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n ° 2 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXIV APRILE – GIUGNO 2016 ISSN 0495-0658

 · Come ai tempi della Rivoluzione francese. ... mata l’immagine di Robespierre che intonava la Marsigliese: ... discorso del 3 dicembre del ’92 pronunciai con

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Page 1:  · Come ai tempi della Rivoluzione francese. ... mata l’immagine di Robespierre che intonava la Marsigliese: ... discorso del 3 dicembre del ’92 pronunciai con

n° 2 Rassegna di dottrina e giurisprudenzaa cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma

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ANNO LXIVAPRILE – GIUGNO 2016

ISSN 0495-0658

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2 INTERVISTE IMMAGINARIE: RoberspierreMario Scaffidi Abbate

7 SAGGI7 Crisi di impresa e risanamento – Jobs Act e procedure di risanamento

Antonio Caiafa17 La pensione è un “diritto quesito”

Valentino De Nardo22 La responsabilità degli amministratori societari

Carlo d’Alessandro28 Il momento disgregativo delle relazioni familiari diverse dal matrimonio

Samanha Luponio32 La sostenibilità del debito pubblico della Pubblica Amministrazione nella nuova Costituzione

Finanziaria dello StatoGiovanni Pesce

48 Alcune considerazioni circa i nuovi dottorati di ricerca omnibusBeka Tavartkiladze

50 Obbligazioni naturali: debiti di gioco e conversione in obbligazione giuridicaFrancesca Zignani

55 OSSERVATORIO LEGISLATIVO55 La chiusura del fallimento in pendenza di giudizi inerenti alla composizione della massa attiva:

il nuovo art. 118, co. 2 legge fallimentareValentina Di Leo

61 Gli accordi di ristrutturazione finanziari ai sensi dell’art. 186 septies legge fallimentareMichele Onorato

67 NOTE A SENTENZA67 La decisione della Cassazione che fa discutere: “Rubare per fame non è reato”

Mario Scialla69 Natura, validità ed effetti delle clausole fio e simili

Andrea Tamburro

n° 2 Rassegna di dottrina e giurisprudenzaa cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma

Sommario

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Questa notte ho conosciuto il terrore. Ora so cosasi prova quando un ladro s’intrufola in un appar-tamento con la pistola in pugno e non si limita a

rubare ma addirittura uccide il proprietario senza chequello abbia nemmeno cercato di difendersi. Mi trovavoa letto nella mia casa di Fiuggi, dove mi reco nei wee-kend, quando a un certo momento ho sentito un rumoreproveniente dal soggiorno, un colpo secco, come se qual-cuno avesse cercato di sollevare dalla base la serrandadella portafinestra che s’affaccia sul giardino lasciandolapoi ricadere di botto. Quello è l’unico lato della casa alivello col terreno stradale perché nella parte posteriorel’edificio, che si affaccia su un folto bosco, scende giù dialcuni metri sicché le finestre sono piuttosto alte ed è dif-ficile che qualcuno possa arrivarci. Ebbene, mi sono alza-to e zitto zitto sono andato a vedere. Non ho acceso nem-meno la luce, mi sono limitato a tirare su leggermente laserranda per sbirciare attraverso gli spazi fra le stecche dicui è formata. Niente. Silenzio assoluto. Sarà stato unodei soliti gatti, mi son detto, e sono tornato nel mio letto.Ho cominciato ad almanaccare. Oggi, ho pensato, contutte le stragi che succedono, viviamo continuamente inuno stato di vero e proprio terrore. Come ai tempi dellaRivoluzione francese. E subito nella mia mente si è for-mata l’immagine di Robespierre che intonava laMarsigliese:“Allons, enfants, de la patrie, l’heure de gloire est arri-vé…”.“Monsieur!”, ho esclamato, mentre il sonno, faticosa-mente, cercava di impadronirsi di me. E lui:“Lo sai, cittadino, perché mi chiamo Robespierre? Unaleggenda lo spiega così. Robert e Pierre erano due fratellidi Robert François Damiens, l’autore del fallito attentato aLuigi XV re di Francia, condannato a morte per squarta-mento. I due fratelli costretti a cambiare cognome, uniro-no i loro due nomi di battesimo formando cosìRobertpierre, che divenne Robespierre. Uno dei fratellisparì, l’altro andò a stabilirsi ad Arras sotto il nuovo

cognome esercitando la professione di avvocato. Io sareistato uno dei suoi figli: dico sarei stato perché, ripeto, sitratta di una leggenda, che circolava ad Arras anche duran-te la Rivoluzione, messa in giro probabilmente perchéanch’io, come Damiens, non vedevo di buon occhio il re”.“Quindi la sua nascita è avvolta nel mistero”.“In realtà le origini riconosciute della mia famiglia risal-gono al 1452: in quel tempo risiedeva a Vaundricourt unWillame che portava già come cognome de Ro bespierre.Verso il 1569 la fa miglia si trasferì a Lens, nel Seicento aCarvin Epinoy. Nel 1694 un Massimiliano si sta bilì adArras dove esercitò l’avvocatura. A lui seguì Mas -similiano II (Bartolomeo Francesco), mio padre. Io nac-qui ad Arras il 6 maggio 1758 e mi furono imposti i nomidi Massimiliano Isidoro Maria”.“Ora tutto è chiaro, quanto all’origine del suo cognome edella sua famiglia. Lei è stato chiamato l’Incorruttibile:tutti, concordemente, l’hanno definita con questo appel-lativo, che le fa onore di fronte al dilagare di una corru-zione senza limiti, come accade anche oggi, del resto. Leivoleva fare piazza pulita. Voleva togliere il marcio checome sempre, ma allora forse di più, imbrattava le manidei potenti, degli oppressori del popolo, delle lobbies, deipoteri forti, come si dice oggi”.“Niente di nuovo sotto il sole”.“E non esitava a colpire anche gli amici, i parenti, tale erala sua moralità. Oggi gli amici e i familiari, almeno nelnostro paese, i potenti li sistemano nei posti più ambiti epiù remunerati”.

Interviste immaginarie a giuristi e legislatori:Roberspierre (Il terrore bussa alla porta)Mario Scaffidi AbbateDocente di Letteratura italiana

“La libertà consiste nell’ob-bedire alle leggi che ci si è datee la servitù nell’essere costret-ti a sottomettersi ad unavolontà estranea”

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“Io mi sono limitato a raccomandare per un impiego miofratello Augustin. Tutto qui. Se vuole, a parte l’incorrutti-bilità, posso elencarle tutte le altre mie doti: probità, ele-vatezza d’animo, inalterabile fermezza, fiera indipenden-za, grandi vedute, colpo d’occhio penetrante, capacità didiscernere le verità utili nell’avvenire, eloquenza, fedeltàai princìpi, modestia, onestà. E potrei continuare”.“Sua sorella Carlotta ha scritto che lei da ragazzo parteci-pava raramente ai giuochi e ai piaceri dei suoi compagni,e amava star solo per meditare a suo agio, passando oreintere a riflettere”.“Ero anche un po’ miope, timoroso, debole, sdegnoso perla mia superiorità e la mia perfezione, enigmatico emisterioso, fin dalla mia prima adolescenza”.“Lei è stato un politico ma era anche un uomo di legge,un avvocato”.“Iniziai la mia carriera ad Arras, la mia città natale, dopoessermi iscritto nel registro degli avvocati di Parigi.Abitavo in un piccolo appartamento di rue Saumon conmia sorella Charlotte. Cominciai ad esercitare l’avvoca-tura nel gennaio del 1782. Il 9 marzo fui nominato dalvescovo de Conzié giudice del Tribunale vescovile. Mami resi subito conto che la professione di giudice non erafatta per me, né si confaceva col mio spirito d’indipen-denza e la mitezza del mio carattere. Avevo inoltre un ter-rore estremo di dover pronunciare sentenze di morte. Giàda quando stavo in collegio non accettavo che la societàpotesse avere il diritto di toglier la vita ad una persona,anche perché pensavo che quel gesto non fosse un casti-go sufficiente per il delitto né un esempio salutare.Quando, il 30 maggio 1791, presi la parolaall’Assemblea, che discutendo il nuovo codice penales’era posto il problema se si dovesse o no mantenere lapena di morte, gridai: ‘No!’. E la mia voce fu la prima chein Francia si levò per reclamare con forza ciò cheBeccaria aveva già chiesto con tanta convinzione.‘Cancellate dai codici francesi le leggi di sangue che ordi-nano gli assassini giuridici!’, gridai. ‘Ha la società il dirit-to di uccidere un colpevole al cospetto di una folla indif-ferente ed ignorante? Ascoltate la voce della giustizia edella ragione: essa vi grida che le sentenze umane nonraggiungono mai tale sicurezza da permettere che lasocietà possa dare la morte a individui condannati da altriuomini soggetti essi stessi all’errore’. Ebbene, dopo qual-che mese da quando fui nomi nato giudice dovetti effetti-vamente condannare a morte uno scel lerato. Ma l’idea

d’aver emesso una sentenza simile mi ossessionò a talpunto che inviai subito le mie dimissioni da giudiceall’arcivescovo, consacrandomi interamente alla carrieradi avvocato”.“Ricorda alcune delle sue cause?”. “Difesi la guardarobiera di un’abbazia, ch’era stata insi-diata da un monaco, il quale, non essendo riuscito a pos-sederla, per vendicarsi l’accusò di averlo derubato e allafine fu riconosciuto colpevole di diffamazione e condan-nato a risarcire la ragazza. Ebbi a che fare anche con iparafulmini. Sostenni con successo il patrocinio in unricorso ad una causa che aveva imposto la disinstallazio-ne di un parafulmine perché si diceva che potesse avereeffetti dannosi. In quell’occasione pronunciai un’arringache suscitò molto scalpore: Ne parlò anche il Mercure deFrance, che mi definì un ‘giovane avvocato di raro talen-to, dotato di una eloquenza e di una sagacia che dannoun’ottima idea delle sue capacità’”.“Lei assunse anche la difesa degli umili e degli oppressi”.“Col mio ‘cahier de doléances’ mi battei a favore della

corporazione dei ciabattini, la più povera e numerosadella provincia, e dei contadini di Arras, rifiutando sem-pre ogni privilegio che i nobili e anche la media e picco-la borghesia volevano concedermi. Contemporaneamentemi battei per l’eguaglianza giuridica e sociale, per lalibertà di stampa, il suffragio universale e molti altri dirit-ti civili”. “I nobili e la borghesia come reagirono?”.“Mi mettevano il bastone fra le ruote. Inizialmente m’iso-larono, tanto da far saltare la mia elezione all’assembleaprovinciale. Ma l’anno dopo, grazie al programma concui mi presentai alla riunione preliminare del Terzo Statodi Arras, fui eletto deputato presso gli Stati generali, fin-ché l’anno successivo, nel marzo del 1790, fui nominatopresidente del club dei giacobini. La situazione era diffi-cile perché si temeva una coalizione militare degli altripaesi europei contro la Francia. Nell’ottobre dello stessoanno fui eletto primo magistrato al tribunale del distrettodi Versailles”.“Una carriera rapidissima la sua, e molto brillante”.“Dovetti andarci cauto, però. Dopo la fuga del Re, poichéi moderati avevano rivolto un appello a sostegno dellamonarchia, nel timore che ciò potesse rompere l’unità deirivoluzionari e mettere in pericolo le conquiste ottenute,tenni un contegno prudente. Nel 1792, a Parigi, scoppiòuna rivolta popolare e io fui incaricato di sedarla e di

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ristabilire l’ordine. Fui anche nominato membro dellaComune di Parigi e cercai di risolvere il problema del-l’aumento dei prezzi e dell’approvvigionamento. Nel ’93entrai nel Comitato di Salute Pubblica, il governo rivolu-zionario. Divenni il protettore dei sanculotti e dei giaco-bini in genere, razionalizzai i beni alimentari, istituii uncalmiere ma, contemporaneamente, preoccupato daimovimenti controrivoluzionari e dagli Stati circostanti,rafforzai anche l’esercito e provvidi ad una politica dicontrollo dell’economia di stato”.“E veniamo al Terrore e alla ghigliottina. Lei prima, nel1791, era contrario alla pena di morte in quanto - disse -‘i giudizi umani non sono mai abbastanza certi perché lasocietà possa condannare a morte un uomo’. Com’è chein seguito cambiò idea?”. “La pena di morte in generale è un delitto e ciò per l’uni-ca ragione che essa non può essere giustificata in base aiprincìpi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sianecessaria alla sicurezza degli individui o del corposociale. Ma quando si tratta di un re il cui solo nome atti-ra la piaga della guerra sulla nazione agitata, né la prigio-ne, né l’esilio, possono rendere la sua esistenza indiffe-rente alla felicità pubblica, e questa crudele eccezionealle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essereimputata soltanto alla natura dei suoi delitti. Nel miodiscorso del 3 dicembre del ’92 pronunciai con rincresci-mento questa fatale verità e chiesi che la Convenzionedichiarasse il re Luigi traditore della nazione francese ecriminale verso l’umanità”. “In quell’occasione lei disse che la forza di un governorivoluzionario risiede contemporaneamente nella virtù enel terrore. Perché?”.“Intanto il termine Terrore va inteso come ‘condanna amorte degli avversari politici’, e poi dev’essere inquadra-to in un contesto di emergenza assoluta, ed è lì che vavisto il mio cambiamento di rotta, il senso del periodo piùsanguinoso della rivoluzione, passato appunto come ‘ilTerrore’”. “Una caricatura dell’epoca condensò quella parola in unavignetta in cui lei ghigliottinava il boia, ultimo uomorimasto in vita, dopo che lei aveva fatto giustiziare mezzaFrancia”.“Il terrore fu una necessità. A parte il fatto che una guer-ra esterna rischiava di far cadere ogni speranza di rinno-vamento che era nella rivoluzione, quando un popolodiventa, per dirla col vostro Manzoni, ‘un volgo disperso

che nome non ha’, quando la virtù è morta e la corruzio-ne dilaga in modo incontrollabile, solo il terrore puòporvi rimedio. Si è mai chiesto perché Jahvèh, il Dio dellaBibbia, era così severo col suo popolo? Perché avevainstaurato un clima di terrore con minacce, punizioni,stragi, addirittura, a migliaia, a diecine di migliaia? Se ilpopolo non fosse stato così insensato, insensibile alleleggi divine, così cocciuto e ostinato, non avrebbe soffer-to tutto quel che ha sofferto”. “Poi Dio, però, incarnandosi in Cristo, cambiò atteggia-mento e divenne benevolo e misericordioso”. “Già. E il risultato? Il punto è questo. Un popolo ognitanto ha bisogno di rinnovarsi, di purificarsi, ed è da quiche nascono le guerre, il terrore, la peste, che come unascopa - dice sempre il vostro Manzoni - spazza via tutto ilmarcio, e la Giustizia arriva a farsi terribile e crudele,quando la corruzione è divenuta generale e non ha altracura che il terrore. Ma non per questo scompaiono daglianimi di chi amministra la Giustizia la comprensione e labontà (come nel Dio di Abramo non scompare l’amore peril suo popolo). D’altra parte è così che cammina la Storia.E poi bisogna vedere le due facce della medaglia: la rivo-luzione francese se da un lato ha comportato violenze estragi (come accade in tutte le guerre e in tutte le rivolu-zioni), dall’altro ha messo in luce, per la prima volta e inmodo così chiaro e sentito, ideali di libertà e di giustiziaquali mai nella Storia si erano avuti. E ha dimostrato, einsegnato, che le rivolte degli oppressi sono sempre laconseguenza, inevitabile e inesorabile, della violenzadegli oppressori. Quando una rivoluzione, giusta e sacro-santa, si trova sull’orlo di un abisso è facile che le forzecontrorivoluzionarie abbiano il sopravvento e che tutto ilrinnovamento politico e sociale promosso dalla rivoluzio-ne venga distrutto. Il Terrore è servito ad impedire ciò”.“E che ne pensa, oggi, della ghigliottina?”.“Quello strumento ci fa tanto orrore, ma il suo impiego fudovuto a un sentimento umanitario, visto che grazie adessa fu possibile rendere la decapitazione istantanea,senza il protrarsi delle sofferenze del condannato. Moltopiù disumana era la decapitazione con la scure. Per questoi Francesi dicevano scherzosamente: ‘Il dottor Guillotinha trovato un rimedio efficacissimo contro il mal di testa’.E per questo molti condannati affrontarono la morte conun coraggio incredibile. L’ex sindaco di Parigi, mentresaliva sul patibolo, ad uno del pubblico che gli aveva gri-dato ‘Cittadino, tu tremi!’ rispose: ‘Sì, ma per il freddo’. E

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un cortigiano, mentre andava alla morte, ebbe persino unabattuta di spirito, quando, essendo inciampato in un gradi-no del patibolo, mormorò: ‘Dicono che inciampare portisfortuna: se fossi superstizioso tornerei indietro’”.“Lei ha detto che l’immoralità è la base del dispotismo,come la virtù è l’essenza della Repubblica, che il terroresenza la virtù è funesto, ma la virtù senza il terrore èimpotente”. “Io, insieme a tutti i rivoluzionari onesti, ho voluto sosti-tuire la morale all’egoismo, la probità all’onore, i princì-pi alle usanze, i doveri alle convenienze, l’impero dellaragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio aldisprezzo della sventura, la fierezza all’insolenza, lagrandezza dell’animo alla vanità, l’amore della gloriaall’amore del denaro, la buona gente alla buona compa-gnia, il merito all’intrigo, il genio al bello spirito, la veri-tà al lustro, l’incanto della felicità alla noia della voluttà,la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei grandi. Leleggi speciali del Terrore, non proposte da me ma votatedall’intero Comitato di Salute Pubblica, furono una misu-ra necessaria a causa della guerra, civile ed esterna, a cuiera sottoposta la Francia. Furono gli eccessi che si rim-proverarono, non le leggi, gli eccessi compiuti dai mieipiù accesi seguaci e rivali, non da me in persona. Bisognainquadrare la mia politica all’interno di un’emergenzarivoluzionaria che richiedeva anche atti estremi per salva-re la nuova Repubblica e la sua fragilissima democrazia”.“Comunque il suo voto personale contò sempre nellecondanne a morte”.“Solo un dodicesimo di quelli dell’intero Comitato, né iodisponevo di un esercito personale con cui imporre unregime. Queste misure drastiche erano quindi considera-te necessarie dall’intero Comitato e anche dallaConvenzione, più che decise da me. In particolare, fu l’at-teggiamento di Jacques-René Hébert che divenne semprepiù radicale. Anche Marat era stato considerato il princi-pale artefice dell’istituzione del Terrore e della strage deigirondini, e questo fu il motivo del suo assassinio da partedi Charlotte Corday, che intendeva vendicare i suoi com-pagni di lotta”. “Alcuni nomi di personaggi illustri caduti sotto la ghi-gliottina?”“A parte il re, la regina Maria Antonietta, il chimicoLavoisier, oltre che rivoluzionari come lo stesso Danton,seguìto da Desmoulins e da Hébert, il duca Filippod’Orléans, soprannominato Filippo Égalité, nobile e

cugino del re, che aveva appoggiato la rivoluzione, non-ché padre del futuro re Luigi Filippo. Poi una donna,fondatrice del Centre Social e girondina, che si battevaattivamente per i diritti delle donne e che aveva difesoMaria Antonietta, mentre il girondino Marchese diCondorcet, matematico e filosofo, venne arrestato e sisuicidò in carcere”.“Per questi eventi si disse che la rivoluzione divora i suoifigli. Mi parli della sua fine”.“Devo precisare che furono i miei nemici a mettere ingiro la voce che col Terrore io volessi restaurare lamonarchia costituzionale istituita nel ’91 autonominan-domi reggente del regno. Altri mi calunniarono, dicendoche avevo finanziato una nota predicatrice perché diffon-desse una profezia secondo cui io ero un nuovo Messia.C’era l’effettiva possibilità di una cospirazione contro laRepubblica e io lo feci presente alla Convenzione, minac-ciai alcuni deputati che avevano agito ingiustamente edecceduto nei loro poteri e che andavano dunque puniti.Quelle velate minacce crearono grande agitazione. Io nonavevo fatto nomi e tutti si chiesero chi fossero i deputatidestinati ad essere puniti. Comunque la mia mozione fuapprovata: a un certo punto, infatti, avevo esclamato: ‘Senella Repubblica la giustizia non regna con impero asso-luto la libertà non è che un vano nome!’”.“E poi cosa successe?”.“Il giorno dopo il clima cambiò completamente e moltipuntando il dito verso di me gridarono: ‘Abbasso il tiran-no!’. E come io esitai nel replicare uno gridò: ‘C’est lesang de Danton qui t’étouffe’ (è il sangue di Danton cheti soffoca). Tentai invano di parlare, finché alle cinque delpomeriggio venni arrestato insieme ad altri fra cui Saint-Just e il mio fratello minore Augustin: ‘La Repubblica èperduta!’, esclamai. ‘I briganti trionfano’. Nessuna pri-gione, però, accettò di incarcerarmi e così mi ritrovailibero con gli altri miei sostenitori”.“E cosa accadde dopo?”“Alla notizia della mia liberazione la Convenzione siriunì nuovamente e dichiarò fuori legge i membri dellaComune e i deputati che da loro erano stati liberati. Nellamattinata del 28 luglio le Guardie Nazionali, senza trova-re ulteriore resistenza, si impadronirono dell’Hôtel de laVille, dove io mi trovavo, per arrestare me e numerosidirigenti giacobini che mi erano fedeli, tra cui nuovamen-te Saint-Just, Le Bas, che poco dopo si sarebbe suicidato,e mio fratello Augustin, che nel tentativo di sfuggire alla

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cattura si gettò dalla finestra sul selciato, dove fu raccol-to in fin di vita. Io cercai di opporre resistenza, ma uncolpo di pistola, sparato da un gendarme, mi fracassò lamascella. Non emisi un lamento e continuai a guardare inalto, in un atteggiamento quasi mistico. Dopo quattordiciore dalla cattura, senza alcun processo, fummo tutti invia-ti - eravamo una ventina - in Place de la Révolution peressere ghigliottinati. Il carnefice, dopo avermi legato alletavole, mi strappò bruscamente le bende della ferita.

Lanciai un ruggito che si udì fino alla estremità dellapiazza. Un mormorio di raccapriccio corse nella folla. Poiun rumore sordo e la mia testa rotolò nel paniere”. A quel punto ho visto e sentito nettamente la lama dellaghigliottina che mi piombava addosso. Ho avuto un sus-sulto e istintivamente ho portato una mano al collo,gemendo. Al che mia moglie:“Quando ti deciderai a far mettere la grata di ferro allaportafinestra del soggiorno?”.

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Sensi bile ai problemi economico-sociali e venerato come un Dio, Robespierre si adoperò molto per migliorare le con-dizioni delle classi inferiori, assicurando loro una posizione egemo nica. Capo morale del Municipio di Parigi, in senoalla Convenzione, fu il rappresentante maggiore della Montagna, ma il suo potere gli derivò soprattutto dall’appog-gio del Municipio e del proletariato parigino. Alla Costituente sostenne l’abolizione della pena capitale, ma la gravitàdella situazione gli fece votare la morte del re e lo decise al colpo di forza del 2 giugno contro la Gironda: da quelgiorno fu il capo della Francia.Pensoso del bene pubblico, inflessibile e estremamente convinto della validità delle proprie idee, condusse una fieralotta contro gli avversari di destra e di sinistra; ma alla fine si trovò isolato, anche e soprattutto perché lo sforzo imma-ne sostenuto per cinque anni aveva spossato il suo fisico. Contro la Convenzione, che lo aveva mandato alla sbar-ra degli accusati, non volle appellarsi ancora una volta al popolo, e ciò gli fu fatale.

La personalità umana di Robespierre ancora oggi appare come uno strano enigma. Incorruttibile, onesto, virtuoso, ecce-zionale per i suoi princìpi, per i suoi costumi, per la sua morale, e considerato da molti un novello Messia, Robespierreè stato uno dei personaggi della Storia più controversi e contestati, al punto da essere condannato a morte.“Egli si presenta come il filosofo nemico dei grandi, odiato dai felici e dai ricchi, a suo agio ed al suo posto solamen-te tra gli umili, timoroso dei forti, freddo e lontano con i superbi, premuroso per i diseredati, sempre preoccupato dellaloro felicità, austero, sen sibile, senza gaiezza; poi, ancora, probo, sobrio, casto, economo, incorruttibile, ciò che glialza un piedestallo di virtù in un secolo di cinico libertinaggio e di venalità. Ha nel suo pensiero un fondo di misteroche soggioga le fantasie; nelle sue parole un fondo di dogma che seduce gli spiriti… Egli è stato come uno dei fan-tasmi nei quali la superstizione delle folle crede riconoscere immagini divine”. Così ha scritto Mario Mazzucchelli inRobespierre (dall’Oglio editore, Milano 1955). E questo è il ritratto che di lui ha tracciato Alessandro Manzoni nel dia-logo Dell’invenzione:“Giudicato dalla posterità, dirò cosi immediata e contemporanea, per null’altro che un mostro di crudeltà ed ambizio-ne, non si tardò a vedere che quel giudizio, come accade spesso de’ primi, era troppo semplice; che quelle due paro-le non bastavano a spiegare un tal complesso di intenti ed azioni, che nel mostro c’era anche del mistero. Non si poténon riconoscere in quell’uomo una persuasione indipendente da ogni suo interesse esclusivo ed individuale, della pos-sibilità d’un nuovo, straordinario e rapido perfezionamento e nella condizione e nello stato morale dell’umanità; e unardore tanto vivo e ostinato a raggiungere quello scopo quanto la persuasione era ferma. E di più la probità privata,la noncuranza delle ricchezze e dei piaceri, la gravità e la semplicità dei costumi, non sono cose che s’accordino facil-mente con un’indole naturalmente perversa e portata al male. Ma un’astrazione filosofica, una speculazione metafisi-ca, che dominava i pensieri e le deliberazioni di quell’infelice spiega il mistero e concilia le contraddizioni. Aveva impa-rato da Gian Giacomo Rousseau che l’uomo nasce buono, senza alcuna inclinazione viziosa; e che la sola cagionedel male che fa e del male che soffre sono le viziose istituzioni sociali. Sul fondamento dunque di quell’assioma erafermamente persuaso che, levate di mezzo le istituzioni artificiali, unico impedimento alla bontà e alla felicità degliuomini, il mondo si cambierebbe in un paradiso terrestre”.

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1.PremessaIl dialogo tra diritto del lavoro e disciplina pro-pria delle procedure concorsuali e, tra queste,

quella di risanamento dell’impresa, a distanza di annirisulta essere ancora difficile, se non addirittura impos-sibile, sebbene non possa essere negato che la normati-va della crisi, pur avendo come riferimento il problemadella stessa insolvenza, continua ad essere elaborata,integrata, riformata e rielaborata sempre nella convin-zione che le soluzioni individuate per affrontare e risol-vere la crisi devono privilegiare la conservazione deivalori di funzionamento dell’azienda, allo scopo diconsentire, per quanto possibile, anche il mantenimen-to dei livelli occupazionali. Il sistema sino ad oggi predisposto ha finito per incide-re in modo rilevante sulle scelte di investimento delleimprese, per le insufficienti garanzie normative percoloro che erogano finanziamenti, per il recupero deicrediti da essi nascenti e, altresì, per le previste prioritàdi soddisfazione delle ragioni dei creditori concorrenti etra questi, dei dipendenti, nel rispetto, quanto meno,delle indicazioni comunitarie contenute nella direttiva80/287, integrata dalla successiva 2002/74, che all’art.3, ha stabilito l’obbligo per gli Stati membri di adottarele misure necessarie perché gli organismi di garanziaassicurino il pagamento di quanto maturato dai lavora-tori subordinati in ragione del rapporto intrattenuto. Viene spontaneo chiedersi se, invero, l’obiettivo dellegislatore, proseguito attraverso le riforme sin qui rea-lizzate, e, ora, lo schema di disegno di legge, recante“delega al Governo per la riforma organica delle disci-pline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, nel ten-tativo di individuare soluzioni al fine di preservare ivalori aziendali, attraverso il tempestivo intervento,

mediante la previsione di “procedure di allerta e com-posizione assistita della crisi, di natura non giudiziale econfidenziale, finalizzate ad incentivare l’emersioneanticipata…e ad agevolare lo svolgimento di trattative”nell’intento di scongiurare l’insolvenza e, con questa, laliquidazione del patrimonio, con gli strumenti ipotizza-ti, se peraltro saranno recepiti in sede di attuazione,saranno in grado di assicurare lo scopo desiderato. L’ultimo intervento attuato con il Decreto Legge 27giugno 2015 n. 83 – convertito nella legge 6 agosto2015 n. 132 – pur essendo diretto – come risulta dallastessa relazione accompagnatoria – “…a favorire leaziende in situazioni di momentanea difficoltà ed ingrado di offrire un sostegno concreto al sistema pro-duttivo ed all’occupazione” mostra di avere una finali-tà la cui realizzazione risulta, però, impedita dalla pre-vista abrogazione della disciplina normativa, relativaal riconoscimento del trattamento integrativo concor-suale, avendo l’art. 2, comma settanta, della legge n.92 del 2012 decretato la fine di tale sostegno il reddi-to dopo averlo ancorato, a seguito della riforma, attua-ta con l’art. 46 bis, primo comma, della legge n. 134del 2012, alla sussistenza di comprovate possibilità direcupero dell’attività con finalità, dunque, conservati-ve in grado di garantire il mantenimento dei livellioccupazionali. Poichè però la crisi di impresa si fa avvertire, più diret-tamente, come crisi di occupazione è evidente che, al dilà di ipotetiche ed illusorie forme di ristrutturazione deldebito o di individuazione di soluzioni finanziarie, ingrado di garantire la prosecuzione dell’attività, l’assen-za di una disciplina della continuità del rapporto dilavoro e di norme di coordinamento si fa fortementesentire laddove risulti essere stato ignorato l’argomen-

Crisi di impresa e risanamento Jobs Act e procedure di risanamentoAntonio CaiafaAvvocato del Foro di Roma, Professore di Diritto Fallimentare Università L.U.M. “Jean Monnet” di Bari

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il testo della riforma organica – 3. La sorte del rapporto di lavoro – 4. Considerazioniconclusive

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to e, per l’effetto, trascurate le conseguenze che da essopossono discendere. È davvero singolare che tutto ciò accada sol che si con-sideri che la realizzazione della riforma organica delladisciplina della crisi di impresa e dell’insolvenza, inragione dei plurimi richiami alla Raccomandazione del12 marzo 2014, adottata dalla Commissione Europeanei confronti degli Stati membri, non può che essereattuata in conformità ai principi dei criteri direttivi e nelrispetto della normativa comunitaria e delle convenzio-ni internazionali in materia, sicchè appare essere pococoerente e, comunque, risulta davvero difficile trovareuna logica spiegazione nel dover constatare l’inesisten-za di dialogo tra concorsualisti e giurlavoristi a livellonormativo.

2. Il testo della riforma organicaSarebbe impossibile operare una ricostruzione deidiversi istituti e soffermarsi, in particolare, sulle piùevidenti innovazioni che caratterizzano lo schema didisegno di legge, recante la delega al Governo per lariforma organica delle discipline della crisi di impresae dell’insolvenza, che, peraltro, dopo la presentazione èstato ritoccato dall’esecutivo con riferimento proprioalle procedure di allerta, in ragione del timore – più chegiustificato – degli imprenditori, del loro inserimentonel Registro delle Imprese che potrebbe, per l’appunto,indurli a non uscire allo scoperto per il conseguente ris-chio di una segnalazione all’autorità giudiziaria, quantevolte l’iniziativa venga presa dai creditori istituzionali(erario ed istituti previdenziali), che hanno il dovere diattivazione della procedure di allerta. Le novità sono molte e riguardano i gruppi di imprese,di cui viene attuata una definizione modellata sullanozione di direzione e coordinamento, di cui agli artt.2497 e segg., nonché 2545 septies cod.civ., con ilriconoscimento della facoltà di proporre, con un unicoricorso, la domanda di omologazione di un accordo uni-tario di ristrutturazione del debito, ovvero di ammis-sione al concordato preventivo o di liquidazionegiudiziale, ferma rimanendo, tuttavia, necessariamentel’autonomia delle rispettive masse attive e passive e conobblighi reciproci di informazione e collaborazione fragli organi di gestione delle diverse procedure. L’introduzione delle misure di allerta e composizioneassistita della crisi al fine di incentivare l’emersione

anticipata di questa, affidate alla Sezione Specializzatadegli Organismi di Composizione, già previsti dallalegge 27 gennaio 2012 n. 3 e dal d.m. 24 settembre 2014 n. 202, con gli opportuni indi-spensabili adattamenti, costituiscono, come si è già anti-cipato, un intervento significativo che dovrebbe consen-tire la migliore attuazione della tutela dei più generaliinteressi dell’economia, oltrechè dell’occupazione, attra-verso fasi successive in grado di realizzare il risanamen-to, che non può non essere condizionato dalla previsionedi idonei programmi e, soprattutto, dalla stessa indivi-duazione del momento della crisi, atteso che solo l’inter-vento tempestivo può permettere, mediante la ristruttura-zione economico-finanziaria, l’avvio del procedimentodi conversione e riorganizzazione e, attraverso questo, ilrecupero dell’attività imprenditoriale. L’obiettivo, ormai da tempo, non si sostanzia più nellaliquidazione dei beni quanto, piuttosto, nella conser-vazione dell’impresa; è allora evidente che l’immedia-ta rilevazione delle situazioni di difficoltà, prima chepossano scatenarsi conseguenze più gravi e pato-logiche, ha una importanza centrale e determinante. Gli istituti di allerta e prevenzione sono stati concepiti– così come già in passato era avvenuto nel testo elab-orato dalla Commissione Trevisanato il 20 giugno 2003– per rendere possibile un immediato e tempestivointervento a favore dell’imprenditore, con la parteci-pazione dell’organismo di composizione della crisi,perché questi possa riorganizzare e ristrutturare l’im-presa prima che si determini lo stato di insolvenza veroe proprio, per consentirgli la individuazione edadozione di soluzioni dirette alla composizione dellacrisi al fine di salvare l’attività produttiva “…entro uncongruo termine, prorogabile solo a fronte di positiviriscontri delle trattative e, in ogni caso, non superiorecomplessivamente a sei mesi”, ferma rimanendo la pos-sibile utilizzazione degli atti istruttori della proceduranella eventuale successiva fase giudiziale. La previsione di misure premiali per l’imprenditore chevi ricorra, tempestivamente, e favorisca l’esito positi-vo, cui si contrappongono quelle sanzionatorie nel casoin cui siano stati opposti ostacoli ingiustificati, dovreb-bero indurre, secondo un prudente apprezzamento, aquel comportamento collaborativo finalizzato al rag-giungimento del risultato conservativo. La difficoltà maggiore risiede nella circostanza che

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della crisi non è possibile avere un concetto unitario,potendo essa essere reversibile ed irreversibile e, altempo stesso, per il fatto di presentarsi non sempre convalori assoluti ma, spesso, relativi, che non necessaria-mente coincidono con i risultati di bilancio, ovvero conla situazione patrimoniale, ben potendo essere esclusapur in presenza di un disavanzo e, al contrario, esisten-te, nonostante una eccedenza dell’attivo sul passivo,con conseguente necessità di accertarne la tipologiaqualora si intenda intervenire allo scopo di rimuoveregli effetti e le conseguenze, essendo diverse anche lestesse soluzioni a seconda che l’impresa risulti essereeccessivamente indebitata o debba rivedere, esclusiva-mente, la propria organizzazione, per la ricerca di unadimensione diversa, in grado di assicurare il raggiungi-mento dell’equilibrio economico-finanziario alterato. Lo schema di disegno di legge delega fa riferimento, atal riguardo, ad alcune categorie di creditori (agenziadelle entrate, agenti della riscossione delle imposte edenti previdenziali) cui impone, “a pena di inefficaciadei privilegi accordati ai crediti di cui sono titolari”, lasegnalazione agli organi di controllo della società o, inmancanza, all’organismo di composizione della crisi,onerati i primi, unitamente al revisore contabile ed allesocietà di revisione, di avvisare l’organo amministrati-vo e di informare, ancora una volta, l’organismo dicomposizione nell’ipotesi di omessa ovvero inadegua-ta risposta (art. 4 lettere b e c). Sarebbe stato opportuno un richiamo ai procedimentiattivati, partitamente, dalle imprese al fine di poterbeneficiare delle integrazioni salariali straordinarie,per riorganizzazione aziendale, ovvero per crisi azien-dale, per come ora regolati dall’art. 20 del D.Lgs. n.148 del 2015, sul riordino degli ammortizzatori socialiin costanza di rapporto di lavoro, attraverso l’analisidei programmi aziendali che, in ragione di quanto sta-bilito dall’art. 20, lettera b), devono contenere un pianodi risanamento volto a fronteggiare gli squilibri di natu-ra produttiva, finanziaria, gestionale ed indicare gliinterventi correttivi da affrontare e, nel caso della rior-ganizzazione gli investimenti ed i criteri per il recupe-ro occupazionale del personale interessato dallesospensioni o dalle riduzioni dell’orario di lavoro. La procedura di allerta, attraverso l’intervento dei sog-getti ora indicati e la individuazione, da parte di questi,di alcuni indici di rilevazione della crisi è ritenuta utile

al fine di un intervento tempestivo, affinchè lo squilibriopatrimoniale economico-finanziario non compromettala continuità dell’impresa e possa essere, quindi, assicu-rato, con tempestività, la posizione assistita della crisi. Sempre con la collaborazione e l’intervento dell’orga-nismo di composizione, quante volte ne risulti indi-spensabile la relativa adozione, è consentito al debitoredi chiedere “..omessa ogni formalità non essenziale alcontraddittorio”, misure protettive perché possa con-durre e portare a termine le trattative in corso, con unafunzione attestativa che, se negativa, imporrà la comu-nicazione all’autorità giudiziaria perché convochi l’im-prenditore e, qualora ne ricorrano i presupposti, lo affi-di ad un professionista, in possesso dei requisiti di cuiall’art. 67, secondo comma lettera d) l.f. con l’incaricodi verificare la situazione economico-patrimoniale efinanziaria, con assegnazione di un termine per intra-prendere le misure idonee per il superamento dellacrisi, nel caso di relazione attestativa positiva, decorsoil quale attraverso la pubblicazione nel registro delleimprese, è ipotizzabile si realizzi quella inerzia dell’im-prenditore verso l’adozione del previsto strumento rea-lizzato per la conservazione dell’attività produttiva. La prospettiva e, comunque, l’intento è di promuovereprocedure di crisi alternative all’altra di liquidazionegiudiziale, con particolare favore per quel che attiene ipiani attestati di risanamento, gli accordi di ristruttura-zione dei debiti e le convenzioni di moratoria, di cui èprevista la incentivazione mediante estensione della pro-cedura regolata dall’art. 182 septies cod.civ., introdottodalla legge n. 132 del 2015, anche a creditori diversi dabanche ed intermediari finanziari, purchè rappresentatividi una percentuale pari al 75% dei crediti con elimina-zione, dunque, della soglia del 60%, prevista dall’art.182 bis l.f., quante volte il “…debitore non proponga lamoratoria del pagamento dei creditori estranei, di cui alprimo comma di detto articolo, nè richieda le misureprotettive previste nel successivo sesto comma” ed assi-milazione della disciplina delle misure protettive degliaccordi di ristrutturazione a quella prevista per il concor-dato preventivo, pur se nei limiti della compatibilità e,soprattutto, con estensione degli effetti dell’accordo aisoci limitatamente responsabili. La disciplina della procedura di concordato preventivoha subito un ritocco significativo dal momento chementre nello schema di legge elaborato dalla

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Commissione e presentato al Ministro all’art. 6 lett.a),si prevedeva l’ammissibilità di proposte liquidatoriecon apporto, però, di risorse esterne, tali da aumentare,in misura apprezzabile, la soddisfazione dei creditori,l’esecutivo lo ha sostituito con la contraria previsionedi assoluta inammissibilità, quante volte esse “…abbia-no natura essenzialmente liquidatoria”. L’apertura alla concorrenza nel concordato preventivo,attraverso la disciplina delle offerte concorrenti, anco-rata all’ipotesi che il piano di concordato, di cui all’art.161 secondo comma lettera e) l.f., comprenda unaofferta irrevocabile, ovvero sia basata sulla già interve-nuta conclusione di un contratto, con indicazione delprezzo per il trasferimento, anche prima della omologa-zione, dell’azienda, o di uno o più rami di questa, ovve-ro di specifici beni (c.d. concordato chiuso), ovveroattraverso la previsione delle proposte concorrenti –entrambe attuate, rispettivamente, mediante rivisitazio-ne dell’art. 163 l.f., ovvero attraverso l’introduzionedell’art. 163 bis l.f., nel testo risultante dalla legge n.132 del 2015 – viene mantenuta riconoscendo la legit-timazione ai terzi – creditori o meno – di promuovere ilprocedimento nei confronti del debitore, però, che versiin stato di insolvenza e, tuttavia, nel rispetto del princi-pio del contraddittorio e, attraverso l’adozione di ade-guati strumenti di tutela di questi, nel caso di successi-vo inadempimento del terzo. Ancora una volta l’obiettivo appare essere evidente e sisostanzia nelle intenzioni di privilegiare non già laliquidazione quanto, piuttosto, la ristrutturazione deidebiti, attraverso il riconoscimento della legittimazionenon più esclusiva del debitore, al fine di consentire laprosecuzione e l’attività dell’impresa, migliorandoanche il soddisfacimento del ceto creditorio senza, tut-tavia, incidere sul potere del debitore di formulare unasua proposta, rispetto all’altra alternativa, eliminandocosì ogni dubbio di illegittimità costituzionale in rela-zione a quanto previsto dall’art. 41 Cost., sul presuppo-sto che non può essere consentita l’espropriazione del-l’azienda nel momento in cui l’imprenditore non versipiù in crisi ma sia insolvente. Si tratta di una conclusione che trova ragionevole anco-raggio nella stessa Raccomandazione dellaCommissione del 12 marzo 2014 e, in particolare, nel-l’obiettivo di essa, di cui al primo considerando, che èquello di garantire alle imprese sane, in difficoltà finan-

ziarie, di ristrutturarsi in una fase precoce, in modo daevitare la insolvenza, “massimizzandone pertanto ilvalore totale per i creditori, dipendenti, proprietari eper l’economia in generale” e che consente, ora, attra-verso il riconoscimento della legittimazione dei terzi,l’apertura di un procedimento competitivo in grado dispingere il debitore ad assumere quelle iniziative offer-te dalle procedure di allerta e composizione assistitadella crisi, penalizzandolo quante volte non vi ricorra e,dunque, versi poi in stato di insolvenza. Molte delle previsioni, peraltro, dovrebbero comporta-re la riscritturazione, ancora una volta, della proceduradi concordato preventivo ed essere realizzate attraversoil recepimento delle disposizioni introdotte dalla recen-te novella n. 132 del 2015, per quel che attiene la rego-lamentazione dell’iter procedimentale per: • la disciplina delle offerte delle proposte concorrenti; • le varie tipologie di finanziamento alle imprese incrisi (ponte, interinale e di esecuzione);

• la fase di esecuzione del concordato mediante stru-menti di tutela riferiti a comportamenti omissiviesclusivamente non già del debitore ma che potran-no riguardare, invero, gli stessi offerenti concorren-ti, ovvero coloro che, a mente dell’art. 163 quartocomma l.f., possono presentare una proposta con ilrelativo piano (che può prevedere l’intervento diterzi e, qualora il debitore sia un ente societario,anche ad un aumento di capitale con esclusione olimitazione del diritto di opzione) trenta giorniprima dell’adunanza dei creditori, ove non sia statoassicurato il pagamento di almeno il 40% dell’am-montare dei crediti chirografari, ovvero, nel caso diconcordato con continuità aziendale, almeno il 30%degli stessi crediti.

