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20 marzo 2019 ~ gabriella giudici gabriellagiudici.it/platone Platone (427 – 347 a. C.) L’intera storia della filosofia non è che note a margine al pensiero di Platone. Alfred N. Whitehead Indice 1. Il senso della filosofia platonica 1.1 La formazione e la morte di Socrate 1.2 La vita come parresia e il significato pratico (o politico) della filosofia 2. L’opera e l’evoluzione del pensiero platonico 2.1 Le caratteristiche dei dialoghi giovanili 2.2 I dialoghi della maturità e l’allontanamento da Socrate 3. Il problema della giustizia: Protagora, Gorgia, Lettera VII 3.1 Il Protagora 3.1.1 È possibile insegnare la virtù politica come si insegna un sapere tecnico? 3.1.2 La risposta di Protagora: Prometeo ed Epimeteo 3.1.3 La virtù è unica o molteplice? 3.2 Il Gorgia 1/49

~ gabriella giudici · Platone rispose: «Ma almeno non sanno di tirannide» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III]. Un secondo episodio narrato da Diogene Laerzio concerne l’invito

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Page 1: ~ gabriella giudici · Platone rispose: «Ma almeno non sanno di tirannide» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III]. Un secondo episodio narrato da Diogene Laerzio concerne l’invito

20 marzo 2019

~ gabriella giudicigabriellagiudici.it/platone

Platone (427 – 347 a. C.)

L’intera storia della filosofia non è che note a margine al pensiero di Platone.

Alfred N. Whitehead

Indice

1. Il senso della filosofia platonica

1.1 La formazione e la morte di Socrate1.2 La vita come parresia e il significato pratico (o politico) della filosofia

2. L’opera e l’evoluzione del pensiero platonico

2.1 Le caratteristiche dei dialoghi giovanili2.2 I dialoghi della maturità e l’allontanamento da Socrate

3. Il problema della giustizia: Protagora, Gorgia, Lettera VII

3.1 Il Protagora

3.1.1 È possibile insegnare la virtù politica come si insegna un sapere tecnico?3.1.2 La risposta di Protagora: Prometeo ed Epimeteo3.1.3 La virtù è unica o molteplice?

3.2 Il Gorgia

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3.2.1 Dialettica e retorica 3.2.2 I temi del Gorgia

3.3 La Lettera VII

4. Il problema della conoscenza: Teeteto, Menone, Repubblica

4.1 Il Teeteto

4.1.1 Il filo narrativo4.1.2 L’ipotesi sofista di Teeteto: la conoscenza viene dalla sensazione4.1.3 La conoscenza è la capacità di cogliere ciò che «è lo stesso in tutti i casi»4.1.4 La verità non è una cosa, ma un compito

4.2 Il Menone

4.2.1 Il problema del dualismo conoscitivo4.2.2 Conoscere non è una cosa, ma un’attività4.2.3 Conoscere è il tornare dell’anima a se stessa

4.3 La Repubblica

4.3.1 La metafora della linea

5. La verità come educazione dell’anima: Simposio, Fedro, Lettera VII

5.1 Dal Menone al Simposio5.2 Il Simposio

5.2.1 I sette discorsi del Simposio5.2.2 Il discorso di Aristofane5.2.3 Il discorso di Diotima

5.3 Il Fedro e la Lettera VII: l’intrasmissibilità della conoscenza

5.3.1 Fedro: la critica della scrittura5.3.2 Lettera VII: «come fiamma s’accende da fuoco che balza»

6. L’anima e la natura umana: Fedone, Fedro, Repubblica

6.1 Fedone: l’immortalità dell’anima6.2 Fedro, il mito della biga alata6.3 Repubblica, il mito di Er

7. Giustizia,uguaglianza e libertà nella Repubblica

7.1 Conoscenza e città giusta 7.2 Il comunismo platonico

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7.2.1 L’uguaglianza di genere7.2.2 Riportare la città all’uguaglianza naturale7.2.3 L’abolizione di famiglia e proprietà come cause della diseguaglianza

8. L’idea, la sua esistenza e il rapporto con il mondo sensibile negli ultimidialoghi

8.1 I problemi del dualismo platonico e il rapporto delle cose con le idee nel Parmenide

8.1.1 Cosa sono le idee?

8.2 Il rapporto delle idee tra loro negli ultimi dialoghi8.3 Il parricidio di Parmenide nel Sofista

1. Il senso della filosofia platonica

1.1 La formazione e la morte di Socrate

La filosofia è la «via meravigliosa» che porta «a vivere ogni giorno in modo da diventare il più possibile padroni di se stessi».

Lettera VII

Platone, il cui nome era in realtà Aristocle era, secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi,III), il soprannome forse attribuito al filosofo dal suo maestro di ginnastica per via dellafronte spaziosa o delle spalle ampie o, secondo un’altra interpretazione, in riferimento aquell’ampio stile retorico (in greco platus significa infatti “ampio”) che da sempre ciriempie d’ammirazione.

Apparteneva a una famiglia eminente dell’aristocrazia ateniese che vantava unadiscendenza da Codro, l’ultimo leggendario re di Atene e da Solone.

Fu allievo del filosofo eracliteo Cratilo, poi di Socrate la cui morte rappresenta unasvolta decisiva nella sua riflessione: il problema della giustizia, di cosa essa sia e se siaconoscibile e insegnabile è, per questo, il movente essenziale della sua ricerca.

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morte di Socrate

Come ha scritto Alexandre Koyré:

«tutta la vita filosofica di Platone è stata determinatada un avvenimento eminentemente politico, lacondanna a morte di Socrate».

Il problema che la morte del maestro pone alfilosofo è quindi quello di rifondare la città eriportarvi la giustizia, dopo la dimostrazione chenessuna forma di stato è per se stessa garante dibuon governo.

Socrate era stato, infatti, condannato dalla corrotta democrazia ateniese succeduta algoverno sanguinario dei trenta tiranni.

Per Platone, come prima per Socrate, la ricerca della verità non è mai quindi fine a sestessa, ma in funzione dell’azione, cioè della trasformazione di se stessi e della vitapubblica, della polis.

Socrate

1.2 La vita come parresia e il significato pratico (o politico) della verità

La verità è un fatto di giustizia, non solo di forma logica.

Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica

La funzione pratica,nonintellettualistica, dellafilosofia è testimoniata dallavita di Platone nella quale laricerca filosofica è sia dialogo,cioè ricerca, esercizio incomune del pensiero, chepratica della giustizia ecoraggio della verità. Comeracconta Diogene Laerzio nelle

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rischiò la vita e la vendita come schiavo

Vite dei filosofi, Platone fu quindiparresiastes (vedi ancheParresia) ebbe, cioè, comeSocrate il coraggio della verità.

A questo proposito, l’episodiopiù importante è costituito dallanarrazione dei suoi tre viaggi inSicilia, presso Dionigi, tirannodi Siracusa, dal quale Platone sirecò nel 388, undici anni dopola morte di Socrate (399 a. C.),stringendo un legame con ilcognato del tiranno Dione; quindi nel 367, durante il regno di Dionigi il giovane che ilfilosofo cercò di guidare, senza successo, a una riforma dello stato, procurandosi il fermoper due anni (365) e l’esilio di Dione, e infine nel 361.

In quest’ultimo viaggio Platone rischiò la vita e lavendita come schiavo, sorte che gli fu risparmiatadall’intervento del pitagorico Archita, che avevaconosciuto a Taranto nel primo viaggio versoSiracusa, e di Anniceride di Cirene – lo stesso chenel 387 aveva donato a Platone, di ritorno dal primoviaggio siciliano, il piccolo giardino su cui sorsel’Accademia che pagò un riscatto di venti mine.

[…] Dionisio, figlio di Ermocrate lo costrinse a entrarein rapporti con lui. Ma quando Platone, conversandosulla tirannide affermò che il suo diritto del più forteaveva validità solo se fosse preminente anche in virtù,allora il tiranno si sentì offeso e, adirato, disse: «Le tueparole sanno di rimbambimento senile», al chePlatone rispose: «Ma almeno non sanno di tirannide» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III].

