridice” scardinò le regole del melodramma 46 Karajan-Kleiber: doppio anniversario per due direttori d'orchestra entrati nel mito. Entrambi austriaci, personalità e scelte professionali opposte Paolo Fresu: incontro con il celebre jazzista italiano, il cui percorso si avvicina sempre più spesso a formazioni e autori "classici” da Monteverdi a Richard Strauss 50 40 Rubriche 7 agorà di Luca Cerchiari 9 in scena a cura di Nicoletta Lucatelli 19 calendario 25 fondazione amadeus 26 appunti 74 note di viaggio a cura di Nicoletta Lucatelli 78 musicaoggi 80 antica a cura di Massimo Rolando Zegna 81 jazz a cura di Franco Fayenz 82 fuoritema a cura di Riccardo Santangelo 83 scaffale a cura di Paola Molfino 84 libri 89 cd e video a cura di Massimo Rolando Zegna > Amadeus è su internet www.amadeusonline.net Servizi 30 cd 1 FEDERIGO FIORILLO di Davide Pitis 33 cd 1 DOMENICO MASON di Claudia Abbiati 37 cd 2 MARCO SOLLINI di Claudia Abbiati 40 KARAJAN-KLEIBER di Valerio Cappelli e Giovanni Gavazzeni 46 ANNIVERSARI: GLUCK di Paolo Gallarati 50 PAOLO FRESU di Andrea Milanesi 53 LAURENT PELLY di Guy Cherqui 56 FESTIVAL SPOLETO-FENDI di Nicoletta Lucatelli 59 MILOš KARADAGLIč di Maurizio Corbella 62 PIET MONDRIAN di Paolo Bolpagni 66 STRUMENTI ALTERNATIVI di Giuseppe Scuri 70 BRUNELLO RONDI di Marco Ranaldi cd 1 Federigo Fiorillo Concerti e Sinfonie concertanti Lea Birringer e Laura Bortolotto, violini Luca Vignali e Stefano Rava, oboi Accademia d'Archi Arrigoni Domenico Mason, direttore guida all’ascolto di Davide Pitis Sommario cd 2 download digitale I Valzer di Chopin Marco Sollini, pianoforte codice SW296BR14 (a pag. 39 le modalità per scaricare il cd 2)

«Il fattore K» by Valerio Cappelli and Giovanni Gavazzeni - Amadeus, no. 296 [July 2014]

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AmadeusPeriodico di cultura musicale edito da Paragon edizioni

Anno XXVI numero 7 (296) luglio 2014Direttore responsabile Gaetano SantangeloIn copertina, Domenico Mason, Lea Birringer,

Laura Bortolotto (Foto di Renato Bianchini)

Christoph Willibald Gluck: con il temperamento

“selvaggio” delle sue opere il compositore di “Orfeo ed Euridice” scardinò le regole del melodramma

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Karajan-Kleiber: doppio anniversario per due

direttori d'orchestra entrati nel mito. Entrambi austriaci, personalità e scelte professionali opposte

Paolo Fresu: incontro con il celebre jazzista italiano,

il cui percorso si avvicina sempre più spesso a formazioni e autori "classici” da Monteverdi a Richard Strauss

50

40

Rubriche 7 agorà diLucaCerchiari

9 in scena acuradiNicolettaLucatelli

19 calendario

25 fondazione amadeus

26 appunti

74 note di viaggioacuradiNicolettaLucatelli 78 musicaoggi

80 antica acuradiMassimoRolandoZegna

81 jazz acuradiFrancoFayenz

82 fuoritema acuradiRiccardoSantangelo

83 scaffale acuradiPaolaMolfino

84 libri

89 cd e video acuradiMassimoRolandoZegna

> Amadeus è su internet www.amadeusonline.net

Servizi30 cd 1 FeDeRIGo FIoRILLo diDavidePitis

33 cd 1 DoMenIco MASon diClaudiaAbbiati

37 cd 2 MARco SoLLInIdiClaudiaAbbiati

40 KARAjAn-KLeIBeR diValerioCappellieGiovanniGavazzeni

46 AnnIVeRSARI: GLucK diPaoloGallarati

50 PAoLo FReSu diAndreaMilanesi

53 LAuRent PeLLy diGuyCherqui

56 FeStIVAL SPoLeto-FenDI diNicolettaLucatelli

59 MILoš KARADAGLIč diMaurizioCorbella

62 PIet MonDRIAn diPaoloBolpagni

66 StRuMentI ALteRnAtIVI diGiuseppeScuri

70 BRuneLLo RonDI diMarcoRanaldi

cd 1 Federigo Fiorillo

Concerti e Sinfonie concertantiLea Birringer e Laura Bortolotto, violiniLuca Vignali e Stefano Rava, oboiAccademia d'Archi ArrigoniDomenico Mason, direttoreguidaall’ascoltodiDavide Pitis

