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- L'influenza di Mara Selvini Palazzoli sulle teorie manageriali e organizzative

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Articolo sull’uso del paradosso e dell’approccio sistemico nelle organizzazioni aziendali, dapprima con un rapido excursus dei concetti nell’ambito psicoterapeutico secondo gli studi della psicoanalista Mara Selvini Palazzoli, successivamente parlando di esperienze personali nell’ambito organizzativo.

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L'influenza di Mara Selvini Palazzoli

sulle teorie manageriali e organizzative

L’uso del paradosso nella gestione dei gruppi al lavoro

Nel 2002 ebbi la fortuna di conoscere in Inghilterra il prof. Adrian Mclean, durante un corso presso

la Scuola di Management Ashridge su tematiche relative all'organizzazione e allo studio delle

teorie comportamentali.

Sapendo che ero italiano Adrian mi chiese, durante una pausa, se conoscessi Mara Selvini

Palazzoli. Cercai per alcuni istanti di ricordare chi fosse Mara all'interno della mia azienda e in che

paese o dipartimento lavorasse (all'epoca ero in Mars Inc. come Organisation & Effectiveness

Manager per l'Europa). Non riuscendo a collegare quel nome con nessun volto noto, chiesi ad

Adrian maggiori dettagli su dove lavorasse e come conoscesse questa Mara.

Adrian rise di gusto. Poi guardandomi e sforzandosi di tornare serio mi disse: “Mara Selvini

Palazzoli è stata una delle più importanti psicoterapeute del mondo, probabilmente la numero due

dopo Sigmund Freud”. Continuò: “Le sue teorie sull'approccio sistemico e sulla terapia di gruppo

hanno cambiato la psicoterapia e sono oggi fonte di studio per molte teorie manageriali”.

La conversazione s’interruppe lì per questioni di tempo ma ci ripromettemmo di riparlarne e di

riprendere l'argomento visto che ormai ero preso da una doppia curiosità: approfondire la

conoscenza di Mara Selvini Palazzoli e capire come una psicoterapeuta potesse avere dei legami

con la vita aziendale.

Cominciai così a documentarmi facendo una breve ricerca bibliografica su Mara Selvini Palazzoli. In

seguito alla lettura di suoi libri e articoli, e dopo altre conversazioni con Adrian al riguardo, mi

ritenni appagato di avere soddisfatto (ma forse solo in parte) quella curiosità nata dall'incontro

con Adrian.

Mara Selvini Palazzoli neuropsichiatra e psicoterapeuta, è stata una pioniera nello studio

dell'anoressia mentale, malattia comparsa in Italia dopo la seconda guerra mondiale. La dottoressa

Mara Selvini trattò i pazienti individualmente per diciassette anni e proseguì, nei successivi

trent'anni, con il coinvolgimento dei familiari, considerati importanti testimoni del disagio dei

pazienti e risorse per il loro trattamento. I suoi libri sono stati pubblicati e tradotti in tutto il

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mondo e ancora oggi sono un riferimento per tutti coloro che si occupano del tema a livello

scientifico e terapeutico.

Ma come può il pensiero di Mara Selvini Palazzoli influenzare il mondo aziendale ed in particolare

le teorie manageriali ed organizzative?

Dalla lettura dei suoi lavori dettagliatamente documentati, emergono diverse teorie e nozioni ma

in questa sede vorrei concentrarmi in particolare solo su due concetti che ho ritenuto più

interessanti e cioè sul concetto di “paradosso” e “controparadosso” e sul concetto di approccio

sistemico.

Paradosso e controparadosso

La psicoterapeuta afferma che è dimostrabile che decisioni razionali, corrette in principio, di buon

senso, pienamente condivisibili, sensate per il loro ragionamento e prese con lo scopo di trovare

una soluzione a un problema specifico, possano essere totalmente sbagliate ed addirittura

allontanarsi dalla soluzione.

Facciamo un esempio.

Immaginate di essere uno psicoterapeuta e di avere in cura un paziente claustrofobico grave.