Un secondo episodio narrato da Diogene Laerzio concerne l’invito dei fondatori greci diMegalopoli di scriverne la Costituzione che Platone,

declinò […] quando apprese che non volevano ammettere l’eguaglianza dei diritti.

Tornato ad Atene, Platone fu l’unico a prendere le difese dello stratego Cabria, accusatodi tradimento, e a farsi vedere con lui sulla via per l’Acropoli. Diogene Laerzio riferiscesull’episodio che il sicofante Crobilo abbia cercato di intimidire Platone dicendogli:

Vieni a difendere un altro, ignorando che anche te attende il veleno di Socrate?

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Platone

Questi episodi della biografia di Platone, attestano che la ricerca della verità è per luisempre legata all’azione pubblica, cioè alla relazione con gli altri, dall’amicizia alla politica,intesa nel suo significato letterale di costruzione della vita associata, della polis.

Questa ricerca, capace di rendere liberi gli individui e giusta la città , non è unconcetto, una nozione appresa dall’esterno, ma esercizio del pensiero(comprensione della realtà, conoscenza) e comportamento politico, cioè di costruzionedella giustizia nei rapporti con gli altri.

Non è quindi una cosa, ma un compito. La giustizia è infatti la conquista di unaconoscenza che ci rende, socraticamente, liberi e come tali capaci di compiere azionigiuste (Socrate: «conoscere il bene è farlo»).

Di qui l’aspetto pubblico, collettivo, della filosofia di Platone , le cui tesi sono frutto dilunghe discussioni e dell’esame dell’intera Accademia [la scuola fondata da Platone] nellaquale si formò e insegnò lo stesso Aristotele. Con Platone arriva dunque a piena maturitàun’attività eminentemente razionale, pubblica e collaborativa che presenta gli stessicaratteri della scienza [dalla quale si differenzia per altri aspetti].

2. L’opera e l’evoluzione del pensiero platonico

Platone è l’unico pensatore antico di cui ci siagiunto l’intero corpus delle opere, formato da 36testi (di cui 34 in forma di dialogo) e 13 lettere che ilgrammatico Trasillo raggruppò, nel I secolo d. C., innove tetralogie (gruppi di quattro).

La vastità dell’impegno di Platone, che inizia astendere i primi dialoghi tre anni dopo la morte diSocrate, appena trentenne (396 a.C.), perconcludere ottantenne la sua riflessione – con le

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Leggi – permette di individuare l’evoluzione del suopensiero e la trama di una ricerca straordinaria, fattadi discussioni di scuola, di soluzioni affascinanti, diconclusioni aporetiche e di revisioni.

Per convenzione degli storici della filosofia, questopercorsi si snoda nelle tre fasi dei dialoghi giovanili, osocratici, anche detti aporetici (396-388 circa) – tra iquali Apologia di Socrate, Critone, Protagora, Eutifrone –dei dialoghi della maturità, scritti dal filosofosessantenne tra il primo e il secondo viaggio in Sicilia(367-361) – tra i quali Gorgia, Menone, Eutidemo,Cratilo, Repubblica (I libro), Fedone, Simposio, Fedro – edella vecchiaia – Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico,Filebo, Timeo, Crizia, le Leggi e le Lettere.

2.1 Le caratteristiche dei dialoghi giovanili

I dialoghi giovanili prendono avvio dal tema della virtù, concludendosi con lademolizione delle definizioni offerte dagli interlocutori del Socrate platonico enessuna soluzione – di qui la loro definizione di aporetici, cioè senza uscita a-poros.

L’abbandono del socratismo a partire dai dialoghi Protagora e Gorgia

2.2 I dialoghi della maturità e l’allontanamento da Socrate

Il punto di svolta tra la fase socratica e la maturità è collocabile nel Protagora e nelGorgia, nei quali Platone offre invece le prime conclusioni: tutte le virtù (la pietà, ilcoraggio, la veracità, la capacità di essere un buon amico) si riducono ad una sola, lasapienza (la sophia o scienza, epistème) che può essere insegnata.

Il senso di questo insegnamento sarà oggetto dei successivi dialoghi Simposio e Fedro.

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La retorica e la dialettica sofiste, invece, non sono sono vera scienza: possonoconvincere solo gli ignoranti.

Il tema dell’unicità della virtù è sviluppato ancora nel Menone e nei dialoghi della maturitànei quali si chiarisce che per rispondere alla domanda di cosa sia la virtù, occorrefissare gli occhi sulla sua forma o identità (eidos) che permette di riconoscerla nellamolteplicità delle sue espressioni.

È la nozione di idea che d’ora in poi è al centro di tutta la riflessione di Platone e cherappresenta il maggior risultato rispetto al socratismo.

Ad essa e alle sue difficoltà emerse nelle discussioni nell’Accademia – particolarmente,come possiamo immaginare, nel confronto con l’allievo Aristotele – sono dedicati idialoghi della vecchiaia.

3. Il problema della giustizia, Protagora, Gorgia, Lettera VII

A partire da Platone, la questione della legittimazione della scienza

è indissolubilmente legata a quelladella legittimazione del legislatore

In questa prospettiva, il diritto di decidere ciò che è vero

non è indipendente da quello di decidere ciò che è giusto,anche se gli enunciati sottoposti alle due autorità sono di natura differente

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Il fatto è che esiste un rapporto di gemellaggio fra il tipo di linguaggio che chiamiamo scienza

e l’altro che chiamiamo etica e politica:derivano entrambi da una stessa prospettiva,

o se si preferisce, da una “scelta” che si chiama Occidente.

Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna

3.1 Il Protagora

Il Protagora è il dialogo dedicato al tema dell’insegnabilità della virtù, in cui Platone siprefigge di dimostrare l’inconsistenza dell’educazione dei sofisti.

Lo scrive probabilmente circa quindici anni dopo la morte di Socrate, nel momento incui sta abbandonando il socratismo fiducioso, di ritorno dal secondo viaggio in Sicilia,dove aveva patito il carcere per decreto di Dionigi il giovane.

3.1.1 È possibile insegnare la virtù politica come si può insegnare unsapere tecnico?

Il problema dell’insegnabilità della virtù politica (o giustizia) è la base del problemache Platone pone successivamente, sull’insegnabilità o trasmissibilità della scienza(epistème).

Nel Protagora, entra in polemica con i sofisti che identificavano l’areté politica conuna delle competenze tecnico-pratiche che erano oggetto del loro insegnamento perdichiarare che la virtù è insegnabile solo se coincide con il vero sapere.

Il dialogo comincia con l’eccitazione di un giovane amico di Socrate, Ippocrate, che primaancora dell’alba lo sveglia per informarlo che è arrivato ad Atene Protagora, il celebresofista, e lui vuole diventare suo allievo, ma ha bisogno di qualcuno che lo presenti.

Sarà Socrate allora ad accompagnarlo a casa di Callia dove è ospitato lo straniero diAbdera. Incontrato Protagora che è insieme agli altri sapienti Ippia di Elide e Prodico diCeo, Socrate gli domanda direttamente quale beneficio avrà Ippocrate dal suoinsegnamento e se è davvero possibile insegnare la virtù come si fa con tutte leabilità tecniche.

Infatti, mentre ad Atene tutti prendono la parola su questioni di giustizia, se devonosapere come si cura un malato o condurre una guerra si rivolgono a un esperto: nonsignifica questo che gli ateniesi pensano di conoscere già l’arte della politica, cioèla virtù del buon cittadino che Protagora pretende di insegnare?

3.1.2 La risposta di Protagora: Prometeo ed Epimeteo

Platone, Il Protagora9/49

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Prometeo ed Epimeteo

Tucidide, Il dialogo deimeli

Protagora propone allora a Socrate il mito di Prometeo ed Epimeteo. Quando i duefratelli furono incaricati di plasmare gliesseri che avrebbero popolato la terra,Epimeteo distribuì equamente le diversequalità, così che nessuno potesseprevalere sull’altro, ma si dimenticòdell’uomo che era rimasto nudo einerme di fronte a qualsiasi offesa.