Ho altrove sottolineato non essere corretta la previsio-ne presente nell’art. 185 l.f., per come novellato, chenel prevedere l’obbligo per il debitore di compiere“…ogni atto necessario a dare esecuzione alla propo-sta di concordato, presentata da uno o più creditori”,non ha affatto considerato che, invero, la difficoltà del-l’esecuzione del concordato non può dipendere, esclu-sivamente, dal debitore ma dallo stesso comportamen-to inerte tenuto dal soggetto proponente, sì da essereapprezzabile la previsione, esistente per lo schema didelega (art. 6 lettera b), della necessaria “… adozione diadeguati strumenti di tutela del debitore, in caso di

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successivo inadempimento del terzo”. Della procedura di liquidazione giudiziale si interessal’art. 7 che, però, nulla dice se in tale fase è possibileespellere un imprenditore dal mercato conservando, tut-tavia, il complesso aziendale, in modo da operare unanetta separazione, per quanto possibile, delle parti del-l’impresa da quella del soggetto che l’ha governata, per-ché l’attività possa essere continuata, evitando la perdi-ta delle professionalità, allo scopo di consentire, peral-tro, il mantenimento, anche degli stessi livelli occupa-zionali, così come d’altronde sottolineato dalla relazio-ne al D.Lgs. n. 5 del 2006, ove per il raggiungimento delduplice obiettivo del massimo realizzo e conservazionepossibile dei nuclei ancora produttivi, ha giustificato laprevisione secondo cui, ai fini della vendita di aziende edi suoi rami, la scelta dell’acquirente dovesse essereeffettuata tenendo conto non solo dell’ammontare, in sédel prezzo offerto, ma anche delle “…garanzie di prose-cuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardoalla conservazione dei livelli di occupazione”, mostran-do attenzione non solo al risultato, in senso quantitativo,del realizzo ma, anche, qualitativo. Sotto tale profilo lo schema si discosta molto dalladiversa regolamentazione attuata della “procedura del-l’insolvenza” dalla Commissione Trevisanato, cheaveva previsto potesse essere essa realizzata attraversoun piano dello stesso imprenditore, quante volte questiavesse fatto in precedenza ricorso alla procedura dicrisi, ovvero, in alternativa, degli stessi creditori o terziinteressati per la “conservazione anche parziale del-l’impresa” (art. 5 quarto comma lett.a). Lo schema del disegno di legge delega si preoccupavengano adottate misure dirette a rendere maggior-mente efficace la figura del curatore, mediante incom-patibilità con l’incarico, eventualmente assunto, dicommissario giudiziale, nella precedente procedura diconcordato preventivo – previsione questa presentenell’originaria modifica dell’art. 28 l.f. ma, poi, venutameno in sede di conversione – e della necessaria speci-ficazione del contenuto minimo del programma diliquidazione, con individuazione dei poteri “…per ilcompimento degli atti e delle operazioni riguardantil’organizzazione e la struttura finanziaria della socie-tà”, senza nulla dire con riferimento all’affitto o allavendita dell’azienda, ovvero a quegli strumenti volutidal legislatore della prima riforma in linea con un siste-

ma concorsuale caratterizzato da un fine non esclusiva-mente liquidatorio, ma indirizzato al recupero dellecomponenti attive dell’impresa, attraverso la previsio-ne espressa che la vendita atomistica dei singoli beni,rientranti in un complesso aziendale, potesse essereeffettuata solo allorquando fosse prevedibile che lavendita dell’azienda, o di suoi rami, non fosse in gradodi consentire una maggiore soddisfazione dei creditori. Vengono fissate regole per una gestione semplificatadelle procedure meno complesse e si suggerisce ilpotenziamento della fase liquidativa, mediante la esclu-sione della attuale operatività di esecuzioni speciali,privilegi processuali, anche fondiari, e previsione di fardecorrere il periodo sospetto, per le azioni di ineffica-cia e revocatorie, dal deposito della domanda cui abbiafatto seguito l’apertura della liquidazione giudiziale,mediante conservazione delle regole già previste dal-l’art. 69 bis secondo comma l.f. Viene sottolineata l’importanza che l’accertamento delpassivo vada “… improntato a criteri di maggiore rapi-dità, snellezza e concentrazione” con l’adozione dimisure dirette ad agevolare: • la presentazione telematica delle domande; • l’attrazione in sede concorsuale, dell’accertamentodi ogni credito opposto in compensazione;

• le modalità di verifica dei diritti vantati, su beni deldebitore, che si sia costituito terzo datore di ipoteca.

L’obiettivo della massima trasparenza ed efficienzadella liquidazione si precisa debba essere perseguitoattraverso l’introduzione di sistemi informativi e divigilanza “….caratterizzati da trasparenza, pubblicitàed obblighi di rendicontazione”, garantendo la compe-titività delle operazione di liquidazione “…nell’ambitodel mercato unitario telematico nazionale di cui indicale relativa caratteristiche”. La accelerazione della chiusura si prevede debba essererealizzata con l’affidamento del riparto al curatore“…salva la facoltà degli interessati di proporre oppo-sizione, ricorrendo al giudice”, ed integrazione delladisciplina introdotta dalla novella n. 132 del 2015,attraverso la modifica dell’art. 118 secondo comma n.3 l.f., quante volte sia compiuta la ripartizione finaledell’attivo, anche in pendenza dei giudizi – ora “proce-dimenti giudiziari” –, al fine di precisare che ciò valeper tutti i processi, anche, dunque, quelli esecutivi, suiquali si era rilevato un qualche dubbio al riguardo, e

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con la previsione che, alla chiusura della procedurarelativa a società di capitali, il curatore sia tenuto a con-vocare l’assemblea ordinaria dei soci, per le necessariedeliberazioni ai fini della ripresa dell’attività o dellasua cessazione limitatamente, però, alle ipotesi di chiu-sura di cui ai n. ri 1 e 2 dello stesso art. 118 l.f. ovvero,rispettivamente, qualora nel termine stabilito della sen-tenza dichiarativa di fallimento non siano state propo-ste domande di ammissione al passivo o, quando ancorprima della ripartizione finale, siano state soddisfatte,integralmente, le ragioni dei creditori concorrenti osiano stati, in altro modo, estinti e pagati i debiti e lespese da soddisfare in prededuzione. La procedura di liquidazione risulta, dunque, articolataattraverso tre fasi, la prima, concernente l’apertura, laseconda, di accertamento del passivo e, una terza, voltaalla realizzazione dell’attivo, rimessa al curatore, chenel programma dovrà indicare e chiarire la convenienzaeconomica delle operazioni di liquidazione, che dovran-no, poi, avvenire attraverso modelli di speditezza, fles-sibilità e trasparenza e, per quanto concerne l’azienda,o singoli rami, seppur nulla venga detto al riguardo, siha motivo di ritenere, ancora, attraverso l’esercizioprovvisorio, anche parziale, qualora risulti essere com-patibile con la conservazione del valore del patrimonioproduttivo e, in alternativa, l’affitto dell’azienda, con ilriconoscimento della prelazione, ovvero la vendita coni limiti, per quel che attiene gli obblighi pregressi–attualmente previsti e regolati dall’art. 47, quintocomma, della legge n. 428 del 1990 – per le imprese cheoccupino più di quindici dipendenti e dall’art. 105, terzocomma, l.f., per quelle minori, attraverso la riconosciu-ta possibilità che le parti, nell’ambito delle consultazio-ni sindacali, possano convenire che la vicenda traslati-va riguardi solo in parte il personale dipendente. Ebbene, operata una seppur sintetica ricostruzione deiprevisti criteri propri di ciascuna delle procedure consi-derate, nell’ambito e nei limiti dell’indagine che misono prefisso, esaminerò ora uno degli aspetti di mag-gior rilievo e che ritengo non avrebbero dovuto esseresottovalutati.

3. La sorte del rapporto di lavoroIntendo far riferimento ai rapporti giuridici pendenti e,in particolare, tra questi, quello di lavoro. Perché l’analisi non risulti essere incompleta, per una

maggiore comprensione dei problemi che discendonodalla omessa regolamentazione di tali rapporti, apparelogico operarne una ricostruzione sistematica attesoche mentre, in effetti, la non considerazione degli stes-si poteva trovare una giustificazione nella legge del1942, la stessa non la si individua nelle successivemodifiche che sono intervenute nel quadro normativoavendo operato la scelta, come vedremo, il legislatoredi non dettare precise regole al riguardo operando unrinvio alle disposizioni proprie della relativa disciplinanormativa, così omettendo di considerare che, in effet-ti, dato il mutare dello scenario economico e socialesarebbe stato, al contrario, opportuno attuarne unacompleta regolamentazione. Come vedremo, il tema è stato più volte affrontato.anche nell’ambito dei diversi progetti di riforma delleprocedure concorsuali ma, poi, è stato sempre accanto-nato, nonostante il mantenimento dei livelli occu-pazionali e la tutela delle specifiche professionalità, daun lato, e del patrimonio tecnologico, delle strutture edegli impianti, dall’altro, possono rappresentare sianelle procedure volte al superamento della crisi che nelcaso della liquidazione giudiziale, un indiscutibile obi-ettivo quante volte, nelle prime, si intenda prevedere laprosecuzione dell’attività di impresa, ovvero la ces-sione dell’azienda in esercizio o, ancora, il conferimen-to di questa in una o più società, anche di nuova costi-tuzione e, nella seconda, la conservazione dei valori difunzionamento, attraverso l’esercizio provvisorio,ovvero l’affitto di azienda, per poi attuare una vicendatraslativa definitiva di questa. Il problema della sorte e, dunque, della conservazionedel posto di lavoro si pone con connotazioni diverseladdove l’impresa, pure essendo l’attività temporanea-mente cessata venga a trovarsi in una fase di crisi, tut-tavia superabile attraverso la realizzazione di una suaristrutturazione o conversione, con riduzione dell’or-ganico, al fine del raggiungimento dell’equilibrio alter-atosi tra costi e ricavi e sia consentita la predispo-sizione di un piano industriale di risanamento, accom-pagnato da una analitica relazione tecnica di supporto,che indichi le ragioni della crisi, le cause che l’hannodeterminata, le azioni intraprese o le iniziative che siintendono avviare e, nell’ipotesi di cessazione tempo-ranea dell’attività produttiva la ricollocazione del per-sonale in esubero, dall’altra, in cui al momento del-

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l’apertura della procedura concorsuale non sia statodisposto l’esercizio provvisorio e, ormai, a seguito del-l’abrogazione dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991,l’organo della procedura non potrà che decidere sesciogliersi, o meno, dai rapporti di lavoro potendo lasospensione di questi essere regolata ora, in via esclu-siva, dall’art. 72 l.f. Non può sfuggire, a tal riguardo, che dall’art. 2119cod.civ. emerge una nozione spersonalizzata del-l’azienda, nel senso che il legislatore ha previsto che, ineffetti, l’apertura di una procedura concorsuale liquida-toria non costituisce giusta causa di risoluzione del rap-porto, sicchè la cessazione può aversi a seguito solo dellicenziamento operato in conseguenza della dis-soluzione della realtà aziendale o, ancora, della con-statata impossibilità di attuare il trasferimento, cui eraancorato, prima della sua abrogazione, il trattamento diintegrazione salariale concorsuale. Ed infatti, pur dopo l’apertura della procedura concor-suale liquidatoria l’azienda nella sua unitarietà soprav-vive e, nel suo ambito, anche il rapporto di lavoro, lacui sorte è condizionata dalla manifestazione di volon-tà del curatore di sciogliersi da esso. La perdurante esistenza del rapporto, pur se in unostato di quiescenza, rende quindi ipotizzabile la futuraripresa dell’attività lavorativa, per iniziativa del-l’organo della procedura, quante volte non sia stata dis-posta dal tribunale, con la sentenza dichiarativa di fal-limento, nella convinzione che medio tempore possanomaturare le condizioni per la realizzazione di unavicenda traslativa Mentre, poi, nel caso della procedura di composizionedella crisi, il rapporto di lavoro non è certamente con-dizionato dall’avvio della stessa, se non nei limiti in cuil’imprenditore abbia previsto, per il risultato che si pro-pone di raggiungere, una riduzione degli organici, perla eliminazione di alcuni posti di lavoro nell’ambitodella stessa ristrutturazione considerata indispensabileoggi esso, al contrario, nel caso della liquidazionegiudiziale, non può che essere destinato, pur se pros-egue senza soluzione di continuità, allo scioglimento,rimanendo sospeso per l’intero periodo per il quale ilcuratore non manifesti alcuna volontà a tal riguardo. E d’altronde la disciplina dei rapporti giuridici penden-ti e, in particolare, di alcuni contratti è stata da sempreconsiderata in funzione dello stesso esercizio provviso-

rio, avendo inteso il legislatore della riforma, anche daultimo, approntare una varietà di rimedi in relazione aciascun tipo di rapporto dal momento che, diversa-mente, non avrebbe potuto avere alcuna possibilità l’at-tuazione della continuazione temporanea dell’eserciziodell’impresa. È per tale ragione che è stata demandata al curatore lafacoltà, pur se con le necessarie autorizzazioni da partedel comitato dei creditori, e ciò nei limiti previsti dallesingole disposizioni, di stabilire se ed in quali contrattisubentrare una volta effettuato l’esame delle diversesituazioni concrete inerenti i relativi rapporti e valutatigli stessi, non solo in termini di economicità e conve-nienza ma, anche e soprattutto, di utilità per una positi-va conservazione dei valori di funzionamento del-l’azienda, ovvero dei singoli rami. È per tale ragione che, operata una definizione dei rap-porti pendenti ed individuati questi tra quelli ancoraineseguiti, o non compiutamente eseguiti da entrambele parti, è stata prevista, alternativamente, la sospen-sione, sino al momento della dichiarazione di subentro,con assunzione dei relativi obblighi, ovvero lo sciogli-mento con facoltà, peraltro, per il contraente in bonis dicostituire in mora il curatore, consentendogli il rifiutodell’adempimento della prestazione o, ancora, lasospensione dell’esecuzione di essa in ragione dellemutate condizioni (artt. 1460 e 1461 cod.civ.). La operata regolamentazione si giustifica con gli effet-ti propri della cristallizzazione del patrimonio dell’im-prenditore, che diviene insensibile, necessariamente,alle vicende negoziali in un’ottica di riconduzione deirapporti all’esigenza di liquidazione, per la miglioresoddisfazione degli interessi dei creditori concorrenti. L’attuale sistema ha inteso regolamentare gli stessi, inassenza di un criterio unitario, operandone una sis-temazione di alcuni e, al tempo stesso, ne ha attuatouna suddivisione in tre distinte categorie individuando,nell’ambito di queste, quelli che si sciolgono, per effet-to dell’apertura della procedura concorsuale, gli altriche proseguono, senza soluzione di continuità, con lamassa dei creditori e, infine, quelli che subiscono unatemporanea sospensione, in attesa della scelta del cura-tore di subentrarvi o meno. È stato del tutto ignorato dalla legge fallimentare, rifor-mata e corretta, che l’impresa ha subito una evidentemetamorfosi e la stessa rivisitazione delle nuove

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tipologie contrattuali ha, inevitabilmente, inciso sui cri-teri di imputazione dei rapporti pendenti e, tra questi,sui diversi modelli attraverso i quali si instauranoforme di collaborazione, sempre più diversificate, e cheavrebbero necessitato di una più approfondita analisi. La scelta operata dalla Commissione, come risultadallo schema di disegno di legge per la delega alGoverno per la riforma organica non è, poi, diversa –come ho in precedenza accennato – da quella effettua-ta in altri progetti di riforma rimasti inattuati. Il precedente schema, risultante dai lavori svolti dallaCommissione Trevisanato – che ha poi consegnato untesto alternativo di minoranza rispetto a quello di mag-gioranza, senza che sia stato mai possibile accertare qualedei due avesse trovato maggiore adesione – agli articoli,rispettivamente, 10 ed 11, con riferimento alla disciplinadei rapporti giuridici pendenti, perché fosse assicurata lamigliore gestione del patrimonio del debitore ed unaequilibrata composizione degli interessi della massa, peri rapporti di lavoro, alla lettera a), dell’art. 10, ne avevaprevisto la sospensione dell’esecuzione e, contestual-mente, la “…salvezza delle disposizioni di tutela in mate-ria…e di trattamento di integrazione salariale”, mentrealla lettera c) dell’art. 11, aveva sottolineato la necessitàdi “…prevedere norme di coordinamento con le vigentidisposizioni in materia di lavoro”. Era apparso logico alla Commissione di proporre, aconclusione dei lavori, un criterio non diverso da quel-lo già adottato per l’amministrazione straordinariadelle grandi imprese insolventi, laddove è, espressa-mente, previsto che per i contratti di lavoro subordinatirestano ferme le disposizioni vigenti (art. 50 D.Lgs. n.270/1999). L’unica sostanziale differenza la si poteva individuarenella circostanza di avere fatto entrambi i testi riferi-mento alla sospensione delle obbligazioni derivanti dalcontratto di lavoro, sì da lasciar presupporre che, invero,il nucleo normativo che regolamenta tali rapportiavrebbe dovuto essere integralmente conservato, sicchèquesti, in conseguenza dell’apertura della procedura,sarebbero rimasti sospesi sino a quando il curatore nonavesse deciso se subentrarvi o meno e che, in ogni caso,qualora avesse inteso sciogliersi da essi avrebbe dovutoprovvedervi manifestando la propria volontà ed individ-uando un giustificato motivo di recesso. Nel successivo schema di riforma delle procedure con-

corsuali, redatto dalla Commissione istituita con d.m.27 febbraio 2004, per la prima volta si è tentato, all’art.127 di regolare in modo specifico la sorte del contrattodi lavoro subordinato prevedendo: • la facoltà del curatore di intimare il licenziamentonei casi previsti dalla legge;

• la competenza del giudice del lavoro nell’accerta-mento della illegittimità del recesso nei soli casi incui fosse stata richiesta la reintegrazionedel postodi lavoro e nella sussistenzadei presupposti perchéla pronuncia potesse essere eseguita “…per essereproseguita l’attività dell’impresa”.

Mentre, poi, uno testi alternativi, proposti dallaCommissione Trevisanato faceva riferimento espresso altrattamento di integrazione salariale, il richiamo risulta-va omesso nell’altro alternativo (art. 11) e così anchenell’art. 127 – ora richiamato – senza tuttavia, allora,alcun problema di coordinamento, attesa la indiscussaapplicazione delle disposizioni normative concernentitale istituto, regolato, per l’appunto, dall’art. 3 dellalegge n. 223 del 1991, in grado di assicurare ai lavorato-ri il mantenimento della “condizione di occupati” per unperiodo iniziale di dodici mesi, e di proroga di altri sei,nella ricorrenza del presupposto soggettivo determinatodal numero dei dipendenti occupati a seconda del setto-re di riferimento e, oggettivo, ancorato, allora, alla inter-venuta cessazione e non continuazione dell’attività. L’ultimo intervento normativo ha riguardato l’art. 169bis l.f. – aggiunto dall’art. 3 del D.L. 22 giugno 2012 n.83, convertito nella legge 7 agosto 2012 n. 134 – cheall’ultimo comma ha escluso, dall’applicazione delledisposizioni precedenti, per quel che attiene il possibi-le scioglimento della sospensione del rapporto, quellodi lavoro subordinato, per il fatto di trovare esso unasua regolamentazione nell’ambito di una normativaspecifica, come risulta evidente dalla circostanza chenon sono a questo applicabili i principi dettati, in viagenerale, per ogni tipo di contratto, dagli artt. 1256 e1463 cod.civ., tant’è che la sopravvenuta impossibilitàdi una delle prestazioni produce la sua risoluzione nonsolo se abbia carattere definitivo ma, anche, se tempo-ranea, purchè si profili di non breve durata, indetermi-nata ed indeterminabile, e sia comunque, tale da farvenir meno l’interesse dell’una o dell’altra parte almantenimento in vita del rapporto. Ed infatti, nell’ambito delle procedure di crisi, le situa-

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zioni congiunturali e strutturali rientrano nel c.d. rischiodi impresa e, pertanto, inibiscono l’unilaterale determi-nazione datoriale di sospendere la prestazione ed origi-nano una situazione di mora credendi dalla qualediscende l’obbligo del risarcimento del danno in misuracorrispondente alle ordinarie retribuzioni dovute. Nel caso, dunque, del concordato preventivo non sareb-be stato neppur necessario una tale previsione in ragio-ne della possibilità, per il proponente, di ottenere lasospensione delle obbligazioni, attraverso la richiestadi accesso alla cassa integrazione ordinaria, ovverostraordinaria, che consente di sospendere, per l’appun-to, il rapporto di lavoro qualora la relativa esigenzaderivi da situazioni dovute ad aventi transitori, nonimputabili all’imprenditore o ai dipendenti di questi. Si tratta di un principio che costituisce l’inevitabileeffetto della regolamentazione in materia di sospensio-ne della prestazione, la quale, secondo la giurispruden-za, costituisce una deroga alla disciplina del contrattoindividuale di lavoro subordinato. Tale effetto deroga-torio – sia per quanto riguarda la facoltà del datore dilavoro di sospendere unilateralmente il rapporto dilavoro, sia per quanto riguarda la sostituzione della pre-stazione previdenziale alla retribuzione – non si ricon-nette automaticamente al verificarsi dell’evento, mapresuppone anche l’ammissione effettiva al trattamen-to di integrazione salariale attraverso il provvedimentoamministrativo. Ne consegue che prima di tale provve-dimento il datore di lavoro che abbia sospeso unilate-ralmente il rapporto di lavoro, senza averne la facoltà,risponderà delle relative conseguenze che si traduconoin concreto nel pagamento della retribuzione sicchè, incaso di illegittima sospensione del rapporto di lavororimane integro il diritto dei lavoratori interessati adottenere non già il minore importo delle integrazionisalariali, ma la retribuzione piena, che, peraltro, cometale, costituirà a tutti gli effetti retribuzione imponibileai fini contributivi e fiscali. Il legislatore, dunque, non ha certamente inteso dire chependente il concordato preventivo non fosse consentitoall’imprenditore sciogliersi dal contratto di lavoro quan-to, piuttosto, affermare – senza che ve ne fosse la neces-sità – che a tale risultato sarebbe stato possibile perve-nire attraverso le disposizioni in materia di rapporti dilavoro e di trattamento di integrazione salariale. La bozza provvisoria del disegno di legge delega, ela-

borato dalla Commissione Ministeriale istituita dalMinistro della Giustizia, all’art. 8 lett.h) aveva previstola introduzione di una specifica disciplina, dei rapportidi lavoro subordinato, mediante disposizioni volte a: i. esplicitare che la procedura liquidatoria non è moti-vo di licenziamento, semplificando i relativi obblighiprocedurali previsti dalla legislazione vigente e dallacontrattazione collettiva; ii. prevedere un periodo minimo di applicazione dellanuova prestazione di assicurazione sociale per l’impie-go (NASPI), di cui al D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22,anche in deroga agli attuali requisiti; iii. riconsiderare la decisione di abrogare l’istitutodella c.d. cassa integrazione concorsuale dal 1 gennaio2016, ai sensi dell’art. 2, comma settanta della legge n.92 del 2012; iiii. assicurare, in particolare, la fraziona-libilità del credito per il trattamento di fine rapporto alledipendenze di differenti datori di lavoro, succedutisinella titolarità del medesimo, e la incondizionata opera-tività del Fondo di garanzia, costituito presso l’Inps,nonché l’ammissione al passivo degli omessi contributidovuti per forme di previdenza complementare e dellequote di trattamento di fine rapporto cedute a terzi; iv. prevedere misure di agevolazione dell’insinuazio-ne al passivo del lavoratore subordinato, anche conriguardo al coordinamento con i giudizi di competenzadel giudice del lavoro.La bozza – che come vedremo è stata rivista sul punto– prevedeva una disciplina del rapporto di lavoro edelle problematiche connesse, anche in termini diattuazione del credito e di intervento del Fondo digaranzia, decisamente più completa di quella poi risul-tante dal testo definitivo cui l’esecutivo ha apportatoalcune modifiche. Essa, seppur inizialmente ribadiva principi ormaiinevitabilmente acquisiti e derivanti dalla stessa appli-cazione delle norme codicistiche o collettive, in termi-ni di risoluzione del rapporto di lavoro ed impossibilitàdi far conseguire questa dall’apertura della proceduraconcorsuale, aveva sottolineato, tuttavia, due importan-ti interventi che avrebbero dovuto riguardare, da unlato, il trattamento di integrazione salariale concor-suale, venuto meno a seguito della abrogazione dellarelativa norma a far data dal 1 gennaio 2016, e unadiversa regolamentazione, in termini di durata minima,della NASPI.

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L’attuale schema di disegno di legge – nel testo risul-tante dalle modifiche apportate dall’esecutivo – non ha,tuttavia, innovato quello presentato dalla Commissioneprevedendo, entrambi, testualmente all’art. 7 punto 6che “gli effetti della procedura sui rapporti di lavorosubordinato debbono essere coordinati con la vigentelegislazione lavoristica, sia sostanziale che proces-suale, quanto al licenziamento, forme assicurative edintegrazione salariale, trattamento di fine rapporto emodalità di insinuazione al passivo”. Il testo definitivo, dunque costituisce una sintesi delleprevisioni contenute nella originaria bozza e trova unasua esaustiva spiegazione nella relazione accompagna-toria laddove si sottolinea che “…anche per i rapportidi lavoro pendenti sarà necessario contemplare unadisciplina a sé stante” e, ancora, che “…la necessità dispeditezza”, per attuare una rapida chiusura della pro-cedure fallimentari, laddove l’attivo da liquidare risultiinesistente ovvero insufficiente, “…contrasta con l’in-teresse dei dipendenti rimasti privi degli emolumenti o,peggio, deregolarizzati i quali possono contare esclusi-vamente sul riconoscimento delle tutele del loro reddi-to, che trovano fondamento nella Carta SocialeEuropea, nella direttiva 1980/987/Cee (e direttiva2002/74/Cee), nell’art. 2 della legge n97 del 1982 edegli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 80 del 1992)”, con la con-seguente necessità e compito del legislatore delegato“…di armonizzare la disciplina della liquidazione con-corsuale con quella del diritto del lavoro in ordine ailicenziamenti, alle forme assicurative e di integrazionesalariale ed al trattamento di fine rapporto”.

4. Considerazioni conclusiveL’operata lettura delle norme costituenti lo schema didisegno di legge di riforma del sistema delle procedureconcorsuali risulta essere, dunque, coerente con l’ordi-namento comunitario e, al tempo stesso, con quellointerno, attualmente vigente, suggerendo interventi sutemi che non possono essere ancora ignorati se, real-mente, si vogliono fissare le nuove regole per la crisi diimpresa e per la gestione dell’insolvenza, attesa lanecessità, senza far riferimento in modo semplicisticoalle disposizioni in materia di rapporti di lavoro, maregolando la fattispecie, di considerare e prevedere che: • l’apertura della procedura concorsuale non risolve ilrapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero a

termine, se non per giustificato motivo oggettivo,dipendente dalla impossibilità di proseguire tempo-raneamente l’attività;

• il curatore, ovvero il debitore proponente il concor-dato, qualora sussistano le condizioni in presenzadelle quali l’attività cessata possa essere ripresa,ovvero continuata, possano accedere al trattamentodi integrazione salariale concorsuale per le impreseche occupino più di quindici o cinquanta dipenden-ti, se operanti, rispettivamente, nel settore industria-le o commerciale, per un primo periodo suscettibiledi proroga, qualora sussistano le condizioni perattuare la cessione dell’azienda, o singoli rami, aqualunque titolo;

• il curatore, ove i dipendenti occupati sono più diquindici, qualora intenda attivare più di cinquelicenziamenti, nell’arco di centoventi giorni ha l’ob-bligo di seguire la procedura, di cui all’art. 5,commi da uno a cinque, della legge n. 223 del 1991per la collocazione in mobilità del personale interes-sato, laddove, di contro, ove i recessi dovesseroessere attuati, in conseguenza della constatataimpossibilità di continuare o riprendere l’attività, dicedere l’azienda o rami di essa, non sarebbe tenutoal rispetto di alcun iter procedimentale sempre cheinteressato alla risoluzione del rapporto fosse tutto ilpersonale in organico;

• l’art. 2112 cod.civ. non trova applicazione nell’ipo-tesi di trasferimento, a qualsiasi titolo, dell’aziendao di suoi rami, attuato nell’ambito della proceduradi liquidazione, fermo il diritto di precedenza per ilpersonale in esubero licenziato nelle assunzioni cheil cessionario dovesse effettuare entro un anno;

• nelle procedure concorsuali di tipo non liquidativo,nonostante la regolamentazione attualmente operatadel fenomeno traslativo dall’art. 19 quater, dellalegge n. 166 del 2009 e, successivamente, dall’art.46 bis, secondo comma, D.L. 83 del 2012, e dunque,al contrario di quanto da queste previsto, dovrebbeessere disciplinata la vicenda traslativa, nel rispettodella nozione comunitaria escludendo, quindi, cheessa possa incidere, attraverso la conclusione di unaccordo sulla continuità giuridica dei rapporti dilavoro e non già sulla sola regolamentazione degliaccordi collettivi applicabili, per quel che attiene iltrattamento economico e normativo.

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Èun principio fondamentale dello Stato di diritto edello Stato democratico quello del rispetto dei dirit-ti quesiti, ossia di quei poteri sorti da un fatto acqui-

sitivo valido per la legge precedente, fatto che la nuovalegge non può qualificare in modo diverso dal passato, perfarne derivare effetti giuridici diversi (C. Mortati, G.Codacci-Pisanelli)1. Tali diritti derivano dal principio diirretroattività della legge (art. 11 delle preleggi), che stabi-lisce che la legge non dispone che per l’avvenire e non haeffetto retroattivo, in quanto la norma giuridica contiene uncomando, che, per essere osservato necessita almeno dellapossibilità di essere conosciuto in precedenza: tale princi-pio ha valore costituzionale, non solo per le leggi penali(art. 25 Cost.), ma, in via di interpretazione analogica, perautorevole dottrina (C. Mortati e G.Guarino)2 e prevalentegiurisprudenza, per tutte le leggi afflittive, anche se nonsanzionatorie di reati, e restrittive dei diritti quesiti, ossia diquei poteri sorti da un fatto acquisitivo valido per la leggeprecedente, ormai entrati definitivamente a far parte dellasfera giuridica dei soggetti.Tali diritti, quindi, una volta acquisiti, diventano immuta-bili anche di fronte ad eventuali cambiamenti dell’ordina-mento giuridico, perché ormai entrati definitivamente a farparte della sfera giuridica dei loro titolari. Inserendosi nelpiù generale contesto dell’efficacia della legge nel tempo edella successione delle norme, essi rispondono principal-mente ad un’esigenza di certezza del diritto, elemento fon-dante dello Stato di diritto e democratico.In particolare, è proprio in ambito giuslavoristico che essiottengono il massimo riconoscimento, venendo intesicome diritti già entrati a far parte del patrimonio del lavo-ratore, in relazione ad un evento già maturato3.Sottolineato, infatti, che la pensione costituisce parte dellaretribuzione, il cui pagamento è differito e cadenzato neltempo per fini previdenziali, ossia nell’interesse dello stes-so lavoratore (principio costantemente ribadito dalla CorteCostituzionale4,si ricorda che sono pacificamente ricono-sciuti e tutelati nel mondo del lavoro, quali diritti quesiti,come esempi di scuola, quello del lavoratore alla retribu-

zione per le prestazioni già effettuate, nonché quello al trat-tamento economico già raggiunto per i pubblici dipenden-ti (v. art. 227 T.U. com. e prov. 1934, art. 242 O.E.L. e 202T.U. 10 gennaio 1957, n. 3): il divieto di reformatio inpejus del trattamento economico è stato riconosciuto dallagiurisprudenza amministrativa, anche nella legislazionesuccessiva, conseguente alla c.d. privatizzazione del pub-blico impiego, tramite la contrattazione collettiva, qualeprincipio generale dell’ordinamento giuridico, anche senon oggetto di espressa garanzia costituzionale, che puòessere disatteso solo in ipotesi particolari obiettivamentegiustificate5. Nell’ambito privatistico, poi, la giurispruden-za della Suprema Corte ha costantemente affermato che lacontrattazione collettiva non può incidere, in relazione allaregola dell’intangibilità dei diritti quesiti, in senso peggio-rativo su posizioni già consolidate o su diritti già entrati nelpatrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico man-dato o di una successiva ratifica da parte degli stessi, masolo su diritti del singolo lavoratore non ancora acquisiti6.Non si vede, quindi, come la legge, che è posta in esseredai rappresentanti dei cittadini e costituisce la massimaespressione della sovranità popolare e, quindi, dello Statodemocratico, possa violare impunemente tali diritti invio-labili dei cittadini (art. 2 della Costituzione), ormai entratidefinitivamente a far parte della loro sfera giuridica. Ildiritto al lavoro costituisce, infatti, il primo diritto fonda-mentale, riconosciuto dalla nostra Costituzione democrati-ca (art. 1 della Costituzione). Premesso che il principio dell’accordo “pacta sunt ser-vanda” è un principio fondamentale dello Stato demo-cratico, valido non solo in ambito internazionale, maanche in ambito interno, essendo anche la legge, come ilcontratto di diritto privato, frutto di un accordo fra leforze maggioritarie presenti in Parlamento, in rappresen-tanza dei cittadini di ciascuno Stato, si rileva che il dirit-to alla pensione, sia in un rapporto di diritto pubblico,che privato, da’ luogo ad un diritto soggettivo perfetto,che costituisce, altresì, “un diritto quesito”, che è disci-plinato da un accordo fra il cittadino e lo Stato, concluso

La pensione è un “diritto quesito”*

Valentino De NardoMagistrato, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione

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in base alle leggi vigenti al momento della sua conclu-sione, che non può essere mutato da leggi successive,perché il rapporto di lavoro (il primo dei diritti fonda-mentali, tutelato – come già detto - dal nostro ordina-mento dall’art. 1 della Costituzione) si è ormai definiti-vamente esaurito e trasformato nel diritto alla liquidazio-ne della pensione e del T.F.R., quali parti della retribu-zione, il cui pagamento è stato soltanto differito per finiprevidenziali nell’interesse esclusivo dei lavoratori7;inoltre, esso, come lo stipendio, è, in linea di principio,insequestrabile, impignorabile ed incedibile. Infatti, secondo autorevole dottrina8, il diritto alla pensionesorge al momento della costituzione del rapporto di impie-go; tuttavia, essendo subordinato alla durata di questo e adaltre condizioni, è un diritto sottoposto a condizione, che,però, si trasforma in diritto perfetto, quando la pensione siastata liquidata o quando l’impiegato abbia diritto al collo-camento a riposo su semplice domanda in base al servizioe all’età raggiunta. È questo un principio fondamentale dello Stato di dirittoed, in particolare, dello Stato democratico, che vuole sal-vaguardare il principio della certezza del diritto e, cioè,l’affidamento dei cittadini alla sicurezza giuridica, dasempre considerato elemento fondante dello Stato di dirit-to e democratico di fronte ad abusi dei pubblici poteri, perevitare che i privati siano esposti all’eventualità che gliatti, che li riguardano, possano essere caducati “ ab initio”in base ad una diversa valutazione di opportunità politica9.Ci troveremmo, in caso contrario, di fronte ad uno Statoautoritario e di fatto dittatoriale, che non rispetta l’autori-tà delle sentenze passate in giudicato ed i diritti acquisitidai cittadini, in base ad accordi conclusi con l’Autoritàamministrativa con atti vincolati, che hanno ormai esauri-to i loro effetti giuridici. Infatti, il decreto di liquidazionedella pensione, è un atto di accertamento costitutivo delrelativo diritto, che, pur avendo causa nel rapporto di lavo-ro è ad esso successivo, presupponendone la cessazione,e, come tale, non è un atto discrezionale, ma un atto vin-colato (c.d. atto, rientrante nella categoria delle iscrizio-ni)10, che si limita ad accertare i presupposti stabiliti dalleleggi del tempo della domanda di collocamento a riposo11,per l’attribuzione del diritto alla pensione, e ad effettuarela determinazione del suo ammontare, in base al computodei servizi riconosciuti o riconoscibili, in base ad atti uffi-ciali della P.A.. Pertanto, per coloro che hanno diritto alcollocamento in pensione vale indefettibilmente il princi-

pio che solo le norme più favorevoli per i destinatari pos-sono avere efficacia retroattiva.Da quanto detto, ne discende che il diritto alla pensione giàmaturata, in base alle leggi vigenti, costituisce “un dirittoquesito” e, altresì, un fatto compiuto, secondo la teoria delfatto compiuto (“facta praeterita”), in virtù del quale lenuove norme modificative in senso sfavorevole all’interes-sato non estendono la loro efficacia ai fatti compiuti sottoil vigore della legge precedente, benché dei fatti stessisiano pendenti gli effetti. Infatti, il relativo titolo di acqui-sto è assimilabile, a quello di un contratto di diritto priva-to, istantaneo a prestazioni corrispettive, ad esecuzione dif-ferita della sola prestazione da parte dello Stato per finiprevidenziali nell’interesse del lavoratore, la cui prestazio-ne è stata già eseguita con la sua prestazione lavorativa e letrattenute mensili del suo stipendio, mentre quella del dato-re di lavoro viene rateizzata per soli fini previdenziali nel-l’interesse esclusivo del lavoratore, assicurando, in talmodo, il suo adeguamento al mutato costo della vita nelcorso del tempo rispetto al suo valore capitale iniziale. Invero, il trattamento di quiescenza non è più modificabi-le, laddove il lavoratore abbia diritto al collocamento ariposo, in quanto egli ha ormai interamente esaurito la suaprestazione, adempiendo al suo rapporto di lavoro, perdu-rato per tutta la sua vita attiva, per cui matura da questomomento il suo diritto alla riscossione del corrispettivopattuito, non essendo più possibili mutamenti del vincolo,essendosi il rapporto di lavoro ormai esaurito. In caso con-trario, si verificherebbero di fatto una grave responsabili-tà per inadempimento ed il delitto di appropriazione inde-bita delle somme trattenute dal datore di lavoro, in ambi-to civilistico, ed il delitto di peculato in ambito penalisti-co, per cui eventuali leggi modificative di tali diritti que-siti finirebbero per legalizzare tali condotte illecite deldatore di lavoro, pubblico o privato, e quindi sarebbero deltutto assimilabili ad atti di un regime autoritario o dittato-riale, salvaguardati dalle prerogative costituzionali delloStato di diritto e democratico, consistenti nell’insindacabi-lità dei parlamentari per i voti dati nell’esercizio delle lorofunzioni (art. 68 Cost.) e dell’irresponsabilità giuridica delPresidente della Repubblica (art. 90 Cost.) per la promul-gazione di tali leggi (che è un atto di controllo sia di legit-timità che di merito), vanificando, quindi, proprio loscopo di tali prerogative costituzionali dello Stato di dirit-to e dello Stato democratico.Al riguardo, la giurisprudenza ordinaria ed amministrativa

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si è espressa pacificamente nel senso del riconoscimentodella pensione come un diritto quesito. Infatti, la Corte diCassazione12 ha precisato che “ il diritto quesito” pensioni-stico va valutato con riferimento alla normativa vigente almomento del perfezionamento del diritto alla pensione.Tale principio è stato di recente ribadito dalle due sentenzedella Corte di Cassazione nn. 8847 e 8848 del 18.4.2011,sottolineando che la formula previdenziale del dirittoacquisito, intoccabile ed immodificabile nelle intenzionidella legge, deve garantire il lavoratore da spiacevoli sor-prese e danni economici rilevanti sulla futura pensione, percui tale principio riconosce a tutela dei cittadini il rispettoassoluto delle disposizioni pensionistiche in vigore nelcorso del tempo. Anche, il Consiglio di Stato13, ancoraprima, ha stabilito che in materia di quiescenza il dipen-dente può vantare un vero e proprio diritto quesito, nelmomento in cui matura i requisiti necessari per essere col-locato a riposo.Anche la Corte Costituzionale14, pur affermando, in lineadi principio, la possibilità da parte dello Stato di incidereanche sui trattamenti di quiescenza già in atto, come delresto ovviamente su qualsiasi fonte di reddito, si è sempreespressa in senso contrario ad interventi irrazionali delloStato, affermando che al legislatore è inibita l’adozione dimisure disomogenee e irragionevoli e discriminatorierispetto a tutti gli altri cittadini, in applicazione dei princi-pi di proporzionalità e di adeguatezza dei trattamenti diquiescenza e del principio di solidarietà sociale e di ugua-glianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.Passando in rassegna, in particolare, gli orientamenti dellastessa Corte Costituzionale sui punti fondamentali degliinterventi effettuati dal legislatore in materia di pensioni eattualmente oggetto di dibattito fra le varie forze politichee sociali, si osserva quanto segue.

Blocchi temporanei della perequazione automaticadelle pensioniTali interventi sono stati ritenuti legittimi, in un primomomento, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.316 del 201015, circa il blocco integrale per l’anno 2008delle pensioni superiori ad otto volte il minimo, adottatocon il c.d. Protocollo sul Welfare (art. 1, co. 19, L. 24dicembre 2007, n. 247), per contribuire al finanziamentosolidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, conte-stualmente adottati con l’art. 1, co. 1 e 2 della medesimalegge, purché essi avessero durata temporanea (nella spe-

cie per il solo anno 2008), e non fossero reiterati nel tempo,in quanto il principio di adeguatezza è riferibile anche allepensioni più consistenti. Pertanto, il successivo blocco della perequazione automa-tica delle pensioni, proposto con l’art. 24, co. 25 del D.L.n. 201/2011, conv. con modificazioni dall’art. 1, co. 1, dellaLegge 22 dicembre 2011, n. 214, è stato dichiarato illegit-timo dalla medesima Corte con sentenza n. 70 del 201516,non essendosi il legislatore attenuto al monito contenutonella precedente sentenza di osservare i principi di propor-zionalità e di adeguatezza delle pensioni, e di evitare la fre-quente reiterazione di misure, intese a paralizzare il mecca-nismo perequativo, necessario anche per le pensioni dimaggiore consistenza, per salvaguardarle dai mutamentidel potere di acquisto della moneta.

Contributi di solidarietàL’orientamento della Corte è stato sul punto ripetutamentecontrario (v. contributo di solidarietà di cui all’ art. 9, co. 2,D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modificazioni dallaL. 30 luglio 2010, n. 122 e sentenza n. 223 del 2012)17, sot-tolineando la Corte che la pensione, stante la sua natura diretribuzione differita, merita particolare tutela rispetto adaltre categorie di redditi, sicché il contributo di solidarietà,visto come vero e proprio prelievo sostanzialmente di natu-ra tributaria, risulta con più evidenza discriminatoriorispetto ad altre categorie di reddito, venendo esso a grava-re su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, colle-gati a prestazioni lavorative già rese da cittadini, che hannoesaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risultapiù possibile ridisegnare sul piano sinallagmatico il rappor-to di lavoro. Si osserva, al riguardo, che con esso è statacolpita soltanto una categoria di redditi (quelli dei pensio-nati) in spregio al principio di uguaglianza e di solidarietàsociale attraverso una irragionevole platea di soggetti pas-sivi; infatti, mentre rispetto a tutti i cittadini tale misura (v.art. 2 del D.L. n. 238/2011) si riferisce ai redditi superioriai 300.000 euro lordi annui con un’aliquota del 3%, salvain questo caso la deducibilità dal reddito, per i soli pensio-nati pubblici sono state adottate soglie inferiori e aliquotesuperiori di imposizione fiscale.Inoltre, anche il contributo di solidarietà di cui all’art. 18,co. 22 bis del D.L. n. 298/2011 è stato dichiarato incostitu-zionale con la sentenza n. 116/201318, in base ad analogamotivazione, perché violava l’art. 3 della Costituzione,ossia il principio di uguaglianza a parità di reddito, in quan-

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to riguardava parimenti soltanto i pensionati, attraversouna irragionevole platea di soggetti passivi.Nonostante ciò, un contributo di solidarietà è stato ripropo-sto dal Governo con l’art. 1, co. 486 della Legge 24 dicem-bre 2013, n. 147, per finanziare gli interventi a favore degliesodati con le somme derivanti dalle pensioni, mentre lesomme provenienti dai vitalizi sono state destinate ad ali-mentare il fondo di garanzia per le piccole e medie impre-se, progetti di ricerca e innovazione e il fondo di garanziaper la prima casa. Esso risulta attualmente sottoposto alvaglio della Corte Costituzionale, di cui si attende nei pros-simi mesi la pronuncia, che non potrà che essere evidente-mente negativa, stanti gli analoghi presupposti del nuovoprovvedimento legislativo.