Naturalmente il vostro obiettivo sarà unicamente di trovare una soluzione al malessere del vostro

paziente, vi sforzerete di aiutarlo a stare meglio, vorrete evitare che soffra e di conseguenza

cercherete di prendere decisioni che vadano nella direzione di un maggiore benessere del

paziente. Immaginate ora che il vostro paziente si aggravi e che un giorno vi dica che non riesce

più a utilizzare l'ascensore della propria abitazione perché è preso da attacchi di claustrofobia

crescenti. E' probabile che da 'bravo psicoterapeuta' gli consiglierete di volta in volta di evitare

quelle situazioni che gli procurano questi stati di claustrofobia e quindi di evitare spazi inadatti,

alla ricerca invece di spazi sempre più 'grandi' per cercare comunque di evitare una situazione

dolorosa per il paziente. Di fatto il paziente nel breve troverà giovamento dal vostro consiglio.

Ma se estremizzassimo la situazione e pensassimo a un peggioramento veloce e continuo della

malattia del nostro paziente, per cui il soggetto non trova più conforto neanche in un luogo più

grande dell'ascensore e via via in luoghi sempre più grandi (per esempio nella camera da letto), il

paziente alla fine, non potendo resistere allo stato di sofferenza provato, porrà fine al suo disagio

suicidandosi.

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Partendo da questa situazione, Mara Selvini Palazzoli introduce il concetto di esplorazione del

paradosso e del contro paradosso. Nell'esempio del paziente claustrofobico la soluzione “giusta” al

problema dato, non sarà trovare uno spazio nel quale il soggetto starà meglio (quindi più grande e

meno angusto) ma quella di chiedere al soggetto di chiudersi in un ambiente ancora più piccolo

dell'ascensore e di provare sofferenza in quello spazio. Questa soluzione, apparentemente non

razionale e di sofferenza per il soggetto, paradossalmente porterà il paziente a recuperare la

capacità di non sentirsi male nell'ascensore.

La soluzione giusta, quindi, è opposta a quella che chiunque avrebbe razionalmente pensato. La

scelta che sembra allontanarsi dalla soluzione paradossalmente invece vi si avvicina. La soluzione è

paradossale poiché è l'opposto di quello che avremmo voluto, cioè evitare sofferenza al soggetto.

Sarà dunque possibile evitare la sofferenza del soggetto solo facendolo soffrire. Quella che ci

poteva sembrare originariamente una scelta corretta, cioè allontanare il soggetto da ciò che lo

faceva soffrire, diventa paradossalmente un allontanamento dalla soluzione e procurerà al

soggetto un falso beneficio nel breve termine che lo indurrà a una sofferenza più grave nel

medio-lungo periodo.

Se prendiamo in considerazione tale concetto di paradosso e contro paradosso di Mara Selvini

Palazzoli, i nostri automatismi decisionali vengono confutati e messi in discussione. Tutto ciò che

ci sembra logico e razionale può non esserlo. Gli sforzi fatti per risolvere un problema possono

essere la fonte di creazione di problemi ancora più seri e difficili che ci allontanano dalla soluzione.

Dobbiamo anche riflettere sul fatto che nessun medico che non sia capace di dare sollievo alla

sofferenza di un paziente è considerato bravo. Viceversa un medico che faccia soffrire

maggiormente il proprio paziente è considerato un’incapace, dunque da evitare.

Ho pensato ad alcuni esempi concreti della nostra vita quotidiana che possono aiutarci a capire e

avvalorare il concetto di paradosso e controparadosso di Mara Selvini Palazzoli.

Uno è la recente teoria sull'uso dei vaccini per cui un soggetto sano, che non voglia ammalarsi,

anziché evitare qualsiasi tipo di contagio (stando il più possibile lontano da fonti della malattia), fa

uso di un vaccino che è invece portatore della malattia che si vuole evitare. In tal modo il soggetto,

grazie al fatto che verrà a contatto con una dose minima della malattia, consentirà al proprio

corpo di creare anticorpi che lo proteggeranno dalla malattia stessa.

Il non ammalarsi, quindi, deriva dallo stare vicino alla malattia anziché allontanarsene. Ciò spiega

anche perché i medici, pur a contatto con molti malati, si ammalano molto meno delle persone

normali.