Mosso a compassione, Prometeo avevaallora rubato il fuoco ad Efesto e latecnica ad Atena per permettere loro disopravvivere. Gli uomini adessoavevano la cultura per distinguersidagli altri viventi, ma si facevanoviolenza l’un l’altro rischiando diestinguersi per mano propria.

Intervenne allora Zeus che invio Ermes a distribuire aidos e dike, vergogna egiustizia, a tutti gli uomini in modo che tutti possedessero queste virtù. Quindi,mentre per le altre tecniche ci vogliono gli esperti, per la virtù politica non è necessarioperché tutti ne sono provvisti.

E’ per questo che gli uomini sono potuti uscire dalla condizione animale e vivere incomune e proprio per mantenere questa condizione civile i genitori educano i figli:dunque la virtù è insegnabile.

Socrate finge grande stupore per la bellezza del discorso del sofista, poi però osservaironicamente che l’educazione è cosa così dura che i migliori padri hanno spesso figliscellerati: Protagora, infatti, era il maestro dei figli di Pericle e Aspasia che conducevanouna vita scandalosa.

3.1.3 La virtù è unica o molteplice?

Protagora parla di santità, vergogna e coraggio come di parti di un’unica virtù. Socrategli chiede allora qual è il loro rapporto, perché possono esserci uomini coraggiosi ma nonsanti, o giusti ma non moderati.

Protagora, irritato, propone una visione relativista della virtù,coerente con la sua dottrina dell’uomo misura di tutte le cose: lecose sono buone e utili in certe circostanze e in altrerisultano dannose, ad esempio, certi farmaci sono utiliall’uomo ma letali per alcuni animali: il bene dunque è qualcosadi vario e multiforme: una stessa cosa può essere buona peralcuni e cattiva per altri.

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Gorgia

Questa conclusione è però insidiosissima per la morale dellacittà, di cui Protagora si dice maestro.

Se il bene si riduce all’utile e l’utile è relativo al tipo disoggetto interessato, allora, come diceva Tucidide, si puòparlare di giusto solo in presenza di una costrizione che lofaccia dichiarare tale per tutte le parti in causa [vedi ilDialogo dei meli ne La guerra del Peloponneso] e non c’è piùalcun ostacolo all’etica aristocratica della prevalenza delpiù forte.

Socrate dimostra, invece, esiste una sola virtù che coincidecon la conoscenza. Assumendo il punto di vista comune,osserva che certi piaceri sono detti cattivi perché portano dolori e certi dolori buoniperché portano a piaceri. Ma, allora piacere e male coincidono. Chi dice di fare il maleperché sopraffatto dal piacere, dice in effetti contraddittoriamente che fa cose spiacevoli,cioè cattive, perché sono piacevoli, cioè buone.

La felicità, quindi, è nell’arte della misura che consiste nella scienza. Lasciarsisopraffare dal piacere è ignoranza, il vincere se stesso sapienza. Il male non è sceltovolontariamente, ma solo per inconsapevolezza.

La conclusione del Protagora è che la virtù è scienza, e dunque è insegnabile.Protagora ha convinto Socrate, ma i due filosofi hanno una diversa concezione dellascienza. Protagora dice della propria arte che esprime semplicemente meglio qualcosache è già conosciuto da tutti, per Socrate, invece, la scienza è produzione di un saperenuovo, critico e fondato.

La virtù che Socrate propone è qualcosa che non si può né ricevere, né comprare, non èl’aidos e la dike ricevuti in dono da Zeus, ma qualcosa che ciascuno, discutendo con glialtri, deve comprendere e costruire da sé.

3.2 Il Gorgia

Il Gorgia rappresenta, insieme al Protagora, il punto dipassaggio tra i dialoghi giovanili, socratici, e quellidella maturità in cui Platone presenta le propriesoluzioni filosofiche.

Poiché il Gorgia ha per tema il rapporto tra filosofia eretorica è proprio su questo terreno che emergono leprime differenze con Socrate.

D’ora in poi il Socrate protagonista dei dialoghiplatonici sarà piuttosto diverso dal personaggio reale,storico, così com’è stato ricostruito dagli studiosi.

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oltre Socrate

Eraclito (535 – 475 a.C.)

3.2.1 Filosofia e retorica

Platone condivide con i sofisti e con Socrate l’idea che il sapere consista in una ricercada condurre insieme, ma è proprio la sua concezione del dialogo a distanziarlo dallaprospettiva sofista.

Infatti, la dialettica platonica è la via attraverso cui le opinioni vengono confutate,così che possa emergere la vera natura delle cose. Nel discorso retorico, invece, leopinioni che si contrappongono sono visioni parziali che prevalgono solo in virtù dellacapacità tecnica dell’oratore.

Per i sofisti, infatti, l’uomo non può raggiungere una verità definitiva. Obiettivo delladialettica platonica è, dunque, la ricerca della verità, mentre quello della retorica è lasola persuasione, in mancanza della possibilità di raggiungere la verità assoluta.

Platone introduce, quindi, particolariprocedure logiche attraverso cui èpossibile superare la contrapposizione deipunti di vista particolari (doxai), perottenere un sapere valido per tutti, cioè lascienza o epistème.

La confutazione delle opinioni particolari è ilpunto di passaggio tra il piano dell’opinionee quello della scienza, un risultato a cuiSocrate non era arrivato, perché laconfutazione dialettica di cui si serviva erasemplicemente il momento che rendeva l’interlocutore consapevole della propriaignoranza e desideroso di cercare la verità.

Nei dialoghi della maturità, Platone collocanell’omologhìa, cioè l’accordo tra i parlanti, il momento incui l’argomentazione di uno viene compresa ericonosciuta razionalmente come verità e dunque fattapropria dall’altro, Essa si verifica quando, attraverso il dialogo,due individui si accordano su un lógos universale che,come sosteneva Eraclito, è

il «mondo comune degli uomini».

Perché si possa raggiungere l’omologhìa, il discorso deve rispondere a determinati criteri:la tesi non deve essere solo enunciata, ma argomentata, e l’argomentazione nondeve essere semplicemente plausibile, ma necessaria, tale che poste certepremesse, le cose non possano essere altrimenti.

Questa è la differenza fondamentale tra filosofia o dialettica (platonica) e retorica: la12/49

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i retori sono pentole di rame che colpite continuanoa risuonare finché una mano vi si posa sopra

prima convince razionalmente, la seconda seduce emotivamente.

3.2.2 I temi del Gorgia

Considerate le differenze tra filosofia e retorica, è possibile addentrarci nel Gorgia pervedere come Platone ingaggi il suo corpo a corpo con i sofisti per dimostrare lalontananza siderale della filosofia dalla retorica.

La filosofia coincide, per Platone, col metodo dialettico, inteso come via per sviluppareragionamenti scientificamente fondati e, sul piano morale, come scelta di vitabasata sulla giustizia.

La retorica, invece, sul piano teoretico mostra di non essere scienza(epistème) perché non ha oggetto (si applica infatti a ogni oggetto), né metodo (non haregole valide per tutto il campo della sua applicazione), né una conoscenza razionaledegli oggetti che tratta, e può dunque convincere solo chi ignora tuttodell’argomento trattato, essendo

un credere non accompagnato da sapere.

Sul piano morale si mostra poi, altrettanto, inadeguata perché, non conoscendo lagiustizia in sé e non possedendo criteri certi per distinguere il bene dal male, finisce perservire gli interessi di politici spregiudicati e potenti corrotti.

La retorica, quindi, non è scienza e nemmeno un’arte (techné), cioè un sapere tecnicofondato su precise procedure, ma solo empeirìa (esperienza pratica), cioè una prassi nonfondata sulla comprensione razionale delle cose, ma sulla sola efficacia momentanea deisuoi argomenti.