Ricalcolo con il metodo contributivo delle pensioni giàliquidate con il metodo retributivoTale possibilità, da ultimo, è stata recentemente prospetta-ta da alcune forze politiche e sociali, in base a presuntiprincipi di equità, che dovrebbero considerare, non solo ledifferenze di reddito, ma anche i rapporti intergeneraziona-li, prevedendosi pensioni più basse per i futuri pensionati,in quanto basate esclusivamente sul calcolo contributivo(Presidente dell’INPS, Tito Boeri) e ritenendo veri dirittiquesiti solo quelli derivanti dal calcolo contributivo, percui non sarebbero da escludere interventi e ripensamentisulle pensioni calcolate e già liquidate con il metodo retri-butivo (Ministro, dell’Economia, Pier Carlo Padoan).Come è noto, con il passaggio nella gestione delle varieassicurazioni sociali da sistemi di capitalizzazione a quel-li di ripartizione, l’ente previdenziale non eroga più le pre-stazioni in relazione a quanto l’assistito ha capitalizzatocon il versamento delle proprie quote, ma ripartisce i costisu tutti gli assicurati; cosicchè i lavoratori attivi sono chia-mati a finanziare con la loro contribuzione attuale anche leprestazioni in favore dei soggetti protetti non più attivi. Èquesto l’unico principio di solidarietà sociale, che è previ-sto all’interno dell’attuale sistema previdenziale e nonquello di tagliare le pensioni delle persone più anziane pergarantire maggiori pensioni a quelle delle persone più gio-vani. Infatti, l’equilibrio finanziario dei vari fondi pensio-nistici, obiettivo prioritario del riordino del sistema previ-denziale, si basa sul principio di solidarietà tra i vari fondi,affinché quelli demograficamente più deboli possanoessere sostenuti dagli altri, cioè da quelli verso i quali con-fluiscono più lavoratori attivi giovani.

Invero, il generale principio di solidarietà sociale, previstodall’art. 2 Cost., deve riguardare tutta la collettività, in rela-zione alla capacità contributiva di ciascuno, e non, perquanto riguarda il settore in esame, il taglio delle pensionipiù alte rispetto a quelle di minor importo, presenti o futu-re, con l’imposizione di contributi di solidarietà o blocchiillegittimi delle indicizzazioni delle pensioni più alte, con-siderato che ogni rapporto di lavoro ha una sua storia par-ticolare, che si è ormai esaurita nel tempo.Quindi, è proprio il contrario di quanto ritenuto da alcuneforze sociali e politiche, anche di Governo, sul principio disolidarietà, perchè esso prevede che siano, invece, i giova-ni attivi a dover sostenere le pensioni dei pensionati piùanziani, categoria demograficamente più debole nelmondo del lavoro e non l’inverso.È vero che attualmente l’importo delle prestazioni erogatein favore dei pensionati supera i contributi ricevuti dall’Inpse ciò determina uno squilibrio strutturale del sistema chedeve essere ripianato periodicamente dallo Stato mediantetrasferimenti economici agli enti previdenziali pubblici, maciò è dovuto essenzialmente al fatto che è confluita nelbilancio dell’INPS anche l’assistenza sociale, riguardante lepensioni sociali e di inabilità, che – come è noto – sonosganciate dal versamento dei contributi e che dovrebbeessere separata dalla previdenza sociale ed essere sovven-zionata da tutti i cittadini tramite la fiscalità generale.Infatti, la Corte Costituzionale (v. sentenze n. 116/2013, n.208/2014 e n. 70/2015)19 ha sempre considerato illegitti-mo il contributo di solidarietà, essendo sostanzialmente unprelievo di natura tributaria incidente sulle sole pensioni enon su tutti i redditi, realizzando così “un intervento impo-sitivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una solacategoria di cittadini”, in violazione degli artt. 2, 3, 36, 38,53 e 136 della Carta fondamentale della Repubblica (vio-lazione del principio di solidarietà sociale, violazione delprincipio di uguaglianza per irragionevolezza, violazionedel principio di proporzionalità ed adeguatezza della retri-buzione, anche differita, lesione delle garanzie previden-ziali, violazione dei principi di capacità contributiva e diprogressività). Inoltre, la medesima Corte, con le sentenze30/2004, 316/2010, 70/201520 ha anche censurato il bloc-co del meccanismo di perequazione delle pensioni, speciese ripetuto nel tempo, con la conseguente, irrimediabilevanificazione delle aspettative legittimamente maturatedai lavoratori per il tempo successivo alla cessazione dellapropria attività, in quanto il legislatore è chiamato adope-

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rare il bilanciamento tra le varie esigenze nel quadro dellapolitica economica generale e delle concrete disponibilitàfinanziarie, con il vincolo di scopo di consentire unaragionevole corrispondenza tra dinamica delle pensioni edinamica delle retribuzioni.In ogni caso, è evidente – come più volte sottolineato - chesimili interventi legislativi sarebbero, parimenti, costituzio-nalmente illegittimi, perché i diritti acquisiti in ambito pen-sionistico, così come tutti gli altri diritti quesiti, in base aisuddetti principi generali, non sono basati su un mero cal-colo economico dei contributi versati, bensì sulle regolegiuridiche, stabilite dalle leggi vigenti all’atto del colloca-mento a riposo dei lavoratori, che regolano il metodo dicalcolo delle pensioni da liquidare.

ConclusioniIn conclusione, il diritto alla pensione, quando l’impiega-to abbia diritto al collocamento a riposo, d’ufficio o adomanda, costituisce un diritto quesito di primaria impor-tanza, in base al quale il lavoratore ha diritto al trattamen-to di quiescenza, regolato dalle leggi all’epoca vigenti.Infatti, il rapporto sinallagmatico si è interamente e defini-tivamente esaurito, quanto alla prestazione del lavoratore,con la conclusione del suo rapporto di lavoro ed il versa-mento dei contributi previsti in base alle medesime leggi.Si tratta, infatti, di una retribuzione differita già prestabili-

ta e regolata dalle medesime leggi. Esso costituisce, altre-sì, un fatto compiuto, secondo la teoria del fatto compiuto(“facta praeterita”), in virtù del quale le nuove normemodificative in senso sfavorevole all’interessato non pos-sono estendere la loro efficacia ai fatti compiuti sotto ilvigore della legge precedente, benché dei fatti stessi sianopendenti gli effetti. Infatti, il relativo titolo di acquisto èassimilabile a quello di un contratto di diritto privato,istantaneo a prestazioni corrispettive, ad esecuzione diffe-rita della sola prestazione da parte dello Stato per fini pre-videnziali nell’interesse del lavoratore, la cui prestazionesi è già esaurita con la cessazione della sua attività lavora-tiva e le trattenute mensili del suo stipendio, mentre quel-la del datore di lavoro viene differita e rateizzata per solifini previdenziali nell’interesse esclusivo del medesimolavoratore, per assicurare il suo adeguamento al mutatocosto della vita nel corso del tempo rispetto al suo valorecapitale iniziale.Invero, i diritti quesiti, come i giudicati delle sentenze, siacivili che penali, costituiscono la massima espressionedello Stato di diritto e democratico, mettendo al riparo i cit-tadini dagli atti arbitrari dei Pubblici Poteri, che in casocontrario degenererebbero in regimi autoritari e dittatoria-li, rispetto ai quali i soggetti privati non avrebbero più laveste di cittadini, ma di sudditi, privi di una propria sferagiuridica, tutelata dall’ordinamento giuridico.

* Pubblicato su Lavoro e previdenza oggi,2016, n. 3-4, pag. 161.

1 V. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubbli-co, Tomo I, Parte III, Sez. II, 345. V. G.CODACCI PISANELLI, I diritti quesiti nellateoria generale Bari, 1976, Parte Prima, 9.

2 V. C. MORTATI, op. cit. G. GUARINO, Sulregime costituzionale delle leggi di incenti-vazione e di indirizzo,1961, ora in Scritti didiritto pubblico dell’economia e di dirittodell’energia , Milano, 1962.

3 V. Cass., Sez. Lav., 8 maggio 2000, n.5825, in Giust. civ. Mass., 2000, 959; v.anche Cass., Sez. Lav., 18 settembre 2007,n. 19351.

4 V., da ultimo, la sentenza 10 marzo 2015, n. 70.

5 V. Cons. Stato, Sez. IV, 14 gennaio 1999,

n. 24 e Cons. Stato, Sez. III, 26 maggio2014, n. 2673.

6 V. Cass., Sez. Lav., 18 settembre 2015, n.18408.

7 V. C. Cost. 10 gennaio 1966, n. 3, in Cons.St., 1966, II, 34; C. Cost. 3 luglio 1967, n. 78,in Cons. St., 1967, II, 494; e C. Cost. 27 dicem-bre 1973, n. 184, in Cons. St., 1973, II, 1289.

8 V. ZANOBINI, Corso di diritto amministra-tivo, II, 7a ed., Milano, 1953, 348.

9 V. C. Cost. 4 novembre 1999, n. 416 edanche n. 229/1999, n. 211/1997 n.390/1995, in Giur. Cost. it., 1999, 6.

10 V. P. VIRGA, Il provvedimento ammini-strativo, Milano, 1968, 87.

11 V. G. LANDI - G. POTENZA, Manuale didiritto amministrativo, II, 46.

12 V. Cass., Sez. Lav., 25 giugno 2007, n.14701 (Rv. 598079).

13 V. Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 1987,n. 140.

14 V. C. Cost. 26 luglio 1995, n. 390.

15 V. C. Cost. 3 novembre 2010, n. 316.

16 V. C. Cost. 10 marzo 2015, n. 70, cit.

17 V. C. Cost. 8 ottobre 2012, n. 223.

18 V. C. Cost. 3 giugno 2013, n. 116.

19 V. C. Cost. 3 giugno 2013 n. 116, cit., C.Cost. 9 luglio 2014, n. 208 e C. Cost. 10marzo 2015, n. 70, cit.

20 V. C. Cost. 13 gennaio 2004, n. 30, C.Cost. 3 novembre 2010, n. 316, cit. e C.Cost. 10 marzo 2015, n. 70, cit.

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1.Essere responsabile significa essere tenuto arispondere.Ma di che cosa e come sono tenuti a risponde-

re gli amministratori?La domanda è meno banale di quanto possa sembrare.I modelli di responsabilità sono più d’uno e variano siain senso verticale (successione nel tempo di regolediverse), sia in senso orizzontale (convivenza di regolediverse nello stesso ordinamento, o in ordinamenti dipaesi diversi, nello stesso arco di tempo).Inoltre, i criteri che permettono di distinguere tra idiversi modelli o le diverse figure di responsabilitàsono anch’essi vari (responsabilità verso dentro-versofuori; diligenza o risultato, primaria o risarcitoria).Ciò costituisce un ulteriore fattore di complicazione.

2. Il primo modello che voglio sottoporre, anche persbarazzarmene subito, in quanto storicamente e statisti-camente recessivo, almeno nel campo delle società dicapitali, è quello c.d. dell’ “accomandita”.Il riferimento, avverto subito e chiarirò meglio trabreve, non è tanto ai due tipi di società che portano que-sto nome, quanto piuttosto alla responsabilità per gliobblighi primari propria del modello.Il modello dell’accomandita è caratterizzato dal fattoche l’amministratore risponde delle obbligazioni cheassume in nome e per conto della società in solido conquesta.Quando si applica questo modello, dunque, ove l’am-ministratore comperi per esempio un bene per la socie-tà, il venditore diviene creditore del prezzo non soltan-to verso la società (che ha stipulato il contratto), maanche verso l’amministratore, (quantunque in via sussi-diaria, per l’esistenza del beneficio di escussione).Non è superfluo sottolineare meglio i caratteri insiti inquesto meccanismo:

- in primo luogo, le obbligazioni che vincolano gliamministratori sono le stesse obbligazioni primarie chevincolano la società nei confronti dei suoi creditori.

- in secondo luogo, si tratta dunque di responsabilitànon endosocietaria, o come dicono i tedeschi, nonverso il dentro, bensì verso l’esterno, verso soggettiterzi;

- in terzo luogo, quando questo regime è esteso a tuttal’attività, l’amministratore è gravato in modo imme-diato e diretto del rischio d’impresa cui è esposta lasocietà e, per giunta, è gravato di questo rischio inmaniera illimitata, ossia con tutto il suo patrimonio.

Almeno a partire dal codice di commercio Napoleone(1807), e almeno nel campo delle società di capitali(delle quali soprattutto mi occuperò), questo modellotende prima a divenire l’eccezione e non la regola (esappiamo quanto soprattutto la s.r.l. sia diventata ormaila forma generale per l’attività d’impresa – da quandopuò essere costituita e vivere indefinitamente con unsolo socio e senza capitale – ma questa è un’altra sto-ria) e, successivamente, tende addirittura a scomparire.Era ancora questo invero e fino a ieri il modello per laresponsabilità degli amministratori per la violazionedel divieto di nuove operazioni dopo lo scioglimentodella società (la norma era nell’art. 2449).Oggi, con la riforma societaria del 2003, anche que-st’ultima applicazione del “sistema dell’accomandita”è caduta.La lettura della norma abrogata giova a chiarire, a scan-so di equivoci, in che senso si parla nel nostro contestodi “modello dell’accomandita”.In questo caso l’amministratore risponde in solido conla società degli obblighi primari verso i terzi a causa delsuo inadempimento al divieto di nuove operazioni Sitratta quindi, per un verso, di una responsabilità di tiposanzionatorio, ancorchè primaria e non risarcitoria –

La responsabilità degli amministratori societari*

Carlo d’AlessandroAvvocato del Foro di Roma, Professore Università di Roma “Tor Vergata”

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Lezione tenuta in data 13 maggio 2016 nell’ambito del corso sulla Riforma delle procedure concorsuali organizzato dal Consigliodell’Ordine degli Avvocati di Roma

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siamo in una fase patologica. Per alto verso si tratta diuna responsabilità con estensione limitata, in quantotrova attuazione solamente in conseguenza delle con-travvenzioni al divieto di nuove operazioni.Gli accomandatari rispondono, com’è noto, in base alleregole fisiologiche del tipo di società prescelto. Qui laresponsabilità non è sanzionatoria – non contemplanella sua fattispecie alcun inadempimento dell’acco-mandatario – e si estende a tutta l’attività.Passiamo ora all’oggi.

3. La regola, e da oltre duecento anni, è il sistema delmandato (così si diceva una volta; e anche se adessoconcetto ed espressione sono passati di moda, a noiconviene conservarli per chiarezza espositiva).Questo sistema poggia su un duplice pilastro:a) Primo pilastro. Gli amministratori sono mandataridei soci e non rispondono se non dell’esecuzione delmandato;b) Secondo pilastro. Essi non assumono pertanto nessu-na obbligazione per gli affari sociali che amministrano.Anche qui, giova porre in luce i corollari delle dueregole appena enunciate; corollari che sono del tuttodiversi, se non opposti, rispetto a quelli del sistema c.d.dell’accomandita.- Primo corollario. Questa responsabilità è di tipoessenzialmente risarcitorio: gli amministratori sonochiamati esclusivamente a rifondere i danni che lasocietà abbia sofferto per non aver essi gestito con ladiligenza richiesta (quale e quanta questa sia è proble-ma che possiamo qui accantonare). Pertanto qui, laresponsabilità è in via di principio “verso l’interno”,ossia un affare che riguarda, nell’ambito della società,i rapporti tra soci e amministratori- Secondo corollario, logico sviluppo del primo. Se lasocietà consegue risultati magri o, addirittura, soffreperdite, ma ciò non sia dipeso da negligente assolvi-mento alle proprie funzioni da parte degli amministra-tori, nulla potrà esigersi da costoro. Pertanto qui, ilrischio d’impresa, ossia la possibilità che l’attivitàsociale non generi utili o addirittura generi perdite,grava solo sui soci (e non anche sugli amministratori).

4. È appena il caso di dire che siamo in questo casodavanti ad un’ipotesi di responsabilità contrattuale: gliamministratori rispondono verso la società dei danni da

questa sofferti a causa dell’inadempimento, o del catti-vo adempimento, del contratto di gestione (lo si vogliao no qualificare come mandato). La prescrizione è di 5anni e non la solita di 10, trattandosi di materia societa-ria: art: 2449 c.c. Ricordo inoltre che essa resta sospesafinché l’amministratore è in carica: art. 2941, n.7, c.c.Ed è appena il caso di dire anche che l’obbligazioneprimaria dalla quale gli amministratori sono vincolati,e del cui inadempimento rispondono, appartiene algenere di quelle che si chiamano di mezzi e non dirisultato (questa è una bipartizione che fa arricciare ilnaso alla dottrina più sofisticata, ma che tuttavia nonpuò farci danno e anzi ci aiuta ad intendere). Così come il medico si obbliga a curarci secondo scienzae coscienza, ma non risponde della nostra guarigione, ol’avvocato si obbliga a patrocinare al meglio la nostracausa, ma non anche a farcela vincere, così l’amministra-tore si obbliga a gestire diligentemente l’attività impren-ditoriale della società, avendo come obbiettivo di fareutili, ma non è vincolato a garantire che utili ci sarannoeffettivamente, e nemmeno che non ci saranno perdite.Un’altra maniera di presentare questa affermazione,forse più alla moda, anche perché utilizza l’inglese, èl’enunciazione della famosa business judgement rule.Il giudice, chiamato a decidere la causa di responsabi-lità contro l’amministratore non può sindacare le scelteimprenditoriali del convenuto (tra l’altro col facilesenno del poi). Del resto, come dice Woody Allen, le previsioni sonodifficili, specie quelle che riguardano il futuro, e poichénessuno possiede la palla di vetro, non si può rimpro-verare all’amministratore di aver fatto quello che expost si rivela un cattivo affare. Il giudice non può insomma fermarsi alla semplice con-siderazione delle conseguenze pregiudizievoli dellascelta e per ciò solo dire che il convenuto ha sbagliatoed è tenuto a risarcire (l’amministratore, ripeto, non ètenuto a garantire che vi siano utili). Cosa deve fare dunque il giudice?Il giudice deve limitarsi a stabilire se l’amministratorefece all’epoca quelle scelte avendo soppesato con ladovuta diligenza le probabilità dei costi e dei beneficiche queste avrebbero potuto comportare. E può condan-nare l’amministratore solo se questo non ha usato gliaccorgimenti che un soggetto diligente avrebbe adottatoper ridurre le probabilità di un risultato negativo.

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5. Quella appena riferita è la regola generale dellamateria, ma non si deve pensare che essa non soffraeccezioni, alcune delle quali sono molto importanti.Una prima eccezione, del resto ovvia, è la seguente.Faccio riferimento, non più al generico dovere di gesti-re con diligenza, bensì ai casi in cui sia previsto undovere specifico di compiere o non compiere determi-nati atti. In questi casi l’obbligazione non è più di mezzi, bensìdi risultato. Così, per esempio, se l’amministratore eratenuto a fare una certa denuncia fiscale, ma non la fa, ola fa in ritardo, e per effetto di ciò la società debbapagare una sanzione, non vi è dubbio che questo debbasenz’altro rispondere dei danni sulla sola base dellaverificazione degli stessi (non si fa qui pertanto nessu-na indagine sulla diligenza; l’inadempimento è costi-tuito dal mancato rispetto dell’obbligo specifico; sequesto genera danni, essi devono essere risarciti).

6. Le altre due importanti eccezioni che vorrei segna-lare non sono probabilmente altro che ulteriori manife-stazioni della prima: casi di violazione di obblighi spe-cifici.Il primo caso si lega all’istituto dell’oggetto sociale,ossia alla specifica attività che i soci si sono ripromes-si di svolgere in comune (che deve essere indicata nelcontratto di società-statuto).Ebbene, la gestione degli amministratori non può var-care i confini segnati dall’oggetto sociale (arg. ex artt.2380 bis e 2384 c.c.)Così, se per esempio l’oggetto sociale è la produzionedi motociclette, l’amministratore (per quanto goloso)non può acquistare uno stabilimento per la produzionedi dolciumi da forno (e, naturalmente, viceversa).Le norme introdotte in ossequio alla prima direttiva euro-pea di armonizzazione della materia societaria hannodefinitivamente chiarito che, ove l’amministratore, con-travvenendo ai propri doveri, compia un atto estraneoall’oggetto sociale (ultra vires, come si dice), questo vin-cola tuttavia la società (oggi art. 2384 c.c., II co.). In via di principio, dunque, nell’esempio fatto sopra, laDucati non può, dopo aver cacciato l’amministratore,impugnare l’acquisto della fabbrica di panettoni e rifiu-tarsi di pagarne il prezzo.Tuttavia, quell’acquisto costituisce un inadempimentodell’amministratore e, se ne derivano danni per la

società (ad esempio se la vendita di panettoni va in per-dita) questo è obbligato senz’altro a risarcirli.Mi preme chiarire: anche in questo caso, trattandosi diviolazione di obbligo specifico, non vengono più inconsiderazione né la diligenza né la business judge-ment rule. L’amministratore non può cioè sottrarsi aresponsabilità dimostrando di avere studiato con gran-dissima diligenza l’affare e che questo, secondo ogniragionevole previsione, si profilava come eccellente.Su di lui si trasferisce invece qui intero e incondiziona-to il rischio di impresa, perché nella specie si tratta dirischio diverso da quello che i soci avevano volutoassumersi (la fabbricazione di motociclette) ....e all’in-terno del quale, in base al contratto di gestione, l’am-ministratore avrebbe dovuto contenere l’attività.

7. Il secondo caso di responsabilità per violazione diobblighi specifici è di grande importanza, specie nellaprospettiva delle procedure concorsuali.La legge, è noto, stabilisce che le società di capitali, perle cui obbligazioni i soci non rispondono, debbano incompenso avere alla loro costituzione, e manteneredurante tutta la loro esistenza, un loro capitale. L’entitàdi questo capitale deve risultare dal registro delleimprese e non può essere inferiore ad un minimo previ-sto dalla legge stessa.Invero, il capitale rappresenta i mezzi propri, le risorseinvestite dai soci nell’impresa comune. Se il capitale nonci fosse, l’attività imprenditoriale della società si svolge-rebbe a rischio esclusivo dei terzi, cioè dei creditori.Per evitare dunque che il rischio di impresa sia trasfe-rito dai soci ai creditori, la legge detta tutta una serie diregole, intese a far sì che la garanzia rappresentata dalcapitale sussista ed abbia effettivamente la consistenzapubblicamente indicata (a dire il vero queste regole,tradizionalmente molto severe, mostrano da qualchetempo in qua una spiccata tendenza al rilassamento: maanche questa è un’altra storia).Ebbene, tra queste regole c’è quella secondo la quale,quando la società subisca perdite che intacchino il capi-tale per oltre un terzo, e ove per effetto di queste perdi-te il capitale risulti inferiore al minimo legale, si aprefondamentalmente un bivio: o i soci ricapitalizzano lasocietà con nuovi conferimenti, o l’attività deve cessa-re e la società deve essere liquidata (artt. 2447 e 2484,n.4, c.c.; per la verità il bivio sarebbe un trivio, perché

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sussiste anche la possibilità di trasformazione in socie-tà di persone, dalla quale prescindo per semplicità).La scelta tra queste due-tre opzioni compete natural-mente ai soci. Ma, è questo il punto, nelle more della decisione è pre-scritto che gli amministratori arrestino l’attività, ossia,come si diceva una volta, non pongano in essere“nuove operazioni” (art. 2486, I co., c.c.).Qui abbiamo dunque una situazione assimilabile a quel-la degli atti estranei all’oggetto sociale: ci sono degli atti,o c’è un’attività, che agli amministratori è fatto divieto diporre in essere (un semplice “obbligo di non fare”). L’inadempimento, di cui essi sono chiamati a risponde-re, non consiste quindi nell’aver agito negligentementelà dove si chiedeva loro di comportarsi con diligenza,ma nell’aver agito tout court là dove si chiedeva loro dinon agire.In altre parole, qui si risponde non del cattivo eserciziodi poteri che si hanno (mala gestio-negligenza), madell’esercizio di poteri di cui non si dispone, esatta-mente come abbiamo visto per l’atto estraneo all’og-getto sociale. Pertanto, sia per l’atto che esorbita dal-l’oggetto sociale, sia per l’atto in violazione del divie-to di nuove operazioni, il modello di responsabilitàdegli amministratori ricalca quanto abbiamo visto perla violazione dell’obbligo specifico.Ne consegue che, se l’atto o l’attività sono forieri didanni, gli amministratori saranno chiamati senz’altro arisarcirli, né varrà eccepire che si trattava di iniziativecon ogni diligenza valutate come proficue. Ho detto che questo caso è particolarmente importantedal punto di vista delle procedure concorsuali. In effet-ti, prima che il dissesto sia conclamato e arrivi in tribu-nale, c’è quasi sempre una fase di crisi più o menolunga, contrassegnata da forti perdite. E durante questafase è frequente vedere gli amministratori contravveni-re al precetto legale dello stand-by e così rendersiresponsabili di ulteriori perdite.Prima di andare avanti, permettetemi a questo di ricor-dare di nuovo che il problema di cui ho appena dettoera fino a ieri disciplinato sulla base di quello che hochiamato il modello dell’accomandita (è il 2449 ante-riforma).È solo con la riforma del 2003 che, abbiamovisto, la questione è divenuta (esclusivamente) risarci-toria (cfr. combinato disposto degli artt. 2486, II co., e2484 n.4).

8. Passando oltre, è luogo comune quello della scarsaapplicazione pratica dell’azione sociale di responsabilità.L’amministratore è emanazione dei soci o della loromaggioranza, quando pure non si identifichi con questi,e spesso, specie nelle società minori, agisce in strettocollegamento e d’accordo con la proprietà (il caso limi-te, peraltro oggi assai diffuso, è quello della s.r.l. conunico socio che è anche amministratore unico). È pertanto difficile che la società lo chiami a risponde-re di un operato che la stessa frequentemente ha auto-rizzato se non addirittura imposto.La legislazione, soprattutto recente, si fa carico di que-sto problema e prevede, a seconda dei casi e del gene-re di società, la legittimazione a volta a volta dell’am-ministratore giudiziario nominato dal tribunale in pre-senza di gravi irregolarità (art. 2409 c.c., peraltro dialmeno dubbia applicabilità alla s.r.l.), la legittimazio-ne del collegio sindacale (art. 2393, III co., c.c.) o lalegittimazione di una minoranza di soci qualificata (art.2393 bis c.c.).Particolarmente importante, almeno a prima vista, èperciò la legittimazione dei creditori (art. 2394 c.c.).Molto si discute se l’azione di responsabilità propostadai creditori sia un’azione autonoma oppure sia lamedesima azione sociale esercitata in via surrogatoria(art. 2900 c.c.), come io inclino a credere.La discussione difficilmente avrà fine, perché vi sonoelementi che depongono in un senso ed elementi chedepongono in senso opposto.Resta comunque una struttura che denuncia una paren-tela assai stretta con quella dell’azione surrogatoria (ilcreditore che agisce nei confronti del debitor debito-ris). E resta che forse la questione non è di grandissimorilievo pratico.E del resto non è di grandissimo rilievo pratico neanchela stessa azione dei creditori, indipendentemente dalladisputa sulla sua natura.La ragione che mi induce a presentare come modestal’importanza, oltre che dell’azione sociale, anche del-l’azione di responsabilità promossa dai creditori siscorge nel secondo comma dell’art. 2394 c.c..Questo rende possibile l’azione stessa solo quando ilpatrimonio sociale risulta insufficiente a soddisfare leragioni dei creditori medesimi.Al di là dei profili tecnico-dogmatici, che in questomomento interessano poco (altrimenti dovremmo chie-

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derci se lo squilibrio patrimoniale sia la stessa cosa del-l’insolvenza-illiquidità – come definita dall’art. 5 l.fall., e dovremmo forse darci risposta negativa) apparefacile profetizzare che una società i cui beni non basti-no a garantire le ragioni dei creditori sarà assai proba-bilmente destinata a fallire ben presto.E una volta dichiarato il fallimento, la palla – più tec-nicamente: la legittimazione – passa al curatore (e sepoi il giudizio fosse già stato avviato, esso si interrom-perà per essere eventualmente riassunto dal curatore).Curatore il quale, secondo un pensiero che, nonostante lecritiche della dottrina più raffinata, rimane universalmen-te diffuso, ha due giacche: da un lato, “rappresenta”,come dicono i pratici, il debitore (giacciono su questopiano le azioni per recuperare attivo ricompreso nel patri-monio del debitore: rivendiche, riscossione di crediti e lastessa azione ex art. 2393 c.c.); dall’altro lato, “rappresen-ta” invece la massa dei creditori (pensiamo soprattuttoall’impugnazione, con l’azione revocatoria, degli atti infrode o all’azione di responsabilità ex art. 2494 c.c.). Nel nostro contesto, questo significa che egli può agirecontro gli amministratori della società fallita sia utiliz-zando l’azione di responsabilità sociale, sia utilizzandoquella dei creditori, sia, perfino, utilizzandole entrambecontemporaneamente (e magari, anche se questo è didubbia correttezza, invocando ora le regole dell’una,ora quelle dell’altra, a seconda di quanto contingente-mente gli faccia più comodo).

9. Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su untema apparentemente eccentrico rispetto alla materiatrattata fin qui, ma in realtà con essa strettamente con-nesso, oltre che di grande interesse teorico e pratico.Mi riferisco alla figura della responsabilità da “direzio-ne e coordinamento” prevista dall’art. 2497 ss. c.c.(figura relativamente nuova, in quanto introdotta dallariforma societaria del 2003).In estrema sintesi: le “società” (o “enti”) che esercitano inmodo scorretto attività di “direzione e coordinamento” dialtra società sono responsabili dei danni così prodotti.L’aggancio con l’oggetto della mia relazione si trovanel secondo comma dell’art. 2497 c.c., là dove si san-cisce la responsabilità solidale di chi abbia “comunquepreso parte al fatto lesivo”.Questa clausola viene infatti correntemente riferita, tral’altro, sia agli amministratori della società soggetta a

“direzione e coordinamento” di altra, sia a quelli diquest’ultima (sia agli amministratori della controllata-dominata, sia agli amministratori della controllante-dominante).Di questa disciplina, molto complessa, molto proble-matica, risultante da norme scritte in modo che è uneufemismo definire contorto, potrò dire veramentepochissimo.È certo che essa è di portata potenzialmente assaiampia, specie in ragione di quanto disposto dall’art.2497 sexies: in presenza di un rapporto di controllo,come definito dall’art. 2359 c.c., si presume che lasocietà controllante sia anche dominante, cioè che eser-citi attività di direzione e coordinamento della societàcontrollata. Società controllata che pertanto deve dirsi,secondo il gergo invalso nella materia, eterodiretta.Abbiamo qui una prima tripla anomalia.Prima anomalia. Uno dei pilastri portanti, delle bandie-re della riforma societaria del 2003 era la netta separa-zione tra proprietà e gestione.L’assemblea, cui era uso un tempo riferirsi come all’orga-no sovrano, il titolare originario di ogni potere, non è piùtale, o, al più, è un sovrano che regna, ma non governa. Oggi infatti l’assemblea è un organo equiparato aglialtri, con la propria sfera specifica, e non generica, dicompetenze, tra le quali di regola non rientra alcuna diquelle gestorie.Per altro verso, l’organo amministrativo è titolare origi-nario (cioè non per delega dei soci) ed esclusivo delleattribuzioni gestorie, superiorem non recognoscens intale sua specifica sfera di competenza (art. 2380 bis c.c.).Partendo da queste premesse, appare strana la presun-zione che a menare la danza sia la società controllante(dunque, in linea di massima, il socio maggioritario: v.art. 2359 c.c.); quasi si fosse tornati ai tempi in cui ilmassimo giuscommercialista dell’epoca (Vivante) scri-veva che la volontà dell’assemblea era legge per gliamministratori, suoi mandatari.Seconda anomalia. Appare strano che comunque si pre-suma che gli amministratori siano telecomandati dalsocio di controllo se questo è una società; no, invece, seè una persona fisica.Terza anomalia. La terza anomalia attiene alla legitti-mazione ad agire per far valere la responsabilità di cuisi tratta.Secondo i principi generali apparentemente tenuti

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fermi anche dal legislatore del 2003, quando le male-fatte dell’amministratore danneggiano la società, è que-sta, e di regola solo questa, legittimata ad agire perchiedere il risarcimento (o al più lo sono i soci o i cre-ditori che agiscono utendo iuribus della società). Èvero che quelle malefatte colpiscono indirettamenteanche ciascuno dei soci, che appunto indirettamente hainteresse all’integrità patrimoniale e reddituale dellasocietà. Ma questo interesse indiretto non basta a legit-timarli in proprio, anche perché esso è comunque sod-disfatto attraverso l’azione sociale.Qui, invece, troviamo che, nonostante il danno sia subi-to dalla società, la legittimazione – si badi: diretta e nonsurrogatoria – compete al socio (art. 2497, I co., c.c.;salvo poi, anomalia nell’anomalia, passare al curatorein caso di fallimento). Al di là di questo, voglio segnalare (e chiudo) due puntidella disciplina che mi sembrano particolarmente oscu-ri e dubbi.Il primo punto attiene al rapporto tra l’attività di dire-zione e coordinamento (e dunque di etero-gestione) e ilsingolo atto dannoso e scorretto (“contrario ai principidi corretta gestione societaria e imprenditoriale”, dicela legge).Mi chiedo: provata, magari con l’aiuto della presunzio-ne di cui ho detto (ma si consideri che la società eterodiretta è addirittura tenuta a rendere pubblica tale qua-lità mediante iscrizione nel registro delle imprese: art.2497 bis c.c.), l’eterodirezione sistematica, devo anco-ra provare che quel singolo atto scorretto e dannoso siastato compiuto per impulso della società dominante?E se la risposta fosse sì, come spiegare la necessità diprovare che colui che ubbidisce sempre agli ordiniabbia ubbidito a un ordine anche in questo caso?Ubbidienza sempre non equivale forse a ubbidienzatutte le volte?Ma poi, e soprattutto, se mi incombe l’onere di prova-re l’ubbidienza specifica, che ruolo può avere la sussi-stenza (e la prova) di un’ubbidienza sistematica?Il secondo punto attiene al requisito, che si legge sem-pre nell’art. 2497 c.c., secondo il quale l’atto della

società dirigente, per essere fonte di responsabilità,deve essere compiuto “nell’interesse imprenditorialeproprio o altrui”.Ad una prima lettura, il sintagma mi parve ridondante. Nessuno agisce se non mosso da un interesse, che nor-malmente è il proprio, ma che potrà in qualche casoessere anche altrui.E pleonastica mi era anche sembrata la qualificazionecome “imprenditoriali” di quegli interessi, giacché citroviamo sul terreno del diritto societario, ossia, comeuna volta si diceva diffusamente, dell’esercizio collet-tivo di un’attività d’impresa.Ad una riflessione meno estemporanea, sollecitataanche dal canone secondo il quale, se la legge usa unadeterminata espressione, si deve dare ad essa un signi-ficato, mi ha colpito un’assonanza. Il linguaggio impie-gato è lo stesso che utilizza l’istituto del conflitto diinteressi (nelle sue varie manifestazioni).Ciò che dunque si vuole colpire, secondo questa ipote-si interpretativa, sarebbe appunto un agire in conflittodi interessi.La società dominante risponde non già di una genericamala gestio imposta alla società dominata (operazioniimposte in modo incauto, avventato, negligente ecc.).Essa risponde bensì di una mala gestio costituita daoperazioni intese ad avvantaggiare la società dominan-te (o altra entità cui questa fosse interessata) a spese diquella dominata.Mi limito ad aggiungere che a questo punto si porrebbe-ro tra l’altro ulteriori difficoltà di conciliazione con lanorma dell’art. 2476, VII co., c.c., che, in tema di s.r.l.,chiama a rispondere in solido con gli amministratori,puramente e semplicemente (cioè senza che occorraaltro) i soci che hanno deciso o autorizzato atti dannosicompiuti da quelli (questa fattispecie, per un caso analo-go a quello disciplinato dall’art. 2497 c.c., ha un’inten-sione molto meno ricca, e dunque maggiore estensione).Ma si tratta di problemi di grande delicatezza che possoqui solo sfiorare.Onde non mi resta che ringraziarvi dall’attenzione efermarmi a questo punto.

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Dopo circa 30 anni di dibattiti, il via libera defi-nitivo dell’Aula della Camera alla nuovalegge sulle unioni civili e sulle convivenze ha

inserito nel nostro ordinamento discipline specifiche 1) per la conclusione e la risoluzione dei contratti di

convivenza:;2) e per la costituzione e soprattutto per lo scioglimen-

to delle unioni civili.Ed è così che l’Italia ha risposto al richiamo dellaCEDU del 2010 sul principio che “una coppia omoses-suale convivente con una stabile relazione di fatto,rientra nella nozione di vita familiare, proprio come virientrerebbe la nozione di una coppia eterosessualenella stessa situazione”:le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono stateesplicitamente definite quale specifica formazionesociale (con una connotazione alquanto scriminante) aisensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione ed è stata isti-tuita una procedura ad hoc sia per la loro fase costituti-va sia per la loro fase disgregativa.Dunque è vero che l’inquadramento costituzionale deitemi delle convivenze di fatto e delle unioni civili attra-verso gli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione non potevatrovare altra possibile tutela se non nelle “formazionisociali” di cui all’art. 2 Cost. e nei principi di ugua-glianza e di non discriminazione di cui all’art. 3 Cost.;lascia, tuttavia, un po’ perplessi, come accennavo, l’in-troduzione di un nuovo “meccanismo” per le fasi dellaloro costituzione e soprattutto della loro disgregazioneche:i) in parte richiama il procedimento della separazio-

ne e del divorzio;ii) in parte deriva dall’istituto delle negoziazioni assi-

stite di cui al D.L. 132/2014;iii) in parte anticipa il cosiddetto “divorzio diretto” di

cui al ddl n. 1504 bis in corso di esame allaCommissione al Senato, ddl che prevede che loscioglimento o la cessazione degli effetti civili del

matrimonio possa altresì essere richiesto conricorso congiunto all’Autorità Giudiziaria anchein assenza di separazione legale (quando non visiano figli minori, figli maggiorenni incapaci oportatori di handicap grave ovvero figli di età infe-riore ai ventisei anni economicamente non auto-sufficienti).

La legge costituisce sicuramente un passo in avanti poi-ché contribuisce a colmare un vuoto normativo che haprodotto in questi anni evidenti e numerosi casi didiscriminazioni.E tuttavia può ritenersi sommessamente che ilLegislatore abbia perso un’occasione per fare chiarez-za nel nostro ordinamento, continuando ad aggiungereal mare magnum di procedure, nuove situazioni chenon fanno altro che confondere non solo gli operatoridel diritto ma soprattutto gli utenti finali delle leggi,ossia i cittadini. Senza sottovalutare che questi meccanismi finisconoinevitabilmente per gravare di ricorsi le aule deiTribunali (già numerosi e destinati a moltiplicarsi adismisura), concludendosi in un “contrasto” alladegiurisdizionalizzazione ed agli interventi per losmaltimento dell’arretrato civile.E allora, secondo la nuova legge1) l’unione civile non è un matrimonio, ma una

«specifica formazione sociale» composta dapersone dello stesso sesso;

2) mentre la convivenza di fatto viene posta in essereda una coppia formata da “due persone maggiorenniunite stabilmente da legami affettivi di coppia e direciproca assistenza morale e materiale, nonvincolate da rapporti di parentela, affinita ̀ oadozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

La convivenza di fatto, può riguardare, dunque, tantocoppie eterosessuali quanto coppie omosessualimaggiorenni. I conviventi di fatto possono, poi, disciplinare i rap-

Il momento disgregativo delle relazioni familiaridiverse dal matrimonioSamantha LuponioAvvocato del Foro di Roma, Delegato OUA – Segretaria Commissione Famiglia OUA

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porti patrimoniali relativi alla loro vita in comunecon la sottoscrizione di un contratto di convivenza.Tralasciando i diritti e i doveri nascenti dalle neo isti-tuite relazioni, prima di passare a esaminare i modi incui esse possono sciogliersi (unioni civili) o risolversi(contratti di convivenza), un cenno è necessario almodo in cui, per ricevere protezione giuridica, essedevono essere costituite.

Unioni civili – costituzioneSecondo la nuova legge, la costituzione di una unionecivile avviene mediante 1) dichiarazione resa, alla presenza di due testimo-ni, da due persone maggiorenni dello stesso sesso difronte all’ufficiale di stato civile che provvede allaregistrazione degli atti di unione civile nell’archiviodello stato civile.Il documento attestante la costituzione del vincolo devecontenere i dati anagrafici delle parti, l’indicazione delloro regime patrimoniale (comunione o separazione deibeni) e della loro residenza, oltre che i dati anagrafici ela residenza dei testimoni.A differenza di quanto previsto per il matrimonio, perl’unione civile non sono contemplate lepubblicazioni, quindi non potranno avere luogo leopposizioni previste per il matrimonio.Il regime patrimoniale dell’unione civile, in mancan-za di diversa convenzione patrimoniale, è costituitodalla comunione dei beni.Ipotesi del tutto residuale ritengo, ma comunqueprevista, è poi quella della2) Trasformazione “automatica” del matrimonio inunione civilerecependo il dictum della Corte costituzionale (senten-za 11 giugno 2014, n. 170), il comma 27 della nuovalegge prevede una ipotesi particolare di costituzione diunione civile: quella derivante dal matrimonio; se, infatti, dopo la rettificazione di sesso, i coniugimanifestano la volontà di non sciogliere il matrimonioo non cessarne gli effetti civili, questo si trasformaautomaticamente in unione civile tra persone dellostesso sesso.Per quanto attiene il momento disgregativo:

Unioni civili – scioglimentoSono previste le seguenti ipotesi di scioglimento del-

l’unione civile, che riprendono gran parte della norma-tiva relativa al divorzio (L. 898/1970):1. per morte o dichiarazione di morte presunta di unadelle parti;2. ipotesi “automatica”: a seguito della sentenza direttificazione di attribuzione di sesso di una delle parti;3. consensualmente attraverso la negoziazione assi-stita (art. 6 d.l. 132/2014 conv. dalla l. 162/2014);4. consensualmente attraverso la procedura semplifi-cata davanti al sindaco quale ufficiale di stato civile(art. 12 d.l. 132/2014 conv. dalla l. 162/2014); in talcaso, diversamente da quanto stabilito per il matrimo-nio, la domanda di scioglimento va proposta decorsi tremesi (e non 30 giorni) dalla data in cui tale volontà èstata manifestata anche disgiuntamente dalle parti sem-pre dinanzi all’Ufficiale di Stato civile (comma 24);5. consensualmente o giudizialmente attraversoricorso all’Autorità Giudiziaria con il cd divorzio“diretto” nella gran parte delle ipotesi in cui può esserechiesto il divorzio da uno dei coniugi (art. 3, n. 1 e n. 2,lett. a), c), d) ed e) legge 898/1970), fatta eccezione perla lettera b) del n. 2 art. 3 ossia l’ipotesi “classica” dipassaggio in giudicato della sentenza di separazione; èquindi stata prevista una sorta di anticipazione di divor-zio diretto, dal momento che non è previsto il periodo diseparazione che necessariamente precede il divorzio peri casi di scioglimento del vincolo matrimoniale.A differenza dei coniugi, le parti unite da unione civilenon potranno chiedere lo scioglimento per la mancataconsumazione del rapporto.Per altro verso, gran parte della disciplina della leggesul divorzio viene estesa alle unioni civili (tra esse, sisegnala;• l’obbligo di una delle parti di somministrare perio-

dicamente un assegno di mantenimento a favoredell’altro quando quest’ultimo non abbia mezzi ade-guati o comunque non possa procurarseli per ragio-ni oggettive;

• la possibilità di rivedere l’entità dell’assegno qua-lora sopravvengono giustificati motivi;

• la possibilità di imporre all’obbligato di prestareidonea garanzia reale o personale se esiste il perico-lo che egli possa sottrarsi all’adempimento degliobblighi;

• la sua responsabilità penale – ex art. 570 c.p. – ovesi sottragga alla corresponsione dell’assegno;

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• il diritto ad una percentuale dell’indennità di finerapporto percepita dall’altro coniuge all’atto dellacessazione del rapporto di lavoro, nonché le dispo-sizioni processuali in materia di famiglia e statodelle persone (libro quarto, titolo II, c.p.c.).