Ma l'esempio che ritengo maggiormente significativo, perché da tutti sperimentato

empiricamente, è il rapporto tra sport e stanchezza. A tutti sarà capitato di arrivare a fine

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giornata, o a fine settimana, particolarmente stanchi e di voler in qualche modo recuperare le

forze. Molti di voi avranno provato e cercato di non far nulla come soluzione alla stanchezza e di

dedicarsi al massimo riposo. Una soluzione razionale, normale, logicamente corretta come risposta

alla nostra stanchezza e pesantezza psicofisica. Ma molti di voi avranno anche constatato che

spesso il non far nulla ci fa sentire ancora più stanchi e più si cerca nella scelta del nel non far nulla

la soluzione alla nostra stanchezza, più la stanchezza aumenta.

Viceversa si può trovare beneficio alla stanchezza nella fatica di uno sport.

Lo sport, di fatto fisicamente faticoso, riesce a farci raggiungere quel senso di benessere che

ricerchiamo. Lo sport praticato nel momento di maggior stanchezza, stancandoci ancora di più,

rigenera. Un paradosso molto difficile da spiegare, eppure molto facile da provare da ognuno di

noi.

Approccio sistemico

Mara Selvini Palazzoli dopo aver curato per anni soggetti malati, soprattutto anoressici, e aver

cercato di guarirli in maniera “tradizionale” e cioè con sedute individuali, sposta la sua attenzione

sulla terapia di famiglia. Si accorge, cioè, che il miglioramento dell'individuo aumenta

notevolmente allorquando si passa da una terapia individuale ad una terapia di gruppo (o

familiare). In questo caso la terapia di gruppo prevede non solo la partecipazione del soggetto

malato, ma coinvolgere il sistema nel quale vive, in questo caso la famiglia.

Mara Selvini dopo molti studi e casi concreti si spinge oltre. Il soggetto malato, afferma, non è

malato. Il soggetto malato è solo una spia di una malattia presente nel sistema, una sorta di

segnalatore di un malfunzionamento all'interno del sistema. Addirittura, attraverso studi

approfonditi, Mara Selvini dimostra che pur allontanando il soggetto malato (per esempio

espellendolo) dalla famiglia, un altro soggetto in precedenza sano, all'interno del sistema famiglia,

inizierà ad ammalarsi. D’altra parte il soggetto originariamente malato potrà trovare notevoli

benefici dal nuovo sistema di riferimento e in molti casi arrivare a guarigione.

E' quindi necessario porre tutto il sistema famiglia in terapia e non il singolo individuo. Occorre che

il sistema stesso sia sottoposto a “cura” e che trovi al suo interno i perché di quella malattia del

soggetto. La responsabilità non è più individuale ma del sistema, della collettività che coinvolge

quell'individuo.

Lo spostamento del focus è quindi sull'organizzazione delle regole con cui funziona il sistema e

sull'ambiente nel quale quel soggetto vive, opera e si relaziona.

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Uso dei concetti nel management

Vediamo ora perché questi due concetti vengono attentamente studiati e applicati al mondo

manageriale.

La prima riflessione da fare è sulla continua ricerca da parte dei Manager di azienda di scelte

razionali, sagge, coerenti, di successo e che trovino consenso organizzativo.

Quante di queste scelte, apparentemente sagge, forse si allontanano dalla soluzione anziché

avvicinarsene?

Ricollegandoci al concetto di paradosso e controparadosso, decisioni che sembrano all’apparenza

corrette e che vanno nella direzione sperata di risposta adeguata ad una problematica possono

essere totalmente sbagliate. Anzi, nel breve potranno risultare valide e dare qualche segnale di

efficacia, ma nel lungo periodo potranno non portare nessun tipo di beneficio.

Si pone quindi il problema di cercare di capire se invece di avvicinarsi alla soluzione ce ne stiamo

allontanando in maniera non consapevole.

D’altro canto, si pone anche la necessità di provare a sperimentare o a pensare a scelte

paradossali che non risolvono nell’immediato il problema, alla necessità cioè di introdurre delle

idee o delle risposte che pur sembrando sbagliate e non logiche, possono invece produrre un

risultato altamente positivo quanto inaspettato.

Ma è possibile in un mondo aziendale fatto di scelte di breve periodo introdurre un concetto, se

pur sperimentale, di paradosso? Sono sostenibili scelte che sembrano visibilmente sbagliate ed

impopolari e che di certo nel breve produrranno risultati negativi e/o di sofferenza? Come

proteggere la diversità di scelta, addirittura come provocarla, come “pensare al contrario” in un

mondo manageriale che ha fatto, specialmente negli ultimi anni, del concetto di allineamento e di

adesione alle scelte aziendali addirittura un valore organizzativo, se non una pre-condizione di

appartenenza?