Essa, quindi, è pura arte adulatoria: puòconvincere solo gli ignoranti che vengonospinti ad approvare senza conoscere,scegliendo da «anime schiave» ciò che altridecidono per loro, non il meglio per la città:

Non è una vergogna – aveva conclusoindignato Socrate nel Protagora – che gliuomini debbano essere governati dai retori, iquali “continuano le loro lunghe arringhecome pentole di rame che, appena percosse,continuano a risuonare, finché una mano vi siposi sopra?” [329]

Nel Gorgia la retorica è, quindi, lamanifestazione più evidente di una concezione della vita umana e della politica tesanon al miglioramento e al bene, ma al prestigio e alla ricchezza personali di cui

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Socrate

sono espressione i maestri di retorica (come Gorgia) e i politici adulatori del popolo(come Polo).

A questi uomini, espressione di una classe politica corrotta, Platone contrapponela figura del filosofo (Socrate) il quale, avendo davanti agli occhi il modello ideale dibene ed armonia, è il solo in grado (come dirà poi nella Lettera VII), di agirecorrettamente in politica.

Socrate infatti, dichiara, alla fine del dialogo, di

essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra icontemporanei che la eserciti.

Platone, Il Gorgia

3.3 La Lettera VII

Con queste parole Platone espone per la prima volta un concetto che verrà sviluppato eargomentato nella Repubblica: solo il filosofo è il vero uomo di governo, riformare gli statiè impossibile a meno che i filosofi non diventino re, o che i re diventino filosofi. Così siconclude, infatti, la Lettera VII nella quale il filosofo, ormai settantaquattrenne, ripercorrele aspirazione e le delusioni conosciute in gioventù.

Un tempo, nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato,dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica. E questierano allora gli avvenimenti politici nei quali mi trovai a vivere: il governo, attaccato da tutte leparti, venne passando in altre mani, e cinquantun cittadini si misero alla testa del nuovoordinamento, undici in città e dieci al Pireo – gli uni furono preposti all’agorà, gli altriall’amministrazione cittadina – ma trenta costituirono l’autorità suprema con poteri assoluti .

Di costoro alcuni erano miei parenti o conoscenti[Crizia, uno dei trenta, era suo zio, NDR] em’invitarono subito come a lavoro che mi convenisse.M’illusi, né c’è da stupirsi, giovane com’ero.M’immaginavo infatti che avrebbero governato lacittà riconducendola dalle vie dell’ingiustizia suquelle della giustizia, e quindi attentamenteconsideravo quello che avrebbero fatto. Mi accorsi peròche in breve tempo quegli uomini fecero sembrare oroil precedente regime politico. Fra l’altro il mio caro evecchio amico Socrate, che certo non esito aproclamare il più giusto del tempo suo, vollero

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Contro i retori e i loro maestri

associarlo ad alcuni incaricati di arrestare con la forza un cittadino per metterlo a morte, e tuttociò con il preciso fine, volente o nolente, di comprometterlo alla loro politica. Socrate nonobbedì, pronto a correre i più gravi rischi piuttosto che commettere azioni delittuose. Allavita di queste cose a di altre ancora, simili a queste e non meno gravi, m’indignai e volsi lespalle alle brutture di quei tempi.

Poco dopo caddero i trenta e, insieme, tutto il loro regime. Di nuovo, sebbene con minorardore, fui preso dal desiderio di dedicarmi attivamente alla vita politica. Molti, anche allora,furono i fatti ripugnanti: ma non c’è da stupirsi che la rivoluzione abbia servito a moltiplicare levendette. Ad ogni modo, coloro che tornavano, in quel momento si comportarono con moltamoderazione.

Eppure fortunosi avvenimenti vollero che alcune potenti personalità trascinassero dinanzi altribunale quello stesso Socrate, nostro amico, portando contro di lui un’accusa tra le più gravi eche egli certo non meritava affatto: sotto l’accusa di empietà fu dagli uni condotto in tribunale,dagli altri condannato, e fecero morire l’uomo che si era rifiutato di partecipare all’empio arrestod’uno dei loro amici allora al bando, quando essi stessi esuli erano in disgrazia.

Vedendo ciò e vedendo quali uomini tenessero in mano la politica, quanto più consideravo leleggi e i costumi, quanto più divenivo maturo, tanto più mi sembrò difficile amministrareonestamente gli affari dello stato. Senza amici, senza compagni fidati, era impossibile farequalcosa, e d’altra parte fra quei cittadini non era facile trovarne che la città non era più rettasecondo gli usi e i costumi dei nostri antichi: impossibile poi trovarne di nuovi se non a prezzo digrande fatica.

Le leggi scritte e la moralità si corrompevano e dissolvevano in maniera talmente stupefacenteche io, un tempo, tutto ardore e pronto a lavorare per il bene pubblico, osservando questasituazione e vedendo come tutto andasse in disfacimento, finii per rimanerne sbigottito […]finché alla fine compresi che tutti gli stati attuali erano mal governati […] fui allorairresistibilmente portato a lodare la retta filosofia e a proclamare che solo attraverso essa èpossibile comprendere ove la giustizia sia nella vita pubblica e nella privata. Mai, dunque,per l’umano genere cesseranno i mali finché i puri ed autentici 4.1 filosofi non arrivino alpotere, o i capi degli stati, per grazia divina, non diventino filosofi.

Il senso dell’affermazione conclusivasulla necessità di unire governo efilosofia, si spiega con la necessità diuscire dal vicolo cieco sofista (laconcezione della relatività dellagiustizia propria della “secondasofistica”) e indicare una giustiziache non sia (appunto) «per noi»,relativamente ad un determinatocontesto o particolari circostanze,ma «in sé», assoluta o universale.

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Il giovane matematico Teeteto, brutto e intelligentecome Socrate

Per affrontare e risolvere il problema della giustizia, perché mai più la città mandi amorte un innocente e si faccia guidare da politici ingannatori, Platone deve dunquedimostrare che la conoscenza è possibile e che la verità e la scienza sono ancoraaccessibili a chi le cerca.

4. Il problema della conoscenza, Teeteto, Menone, Repubblica

4.1 Il Teeteto

Il Teeteto è un dialogo della maturità in cuiPlatone sviluppa la critica definitiva alleconcezioni sofiste della conoscenza.

Poiché apre gli scritti della vecchiaia , ildialogo ci pone di fronte alla riflessionecompiuta di Platone sul nucleo centraledel suo pensiero, cioè sulla dottrina delleidee. Infatti Platone argomenta che èimpossibile considerare vera la conoscenzase non è basata su ciò che è stabile, cioèsull’essenza delle cose di cui sonoespressione le idee.

Il testo presenta molti passi e situazionimemorabili, dall’incontro di Socrate conTeeteto in cui il filosofo scopre che ilgiovane, presentatogli come uomo di valore, gli somiglia in intelligenza e bruttezza;alla rivelazione al giovane, disorientato e in confusione davanti alla capacità demolitoriadi Socrate, del significato della maieutica: «tu hai le doglie, Teeteto»; fino alle qualità cheSocrate riconosce in Parmenide, «venerando e terribile»:

Temo che noi non comprendiamo neppure le sue parole e ancor più che ci sfugga il suo pensieromentre le pronunciava [Teeteto, 184a].

4.1.1 Il filo narrativo

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se la conoscenza è sensazione, allora la scienza èsoggettiva: non abbiamo nessuna scienza

Il dialogo si apre con l’incontro delfilosofo socratico Euclide di Megarae Terpsione, in cui il filosofo raccontaall’amico di essersi imbattuto inTeeteto morente per avercombattuto ed essere poi cadutomalato nella battaglia di Corinto.

L’occasione lo spinge a ricordare ildialogo tra Socrate e ildiciassettenne Teetetoavvenuto poco prima che Socratemorisse e del quale aveva preso nota scritta .

Il Teeteto è quindi un dialogo scritto, in cui ciò che viene discusso comincia adessere più importante della discussione stessa.

4.1.2 L’ipotesi sofista di Teeteto: la conoscenza viene dalla sensazione

Dallo scritto riemerge il dialogo di Socrate con il giovane matematico intorno all’originedella conoscenza, nel quale Teeteto offre per prima la definizione protagorea che laconoscenza è sensazione: se un frutto ti appare aspro, tale è per te; se invece a mesembra dolce, sarà dolce per me.