Sommario

cd 2 download digitale

I Valzer di ChopinMarco Sollini, pianoforte

codice SW296BR14(a pag. 39 le modalità per scaricare il cd 2)

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Karajan-Kleiber: doppio
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direttori d'orchestra entrati nel mito.
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Entrambi austriaci, personalità
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e scelte professionali opposte
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KARAjAn-KLeIBeR
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di Valerio Cappelli
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e Giovanni Gavazzeni
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Con la nomina a direttore a vita dei Berliner Philharmoniker (1955-89), alla morte del suo più acerrimo detrattore, Wilhelm Furtwängler, il

regno di Herbert von Karajan si estese alle più importanti capitali musicali d’Europa: Vienna, direttore musicale e galvanizzatore dei Wiener Symphoniker; Londra, direttore musicale della Philharmonia Orchestra, compagine formidabile per intonazione e qualità che Walter Legge gli costruì su misura; Milano, presenza fissa e trionfatore non solo per le opere tedesche al Teatro alla Scala; Lucerna, dominus del Festival per trent’anni. Con l’ultimo gioiello berlinese la corona di Heribert Ritter von Karajan (scomparso il 16 luglio di 25 anni fa) divenne quella di un monarca assoluto, che si arricchì di ulteriori gemme: la Wiener Staatsoper (1957-64) e il Festival di Salisburgo (1956-89), nel cui ambito, dopo essersi disfatto del direttorio presieduto dal suo maestro di composizione, Bernhard

Il fattore KDoppio anniversario per due direttori d’orchestra entrati nel mito. Austriaci entrambi, personalità e scelte professionali completamente diverse: i volti opposti di una stessa medaglia

karajan (1908 -1989) – kleiber (1930 - 2004)

di GIOVANNI GAVAZZENI

Karajan Paumgartner, ebbe parola su tutto, creandosi un suo mono-festival nel periodo di Pasqua, quasi una anti-Bayreuth, per realizzare il “suo” mirabile Wagner.

Niente male per un artista che alla fine della Seconda guerra mondiale era dovuto riparare nell’anonimato a Milano e a Trieste in casa di amici fidati (il conte Attilio Smecchia e la famiglia del barone Goffredo De Banfield), per subire poi in patria un non lieve processo di denazificazione (con incluso divieto di dirigere in pubblico fino al ’48). La sua fedina era segnata dall’iscrizione al Partito nazionalsocialista, “tessera” presa ben prima dell’Anschluss (poco importa se nel ’33 o nel ’35, e, come affermano gli agiografi, non per fede ideologica ma per calcolo o necessità carrieristica). Sono anni in cui il talento di Karajan esplode: nel ’34, a soli 26 anni, è il più giovane Generalmusikdirektor del Terzo Reich ad Aachen (Aquisgrana), dove una sua Elektra destò l’ammirazione dell’autore presente, Richard Strauss. Per un eclatante Tristan und Isolde che gli apre le porte della Staatsoper di Berlino (teatro che era sotto l’egida diretta del Maresciallo Göring), la stampa conia l’epiteto di Miracolo Karajan (Wunder Karajan): da allora quel giovanotto di origini greco-armene sarà per Furtwängler la sua ombra di Banquo. Per farsi largo a quei tempi non bastavano tessere, relazioni altolocate o scaltrezza manovriera, come rampognava Furtwängler, ci voleva anche una dotazione naturale e Karajan era un

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karajan (1908 -1989) – kleiber (1930 - 2004)

fuoriclasse. Basti pensare che in Germania, partiti per le inique sanzioni razziali grandi direttori come Blech, Busch, Erich Kleiber, Klemperer, Walter, rimanevano sempre in posti chiave Böhm, Jochum, Knappertsbusch, Krauss, Rosbaud e Schuricht, per rimanere solo alla prima fila.