Ho provato a pensare, nella mia vita professionale, se e quando mi sono capitate delle scelte che

apparentemente non andavano nella direzione auspicata ma che invece, implementate, quasi in

maniera sorprendente raggiungevano gli obiettivi prefissati.

Farò un esempio concreto, che ho vissuto durante la mia esperienza professionale in una sola

azienda e che non sono mai riuscito a trasferire in altre realtà dove ho lavorato, proprio per la

difficoltà di far passare una scelta poco logica, priva di razionalità e poco difendibile nei confronti

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dei propri responsabili e del resto dell’organizzazione, rischiando nel proporla di apparire come un

provocatore o fuori dalla realtà.

In tutte le aziende ormai, specialmente con il crescere delle complessità, della concorrenza e non

ultimo della crisi, le richieste di aumentare la produttività della forza lavoro (maggiormente della

forza lavoro intellettuale, difficilmente controllabile con parametri produttivi oggettivi) è sempre

più crescente e tema centrale nella gestione delle risorse umane.

Proprio come Direttore delle Risorse Umane sono stato spesso chiamato a trovare le soluzioni

giuste per garantire che l'organizzazione producesse di più, naturalmente a parità di forza lavoro.

Ebbene ho potuto, di fatto, sperimentare (e pensare a Mara Selvini Palazzoli) come per aumentare

la produttività del lavoro occorre che le persone lavorino di meno.

Un vero e proprio paradosso aziendale.

Ma come è sostenibile che per produrre di più occorra lavorare di meno?

Se la produttività è frutto delle ore lavorate, a una richiesta di maggior lavoro da parte dell'azienda

è quasi automatico che i responsabili diano e chiedano maggiore attività e sforzo ai propri

collaboratori, molto probabilmente aumentando il numero di ore lavorate giornalmente e/o

settimanalmente. Chi lavora in azienda sa che nei periodi di massimo workload restare al lavoro

fino a tarda sera o sacrificare il sabato e la domenica è l'unica soluzione, certo non gradita o

piacevole per nessuno, ma purtroppo l’unica soluzione per fronteggiare le necessità.

All'aumentare delle cose da fare l'orario di lavoro si allunga, specialmente per i senior manager e i

manager che devono, anzi più degli altri, dare il buon esempio per primi al resto

dell’organizzazione. Sicuramente questa soluzione non è gradita o piacevole per nessuno ma è

l’unica che si considera per far raggiungere all'organizzazione l'obiettivo di aumentare la

produttività (seppur a scapito del work life balance dei dipendenti).

Che cosa accadrebbe se invece di aumentare il numero delle ore lavorate le riducessimo?

Ho sperimentato empiricamente che imporre ai propri dipendenti l'obbligo di uscire alle 17.00

dall'ufficio ne aumenta, paradossalmente, la produttività. E non di poco.

Lavorare meno (cioè meno ore settimanali) farà aumentare notevolmente la produttività

dell'organizzazione.

Perché questo?

Esistono diverse motivazioni.

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La prima è che il nostro cervello sa quanto abbiamo programmato di restare in ufficio. Esiste un

automatismo per cui il nostro cervello ci protegge e ci salvaguarda anche se non ne siamo

consapevoli. Quando la giornata sarà particolarmente pesante o sarà richiesta la nostra presenza

per molto tempo in ufficio, il nostro cervello doserà le energie per le ore in cui si prevederà la

nostra presenza fisica sul luogo di lavoro, salvaguardando il nostro equilibrio psicofisico.

Viceversa, sapere che il nostro tempo scadrà alle 17.00 e che per quell'ora dovremo abbandonare

il luogo di lavoro, fa sì che le energie siano concentrate su un periodo di tempo inferiore, fa

aumentare i ritmi lavorativi, la gestione delle priorità, crea una sana tensione all'obiettivo.

Sappiamo che abbiamo poco tempo per fare le cose che abbiamo programmato oggi in ufficio.