Contratti di convivenzaDue persone maggiorenni, eterosessuali o dello stessosesso (non vincolate da rapporti di parentela, affinità oadozione, da matrimonio o da unione civile, unite sta-bilmente da legami affettivi di coppia e di reciprocaassistenza morale e materiale, coabitanti ed aventidimora abituale nello stesso comune) possono discipli-nare i loro rapporti patrimoniali attraverso unaccordo di convivenza.L’accordo, così come la sua eventuale modifica orisoluzione devono avere forma scritta (a pena di nul-lità); si stabilisce che essi possono farsi per1A) atto pubblico1B) scrittura privata autenticata da un notaio o da

un avvocato che, oltre ad autenticarne le firme,dovranno attestare la conformità dell’accordo allenorme imperative e all’ordine pubblico.

Ai soli fini dell’opponibilità ai terzi, il Notaio ol’Avvocato intervenuti nella redazione dell’attodovranno trasmettere ENTRO 10 GIORNI una copiadell’accordo al Comune di residenza dei conviventiper l’iscrizione all’anagrafe, con l’indicazione dell’in-dirizzo di ciascuno di essi al quale saranno effettuate lecomunicazioni inerenti il contratto.

Contratto di convivenza – risoluzioneLa nuova legge prevede 4 ipotesi di risoluzione delcontratto di convivenza:1) morte di una partein tal caso il convivente superstite o gli eredi del dece-duto dovranno notificare l’estratto dell’atto di morte alprofessionista (notaio o avvocato) che ha ricevuto oautenticato il contratto di convivenza affinché provve-da ad annotare a margine del contratto l’avvenuta riso-luzione del contratto e a notificarlo (il contratto conquesta annotazione) all’anagrafe del comune di resi-denza (comma 63);la disposizione potrebbe creare qualche problemaapplicativo nel caso in cui il professionista che avevaricevuto e autenticato il contratto di convivenza abbia

poi cessato la propria attività (o sia venuto a mancareperché deceduto). In tal caso, mi chiedo chi sarà il destinatario della noti-fica e di conseguenza chi debba provvedere agli adem-pimenti previsti a carico del professionista.2) recesso unilateraleAnche in tal caso la parte che intende recedere dovràrivolgersi ad un notaio o ad un avvocato che provvederà entro 10 giorni a trasmettere copia del

recesso al Comune di residenza per l’iscrizioneall’anagrafe;

notificare una copia del recesso all’altro contraente.Se la casa di abitazione è nella disponibilità del rece-dente, a pena di nullità, la dichiarazione di recessodovrà contenere il termine (almeno 90 giorni) concessoall’altro per lasciare l’abitazione (comma 61); 3) per accordo delle parti, formalizzato con le mede-sime formalità previste per la conclusione del contratto(forma scritta; atto pubblico o scrittura privata autenti-cata da notaio o avvocato che dovrà provvedere, al soli-to, entro i successivi 10 giorni, a trasmetterlo alComune di residenza per l’iscrizione all’anagrafe).In tali casi, se i conviventi avevano scelto la comunio-ne legale dei beni – analogamente a quanto accade incaso di omologazione di separazione consensuale – siha l’automatico scioglimento della comunione. A tale proposito, la legge fa esplicito riferimento, inquanto compatibili, alle disposizioni del codice civileche regolano la comunione legale nel matrimonio (artt.177-197) e prevede esplicitamente che, se dal contrattodi convivenza derivavano diritti reali immobiliari, altrasferimento degli stessi deve provvedere un notaio.4) matrimonio o unione civile tra i medesimi convi-venti ovvero matrimonio o unione civile tra uno deiconviventi ed una terza persona. In questo caso, il comma 62 della Legge prevede che“la parte che ha (GIA’!) contratto il matrimonio ol’unione civile deve notificare l’estratto di matrimonioo di unione civile:• all’altro contraente;• al professionista che aveva ricevuto o autenticato il

contratto di convivenza”.E allora, anche in questo caso, la disposizione potrebbecreare il medesimo problema applicativo a cui ho fattocenno nel caso della risoluzione per causa di morte,ossia che il professionista che abbia ricevuto e autenti-

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cato il contratto di convivenza abbia poi cessato la pro-pria attività o sia morto. A chi andrà notificato alloral’atto e chi provvederà ai relativi adempimenti?Ulteriori problemi applicativi potrebbero derivare dallamancata specificazione del momento risolutivo delcontratto di convivenza, nel caso del nuovo matrimonioo unione civile di un contraente con una terza persona,poiché non si comprende se la risoluzione avvengaautomaticamente per effetto del nuovo matrimonioovvero dalla notifica dell’estratto di matrimonio.È evidente che le due soluzioni comporterebbero diver-se conseguenze rispetto all’eventuale regime patrimo-niale scelto dai contraenti.

Diritto agli alimentiIl comma 65 disciplina, alla cessazione della conviven-za di fatto, il diritto agli alimenti. Il diritto del convivente a ricevere dall’altro gli alimen-ti, ove non già previsti nell’accordo di convivenza,deve essere affermato da un Giudice in presenza deiseguenti presupposti (mutuati dall’art. 438 del codicecivile):• il convivente versi in stato di bisogno;• il convivente non sia in grado di provvedere al pro-

prio mantenimento.La durata dell’obbligo alimentare, determinato dalGiudice, è proporzionato alla durata della convivenza; la misura degli alimenti è quella prevista dal codicecivile (art. 438, secondo comma, che individua comeparametro il bisogno di chi domanda e le condizionieconomiche di chi deve somministrarli, specificandoche gli alimenti non devono superare quanto sia neces-sario per la vita dell’alimentando, avuto riguardo allasua posizione sociale). La riforma antepone l’obbligo alimentare dell’ex-con-vivente a quello che già grava (per legge) sui fratelli ele sorelle della persona in stato di bisogno.

Considerazioni finaliEntro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, ilGoverno dovrà adottare uno o più decreti legislativiper adeguare l’ordinamento dello stato civile preve-dendo l’applicazione della disciplina dell’unione civilesame sex regolata dalle leggi italiane alle coppie chehanno contratto all’estero matrimonio, unione civile oun istituto analogo.

Un dpr conterrà le norme transitorie per i registri nel-l’archivio dello stato civile.In una prima stesura del ddl, era stato previsto che soloi Notai fossero deputati alle attività relative ai contrat-ti di convivenza.Trattandosi di materia di diritto di famiglia di esclusivacompetenza dell’Avvocatura sia per la consulenza lega-le connessa, sia per l’assistenza stragiudiziale comun-que associata all’attività giudiziale è stata fatta unabattaglia in tale senso ed è accolto favorevolmentedall’Avvocatura il ruolo riconosciuto in tale ambitoagli avvocati.Oltre all’art. 5 sulla stepchild adoption, con il maxie-mendamento sono scomparsi alcuni rimandi al codicecivile sul matrimonio, come l’obbligo di fedeltà per leunioni civili. Per le convivenze riconosciute fra eterosessuali gliobblighi reciproci sono minori e manca ad esempio lareversibilità.La nuova legge insomma pone molti quesiti e suscitanegli operatori non poche preoccupazioni, poichè intro-duce dei meccanismi complicati per le convivenze, tal-volta anche onerosi.In definitiva, pur dovendosi riconoscere che ilLegislatore ha inteso adeguarsi alle discipline giuridi-che di settore già vigenti da molti anni in quasi tutti ipaesi europei, siamo davvero indietro con il problemadelle adozioni!Lo stralcio della step child ha determinato solo unennesimo rinvio della tutela dei bambini.C’è da mettere mano all’intero impianto delle adozio-ni, aggiornarlo, rivederlo, semplificarlo, porsi il proble-ma delle adozioni per i single. Con un unico faro: la‘tutela dei bambini’.Per quanto attiene al ddl Cirinnà come approvato, nonpossiamo che rimandare a un momento futuro una piùspecifica analisi dei nuovi istituti, soprattutto per veri-ficare quale sarà l’impatto di essi nella società e qualicriticità tali istituti potranno presentare nella loro appli-cazione pratica.

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7. La versione italiana del fiscal compact. Il pareg-gio di bilancio: o meglio, l’equilibrio di bilancio...Dopo le conclusioni raggiunte nel “patto Europlus” del201139, lo Stato italiano ha sottoscritto il trattato fiscalcompact il 2 marzo 2012, successivamente recepito conla legge 23 luglio 2012 n. 114. In contemporanea, il Parlamento ha modificato laCostituzione con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1. Il fiscal compact vincola gli Stati firmatari ad introdur-re il principio di pareggio o l’avanzo di bilancio con«disposizioni vincolanti e di natura permanente – pre-feribilmente costituzionale» o il cui rispetto sia “inaltro modo rigorosamente garantito lungo tutto il per-corso nazionale di bilancio” (art. 3; e preambolo 2).Ragione per cui, si è giustamente detto, non si ritieneobbligatoria la modifica costituzionale per garantire ilrecepimento del fiscal compact40. Quel che è accaduto,comunque, è che la legge costituzionale n. 1/2012 non

ha introdotto il pareggio di bilancio né l’avanzo, mal’equilibrio di bilancio (art. 81) e l’obbligo della soste-nibilità del debito per la p.a. senza indicazione di unmeccanismo automatico di correzione (art. 97). La legge costituzionale 1/2012 – all’art. 1, comma 6 –ha in particolare introdotto “[...] le norme fondamenta-li e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entra-te e le spese dei bilanci e la sosteni bilità del debito delcomplesso delle pubbliche amministrazioni...”. Ilriscritto art. 81 della Costituzione afferma per il «com-plesso delle pubbliche amministrazioni» i princìpi del-l’equilibrio di bilancio tra entrate e spese e della soste-nibilità del debito, riservando ad una legge delParlamento approvata a maggioranza assoluta dei com-ponenti di ciascuna Camera, il potere di stabilire, oltreche il contenuto della legge di bilancio, «le norme fon-damentali e i criteri volti ad assicurare» l’implementa-zione dei due menzionati princìpi. Secondo il nuovo

La sostenibilità del debito pubblico della Pubblica Amministrazione nella nuova Costituzione Finanziaria dello StatoParte II (Termina)*

Giovanni PesceAvvocato del Foro di Roma

The essay discusses the legal impact of the amendment of Article 81 of the Italian Constitution concerning thebudget rules and pursues three goals. The first is to argue that the balanced or surplus budget rule as provided bythe Fiscal compact cannot be incorporated sicetsimpliciterinto the Italian legal system, and that the amendmentshall be interpreted as introducing the less rigorous “equilibrium” budget rule. The second is to demonstrate thatonly the “equilibrium” budget rule is in compliance with the criteria of the Maastricht Treaty concerning both thebudgetary situation and the stock of government debt. The third goal is to argue that the concept of governmentdebt sustainability, resulting now from Article 97 of the Constitution and interpreted in the light of the equilibriumrule, is more consistent than the balanced budget rule with the Constitutional system of rights and liberties.

SOMMARIO: …Segue – 7. La versione italiana del fiscal compact. Il pareggio di bilancio: o meglio, l’equilibrio dibilancio... – 8. Segue: significato della riforma dell’art. 81 della Costituzione – 9. I criteri per l’equilibrio di bilancio– 10. Il principio di sostenibilità nel nuovo art. 97 della Costituzione e l’etica solidale nei conti pubblici – 11. Lasostenibilità tecnica del debito pubblico e modelli di riferimento – 12. Segue: i rimedi per sostenere il debito pubbli-co – 13. La sostenibilità del debito pubblico e i diritti – 14. Conclusioni

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primo comma dell’art. 97 Cost. «Le pubbliche ammini-strazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unioneeuropea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la soste-nibilità del debito pubblico». All’“equilibrio” di bilan-cio si riferisce anche l’art. 119 Costituzione.La ragione per cui gli Stati contraenti del fiscal com-pact hanno introdotto la clausola sul recepimento inter-no con norma costituzionale ed hanno espresso l’inten-zione, nel preambolo e nel testo, di incorporare il pattonei trattati europei tradisce la debolezza giuridica delfiscal compact41. Il patto di bilancio ivi contenuto ed il parametro fisso dirientro dell’indebitamento non discendono dalle dispo-sizioni dei Trattati in materia di Unione economica emonetaria, collocandosi il fiscal compact al di fuoridell’ordinamento dell’Unione ed in un più ampio qua-dro della governante della finanza degli Stati42. Il fiscal compact è un trattato internazionale e cometale è stato recepito in Italia (ordine di esecuzione). Ilfiscal compact non ha efficacia giuridica pari a quelladei trattati comunitari e delle altre fonti dell’Unione edè anzi subordinato alle stesse43. Il dato è comprovato,oltre che dal suo contenuto che si addice per l’appuntoad un “patto” più che ad una norma di rango primario,almeno da due clausole del fiscal compact: l’art. 16,che impegna gli Stati ad adottare “in conformità deltrattato sull’Unione europea e del trattato sul funzio-namento dell’Unione europea le misure necessarie perincorporare il contenuto del presente trattato nell’ordi-namento giuridico dell’Unione europea”; e l’art. 2,secondo cui le parti contraenti “applicano e interpreta-no il presente trattato conformemente ai trattati su cuisi fonda l’Unione europea”. Oltre che subordinate al diritto dell’Unione, le clausoledel fiscal compact non sono in grado di prevalere nep-pure sulle norme della nostra Costituzione e ciò anzi-tutto per le ragioni già viste: se il fiscal compact èsubordinato al diritto dell’UE ed in primis al Trattato,va applicata la pacifica giurisprudenza costituzionalesecondo cui solo le norme del Trattato stesso hannopiena efficacia obbligatoria e diretta applicazione intutti gli Stati membri, con conseguente recessività delleclausole del fiscal compact (sentenze n. 183 del 1973 en. 170 del 1984). Inoltre, se gli Stati contraenti si sonoimpegnati a modificare il Trattato per recepire il fiscalcompact, sarebbe difficile immaginare una efficacia del

fiscal compact nel nostro ordinamento di portata tale dasuperare la Costituzione, non potendo quest’ultimaessere in conflitto con il Trattato. Infine, la portatasovra ordinata del fiscal compact rispetto allaCostituzione presupporrebbe la compatibilità dellerelative clausole con i principi fondamentali dellanostra Costituzione e con i diritti che la stessa garanti-sce: aspetto che pone più di un interrogativo, come sidirà oltre. Il fiscal compact è, dunque, né più né meno che un trat-tato internazionale, cui peraltro è stata data attuazionenon omogenea da tutti gli Stati firmatari. Ogni Statol’ha inteso a suo modo44. Con la precisazione che dopo la modifica dell’articolo117, comma 1, della Costituzione, gli accordi interna-zionali acquistano un rango superiore a quello delleleggi ordinarie (non della Costituzione), a prescinderedal fatto che lo strumento di adattamento, cioè l’ordinedi esecuzione, sia una legge ordinaria. Il punto è statodelucidato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn.348/2007 e 349/200745. Discutendo in merito allaimmediata applicabilità della CEDU la Consulta ha sta-tuito, nella sentenza 348, che l’art. 117, primo comma,Cost. distingue, in modo significativo, i vincoli deri-vanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli ricon-ducibili agli «obblighi internazionali». Si tratta di unadifferenza non soltanto terminologica, ma anchesostanziale. Con l’adesione ai Trattati comunitari,l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento piùampio, di natura sopranazionale, cedendo parte dellasua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo,nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il sololimite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fonda-mentali garantiti dalla Costituzione. La CEDU, invece,è configurabile come un trattato internazionale multila-terale da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraen-ti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridicoitaliano in un sistema più va sto, dai cui organi delibe-rativi possano promanare norme vincolanti, omissomedio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.In modo ancora più chiaro, nella sentenza 349 la Corteha escluso che con l’art. 117, primo comma, Cost., sipossa attribuire rango costitu zionale alle norme conte-nute in accordi internazionali, oggetto di una leggeordinaria di adattamento, com’è il caso delle normedella CEDU. Il parametro costituzionale in esame com-

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porta, infatti, l’obbligo del legislatore ordinario dirispettare dette norme, con la conseguenza che lanorma nazionale incompatibile con la norma dellaCEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cuiall’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso taleparametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma,si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile allanorma convenzionale di volta in volta conferente, laquale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazio-nali genericamente evocati e, con essi, al parametro,tanto da essere comunemente qualificata “norma inter-posta”; e che è soggetta a sua volta ad una verifica dicompatibilità con le norme della Costituzione. Consapevoli di questa debolezza e consapevoli altresìche nem meno la modifica del Patto di stabilità del 2011avrebbe potuto soddisfare appieno l’esigenza di con-trollo dei bilanci, gli Stati contraenti si sono impegnatinel fiscal compact ad introdurre norme giuridiche neirispettivi ordinamenti di grado superiore a quelle di untrattato internazionale.... In questo senso si può certa-mente individuare una ideologia della finanza pubblicafondata sul pareggio di bilancio. Ciò implica che la norma contenuta nell’art. 81 dellaCostituzione è destinata a prevalere, in caso di conflit-to, rispetto al fiscal compact e che la stessa legge ordi-naria di bilancio deve essere rispettosa della normacostituzionale. Il che, per altro verso, obbliga Governoe Parlamento in materia di bilancio al rispetto del prin-cipio dell’equilibrio di bilancio di cui al nuovo art. 81della Costituzione e, sul piano comunitario, al rispettodel parallelo principio contenuto nel Trattato diMaastricht (deficit-3%): a prescindere dalle norme con-tenute nel fiscal compact e nelle altre norme di dirittoeuropeo di rango inferiore al Trattato. In questo senso, il novellato art. 81 della Costituzioneriallinea Roma a Maastricht. Si torna così alla nozionedi finanza pubblica voluta dal Trattato (ora art. 126TFUE) che ammette espressamente il ricorso al disa-vanzo e su di esso fonda il concetto di “sostenibilitàdella situazione della finanza pubblica”. Mentre la norma del Trattato consente un margine diapprezzamento discrezionale sul parametro numericodel rapporto debito/PIL, non altrettanto può dirsi per ilparametro del deficit, fissato al -3%: prescrizione cheallo stesso tempo definisce l’ambito ordinario di mano-vra dei governi nazionali46.

Rispetto alla versione del precedente art. 81, le novitàriguardano gli attuali commi primo, secondo e sesto.Quanto alla natura del vincolo di bilancio introdotto,l’esame della norma, con il conforto dei lavori prepara-tori, conferma che il concetto di “equilibrio” utilizzatodal testo normativo appare caratterizzato da una conno-tazione di carattere dinamico che di per sé non escludeil disavanzo, come prevede lo stesso Trattato47. Non rileva così il risultato annuale (che può non esseredi pareggio) quanto piuttosto la sostenibilità nel tempodel saldo: considerato appunto di “equilibrio”. Poiché ilricorso all’indebitamento è consentito “solo al fine diconsiderare gli effetti del ciclo economico”, può dedur-si che il principio dell’art. 81 è quello di un equilibrioche deve tenere conto degli effetti del ciclo nel mediotermine48 (“Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entratee le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasiavverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”).Il concetto di “pareggio” – a cui fa riferimento il titolodel provvedimento in esame, utilizzato anche nellarelazione introduttiva originariamente presentata dalGoverno (A.C. 4620) – appare superato dalla concretaformulazione della norma costituzionale che richiamail ben diverso concetto di “equilibrio”49. Di “equilibrio”e non di “pareggio” parla anche la Consulta nei primicasi sino ad ora portati alla sua attenzione dopo la rifor-ma costituzionale50. Appare quindi fuorviante richiama-re la nozione di “pareggio” ai fini giuridici, economicie politici. Il principio dell’equilibrio tendenziale delbilancio è, per usare le parole della Consulta, un «pre-cetto dinamico della gestione finanziaria, [il quale]consiste nella continua ricerca di un armonico e sim-metrico bilanciamento tra risorse disponibili e spesenecessarie per il perseguimento delle finalità pubbli-che»51. Il “pareggio” attiene invece alla posizione con-tabile e formale di uguaglianza tra entrate e uscite. Il combinato disposto del comma primo e secondo con-sente di ritenere che il saldo di equilibrio potrebbe noncoincidere con il pareggio qualora altri fattori, quali lostato di crescita del PIL o il livello di debito accumula-to, risultassero suscettibili di incidere sulla sostenibili-tà nel medio periodo di tale saldo. Ad esempio, in pre-senza di un tasso di crescita sostenuta del PIL e di unlivello di debito contenuto in rapporto al PIL, potrebberisultare sostenibile nel medio periodo (e quindi diequilibrio) anche una posizione di deficit. Invece, in

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condizioni di crescita molto bassa e di uno livello didebito molto elevato, il pareggio del bilancio potrebberisultare insufficiente a garantire la sostenibilità deldebito nel medio periodo rendendosi necessarie invecemanovre in deficit, accompagnate da provvedimenti ditaglio della spesa per evitare l’aumento del debito. Lostesso ordine di considerazioni ha portato il Trattato diMaastricht a fissare, rispettivamente al -3% e al 60% inrapporto al PIL, le soglie consentite di deficit e debito. Tra le varie formule teoriche note alla scienza econo-mica52, quella che appare più appropriata alla regoladell’equilibrio accolta dalla nostra Costituzione parreb-be quella definita “del bilancio over the cycle”, cioè intermini di bilancio strutturale o “corretto per il ciclo”.Questo modello presenterebbe il vantaggio di conside-rare la situazione congiunturale dell’economia, oltreche di considerare adeguatamente l’effetto delle misu-re “una tantum”. I modelli di questo tipo sono stateappunto definiti per limitare quelle che gli economistidefiniscono le “esternalità negative sull’andamentodell’economia”, prevedendo vincoli definiti in relazio-ne al ciclo economico, cioè saldi di bilancio che sianodepurati dalla componente ciclica. Viceversa, non v’èmenzione in Costituzione di un meccanismo di corre-zione automatica dei disavanzi e del debito.

8. Segue: significato della riforma dell’art. 81 dellaCostituzioneLa riforma costituzionale è entrata nel vivo a partiredall’esercizio 2014. Non è esagerato ritenere che sitratta della riforma più importante dopo il varo dellaCostituzione, specie per i riflessi sulla sostenibilità deldebito pubblico. Regolare la finanza pubblica a livellocostituzionale, infatti, vuol significare incidere diretta-mente ed indirettamente sui diritti, sulla organizzazio-ne dello Stato, sulla giustizia, sugli enti locali e, ingenere, sull’economia di un Paese e sulla società. Èvero che in passato sono state modificate dalParlamento varie ed importanti parti dellaCostituzione: si veda per tutte quella relativa al TitoloV e alla c.d. regionalismo fiscale. Ma, a parte che lariforma del 2001 non ha dato i frutti sperati, resta ilfatto che la finanza pubblica statale è cruciale nellaCostituzione perché incide sui criteri di ripartizionedella spesa pubblica e da essa dipende perciò la vitadella intera organizzazione pubblica che, a sua volta, è

in grado di incidere prepotentemente sui cittadini esulle generazioni future. Qual è il valore da assegnare alla riforma costituziona-le? Essa è certamente da mettere in relazione alla rifor-ma del Patto di stabilità del 2011 ed al fiscal compact,di cui ha colto lo spirito, cioè sensibilizzare la classepolitica e l’amministrazione pubblica verso un regimedi maggiore controllo della sanità dei bilanci. Rispettoal previgente testo costituzionale, l’attuale assetto cheemerge dalla Costituzione e della legge rinforzata n.243/2012 consente di poter affermare che l’attenzioneè stata rivolta non al bilancio annuale in quanto tale maalla “finanza pubblica”, che è diventata bene da tutela-re in via prioritaria per rispettare il patto inter-genera-zionale. In questo senso si può affermare che è statosegnato un esplicito passo in avanti rispetto al previ-gente art. 81 della Cost.. Ma l’analisi dei testi non consente di ritenere che oggila Costituzione abbia accettato in toto il disegno euro-peo trasfuso nel fiscal compact né che la riforma costi-tuzionale avrebbe soltanto confermato un gruppo dinorme già operanti nel nostro ordinamento53. Semmai,la riforma costituzionale può considerarsi emblema delriconoscimento dell’insufficienza del solo dirittodell’Unione europea per regolare l’intera materia. Ilsenso di tutta l’operazione, che parte dal fiscal compacted arriva alla revisione costituzionale, viene perciòindividuato nel “recepimento”, in senso atecnico, alivello nazionale delle regole del “Patto di stabilità ecrescita”, per come rafforzate a seguito della crisifinanziaria del 201154. Fenomeno che, quindi, più cheindebolire la nostra Costituzione, evidenzia semmail’inidoneità del diritto comunitario prodotto dopo e ascapito dei parametri di Maastricht rispetto all’obietti-vo di regolare correttamente le finanze pubbliche degliStati membri. Benché sia emersa a livello comunitario l’esigenza diprevedere negli ordinamenti nazionali norme dirette adintrodurre, preferibil mente con norme di rango costitu-zionale, la “regola aurea” del pareggio di bilancio, lalegge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 consegna unsistema che esclude un vincolo di parità tra entrate euscite – assoluto per ogni bilancio – e che ruota attornoad una “visione dinamica del principio dell’equilibrio”55.La riforma ha così escluso l’ipotesi di fissare tetti quan-titativi alle entrate o alle spese, i quali avrebbero

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rischiato di “ingessare” eccessivamente la politica eco-nomica e, potenzialmente, di consentire limitazioniancora più incisive alla tutela dei diritti fondamentali. La riforma ha certamente inteso ispirarsi al fiscal com-pact ma la Costituzione si è discostata dalla regolaassunta pattiziamente (e che si ritrova nelle pieghe delPatto di stabilità e crescita) secondo cui i bilanci degliStati firmatari devono essere “in pareggio o in attivo”56.Per tale motivo, è ragionevole ipotizzare che non solosarebbe consentito alla legge di stabilità di poter operarecon un disavanzo superiore al limite previsto dal fiscalcompact, ma che la stessa legge di stabilità sarebbe inco-stituzionale ove si discostasse dalle regole fissate dal-l’art. 81 della Costituzione. Una di queste è presente alcomma secondo: l’indebitamento è consentito solo «alfine di considerare gli effetti del ciclo economico» (salvo“eventi eccezionali” disciplinati al successivo comma).Pertanto, se la nuova formulazione ammette il disavanzonelle fasi avverse del ciclo economico (formula chericorda il modello keynesiano) è lecito ritenere che sonoam messe politiche discrezionali della spesa con finalitàanticicliche: il che presuppone un bilancio in “equili-brio”. In questo senso si può affermare che è stato segna-to un altro esplicito passo in avanti rispetto al previgen-te art. 81 della Cost. nel senso di un maggiore rigore:l’indebitamento non dovrebbe più essere svincolatodalla politica anticiclica, come in passato, ma non perquesto la sua stabilizzazione deve passare attraverso iparametri automatici previsti dal fiscal compact. La dicotomia “pareggio”-“equilibrio” non è frutto dibizantinismo giuridico. Si tratta di concetti diversi indiritto come in economia. Ad esempio, in Germania èstato accolto il principio del “pareggio” (non dell’equi-librio), cui devono essere portati i bilanci dei Bund eper i Laender (art. 109 GG): anche se, come è statoricordato di recente57, si tratta di regola a maglie larghee difficilmente giustiziabile perché soggetta a deroghe.La Spagna ha introdotto una regola più flessibile dellatedesca per lo Stato e le Comunità autonome, la “stabi-lità di bilancio”; un’altra più rigida, il “pareggio”, pergli enti locali (art. 135 CE). La Francia, che non hamodificato la Costituzione pur avendo sottoscritto ilfiscal compact, ha mantenuto il principio di “equilibriodei conti” (art. 34 Cost.). Pare utile ora riferire dell’esperienza degli USA, cioèdi un Paese che non contiene la regola di pareggio di

bilancio in Costituzione e che, da sempre, utilizza ildeficit di bilancio per combattere i periodi di crisi eco-nomica e spingere gli investimenti necessari a mante-nere la domanda di beni e consumi a livelli sempreaccettabili. Gli USA, inoltre, hanno un considerevoledebito pubblico, calcolato nel 2013 in 15.000 miliardidi dollari. Verso la metà degli anni ’90 del XX secolo vennediscussa una proposta di emendamento costituzionalediretta ad introdurre il pareggio di bilancio. La propo-sta consisteva nel proibire nel bilancio federale uscitesuperiori alle entrate, a meno che non fosse interve nutauna legge approvata con il voto di maggioranza dei 3/5in ambedue le Camere del Congresso58. Il principio delpareggio di bilancio veniva avversato perché il ricorsoal deficit aveva non soltanto salvato gli USA dopo lagrande recessione del 1929 e dopo la seconda guerramondiale ma perché rischiava di non consentire alcunamanovra al governo federale per il caso di recessione odi manovre anti-cicliche in momenti eccezionali. Unaltro argomento a sfavore era legato ad un possibilerischio di slittamento dei poteri relativi al governo dellaspesa pubblica dal Congresso in favore delle Corti. Ciòsul presupposto che una rigida disciplina sul pareggiodi bilancio in Costituzione avrebbe potuto favorireazioni giudiziali dei contribuenti o dei cittadini volte acontestare le misure introdotte dal Governo in materiadi spesa pubblica. Di norma, non spetta ai cittadini o aicontribuenti verificare le modalità di spesa delGoverno e la rispondenza tra mezzi e fini che ilGoverno si propone in materia di bilancio ed attuazio-ne dello stesso, salvo rare eccezioni. Ma nel momentoin cui si introduce il pareggio di bilancio a livello costi-tuzionale, sarebbero destinati ad aumentare parallela-mente i diritti dei cittadini/contribuenti e, di riflesso, ipoteri dei giudici di ultima istanza – cioè di organi noneletti dal Popolo – in detta materia. La proposta diemendare la Costituzione americana non è passata. LoStato federale americano rifiuta al momento l’ideologiadel pareggio di bilancio.

9. I criteri per l’equilibrio di bilancio La misura dell’“equilibrio” non è stata costituzionaliz-zata. Di essa si dovrebbe occupare la legge “rinforzata”,cui il sesto comma dell’art. 81 e l’art. 5 della L. cost. n.1/2012 rinviano per determinare “il contenuto della

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legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri voltiad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese deibilanci e la sostenibilità del debito del complesso dellepubbliche amministrazioni” sia pure con il vincolo delrispetto dei principi definiti con legge costituzionale”. La legge a “maggioranza rinforzata” è oggi la n.243/2012, il cui art. 3, co. 2, afferma che “l’equilibriodei bilanci corrisponde all’obiettivo di medio termine”.Si conferma così che la Costituzione non ha introdottoil pareggio di bilancio ma un principio diverso: l’equi-librio di medio termine dei bilanci.La stessa legge 243/2012, art. 2, co. 1, lett. e), sia purecon tecnica di rinvio che ricorda il gioco dell’oca, con-sente di fissare meglio quale sia l’obiettivo di mediotermine: “per obiettivo di medio termine [si intende] ilvalore del saldo strutturale59 individuato sulla base deicriteri stabiliti dall’ordinamento dell’Unione euro-pea”. Dunque, non un numero ma un criterio ordina-mentale per determinare l’agognato obiettivo. L’obiettivo di medio termine è lo strumento congegna-to per rendere più sicuro il rispetto dei vincoli diMaastricht sulla finanza pubblica, come già vistosopra. Una sorta di cordone di sicurezza posto ai bilan-ci pubblici per garantire il parametro sul deficit (3% delPIL). Si tratta di un concetto che ritroviamo sin dallaprima riforma del Patto di stabilità e crescita, avvenutanel 2005, ora modificato dal Reg. 1175/2011. Se rispet-tato, l’obiettivo di medio termine dovrebbe assicurarela sostenibilità delle finanze pubbliche (o un rapidoprogresso verso la sostenibilità), consentendo al con-tempo margini di manovra alla politica di bilancio infunzione di stabilizzazione. L’obiettivo di medio termi-ne è tarato sulle condizioni di bilancio dei singoli Stati,sul livello del rapporto debito/PIL e sui costi derivantidall’invecchiamento della popolazione (che impattanoessenzialmente sulle pensioni, sulla sanità e sull’assi-stenza di lungo termine). L’attenzione va così spostata ai “criteri” stabilitidall’Ordinamento dell’Unione Europea. Detti criteri non possono che essere quelli fissati nelTrattato (art. 126), del cui tasso di politicità nemmenola Corte di Giustizia dubita. Essi sono tuttora quelli fis-sati a Maastricht. Sulla base di tali criteri e nei limiti diquesti ultimi lo Stato conserverebbe margini di mano-vra in deficit sino al 3% ed anche oltre, non escluden-do la norma disavanzi superiori (art. 126, comma 2).

Secondo un parte della dottrina si tratta degli unici vericriteri di riferimento60 che gli Stati aderenti all’euro sisono impegnati consapevolmente a rispettare ad esitodi un processo democratico. Non potrebbero essere,pertanto, applicati ulteriori e differenti parametri senzauna modifica del Trattato, non potendo la sovranitàdegli Stati membri essere limitata da fonti di rangoinferiore (tra cui, per le ragioni viste, il fiscal compact). Secondo altra opinione61, l’indagine dovrebbe essereestesa anche alle norme del Patto di stabilità e crescitae, in via ancora gradata, alle clausole del fiscalcompact-che integrano il Patto di stabilità. Tuttavia, se si seguis-se questa impostazione, la stessa nozione di equilibriodi bilancio apparirebbe tutt’altro che lineare in quanto: i) il Patto di stabilità e crescita (Reg. 1175/2011 - art. 2bis) individua l’obiettivo di medio termine “...in unintervallo compreso tra il -1% del PIL e il pareggio ol’attivo, in termini corretti per il ciclo, al netto dellemisure temporanee e una tantum....”; ii) il fiscal compact all’art. 3 assume quale parametro diriferimento per il pareggio di bilancio l’obiettivo dimedio termine del Reg. 1175/2011 “con il limite infe-riore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del PIL aiprezzi di mercato”.Pertanto, se assumessimo la contemporanea validità edefficacia dei tre criteri sopra indicati (Trattato, Reg.1175/2011, fiscal compact), ne deriverebbe una nozio-ne di equilibrio di bilancio tutt’altro che omogenea.Non uno, ma tre possibili seppur gradati livelli attraver-so cui articolare la politica di bilancio ed il livello deldisavanzo: il Trattato (-3% del PIL); il Reg. 1175/2011(intervallo da -1% del PIL al pareggio o all’avanzo perl’obiettivo a medio termine); il fiscal compact (ulterio-re restrizione dello 0,5%). Si aggiunga che l’obiettivo di medio termine fissato nelReg. 1175/2011 si traduce de facto in una elusione delparametro fissato nel protocollo 12°, cui rinvia l’art.126 del TFUE. Il regolamento comunitario, in generale, non può inte-grare o modificare, ma solo dare attuazione alle normedel Trattato. Nel caso concreto, il Reg. 1175/2011 con-tiene parametri numerici che, in tutta onestà, integranoe modificano l’impianto politico tracciato a Maa strichte definito all’art. 126 TFUE. I parametri di Maastrichtsono stati formulati al fine precipuo di fissare criteri diconformità di bilanci e di ammettere in una certa misu-

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ra il disavanzo. Rispetto a tali parametri il Reg.1175/2011 innesta disposizioni ordinamentali più seve-re. Anche il reg. 1466/97 conteneva espressioni di ana-logo tenore (obiettivo di medio termine; programma distabilità; conver genza; etc.) ma non fissava parametrinumerici e rinviava in tutto all’art. 109 TCE (oggi art.126 TFUE): qui sta tutta la differenza tra il vecchio edil nuovo Patto di stabilità. Non è solo questione dinumeri, benché i numeri spostano tutto in questa mate-ria. È proprio diversa la filosofia di fondo. Mentre ilTrattato di Maastricht annette grande rilevanza allaconvergenza delle politiche di bilancio, lasciando tutta-via gli Stati abbastanza liberi di manovrare la leva deldeficit e, quindi, del debito, il Reg. 1175/2011 sposta ilbaricentro delle decisioni dagli Stati al Consiglio edalla Commissione UE attraverso un complicato mecca-nismo decisionale preventivo e repressivo che, allafine, si traduce nell’applicazione di parametri diversida quelli fissati a Maastricht. Nella logica ispiratrice del Reg. 1175/2011, infatti, fin-ché l’obiettivo di bilancio a medio termine non è rag-giunto, il tasso di crescita della spesa pubblica nondovrebbe di norma superare un tasso di riferimento amedio termine del potenziale di crescita del PIL, salvecircostanze eccezionali. E poiché la Commissionericalcola per ciascuno Stato l’obiettivo di medio termi-ne minimo ogni tre anni, in effetti è la stessaCommissione che alla fine è in grado di influenzare lamisura della spesa pubblica del singolo Stato.Conseguenza che il Trattato non ha previsto. Inoltre, come risulta dalla sua premessa, il Reg.1175/2011 individua la sua fonte nell’art. 121, paragra-fo 6, del Trattato sul funzionamento dell’Unione euro-pea. Articolo che non legittima il Parlamento europeoed il Consiglio ad adottare misure vincolanti e fissareparametri numerici in materia di bilancio degli Statimembri. L’articolo 121, correttamente inteso, legittimauna “valutazione globale” delle politiche di bilanciodegli Stati e la formulazione di indirizzi di massima che,se violati, al più, possono sfociare in “raccomandazio-ni” agli Stati (cioè in atti non vincolanti e latamentediscrezionali62). Nulla di tutto questo, invece, è previstodalle norme degli artt. 2 bis, 5 e 9 del Reg. 1175/2011che, al contrario, fissano parametri numerici e stringen-ti allo Stato in contrasto con l’art. 121 del TFUE. Che poi la stessa Costituzione abbia inteso, in effetti,

sposare una linea di condotta differente e flessibile siricava dall’art. 8 della legge rinforzata n. 243/2012 chedisciplina un meccanismo ad hoc per la correzione degliscostamenti rispetto agli obiettivi programmatici ed anziconsente a certe condizioni la sospensione della operati-vità del meccanismo stesso ad opera del Parlamento.

10. Il principio di sostenibilità nel nuovo art. 97 dellaCostituzione e l’etica solidale nei conti pubbliciPassiamo ora al debito pubblico. Il nuovo primocomma dell’art. 97 della Costituzione impone oggi allepubbliche amministrazioni di assicurarne la sostenibili-tà in coerenza con il diritto europeo63. La tenuta deldebito pubblico diventa il primo punto all’ordine delgiorno delle amministrazioni pubbliche. Al primocomma del vecchio testo dell’art. 97, invece, laCostituzione aveva collocato il principio di legalità,che ora passa al secondo comma. È la prima volta che la Costituzione si occupa esplici-tamente del debito pubblico ed in tal senso questa partedella riforma costituzionale può considerarsi di indub-bia rilevanza, ancor più che nella parte in cui è statonovellato l’art. 81 della Costituzione. Si affaccia in Costituzione un nuovo concetto: la soste-nibilità. Essa nel caso concreto coincide con l’obiettivodi ridurre il debito pubblico per rispettare le generazio-ni future. È l’etica solidale applicata ai conti pubblici.Non è però un’idea nuova: da lunghissimo tempo è pre-sente nel dibattito pubblico il concetto secondo cui il“debito pubblico è un funesto retaggio, che la genera-zione che finisce lega alla generazione che nasce”64. Vale la pena chiedersi cosa possa significare sul pianoteorico “la sostenibilità”, di cui sino ad oggi abbiamosentito parlare in altri ambiti e specie con riferimentoalle politiche ambientali65. Il concetto di sostenibilità ha imposto un ripensamentosul modo classico di intendere il rapporto fra teoriapolitica e concrete azioni di governo. Si pone, infatti,l’esigenza di un baratto fra un benessere nel breve ter-mine e scelte lungimiranti che salvaguardino le risorse(naturali, economiche) nel lungo periodo. Le due principali teorie morali con cui da circa duecen-to anni ci si accosta al fenomeno politico, e cioè l’utili-tarismo di Bentham e Mill e il contrattualismo di ascen-denza kantiana, si sono rivelate inadeguate per risponde-re al problema etico che la sostenibilità si propone di

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affrontare: cioè quello dei doveri nei confronti dellegenerazioni future. Questo vale anche per la sostenibili-tà in campo economico finanziario e dunque per la soste-nibilità del debito. L’idea di conte nere l’indebitamentopuò stridere con il precetto utilitarista di perseguire ilbenessere66. Innanzitutto esistono opinioni variegate inletteratura sulla relazione fra livello di indebitamento efloridità economica di un paese. In secondo luogo, ancheammettendo che il contenimento del debito pubblicopossa rivelarsi nel lungo periodo una strategia vincenteda un punto di vista economico, per gli utilitaristi potreb-be ancora porsi il problema di giustificare le forti soffe-renze di intere popolazioni in attesa di benefici futuri. Ilcaso della Grecia potrebbe essere esemplare. Anche il contrattualismo non sembra offrire una validastampella al principio di sostenibilità. Il contratto origi-nario ipotizzato da molte teorie politiche (si pensi aJohn Ralws67) seppure possa non ricalcare la realtà, dif-ficilmente sarebbe ipotizzabile come patto fra le gene-razioni presenti e quelle future. Per comprendere il principio di sostenibilità può, piut-tosto, ve nirci in aiuto la tesi di Hans Jonas sulla respon-sabilità68. Jonas muove proprio dall’inadeguatezza del-l’utilitarismo e del contrattualismo a rispondere alledomande morali sollevate dalla tecnica in campo scien-tifico e dall’internazionalizzazione dell’etica e deldiritto ed in particolare: (a) all’atteggiamento da assu-mere nei confronti di coloro che sono lontani da noi (eche dunque non fanno parte del contratto di Rawls); (b)alle richieste delle generazioni future. La nozione di responsabilità compare con una certa fre-quenza nei dibattiti di bioetica, particolarmente in rife-rimento al futuro e alle condizioni della vita, umana enon, sulla terra. Oltre alla questione ecologica, il temadella responsabilità investe più in generale il rapportofra lo sviluppo scientifico-tecnologico e la vita, inprimo luogo quella umana, esposta alla possibilità ditrasformazioni che coinvolgono le sue strutture origi-narie. La nozione di responsabilità mette in lucel’aspetto fondamentalmente asimmetrico fra l’io e l’al-tro (presente o futuro), in cui all’io agente viene rivol-to un appello ineludibile ad agire unilateralmente (cioèsenza reciprocità) a favore dell’altro, innanzitutto nelsenso di non usargli alcuna forma di violenza. La mora-le deve essere in grado di guardare al futuro. Gli archetipi della responsabilità sono rispettivamente

la figura del genitore e dell’uomo di Stato: il primo perriferimento all’altro (il bambino inerme e totalmentedipendente dalla sua cura); il secondo nei confrontidella comunità. Entrambi questi archetipi sono infattiresponsabili per la totalità dell’esistenza del loro ogget-to, per la loro continuità e per il loro futuro. Come ilgenitore ha la responsabilità di rendere possibile la vitaautonoma del figlio nel futuro, così l’uomo politico hala responsabilità di mantenere aperta la possibilità dellavita politica futura, per esempio ponendo le condizioniaffinché i cittadini non siano completamente alienati dasé stessi oppure, per tornare a noi, non debbano lavora-re soltanto per garantire il pagamento di debiti contrat-ti dalle generazioni precedenti. Il principio di responsabilità, applicato all’etica pubbli-ca, implica la possibilità di una vita autentica, e dunquelibera. La libertà, per Jonas, è essenzialmente l’uscitada un sistema meccanicistico di cause ed effetti. Lalibertà però genera responsabilità. Soltanto chi è vera-mente libero può prevedere e calcolare le conseguenzefuture delle proprie azioni, e solo chi è libero le puòmodificare. Il principio di responsabilità impone perciòprudenza. Questo atteggiamento si traduce nel princi-pio giuridico politico di precauzione. La tesi in questione appare quella che meglio può giu-stificare, sul piano della teoria generale, il dibattito giu-ridico e politico sulla sostenibilità del debito pubblico.Infatti, il principio di sostenibilità non può essere com-preso con i tradizionali criteri tratti dalle teorie utilita-riste e cotrattualistiche. Da un lato, la globalizzazione el’apertura totale dei mercati non consente di appurarechi è respon sabile, ad esempio, di manovre speculativeche possono mettere in difficoltà l’economia di unPaese. Dall’altro lato, la stessa finanziarizzazione del-l’economia produce (ha prodotto) uno scollamento fraazioni e conseguenze delle azioni69. Invece, la sosteni-bilità associata al principio di responsabilità è un con-cetto che fonda la sua essenza sulla esauribilità dellerisorse. Essa permette di stabilire una connessione trale conseguenze delle azioni – in questo caso livello diindebitamento – e la dimensione politica del futuro.