L’uomo della provvidenza per Karajan fu il Direttore Artistico della Voce del Padrone, Legge. Questi piombò subito nella Vienna occupata dagli Alleati (quella del Terzo uomo di Graham Greene), incidendo con Karajan, i Wiener e i migliori cantanti rimasti (Maria Cebotari, Erich Kunz, Elizabeth Schwarzkopf), aggirando così il bando che vietava agli inquisiti di dirigere in pubblico. Alla revoca, Karajan era pronto per macinare concerti e registrazioni a ritmi forsennati. Dall’intesa con Legge e la Emi nasceranno dischi che hanno fatto storia (soprattutto nelle opere di Mozart e Richard Strauss). L’asse Vienna-Londra si ruppe nel ’60, quando Karajan diventò artista esclusivo Deutsche Grammophon e i suoi interessi lo portarono ad abbandonare sans souci il Mentore d’un tempo. Sugli anni di guerra e sui pellegrinaggi postbellici l’interessato stese un velo di reticenze e omissioni, allontanando in un alone di mistero ogni domanda imbarazzante. Circolarono però notizie utili: una disgrazia presso il Führer, causa un’esecuzione dei Meistersinger in cui un vuoto di memoria determinò un’ignominiosa interruzione dello spettacolo. Alla difesa

non fu estranea la seconda moglie, Anita Gütermann, figlia di un facoltoso industriale con molte aderenze ed ebrea per un quarto secondo le aberranti classificazioni razziali (da cui divorziò, a bufera conclusa, nel ’58). Dal ’48 al ’55 un solo teatro non si piegò al Wunder Herbert: Bayreuth. Già nel ’50 Wieland Wagner lo aveva invitato a dirigere il Tristan. Le frizioni non mancarono, da subito, e per i motivi più svariati: la pretesa di avere un bagno privato, quella di alzare il livello dell’orchestra o di provare con i cantanti usando registrazioni e di correggerli senza aspettare la conclusione della frase o del periodo, e soprattutto di avere il primato sulle decisioni in materia di cast. «Non potevamo affidare una segreteria a lui solo», ricorda nelle sue memorie Wolfgang Wagner, «così usava di soppiatto la carta intestata del Festival di Bayreuth inserendo la parola “Direzione” in testa». Non fu una buona idea quella di far condividere la guida del Ring a due personalità così diverse come Karajan e Hans Knappertsbusch, che non perdeva occasione per bersagliare il giovane collega con il suo sarcasmo mordace. Alla fine di una prova, dove Karajan suonava il pianoforte (e lo suonava magnificamente) e “Kna” dirigeva, «circostanza per se stessa eccezionale, stante la sua avversione al provare, il maestro scese verso il terzo livello della nostra buca. Karajan con una mano sul pianoforte, guardava in alto verso il suo confrère considerabilmente più alto nell’attesa di sentire

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un apprezzamento». “Kna”, assestandogli una pacca sulla spalla, lo freddò: «Se da qualche parte si elemosina un posto da ripetitore, metterò una buona parola per te»”. Quando il rampante collega dirigeva a memoria, il decano commentava: «Io posso leggere la musica».

Nel corso degli anni ’60 (secolo scorso) Karajan definì in maniera capillare la sua immagine. Fotografie patinate, capelli con i riflessi azzurrati, pose plastiche, occhi chiusi in mistico contatto con gli autori, abiti di grande eleganza. Scatti presi nei luoghi del jet-set: al timone del mega yacht

a Saint-Tropez, sulle nevi di Sankt Moritz, a bordo del jet privato pilotato personalmente. Nulla era lasciato al caso. E il culto della personalità accompagnò la vendita di centinaia di milioni di copie di dischi. Karajan ha eternato se stesso attraverso le incisioni e le riprese video (di cui fu pioniere e, manco a dirlo, esperto straordinario), perseguendo quello scopo con crescente determinazione, quasi un’ossessione, incidendo più volte gli stessi pezzi (non sempre migliorandone l’interpretazione). Ne sanno qualcosa i formidabili tecnici della Deutsche Grammophon svegliati ad alta notte dalla voce chioccia e inflessibile del Maestro che impartiva correzioni millimetriche e modifiche al balance.