Quello che dico può essere facilmente riscontrato da chiunque faccia l'esperimento o abbia

provato la necessità di dover uscire presto dall'ufficio per impegni personali. La motivazione, la

concentrazione e non ultimo la produttività, aumentano in maniera esponenziale. Sapere che

abbiamo poco tempo fa accelerare notevolmente la velocità con cui facciamo le cose ed anche la

qualità, perché non avremo tempo di fare due volte la stessa cosa, ma dovremo essere veloci e

qualitativamente ineccepibili la prima volta. La mancanza di tempo ci fa automaticamente

richiedere questa maggiore concentrazione e velocità anche alle persone con le quali ci

relazioniamo. Chiediamo, cioè, anche a loro di far presto, di essere veloci e sintetici poiché

sappiamo che il tempo che abbiamo a disposizione è ridotto.

Un’altra conseguenza del ridurre il numero di ore è che l’organizzazione evolve velocemente e

positivamente. La delega diventa necessaria (si ha meno tempo di fare le cose in prima persona),

l’organizzazione non può più permettersi sprechi di tempo (visto che ora ne ha anche meno), si

riducono quasi automaticamente il numero di riunioni e la loro durata (spesso ridondanti e

superflue), si cancellano i report inutili, la burocrazia viene ridotta al minimo, le decisioni

diventano rapide, le risorse ottimizzate, l’ambiente più dinamico, le priorità riviste e ripensate.

La teoria manageriale della Lean Organization anziché essere imposta come strumento aziendale

si ‘adatta’ da sola semplicemente perché abbiamo ridotto l’orario di lavoro.

Il “paziente azienda”, malato di produttività, per guarire dovrà essere capace di lavorare in un

tempo ancora più ridotto e con meno risorse e non viceversa.

Vediamo ora che ripercussione ha, nella vita aziendale, l’approccio sistemico introdotto da Mara

Selvini Palazzoli.

Proviamo per un attimo a paragonare il soggetto “malato” di cui parla Mara Selvini a un soggetto

“non performante” all'interno di un’azienda.

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L'approccio tradizionale manageriale parte da un approccio di responsabilità individuale o

personale: se il soggetto è “non performante” la colpa sarà pressoché la sua, in quanto o non in

possesso delle conoscenze o delle capacità o non avente i comportamenti/la motivazione richiesti

dal sistema aziendale.

L'azienda, e quindi il capo del dipendente, tenterà di aiutare il soggetto non performante

attraverso corsi di formazione specifici, training on the job e/o in alcuni casi coaching o

programmi di mentoring. Ma la responsabilità della performance resta fortemente individuale e

qualora le soluzioni su elencate non trovino nessun beneficio, allora l’azienda cercherà di

allontanare il soggetto non performante.

Fin qui l’approccio tradizionale.

Una visione con un approccio sistemico considererà che il soggetto non performante (malato) è

spia di un malessere all'interno dell'organizzazione dove lavora.

La performance dell’individuo è condizionata dall’ambiente dove lavora e il sistema/ambiente

prevale su quello della responsabilità individuale.

In questo caso quindi non è tanto il soggetto non performante che va seguito individualmente ma

il sistema/organizzazione all'interno del quale lavora.

Sarà il sistema stesso che necessita di essere sottoposto a “cura” poiché agire sul soggetto non

performante (malato) magari allontanandolo dal sistema, provocherà un beneficio nel breve ma

sposterà la “malattia” su un altro soggetto/dipendente che inizierà ad “ammalarsi”, cioè a non

performare.

Anche in questo caso, come Direttore delle Risorse Umane, mi è capitato spesso di intervenire su

dipendenti non performanti per cercare una soluzione.

In alcuni casi ho notato che dipendenti non performanti spostati in un'altra parte

dell'organizzazione o in altre aziende della stessa società, vivevano grazie a quel cambiamento una

nuova fase di performance individuale con risultati molto positivi.

Lo stesso soggetto quindi dimostrava che cambiando riferimento organizzativo tornava a

performare in maniera ottimale. Il “problema” non era lui.

Viceversa l'organizzazione da cui proveniva beneficiava per un breve periodo dell'uscita del

dipendente, ma dopo pochi mesi cominciava a manifestare nuovamente sintomi di non

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performance spesso identificabili su un nuovo soggetto che fino a qual momento non aveva mai

dato problemi all'organizzazione.