11. La sostenibilità tecnica del debito pubblico emodelli di riferimentoOttenere prestiti rende più risorse disponibili nel brevetermine, ma incrementa un sovraccarico futuro sui bud-

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gets governativi, poiché il debito che pur è servito varipagato. Intuitivamente, perciò, è semplice capire perché deveessere garantita la sostenibilità del debito pubblico. Ilricorso al debito pubblico non può essere infinito.Prima dell’avvento dell’euro, lo Stato ricorreva allostratagemma dell’emissione continua di nuova moneta.In tal modo, generava inflazione e, distruggendo ilpotere di acquisto, abbatteva anche il valore del debitopubblico. Il che consentiva nuove accensioni di debitoe il gioco ricominciava daccapo.... Con la moneta unicaciò non è più consentito dal singolo Stato. Diversa cosa è intendersi sulla misura ideale dellasostenibilità del debito pubblico e sulle ricette per con-tenerlo. Si tratta di un punto sul quale non si ricavanovedute univoche. La “sostenibilità” di un debito vuol dire, in generale,che deve esistere un determinato rapporto tra la sommaprestata ed il patrimonio del debitore. Secondo ilTrattato di Maastricht il debito pubblico di uno Statonon dovrebbe superare il 60% del PIL. La regola, tutta-via, non risponde ad una precisa logica economica, peril semplice fatto che per conoscere il livello ideale disostenibilità di un debito (pubblico) si dovrebbe anzi-tutto accertare l’ammontare del patrimonio (pubblico):ragione per cui non ha senso fissare una misura unicaper tutti gli Stati dell’UE. Oltre tutto, solo il singoloStato è in grado di conoscere l’entità del proprio patri-monio e pertanto dovrebbe spettare al singolo Stato cal-colare il parametro numerico di sostenibilità del debitopubblico, laddove attualmente tale operazione è rimes-sa alle autorità europee. Secondo una recente tesi, inol-tre, un deficit del 3% permette di rendere stabile undebito del 60% sul presupposto di una crescita del PILpari a circa il 5%: ragionamento che però, oltre a nonavere solide basi, è di difficile applicazione in caso dicrescite inferiore o addirittura di decrescita70. In effettila regola del 60% è stata rispettata ben poco in passato,da tuti i Paesi dell’UE. Sulla sostenibilità si possono formulare le seguenticonsiderazioni, complementari tra loro.

a) Il debito pubblico di un paese è sostenibile tecni-camente quando il peso del servizio del debito è sop-portabile, cioè quando gli interessi passivi da pagaresul debito non superano una quota eccessiva del bilan-cio pubblico. Nell’ottocento il debito si riteneva inso-

stenibile quando tale quota superava il 30% delle entra-te fiscali. In Italia siamo oggi poco sopra al 10%, ma sipuò argomentare che la spesa pubblica è molto più altae dunque il limite sostenibile in percentuale del bilan-cio è più basso che nell’ottocento. Oggi in Italiapaghiamo meno del 5% del PIL in interessi passivi suldebito pubblico e tale quota sta calando, mentre a metàdegli anni novanta eravamo arrivati oltre il 12% delPIL. Da questo punto di vista esiste molto margine.

b) Il debito pubblico è sostenibile quando il serviziodel debito (pagamento degli interessi e rimborso del debi-to a scadenza) non richiede restrizioni di bilancio e di poli-tica economica tali da compromettere la crescita economi-ca e da avviare un circolo vizioso di manovre di bilanciodi austerità che riducono il PIL e rendono in ultima anali-si impossibile onorare il servizio del debito stesso.

c) Il debito pubblico è sostenibile quando il serviziodel debito (pagamento degli interessi e rimborso deldebito a scadenza) non richiede restrizioni di bilancio edi politica economica tali da compromettere la crescitaeconomica e da compromettere la spesa sociale, pensio-nistica e sanitaria in modo tale da subordinare diritti fon-damentali sanciti dalla costituzione al solo diritto di pro-prietà dei detentori di titoli del debito pubblico. Ridurrel’aspettativa di vita tagliando il sistema sanitario nazio-nale o riducendo le pensioni al di sotto del livello di sus-sistenza o azzerando gli investimenti pubblici. Si trattadunque di non subordinare in maniera assoluta alcunidiritti (protezione dalla malattia, dalla povertà, dal fred-do, dalla fame, dall’assenza di un alloggio, dalla violen-za, dall’ingiustizia, dalla di scriminazione, etc.) ad altri,disapplicando di fatto principi democratici. Si tratta, pertanto, di un tema aperto che non necessa-riamente va affrontato seguendo logiche di riduzioneautomatica del livello del debito quasi che lo Stato nondisponesse di un adeguato patrimonio da offrire ai cre-ditori. La teoria economica afferma, d’altra parte, chenon esiste certezza su quale possa essere la soglia idea-le di sosteni bilità del debito pubblico, dipendendone lamisura dagli obiettivi che lo Stato intende affrontare.Quindi, in definitiva, dalla dialettica democratica.

12. Segue: i rimedi per sostenere il debito pubblicoLa Costituzione indica l’an dell’intervento pubblicoma non il quomodo cioè i mezzi di cui dovrebberodisporre le singole amministrazioni per far fronte

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all’impegno previsto dalla Costituzione. Non è chiaropertanto come dovrebbe essere assicurata la sostenibili-tà del debito: il che lascia un certo margine di manovra.Ai sensi della normativa vigente71, spetta al Ministrodell’economia e delle finanze la gestione del debitopubblico, nel limite annualmente stabilito dalla legge diapprovazione del bilancio di previsione dello Stato. Laconferma della discrezionalità viene anche dalla disa-mina della legge rinforzata n. 243/2012. L’art. 4,comma 2, stabilisce che i documenti di programmazio-ne finanziaria e di bilancio devono sta bilire obiettivirelativi al rapporto tra debito pubblico e PIL “coerenti”con quelli dell’ordinamento europeo. Stabilisce poi chein caso di superamento del predetto rapporto si devegarantire una “riduzione dell’eccedenza” in coerenzacon il criterio stabilito in sede europea. Il rinvio allanormativa europea, pertanto, non esclude una iniziativadelle singoli Stati in merito e, di riflesso, delle ammini-strazioni pubbliche. Da questo punto di vista è innega-bile che la questione possa assumere una valenza piùpolitica che amministrativa. Ma quali potrebbero essere gli strumenti? La riduzionedel debito pubblico si può ottenere, senza giungere aldefault, principalmente ed astrattamente in quattromodi, con diversi effetti distributivi e diversi costi: 1)aumento del tasso di crescita del PIL, sostenuto neltempo; 2) temporaneo ma forte aumento dell’inflazio-ne; 3) operazioni straordinarie quali privatizzazioni didimensioni consistenti o tassazione straordinaria delpatrimonio; 4) riduzione strutturale del tasso d’interes-se reale sul debito pubblico (come è stato fatto con l’in-gresso nell’euro). Con questi meccanismi si può assicu-rare sostenibilità. Tolto il rimedio dell’iniezione di moneta, che è nellemani della Banca centrale europea, restano nella dispo-nibilità interna i rimedi residui, rispetto ai quali esisteparimenti discrezionalità. Si pensi, ad esempio, all’immenso valore del patrimo-nio artistico ed archeologico dell’Italia e alla possibili-tà di alienarlo per estinguere il debito pubblico. Sipensi, ancora, ad una imposta straordinaria sul capitale.Si tratta di scelte politiche certamente legittime rispet-to alle quali l’ordinamento europeo resterebbe neutrale. Al riguardo deve essere evidenziato, per tornareall’esempio precedente, che il rimedio della tassazionestraordinaria progressiva (che in teoria potrebbe azze-

rare l’intero debito) confligge con l’interesse dei titola-ri del debito pubblico. Questi ultimi preferiscono eleva-ti livelli di debito per lucrare gli interessi, piuttosto chevedere diminuito lo stock di debito. Per prevenire cosìpossibili conflitti di interessi sarebbe auspicabile ope-rare con trasparenza e conoscere la composizione sog-gettiva dei titolari del debito. La norma costituzionale, allora, sembra imporre unaduplice regola di condotta: passiva ed attiva, allo stes-so tempo. Da un lato, impone al Governo72 di non adot-tare condotte direttamente o indirettamente idonee adaumentare il livello del debito: la norma cioè agiscecome monito nei riguardo di una amministrazione chedovrà essere responsabile ed efficace nella sua azioneper non violare il patto intergenerazionale. Si muove inquesta direzione, ad esempio, la norma che vieta ilricorso all’indebitamento per realizzare operazionirelative alle partite finanziarie, salvo eventi straordina-ri (gravi crisi finanziarie, gravi calamità naturali)73.Dall’altro lato, però, la norma impone al Governo diassumere un ruolo attivo per diminuire la spesa per ildebito e, ancora prima, per gli interessi: dal basso versol’alto, nella speranza di ridurre il totale della massadebitoria dello Stato. Per quanto concerne la prima delle due regole di con-dotta, quella “passiva”, è difficile immaginare comepossa esprimersi l’inattività amministrativa. Essainfluirà indirettamente sul debito nella misura in cui sidovesse tradurre in risparmi di spesa pubblica le cuirisorse potranno essere dirottate a beneficio del debito(si pensi, ad esempio, alle misure per contenere la spesadel personale). Per quanto concerne la seconda regola di condotta,quella che abbiamo definito “attiva”, è facile immagi-nare che si assisterà anzitutto ad un inasprimento del-l’attività sanzionatoria e di controllo finalizzata adincamerare, quanto più è possibile, denaro dai contri-buenti: attività per certi aspetti vincolata, perché previ-sta da norme di legge, ma che certamente potrà aumen-tare di consistenza per iniziative pressanti di singoleamministrazioni o di organi di controllo. In secondoluogo, l’amministrazione potrà adottare anche provve-dimenti connotati da ampia discrezionalità. Ad esem-pio, sulla falsariga di quanto già accaduto per i debitiaccumulati dalle imprese private, sarebbe del tutto lecitoipotizzare provvedimenti diretti a rinegoziare il debito

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pubblico, anche in via autoritativa o di “autotutela”. Più in generale, il margine di discrezionalità sul frontedel parametro del debito pubblico si ricava, peraltro, dal-l’art. 126 (2b) del Trattato: il valore di riferimento deldebito pubblico non deve superare il 60% del PIL salvoche il rapporto più elevato “...non si stia riducendo inmisura sufficiente e non si avvicini al valore di riferi-mento con ritmo adeguato”. Nel concetto di “riduzionecon ritmo adeguato” può delinearsi non soltanto la misu-ra della discrezionalità delle autorità comunitarie maanche, oggi, delle singole amministrazioni pubbliche74. Le modalità di intervento dell’amministrazione (il quo-modo) dipendono anche dal principio di bilancio pub-blico che si intende accettare. Torniamo così a quantoillustrato in precedenza. Se, come richiede il fiscalcompact, si affermasse la regola secondo cui il bilanciodello Stato italiano deve ora obbligatoriamente esserein pareggio o in attivo, lo Stato non potrebbe in linea diprincipio più ricorrere al disavanzo. Se a questa regolase ne aggiungesse un’altra, cioè il rientro obbligatorioed automatico del debito pubblico fino ad un dato livel-lo di credibile sostenibilità, la questione diventerebbeben più seria. Infatti, un conto è affermare il pareggiodi bilancio con un livello di indebitamento pregressopari a zero o comunque basso. Un altro è affermarequel principio quando lo Stato ha già un elevatissimodebito pubblico. Lo Stato dovrebbe in questa ipotesioperare con tale accortezza da raggiungere contempo-raneamente i seguenti obiettivi: rispettare la regola delpareggio; osservare l’altra regola della riduzione deldebito per ricondurlo e mantenerlo a livelli ottimali disostenibilità; favorire la crescita annuale e lo sviluppoannuale in ogni fase del ciclo economico; continuare agarantire un efficiente ed ottimale distribuzione annua-le di beni e servizi pubblici (primari e non); rispettare idiritti previsti dalle norme costituzionali, di legge,europee, internazionali. Per tale ragione, sotto questo specifico aspetto, deveessere salutata con favore la regola dell’equilibrio dibilancio introdotto in Costituzione, che – evitando lerigidità del pareggio – permetterà allo Stato ed alle sin-gole amministrazioni di pianificare le modalità delrientro del debito in modo tale da garantire la tenutacomplessiva dei diritti. In tal senso, si può ritenere che la riduzione del debitonon debba essere legata soltanto alle scelte di bilancio

e cioè al deficit. È legittimo programmare una discipli-na di bilancio improntata al rigore (principio dell’equi-librio dei bilanci) senza dovere necessariamente utiliz-zare il risultato del bilancio per la copertura del debito.La Costituzione, cioè, conferma la neutralità sul pianodelle scelte di politica economica e ammette quindi,che la sostenibilità del debito pubblico possa passare dasoluzioni diverse dalla riduzione del deficit.

13. La sostenibilità del debito pubblico e i dirittiIl tema meriterebbe di per sé ampie riflessioni, che quinon sono consentite. Se la Costituzione oggi impone atutte le pubbliche amministrazioni di assicurare lasostenibilità del debito pubblico, sorgeranno delicatequestioni legate ai diritti dei cittadini e delle impreserispetto ai doveri delle amministrazioni, correlati allagestione di beni e servizi pubblici ed alle connesseresponsabilità e conseguenti timori nell’assunzione didecisioni da parte dei dirigenti. Il metodo prescelto perridurre il debito pubblico si tradurrà in provvedimentiche a loro volta influenzeranno la dimensione dell’or-ganizzazione pubblica, che a sua volta determinerà leprincipali voci degli aggregati economici: entrate,spese, investimenti pubblici, misure di sostegno setto-riali. Con la conseguenza che se sino ad ora la pubbli-ca amministrazione è stata assoggettata in primo luogoal “principio di legalità” (come recita il secondocomma dell’art. 97), adesso è lecito chiedersi se qual-cosa sia destinato a mutare nella relazione Stato-ammi-nistrazione-cittadini-impresa. Se lo stesso principio dilegalità ne risulti depotenziato con l’inserimento diconcetti materiali quali appunto la sostenibilità deldebito. Se abbia un qualche significato l’aver posto inevidenza in Costituzione, in primo luogo, la sostenibi-lità del debito pubblico e, ormai in seconda battuta,quel canone della legalità dell’azione amministrativache i Padri costituenti avevano collocato al primoposto. Se risponda ad un sano rapporto cittadino-ammi-nistrazione l’aver affidato a quest’ultima il compito delguardiano degli interessi dei creditori dello Stato, chepotrebbero interferire sulla scelte discrezionali dellap.a.. Se i cittadini a loro volta possano a questo puntointervenire nei procedimenti decisionali relativi allamateria in esame, partecipando in vario modo alle scel-te di politica socio-economica dello Stato e degli entilocali. Quali siano i riflessi sui diritti dei cittadini (di

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libertà, sociali, di terza generazione). Quali sull’attivitàamministrativa, come attualmente delineata da altredisposizioni di rango costituzionale e specie quella sul“buon andamento”. Quali i riflessi sulla giurisdizione.Se si assiste ad una modifica della stessa nozione diinteresse pubblico, che coincide ora anche con il “farquadrare i conti e tenerli in ordine”. Se, infine, sia inatto una modifica dello stesso diritto amministrativo,come inteso sino a ieri. Secondo la teoria tradizionale (Ottaviano, Nigro,Giannini) nello Stato democratico la cura dell’interessepubblico si risolve nel soddisfare, per volontà dell’or-dinamento, interessi dei soggetti individualmente e tal-volta collettivamente considerati. I compiti che la Costituzione affida all’amministrazio-ne possono risolversi in diritti ampliativi della sferagiuridica dei “terzi”. La nozione di “terzo” qui è daintendersi nel senso che l’amministrazione in tal casonon deve curare i propri interessi né organizzare séstessa a scapito dei cittadini o delle imprese. Tra i“terzi” rientrano certamente i creditori dello Stato, cioèi titolari del debito pubblico ma anche i semplici citta-dini. Questi ultimi tra l’altro sono in maggioranzarispetto ai primi. Ciò comporta, anzitutto, che la normaposta a salvaguardia del debito pubblico deve contem-perarsi con i diritti della maggioranza. Di conseguenza, l’art. 97, primo comma, non può essereinteso nel senso che la Costituzione ha oggi impostoall’amministrazione il compito preminente di salvaguar-dare i creditori dello Stato. Né si può dire che la cura del-l’interesse di questi ultimi coincide con l’interesse pub-blico tout court. Questa conclusione, che ha radici anti-che, è ancor di più vera oggi, visto che gli interessi paga-ti dallo Stato travalicano i confini nazionali. Per tale ragione non sarebbe legittimo il condiziona-mento dell’attività amministrativa a scapito della gene-ralità dei consociati: eventualità che potrebbe verificar-si in caso di adozione di misure idonee a soddisfareprevalentemente l’interesse dei creditori. Tanto peresemplificare, il creditore guarderà certamente confavore la decisione del proprio debitore che, per salda-re un debito, decidesse di vendere un bene appartenen-te al suo patrimonio. Nel caso di beni pubblici, la deci-sione dello Stato di vendere, ad esempio, immobili obeni di pregio non necessariamente corrisponderà agliinteressi dei consociati. Del resto, un recente esempio

viene dalla passata esperienza delle privatizzazioni, chenon ha portato i risultati sperati in termini di riduzionedel debito pubblico. Secondo la Corte dei conti, grazieai ricavi delle operazioni di dismissione patrimoniale, ilrisparmio di spesa si aggirerebbe sui 40 miliardi di euronel periodo dal 1992 al 2004. Circa 3,3 miliardi peranno. Sempre secondo la Corte, nel periodo 1992-2004in assenza di privatizzazioni, il Paese avrebbe raggiun-to nel 2008 un debito pari al 118% del PIL (invece del106% registrato). Più in generale, come già visto, potrebbe sorgere unconflitto di interessi tra i creditori dello Stato ed i citta-dini se, per assicurare la sostenibilità del debito pubbli-co, l’amministrazione dovesse scegliere una misurarestrittiva dei diritti privilegiando il punto di vista deititolari del debito. In tal caso il debito sarebbe, allostesso tempo, oneroso ed illegittimo: i) oneroso, perchéle relative obbligazioni sarebbero significativamentesuperiori ai benefici; ii) illegittimo per ché il debitosarebbe dovuto a propositi che non servono l’interessepubblico. Quest’ultimo caso si realizza quando i soldivengono presi in prestito senza vantaggi per i diritti el’interesse a che il debito sia ripagato ostacola la realiz-zazione dei diritti in futuro. Per questo, ad esempio,diverse proposte sollecitano la realizzazione di unsistema nel quale ristrutturare il debito sovrano. Il tema dei diritti è conseguente. Ogni compito dell’am-ministrazione deve essere visto con riferimento alleripercussioni sulla sfera dei singoli. Si prendano lenumerose norme della Costituzione che introducono idiritti. Proprio nel solco dell’etica della responsabilità,che si declina nella necessità di una spesa di governoefficiente ed efficace75, la p.a. che introduce misureregressive, come il taglio alla spesa per i diritti econo-mici, sociali e culturali, dovrebbe anzi tutto dimostraredi aver usato il massimo delle risorse disponibili perevitare di adottare una simile politica. Inoltre, nel decidere se ottenere un prestito è crucialeconsiderare se il Governo usa il debito per finanziareuna crescita che sarà utile nella realizzazione dei dirittieconomici e sociali e nella generazione di flussi dientrate in grado di ripagare il debito stesso. Scelta cor-retta è quella di investire nell’educazione, nella salute,nelle infrastrutture che aiutano a realizzare i diritti epossono generare ulteriori e future entrate attraversol’aumento di produttività e di investimenti privati.

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La decisione su come impiegare le risorse, specie sescarse, dipende dai Governi ma anche dalla interpreta-zione che dei diritti si vuole dare76. La giurisprudenza,ad esempio, afferma che esiste piena discrezionalitàdella p.a. di fissare per il futuro gli importi e le previ-sioni di finanziamento su base programmatica (cheattiene al merito amministrativo ed è dunque insindaca-bile sul piano della legittimità). Allo stesso tempo,però, quando la p.a. intende operare un risparmio dispesa circa la prosecuzione di servizi pubblici o di ero-gazioni a carico dell’Erario a sostegno di attività pro-duttive già in corso, l’incidenza di tali scelte sulleaspettative degli operatori (e sul mercato) è tale daimporre l’adozione di un criterio selettivo basato suanalisi compiute e misurabili di tipo qualitativo, cheassicuri che non vengano incise in maniera egualesituazioni diverse. Diversamente, si profila la violazio-ne non tanto dell’obbligo formale di motivazione, madell’obbligo sostanziale di rispetto del principio dieguaglianza, avente rilievo costituzionale e codificatonella legge 241/90 come principio generale di efficien-za ed efficacia dell’azione amministrativa. In questicasi, infatti, la discrezionalità involge non più solamen-te valutazioni di merito amministrativo vero e proprio(come quelle orientate alle scelte future), ma anche scel-te di tipo tecnico che devono poter essere verificate. Per tale ragione il dibattito sulla sostenibilità del debi-to pubblico non può che essere accompagnato daglieffetti sui diritti che la prospettata riduzione del debitopotrebbe avere. E poiché spetta ai giudici tutelare i diritti, non è nemme-no estraneo al dibattito il ruolo che le corti potrannoavere sulle misure ideate per la sostenibilità del debitopubblico. Anzi, non si può escludere uno spostamentodi potere verso i giudici cui potrebbe spettare, in defini-tiva, l’ultima parola sulla legittimità delle decisioni inmateria di riduzione del debito. Si pensi, tanto per fareun esempio, alle sentenze della Corte costituzionale chehanno deciso negli ultimi anni le numerose questioni dilegittimità costituzionale sollevate in merito alle normeche hanno bloccato gli stipendi dei dipendenti pubblici:solo in un caso è stata decisa l’incostituzionalità77. Il dibattito può essere esteso anche oltre i diritti socialiin senso stretto fino ai diritti di libertà, sino ad ora rite-nuti intoccabili. L’affermazione dei diritti comporta lanecessità di esaminarne i costi. Innumerevoli sono gli

esempi di diritti la cui tutela è affidata allo Stato ed i cuicosti sono imputati alla collettività, tramite la levafiscale. Da questo punto di vista non c’è differenza tradiritti di prima e di seconda generazione78. Tutti i dirit-ti, compresi i futuri (terza generazione: es. ambientepulito) devono misurarsi con i costi. I costi sono gli oneri del bilancio pubblico. I diritti sonogli interessi rilevanti di singoli o di gruppi che possonoessere tutelati solo grazie all’intervento pubblico. Affrontare la questione dei diritti come un costo è sco-modo sul piano ideologico e per questo motivo perdecenni non è stata risolta. Si afferma che un diritto,specie se protetto dalla Costituzione, non può esseredefinito secondo una logica ragioneristica: se esiste,esso va tutelato sempre. Ma è una petizione di princi-pio, appunto ideologica. La realtà è ben diversa. Adesempio, se il giudice afferma un principio dal qualedipende il risarcimento del danno di migliaia di perso-ne, la conseguenza non è di poco conto per le cassepubbliche. I pubblici funzionari, a loro volta, devonocosì destinare alcuni importi per soddisfare il diritto“risarcito” a scapito di altre destinazioni. Tutto ruotaattorno al sistema dei costi, anche le libertà fondamen-tali ed anche lo stesso meccanismo della giustizia cui idiritti vengono affidati per la tutela in concreto. Il tema era meno avvertito quando esistevano solo idiritti fondamentali di libertà e quando cioè la questio-ne teorica principale era quella di delimitare il poteredello Stato. Ma il tema è esploso con l’affermazione dialcuni diritti sociali ritenuti fondamentali previsti alivello costituzionale (assistenza pubblica, istruzione,sanità, etc.). L’affermazione dei diritti, specie quelli fondamentali,richiede una amministrazione molto forte79: l’impossi-bilità economica rappresenta un limite per la loro con-creta realizzazione. La questione dei diritti legati ai costi è legata a filo dop-pio con la tutela giudiziale. Se un diritto esiste, esisteanche la possibilità di tutelarlo in giudizio, recita unamassima comune dello Stato liberale. Ma questo vuoldire che se lo Stato deve garantire la tutela del diritto,allora, anche per questo aspetto, diventa rilevante latematica dei costi. Nel senso che spetta allo Stato farvifronte e in modo eguale per tutti. In tal senso la tuteladei diritti è a carico delle entrate fiscali. Prendiamo ad esempio la proprietà privata. È il più clas-

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sico diritto di stampo liberale. Si dice che rispetto a que-sto diritto lo Stato non deve intervenire. Ma senza ade-guato intervento pubblico (a difesa, ad esempio) il dirit-to non potrebbe essere esercitato. Anche questa difesa èa carico di tutta la collettività. Gran parte del budgetpubblico è posto proprio a difesa della proprietà: i costidella giustizia, delle forze dell’ordine e, per certi aspet-ti, le spese militari servono anche per questo. Anche illibero mercato non potrebbe esistere senza interventopubblico, che è sempre costoso ed a carico di tutti.Pensiamo, da noi, ai costi della Consob e dell’Antitrust. Ragionamenti analoghi possono valere in altri settori(dalle carceri alla sanità). Pensiamo ai costi dell’ammi-nistrazione della giustizia. Pensiamo alla incidenza chesul bilancio pubblico proviene dallo stesso dirittocomunitario (es.: per omesso o inadeguato recepimen-to di direttive che prevedono benefici economici) edalla C.E.D.U. (si pensi, per es., alla condanna commi-nata allo Stato per la condizione carceraria). In che senso, allora, la scarsità di risorse incide sullatutela dei diritti e sulla libertà? È l’altra faccia dellamedaglia. Se lo Stato ha poche risorse e deve magariscegliere quali interessi tutelare, è facile immaginareche alcuni diritti possano essere trascurati se nonabbandonati del tutto. Più sono scarse le risorse e mag-giore è la probabilità che alcuni diritti vengano abban-donati. Pensiamo al numero dei reati contro il patrimo-nio, senza trovare colpevoli, e più in generale alla tute-la dell’ordine pubblico interno orami minacciato dacorrenti di estremismo sempre più invasive. Pensiamoalle espropriazioni non pagate o pagate in ritardo.Pensiamo ai servizi sociali. Ai pagamenti della p.a.. Esu questo terreno i giudici possono fare ben poco.Oppure, se la scelta venisse sempre rimessa ai giudici,allora essi diventano gli arbitri della spesa pubblica80. Garantire un diritto vuol dire quindi quasi sempre distri-buire risorse pubbliche. Ormai diritti economici, dirittisociali e diritti di libertà sono sullo stesso piano. Tutti idiritti dipendono in qualche misura dalle poste di bilan-cio pubblico. Spetta oggi anche alle amministrazionitrovare un buon compromesso e individuare le priorità. A diverse conclusioni si potrebbe giungere ove il dibat-tito sulla scarsità delle risorse pubbliche e sulle misuredi riduzione del debito fosse accompagnato, ad esem-pio, da una rivisitazione della teoria attuale sui dirittisociali. In particolare, dovrebbe farsi strada la tesi

secondo cui i diritti sociali non sono diritti veri e proprie non possono fondare pretese vere. Tesi che dovrebbepassare, a sua volta, dall’affermazione secondo cui lenorme costituzionali che prevedono diritti sono normeprogrammatiche. Tale teoria ben si adatterebbe ad unnuovo assetto costituzionale secondo cui i compiti peril raggiungimento degli obiettivi sociali si possono rea-lizzare soltanto se le fonti di finanziamento lo permet-tono (sulla falsariga della Costituzione turca, art. 53). Al momento siamo però lontani dal teorizzare un conclu-sione del genere che vorrebbe definitivamente ammette-re la vittoria dell’economia e della finanza sui diritti. Torniamo così, di nuovo, all’amministrazione respon-sabile. Per considerare se è possibile per la p.a. alloca-re più fondi su programmi collegati alla realizzazionedi diritti economici e sociali, è importante esaminare ladistribuzione della spesa pubblica tra i differenti usi.Comparare i diversi settori di spesa, individuare il rap-porto con il PIL è utile in termini di valutazione e com-prensione delle priorità del governo. La spesa deveessere valutata, poi, in termini di distribuzione di bene-fici tra famiglie ed individui. Per rispettare il principiodi non-discriminazione, la spesa pubblica non dovreb-be essere allocata in modi tali da rinforzare le inegua-glianze già esistenti. Queste sono solo alcune delle sfide della p.a. chiamataa sostenere diritti e debito pubblico.

14. ConclusioniFino a che punto possono essere accettate politiche dicontenimento della spesa in grado di minare il “welfa-re state” e persino i diritti di libertà, una volta assodatoche la tutela di un nucleo essenziale di diritti è intangi-bile e che anzi è parte di quella “identità nazionale” cheil Trattato81 deve rispettare? Gli obiettivi fondamentalidell’Unione (il “benessere dei cittadini”: art. 3 delTUE; la “promozione di un elevato livello di occupa-zione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale”:art. 9 del TFUE) possono essere tuttora garantiti se ilcompito principale è quello di garantire la sostenibilitàdel debito pubblico? La stessa Corte Costituzionale ha affermato la propriacompetenza residuale nel sindacato della legge di ese-cuzione del Trattato dell’Unione Europea ed ha cosìaffermato la preminenza di principi irrinunciabili deldiritto interno, che non ammettono cessioni di quote di

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sovranità oltre certi limiti che la stessa Corte si riservadi verificare (si tratta dei c.d. contro-limiti costituzio-nali alle limitazioni di sovranità). La risposta potrebbe essere in teoria legata ad uno svi-luppo in senso federale dell’Unione, tema ormai inelu-dibile. Lo Stato può legittimamente cedere quote sem-pre maggiori dell’esercizio della sovranità a condizioneche il progetto europeo trovi uno sviluppo che vadaoltre la fase attuale della “moneta unica senza Stato”. Oancora, lo Stato può legittimamente cedere quote sem-pre maggiori dell’esercizio della sovranità a condizio-ne che, in caso di necessità, gli altri Stati membri o lastessa Unione possano intervenire ordinariamente insoccorso degli Stati in difficoltà senza contropartiteeccessive. Ma proprio su questi aspetti il Trattato contiene regoleche appaiono oggi incomprensibili e di segno opposto.Si pensi in specie a due regole rilevanti che esprimonoentrambe divieti. Il “no bailout” (art. 125 del TFUE),che vieta qualsiasi forma di aiuto; il divieto di finanzia-menti ad uno Stato membro, salvo il caso di gravi dif-ficoltà al di fuori di ogni controllo (tali non potrebberoqualificarsi difficoltà conseguenti alla politica finanzia-ria di uno Stato: art. 122 TFUE). Se condivisibili appaiono l’esigenza di un vincolo dicoerenza delle politiche finanziarie degli Stati ed ilprincipio di dialogo e collaborazione tra Stato, da unlato, Consiglio e Commissione europea, dall’altro, per-plessità suscitano i rigorosi vincoli giuridici sul pareg-gio di bilancio dettati da fonti diverse dal Trattato.Come visto sopra, ogni Stato si è comportato in mododiverso rispetto alla clausola del “pareggio” indicatanel fiscalcompact. In qualche caso, come la Francia,non risulta nemmeno rispettata la auspicata regola della“costituzionalizzazione” del principio (con l’avallo delConseil Constitutionnel): con una asimmetria che certo

deve essere valutata con sano realismo considerandol’alto tasso di politicità delle decisioni di bilancio,cuore della politica economica dei singoli Stati.Che la buona politica presupponga una buona ammini-strazione delle risorse pubbliche e dunque una politicaeconomica che tenga conto anche delle esigenze dellegenerazioni future è fuor di dubbio. Resta da chiedersi,tuttavia, se l’assetto che emerge dal Patto di stabilità edal fiscal compact sia lo strumento più adeguato perraggiungere questo scopo oppure se, come crediamo,serva l’equilibrio di bilancio accolto in Costituzione. Ilpreambolo n. 8 del Reg. 1175/2011 giustifica le novitàregolamentari anche con l’esigenza di porre rimedioagli “errori commessi nel corso dei primi dieci annidell’Unione economica e monetaria” 82: ammissionequesta che, seppure raramente espressa da un organolegislativo o amministrativo, in realtà si fonda sullabanale considerazione che le politiche di bilanciorichiedono un margine di flessibilità proprio perchésono esposte ad errori facilmente verificabili ex postma difficilmente preconizzabili ex ante. La soluzione proposta dal Trattato di Maastricht appa-re la più adeguata, quanto meno in attesa di un’evolu-zione in senso politico dell’Unione Europea: soluzioneche peraltro in Italia sembra quella che meglio si con-forma al dettato della nuova Costituzione finanziaria. D’altra parte, specie dopo il two pack del 2013, chesubordina il varo della legge di stabilità al nulla ostadella Commissione, i giuristi dovrebbero chiedersi see fino a che punto vale ancora il noto principio notaxation without representation e se, nel suo comples-so, sono legittime con riferimento a tale principio lerecenti scelte dell’Unione Europea, che ha stabilito intoto i requisiti delle strutture fiscali degli Stati: cosache neppure si verifica negli Stati membri di una fede-razione...

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* La precedente parte è stata pubblicata nelnumero 1 del 2016.

39 Il c.d. Patto euro-plus è allegato alle con-clusioni del Consiglio di Europa del marzo2011.

40 In argomento cfr. G.L. TOSATO, Lariforma costituzionale del 2012 alla lucedella normativa dell’Unione: l’interazionefra i livelli europeo e interno, in www.cor-tecostituzionale.it,2013; N. LUPO, La revi-sione costituzionale della disciplina dibilancio e il sistema delle fonti, in IlFilangieri, - Quaderno 2011.

41 N. LUPO, Costituzione europea, pareg-gio di bilancio ed equità tra legenerazioni,in Amministrazione in cammi-no, Rivista elettronica di diritto pubblico,2011.

42 Cfr G.L. TOSATO, La riforma costitu-zionale del 2012 alla luce della normativadell’Unione, cit..

43 Ancora G.L. TOSATO, op. cit.

44 Vedi riferimenti in R. DICKMANN, op.cit..

45 Entrambe da leggere sul sito www.corte-costituzionale.it.

46 L. FERRARI BRAVO -E.MOAVEROMILANESI, op. cit., 167.

47 G. SCACCIA, La giustizi abilità dellaregola di bilancio,in www.associazionedei-costituzionalisti.it, Rivista telematica dellaAssociazione Italiana dei Costituzionalisti,2012.

48 C. GORETTI, Costituzione e pareggiodi bilancio. Gli effetti della riforma costitu-zionale del 2012 sulla decisione di bilancio,in Il Filangieri - Quaderno 2011.

49 M. BERGO, Pareggio di bilancio“all’italiana”. Qualche riflessione a mar-gine della legge 24 dicembre 2012, n. 243attuativa della riforma costituzionale piùsilenziosa degli ultimi tempi, inFederalismi.it n. 6/2013.

50 Corte costituzionale n. 88/2014; n.39/2014, www.cortecostituzionale.it. Ma laCorte deve ancora esaminare funditus seesiste discontinuità sostanziale rispetto al

precedente testo dell’art. 81.

51 Sentenza n. 250/2013.

52 M. MARÈ-M.SARCINELLI, op.cit..

53 Per il carattere meramente confermativodella riforma costituzionale cfr. G.L.TOSATO, op. cit..

54 Vedi N. LUPO (2012).

55 Corte dei conti, sezioni riunite in sedeconsultiva, Parere in ordine al disegno dilegge costituzionale AS 3047, delibera n.3/2011/CONS, 2-3.

56 In senso parzialmente contrario pare laposizione di D. MORGANTE, La costitu-zionalizzazione del pareggio di bilancio, inwww.federalismi.it, 2013.

57 A. MORRONE, Pareggio di bilancio eStato costituzionale , in www.associazione-deicostituzionalisti.it, 2014.

58 K. M. SULLIVAN – Democray and thefederal budget, in New Federalist Papers(Essays in Defence of the Constitution),Norton & Company - 1997.

59 Il saldo strutturale di bilancio è il saldodepurato della componente ciclica.Rappresenta l’aggregato di riferimento aifini del raggiungimento dell’obiettivo dibilancio di medio termine.

60 G. GUARINO, op. cit.; M. LUCIANI,op. cit..

61 Si vedano gli scritti di G.L.TOSATO,R.DIKMANN,N.LUPO, ult. cit..

62 Si rammenta qui l’arresto della Corte diGiustizia del 2004 sui disavanzi franco-tedeschi.

63 Principio ribadito dall’art. 4 (1) della L.n. 243/2012.

64 V. FERRARIS, Le leggi sul debito pub-blico, Torino, 1886, op. cit., 6. Nel testo,l’A. riferisce di opinioni interessanti. IlFilangieri giunse a sostenere nei suoi“Scritti politici” il diritto del popolo di rifiu-tare le imposte, se queste vengono levate perpagare interessi di debiti, di cui non abbiaavuto profitto. Il Rossi (nei “Frammenti sul-l’imposta”) affermò che i Debiti perpetuisorpassano i limiti dell’umanità e, dopo

averli paragonati ai fedecommessi, li consi-dera contrari al fine sociale.

65 C. PUGH, Sustainability, the Environ-ment and Urbanization, (eds) 1996, NewYork, Earthscan.

66 R. HARE, Moral Thinking: Its Levels,Method, and Point, Oxford, 1981, OxfordUniversity Press.

67 J. RAWLS, Una teoria della giustizia,Milano, 2008.

68 H. JONAS, Il principio di responsabili-tà. Un’etica per la civiltà tecnologica,Torino, 2009.

69 L. DAVICO, Etica e sostenibilità, in LoSguardo – Rivista di filosofia, Roma, 2012.

70 T. PIKETTI, op. cit..

71 D.P.R. 30 dicembre 2003, n. 398, recan-te Testo unico delle disposizioni legislativee regolamentari in materia di debito pubbli-co. Si vedano anche gli artt. 475 e ss. delR.D. n. 827/1924 quanto alle modalità dipagamento del debito.

72 E a tutte le altre amministrazioni pubbli-che, per quanto di rispettiva competenza.

73 Artt. 4, comma 3, e 6, comma 2, lett. b,legge n. 243/2012.

74 L. FERRARI BRAVO-E.MOAVEROMILANESI, op. cit., 167.

75 Sulla insufficienza delle misure sino adora adottate in materia di spesa pubblica siveda L. TORCHIA, Il sistema amministra-tivo italiano, 2009, Bologna.