Sul versante operistico Karajan colse successi memorabili anche nel repertorio italiano: dalla Lucia scaligera con la Callas ai sontuosi Puccini (La bohème e Tosca), all’amato Verdi (Il trovatore, Don Carlo, Aida, Otello). Assunse anche l’onere della regia dei suoi spettacoli a Vienna e Salisburgo (quasi sempre oggetto di non poche critiche, stante anche il gusto non lieve del suo scenografo di fiducia, Günther Schneider-Siemssen).

Il General Manager del Met, Rudolf Bing, colui il quale vinse le non poche riserve degli americani per l’ex tesserato Nasdap Karajan, riuscì a scritturarlo per il Ring a New York (non completato causa un clamoroso sciopero). Bing narra, con umorismo mitteleuropeo, le innumerevoli problematiche sorte già in fase preliminare con una varietà di intermediari: «Il manager personale e segretario, André von Mattoni, l’incaricato d’affari per i contratti, dottor Steffan; il suo agente artistico a Parigi, Michel Glotz, e il curatore delle faccende americane, Mister Peter Wilford». Difficile anche la trattativa diretta. «Lui è timido, come sono io: gli si offre una sigaretta, risponde che non fuma; gli si offre da

Karajan da ascoltare

In occasione del venticinquennale della morte, Warner Classics ha iniziato la pubblicazione in 12 cofanetti del-

l’integrale (Official Remastered Edition) di tutte le regi-strazioni effettuate da Karajan per la Voce del Padrone - Emi, da quelle viennesi post-belliche (336180) alle famose Nove sinfonie di Beethoven di Londra (3373454), alle prime con i Berliner fino al 1960 (336234). Musica sinfonica e cora-le, escluse soltanto le opere complete. Soprattutto nel primo ventennio si trovano le registrazioni più preziose dal punto di vista interpretativo (i Valzer degli Strauss, le arie e i brani operistici). Deutsche Grammophon ha congiunto il ricor-do di Karajan con la ricorrenza dei 150 anni dalla nascita di Richard Strauss con un cofanetto Karajan-Strauss: 11 cd e un blu ray (4792686). In luglio arriva anche il primo ciclo beethoveniano con i Berliner, quello del 1963 (4793442), mentre è già disponibile una non meno monumentale Sym-phony Edition in 38 cd (4778005). g.g.

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bere, e non beve, “facciamo colazione insieme”, e lui non mangia mai a mezzogiorno». Questioni spinose saltano fuori come funghi: il Maestro scrittura un costumista (Georges Wakhévitch) senza preavvertire; contatta altri soprani per la “parte” di Brünnhilde irritando la regina del Met, Birgit Nisson, che già non ama lavorare con un uomo «privo di senso dell’umorismo»; esige un doppio cast completo. Però «quando vuole segue i cantanti in modo sublime, e in genere lo vuole», c’è sempre la fissazione “luci”. Karajan ordina al suo assistente Nikolaus Lehnhoff: «Luce su Wotan!». Il comando da questi passa al responsabile luci del Met, Rudy Kuntner, che lo trasmette in cabina-luci. Quando l’uomo in cabina domanda: «Chi è Wotan?», Bing fugge dalla sala.

I detrattori di Karajan non mancavano di sottolineare la spregiudicatezza di scegliere voci troppo liriche per ruoli drammatici (ad esempio, Christa Ludwig come Kundry), dimenticando come questa scelta si inserisse in un disegno di alleggerimento delle opere di Wagner e Strauss (si pensi alla ricchezza di sfumature della Brünnhilde di Regine Crespin), il cui modello era stato il suo maestro, Clemens Krauss.

E non bisogna dimenticare l’aiuto e la fiducia data a giovani solisti (Cristian Ferras e Anne-Sophie Mutter, Yo-Yo Ma, Antonio Meneses), accanto a storici sodalizi con Denis Brain, Gieseking, Gould, Lipatti, Fournier, Rostropovič e Weissenberg. La supposta scarsa attenzione alla musica contemporanea, a parte le mirabili incisioni dei più noti brani sinfonici di Schönberg, Berg e Webern, si smentisce scorrendo attentamente il suo repertorio utile anche

per capire i gusti: non solo autori tedeschi – Hindemith, Orff, Blacher, Fortner, Einem – ma anche con frequenza, Bartók, Stravinskij (Sacre, Apollon e Sinfonia di salmi), Honegger; e negli anni della Philharmonie “prime” di Britten (War Requiem), Ligeti, Henze, Martin, Messiaen, Nono, Penderecki. Nel repertorio sinfonico sono storicizzati il “suo” Mozart, il titanico Beethoven, la famiglia Strauss, Brahms e Bruckner, Richard Strauss e Sibelius (e mirabili sortite nel decadentismo mahleriano). Più complesso il rapporto con il primo romanticismo (Schubert, Schumann e Mendelssohn). Comunque, si voglia o non si voglia, possiamo definire Karajan un re Mida dell’esecuzione musicale: nelle sue mani tutto diventava oro lucente.