Socrate osserva che la tesi di Protagora siappoggia su quella di derivazioneeraclitea, secondo la quale ogni cosa èmolteplice e pronta a trasformarsi nelproprio opposto, così ogni sensazionecoglie un aspetto momentaneo emutevole delle cose che non sono mai, madivengono sempre.

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Ciò però fa sì che la conoscenza delle cosesia instabile e transitoria come le cose acui si riferisce e non sia quindi un saperecerto.

La sensazione quindi non è in grado didarci l’essere delle cose (cioè ciò che sonodavvero), ma solo la loro apparenzamutevole (che scambiamo per il suo“essere”): se la conoscenza fosse basata sullesensazioni, sarebbe sempre particolare e nonavrebbero la certezza e stabilità che appartiene alla scienza.

È a questo punto che, davanti all’argomentare di Socrate, da ragazzo intelligente qual è,Teeteto prova le «doglie» del dover abbandonare l’opinione.

4.1.3 La conoscenza è la capacità di cogliere ciò che «è lo stesso in tutti icasi»

Vedere qualcosa non significa conoscere qualcosa, conclude Platone, come vedereuna pagina scritta non significa conoscere ciò che c’è scritto.

I sensi sono solo strumenti dell’anima (cioè della ragione) per percepire. Se avessimosolo sensazioni e non conoscenza razionale delle cose, avremmo quindi solo opinioni(doxai), conoscenze particolari (del qui ed ora) non scienza (epistéme) (conoscenza di ciòche è stabile, permanente, uguale a se stesso) delle cose.

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vedere qualcosa non significa conoscerla: vedere un libronon significa sapere che c’è scritto

Platone è così giunto così alla distinzione tra opinione (doxa) che è sempre empirica oparticolare e la scienza (epistéme) oconoscenza universale.

La conoscenza vera, dirà nei dialoghisuccessivi, è conoscenza dell’eidos(idea), cioè scienza di ciò che

«è lo stesso in tutti i casi».

L’anima è la capacità di pensarel’identico e di congiungersi adesso: la verità è l’identità dell’essere e del pensare, la loro coincidenza.

[mappa Teeteto].

4.1.4 La verità non è una cosa, ma un compito

Inizia a precisarsi la tesi platonica sulla conoscenza, la quale non è né soggettiva,come suggerisce il relativismo sofista, né oggettiva (come sosterranno realisti edempiristi).

Platone pensa, infatti, che la verità, e la giustizia di cui è il risvolto etico, non sia qualcosa,ma un compito che consiste nel far coincidere infinitamente la realtà e il pensiero, le cosee la loro intima razionalità.

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Se l’anima e le cose sono distinte, come è possibile laconoscenza vera?

4.2 Il Menone

4.2.1 Il problema del dualismo conoscitivo e la soluzione platonica

La domanda che Platone si pone nelMenone è: come è possibile, se l’animae le cose sono distinte, avereconoscenza certa?

Se affermiamo che conoscere è unrapporto tra l’anima e le cose, cosagarantisce che il loro collegamento siagiusto? La conoscenza vera si hainfatti quando la rappresentazionedelle cose presente nell’animacoincide con la loro realtà esteriore.

La conoscenza vera non sarebbeproblematica se il pensiero e le cose (l’essere) fossero lo stesso, come Parmenide avevapensato (la stessa cosa è e pensare che è).

Tornare a Parmenide è però impossibile, se si vuole avere scienza delle cosesensibili e non tornare a confinarle nell’illusorietà. Sul fronte opposto, inoltre, bisognasconfiggere chi, come i sofisti, afferma che la verità coincide con l’opinione

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idein, vedere

mutevole.

La risposta di Platone è che perché l’anima e le cose possano coincidere, èinnanzitutto necessario che tanto la nostra coscienza che le cose si mostrino capaci diidentità.

Per quanto riguarda le cose, è la definizione a indirizzarci verso la forma (eidos) checostituisce la loro essenza (ousia), perché l’eidos è appunto ciò che è lo stesso intutti i casi.

4.2.2 Conoscere non è una cosa, ma un’attività

Il criterio della definizione, però, non puòessere usato per l’anima, cioè per il pensare:questo infatti non è una cosa, ma un’attività(idein, vedere) che si muove e si trasforma neltempo, che tende alla conoscenza. La nostraessenza non è quindi il contenuto di un pensieroo un concetto, ma è il pensare o l’agire stesso.

E’ proprio l’impossibilità di definire l’animacome una cosa a permettere a Platone disconfiggere l’argomento eristico secondo cui la ricerca della conoscenza è vana,perché non ha senso cercare quello che si sa già, né quello che ancora non si sa (in talcaso non si potrebbe nemmeno riconoscere ciò che si stava cercando, qualora siriuscisse a trovarlo).

Menone: Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E se percaso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quello che cercavi, se non lo conoscevi?Socrate: Capisco quello che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristicoproponi! L’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quelloche non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perchéneppure sa cosa cerca.Menone: E non ti sembra, Socrate, che questo sia un ragionamento assai ben condotto?Socrate: A me no [Menone, 80d5-81a 2]

La soluzione che Platone dà del dilemma eristico è quindi che la relazione conoscitivapuò essere ammessa solo se non la si pensa come una cosa, ma come un processo in cuil’anima comprende il significato delle cose.

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“trova il lato del quadrato doppio diquello che ho disegnato”

4.2.3 Conoscere è il tornare dell’anima a se stessa

(ri-conoscere, ricordare)

Ma, si chiede Platone, qual è l’attività che dona alla coscienza identità e stabilità neltempo durante i suoi processi? Solo la memoria.

E’ la teoria della reminiscenza (anàmnesis): il sapere (epistéme) è un imparare aricercare in cui la coscienza si volge a sé per diventare capace di comprendere larealtà.

Platone espone la teoria della reminiscenzaattraverso la scena nella quale Socrate fadimostrare il teorema di Pitagora [il quadratocostruito sull’ipotenusa è la somma dei quadraticostruiti sui cateti] ad uno schiavo di Menone deltutto privo di conoscenze matematiche [“trova illato del quadrato doppio di quello che ho disegnato”].

Lo schiavo sembra ricavare il teorema da sé, perchéSocrate lo assiste nella sua riflessione soloattraverso la confutazione delle tesi errate(élénchos), mettendolo nella condizione diconsiderare le cause delle proprie tesi: il risultatodella dimostrazione dello schiavo è perciò valido, cioèvero, perché egli ha individuato il legame necessario tra le premesse (opinione veraindimostrata) e i risultati dell’indagine (epistéme). Ciò che conferisce stabilità allascienza è infatti il ragionamento causale o conoscenza delle cause.

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Conoscere, perciò è ricordare. La conoscenza è un processo attivo che l’uomo ricava dasé nel momento in cui si relaziona agli oggetti, non un’acquisizione di informazionidall’esterno. L’anima non ricava la conoscenza dai sensi, ma possiede unapredisposizione innata al conoscere che si attiva a contatto con l’esperienza, facendorisvegliare il nostro sapere latente. Conoscere è quindi un atto di riflessione e scopertainteriore, è un compito (il compito del giusto).

Non c’è nulla che l’anima non abbia visto e appreso

perché la conoscenza è lo sviluppo di una capacità, non passiva ricezione di nozioni,come volevano i sofisti.

Socrate: Che te ne sembra, Menone? Nelle sue risposte lo schiavo ha mai espresso una solaopinione che non fosse sua propria?Menone: No, egli ha ricavato tutto da sé.Socrate: Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla.Menone: E’ vero.Socrate: E tali opinioni erano in lui o no?Menone: si.Socrate: Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere sulle stesse cose che ignora?Menone: Sembra.