76 L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali.Un dibattito teorico, Roma-Bari, I ed.,2001.

77 Corte cost. n. 223/2012, in www.corteco-stituzionale.it.

78 S. HOLMES-C.R.SUNSTEIN, Il costodei diritti, Bologna, 2000.

79 E.W. BOCKENFORDE, Stato,Costituzione, democrazia, Milano, 2006.

80 K. M. SULLIVAN, op. cit..

81 Art. 4 (2) del TUE.

82 La stessa sorprendente affermazione èriprodotta nel Reg. 1177/2011.

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Aparere di chi scrive il dottorato di ricerca hasenso nella misura in cui esso consenta di intra-prendere uno studio del diritto nella sua applica-

zione pratica. Da un lato infatti un teorico che non studîil diritto vivente sarà condannato a non essere mai presoin considerazione. D’altro canto, è ben vero che uno stu-dio razionale del diritto consente al pratico di non fer-marsi all’epifenomeno, bensì di indagare circa le vereragioni sottese ad una determinata norma. Ciò è vero perogni ramo del diritto e per ogni questione pratica chevenga concretamente fatta oggetto di studio. Tanto perfare un esempio, in riferimento allo studio delle formenel processo civile, Giuseppe Chiovenda affermava che«senza questo studio razionale, i pratici seguiranno adaggirarsi, come fanno spesso, nel dedalo delle forme,conoscendone forse alla perfezione i meandri, ma nullasapendo delle loro origini e del loro perché». Continuapoi l’illustre Autore: «e sarà grave danno; poiché se ipratici portassero nell’uso quotidiano colle forme giudi-ziali una chiara visione dei bisogni cui esse rispondonoe del modo in cui vi rispondono, nessuno meglio di loropotrebbe consigliare le riforme processuali». Con ciò si vuole in sostanza dire che, nel diritto, la teo-ria e la pratica devono compenetrarsi. Se così è, il dot-torato di ricerca è il contenitore ideale dove realizzaretale compenetrazione.Questo il quadro generale, perché all’atto pratico alcu-ni dottorati potrebbero risultare diversamente confor-mati. Alcune università, sia a Roma che a Milano, pub-bliche tanto private, hanno recentemente preso l’abbri-vio nell’istituire nuovi corsi o scuole di dottorato adampio spettro – o con espressione peggiorativa omni-bus. Si possono così trovare corsi di dottorato in studîgiuridici, scienze giuridiche, diritto e impresa, dirittointernazionale ed economia et alia. Tali corsi sono ten-denzialmente finalizzati a fornire al candidato una

panoramica globale delle materie trattate per consentir-gli di cogliere i profili di multidisciplinarietà sottesiagli argomenti oggetto di approfondimento.Posta la meritorietà di un corso di studî multidisciplina-re, nonché la riduzione dei fondi per la ricerca e la con-seguente necessità di accorpare alcuni corsi di dottora-to, conviene sùbito andare al cuore della questione.Vale cioè chiedersi se simili corsi siano in grado di fun-gere da incubatori per le nuove generazioni di operato-ri del diritto chiamati ad operare sul doppio versante:teorico e pratico; accademico e forense.La genericità di un corso di studio dottorale in scienzegiuridiche, o diritto e impresa non lascia ben pensare.Non bisogna però essere pessimisti oltre misura.Infatti, la riduzione dei fondi per la ricerca ha portatoalla necessità di accorpare due o più corsi di dottoratoin uno, con conseguente diminuzione dei posti totalidisponibili e della spesa complessiva. Inoltre, capitaspesso che, dopo un periodo variabile tra uno e duesemestri, il candidato debba scegliere una materia par-ticolare nell’àmbito di quelle in cui si articola il percor-so di studio. Sicché in tale àmbito specifico si dovrà poiredigere la propria tesi di dottorato. Il senso della isti-tuzione di simili corsi quindi, se non si erra, è quello difar buon viso a cattivo gioco. Con la scusa dell’approc-cio multidisciplinare, con questi dottorati omnibus sicerca in buona sostanza di razionalizzare le pocherisorse disponibili.Il problema è che alla genericità del titolo del corso distudio consegue anche una certa genericità del mecca-nismo selettivo dei candidati dottorandi. Così un candi-dato che porti un progetto di ricerca in diritto ed econo-mia dal taglio internazionalistico può trovarsi di fronteuna commissione per l’esame orale composto da pena-listi, civilisti e tributaristi. Oppure ancora, intrapresomagari il dottorato di ricerca al fine di studiare il dirit-

Alcune considerazioni circa i nuovi dottorati di ricerca omnibusBeka TavartkiladzeDottore di ricerca in Diritto dell’Arbitrato, Università “LUISS Guido Carli” di Roma

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to societario, il dottorando potrebbe per sei o dodicimesi essere chiamato a seguire defatiganti lezioni nonpertinenti alla materia eletta. La prima evenienza con-durrebbe ad una approssimativa selezione dei candida-ti. La seconda porterebbe invece alla diminuzione deltempo a disposizione del candidato da dedicare allapropria ricerca e alla conseguente deteriore qualità dellavoro finito.In sintesi quindi, la multidisciplinarietà di un corso didottorato rischia di essere un’arma a doppio taglio.Anziché consentire di cogliere i nessi tra la materia pre-scelta ed altri rami del diritto, detto approccio multidi-sciplinare potrebbe invece rivelarsi un faticoso ostaco-lo da superare per chi invece abbia le idee chiare evoglia sùbito dedicarsi a ciò che più lo interessa. Ciò detto, tuttavia è bene anche notare che un dottora-to di ricerca ad ampio spettro potrebbe invece portarevantaggi su altri fronti. Avere il titolo di dottori di ricer-ca in diritto ed economia può infatti agevolare nellasuccessiva fase post-dottorale. Come infatti sono dimi-nuiti i fondi per i dottorati, ancor di più sono diminuitele risorse per gli assegni di ricerca e per i posti da ricer-catore. Sicché poter spendere un titolo ampio comequello di dottore di ricerca in diritto e impresa, ovverodiritto ed economia, potrebbe tornare utile qualora ciòconsenta al candidato di aumentare i bandi da assegni-

sta a cui puntare. Tanto per fare un esempio: un dotto-re di ricerca in diritto e impresa, potrebbe poi concor-rere al posto di ricercatore in diritto della concorrenza,diritto penale dell’impresa et alia. Un dottore di ricer-ca in diritto processuale civile invece difficilmente puòspendersi in altri àmbiti. Si potrebbe cioè vedere neldottorato omnibus una via utile a diversificare edampliare gli sbocchi successivi. Ecco quindi che sidelinea il punto focale. Il dottorato di ricerca può esse-re lo strumento per fondere teoria e pratica e formareveri specialisti, oppure può essere un mezzo per massi-mizzazione le prospettive, quanto mai eventuali, di car-riera e di reddito. La simpatia di chi scrive va alla primascelta. Senza riserve. Difficile credere che Chiovenda oSatta abbiano cominciato a studiare semplicementeperché puntassero a diventare ricercatori e non perchémossi da un genuino interesse per il diritto processualecivile – senza altre distrazioni.Posto quanto sopra, l’affezione per una determinataconcezione delle scuole dottorali dipende in massimaparte dalla propria indole e, in quanto tale, è suscettibi-le di diversi apprezzamenti. Ciò che invece importa èche i dottorati, per quanto omnibus, non smettano diessere un ponte tra l’università e la professione, con-sentendo così ai giovani professionisti di fondere teoriae pratica.

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In termini generali, l’istituto dell’obbligazione risa-le al diritto romano e l’etimo del termine obbliga-zione ‘obbligatio’ è riconducibile alla preposizone

ob (verso) e al verbo ligare (legare). Nella concezionemoderna dell’istituto, l’obbligazione rappresenta il vin-colo giuridico in forza del quale un soggetto (debitore)è tenuto ad effettuare una prestazione di dare, fare onon fare nei confronti di un altro soggetto (creditore).Più precisamente, l’obbligazione è un vincolo e inquanto tale “costringe” il debitore a tenere il comporta-mento dedotto in obbligazione al fine di soddisfare l’in-teresse creditorio e, correlativamente, attribuisce al cre-ditore insoddisfatto nelle sue ragioni il diritto di agirein giudizio per la realizzazione coatta del suo diritto dicredito. L’obbligazione e il vincolo che la identificapossono essere analizzati sotto tre profili: funzionale,dogmatico strutturale e patologico. Il rapporto obbligatorio è, dunque, un rapporto giuridi-co. Ma non tutti i rapporti giuridici sono obbligazioni.Gli obblighi che difettano del carattere della giuridicitànon sono obbligazioni in senso stretto, non rientranonel paradigma dell’art. 1173 c.c. e non soggiaccianoalla relativa disciplina. Sicché, gli obblighi privi di giu-ridicità, il cui inadempimento non è sanzionato con lostatuto della responsabilità declinabile ex art. 1218 c.c.e ss., sono le obbligazioni naturali, i gentlemen’s agree-ments, i rapporti di cortesia.La peculiarità dei rapporti di cortesia (contestual nolaw) è rinvenibile nella circostanza che il comporta-mento si inserisce non nell’ambito di un rapporto giu-ridicamente rilevante bensì in un rapporto di carattereaffettivo, sociale, amicale, morale, latu sensu solidari-stico. I criteri adottati dalla giurisprudenza per distin-guere una prestazione di cortesia da una di tipo giuridi-co sono : la presenza o meno di un corrispettivo; lafinalità della prestazione egoistica o solidaristica e,infine, l’inerenza di essa ad una professione intellettua-

le regolata dalla legge.I gentlemen’s agreements sono rapporti caratterizzatidalla circostanza che, nonostante il contesto di giuridi-cità in cui sorgono, le parti, con intento giuridico nega-tivo, decidono di escludere rilevanza ed efficacia giuri-dica (deliberate non law) del loro accordo. In tale caso,la volontà espressa o chiaramente desumibile delleparti priva di naturale giuridicità e vincolatività rappor-ti ordinariamente negoziali. In relazione alle obbligazioni naturali valgono, invece,le considerazioni che seguono. Il pagamento di un debito suppone, nel rispetto delprincipio causalistico a cui risulta informato il nostroordinamento, l’esistenza di valido rapporto obbligato-rio tra le parti. Il debitore, cioè, è tenuto ad eseguire laprestazione solo se e in quanto abbia instaurato con ilcreditore un rapporto giuridicamente rilevante. Seviene effettuato un pagamento in difetto di tale presup-posto, colui che ha pagato può chiedere la restituzionedella prestazione (artt. 2033 e 2036 c.c.). L’eccezionea tale regola è costituta dell’art. 2034 c.c. a tenore delquale “non è ammessa la ripetizione di quanto è statospontaneamente prestato in esecuzione di doverimorali o sociali, salvo che la prestazione sia stata ese-guita da un incapace. I doveri indicati nel comma pre-cedente e ogni altro per cui la legge non accorda azio-ne ma esclude la ripetizione di ciò che è stato sponta-neamente pagato, non producono altri effetti”. I doveri morali e sociali cui la norma fa riferimentosono le c.d. obbligazioni naturali. La Relazione al codi-ce civile fornisce la definizione di obbligazione natura-le precisando che essa non costituisce un vincolo giuri-dico neppure imperfetto e, come tale, non è idonea aprodurre effetti giuridici.Il concetto di obbligazione naturale risale all’elabora-zione giuridica romana, dove veniva impiegato perindicare obbligazioni giuridicamente imperfette, come

Obbligazioni naturali: debito di gioco e conversione in obbligazione giuridicaFrancesca ZignaniAvvocato

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ad esempio gli obblighi assunti da persone alieni iurissubiectae come i figli, gli schiavi, e costituenti obbliga-zioni perfette, dal punto di vista civilistico , ma dege-nerate, come ad esempio, i debiti prescritti.Successivamente nell’ambito dell’elaborazione giuri-dica intermedia (tradizione canonistica) si è fatta gra-dualmente strada una concezione maggiormente lata diobbligazioni naturali, intese alla stregua di doveri dicoscienza o di doveri morali.L’attuale assetto normativo si caratterizza per aversvincolato la materia dell’obbligazione naturale daquella del pagamento, collegamento persistente, inve-ce , nel codice abrogato e per l’utilizzo di un concettovago e indeterminato. Il codice civile , in particolare,fa uso dell’avverbio “spontaneamente” in luogo di“volontariamente” utilizzato nel precedente codice, ciòin quanto l’effetto della soluti retentio, tipico dell’ob-bligazione naturale, sussiste anche qualora il debitoreabbia pagato credendo di essere obbligato in conformi-tà ad un’obbligazione civile. Il contenuto delle obbligazioni naturali è variabile, inragione della loro attitudine ad adeguarsi al giudizio dimoralità e doverosità sociale del tempo nel quale ven-gono ad essere riconosciute. Costituiscono valvole disicurezza dell’ordinamento giuridico, clausole di salva-guardia. Tradizionalmente sono inquadrate nella cate-goria delle obbligazioni imperfette o quiescienti, tenu-to conto dell’impossibilità di agire giudizialmente perottenere l’esecuzione dell’adempimento che integratale obbligazione. La natura giuridica dell’obbligazione naturale costitui-sce da sempre tematica di ampio dibattito dottrinale.Una parte della dottrina ha esperito il tentativo di risol-vere il problema della qualificazione dell’obbligazionenaturale con l’impiego dello schema ricostruttivo del-l’obbligazione giuridica: dissociando il momento dellagiuridicità da quello della coercibilità della posizionecreditoria l’obbligazione naturale viene costruita comespecies del genus obbligazione civile e, quindi, comeobbligazione giuridica imperfetta o come rapporto lacui giuridicità emerge in conseguenza dell’adempi-mento o ancora come ipotesi di debito senza responsa-bilità sino a giungere alla prospettazione dell’obbliga-zione naturale come obbligazione giuridica quiescien-te. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie sonofavorevoli, invece, alla tesi della non giuridicità del

vincolo. Le obbligazioni naturali vengono assuntecome fatti giuridici, a cui la legge riconnette conse-guenze giuridiche nel momento in viene effettuato ilpagamento. Muovendo dal concetto di ripetizione del-l’indebito, conclude nel senso che nelle obbligazioninaturali emerge non una giusta causa obligandi, mapiuttosto una giusta causa solvendi. Essa, infatti, sup-ponendo l’adempimento di un dovere morale o socialegiuridicamente rilevante, si colloca all’esterno dei con-fini della giuridicità del vincolo obbligatorio, inun’area di rapporti sociali irrilevanti per il sistema divalutazioni in cui tipicamente si esprime la considera-zione normativa delle attività private e assume rilievo,seppur indirettamente, come causa solvendi.La natura dell’atto di adempimento dell’obbligazionenaturale è anch’esso al centro di un ampio e risalentedibattito. Mentre un’opinione minoritaria ritiene chel’adempimento delle obbligazioni naturali costituiscaatto giuridico in senso stretto, l’orientamento prevalen-te colloca l’attività del solvens sul terreno dell’autono-mia privata, qualificandola come manifestazione, siapure in chiave attuativa, del potere di autoregolamento.In tale prospettiva, l’adempimento dell’obbligazionenaturale rileva come atto negoziale, con cui il soggettoagente dispone liberamente della propria sfera giuridi-ca per realizzare un interesse che l’ordinamento ritienemeritevole di tutela (art. 1322 c.c.); e il dovere moraleo sociale si atteggia a causa (esterna) dell’attribuzionepatrimoniale. E’ dubbio se si tratti di un contratto ovve-ro di un negozio giuridico unilaterale. In ogni caso,produce effetti reali e, secondo l’opinione più diffusa,si perfeziona con l’esecuzione della prestazione, allastregua di un negozio reale.In relazione all’atto di adempimento, si discute se essosia a titolo gratuito oppure oneroso. La tesi della gratui-tà è sostenuta da quanti evidenziano la mancanza di unacontroprestazione da parte del beneficiario dell’adem-pimento. Coloro che sponsorizzano la tesi dell’onerosi-tà si soffermano, invece, sull’elemento soggettivo cheanima l’obbligazione naturale: in essa è riscontrabileun animus solvendi e non donandi, con la conseguenzache permane pur sempre l’adempimento di un dovere,seppur morale o sociale. La posizione intermedia trale due tesi appena esposte è assunta da coloro che con-siderano il pagamento un atto neutro. Dell’onerositàmancherebbe la sussistenza di un dovere, tale non

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potendosi definire quello morale o sociale: la sussisten-za dell’onerosità può essere valutata, pertanto, solocaso per caso. L’adempimento dell’obbligazione naturale può essereeseguito anche da un terzo (art. 1180). Mancando l’ar-ricchimento da parte di chi si è liberato dall’obbligazio-ne naturale, il terzo adempiente può agire in via diregresso nel solo caso in cui la sua ingerenza possaconsiderarsi utilmente intrapresa ai sensi dell’art. 2031,1° co., c.c.. Il terzo può anche estinguere l’obbligazio-ne naturale a seguito di delegazione da parte di chi vi èmoralmente o socialmente tenuto, poiché il delegato, aisensi dell’art. 1271, 3° co., c.c. non può opporre aldelegatorio l’insussistenza di un’obbligazione giuridicadel rapporto di valuta. L’adempimento è senz’altroinvalido quando la volontà del disponente sia viziata daviolenza o da dolo o quando l’adempimento del solvenssia stato determinato dall’errore sull’esistenza dell’ob-bligazione naturale. Tendenzialmente si esclude l’im-pugnabilità dell’adempimento quando l’obbligazionenaturale esiste ma il solvens abbia erroneamente credu-to che essa fosse giuridicamente vincolante. Il dettato letterale dell’art. 2034, 2° co., c.c. parrebbeescludere che l’obbligazione naturale sia suscettibile diestinguersi in modi diversi dall’adempimento. Ma lavalenza sostanziale delle norma indurrebbe a ritenereammissibili i modi di estinzione dell’obbligazione chesi perfezionano mediante l’esecuzione di una prestazio-ne solutoria, ossia la compensazione volontaria e ladazione in pagamento. Deve escludersi, invece, chel’obbligazione naturale possa estinguersi per novazione,per compensazione legale o giudiziale o per remissione. In tale contesto, l’esame della tematica del debito digioco e la possibile conversione in obbligazione giuri-dica richiedono la preliminare disamina dell’istitutodelle obbligazioni naturali alla luce dei concetti di tipi-cità ed atipicità.È controverso il rapporto intercorrente fra i due commidell’art. 2034 c.c., i quali si riferiscono partitamente adaltrettanti fenomeni giuridici: accanto ai doveri moralio sociali (comma 1°), sono presi in considerazione glialtri doveri “per cui la legge non accorda azione, maesclude la ripetizione di quanto è stato spontaneamentepagato” (comma 2°). Si ritiene prevalentemente che idoveri previsti dal comma 2° siano anch’essi morali osociali, in quanto costituirebbero semplicemente una

tipizzazione legislativa delle obbligazioni naturali, cosìcome esse sono definite, dal comma 1°. Da ciò si desu-me, quindi, la coesistenza di fattispecie tipiche (comma2°) e atipiche (comma 1°) di obbligazioni naturali. Undiverso orientamento, al contrario, ritiene che i doveriprevisti dal comma 2° abbiano natura propriamentelegale e, sebbene possano coincidere con doveri mora-li o sociali, non si identificano con quest’ultimi. I dove-ri di cui al comma 2°, in particolare, sussistono anchequando il comportamento di cui si tratta non sia (più)considerato moralmente o socialmente doveroso. Intale prospettiva le obbligazioni naturali non costitui-scono una categoria concettuale unitaria dal punto divista sostanziale. Il che non incide, tuttavia, sulla disci-plina giuridica applicabile, in quanto il comma 2°dispone un’equiparazione quoad effectum dei doveriivi previsti a quelli morali o sociali di cui al comma 1°. Nonostante la piana formulazione dell’art. 2034,comma 1° c.c., il criterio di identificazione dei doverimorali o sociali risulta assai problematico. Si escludeunanimamente che l’espressione legislativa individuiun’alternativa fra tipi diversi di doveri, i quali vicever-sa devono essere al tempo stesso morali e sociali. Essisono perciò costituiti dalla c.d. morale sociale. Noncostituiscono, invece, obbligazioni naturali né i doveridella morale individuale né i doveri di cortesia o digalateo.Dunque, le obbligazioni naturali al pari delle obbliga-zioni giuridiche si distinguono i tipiche e nominate eatipiche e innominate. I doveri previsti dall’art. 2034,comma 2°, c.c. costituiscono un numero chiuso in cuisono ricondotti: la fiducia testamentaria (art. 627,comma 2°, c.c.); il debito di gioco (art. 1933 c.c.) non-ché, secondo l’opinione prevalente, il debito prescritto(art. 2940 c.c.).Sinteticamente nella previsione dell’art. 627, 2°comma, c.c. un soggetto, che nel testamento è indivi-duato come erede, è obbligato a trasferire ad un terzosoggetto, che riceve l’attribuzione finale. Ma il suodovere non è di tipo giuridico ma meta-giuridico, peralcuni di tipo morale. La prestazione con cui ritrasferi-sce al terzo dei diritti che ha ereditato non costituisceadempimento di un’obbligazione giuridica ma esecu-zione di un’obbligazione naturale. È per tale ragioneche il 627 c.c. prevede la non ripetibilità del trasferi-mento. Allo stesso modo può dirsi nella previsione del-

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l’art. 2940 c.c. per il pagamento del debito prescritto.Anche questo non è ripetibile. Ad un tal riguardo, auto-revole dottrina utilizza il termine “transcodificazione”dell’obbligazione: a voler significare, in altri termini,che l’obbligazione giuridica esiste, l’obbligazione,cioè, nasce giuridica ma si prescrive e si trasformandoin obbligazione naturale.La terza ipotesi di obbligazione naturale nominata ècostituita dal debito di gioco di cui all’art. 1933 c.c..Caratteristica rilevante della fattispecie è l’assenza ditutela: non esiste azione a tutela dell’obbligazione cre-ditoria, che è qualificata come obbligazione naturale.Vige la regola sociale secondo cui “chi perde paga”. Lagiurisprudenza ritiene che la norma di cui all’art. 1933c.c. esprima un principio generale dell’ordinamento,poiché lo spostamento patrimoniale che il gioco realiz-za è uno spostamento irrazionale (Barcellona). Il giocoo la scommessa sono governate dalla sorte; sono, quin-di, irrazionali essendo rapporti che derivano dallabuona o dalla cattiva sorte (fortuna).Con maggiore impegno esplicativo può dirsi che l’art.1933 c.c. costituisce espressione di un principio evoluti-vo di quello declinato ai sensi dell’art. 2041 c.c., chedisciplina l’arricchimento senza causa. Come sopra cen-nato, per il rispetto del principio causalistico, l’ordina-mento non ammette uno spostamento senza causa. E, peril combinato disposto di cui agli artt. 1933 e 2041 c.c., sipuò aggiungere che l’ordinamento non ammette neppu-re spostamenti con causa irrazionale. Ciò spiega la ragio-ne per cui l’ordinamento non ammette azione. I principiesposti spiegano anche la nullità dei contratti derivati e laragione per la quale ad essi non si applica l’art. 1933 c.c..Il derivato, infatti, non è un contratto irrazionale in astrat-to: il contratto va controllato in concreto. Poiché se ilrischio connaturato alla prestazione dedotta in contrattonon è contemplabile, non conoscibile, non gestibile allo-ra il negozio, per l’ordinamento, produce uno spostamen-to irrazionale. In altri termini, soggiace alla controllo dimeritevolezza in concreto al cui riguardo viene utilizzatala formula “governo di razionalità”. L’art. 2034 c.c. sancisce, come sopra espresso, un prin-cipio generale valevole per tutte le obbligazioni natura-li: la non ripetibilità dell’obbligazione o, meglio, del-l’adempimento delle obbligazioni naturali, tipiche nelsecondo comma, atipiche o innominate nel primo. Intale contesto, i contratti atipici fanno ingresso nell’or-

dinamento giuridico se superano, come noto, il vagliodi meritevolezza. Allo stesso modo, nelle obbligazioninaturali atipiche occorre accertare se quel dovere mora-le o sociale non è in contrasto con i principi dell’ordi-namento giuridico. L’obbligazione naturale non puòessere il mezzo per eludere norme imperative.In realtà, poiché l’obbligazione naturale non produceeffetti giuridici ci si è chiesti per quale motivo essadeve soggiacere al vaglio di meritevolezza. In effetti,non esiste una valida causa obligandi tanto nell’obbli-gazione naturale meritevole quanto in quella non meri-tevole, in entrambi i casi non sorge un vincolo giuridi-co coercibile, rimediabile, giustiziabile. Ecco, dunque,che il vaglio di meritevolezza diventa rilevante sotto ilprofilo della causa solvendi. Per le obbligazioni naturali non meritevoli non vi è unavalida causa obligandi né una valida causa solvendi:quindi si tratta di obbligazioni ripetibili ex art. 2041c.c., cioè, la prestazione eseguita in esecuzione di unobbligazione naturale immeritevole è ripetibile.Diversamente, le obbligazioni naturali meritevoli purnon presentando una valida causa obligandi possiedo-no una valida causa solvendi. Sicché l’ordinamentoritiene che l’obbligazione naturale produca uno sposta-mento patrimoniale valido. In questo caso l’obbligazio-ne non è ripetibile. La soluti retentio costituisce effettodell’obbligazione naturale meritevole. Per vero,l’orientamento prevalente ritiene che non sia un effettodell’obbligazione naturale ma derivi dall’adempimentodi essa: l’atto di adempimento a cui l’ordinamentoricollega effetti (art. 2034 c.c.).Una chiave di lettura delle obbligazioni naturali puòessere di seguito sintetizzata. Se l’obbligazione natura-le non produce effetti le conseguenze che ne derivanosono: 1) non si applicano gli strumenti di tutela deldiritto di credito (art. 2740 c.c.), con assenza dellagaranzia patrimoniale generica; 2) non si applica ladisciplina dei mezzi di conservazione della garanzia; 3)non trova applicazione neppure la disciplina del-l’adempimento ex art. 1218 c.c.; 4) non si applicano lenorme di estinzione dell’obbligazione giuridica; 5) e,secondo alcuni, non si potrebbe neppure configurare unadempimento del terzo.Particolarmente dibattuta è anche la questione in ordinealla convertibilità o meno dell’obbligazione naturale inobbligazione giuridica. Secondo un primo orientamento

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favorevole alla soluzione positiva l’obbligazione natu-rale può essere convertita attraverso due strumenti: a)con la novazione; b) con il riconoscimento del debito. Mediante il contratto novativo, in presenza di un animusnovandi e l’aliquid novi, verrebbe resa giuridica l’obbli-gazione naturale; il contratto di novazione costituirebbemanifestazione di volontà espressiva di una sorta diintento giuridico positivo. Con il riconoscimento deldebito la trasformazione dell’obbligazione da naturale agiuridica si verificherebbe attraverso un fenomeno diastrazione: il rapporto sottostante che viene riconosciu-to trova la sua fonte nell’obbligazione naturale. Sidarebbe vita ad una duplicità di rapporti: quello derivan-te dall’obbligazione naturale e quello sovrastante in cuiil debitore assume un’obbligazione giuridica che sorgedal riconoscimento. Il negozio ricognitivo avrebbe ilpotere di veicolare l’obbligazione nel campo della giu-ridicità convertendo l’obbligazione naturale originariain una obbligazione giuridica tout court. La tesi dottrinaria appena esposta non è condivisa dal-l’orientamento maggioritario il quale esclude il feno-meno della possibile conversione dell’obbligazionenaturale. In questa prospettiva si osserva che non si piònovare o riconoscere l’obbligazione naturale ai finidella sua convertibilità poiché gli istituti della novazio-ne e del riconoscimento del debito presuppongonol’esistenza di una vera e propria obbligazione giuridica:nel caso di specie, si osserva, il rapporto da novare o dariconoscere non produce effetti giuridici, non esistendoun’obbligazione giuridica, l’obbligazione naturale nonpuò essere convertita.La giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione diaffermare che la mera promessa di remunerazione, fattaad un terzo da parte del “de cuius” non determina il sor-

gere di un obbligo di pagamento vincolante per glieredi in quanto, un assenza dell’accertamento dellaprova di pattuizioni o di versamenti periodicamenteeseguiti, a tale promessa deve riconoscersi esclusiva-mente la qualificazione di obbligazione naturale nontrasmissibile “mortis causa” in quanto priva di vincola-tività giuridica prima e fuori dell’adempimento, tenutoconto che la promessa di pagamento, in quanto noncostitutiva di un’ obbligazione ma esclusivamente con-fermativa di un preesistente rapporto fondamentale,non è idonea a trasformare in un debito giuridicamentevincolante per il promettente un’ obbligazione naturale(Cass. n. 15301/2011). Orientamento quest’ultimo che conferma, in relazione atematiche diverse, uno più risalente secondo cui la pro-messa di pagamento ha valore meramente confermativodi un preesistente rapporto fondamentale ma non è ido-nea a costituire nuove obbligazioni, nemmeno nel sensodi trasformare in debito giuridicamente vincolante per ilpromittente l’obbligazione naturale del terzo, avendo ilsolo effetto di invertire l’onere della prova, cioè di eso-nerare il destinatario della promessa dall’onere di pro-vare l’esistenza di una causa debendi e di far caricodella relativa prova contraria al promittente. Peraltro,nel caso di promessa “titolata”, con l’indicazione delfatto costitutivo dell’ obbligazione, l’oggetto di siffattaprova è circoscritto alla inesistenza, inefficacia oEstinzione del rapporto indicato e, pertanto, ove il tito-lo menzionato risulti privo di valore giuridico (nellaspecie, atto dispositivo mortis causa del coniuge delpromittente, nullo per difetto di Forma scritta), la provaa carico del promittente deve considerarsi soddisfatta,con conseguente esclusione del carattere vincolantedella promessa di pagamento (Cass. n. 2800/1984).

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L’art. 7 D.L. 83/2015 ha aggiunto al comma 2dell’art. 118 l.f. un’articolata previsione,composta da 7 nuovi periodi, secondo la

quale la chiusura del fallimento per “ripartizione finaledell’attivo” non è impedita dalla pendenza di giudiziche vedono come parte la procedura, giudizi rispetto aiquali il curatore “può” mantenere la legittimazione pro-cessuale “ai sensi dell’art. 43 l.f.”.La modifica in questione, applicabile anche ai falli-menti già pendenti alla data di entrata in vigore dellalegge di conversione, riproduce quanto già previsto perla liquidazione coatta amministrativa (art. 92, co. 7 e 8TUB1) e sembra diretta ad evitare che le lungaggini deiprocessi aventi ad oggetto diritti (o pretesi diritti) dellamassa si ripercuotano sulle procedure fallimentari,impedendone la chiusura e, quindi, ad arginare ilrischio di pretese risarcitorie fondate sulla legge Pinto.Pur essendo l’intento del legislatore certamente lode-vole, ci troviamo di fronte ad una disposizione la cuiinterpretazione non è sicuramente agevole a causa dellasua estrema approssimazione e laconicità e delleimproprietà tecniche e lessicali che contiene.

1. Collocazione della normaUna prima criticità attiene alla collocazione dellanuova norma.Ed infatti, si è già avuto modo di evidenziare che, pro-babilmente, ciò che il legislatore avrebbe dovuto“ritoccare” non era la norma sulla chiusura del falli-mento, bensì quella che definisce i presupposti delriparto finale e, cioè, l’art. 116 l.f., che imponeva (econtinua ad imporre) al curatore di presentare al giudi-ce delegato il conto della gestione una volta “compiutala liquidazione dell’attivo e prima del riparto finale”.

Ed invero, tale ultima norma continua a prevedere cheper procedere alla ripartizione finale la liquidazionedebba essere “compiuta”, vale a dire “esaurita”, mentreil nuovo comma 2 dell’art. 118 l.f. ci dice in sostanza chela liquidazione può ritenersi “compiuta” senza bisognoche quei giudizi, rispetto ai quali il curatore “può” man-tenere la legittimazione processuale, si siano esauriti.

2. Portata applicativa della normaUn secondo (tutt’altro che irrilevante) problema attienealla portata applicativa della norma.Occorre, in particolare, chiedersi: a) se la regola della chiusura in pendenza di giudizioperi solo con riferimento all’ipotesi di chiusura di cuiall’art. 118 n. 3 (per ripartizione finale dell’attivo); b) quali siano, in concreto, i “giudizi” la pendenza deiquali non impedisce la chiusura del fallimento.Con riferimento alla prima domanda, secondo unaprima opzione ermeneutica, la regola opererebbe solonel caso di chiusura di cui all’art. 118 n. 3 e andrebbeinterpretata nel senso che il curatore e il giudice dele-gato, prima di avviare il fallimento alla chiusura, effet-tuino un giudizio prognostico in merito a tale modalitàdi chiusura (riparto finale) quale unico possibile esitodel fallimento.La regola sarebbe, invece, inapplicabile ove, all’attodella decisione di chiudere il fallimento, non fosse daescludere la chiusura ai sensi dell’art. 118, n. 2 l.f.(pagamento o estinzione dei crediti ammessi ancheprima della ripartizione finale dell’attivo).Dovrebbe parimenti escludersi l’applicabilità dellaregola della c.d. “chiusura accelerata” ove non potesseescludersi un surplus dell’attivo sul passivo, tale dadeterminare il ritorno in bonis della società e la restitu-

La chiusura del fallimento in pendenza di giudiziinerenti alla composizione della massa attiva: il nuovo art. 118, co. 2 legge fallimentareValentina Di LeoGiudice Delegato presso il Tribunale Fallimentare di Vibo Valentia

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zione, ad essa, del plusvalore; si pensi, ad esempio, aicasi in cui, ove la procedura risultasse vittoriosa neigiudizi, il fallimento incameri somme tali da determi-nare un eccedenza dell’attivo sul passivo.Applicando la regola in questione a tali ipotesi, il ritor-no in bonis della società sarebbe precluso dalla sua can-cellazione dal registro delle imprese, cancellazioneconseguente alla avvenuta chiusura ai sensi dell’art.118 n. 3 l.f.; salvo che si ritenga percorribile la stradadella “cancellazione della cancellazione dal registrodelle imprese”, che potrebbe consentire la restituzionedel plusvalore alla società cancellata dal registro delleimprese in esito alla chiusura “accelerata” della proce-dura concorsuale e successivamente tornata in bonis.In sede di approvazione del rendiconto di gestione, poi,non possono escludersi forme di “reazione” da partedella società fallita che rivendichi il proprio interesse arestare in vita nei casi in cui non possa escludersi lachiusura del fallimento ai sensi dell’art. 118, n. 2 l.f.Venendo alla seconda domanda, il dato testuale e, pre-cisamente, il riferimento all’art. 43 l.f., induce a ritene-re che i giudizi cui fa riferimento il nuovo comma 2dell’art. 118 l.f. siano (solo) quelli relativi a «apportipatrimoniali del fallito compresi nel fallimento», conriferimento ai quali l’art. 43 l.f. stabilisce che il curato-re stia in giudizio in luogo del fallito in conseguenzadell’incapacità processuale di quest’ultimo.Si tratta, cioè, dei rapporti giuridici sostanziali diretta-mente facenti capo al fallito, ossia rivenienti dal suopatrimonio e, più in particolare, dei diritti/ situazionisoggettive attive2 del fallito preordinate all’acquisizionedi cespiti da devolvere alla soddisfazione dei creditori.Pur essendo detti rapporti od azioni tendenzialmentepreesistenti al fallimento, non può escludersi che lanorma si applichi anche ad azioni sorte nel patrimoniodel fallito in corso di procedura (si pensi ad azioni atutela dei diritti maturati in capo al fallito per effetto diuna delazione ereditaria intervenuta a suo favore dopola dichiarazione di fallimento).Questa interpretazione, rispettosa del dato letterale,mal si concilia con la generale istanza di abbreviazionedei tempi complessivi della procedura fallimentare, cheha ispirato le ultime riforme legislative (si pensi allamodifica dell’art. 104ter l.f., che, a seguito della rifor-ma del 2015, prevede che il termine entro il qualedev’essere compiuta la liquidazione dell’attivo non può

eccedere i due anni dalla dichiarazione di fallimento,all’art. 106 l.f., che, a seguito della riforma del 2006,prevede la possibilità, per il curatore, di vendere i cre-diti contestati o di cedere le azioni revocatorie penden-ti ed al nuovo ultimo comma dell’art. 43 l.f., aggiuntoin sede di conversione del D.L. 83/2015, che prevede latrattazione prioritaria delle controversie in cui è parteun fallimento).Se, dunque, si intende dare rilievo alla ratio ispiratricedegli ultimi interventi riformatori, si dovrebbe aderireall’impostazione secondo la quale nei giudizi di cui alnuovo 118 co. 2 l.f. rientrano non solo le azioni diretta-mente tratte dal patrimonio del fallito ed esercitate dalcuratore in forza della sua legittimazione sostitutiva exart. 43 l.f. (si pensi all’azione di risoluzione per ina-dempimento di un contratto di compravendita), maanche le c.d. “azioni di pertinenza della massa”, pro-mosse dal curatore nell’esercizio di una sua legittima-zione propria oppure anche sostitutiva, non del fallito,ma dei creditori (esempio classico è rappresentato dal-l’azione revocatoria ordinaria e fallimentare).Per chi aderisce a tale impostazione, non avrebbe sensoritenere che la pendenza di un’azione di risoluzione perinadempimento di un contratto di compravendita nonimpedisce la chiusura del fallimento e che, invece, talechiusura è impedita dalla pendenza di un’azione revo-catoria promossa dal curatore per recuperare un bene dicui il debitore ancora in bonis abbia disposto a mezzodi contratto di compravendita.Tale diversa interpretazione “teleologica” svuota com-pletamente di significato l’espresso riferimento chel’art. 118, co. 2 l.f. fa all’art. 43 l.f.Resta, tuttavia, aperta la strada dell’interpretazionecostituzionalmente orientata della norma, nel senso chese, come si è detto, la sua finalità è quella di impedireche la chiusura del fallimento sia ritardata dalla neces-sità di agire giudizialmente per l’acquisizione di benidestinati ad integrare la massa attiva, non vi è ragioneper distinguere tra le differenti tipologie di azioni che ilcuratore sia costretto ad intraprendere per raggiungerequell’obbiettivo (salvo ciò che si dirà per le azioni ese-cutive e per i giudizi implicanti attività ulteriori, qualila liquidazione del bene).Altro problema riguarda la pendenza di giudizi aventiad oggetto la nullità di atti di trasferimento o in esito aiquali il fallimento vanti comunque il diritto alla restitu-

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zione di un bene da liquidare.Secondo una prima impostazione, alla quale mi sentodi aderire, il nuovo 118, co. 2 non potrebbe ritenersiapplicabile a tali ipotesi in quanto il nuovo art. 120 l.f.abilita il giudice delegato e il curatore esclusivamentealla “gestione” del giudizio.In altri termini, ove il giudizio implichi attività ulterio-ri, quali la liquidazione del bene, il fallimento nonpotrebbe essere oggetto di “chiusura accelerata”.Secondo altra impostazione, che svaluta il dato dell’art.120 l.f., la regola della chiusura accelerata si appliche-rebbe anche a dette fattispecie e, in queste ipotesi, ildecreto di chiusura del fallimento dovrebbe inevitabil-mente disciplinare “ora per allora” le modalità e le rego-le per la liquidazione, che dovrebbe comunque avveni-re entro le coordinate generali di cui all’art. 107 l.f.Peraltro, in tale ultimo caso, in virtù della chiara previ-sione dell’art. 118, ultimo comma, settimo periodo,deve escludersi che le sopravvenienze attive derivantidai giudizi pendenti determino la riapertura del falli-mento ai sensi dell’art. 121 l.f.; si tratta, invero, di rea-lizzi destinati ex ante al concorso, avendo essi radicenel fallimento pregresso e non in fatti successivi.Altro problema è capire se nel novero delle azioni chenon impediscono la c.d. chiusura accelerata rientrino leazioni esecutive.Il riferimento è sia alle azioni esecutive conseguenti agiudizi di cognizione promossi dal curatore, sia a quel-le in cui il curatore sia subentrato, per farne propri irisultati e devolverli alla massa, a norma dell’art. 107l.f. oppure dell’art. 41 TUB.Con riferimento alla prima tipologia di azioni esecuti-ve, a sostegno della tesi positiva può ritenersi che l’at-tività esecutiva è l’elemento di “concretizzazione” deigiudizi di cognizione e che, quindi, reputare inapplica-bile la “chiusura accelerata” in tali casi significherebbeprivare la massa dell’effettivo “risultato” del giudiziodi cognizione.Ove si ritenesse che la chiusura non sia impedita dal-l’azione esecutiva e, a seguito del vittorioso esperimen-to dell’azione di cognizione, si renda necessario intra-prendere l’azione esecutiva (in caso di mancata esecu-zione spontanea della sentenza), il curatore dovrebbemunirsi di una specifica autorizzazione (del Tribunale odel giudice delegato, secondo quanto si dirà in seguito).Relativamente alla seconda tipologia di azioni esecuti-

ve, fanno propendere per l’esclusione delle stesse dalnovero dei giudizi di cui al riformato art. 118 l.f. sial’omesso riferimento all’art. 107 l.f. (che si occupa spe-cificamente di tali azioni), sia la terminologia usata dallegislatore, che, parlando di “giudizi” e relativi “stati egradi”, sembra richiamare concetti propri della giuri-sdizione cognitiva ed estranei a quella esecutiva.Inoltre, a mio avviso, deve escludersi che possa parlar-si di “completamento delle operazioni di liquidazione”(che, in base all’art. 116 l.f., è presupposto della chiu-sura per riparto finale dell’attivo) in presenza di taliazioni esecutive.In altri termini, mi sembra che la possibilità di realizza-re incrementi di attivo mediante il subentro del curatoreex art. 107 l.f. o il suo intervento ex art. 41 TUB impe-disca di considerare la liquidazione come “esaurita”.Si potrebbe, al limite, fare una differenziazione perl’ipotesi di cui all’art. 51 TUB, in cui il curatore hafacoltà di intervenire nell’esecuzione iniziata o prose-guita dalla banca che vanta un credito di natura fondia-ria (in deroga all’art. 51 l.f.) per farsi attribuire lasomma ricavata dall’esecuzione eccedente la quota chein sede di riparto risulta spettante alla banca.

3. Nuove ipotesi di accantonamento post-fallimenta-re; l’accantonamento degli oneri futuriAlle ipotesi, già conosciute ante riforma, di accantona-mento endo-fallimentare, se ne aggiungono altre appli-cabili all’ipotesi di chiusura del fallimento in pendenzadi giudizi.A mente del nuovo quinto periodo del secondo commadell’art. 118 l.f., si tratta degli accantonamenti aventiad aggetto “le somme necessarie per spese future edeventuali oneri relativi ai giudizi pendenti” e “lesomme ricevute dal curatore per effetto di provvedi-menti provvisoriamente esecutivi e non ancora passatiin giudicato”, somme entrambe destinate ad essere“trattenute dal curatore secondo quanto previsto dal-l’art. 117, comma secondo”.Rientrano nella prima categoria le somme che si renda-no occorrenti per far fronte agli obblighi scaturenti daun’eventuale soccombenza di lite e le ulteriori voci dispesa come quelle connesse alla necessità di ricalcola-re il compenso dovuto al curatore in relazione ad unfuturo esito positivo dei giudizi proseguiti e alle even-tuali e (prevedibili) sopravvenienze attive.

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Pur in assenza di un’espressa previsione normativa,sembra quanto mai necessario che il curatore indichi lasomma relativa all’accantonamento degli oneri futuriin sede di conto della gestione, al fine di rendere edot-ti i creditori della sua scelta e, successivamente, prov-veda all’accantonamento in sede di riparto finale.Con riferimento alla gestione ed al deposito delle sommeaccantonate, rispetto alle quali la norma nulla dice, qual-cuno ha proposto di far riferimento alla disciplina deicreditori irreperibili di cui all’art. 117, comma 4 l.f. Tuttavia, i destinatari, all’atto del nuovo deposito stabi-lito dal quarto comma dell’art. 117 l.f., non sarebberoprecisamente individuabili, ma solo determinabili inrelazione alle circostanze che dovessero realizzarsi nelcorso del tempo.Dovendosi escludere la intestazione predeterminata incapo a singoli creditori, la soluzione sembra doveressere quella della intestazione del conto alla procedu-ra concorsuale, sicché potrebbe anche farsi a meno diaprire un nuovo conto corrente, lasciandosi le sommesu quello già esistente.Si potrebbe, inoltre, far riferimento all’art. 117 l.f. nellaparte in cui dispone che le somme accantonate sianodepositate nei modi stabiliti dal giudice delegato per-ché, a suo tempo, possano essere versate ai creditori cuispettano o essere fatte oggetto di riparto supplementaretra gli altri creditori.Di tanto si informerebbero i creditori in sede di conto dellagestione e il Tribunale in sede di istanza di chiusura.

4. Riparti successivi alla chiusura del fallimentoRecita l’art. 118, co. 2, sesto periodo: “Dopo la chiu-sura della procedura di fallimento, le somme ricevutedal curatore per effetto di provvedimenti definitivi egli eventuali residui degli accantonamenti sono fattioggetto di riparti fallimentari tra i creditori secondole modalità disposte da Tribunale con il decreto dichiusura”.Anzitutto, la disciplina dettata dall’ultimo comma del-l’art. 120 l.f., che sancisce l’ultrattività del curatore edel giudice delegato ai fini di quanto previsto nei perio-di terzo e seguenti dell’art. 118, comma secondo, impli-ca un necessario coinvolgimento di tali organi anchenei riparti cui dar corso ai sensi del sesto periodo.Anche qui, poi, il problema della omessa indicazionedelle modalità dei riparti può essere risolto con il rac-

cordo sistematico all’art. 117 l.f.Su impulso del curatore, con il decreto ex art. 119 l.f.,il Tribunale potrebbe, cioè, dettare un modello di ripar-to simile a quello dell’art. 117 l.f., determinato sullabase degli artt. 110 ss. l.f., ovvero altro modello ritenu-to preferibile.Quanto alle forme di reazione al piano di riparto, poi-ché gli organi della procedura (g.d. e curatore) vivonoin “ultrattività” dopo la chiusura del fallimento, deveritenersi che vi sia ultrattività anche delle forme di rea-zione ai loro provvedimenti (reclamo ex art. 36 l.f. ereclami endo-fallimentari).Con il medesimo decreto di chiusura, il Tribunale deve,a mio avviso, anche disporre che il curatore depositi,prima di procedere al riparto post-fallimentare, unconto della gestione limitato all’attività svolta post-fal-limento, atteso che quella svolta in precedenza gli è giàstata approvata3 e che il rendiconto è espressione di undovere generale collegato a ogni attività che si svolgaper conto altrui.Sembra poi quanto mai necessario ed opportuno chenel decreto ex art. 119 l.f. il Tribunale indichi al curato-re la periodicità con la quale lo stesso deve relazionareal giudice delegato sugli esiti dei giudizi in corso, alfine di consentire a quest’ultimo l’attività (sia pur limi-tata) di vigilanza.