Kleiberdi VALERIO CAPPELLI

Chi era Carlos Kleiber e perché molti tra i maggiori direttori d’orchestra del mondo lo considerano come il più grande di tutti? Nel mondo della musica, tra gli

anni ’70 e ’80, è diventato una leggenda. Quando a Berlino è uscito il documentario Traces to nowhere, che raccoglie le testimonianze di chi ci ha lavorato e lo ha conosciuto, l’intera vetrina del negozio Dussmann a Friedrichstraße (punto di riferimento discografico della città), ne dava conto. Ad alimentare la leggenda concorse la sporadicità dei suoi concerti e impegni operistici: l’assenza, si sa, aumenta la fama. Ma questo non basta a spiegare il “caso” Kleiber.

Carlos Kleiber, di cui il 13 luglio ricorrono i dieci anni dalla morte (era nato nel 1930, ancora a luglio, il 3), ha diretto appena tredici opere: tre sono di Verdi, La traviata, Otello e Falstaff; poi Carmen di Bizet, Elektra di Richard Strauss, Die Fledermaus di Johann Strauss, Der Freischütz di Weber, Adriana Lecouvreur di Cilea, Wozzeck di Berg, Tristan und Isolde di Wagner. Poi due titoli di Puccini, La bohème e Madama Butterfly (che non volle più dirigere dopo il 1968 a Monaco) e Der Rosenkavalier di Strauss che fu il suo marchio di fabbrica e di cui si sono contate ben 120 recite sotto la sua guida. Kleiber era affascinato da un’idea di Vienna che scaturisce dal Rosenkavalier, come un mondo scomparso che riemerge dalla nebbia. Strauss adopera elementi del lessico musicale del ’700, cita addirittura un tema della Zauberflöte ma poi li combina col valzer creando una cornice strumentale che forse soltanto nel ’900 era possibile concepire. Insomma, inventa un linguaggio completamente artificiale, tutto centrato sul tema del tempo che scorre inavvertitamente ma inesorabilmente. L’ultima fiammata della tradizione musicale tedesca che rivive attraverso una elaborazione intellettuale raffinatissima, consapevole della crisi del linguaggio e dell’imminenza della fine che accompagnarono il ’900.

Alla Scala fu protagonista, all’interno di questo stretto recinto di titoli in cui si esercitò nevroticamente, di alcune prime memorabili: 1975,Der Rosenkavalier; 1976, Otello; 1970, Tristan und Isolde; 1979, La bohème. Quello che secondo i suoi stessi colleghi viene ritenuto il più grande

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talento direttoriale del ’900 musicale non ha mai toccato il teatro musicale di Mozart né la Nona sinfonia di Beethoven.

Franco Zeffirelli, con cui Kleiber ha collaborato in ben quattro produzioni (La traviata, La bohème, Carmen, Otello) cercò invano di convincerlo a dirigere il Don Giovanni, Kleiber gli rispose che di quell’opera sono belli solo l’inizio e la fine. Il regista tornò alla carica per Il trovatore, ma non ci fu nulla da fare. Ci riprovò con un titolo con cui si era già misurato, Falstaff. Gli rispose che non trovava di buon gusto la battuta finale, «tutto nel mondo è burla». «Ma è l’addio di Verdi al mondo», obiettò Zeffirelli. Kleiber: «Non è spiritoso, un artista che rappresenta se stesso non è corretto».