[…]Socrate: Senza dunque che nessuno gli insegni, ma solo in virtù di domande egli giungerà alsapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza?Menone: SiSocrate: Ma ricavare da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare? [ Menone, 85b10 – 96b1]

La dimostrazione platonica che il conoscere è il volgersi a sé dell’anima e che ciò è unafacoltà innata dell’anima.

Ma come accade questa reminiscenza? L ’esposizione all’esperienza non è sufficiente,occorre che qualcuno la risvegli nell’anima, è quindi necessaria un’educazione dell’anima.Su questo aspetto insistono il Simposio e il Fedro.

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4.3 La Repubblica

4.1.3 La metafora della linea

C’è un passo della Repubblica in cui Platone offre una metafora illuminante delle modalitàdialettiche attraverso cui la conoscenza evolve, di superamento in superamento: è lametafora della linea.

Il filosofo mostra che la vera conoscenza viene solo dall’esercizio e da un processodialettico di critica e dubbio sull’opinione che ci rende capaci di elevarcidall’esperienza sensibile alla comprensione intellettuale.

La linea AB rappresenta l’intera conoscenza, mentre i segmenti di cui è divisa i suoi gradi.Il primo di essi (AC), l’opinione (doxa) è dato dall’immaginazione o congettura (eikasía),cioè dalla semplice rappresentazione sensibile delle cose e dalla credenza (pístis), cioèdall’atto di fede o assenso che riserviamo alle nostre congetture (DC). Il tratto successivo(CE) rappresenta il pensiero discorsivo (diánoia) cioè la capacità della nostra mente dimettere in relazione le cose attraverso ragionamenti (lógos, discorso) e inferenze. Ilcarattere intellettuale (speculativo, duplice) di questo grado fa sì che la conoscenza siconcentri sul significato della relazione anziché sul risultato conoscitivo.

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L’ultimo grado della conoscenza è l’intellezione (nóesis), cioè la comprensione,l’intuizione intellettuale, la perfetta coincidenza del pensare con la cosa pensata. Il gradodi certezza e universalità del sapere noetico è massimo, perché non ci sono mediazioni(separazioni) in cui il pensiero possa rischiare l’errore nel passaggio da un termineall’altro.

La nóesis è dunque intuizione intellettuale delle idee, le forme intelligibili e universali.Essa implica una visione (idein) che ricollega simbolicamente l’atto più elevato(comprensione) a quello più basso della percezione sensibile, fondendo l’atto e l’oggetto.

L’anima non deve quindi fissare l’attenzione sulle immagini percepite attraverso i sensi,ma sulla forma vera delle cose [sul dualismo doxa/epistéme e sulla potenza persuasivadella doxa sugli intelletti non educati: Il mondo invertito dell’articolo di Tonino Bucci sullacrisi dell’intellettuale contemporaneo].

5. La verità come educazione dell’anima, Simposio, Fedro, Lettera VII

5.1 Dal Menone al Simposio

Nella scena dello schiavo del Menone, Platone aveva mostrato che la conoscenza non èsemplice esposizione all’esperienza, né acquisizione passiva di nozioni, ma eserciziodel pensiero attraverso l’educazione.

E’ attraverso l’educazione, infatti, che l’anima si riconosce capace di cogliere l’identico –cioè di conoscenza razionale – congiungendosi con le cose.

Nel Simposio e nel Fedro, Platone affronta il tema della conoscenza evidenziandol’indipendenza delle cose e della loro irriducibilità ai nostri pensieri(antisoggettivismo).

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Diotima di Mantinea

l’antisoggettivismo platonico: le cose sono irriducibili alnostro pensarle

La conoscenza, come l’amore,

è desiderio e mancanza, tensione verso l’altro. Per conoscereè necessario dunque far sorgere le motivazioni che, sottoforma di volontà e desiderio, rendono possibile l’unionecon il proprio oggetto.

Per questo, nel Simposio, Diotima indica nell’Amore (éros) ilfilosofo ed Aristofane il symbolon, la ricomposizionedell’intero, mentre nel Fedro Socrate definisce l’amore (e lafilosofia)

questa specie di delirio [che] è la piùgrande fortuna concessa dagli dèi [Fedro,245 b-d].

5.2 Il Simposio

5.2.1 I sette discorsi del Simposio

Lo schema del dialogo:

1. Il primo discorso è di Fedro: amore è il più antico tra gli dèi2. Il secondo di Pausania: eros volgare vs eros celeste [7:48]3. Il terzo di Erissimaco: l’eros è una forza cosmica in grado di unire e armonizzare i

diversi elementi della natura [8:18]4. Il quarto discorso è quello di Aristofane [8:50]5. Il quinto a parlare è Agatone, il padrone di casa: Eros è il dio più bello e più nobile6. Il sesto discorso è quello di Socrate che riferisce il Discorso di Diotima di

Mantinea [10:42] (la natura di Eros 12:03; la bellezza e la vita umana 15:10; 20:00; ilrapporto tra l’eros come passione per il bello e la creazione «l’amore è laprocreazione nel bello secondo il corpo e secondo l’anima» 22:10).

7. L’ultimo a a parlare è Alcibiade che entra ubriaco nella sala del banchettodichiarando il suo amore non corrisposto per Socrate.

5.2.2 Il discorso di Aristofane: l’amore come simbolo e ricomposizione diun intero

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androgino

Aristofane illustra la propria concezione dell’amore attraverso una narrazione che ha alcentro l’originaria pienezza della naturaumana: un tempo gli esseri umani erano sferici,possedevano due braccia, due gambe e due voltisui due lati della testa. Anche i loro genitali eranodoppi, alcuni ne possedevano maschili efemminili, gli androgini appunto, altri di un sessosoltanto.

Erano così perfetti e completi da tentare lascalata all’Olimpo e insidiare il potere deglidèì, scatenando così l’ira di Zeus che decise didividerli in due, determinando per sempre la loroinsufficienza e incompletezza. Da allora, le metàottenute dal taglio di Zeus si cercano, avendo nostalgia dell’antica perfezione,desiderando la propria metà maschile o femminile con la quale un tempo eranocongiunte.

Il mito è ricco di significati: l’uomo è un essere incompleto, incapace di essere senza glialtri. Egli è sempre metà (symbolon) di qualcosa, riflesso di una realtà che gli èesterna, sulla quale non ha mai presa definitiva. Egli è per natura, mancante di una parte,la cultura, cioè il particolare riferimento al mondo che gli sarà trasmesso dallasocietà umana entro cui vivrà.

Ogni uomo è poi parte entro una relazione: nessuno può definirese stesso (essere qualcosa) se non identificandosi odifferenziandosi dagli altri, specchiandosi nell’alterità. Emergecosì in Aristofane il ruolo dell’altro, il quale può corrisponderci,creando il clima emotivo/cognitivo che ci permette diesprimerci e di essere ciò che vogliamo, rendendoci stabili eappagati, o non corrisponderci ed essere per noi limite,ostacolo, impedimento [Sartre: l’enfer c’est les autres].

Amore è allora trovare corrispondenza, l’altra metà di ciòche vuoi essere: è un uomo che ti fa essere la donna che haiscelto di essere (o la donna che ti fa essere l’uomo che sei), èentrare in una classe che ti permette di essere il prof. che haiscelto di diventare (o il professore che ti fa diventare ciò che hai voglia di diventare).Amore è la perfetta armonia tra il dentro e il fuori, il completamento senza scarti di ciòche siamo, di cui un pezzo è sempre fuori di noi.

Il discorso di Aristofane

5.2.3 Il discorso di Diotima: l’amore come desiderio, figlio di mancanza edespediente

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Diotima

concezione trasmissiva dellaconoscenza

Socrate è il sesto a parlare. Il filosofo non ammaestra direttamente i suoi interlocutori,ma riferisce l’insegnamento ricevuto dalla sacerdotessa diMantinea, Diotima che descrive l’amore come qualcosa dimezzo tra umano e divino, figlio di mancanza ed espediente,essere dalla natura desiderante.

Con il mito narrato da Diotima, Platone mostra che l’amore èpercezione di insufficienza, in quanto figlio di póros,“espediente” o “buon consiglio”, e penía, la povertà[discorso di Diotima].