5. Ultrattività degli organi fallimentariL’ultimo comma dell’art. 120 l.f. prevede che nell’ipo-tesi di chiusura del fallimento in pendenza di giudizi aisensi dell’art. 118, secondo comma, terzo periodo eseguenti, il giudice delegato e il curatore restano incarica ai soli fini di quanto previsto.Non è, quindi, prevista l’ultrattività del comitato deicreditori.La disposizione è coerente con la previsione del quartoperiodo dell’art. 118, co. 2 l.f., che subordina l’eserciziodella facoltà della curatela di rinunciare alle liti e di sti-pulare transazioni alla previa autorizzazione del giudicedelegato, in deroga all’art. 35 l.f., che – a quei fini –richiede, invece, l’autorizzazione del comitato dei cre-ditori.Ci si chiede se la norma sia di stretta interpretazione ose, invece, abbia portata generale, ovvero se l’improro-gabilità delle funzioni del comitato dei creditori operiin generale oppure valga solo per le attività richiamate

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nei periodi aggiunti dalla riforma al secondo commadell’art. 118 l.f.Con riferimento ai poteri spettanti al giudice delegatonella fase successiva alla chiusura, ci si deve poi chie-dere, se in quel “ai soli fini di quanto ivi previsto” rien-tri anche il potere di autorizzare la continuazione deigiudizi in corso. Resta, infine, il potere di vigilanza del giudice delega-to sull’attività del curatore, sia pure detto potere sialimitato alla continuazione dei giudizi in corso; talepotere potrà in concreto essere esercitato richiedendo alcuratore il deposito di relazioni periodiche.

6. Coordinamento tra nuova ipotesi di chiusura exart. 118, co. 2 l.f. e art. 120, co. 2 l.f.; competenzaad autorizzare la continuazione dei giudizi in corsoLa possibilità, oggi ammessa, di proseguire, dopo lachiusura del fallimento, i giudizi incidenti sull’entitàdella massa attiva fallimentare, dev’essere coordinatacon la previsione di cui all’art. 120, co. 2 l.f. (non toc-cato dalla riforma), che stabilisce che con la chiusuradel fallimento “le azioni esperite dal curatore perl’esercizio dei diritti derivanti dal fallimento4 non pos-sono essere proseguite”.È evidente che la regola dell’improcedibilità dettata dalsecondo comma dell’art. 120 l.f. è destinata a non ope-rare nell’ipotesi di chiusura per avvenuta ripartizionefinale dell’attivo ex art. 118, co. 1 n. 3 l.f., continuando– invece – a trovare applicazione nelle diverse fattispe-cie di cui all’art. 118, nn. 1), 2) e 4).Nel primo caso, infatti, nonostante la cessazione dellaprocedura fallimentare, è prevista la “prosecuzione”dei giudizi, da parte del curatore, nell’interesse dellamassa dei creditori.Occorre poi chiedersi se con la chiusura c.d. “accelerata”del fallimento, i giudizi idonei a proseguire dopo tale chiu-sura siano automaticamente interrotti ai sensi degli artt.299 ss. c.p.c. (come si riteneva in passato), soluzione chesembra essere esclusa dal fatto che la prosecuzione debbaavvenire nel contraddittorio con il curatore ai fini dell’ac-quisizione di eventuali risultati utili del giudizio.Se, invece, si propende per l’interruzione, dovrebberitenersi necessaria un’autorizzazione del curatore aproseguire i giudizi, con l’ulteriore problema di verifi-care quale sia l’organo competente a rilasciare taleautorizzazione.

In particolare, secondo alcuni, l’autorizzazione a prose-guire i giudizi sarebbe necessaria affinché gli stessi,interrotti per effetto della chiusura del fallimento, sianoproseguiti in esito ad un’apposita istanza ex art. 302c.p.c. che il legale della curatela dovrebbe avanzare perevitarne l’estinzione.Il legislatore della riforma, tuttavia, non chiarisce se lacontinuazione dei giudizi in corso debba essere autoriz-zata e da chi.La competenza del Tribunale ad autorizzare detta con-tinuazione potrebbe risiedere nell’art. 119 l.f., che attri-buisce a tale organo, in sede di chiusura, il potere diimpartire “le disposizioni esecutive volte ad attuare glieffetti della decisione”.Tuttavia, potrebbe anche ritenersi che competente arilasciare tale autorizzazione sia il giudice delegato.Il fondamento normativo di detto potere autorizzativopotrebbe risiedere nell’art. 25, n. 6 l.f., norma che,durante il fallimento, individua nel giudice delegatol’organo competente ad autorizzare il curatore a stare ingiudizio come attore o come convenuto. Del resto, se, in base al novellato art. 118 l.f., nella fasepost-fallimentare il giudice delegato ha il potere diautorizzare “anche” le rinunzie alle liti e le transazioni,potrebbe ritenersi (dando rilievo alla congiunzione“anche”) che, a maggior ragione, tale organo ha il pote-re di autorizzare la continuazione delle cause in corsoal momento della chiusura del fallimento.Così come ritengo non possa escludersi che, con ildecreto di chiusura, il Tribunale rimetta al giudice dele-gato la decisione sulla continuazione dei giudizi.Tanto stante il tenore dell’art. 119 l.f., norma di chiusu-ra che consente al collegio di risolvere tutti gli aspettipratici conseguenti alla definizione della procedura, tracui rientrano i casi in cui, in esito alla chiusura del fal-limento, debbano essere poste in essere condotte, daparte degli organi della procedura, delle quali sianecessario stabilire tempi e modi.Qualunque sia la soluzione prescelta, appare quantomai necessario che nel rendiconto e nell’istanza dichiusura il curatore individui i giudizi in corso alla datadel fallimento che si intendono continuare.

7. Prospettive de iure condendoInfine, induce a riflettere e conferma le perplessità e ledifficoltà nell’interpretazione della norma che si sono

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evidenziate, la circostanza che nello schema di disegnodi legge delega recante “Delega al Governo per lariforma organica delle discipline della crisi di impresae dell’insolvenza” elaborato dalla CommissioneMinisteriale istituita dal Ministro della Giustizia condecreto 28 gennaio 2015 (e successive integrazioni), sipreannunci un’ulteriore modifica legislativa.All’art. 7, n. 9, lettera b) di detto schema si prevede,

infatti, che “nell’ambito delle misure dirette ad accele-rare la chiusura della procedura occorre (…) integra-re la disciplina della chiusura della procedura in pen-denza di procedimenti giudiziari specificando che essaconcerne tutti i processi nei quali è parte il curatore edefinendone presupposti, condizioni ed effetti in rap-porto alla loro diversa tipologia ed alla eventualenatura societaria del debitore”.

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1 [VII] La pendenza di ricorsi e giudizi, ivicompreso quello di accertamento dellostato di insolvenza, non preclude l’effettua-zione degli adempimenti finali previsti aicommi precedenti e la chiusura della proce-dura di liquidazione coatta amministrativa. Tale chiusura è subordinata alla esecuzio-ne di accantonamenti o all’acquisizione digaranzie ai sensi dell’art. 91, commi 6 e 7.[VIII] Successivamente alla chiusura dellaprocedura di liquidazione coatta, i commis-sari liquidatori mantengono la legittima-zione processuale, anche nei successivistati e gradi dei giudizi Ai commissari liqui-

datori, nello svolgimento delle attività con-nesse ai giudizi, si applicano gli articoli 72,commi 7 e 9, 81, commi 3 e 4 e 84, commi1, 3 e 7 del presente decreto.

2 Nella generalità dei casi in cui il fallitoassume le vesti di soggetto passivo di talirapporti (debitore di obbligazione pecu-niaria), viene in gioco il rito specialedella verificazione endofallimentare, doveil curatore è sì parte in senso stretto, manon in forza del meccanismo di cui all’art.43 l.f.

3 Ovviamente, prima di chiudere il falli-mento, il curatore dovrà rendere il conto

della gestione e, in caso di approvazionedel conto, il suo operato non potrà esseresuccessivamente messo in discussione.

4 Per tali intendendosi, da un lato, i dirittisorti direttamente in capo alla massa pereffetto della dichiarazione di fallimento(revocatoria fallimentare), dall’altro, idiritti spettanti prima del fallimento ai sin-goli creditori, che, però, a seguito dell’av-vio della procedura, risultino modificatinella loro conformazione o struttura a tute-la e servizio delle ragioni della massa(revocatoria ordinaria incidentale al falli-mento di cui all’art. 66 l.f.).

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I.Ho meditato il tema degli accordi di ristruttura-zione ai sensi dell’art. 182 septies, commi primoe ss., l.f.; accordi che, solo per comodità, desi-

gnerò finanziari. Sulle prime, il tema sembrerebbe eccentrico rispetto altema principale di questo incontro il quale ha ad ogget-to il nuovo concordato preventivo. Eppure i due sonoconcettualmente e intrinsecamente connessi.Il concordato trae con sé una specie di contraddizione,una irriducibile ambiguità. Il concordato va in cerca delconsenso, si fonda sul consenso; ma, al tempo stesso,dal consenso prescinde, in quanto produce i suoi effet-ti anche contro la volontà dei creditori sfavorevoli. Si pensi, tra gli altri, all’effetto esdebitatorio che è tipi-co ed esclusivo di tale procedura: o forse, meglio direi,era tipico ed esclusivo, prima della entrata in vigoredell’art. 182 septies l.f. Ora, la esdebitazione che ha titolo nel concordato pro-cede dal consenso ma non esige il consenso di tutte leparti, non postula la unanimità. Come noto, l’insegnamento tradizionale vuole che l’ac-cordo negoziale sia retto da una insopprimibile equazio-ne la quale associa la unanimità del consenso alla relati-vità degli effetti2. Unanimità del consenso e relativitàdegli effetti sono due facce della stessa medaglia, egovernano l’idea stessa dell’autonomia contrattuale,tanto da apparirne la quintessenza: l’efficacia del contrat-to vale soltanto per quelli che sono, appunto, d’accordo3.Siccome urta contro questa regola (così radicata quan-to pre-supposta), il concordato non sarebbe un accordo.Si tratta della opinione che ha a lungo attraversato – eche, per buona parte, ancora attraversa – la letteraturadedicata al concordato preventivo.Il ragionamento è assai chiaro nelle pagine delProvinciali:

«Consenso e obbligatorietà, in materia di contratti – silegge nelle pagine dell’illustre Autore –, sono terminicorrelativi, l’uno in funzione dell’altro: ed è appuntoquesto rapporto che è irrimediabilmente sovvertito inmateria concordataria: la tesi contrattualistica trovainsuperabile ostacolo, soprattutto perché il concordatoè obbligatorio per tutti i creditori»4.Insomma, il concordato non è un accordo, perché èobbligatorio per tutti, anche per quelli che non sonod’accordo.

II. Il ragionamento è stato applicato all’inverso in temadi accordi di ristrutturazione. Si è affermato (e tuttorasi afferma) che, in quanto contratti, tali accordi nonproducono effetti rispetto ai terzi5. Essi sono dei sem-plici negozi privatistici e non una procedura concorsua-le. Pertanto non sono in grado di incidere sulle posizio-ni giuridiche degli estranei6. «Un accordo non può, perdefinizione, arrecare un pregiudizio diretto a terzi»; «lacompressione dei diritti dei creditori dissenzienti, chevengono assoggettati al volere della maggioranza,costituisce uno dei tratti caratteristici delle proceduredi insolvenza»7.Non si può adesso criticare l’idea che espunge gliaccordi di ristrutturazione dal perimetro delle procedu-re concorsuali. A mio avviso, l’essere tali accordi com-presi o non compresi tra le procedure concorsualidipende da un problema pregiudiziale e irrisolto, ossiadalla definizione di procedure concorsuali. E, a mioavviso, non si devono pensare atti di autonomia priva-ta e procedure concorsuali come termini dicotomici diuna secca alternativa, sicché gli uni non potrebberoessere dove sono le altre e viceversa. Sacrificando questa grave questione, mi limito a rileva-re che la disciplina prevista nell’art. 182 septies mette

Gli accordi di ristrutturazione finanziari ai sensidell’art. 186 septies legge fallimentareDalla rottura di una equazione al paradosso di un caso1

Michele OnoratoAvvocato del Foro di Isernia, Professore presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma

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ormai in crisi l’affermazione secondo cui gli accordi diristrutturazione, siccome contratti, non possono pro-durre effetti rispetto ai terzi.Tali accordi possono rivolgere i loro effetti anche neiconfronti dei creditori non aderenti o, meglio, nei con-fronti dei creditori finanziari che non partecipino alnegozio.Se tali creditori siano stati invitati a partecipare alletrattative, ricevendo adeguata informazione sul conte-nuto dell’accordo come pure sulle condizioni patrimo-niali, economiche e finanziarie del debitore; se sianostate isolate classi omogenee di creditori; se il tratta-mento elaborato dall’accordo risulti per i terzi nondeteriore rispetto a quello dato dalle alternative plausi-bilmente ipotizzabili; se ad esso partecipino i creditorititolari del 75% del valore nominale dei crediti compre-si nella classe; se i crediti di origine finanziaria costi-tuiscano, complessivamente, almeno la metà dell’inde-bitamento dell’impresa; se siano integrate queste con-dizioni, l’accordo è suscettibile di produrre i suoi effet-ti per tutti gli appartenenti alla categoria e non soltantoper quelli che siano d’accordo.Sembrerebbe un confitto tra nomen juris e disciplinapositiva.Conflitto tanto più palese se appena si consideri che,nella veduta al momento prevalente, gli effetti destina-ti a discendere dall’accordo finanziario verso i credito-ri non partecipanti potrebbero essere anche di naturaesdebitatoria8; effetti, cioè, i quali determinano unavicenda della obbligazione pecuniaria, consistentenella riduzione del valore nominale della pretesa.Certo, gli accordi finanziari non vanno, di necessità, incerca di simili effetti. Essi possono essere volti sempli-cemente a una dilazione dei termini di pagamento o,più in generale, a favorire quegli interventi sul debito iquali consentano di proseguire l’attività di impresa e,per questa via, di produrre un cash-flow positivo che,nel tempo, procuri ai creditori una percentuale di sod-disfazione superiore rispetto a quella conseguibileattraverso una mera liquidazione dell’attivo.Ma ove implichi una riduzione del debito e financheove implichi soltanto una dilazione dei termini di paga-mento, non vi è dubbio che l’accordo finanziario deter-mini una modificazione dall’esterno del patrimonio deicreditori non partecipanti: questi subiscono l’abbatti-mento o la temporanea inesigibilità del credito senza

averlo voluto. Siamo allora in presenza di un effettoche, pure ricollegato a un accordo, obbedisce al regimecaratteristico del concordato.Non sorprende che la disciplina dell’art. 182 septies hagenerato una specie di smarrimento nelle recenti gior-nate di studio. Indissolubilmente fedeli al principiodella corrispondenza tra unanimità del consenso e rela-tività degli effetti, i primi commentatori della riformahanno variamente ipotizzato che le trattative a cui i cre-ditori devono essere invitati siano in realtà una adunan-za, che l’accordo finanziario sia raggiunto a maggio-ranza, che esso sia a ben vedere retto dal principio mag-gioritario, che sia una versione semplificata o in scaladel concordato preventivo.Nessuna di queste affermazioni riesce condivisibile.L’accordo finanziario non è concluso a maggioranzama è concluso tra le parti che lo stipulano. Gli altri nonsono la minoranza: sono bensì terzi, estranei.In altre e semplici parole, qui non c’è un collegio chedelibera seguendo una decisione maggioritaria. Ma c’èun contratto concluso, come sempre, con l’unanimitàdei consensi. Il tratto originale sta nella circostanza chetale accordo dirige i suoi effetti oltre e fuori le parti. Cisono effetti, pure svantaggiosi, i quali valgono per tuttii membri di una certa categoria, compresi coloro chenon abbiano offerto il consenso.Non si tratta di un concordato, ma di un contratto a cuila legge riconnette effetti omogenei a quelli del concor-dato, effetti per così dire inediti, rafforzati, effetti ultrapartes.L’equazione tra consenso ed effetti è abbandonata9.Forse la equazione era già stata abbandonata con l’in-troduzione della disciplina degli accordi di ristruttura-zione ai sensi dell’art. 182 bis i quali già potevanodeterminare una dilazione dei termini di pagamento e,dunque, una riqualificazione del titolo anche nei con-fronti dei creditori estranei. Ma adesso il legislatoresembra accorgersi di avere rovesciato quella equazio-ne, sino al punto di precisare, con straordinaria ingenui-tà, che la disciplina degli accordi finanziari è posta inderoga alla disciplina dell’art. 1372 cod. civ. Quasi che la legge avverta la esigenza di giustificare laderoga al codice civile, ossia a un atto che è anch’essolegge10. La legge può fare quello che vuole, nei limitidelle fonti ad essa sovra-ordinate. Una rinnovata volon-tà legislativa può contraddire la precedente volontà

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politica, persino quella consegnata nel codice civile11.Si tratta di un punto pacifico, addirittura banale. Il dub-bio ruota intorno a un altro profilo: davvero la leggeche riconnetta all’accordo effetti ultra partes implicauna deroga, una eccezione, come si è subito reputato11o, semplicemente, questa legge si colloca entro il cir-cuito dell’art. 1372?L’art. 1372 cod. civ. stabilisce che il contratto non pro-duce effetto rispetto ai terzi se non nei casi previstidalla legge, così annunciando la possibilità di discipli-ne di segno contrario. Allora, si direbbe, la legge chepreveda effetti ultra-partes non tanto deroga all’art.1372 quanto, piuttosto, ne svolge la logica interna13.

III. È tempo di immergerci nei problemi di ordineapplicativo.Pensando alla preparazione di questo incontro, ho ipo-tizzato una lunga serie di profili pratici che esigerebbe-ro una autonoma trattazione: forse, meriterebbero unaintera giornata di studio.Quanti sono i negozi postulati nell’art. 182 septies: unosolo o tanti quante sono le classi di creditori? la mag-gioranza qualificata del 75% deve essere raggiunta intutte le classi? un unico accordo in ogni classe o anchepiù accordi per ogni classe?Inoltre, come si costituiscono le classi: avendo riguar-do al regime del credito, se chirografario o privilegia-to? o avendo riguardo alla durata del finanziamento, sedi breve o medio o lungo periodo? o avendo riguardo alrapporto in cui ha titolo il credito, se rapporto così dettoautoliquidante o apertura di credito o mutuo?E ancora: cosa accade se una banca non aderente all’ac-cordo occupa una posizione irriducibile e disomogenearispetto alle altre? quali gli effetti che a questa si esten-dono?

IV.Avrei voluto soffermarmi su uno di tali profili prati-ci e rifletterlo assieme.Vi è però un profilo che sembra stare più a monte edesigere una attenzione pregiudiziale.Quando la disciplina dell’art. 182 septies è concreta-mente applicabile?Pensiamo a un esempio in la composizione del debito elo stato patrimoniale dell’impresa risultino estrema-mente semplificati.Ipotizziamo che una impresa abbia un indebitamento

complessivo di 1.000 distribuito tra 10 creditori, cia-scuno titolare della pretesa di 100: 8 creditori finanzia-ri, complessivamente titolari di 800, e 2 creditori nonfinanziari, complessivamente titolari di 200.Ipotizziamo, inoltre, che l’attivo disponibile sia pari a800 e sia prontamente realizzabile. Ipotizziamo infine,per ulteriore semplificazione, che i debiti dell’impresasiano tutti del medesimo rango e che i creditori finan-ziari configurino un’unica classe.Ora, l’attivo di cui l’accordo finanziario può disporre èa ben vedere di 600, poiché 200 sono indisponibili:sono una specie di legittima, una quota riservata ai cre-ditori non finanziari i quali hanno diritto all’«integralepagamento» ai sensi dell’art. 182 bis, primo comma.Cerco di spiegarmi meglio. Appare indubbio che l’ac-cordo finanziario, pur potendo incidere sui diritti deicreditori finanziari non partecipanti, non può incideresui diritti dei creditori non finanziari. Sembra infattiindubbio che la disciplina contenuta nell’art. 186 sep-ties non esclude e bensì si combina alla disciplina con-tenuta nell’art. 182 bis: che, per essere brevi, concorra-no, ai fini della omologazione, sia le condizioni stabili-te nell’una che quelle stabilite nell’altra disposizione,sia l’idoneità dell’accordo a soddisfare i creditorifinanziari e non partecipanti in misura non inferiore aquella procurabile dalle alternative concretamente pra-ticabili, sia l’idoneità dell’accordo a soddisfare inte-gralmente i creditori non finanziari e non partecipanti. In questo senso depone dapprima un argomento lettera-le, giacché il testo dell’art. 182 septies stabilisce che ledisposizioni in esso contenute sono ad integrazione (enon in deroga) di quelle contenute nell’art. 182 bis.Termine, integrazione, il quale è concettualmente con-tiguo all’idea della simultanea applicazione delle duediscipline e non a quella della reciproca esclusione.Se le due discipline devono concorrere, ai creditori nonfinanziari non aderenti spetta una porzione idonea asoddisfare per intero il loro credito, come stabilito nel-l’art. 182 bis.Ad escludere la simultanea applicazione delle duediscipline, si giungerebbe a risultati irrazionali14 o, se sivuole, a postulare una causa surrettizia di prelazione.Ove l’accordo finanziario potesse attingere da quellache ho designato quota di riserva, i creditori finanzia-ri, in quanto maggioranza, potrebbero disporre arbitra-riamente dell’attivo patrimoniale. Essi potrebbero addi-

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rittura stabilire che il loro accordo assegni a ciascuncreditore finanziario un tasso di soddisfazione del 99 %(99 ad ognuno di loro), con la conseguenza che, nel-l’esempio in esame, resterebbe per gli altri un attivo di8, un attivo sufficiente a procurare ai due creditori nonfinanziari un tasso di soddisfazione di appena il 4%. I creditori non finanziari, per la sola circostanza diessere una minoranza, sarebbero sottoposti a un sacrifi-cio irresistibile; e i creditori finanziari, per la sola cir-costanza di essere i più, potrebbero riconoscersi ilmiglior grado di appagamento possibile, come se l’art.182 septies abbia introdotto un privilegio deliberabile amaggioranza.Che si guardi alla disposizione da una angolazione let-terale o che si guardi ad essa da una angolazione teleo-logico-sistematica, si mostra ineludibile concepire unaquota di riserva, una quota pari alla somma necessariaper pagare integralmente i creditori non finanziari.Conclusione a cui offre una definitiva conferma l’ulti-mo periodo dell’art. 186 septies, primo comma, nelprecisare che «restano fermi i diritti dei creditori diver-si da banche e intermediari finanziari»15.Dunque, applicando all’attivo disponibile la quota diriserva, cioè sottraendo 200 a 800, risulta che, nel-l’esempio immaginato, l’attivo di cui può disporre l’ac-cordo finanziario è pari a 600.Ebbene, tale attivo consente, astrattamente, di attribui-re a ciascun creditore finanziario 75, cioè meno dellasomma ideale a cui ciascun creditore avrebbe diritto nelcaso di liquidazione fallimentare: se ci sono dieci cre-ditori, ciascuno titolare di 100, e se l’attivo complessi-vo è pari a 800, a ciascuno dei creditori, nell’ipotesi ditale liquidazione, spetterebbe 80.Non sarebbe quindi omologabile un accordo finanzia-rio che non sia stipulato con tutti i creditori finanziari,non potendo attribuire a ciascuno più di 75, più diquanto ciascun creditore finanziario percepirebbe attra-verso altre procedure concorsuali. Non sarebbe omolo-gabile in quanto la disciplina contenuta nell’art. 182septies l.f., pure stabilendo che gli effetti dell’accordopossano prodursi anche nei confronti dei non aderenti,esige ai fini della omologazione che verso i non aderen-ti sia previsto un tasso di soddisfazione non inferiore aquello altrimenti conseguibile.Certo, il debitore che volesse uscire dall’aporia, potreb-be tentare di ridurre la quota di riserva, negoziando con

i creditori non finanziari una rimodulazione del debito.La rimodulazione potrebbe ben realizzarsi per mezzo diun accordo di ristrutturazione semplice ai sensi dell’art.182 bis, che rechi una parziale rinunzia da parte dei cre-ditori non finanziari.Se devono concorrere le condizioni di omologazionefissate negli artt. 182 bis e 182 septies non si vede per-ché non possono concorrere i due modelli di accordo,stipulati uno accanto all’altro dal medesimo debitore: ilprimo con i creditori finanziari; l’altro con i creditorinon finanziari; uno che rivolga gli effetti verso tutti imembri della categoria; uno che circoscriva gli effettialle parti.Restringendo la quota di riserva destinata ai creditorinon finanziari per mezzo di un accordo di ristruttura-zione ex art. 182 bis si espanderebbe in misura corri-spondente la quota disponibile per l’accordo finanzia-rio ex art. 182 septies, sino al punto che questo potreb-be prevedere per i creditori non aderenti un tasso disoddisfazione pari o superiore a quello altrimenti con-seguibile.E, però, di là del caso in cui sia stipulato anche unaccordo ex art. 182 bis, l’accordo finanziario non sareb-be concepibile o, meglio, non sarebbe omologabile senon quando concluso con l’intera compagine dei credi-tori finanziari. Esso potrebbe essere concluso a mag-gioranza solo se idoneo a dare ai non partecipanti qual-cosa in più delle alternative concretamente praticabili;se non vi sia codesta idoneità, l’accordo dovrebbe esse-re stipulato da tutti.

V. È vero che l’esempio descritto è assai semplificato,banalizzato. Esso presuppone, tra l’altro, che l’attivopatrimoniale consista di una somma immediatamentedistribuibile. Mentre l’esperienza insegna che l’attivosi lascia convertire in una disponibilità monetaria entroun orizzonte temporale incerto che, molto spesso,implica il giro di qualche anno. Eccoci al nodo di fondo: lo scrutinio intorno alle alter-native concretamente praticabili deve esclusivamenteavere ad oggetto il nudo rapporto algebrico tra l’am-montare dei crediti e la massa attiva o deve estendersiad altri indici e, in primo luogo, al tempo dell’adempi-mento? Il quesito è fatale: a reputare che lo scrutinio sulle alter-native concretamente praticabili si risolva in un confron-

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to delle percentuali di soddisfazione, l’accordo finanzia-rio non riuscirebbe omologabile ogni volta che la liqui-dazione fallimentare annunci un tasso di appagamentopiù elevato, ancorché conseguibile entro un terminesuperiore. Anche ove l’accordo finanziario programmi ilpagamento immediato, esso non sarebbe omologabile sela liquidazione fallimentare lasci ipotizzare il pagamen-to entro qualche anno di una percentuale maggiore.A reputare, invece, che lo scrutinio sulle alternativeconcretamente praticabili rimandi a una valutazionecomparativa la quale comprenda il tempo dell’adempi-mento, l’accordo riuscirebbe omologabile anche quan-do, pur programmando un tasso di appagamento infe-riore, offra ai creditori il vantaggio di ricevere imme-diatamente l’adempimento o, comunque, di riceverloentro un tempo minore rispetto a quello necessario perla liquidazione fallimentare16.

In una simile prospettiva, non si potrebbe escludere laomologazione dell’accordo finanziario il quale prevedadi attribuire ai non partecipanti una somma più bassa diquella pronosticabile nel caso di altre procedure con-corsuali. La maggiore convenienza dell’accordopotrebbe essere stabilita all’esito di una complessacomparazione in cui siano inserite variabili ulterioririspetto al mero rapporto algebrico tra attivo e indebi-tamento.È evidente che qui si apre un nuovo capitolo ed è evi-dente che il capitolo convoca tante altre pagine. Basti adesso stare al dato più rilevante. Quelli di ristrut-turazione finanziaria sembrano idonei a produrre unaefficacia sfavorevole per gli estranei, sembrano cioèaccordi privatistici rafforzati, che definitivamente sfug-gono alla regola della corrispondenza biunivoca traunanimità del consenso e relatività degli effetti.

1 Lo scritto replica il testo aggiornato dellarelazione al Convegno Il nuovo concordatopreventivo e altro, tenuto a Roma il 16dicembre 2015 e organizzato dall’Ordinedegli Avvocati di Roma.

2 Una delle formulazioni più radicali diquesta idea si legge in F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del dirittocivile, Napoli, 2002 (rist. corr. II ed.), pp.236-237. L’idea riecheggia nella letteraturaspecialistica dedicata agli accordi di ristrut-turazione: così, ad esempio, M. SCIUTO,Effetti legali e negoziali degli accordi diristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ.,2009, 3, p. 348, il quale afferma che «l’ac-cordo, dunque – e in questo non deroga aldiritto generale dei contratti – è conclusoall’unanimità ed è destinato a produrreeffetti soltanto inter partes» (conformi C.TRENTINI, Gli accordi di ristrutturazionedei debiti, Milano, 2012, p. 29 e G.PRESTI, Gli accordi di ristrutturazione deidebiti, in Banca bor. tit. cred., p. 25).

3 Con diversità di sfumature A.TRABUCCHI, Il contratto come fatto giu-

ridico, in Aa. Vv., Il contratto. Silloge inonore di Giorgio Oppo, Padova, 1992, I, p.27; V. ROPPO, Il contratto, in Trattato didiritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti,Milano, 2001, p. 563.

4 Trattato di diritto fallimentare, III,Milano, 1974, p. 1782.

5M. LIBERTINI, Accordi di risanamento eristrutturazione dei debiti e revocatoria, inAA. VV., Autonomia negoziale e crisi d’im-presa, a cura di F. Di Marzio e F. Macario,Milano, 2010, p. 379; B. INZITARI,Accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis,l. fall.: natura, profili funzionali e limiti del-l’opposizione degli estranei e dei terzi, inContr. e impr., 2011, 6, p. 1312; G.PRESTI, Gli accordi di ristrutturazione deidebiti, cit., 2006, I, p. 25.

6 L. STANGHELLINI, Le crisi di impresafra diritto ed economia, Le procedure diinsolvenza, Bologna, 2007, p. 311.

7 L. STANGHELLINI, Le crisi di impresafra diritto ed economia, cit., ivi.

8 Tra i primi A. CAIAFA, La legge falli-

mentare. Prime riflessioni su una riformanon annunciata, Roma, 2015, pp. 117-118.

9 Consumando uno «strappo», secondo D.VATTERMOLI, Accordi di ristrutturazionecon intermediari finanziari e convenzionedi moratoria, Diritto della banca e del mer-cato finanziario, 2015, 3, p. 72, «al princi-pio della intangibilità della sfera giuridicadel terzo estraneo al contratto».

10 N. NISIVOCCIA, Il nuovo art. 182 sep-ties l.fall.: quando e fin dove la legge puòderogare se stessa?, in Il. Fall., 2015, 11, p.1184, sembra invece postulare la necessitàdella deroga espressa alle disposizioni delcodice civile. Per l’utilità della derogaespressa anche C. BIANCA, La nuovadisciplina del concordato e degli accordi diregolazione della crisi: accentuazione deiprofili negoziali, in Il dir. fall., 2015, 6, pp.537-538. Per la tesi che «il riferimentoesplicito agli artt. 1372 e 1411 c.c. possaessere interpretato, all’opposto, come unaulteriore manifestazione della matrice con-trattuale degli accordi», si veda D.VATTERMOLI, Accordi di ristrutturazione

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con intermediari finanziari e convenzionedi moratoria, cit., p. 73.

11 Osserva tuttavia M. FABIANI, La con-venzione di moratoria diretta a disciplinarein via provvisoria gli effetti della crisi, in Il.Fall., 2015, 12, p. 1275, che «se è vero chel’art. 182 septies l.fall., è norma “pari-ordinata” rispetto all’art. 1372 c.c., tutta-via va considerato che il principio espressodall’art. 1372 c.c. esprime una chiaradeclinazione del principio costituzionale diautonomia negoziale e se si fa un passoavanti si coglie che questo principio rinviaa quello di autonomia privata e, dunque, aduna sua rilevanza costituzionale».

12 L. FOLLIERI, Accordi di ristrutturazio-ne dei debiti ed efficacia giuridica, in I con-tratti, 2015, 12, p. 1171.

13A. GENTILI, Accordi di ristrutturazionee tutela dei terzi, in AA. VV., Autonomianegoziale e crisi d’impresa, cit., Milano,2010, pp. 307 e ss.; V. CONFORTINI,Interesse di classe e autonomia concorsua-le, in Riv. dir. civ., 2013, 5, p. 1234.

14 Cfr. G. FERRI JR., Spigolature intornoal Decreto Legge n. 83 del 2015, inGiustizia civile.com, 2015, 7, pp. 10-11.

15 Netto sulla simultanea applicazionedelle due discipline D. VATTERMOLI,Accordi di ristrutturazione con intermedia-ri finanziari e convenzione di moratoria,cit., p. 65.

16 Ancorché non sia ancora dato isolare unorientamento sullo specifico problema indi-cato nel testo, si potrebbero meditare leposizioni elaborate con riguardo alla que-stione, concettualmente contigua a quella inesame, dell’ammissione al voto dei credito-ri privilegiati di cui non si preveda l’imme-diato pagamento da parte della proposta diconcordato. Il tema, come noto, è attraver-sato da opinioni diverse e oscillanti. E le eincertezze non sembrano superate dalladisposizione contenuta nell’art. 186 bis,secondo comma, lett. c), l.f. la quale, lungidal chiarire le contraddizioni rilevate nelregime precedente, appare foriera di nuovie inattesi dubbi. Parrebbe tuttavia affermar-

si la opinione secondo cui i creditori privi-legiati non hanno diritto di voto ove la pro-posta di concordato, pur prevedendo ilpagamento del credito in un momento suc-cessivo al decreto di omologazione, pro-grammi dei termini di pagamento non supe-riori a quelli derivanti dalle alternative con-cretamente praticabili e, in particolare, nonsuperiori rispetto ai termini di pagamentoconnessi ad una eventuale liquidazione fal-limentare; in questi casi, si osserva, il con-cordato risulterebbe indifferente per i privi-legiati: cfr. C. TRENTINI, I concordati pre-ventivi, Milano, 2014, p. 417 (testo e nota n.20) il quale, a sostegno di tale orientamen-to, ricorda due pronunce del Tribunale diMantova rese in data 12 aprile 2012 e 16settembre 2010, nonché una pronuncia resadal Tribunale di Pescara resa in data 16ottobre 2008. È facile osservare che un taleorientamento postula una valutazione com-parativa in cui il confronto tra le alternativeipotizzabili comprende il tempo del paga-mento e non soltanto la percentuale di sod-disfazione astrattamente realizzabile.

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La sentenza n. 18248 del maggio 2016, dellaQuinta Sezione Penale della Cassazione, haassolto, con la formula “il fatto non costituisce

reato” un giovane senzatetto che era stato condannatoper furto, a sei mesi di reclusione ed una multa di 160euro, con pena condizionalmente sospesa, dal TribunaleMonocratico di Genova prima e dalla Corte di Appellopoi, per non aver pagato 4 euro di wurstel e formaggio.La Suprema Corte ha così ritenuto che non è punibilechi, spinto dal bisogno, ruba al supermercato piccolequantità di cibo per “far fronte alla imprescindibile esi-genza di alimentarsi”.Il caso è giunto in Cassazione non su ricorso dell’impu-tato quanto del Procuratore Generale che invocava il ten-tato furto, poiché lo straniero era stato bloccato prima diuscire dal supermercato, dopo essere stato notato da unacliente che aveva avvertito il personale di sorveglianza. Il ragazzo alla cassa aveva pagato solo una confezionedi grissini, non i wurstel e le due porzioni di formaggioche aveva invece nascosto nelle tasche.Per i Giudici della Cassazione quello commesso è unfurto consumato e non tentato ma, ad avviso degli stes-si, “la condizione dell’imputato e le circostanze in cuiè avvenuto l’impossessamento della merce, dimostranoche egli si impossessò di quel poco di cibo per far fron-te ad una immediata ed imprescindibile esigenza di ali-mentarsi, agendo quindi in stato di necessità”. Di quil’annullamento senza rinvio della sentenza “perché ilfatto non costituisce reato”.Tale soluzione della vicenda ha suscitato allarme nei nonaddetti ai lavori, quasi come se, a seguito di una rivolu-zione copernicana, si fosse autorizzato il furto dei beni diprima necessità, senza alcuna distinzione di sorta.In realtà si è invece trattato di una decisione che fasemplicemente ricorso ad una norma ben precisa delcodice penale, l’art. 54 che, tra le scriminanti, discipli-na lo stato di necessità, utilizzando poi una massicciadose di buon senso.

Ricorrevano evidentemente, secondo gli ermellini, ilpericolo attuale di un danno grave alla persona ed ilfatto poi, era proporzionato al diritto.Niente quindi di rivoluzionario, di provocatorio o altro,quanto semplicemente il ricorso ad una massima degliantichi romani secondo la quale “necessitas non habetlegem”. È evidente che lo stato di necessità, da sempre,travolge ogni regola, ogni disposizione di legge.Quella della Cassazione è invece una sentenza assolu-tamente in linea con la logica ed il diritto che prevedo-no, in un caso del genere – e cioè di colui che è chia-mato a risolvere l’annoso dilemma di versare, a segui-to di inedia, in una situazione di pericolo per la salute odi illiceità, procurandosi del cibo in ogni modo – l’ine-sigibilità di una condotta diversa.Se quindi l’uomo non può resistere alla fame non puòneppure essere punito per questo perché una tale affer-mazione contraddirebbe la funzione rieducativa dellapena poiché, a quel punto, non avrebbe alcun senso ten-tare il reinserimento sociale di chi è colpevole solo diaver ceduto ai morsi della fame.L’espiazione della pena sarebbe veramente in questo casosolo una inutile sofferenza, priva di utilità e prospettive.L’opportuno ricorso ad una valvola di sfogo del siste-ma, qual è la causa di giustificazione in parola, nondeve indurre ad affrettate ed erronee conclusioni, comepure si è letto in qualche giornale, secondo le quali unadecisone del genere creerà, di fatto, un precedente ditale importanza da anticipare una sorta di depenalizza-zione del furto lieve per bisogno.La sentenza in questione, invece, proprio perché risol-ve una situazione assai peculiare, poco si presta a fun-gere da precedente facilmente sovrapponibile a casisimili, essendo sufficiente pensare che la stessa perso-na, se avesse rubato, sempre per fame, alimenti piùcostosi o in quantitativi più rilevanti per precostituirsiuna scorta, sicuramente sarebbe incorsa nella sanzione.L’assoluzione di cui ci stiamo occupando non deve

La decisione della Cassazione che fa discutere:“Rubare per fame non è reato”Mario SciallaConsigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma

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Note a sentenza

67-68. scialla decisione della cassazioneqxd_Layout 1 30/01/18 20.53 Pagina 67

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inoltre accrescere un senso di latente insicurezza per-ché non vi è alcun sovvertimento delle regole o dellenorme, in quanto ci si è mossi all’interno dell’ordina-mento, semmai concependo realmente la pena comeestrema ratio, non ritenendola quindi utile in un casodel genere ed anzi addirittura dannosa.Nessuna impunità, quindi, verso il ripetersi di condottedi questo tipo che potrebbero invece essere risolte inaltro modo, utilizzando, ad esempio, tipologie di inter-vento più mirate e precise, come le misure di preven-zione ma non certo ricorrendo al carcere che deve inve-ce realmente rimanere una extrema ratio.Sentenze di questo tipo, anche se vanno difese e spie-gate a coloro che non sono operatori del diritto, eviden-ziano una volta di più come il processo penale sia real-

mente un fatto umano ed inducono alla positiva consi-derazione che dei magistrati con tanta competenza edesperienza, come quelli di cassazione, nonostante ilgran carico di lavoro, non cessino di analizzare aspettie circostanze come quelli che abbiamo evidenziato,solo apparentemente secondari ma che invece rafforza-no il prestigio delle sentenze.A ben vedere, quindi, questa decisione non deve aumen-tare il senso di insicurezza nei consociati ma semmai raf-forzare la convinzione che l’amministrazione della giusti-zia non è un freddo ed automatico avvenimento meccani-cistico quanto invece il prodotto di uno sforzo umano,certamente teso al rispetto della norma all’interno del cir-cuito giudiziario ma che non per questo debba escludereil ricorso al buon senso ed all’umana comprensione.

LA SENTENZA

Corte di Cassazione V Sezione PenaleSentenza 7 gennaio – 2 maggio 2016,

n. 18248Presidente Fumo – Relatore Morelli

Ritenuto in fattoCon la sentenza impugnata, la Corted’Appello di Genova ha confermato lasentenza del Tribunale di Genova dei24.10.13 che condannava alla pena digiustizia, previa concessione dell’atte-nuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. con giu-dizio di equivalenza sulla recidiva, O.R.,ritenuto responsabile di furto.Propone ricorso il Procuratore Generalededucendo violazione di legge in ordinealla qualificazione giuridica dei fatto edifetto di motivazione in ordine alla pro-spettata derubricazione dei reato consu-mato in reato tentato ed alla applicazionedella previsione di cui all’art. 131 bis c.p.Si sostiene che la Corte d’Appello nonavrebbe valutato la possibilità di ritenereconfigurabile la fattispecie di cui all’art.626 n. 2 c.p. (considerato che l’imputato,persona straniera senza fissa dimora, siera impossessato di generi alimentari delvalore di 4 euro) e, in ogni caso, l’ipotesi

tentata, dal momento che l’imputato erastato notato da un cliente mentre siimpossessava della merce ed era statoimmediatamente segnalato al personaleche l’aveva bloccato, ottenendo la prontarestituzione dei beni.II ricorrente reputa, in ogni caso, sussi-stenti i presupposti per l’applicazione del-l’art. 131 bis c.p. non ostandovi la conte-stata recidiva.Ha presentato una memoria il difensored’ufficio dell’imputato sostenendo leargomentazioni svolte nel ricorso.

Considerato in dirittoIl Tribunale ha dato conto dei motivi percui ha escluso che, nel caso di specie,fosse configurabile il reato tentato (l’auto-re del fatto non fu seguito e sottoposto asorveglianza da parte del personale delnegozio, ma semplicemente sorpreso daun cliente mentre infilava in tasca lamerce).La Corte d’Appello ha replicato alladoglianza difensiva relativa alla mancataconfigurazione del furto lieve per bisognocon argomentazioni che non possonoessere condivise, avendo travisato lerisultanze processuali che, se corretta-mente interpretate, portano a concludereper la sussistenza della scriminante di

cui all’art. 54 c.p.Il furto ha avuto per oggetto due porzionidi formaggio ed una confezione di wur-stel del valore complessivo di quattroeuro; l’imputato ha pagato alle casse sol-tanto una confezione di grissini ed hanascosto gli altri generi alimentari sotto lagiacca (a quanto risulta dalla sentenza diprimo grado).Risulta altresì dalla lettura delle sentenzedi merito, come l’O. fosse soggetto privodi dimora e di occupazione.La condizione dell’imputato e le circo-stanze in cui è avvenuto l’impossessa-mento della merce dimostrano che egli siimpossessò di quel poco cibo per farfronte ad una immediata ed imprescindi-bile esigenza di alimentarsi, agendoquindi in stato di necessità.L’accertamento, in questa sede, dell’esi-stenza di una causa di giustificazioneimpone l’annullamento della sentenzaimpugnata perchè il fatto non costituiscereato (Sezioni Unite n. 40049 del 29.5.08Rv.240814).