Questa parsimonia, per usare un eufemismo, è vera fino a un certo punto. Da giovane, quando si faceva chiamare con lo pseudonimo di Carl Keller, Carlos non si risparmiò. Dopo un piccolo concerto a Montevideo, il vero debutto avvenne a Potsdam il 12 febbraio 1955, a 25 anni, nell’operetta Gasparòne di Karl Millöcker. A Düsseldorf (una delle due città tedesche in cui si formò, insieme con Stoccarda, dove acconsentì per la prima e unica volta in modo compiuto, nel 1970, a filmare le prove di un suo concerto) condusse un gran numero di lavori: I due Foscari e Rigoletto, Hänsel und Gretel e La vedova allegra; per non parlare dei balletti, Coppélia, Abraxas… Dunque, finito l’apprendistato, quando Kleiber “divenne” Kleiber, decise di dedicarsi a pochi titoli, sempre quelli. Sua sorella, Veronica (che Amadeus intervistò in esclusiva nel luglio 2010, n.d.r.), ha raccontato che Carlos dirigeva quando il frigo era vuoto, o c’erano bei panorami nelle città che lo invitavano. Accettò una sola volta un incarico stabile, come direttore principale, nel 1965 a Wurttemberg. Qualche anno prima, nel 1959, in un teatro della provincia salisburghese, affrontò la sua prima opera, La sposa venduta di Smetana. In quell’anno, dopo una recita della Bohème, decise che era venuto il momento di rinunciare allo pseudonimo di Karl Keller e di farsi chiamare col suo vero nome. Lo annunciò nella sola breve intervista da lui concessa nella sua vita, alla radio, durante l’intervallo di un concerto ad Amburgo (aveva trent’anni); confessò che l’idea del soprannome era di suo padre, lui la trovava «una mascherata senza senso» a cui voleva mettere fine, «tanto il pubblico prima o poi avrebbe scoperto la mia vera identità».

Carlos Kleiber aveva una devozione per il padre, il celebre direttore d’orchestra Erich Kleiber, ma del padre-padre non parlava mai. L’amico e medico Otto Staindl ha raccontato che «dovetti spiegargli a lungo dove l’avesse superato, comunque non riuscii a convincerlo. Eppure sapeva, o perlomeno immaginava, che sul podio lui poteva fare fondamentalmente tutto». Questo farebbe pensare a un’insicurezza di fondo, ma secondo Riccardo Muti questa è una prospettiva sbagliata: «Carlos seguiva di nascosto le prove di alcuni colleghi, cercava di scoprire se c’era qualcosa di nuovo, di sconosciuto. Non chiedeva consigli, poneva domande. Non era insicurezza: era curiosità.

Le sue domande erano una verifica. Aveva una sicurezza ferrea delle sue idee».La sorella Veronica in un bel ciclo di trasmissioni radiofoniche raccontò che quando erano adolescenti il padre era solito portare la famiglia a Lugano. Nel salotto troneggiava un pianoforte. Carlo e Veronica vedendo un pianoforte vi si avventarono d’istinto. Il padre vide la scena con la coda dell’occhio e si precipitò a chiudere la tastiera. Prese la chiave e la scaraventò nel lago dicendo: «In questa famiglia un solo Kleiber». Non voleva che Carlos

si mettesse sulla sua scia, era un modo per proteggerlo da una carriera così aleatoria, era il suo modo di volergli bene. Gli impose di iscriversi alla facoltà di Chimica a Zurigo, esperienza che abbandonò presto. Il padre condizionò il suo modo di vivere la musica. Erich apparteneva alla scuola antica, era un direttore col dominio completo dell’orchestra, arrivando alle prove della Nona sinfonia, prima di afferrare la bacchetta, si limitava a esclamare: «Beethoven». Carlos Kleiber era l’esatto opposto. Su Amadeus abbiamo raccontato nel giugno 2012 di quel filmato delle prove da Stoccarda in cui gli orchestrali lo guardavano come un uomo della luna, perché Kleiber si affidava a metafore e paradossi extramusicali, interrompendo di continuo l’orchestra. Egli non si attardava mai su spiegazioni tecniche. Ma investiva i musicisti con la sua energia creativa, con i suoi tempi brucianti (non sempre lo erano), con quelle che sono state definite delle improvvise folate di vento. Nel filmato da Stoccarda si vede che gli anziani professori d’orchestra, abituati ai ritmi massacranti e alla routine tedesca, all’inizio lo guardarono con aria di diffidenza. Ma, essendo musicisti, presto cambiarono idea, si resero conto che stavano vivendo un’esperienza unica, irripetibile.