Una trasmissione televisiva recente di successo, S.O.S Tata, più di altre ha messo in luce alcuni

concetti di “cura del sistema” rispetto al concetto di “cura dell’individuo”.

Per chi ha familiarità con il programma, questo si svolge sempre con un copione preciso: genitori

ormai esausti nella cura e educazione del loro figlio/figli, si rivolgono ad una professionista che

entra nella casa in veste di “tata” per aiutarli.

La tata in soccorso dei genitori anziché “curare” le piccole pesti, mette in cura l’intero sistema (i

figli e gli stessi genitori).

Come spettatori si evince durante la trasmissione che i soggetti non performanti, ovvero i figli

disubbidienti e ritenuti dai genitori come malati o impossibili, sono invece normalissimi e che il

vero problema sono i genitori stessi, il loro modo di agire nei confronti dei bambini e le regole

all’interno della famiglia.

Il modo per arrivare al successo e alla felicità familiare, sarà quello di mettere l’intero sistema

sotto osservazione, riscriverne le regole, aiutare i genitori a ridefinire il loro ruolo e a ritrovare un

rapporto marito-moglie spesso dimenticato per troppa dedizione verso i figli.

Questo è un piccolo esempio di paradosso, poiché il benessere dell’intera famiglia rinasce dal

ritrovato benessere dei genitori che dedicano più tempo a se stessi e meno ai figli.

S.O.S Tata mi ha fatto spesso pensare che più che collaboratori o subordinati (figli) non

performanti esistano manager (genitori) poco capaci di mettersi in discussione e assolutamente

poco consapevoli di essere responsabili del problema.

Da qualche anno ho cercato, come Direttore Risorse Umane, di adottare la “terapia di gruppo”

all’interno dell’azienda. Per quanto possibile, ho cercato di risolvere problemi individuali (di un

singolo dipendente) considerando il sistema nel quale egli opera. In alcuni casi ho assunto dei

Coach che seguano il gruppo anziché il singolo, cercando di leggere la problematica individuale

come una questione del team di appartenenza e di sciogliere i nodi nel sistema che ne

impediscono un performance di eccellenza.

Ma la strada non è facile. Resta profondamente radicata (e forse non va nemmeno messa in

discussione) la predominanza della responsabilità individuale su quella del sistema. L’approccio

tradizionale salvaguarda i capi che possono attribuire con facilità giudizi di merito e di

performance ai propri subordinati, auto assolvendosi da responsabilità di non-performance altrui.

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L’approccio tradizionale, d’altra parte, funziona anche nel senso opposto e cioè di non creare un

alibi al singolo individuo che potrebbe riversare la responsabilità e la colpa tutta sul ‘sistema’.

E’ molto vero però, e ognuno di noi lo avrà constatato, che durante la nostra esperienza

professionale abbiamo avuto performance molto diverse a seconda del sistema nel quale ci

siamo trovati, pur rimanendo noi la stessa persona. Una diversità di performance creata da un

sistema capo/collaboratori/subordinati capace di creare condizioni dove siamo stati in grado di

esprimere la nostra potenzialità e non invece di “ammalarci”.

Il pensiero di Mara Selvini è sicuramente più complesso, articolato e profondo di quanto abbia

riportato in questo mio articolo, non volendo questo essere un trattato esaustivo sul suo pensiero,

ma uno spunto di riflessione su alcuni cambiamenti che viviamo nelle organizzazioni e nelle

aziende.

I concetti che ho espresso non credo siano di facile e immediata applicazione nelle aziende

moderne. Credo tuttavia che siano un buon esercizio di “stretching” del nostro modo di pensare e

di essere e che vadano tenute in considerazione, se non in sostituzione, almeno in aggiunta alle

teorie tradizionali.

In quest’ottica mi piace vedere un ruolo della funzione delle Risorse Umane capace di leggere e

diagnosticare il sistema, senza andare dietro a facili soluzioni o a falsi ruoli di business partner (che

troppo spesso si traducono nell’avallare le scelte aziendali del top management o del proprio

responsabile).

Le Risorse Umane dovrebbero farsi carico di far sperimentare all’organizzazione soluzioni non

tradizionali, difficili da sostenere nel breve, ma che potranno nel lungo trasformare positivamente

le aziende nelle quali lavoriamo.