P.Q.M.Annulla senza rinvio la sentenza impu-gnata perchè il fatto non costituiscereato.Così deciso il 7 gennaio 2016

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1.– La sentenza in epigrafe statuisce in meritoalla natura, validità ed effetti delle clausoleaventi ad oggetto la ripartizione delle spese e

dei rischi delle operazioni di caricazione e scaricazionenel trasporto marittimo di cose.Nel trasporto marittimo gravano sul vettore sia l’obbli-gazione principale del trasferimento delle cose da unluogo ad un altro sia le obbligazioni accessorie diimbarco e sbarco delle merci1.Nella prassi è tuttavia frequente che le parti decidano,attraverso l’inserimento nel contratto di trasporto dellaclausola fio (free in and out)2, di imputare agli interes-sati al carico l’obbligo di provvedere alle operazioni dicaricazione e scaricazione. La medesima pattuizione compare spesso anche sottole denominazioni fios (free in and out, stowed) e fiost(free in and out, stowed and trimmed), che attribuisco-no al caricatore e al ricevitore l’obbligo di provvedereanche allo stivaggio e alla sistemazione delle mercisotto coperta.Secondo la sentenza in oggetto tali clausole sono daconsiderarsi nulle qualora siano volte ad esonerare ilvettore dal compimento delle operazioni di caricazionee scaricazione, dovendo ritenersi valide soltanto seconfigurate come clausole di spesa. L’assunto non distingue tra la normativa uniforme e ladisciplina nazionale, né tra le diverse modalità di tra-sporto previste dal codice della navigazione, e suscitapertanto diverse perplessità.

2. – Con riferimento alla normativa internazionale uni-forme3 l’interpretazione prospettata dalla SupremaCorte appare corretta. Secondo le Regole dell’Aja-Visby il vettore marittimoè tenuto a provvedere all’imbarco e allo sbarco dellemerci. L’art. 3, par. 2, obbliga infatti il vettore ad usarela necessaria diligenza durante le relative operazioni,

escludendo che possa in alcun modo sottrarsi alleobbligazioni e alle responsabilità previste in ordine allacaricazione e scaricazione4.Le normativa uniforme si differenzia dalla disciplinainterna per il carattere imperativo. L’art. 3, par. 8, precisainfatti che ogni diverso accordo sarà nullo, senza effetto,e da considerarsi come se non fosse stato mai concluso.La clausola fio deve quindi considerarsi nulla nei traspor-ti ai quali si applicano le Regole dell’Aja-Visby5, perchéqueste attribuiscono inderogabilmente al vettore l’esecu-zione delle operazioni di imbarco e sbarco delle merci. Inaltri termini, la clausola è nulla perché delimita la presta-zione del vettore in termini più ristretti di quelli consenti-ti dalla normativa vincolante delle Regole6.Nel sistema dell’Aja-Visby è pertanto nulla ogni pattui-zione volta ad escludere o limitare la responsabilità delvettore per i danni subiti dalle merci durante le opera-zioni di caricazione e scaricazione7. La clausola fio saràvalida ed efficace soltanto qualora riguardi esclusiva-mente la ripartizione delle spese di imbarco e sbarcodelle merci8.In Inghilterra la disposizione dell’art. 3.2 delle Regoledell’Aja-Visby è interpretata diversamente. Si ritiene cheessa non imponga al vettore obblighi specifici, bensìun’obbligazione di diligenza nell’ipotesi che il vettoreassuma contrattualmente gli obblighi indicati in taledisposizione. I contraenti sono quindi liberi di delimitareconvenzionalmente la prestazione del vettore, mentrel’obbligo inderogabile di diligenza si riferisce alle soleprestazioni cui il vettore si è contrattualmente impegnato9.È stato osservato che questa interpretazione trova unserio ostacolo nella lettera dell’art. 3.2, che va combi-nata con il precedente art. 2, secondo il quale, conriguardo alle attività di scaricazione, manutenzione, sti-vaggio, trasporto, custodia, cura e scaricazione, il vet-tore è assoggettato agli obblighi e alle responsabilitàprevisti dalle Regole dell’Aja-Visby. Tali disposizioni

Natura, validità ed effetti delle clausole fio e similiCorte di Cassazione –Sezione III – 10 giugno 2015 n. 12087

Andrea TamburroAvvocato del Foro di Roma, Dottore di Ricerca in Diritto dei Trasporti

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vanno pertanto interpretate nel senso che l’art. 2 stabi-lisce quali sono gli obblighi del vettore, mentre l’art.3.2 aggiunge che tali obblighi devono essere adempiu-ti in modo appropriato e con cura10.

3. – Con riguardo alla disciplina interna deve, in primoluogo, considerarsi che non è corretto il richiamo del-l’art. 442 c. nav., atteso che tale norma è dettata inmateria di trasporto di carico, mentre il caso di specieriguarda un trasporto di cose determinate, al quale siapplica l’art. 452 c. nav., secondo cui il caricatore devepresentare le merci per l’imbarco nei termini d’uso,non appena la nave sia pronta a ricevere il carico, e lacaricazione deve essere effettuata dal vettore nei termi-ni d’uso.In relazione ai trasporti regolati dal codice della navi-gazione non può, inoltre, condividersi l’assunto toutcourt della nullità delle clausole volte ad esonerare ilvettore dal compimento delle operazioni di caricazionee scaricazione, dovendo considerarsi separatamente lefattispecie del trasporto di carico e del trasporto di cosedeterminate.Con riguardo alla normativa interna devono infatti consi-derarsi separatamente le fattispecie del trasporto di caricototale e parziale e del trasporto di cose determinate11.Il trasporto di carico12 si distingue da quello di cosedeterminate per l’obbligazione del vettore di trasferirea destinazione non singoli beni o colli bensì un caricototale o parziale, che utilizzi tutto o soltanto una partedello spazio disponibile a bordo.In tale modalità di trasporto l’unicità del carico consen-te al vettore di trasferire sul caricatore e sul ricevitorel’incombenza delle operazioni di caricazione e scarica-zione13; tale accordo è talvolta imposto dalla naturadelle merci da trasportare (si pensi al petrolio e alle rin-fuse di vino, olio e cereali)14.Ne consegue che nel trasporto di carico una clausola fioche attribuisca agli interessati al carico l’obbligo diprovvedere all’imbarco e allo sbarco delle mercirispecchia quanto avviene nella prassi dei traffici com-merciali15. Riconoscendo ad una clausola siffatta sol-tanto un rilievo economico si avrebbe pertanto una«strana collocazione del rischio, che resterebbe a cari-co di chi non ha assunto contrattualmente la prestazio-ne né l’ha effettuata con autonoma direzione tecnica»16.Deve pertanto ritenersi che nel trasporto di carico la

clausola fio possa validamente assumere la portata diaccordo delimitativo della prestazione del vettore17. Atal fine è necessario che detta clausola sia inserita nelquadro di una disciplina contrattuale volta a trasferirecon chiarezza sugli interessati al carico non solo lespese ma anche i rischi delle operazioni di caricazionee scaricazione18.È stato osservato che l’inserimento in un contratto ditrasporto di carico della clausola fio comporta l’irre-sponsabilità del vettore per le operazioni di imbarco esbarco delle merci senza che, per tale motivo, l’accor-do assuma la portata di clausola di esonero dallaresponsabilità19: ciò che si verifica è soltanto la delimi-tazione della prestazione del vettore e della relativaresponsabilità, nel senso che questi prende in consegnail carico quando è già stato caricato e lo riconsegnaquando è ancora a bordo e la nave è pronta per la sca-ricazione20.

4. – Per converso può accadere che nel trasporto dicarico le operazioni di caricazione e scaricazione sianoeseguite dal vettore. Talvolta il sistema è misto, ossiagli accordi inter partes prevedono che l’imbarco dellemerci avvenga a spese e rischio del caricatore e lo sbar-co a spese e rischio del vettore (free in / liner out)21, oviceversa (liner in / free out).Ferma restando l’esigenza di un attento esame dellavolontà delle parti22, non può condividersi l’assuntodella Suprema Corte secondo cui la clausola free in /liner out ha natura esclusivamente economica e non èidonea a liberare il vettore dalla responsabilità per leoperazioni di caricazione. Si richiamano in merito leconsiderazioni svolte nel paragrafo precedente.

5. – Nel trasporto di cose determinate23 le modalitàoperative delle operazioni di caricazione e scaricazionepresentano caratteristiche differenti. Tale forma di tra-sporto, che si sostanzia non nel trasferimento di uncarico unitario bensì nel trasporto di singole cose con-segnate al vettore da una pluralità di caricatori, mal siconcilia infatti con la possibilità tecnica e logistica pergli interessati al carico di eseguire direttamente le ope-razioni di imbarco e sbarco delle merci24.In tale tipologia di trasporto le operazioni di caricazio-ne e scaricazione vengono pertanto effettuate dal vetto-re, ovvero da lavoratori o imprese portuali che operano

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per conto del vettore, che conserva la direzione delleoperazioni di imbarco e sbarco delle merci25. Nel trasporto di cose determinate, in ragione dellemodalità di svolgimento delle operazioni di caricazio-ne e scaricazione, è ormai da tempo prevalente in giu-risprudenza l’orientamento che riconosce alla clausolafio il valore di accordo attributivo delle sole spese diimbarco e sbarco delle merci, mentre i relativi rischirestano a carico del vettore26.In dottrina le opinioni sono invece contrastanti.Alcuni autori riconoscono alla clausola fio in tale formadi trasporto soltanto il valore di clausola di spese27.Altri evidenziano che nella prassi accade spesso che ilvettore predisponga ed inserisca nelle polizze di caricodi linea una clausola fio volta a far risultare come com-piute dagli interessati al carico operazioni di caricazio-ne e scaricazione che vengono invece effettuate dalavoratori o imprese portuali che operano alle dipen-denze del vettore. Il fine sarebbe quello di inserire inpolizza, dietro lo schermo di una clausola fio costruitacome accordo delimitativo della prestazione del vetto-

re, una clausola di esonero dalla responsabilità.Secondo tale impostazione la clausola fio è valida serispetta le condizioni previste dall’art. 424 c. nav., checonsente deroghe alla responsabilità del vettore perdanni avvenuti nel periodo di tempo che intercorre tracaricazione e scaricazione soltanto in relazione ai tra-sporti nazionali, ai trasporti di merci caricate sopracoperta e di animali vivi, nonché ai trasporti non docu-mentati da polizza di carico o da altri titoli negoziabi-li28. Ai sensi dell’art. 1341, secondo comma c.c., siritiene inoltre necessario che la clausola fio sia appro-vata specificamente per iscritto29.Secondo un diverso orientamento la clausola fio devesempre ritenersi valida quando si applica il codice dellanavigazione, perché questo non impone sul vettoreobblighi specifici, come fanno le Regole dell’Aja-Visby, ma delimita l’ambito della sua responsabilità perle cose trasportate «dal momento in cui le riceve almomento in cui le riconsegna» (art. 422 c. nav.), e talemomento può ben essere convenzionalmente stabilito,come fa la clausola fio30.

LA SENTENZA

Corte di CassazioneSezione III

10 giugno 2015 n. 12087

(omissis)

Trasporto marittimo di cose – Operazionidi caricamento e stivaggio della merce –Obblighi e responsabilità del vettore –Clausole di esonero – Nullità.

Trasporto marittimo di cose – Operazionidi caricamento e stivaggio della merce –Clausola FILO (free in / liner out) –Natura giuridica – Clausola economica.

Riassunto dei fattiIn data 23 febbraio 1999 la AcciaiSpeciali Terni USA s.p.a. convennein giudizio la Traiani ImbarchiSbarchi Spedizioni s.r.l. chiedendo il

risarcimento dei danni subiti attesoche l’attrice era destinataria viamare, sulla rotta Civitavecchia-Baltimora, di rotoli di laminati d’ac-ciaio caricati e stivati dalla convenu-ta sulla motonave Unisol e pervenutiin data 4 gennaio 1998 deformati edossidati. La Traiana ImbarchiSpedizioni s.r.l. si costituì in giudizio.In data 14 dicembre 1999 la RAS-Riunione Adriatica di Sicurtà spiegòintervento volontario in causa inforza di surroga ex art. 1916 c.c. ecessione ex art. 1260 c.c. dei dirittidella società attrice e di quella dispedizione. Il Tribunale di Genova,con sentenza n. 4337/03, ritenutoche la Traiana Imbarchi SbarchiSpedizioni s.r.l. avesse operatoquale ausiliario del vettore marittimo,dichiarava intervenuta la prescrizio-ne per inutile decorso del termineannuale stabilito per il trasporto e le

attività accessorie di caricamento estivaggio della merce. Interpostogravame dalla RAS, la Corte d’ap-pello di Genova, con sentenza nondefinitiva n. 1085/05 sull’an debea-tur, ritenuto invece che la TraianaImbarchi s.r.l. avesse operato qualeausiliario del caricatore e non delvettore, riformò la decisione di primogrado, ritenendo nella specie appli-cabile il termine biennale di prescri-zione stabilito dall’art. 1667, comma3, c.c. in materia di appalto, con con-seguente affermazione del diritto alrisarcimento in favore della RAS. LaCorte d’appello di Genova, con sen-tenza definitiva n. 1258/11 sul quan-tum debeatur, condannò la TraianaImbarchi Sbarchi Spedizioni s.r.l. alrisarcimento dei danni in favore dellaRAS, nella misura di dollari USA115.336,11, oltre accessori e spesedel doppio grado di giudizio. Avverso

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le predette sentenze di secondogrado Traiana Imbarchi SbarchiSpedizioni s.r.l. propose ricorso percassazione. La Allianz s.p.a. (giàRAS) resistette con controricorso. Gli art. 3.2 e 3.8 delle Regole dell’Aja,così come le norme del codice della navi-gazione (art. 297, 421, 422) pongonoinderogabilmente le operazioni di carica-mento e stivaggio della merce nella sferadi rischio, costo e responsabilità del vet-tore. Pertanto, sono nulle le clausole cheesonerano il vettore dallo svolgimento ditali operazioni (1). La clausola free in / liner out (in base allaquale i costi di caricamento non rientranonel trasporto) è clausola esclusivamenteeconomica di individuazione dei com-pensi e rimborsi dovuti al vettore, ma nonidonea a sollevare quest’ultimo dallaresponsabilità che gli compete nella fasedi caricamento e stivaggio della nave (2).

Motivi della decisione1.1. Con il primo motivo di ricorso sideduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n.3 e 5 – violazione o falsa applicazionedella Convenzione di Bruxelles 25 ago-sto 1924, degli art. 297, 422 e 442 c.nav., nonchè degli art. 1655 e 1678 c.c.;per avere la sentenza non definitiva dellacorte di appello qualificato il rapporto trale parti in termini di appalto, con conse-guente applicazione del termine biennaledi prescrizione. Al contrario, in base allaregola generale desumibile dallaConvenzione di Bruxelles e dal codicedella navigazione, l’attività di caricamen-to e stivaggio aveva natura accessoriadel trasporto, con la conseguenza cheessa convenuta aveva operato comeausiliaria del vettore, non già del carica-tore in appalto. Tale regola generale nontrovava deroga nella clausola free in /liner out (FILO) intercorsa tra vettore ecaricatore, poiché quest’ultima non pote-va influire sulla natura del rapporto esulle relative responsabilità, concernen-do unicamente l’esclusione dai costi di

nolo delle spese di carico e stivaggio.1.2. Il motivo è fondato.La corte di appello, nella sentenza nondefinitiva n. 1085/05, ha riformato la pro-nuncia di prescrizione resa dal tribunale,osservando che: - in base sia al codicedella navigazione sia alla Convenzione diBruxelles del 25 agosto 1924, le opera-zioni di carico e di stivaggio della mercehanno effettivamente natura accessoriaal trasporto, e sono quindi poste normal-mente in capo al vettore, che se ne assu-me la responsabilità; - tale assetto nor-mativo (come anche espressamente pre-visto dall’art. 442 c. nav.) può tuttaviaessere derogato dalle parti, come sareb-be nella specie avvenuto in forza dellapattuizione, nel contratto di trasporto,della clausola free in / liner out; - in con-seguenza di ciò, Traiana Imbarchi avevaprovveduto al carico «non già quale ausi-liario del vettore accessoriamenteall’esecuzione da parte di questo dellaprestazione inerente al trasporto, bensìquale ausiliario del caricatore in adempi-mento di un contratto di appalto con lostesso stipulato» (sent. pag. 12); - l’azio-ne non era dunque prescritta, perchéproposta nel rispetto del termine bienna-le di cui all’art. 1667 cc., comma 3.Contrariamente a tale conclusione, il tra-sporto marittimo internazionale su poliz-za di carico dedotto in giudizio deve rite-nersi assoggettato alla Convenzioneinternazionale sull’unificazione di alcuneregole in materia di polizza di carico fir-mata a Bruxelles il 25 agosto 1924 (resaesecutiva in Italia con il R.D.L. 6 gennaio1928, n. 1958, convertito nella L. 19luglio 1929, n 1638), la cui disciplina, inquanto speciale, prevale sulla normativagenerale interna (Cass. n. 383 del17/01/1980). Ebbene, tale disciplinapone le operazioni di caricamento e sti-vaggio della merce nella sfera di rischio,costo e responsabilità del vettore: Art. 3,par. 2 «(...) il vettore dovrà appropriata-mente e accuratamente caricare, rima-neggiare, stivare, trasportare, conserva-

re, curare e scaricare le merci trasporta-te». Questa regolamentazione va postain relazione con quanto stabilito nel par.8, secondo cui «qualsiasi clausola, pat-tuizione o accordo in un contratto di tra-sporto, che esoneri il vettore o la nave daresponsabilità per perdita o danno relati-vi alle merci, derivanti da negligenza,colpa o mancanza dei doveri e degliobblighi prescritti in questo articolo o chediminuiscano detta responsabilità inmodo diverso da quello stabilito in questeregole saranno nulli, e di niun effetto».A detta della controricorrente Ras, que-st’ultima previsione di nullità colpirebbele esenzioni di responsabilità nell’ambitodelle prestazioni effettivamente dovutedal vettore, ma non rileverebbe nel casodi specie, nel quale quest’ultimo sarebbestato, a monte, proprio esentato dallaprestazione (caricamento e stivaggio) dalcui inadempimento sarebbe poi scaturitala responsabilità dedotta in giudizio.Questa interpretazione parte da un pre-supposto errato, e cioè che il vettoresarebbe stato qui appunto esonerato pat-tiziamente dalla prestazione di carica-mento e stivaggio; il che – nei confrontidelle parti del contratto di trasporto – nonè, né poteva essere. Con la conseguen-za che la pretesa di porre in capo al cari-catore (ed ai suoi ausiliari) la responsabi-lità per una prestazione che la leggepone in capo al vettore si sostanzia pro-prio in un invalido esonero di responsabi-lità di quest’ultimo.Va del resto osservato come la connota-zione giuridica di accessorietà al traspor-to marittimo delle operazioni di carica-mento e stivaggio trovi rispondenza sulpiano operativo e funzionale, atteso cheil vettore è tenuto, attraverso il coman-dante della nave, a verificare ed appro-vare, secondo un apposito piano di cari-camento, le modalità di stivaggio; inquanto interferenti con le condizionigenerali di navigabilità e sicurezza del-l’imbarcazione. Ed è proprio nella valoriz-zazione della tipologia e connessione

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funzionale della prestazione con il servi-zio di trasporto, che si ritiene in via gene-rale l’applicabilità del termine annuale diprescrizione ex art. 2951 c.c. anchequando le varie prestazioni accessorie altrasporto siano rese in esecuzione di ununico contratto (misto) di appalto di servi-zi di trasporto (Cass. n. 24265/2010;Cass. n. 9128/97).Alla stessa conclusione (della responsabi-lità di Traiana Imbarchi come ausiliaria delvettore, e non del caricatore) doveva tutta-via la corte territoriale pervenire anche inapplicazione delle norme del codice dellanavigazione, le quali pongono pur esse leoperazioni di carico e stivaggio in capo alvettore (art. 297, 421 e 422).In particolare, l’art. 442 stabilisce che «ilvettore riceve e riconsegna le merci sottoparanco», con ciò accollando al medesi-mo il rischio riconducibile alle fasi di cari-camento e stivaggio delle merci succes-sivamente alla loro ricezione. Vero è chequesta disposizione ammette l’eventuali-tà di un «diverso patto, regolamento por-tuale od uso locale», ma tale patto dideroga, diversamente da quanto soste-nuto dalla corte di appello, non può di persé individuarsi nella clausola del contrat-to di trasporto «free in / liner out» (FILO:in base alla quale i costi di caricamentonon rientrano nel trasporto) trattandosi,al pari di altre del tutto analoghe, di clau-sola esclusivamente economica di indivi-duazione dei compensi e rimborsi dovutial vettore, ma non idonea a sollevarequest’ultimo dalla responsabilità che, perregola generale, gli compete nella fase dicaricamento e stivaggio della nave:Cass., sez. I, n. 5565 del 25 ottobre1982, «La clausola FIO (free in and out)inserita in una polizza di carico, ove nonrisultino dal titolo più specifiche indicazio-

ni circa il suo significato, ha l’esclusivocontenuto di una «clausola di spese»,con la quale, cioè, le parti intendonoaccollare le spese di caricazione e disbarco rispettivamente al caricatore e alricevitore, ma non esenta il vettore dal-l’obbligo di procedere a quelle operazio-ni, né lo esonera dall’ordinaria diligenzanella custodia e nello stivaggio del cari-co, né infine incide sul regime probatoriostabilito dall’art. 422 c.c. e dall’art. 4 dellaConvenzione di Bruxelles sulla polizza dicarico del 25 agosto 1924, resa esecuti-va in Italia con legge 6 gennaio 1928, n.1958»; Cass., sez. I, n. 5158 dell’11 mag-gio 1995: «Nel contratto di trasporto, laclausola detta F.I.O. (free in and out)ovvero F.I.O.S. (free in and out stowed) ,in assenza di diverse e più specificheindicazioni, ha l’esclusivo fine di accolla-re le spese di carico al caricatore e quel-le di sbarco al ricevitore, senza inciderein alcun modo sul regime di responsabili-tà del vettore, il quale, pertanto, non èesonerato dall’ordinaria diligenza nellacustodia e nello stivaggio del carico».Nel caso di specie nemmeno Ras haindicato da quali diverse e più specificheindicazioni dovrebbe trarsi il convinci-mento della volontà delle parti di deroga-re, attraverso la sola clausola in oggetto,al suddetto principio generale. Con laconseguenza che, anche nel caso inesame, alla convenzione FILO deve attri-buirsi il valore di clausola sulle spese enon sulla responsabilità.Ne deriva, in definitiva, che la TraianaImbarchi ha qui operato quale ausiliariadel vettore, e nell’ambito del contratto ditrasporto marittimo; con conseguenteinapplicabilità della normativa sull’appal-to di servizi.Ai diritti derivanti da tale contratto di tra-

sporto marittimo deve quindi applicarsi iltermine annuale di prescrizione o deca-denza previsto sia dall’art. 438 c. nav.,sia dall’art. 6, comma 4 dellaConvenzione citata: «in qualsiasi caso ilvettore e la nave saranno esonerati daogni responsabilità per perdite o danni,se non sarà promosso giudizio entro unanno dopo la riconsegna delle merci o ladata in cui le merci avrebbero dovutoessere riconsegnate».Posto che le operazioni di riconsegnadelle merci al porto di Baltimora si sonoesaurite il 4 gennaio 98, tale termine èqui inutilmente spirato – in assenza di attiinterruttivi precedenti al telex del novem-bre 1999 – con riguardo tanto all’atto diintervento in causa di Ras (dicembre1999), quanto allo stesso atto introduttivodel giudizio da parte di Acciai SpecialiTerni (febbraio 1999).Ne segue, in accoglimento del primomotivo di ricorso, la cassazione dellesentenze impugnate, con assorbimentodei restanti motivi.La cassazione riguarda, in particolare,sia la sentenza non definitiva sull’andebeatur n. 1085/05, sia – per l’effettoespansivo dell’annullamento rispetto allestatuizioni dipendenti ex art. 336 c.p.c. –la sentenza definitiva sul quantumdebeatur n. 1258/11.Non essendo necessari ulteriori accerta-menti in fatto, la causa può essere deci-sa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2,mediante rigetto dell’appello proposto daRAS-Allianz e conseguente confermadella sentenza appellata.Allianz s.p.a. deve essere condannata, inragione di soccombenza, alle spese delpresente giudizio di cassazione e di quellodi appello; liquidate, come in dispositivo, aisensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

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1 Cfr. Cass. 18 dicembre 1978 n. 6048, inDir. mar. 1979, 66; Cass. 23 aprile 1969 n.1278, in Dir. mar. 1969, 72 In dottrina, cfr. S.FERRARINI - G. RIGHETTI, Appunti di dirittodella navigazione, Torino, 1991, 65 ss.; S.M.CARBONE, Le regole di responsabilità delvettore marittimo, Milano, 1984, 18 ss.

2 La clausola fio deroga all’art. 442 c. nav.(secondo cui, in mancanza di diverso patto,regolamento portuale o uso locale, il vettorericeve e riconsegna le merci sotto paranco,cioè sotto il bordo della nave), stabilendoche le operazioni di caricazione e scaricazio-ne sono effettuate dal caricatore o dal ricevi-tore (ovvero da lavoratori o imprese portualiper loro conto), i quali si accollano ognispesa e rischio relativi (free of expense andrisk to the vessel). Il vettore, pertanto, pren-de in consegna la merce quando è già carica-ta nella stiva e la riconsegna quando è anco-ra nella stiva. Per lo stivaggio sussistecomunque una responsabilità personale delcomandante in qualità di capo della spedi-zione. Egli è infatti tenuto ad assicurarsi, aifini della sicurezza della navigazione, che lanave sia convenientemente caricata e stivata(art. 297 c. nav.). Cfr. Cfr. L. TULLIO,Responsabilità del vettore nel trasporto dicose, in Trattato breve di diritto marittimo (acura di A. Antonini), II, Milano, 2008, 199.

3 Convenzione internazionale per l’unifica-zione di alcune regole in tema di polizza dicarico, sottoscritta a Bruxelles il 25 agosto1924 (resa esecutiva con r.d.l. 6 gennaio1928 n. 1958), così come modificata daiProtocolli di Visby del 1968 e di Bruxellesdel 1979 (entrambi resi esecutivi con legge12 giugno 1984 n. 244).

4 Deroghe alla responsabilità del vettoresono ammesse dall’art. 7 delle Regoledell’Aja-Visby soltanto in relazione alperiodo di tempo anteriore alla caricazionee successivo alla scaricazione.

5 Le Regole dell’Aja-Visby si applicano aitrasporti internazionali documentati da unapolizza di carico quando questa sia stataemessa, o il viaggio abbia avuto inizio, inuno Stato contraente, ovvero quando le partiabbiano convenuto con la clausola para-mount di sottoporvi il rapporto (art. 10).

6 Cfr. Cass. 11 maggio 1995 n. 5158, in Dir.trasp. 1996, 611; Cass. 25 ottobre 1982 n.5565, in Dir. mar. 1983, 262; Cass. 30 otto-bre 1963 n. 2927, in Dir. mar. 1965, 130;

Cass. 13 aprile 1957, in Riv. dir. nav. 1958,II, 67. In dottrina, cfr. A. ANTONINI, Corsodi diritto dei trasporti, Milano, 2015, 177;L. ANCIS, Clausola fio, in Diritto dellaNavigazione (a cura di M. Deiana), inDizionari del Diritto Privato (promossi daN. Irti), Milano, 2010, 170 ss.; G. FILIPPI,La clausola fio, in Trattato breve di dirittomarittimo (a cura di A. Antonini), II,Milano, 2008, 331 s.; L. TULLIO,Responsabilità del vettore nel trasporto dicose, cit., 200, nonché Contratto di noleg-gio, Milano, 2006, 107, 109 s.; A. FACCO,Responsabilità per le operazioni di carica-zione e stivaggio nei contratti di trasportomarittimo, in Resp. civ. prev. 2006, I, 1055ss.; N. BOSCHIERO, «F.i.o.», in Dig. disc.priv., sez. comm., VI/1991, 198; S.FERRARINI, Portata e limiti di validità dellaclausola f.i.o. e simili, in Riv. dir. nav. 1959,I, 182 s. La Camera dei Lords, nel casoJordan II, ha invece affermato che leRegole dell’Aja-Visby consentono la dero-gabilità dell’obbligo del vettore di eseguirele operazioni di caricazione e scaricazione.Cfr. House of Lords 25 novembre 2004, inDir. mar. 2005, 1453, con nota di F.BERLINGIERI, Le clausole f.i.o. e f.i.o.s.t. el’art. 3.2 delle Regole dell’Aja-Visby.

7 È stato osservato che le conseguenze del-l’incompatibilità delle condizioni fio con leRegole dell’Aja-Visby risultano attenuatedalla norma dell’art. 4, par. 2, lett. q) delleRegole, che attribuisce in ogni caso al vet-tore la possibilità di liberarsi dalla respon-sabilità per i danni subiti dalle merci dimo-strando che il sinistro non è dipeso, né èstato agevolato, da colpa propria o da colpadei suoi dipendenti o preposti. Anche inpresenza di una clausola fio nulla perchécontraria a norme imperative, il vettorepotrebbe quindi esonerarsi dalla responsa-bilità provando la colpa del caricatore o delricevitore nell’esecuzione delle relativeoperazioni. Cfr. L. ANCIS, op. cit., 171.

8 Non si tratta, infatti, di una nullità parzia-le, che riguarda soltanto i rischi facendosalva la ripartizione delle spese. È stato,infatti, osservato che l’attribuzione dellespese (oltre che dei rischi) di imbarco esbarco delle merci al caricatore e al ricevi-tore ha un senso, nello spirito della clauso-la, in quanto tali operazioni siano eseguiteda costoro. Quando invece una normaimperativa dispone che debbano essere ese-guite dal vettore, viene meno la ratio stessa

che aveva indotto le parti ad attribuire lespese agli interessati al carico. Cfr. A.LEFEBVRE D’OVIDIO - G. PESCATORE - L.TULLIO, Manuale di diritto della navigazio-ne, XII ed., Milano, 2011, 491.

9 Così il giudice Lord Devlin nel casoPyrene Co. v. Scindia Steam Navigation Co.[1954] 1 Lloyd’s Rep. 321 (Q.B.): «Thephrase “shall properly and carefully load”may mean that the carrier shall load andthat he shall do it properly and carefully; orthat he shall do whatever loading he doesproperly and carefully. The former interpre-tations perhaps fits the language moreclosely, but the latter may be more consis-tent with the object of the Rules. Theirobject […] is to define not the scope of thecontract service but the terms on which thatservice is to be performed». Tale interpreta-zione è stata approvata dalla House ofLords nel caso G.H. Renton & Co. Ltd. v.Palmira Trading Corp. of Panama [1956] 2Lloyd’s Rep. 379 (H.L.), nonchè, più recen-temente, nel caso Jindal Iron & SteelCompany Ltd v. Islamic Solidarity ShippingCo. Jordan Inc. (The Jordan II) [2005] 1Lloyd’s Rep. 57 (H.L.) (anche in Dir. mar.2005, 1453, con nota critica di F.BERLINGIERI, Le clausole f.i.o. e f.i.o.s.t. el’art. 3.2 delle Regole dell’Aja-Visby).

10 Cfr. L. TULLIO, Responsabilità del vetto-re nel trasporto di cose, cit., 172 s., nonchéContratto di noleggio, cit., 110.

11 Il codice della navigazione distingue trail trasporto di carico totale o parziale (art.439-450) e il trasporto di cose determinate(art. 451-456). Nel trasporto di carico tota-le o parziale «si applicano le regole genera-li sul trasporto di cose, ogni qualvolta vieneassunto l’obbligo di riconsegnare a destina-zione un carico totale o parziale su navedeterminata» (art. 439 c. nav.). In dottrina èstato precisato che per caratterizzare il tra-sporto di carico non è essenziale la determi-nazione della nave, bensì la presenza di ele-menti di fatto (come l’ingerenza del credi-tore nei confronti della nave o del viaggio,che può dispiegarsi in diversi modi), la cuiassenza configura, invece, il trasporto dicose determinate, in cui il caricatore ha sol-tanto l’interesse che le merce sia trasferita adestinazione sana e salva. Cfr. L. TULLIO, Icontratti di charter party, Padova, 1981,246, nonché Contratto di noleggio, cit.,284-287.

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12 Il trasporto di carico totale o parziale sisvolge solitamente nei traffici non di lineaed è documentato da un charterparty. Cfr.A. LEFEBVRE D’OVIDIO - G. PESCATORE - L.TULLIO, op. cit., 476.

13 La preferenza per la stipulazione di unaclausola fio risiede nel fatto che le operazio-ni di caricazione e scaricazione sono ogginormalmente effettuate mediante strumentimeccanici installati e controllati a terra,nonché nella circostanza che il charterer ènella condizione di conoscere e trattaremeglio dell’owner gli aspetti economicirelativi a tali operazioni, e talvolta è lo stes-so charterer a disporre dei mezzi meccani-ci necessari per l’imbarco e lo sbarco dellemerci. Cfr. L. TULLIO, Contratto di noleg-gio, cit., 106 s.

14 Cfr. G. RIGHETTI, Trattato di dirittomarittimo, Milano, I, 1987, 821; F.BERLINGIERI, «F.i.o.s. liner»: una clausolasenza senso, in Dir. mar. 1984, 610.

15 Per la ripartizione delle spese e dei rischidelle operazioni di caricazione e caricazio-ne nei principali formulari di voyage e timecharters, cfr. L. TULLIO, Contratto di noleg-gio, cit., 105 ss.

16 Così S. FERRARINI - G. RIGHETTI, op. cit.,65; G. RICCARDELLI, La clausola fio e laresponsabilità del vettore marittimo, in Riv.dir. nav. 1958, II, 70.

17 Cfr. N. BOSCHIERO, op. cit., 198 s.; G.RIGHETTI, op. cit., 822; S. FERRARINI, op.cit., 183, 187; F. BERLINGIERI, Note sullaclausola f.i.o., in Dir. mar. 1958, 437; G.RICCARDELLI, op. cit., 70.

18Cfr. Cass. 11 maggio 1995, n. 5158 in Dir.trasp. 1996, 611, ove si afferma che «Nelcontratto di trasporto, la clausola detta F.I.O.(free in and out) ovvero F.I.O.S. (free in andout stowed), in assenza di diverse e più spe-cifiche indicazioni, ha l’esclusivo fine diaccollare le spese di carico al caricatore equelle di sbarco al ricevitore; App. Bologna6 maggio 1993, in Contratti, 1993, 685, e inDir. mar. 1994, 175, secondo cui «La clauso-la F.I.O. quando è redatta nella sua espressio-ne più sintetica (free in and out) ha l’esclusi-vo contenuto di una clausola di spese»; Cass.25 ottobre 1982 n. 5565, in Dir. mar. 1983,262, ove si statuisce che «La clausola F.I.O.(free in and out) inserita in una polizza dicarico, ove non risultino dal titolo più speci-fiche indicazioni circa il suo significato, ha

l’esclusivo contenuto di una clausola dispese»; App. Genova 1959, in Dir. mar.1960, 444, secondo cui «in difetto di unanormativa chiaramente destinata a trasferiresul caricatore non solo le spese, ma anche irischi delle operazioni, la responsabilitàdelle stesse deve ritenersi gravare sul vetto-re, in applicazione delle condizioni generalidi polizza». In dottrina, cfr. G. RIGHETTI, op.cit., 224; F. BERLINGIERI, Note sulla clausolaf.i.o., cit., 438.

19 Cfr. A. LEFEBVRE D’OVIDIO - G.PESCATORE - L. TULLIO, op. cit., 490, ove sievidenzia che «Il fatto che sul vettore nongravino i rischi della caricazione e scarica-zione non vuol dire che si tratti di una clau-sola di esonero da responsabilità, dato che ilvettore non ha in custodia la merce in que-ste fasi»; F. BERLINGIERI, Note sulla clauso-la f.i.o., cit., 439, il quale osserva che lad-dove il caricatore si è assunto contrattual-mente l’esecuzione delle operazioni di cari-cazione ne deriva l’irresponsabilità del vet-tore «senza con ciò attribuire alla clausolala portata di clausola di esonero: ciò per ilrilievo che tale irresponsabilità discendedalla normativa generale, secondo cui ilvettore non risponde dei danni che nonsono dipesi da sua colpa personale o dacolpa dei suoi dipendenti o preposti»; G.RICCARDELLI, op. cit., 71, il quale ritieneche qualora le operazioni di caricazione escaricazione siano compiute dagli interes-sati al carico «è evidente che costoro saran-no responsabili dei danni che deriverannodalla esecuzione di tali prestazioni». In giu-risprudenza, cfr. Trib. Ravenna 19 novem-bre 1970, in Dir. mar. 1970, 532, secondocui per l’efficacia della clausola non ènecessaria la specifica approvazione periscritto richiesta dall’art. 1341 c.c.

20 Cfr. A. LEFEBVRE D’OVIDIO - G.PESCATORE - L. TULLIO, op. cit., 490; L.TULLIO, Contratto di noleggio, cit., 107. Inmerito, cfr. Cass. 13 aprile 1957, in Dir.mar. 1958, 434, secondo cui «anche quan-do le parti abbiano voluto anticipare con laclausola fio il momento della riconsegna,questa non può mai precedere il momentodel disistivaggio e dell’agganciamento deicolli al paranco della nave, non potendoconcepirsi prima di tale momento, in man-canza di una rigorosa prova specifica incontrario, la perdita da parte del vettoredella detenzione delle cose trasportate».

21 Cfr. F. BERLINGIERI, «F.i.o.s. liner»: unaclausola senza senso, cit., 611, il quale evi-denzia che la ratio di tale accordo risiedegeneralmente nel fatto che l’esportatore havenduto a condizioni «franco banchinaporto destino» e, non avendo la possibilitàdi organizzare lo sbarco delle merci, prefe-risce affidarlo al vettore, includendone ilrelativo costo nel nolo.

22 Cfr. G. FILIPPI, op. cit., 322, 326; N.BOSCHIERO, op. cit., 196; P. MANCA, Studidi diritto della navigazione, II, Milano,1961, 292; S. FERRARINI, op. cit. 186; F.BERLINGIERI, Note sulla clausola f.i.o., cit.,435. G. RICCARDELLI, op. cit., 70. In giuri-sprudenza, cfr. App. Catania 30 maggio1989, in Dir. mar. 1991, 729; App. Milano7 maggio 1982, in Dir. mar. 1984, 609;Trib. Genova 6 aprile 1966, in Dir. mar.1966, 366; Cass. 30 giugno 1959, in Giust.civ. 1959, I, 1174, e in Riv. dir. nav. 1969,II, 171; App. Genova 23 giugno 1959, inDir. mar. 1960, 444; Cass. 25 febbraio 1959n. 534, in Dir. mar. 1959, 92; Cass. 13 apri-le 1957, in Riv. dir. nav. 1958, II, 67.

23 Il trasporto di cose determinate è esegui-to normalmente da navi di linea ed è docu-mentato da una polizza di carico. Cfr. A.LEFEBVRE D’OVIDIO - G. PESCATORE - L.TULLIO, op. cit., 485.

24 Cfr. L. ANCIS, op. cit., 170; G. FILIPPI,op. cit., 320; A. FACCO, op. cit., 1059; F.BERLINGIERI, «F.i.o.s. liner»: una clausolasenza senso, cit., 614; S. FERRARINI, op. cit.187; G. RICCARDELLI, op. cit., 70.

25 Cfr. S.M. CARBONE, Contratto di tra-sporto marittimo di cose, Milano, 1988,354, il quale osserva che «Si dovrà pertan-to ritenere che, in linea di principio, conriferimento alle attività a bordo della nave,l’impresa di imbarco e sbarco operi perconto del vettore anche se è stata scelta dal(e le relative spese sono a carico del) cari-catore. Tanto più che, nei traffici marittimidi linea, nel momento in cui l’impresa diimbarco e sbarco svolge le proprie funzionia bordo deve necessariamente seguire ledirettive, e tener conto delle esigenze, dellanave sia con riguardo all’ordine di carica-zione delle merci sia con riguardo al lorostivaggio».

26 Cfr. App. Bologna 6 maggio 1993, inContratti 1993, 685, e in Dir. mar. 1994,175; App. Catania 30 maggio 1989, in Dir.

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mar. 1991, 729; Trib. Genova 30 marzo1987, in Dir. mar. 1988, 1167; Cass. 25ottobre 1982 n. 5565, in Dir. mar. 1983,262; App. Milano 7 maggio 1982, in Dir.mar. 1982, 609; Trib. Genova 6 aprile 1966,in Dir. mar. 1966, 336.

27 Cfr. S.M. CARBONE - P. CELLE - M.LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimoattraverso i casi e le clausole contrattuali,Torino, 2006, 272; G. RIGHETTI, op. cit.,822; S.M. CARBONE, Contratto di trasportomarittimo di cose, cit., 353; P. MANCA, op.cit., 292.

28 Cfr. G. FILIPPI, op. cit., 326; S.FERRARINI, op. cit., 183, 187; G.RICCARDELLI, op. cit., 70. In giurispruden-za, cfr. Cass. 24 maggio 1997 n. 4634.

29 Cfr. K. KIELLAND, Brevi note sulla clau-sola f.i.o., in Dir. mar. 1983, 302; S.FERRARINI, op. cit., 180, nonché L’art. 1341cod. civ. e la polizza di carico, in Riv. dir.nav. 1953, II, 286; G. RICCARDELLI, op. cit.,

70. In giurisprudenza, cfr. Cass. 30 ottobre1963, in Dir. mar. 1965, 130; Cass. 19 giu-gno 1962 n. 1557, in Riv. dir. nav. 1963, II,99; Cass. 31 ottobre 1956 n. 4101, in Riv.dir. nav. 1957, II, 233.

30 Cfr. L. TULLIO, Responsabilità del vetto-re nel trasporto di cose, cit., 200. Taleimpostazione si rinviene anche nella dottri-na risalente: cfr. F. BERLINGIERI, Note sullaclausola f.i.o., cit., 437, secondo cui la clau-sola fio «contenuta in polizze di carico lequali documentano contratti di trasporto dicose determinate ha evidentemente l’effettodi delimitare la prestazione del vettore pre-cisando, con sufficiente chiarezza, che laconsegna e la riconsegna hanno luogo instiva»; E. VOLLI, Sulla clausola F.I.O., inForo pad. 1958, II, 1022, il quale affermache le clausole fio «potranno effettivamen-te essere ritenute delimitative della presta-zione ogni qualvolta possa desumersi chenon solo il costo ma anche le operazioni

stesse del carico e della discarica faccianocapo non alla nave, ma agli interessati alcarico»; C.A. COBIANCHI, Valore della clau-sola F.I.O. e limiti della sua applicazione,in Dir. mar. 1949, 56, il quale ritiene che «ilpatto per cui le obbligazioni e le responsa-bilità del vettore si facciano incominciaredal momento in cui la merce sia stata cari-cata e stivata e finire nel momento in cui lamerce venga disistimata e scaricata a cura,spese e rischio dei caricatori o dei ricevito-ri, non stabilisce una limitazione di respon-sabilità nel senso considerato dal 2° commadell’art. 1341 c.c., ma definisce, invece, esoltanto, i momenti terminali (iniziale efinale) del contratto di trasporto secondo lavolontà delle parti (vedi art. 422 c. nav.),disponendo correlativamente che certe ope-razioni preambole o successive debbonoessere compiute, anziché dal vettore, dal-l’altro contraente» In giurisprudenza, cfr.App. Trieste 13 giugno 1959, in Dir. mar.1959, 199.

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