Aveva un gesto largo, elegante, morbido, fluttuava le braccia nell’aria, sembrava danzare. Dirigeva ogni concerto come se fosse l’ultimo della sua vita. Era capace di studiare l’attacco della Quarta sinfonia di Brahms (una delle due del suo “sacro recinto”, insieme con la Seconda) per sei mesi. La fama internazionale, Carlos la raggiunse dirigendo nel 1974 Tristan und Isolde a Bayreuth. Il grande pianista russo Sviatoslav Richter, che era presente in sala, nel suo diario scrisse che Kleiber era il più grande direttore d’orchestra del mondo. Entrando in camerino, trovò Kleiber depresso, era in uno stato di apatia e malinconia; Richter gli disse quello

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Metti Kleiber a teatroFirma del Corriere della Sera e storico collaboratore di

Amadeus, Valerio Cappelli – autore di questo articolo – su Carlos Kleiber ha scritto a quattro mani con il critico cinematografico Mario Sesti la pièce Carlos Kleiber. Il titano insicuro, spettacolo teatrale con la regia di Pier Luigi Pizzi andato in scena nel 2013 al Festival di Spoleto e all’Opera di Roma nell’ambito della stagione alle Terme di Caracalla. Una conversazione immaginaria accompagnata da musica e proiezioni video di immagini rare, che ha dato voce al mito Kleiber, interpretata da Remo Girone e Anita Bertolucci.

che pensava di lui, e Carlos ebbe una reazione di improvvisa felicità quasi fanciullesca. Quella sera Richter lo definì «Il titano insicuro». Aveva un rapporto filiale con Herbert von Karajan, anche se questi non riuscì mai a convincerlo a dirigere nel suo regno, il Festival di Salisburgo (Kleiber detestava lo star system). In comune avevano la passione per le auto sportive. È celebre la sua lettera a Celibidache, il quale con fare sprezzante (pesò anche la sua mancata nomina alla guida dei Berliner) aveva liquidato Karajan come «uno che piaceva alle masse come la Coca Cola», e definì Karl Böhm «un sacco di patate». Kleiber finse di essere Toscanini ormai in cielo, insieme con i grandi del passato, e scrisse a Celibidache: «Caro Sergiu, rompi le scatole ma ti perdoniamo. Wilhelm Furtwängler ha detto di non aver mai sentito il tuo nome. Papa Joseph, Wolfgang Amadeus, Ludwig, Johannes e Anton volevano farti sapere che i tuoi tempi sono tutti sbagliati. Bruno Walter a leggere i tuoi rilievi si è quasi ammazzato dal ridere. Perché non

offendi un po’ anche lui? Spiacente, devo comunicarti che quassù tutti, di Herbert, vanno pazzi. Continua a divertirti. Ti saluto con tutto il mio affetto. Arturo». Era molto sensibile al fascino femminile e aveva un grande senso dell’umorismo, mandava ai suoi amici decine di cartoline firmandosi, in italiano, «il tuo vecchio minestrone»; durante un concerto assunse le sembianze del connazionale tennista Boris Becker, la racchetta al posto della bacchetta. Kleiber aveva una personalità misteriosa, indecifrabile. Aveva una passione per le poesie di Emily Dickinson e per molto tempo fu convinto di essere la reincarnazione del suo cane. Che cosa rimane oggi di Carlos Kleiber? A parte la preziose testimonianza discografiche (Deutsche Grammophon sua casa d’elezione e Sony con i due Concerti di Capodanno, 1989 e 1992) Maurizio Pollini (il quale era amico di Kleiber e gli chiese qualche consiglio per la sua unica esperienza sul podio al Rossini Opera Festival in La donna del lago, ricavandone pochissimo) efficacemente osserva che «aveva la capacità di comprendere la musica all’istante, se ne faceva un’idea e l’espressione si risolveva in un gesto appropriato. Un approccio alla musica del tutto personale, in parte mutuato dall’esperienza di antichi maestri quali Furtwängler, Toscanini, Bruno Walter. Un approccio che sta scomparendo, il grande rigore, lo studio di ogni minimo dettaglio». Ecco, la prima cosa che rimane di Kleiber, insieme con l’abbagliante bellezza dei suoi concerti, quasi delle esperienze mistiche, è il suo approccio etico. Era un artista che non conosceva compromessi o la routine. Poi c’è il rimpianto per non averlo mai sentito dirigere tanti capolavori. Gli proposero Parsifal, lui rispose che non aveva le braccia abbastanza lunghe. w

In queste pagine, Herbert von Karajan e Carlos Kleiber: il gesto, il volto; sopra, Kleiber in concerto al Ravenna Festival nel 1997