Il discorso di Diotima

Esso esprime inoltre la natura simbolica dell’uomo perchéciascuno di noi è la metà (symbolon) di un uomo (il verbo symballein significa infatti“mettere insieme”) e tende a cercare il proprio completamento, alla ricomposizione di unintero [discorso di Aristofane].

Eros, quindi, non è la soddisfazione di un desiderio, ma il desiderio stesso che, da unlato, insegue nelle cose particolari ciò che le rende desiderabili (la bellezza in sé) edall’altro supera necessariamente ogni soddisfazione privata trovando piena espressionesolo nella vita etica, cioè nella vita in comune.

L’amore è dunque una tendenza alla bellezza in sé, nella quale si ritrovano insiemel’aspetto estetico (il bello) quello conoscitivo (il vero) e quello etico (il bene).

Il discorso di Alcibiade

Oltre ai discorsi di Aristofane e Diotima, nelSimposio troviamo un altro esempio del rifiuto platonicodi pensare la conoscenza come trasmissione di saperi.

In una scena iniziale del dialogo, Socrate tarda ad unirsi aiconvitati perché è rimasto in meditazione, immobile, fuoridi casa. I suoi ospiti vorrebbero chiamarlo (in particolareAgatone), ma su insistenza di uno di essi (Aristodemo) checonosce questa sua abitudine, lasciano che arrivi a metàdella cena.

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Allora Agatone che giaceva ultimo e solo: Qui – disse – Socrate, vicino a me distenditi, affinchétoccandoti, anch’io possa gioire della sapienza che ti è venuta incontro nel vestibolo. E’ chiaroche l’hai trovata e l’hai con te, sennò non ti saresti mosso.

Socrate sedette e disse: Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse di tal natura che scorressedal più pieno al più vuoto di noi solo a toccarci, come l’acqua che in due tazze scorre, attraversoun filo di lana, da quella più piena a quella più vuota. Se anche la sapienza fa così, ritengoimpagabile giacerti accanto […] [Simposio, 175b-d]

In virtù di questa concezione della conoscenza [meravigliosamente spiegata nellaLettera VII], Socrate scelse di non scrivere, perché la parola scritta – argomenta Platonenel Fedro – cristallizza il pensiero di chi l’ha prodotta ed espone il lettore ad un ascoltoacritico e improduttivo.

Platone, invece, non ci ha lasciato trattati, ma dialoghi(dia-lèghestai=ragionare, discutere insieme), nei quali hatentato di conservare nella scrittura la parola viva dellariflessione nel suo svolgersi, dedicando la vita adulta a uninsegnamento inteso come discussione orale con gli allievi (icosiddetti insegnamenti non scritti, gli àgrapha dògmata).

non si può in alcun modo comunicare, ma come fiammas’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’animadopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vitavissuta in comune, poi si nutre di se medesima [Lettera VII].

5.3 Il Fedro e la Lettera VII: L’intrasmissibilità della conoscenza

5.3.1 Il Fedro, la critica della scrittura

Nella parte finale del Fedro, Platone fa raccontare a Socrate del dialogo tra Theuth,creatore semi-divino della scrittura, e Thamus, re d’Egitto, alle cui critiche si associa:

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Theuth

«Questa scienza, o re, renderà gli egiziani più sapienti earricchirà la loro memoria perché questa scoperta è unamedicina per la sapienza e per la memoria». Risponde alloraThamus:

«O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatricedi arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e diutilità esse posseggano per quelli che la useranno. E cosìora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore,hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché essoingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essicesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi delloscritto richiameranno le cose alla mente non più dall’internodi se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò chetu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma perrichiamare alla mente.

Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solol’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizia di molte cose senzainsegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte nonsapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece chesapienti [Fedro, 274e, 275a].

La vera ricerca e il vero insegnamento sono quindi per Platone quelli che formano lacapacità di pensare e che la esercitano fino in fondo per rendere migliore l’individuo e ilmondo. Nessun valore invece è attribuito dal filosofo a quella sapienza apparente che sinutre di molte conoscenze, senza vera comprensione della realtà a cui alludono.Vediamo quindi in Platone una secca svalutazione dei saperi appresi senzainsegnamento, cioè senza ricerca attiva e dialogica (vale a dire senza discussione) dellaverità, cioè delle nozioni imparate e immagazzinate senza che ci abbiano reso diversi emigliori.

5.3.2 La Lettera VII, «come fiamma s’accende da fuoco che balza»

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Nella Lettera VII, il filosofo sembra così ammonire ipropri stessi commentatori – la propria futurascolastica – attraverso la celebre allusione alledottrine non scritte:

Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hannoscritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui iomi occupo per averlo sentito esporre da me o da altri oper averlo scoperto essi stessi, che non capiscono nulla,a mio giudizio di queste cose.

Su di esse non c’è né vi sarà alcun mio scritto. Perchénon è questa mia, una scienza come le altre. Essa non sipuò in alcun modo comunicare ma come fiammas’accende da fuoco che balza: nasce d’improvvisonell’anima dopo un lungo periodo di discussionisull’argomento e una vita vissuta in comune, poi sinutre di se medesima.

La verità, insomma, non può essere trasmessa,ma può essere conosciuta e praticata insieme: siè giusti e si pensa solo nella relazione comunicativacon gli altri, nel dia-lógos, in uno sforzo costante disuperamento dei propri limiti e di adeguamento alcompito. Il che significa che la verità non è un discorso sulle cose, ma l’atto dicomprenderle, insieme all’attività di ricercarle con gli amici (e di dire cosa sono e cosa nonsono davanti ai potenti).

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dualismo corpo e anima

7. L’anima e la natura umana, Fedone, Fedro e Repubblica

7.1 L’immortalità dell’anima nel Fedone

Nel Fedone, Platone prende spunto dallamorte di Socrate, raccontata da Fedone a ungruppo di ammiratori del maestro, perriflettere sulla natura dell’anima (psyché).

Il tema dell’immortalità dell’anima era giàstato affrontato nel Menone, a sostegno dellateoria della reminiscenza, ora, nel FedonePlatone vi aggiunge una visione dualisticadel rapporto anima/corpo. Giocando sullasomiglianza dei termini greci séma (carcere),soma (corpo), il filosofo suggerisce che il corpocorruttibile è il carcere dell’anima da cui questa deve fuggire: ecco perché Socrate nonteme la morte, ma ne ringrazia Asclepio come della liberazione da una malattia dellospirito (Critone).

Platone dimostra l’immortalità dell’anima con tre argomenti:

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Simmia e Cebete corpo e anima come melodiae strumento

biga alata

1. Argomento dei contrari. Si tratta di unargomento di origine eraclitea (Platone erastato allievo di Cratilo, filosofo eracliteo). Ognicosa si definisce e trae origine dal propriocontrario, così la vita genera la morte e la mortela vita, ma in questa successione che non puòfinire, qualcosa deve restare permanentemente(Aristotele lo chiamerà “substrato”,hypokeimenon), altrimenti si avrebbe un illusoriocircuito del nulla (Parmenide aveva condannatoi mortali dalla doppia testa per i quali essere enon essere sono lo stesso e per i quali di ognicosa è reversibile il cammino;

1. Argomento della reminiscenza. Se conoscere è ricordare, l’anima ha conosciutoprecedentemente ciò di cui ha ricordo;

2. Argomento della semplicità. Come le idee, l’anima è semplice, costante e stabile,perciò non può disgregarsi (è l’argomento contrario alla tesi di Democrito per ilquale ogni cosa è composita e viene ad essere o a perire con l’aggregazione edisgregazione degli atomi.

Controbattono la tesi dell’immortalità dell’anima due pitagorici, Simmia e Cebete, per iquali il rapporto tra anima e corpo è come quello tra melodia e strumento musicale:l’anima è una manifestazione del corpo (ne è l’epifenomeno) sarebbe assurdosostenere che la musica esiste ancora quando lo strumento è rotto.

7.2 Il mito della biga alata nel Fedro

Nel Fedro, il tema dell’amore e deldesiderio porta Platone a riflettere sulrapporto tra passione e ragione, inparticolare nel caso in cui la primaprenda il comando della prassiindividuale. In questo dialogo il filosofodescrive l’anima come una realtàintrinsecamente conflittuale nellaquale operano diversi “principi” ofunzioni (non parti), nonostante la sua natura semplice e incorruttibile.

Nel mito della biga alata il filosofo dà forma a questa idea, paragonando la razionalitàumana ad un auriga al comando di cocchio tirato da due cavalli alati, uno bianco,espressione dei sentimenti e delle passioni più elevate (thymeide), cioè dell’anima volitivao irascibile, l’altro nero, rappresentazione dell’anima desiderante o concupiscibile. Labuona conduzione della vita, suggerisce il filosofo, è dunque legata alla capacità di

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Er

ognuno di orientare razionalmente le componenti istintuali e volitive del carattere. Ilmale dunque, non è solo ignoranza del bene, come pensava Socrate, ma anche dallavittoria delle passioni sulla ragione.

Se, a causa dell’inettitudine dell’auriga, la parte concupiscibile, di natura inferiore,legata al corpo e al desiderio sensibile, tende a prevalere, assumendo uno stile di vitalontano dalla bellezza e dal bene, allora – nota Platone nel Fedone – l’anima tende acadere, come accade nel caso dei sofisti di professione, dei demagoghi e deitiranni. Ma nessuna anima è condannata fin dall’inizio a questo destino, perchéogni uomo può assumere possesso di sé – può cioè divenire libero e autonomo.

7.3 Il mito di Er nella Repubblica

Platone torna sull’argomento attraverso ilmito di Er (Repubblica), la storia di unsoldato caduto in battaglia e tornato in vitadopo dodici giorni per raccontare cosaaccade alle anime dei defunti. Er raccontainfatti di aver visto le anime scegliere illoro destino, dopo essere passate davantialle tre Moirai (latinamente, le Parche), lefiglie di Ananke (necessità): Cloto, lafilatrice, Lachesi, la distributrice, e Atropo,la tagliatrice.

E’ Lachesi a rivolgere alle anime le seguenti parole:

Anime, che vivete solo un giorno comincia per voi un altro periodo di generazione mortale,portatrice di morte. Non vi verrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chiviene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. Lavirtù (areté) è senza padrone (adéspoton) e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda chela onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio (theos) non è responsabile.

Davanti allo sguardo di Er passano così anime illustri, come quelle di Ulisse eAgamennone, che il soldato vede scegliere il proprio destino sulla base dell’esperienzavissuta: Ulisse, stanco di avventure e peregrinazioni sceglie infatti la vita oscura delmendicante, mentre Agamennone, sazio di sangue e lotte di potere, lascia il mondo degliuomini ma, non volendo rinunciare alla regalità, sceglie la vita di un’aquila. Dopo averscelto il loro destino le anime bevono l’acqua del fiume Lete che provoca oblio,dimenticando dunque la propria scelta e le esperienze precedenti.

Platone evidenzia così che la virtù non è innata (è «senza padrone»), perciò chiunquepuò elevarsi ad essa attraverso la conoscenza (aristoi, eccellenti, si diventa, non sinasce) ma che la libertà umana non è assoluta ; la scelta di ognuno appare infatti

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vincolata dalle condizioni d’esperienza in cui la scelta si è determinata. E’ negli ultimi libridella Repubblica che il filosofo espone il nesso tra la natura dell’anima, il conoscere e lafondazione della città giusta.

8. Giustizia, uguaglianza, libertà nella città ideale, Repubblica

8.1 Conoscenza e città giusta nella Repubblica

La riflessione di Platone sul rapporto tra conoscenza e giustizia iniziata con il Protagora eil Gorgia, si conclude negli ultimi libri della Repubblica. E’ qui che Platone colloca le celebripagine dell’allegoria della caverna (libro VII) [secondo Leonard Cohen secondo EnricoGalavotti] e della metafora della linea, nelle quali presenta lo sviluppo della conoscenzariguardo agli oggetti.

Come si è visto, per Platone è l’anima che coglie la verità, non i sensi. Nell’allegoria dellacaverna il filosofo tratteggia la propria ontologia (cioè la visione della realtà) e mette inrelazione le diverse modalità del conoscere con la guida della città.

Platone immagina la condizione umana in modo simile a quella di uno schiavoincatenato all’interno di una caverna, nella quale può guardare solo avanti, verso ilfondo buio. La luce esterna penetra a stento nell’antro la cui unica fonte di luce èrappresentata dal fuoco che arde dietro un muretto e proietta le ombre degli oggetti sulfondo della caverna.

Ciò che gli schiavi incatenati possono vedere sono così solo le ombre delle coseproiettate sul fondo della caverna, che essi scambiano per cose reali. Uno di loro peròriesce a liberarsi, riuscendo così a vedere direttamente le cose e gli uomini incatenati, dicui prima vedeva solo le immagini riflesse sul fondo. Raggiunta la libertà cercherà l’uscitaper fuggire dalla prigione in cui è nato e conoscere la realtà esterna, illuminata dalla lucedel sole.

Giunto all’esterno resta abbagliato dalla luce, ma a poco a poco i suoi occhi si abituano alchiarore e riesce a guardare le cose in sé. Alla fine potrà volgere lo sguardo al sole (ilbene), ciò che rende felici e compassionevoli verso coloro che ancora vivono diombre e opinioni.

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– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagininelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.

– Per forza, disse.

– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e glianni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tuttoquello che egli e i suoi compagni vedevano.

– È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così.

– E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoicompagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietàper loro?

– Certo.

– Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chifosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevanosfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e cheinvidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? 0 che si troverebbe nellacondizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pursenza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?

– Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo»[Repubblica, 517 a 8].

La liberazione dello schiavo, coincidente con l’attività del filosofo, non avrebbesignificato per Platone, se egli non tornasse nella caverna dai suoi fratelliaffrontando il dileggio e il rischio di essere ucciso. La ricerca filosofica non ha infattinessun valore se non contribuisce a determinare le condizioni della giustizia.

Nella Repubblica, Platone si oppone alla morale individualistica di alcuni sofisti, inparticolare di Trasimaco, secondo il quale la giustizia corrisponde all’utile del piùforte. Se così fosse nella polis non esisterebbe alcuna giustizia, ma solo unatrasposizione degli interessi privati in ambito pubblico. Il filosofo nota invece che il valorenasce non dall’utile che ognuno può ricavare dalla sua attività, quale che sia, ma dalvantaggio arrecato agli altri, cioè dai risultati oggettivi a cui il suo lavoro è giunto, cioèvale a dire dalla bontà del prodotto, non dal vantaggio economico che può trarne.

8.2 Il comunismo platonico

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Su questa base Platone delinea il profilo di uno stato ideale nel quale la giustizia è datadall’armonia che si produce in seguito all’agire giusto di ognuno nella sfera di attività incui si trova ad operare secondo le proprie attitudini individuali e i bisogni personali. Inaltri termini, l’educazione, l’attitudine e le condizioni particolari della vita producono unacompetenza specifica che deve essere messa a disposizione della comunità.

Lo stato appare così un grande organismo vivente, le cui funzioni o parti svolgonoognuna il compito che è loro proprio, contribuendo alla salute o benesseredell’insieme: il macrocosmo sociale dello stato, composto da reggitori (governanti-filosofi), difensori (soldati) e produttori (lavoratori), riflette così la dinamica interioredell’anima descritta nel Fedro con il mito della biga alata.

La divisione del lavoro è dunque la ragione della costituzione dello stato, ma non poggiasull’ereditarietà della condizione, quanto sulle attitudini naturali che ogni individuo avràsviluppato fin dall’infanzia e che l’educazione avrà saputo valorizzare.

Platone è consapevole della differenza di prestigio e reputazione sociale che appartienealle diverse classi di cittadini, dispone concepisce perciò uno stato in cui reggitori edifensori non possano possedere privatamente alcun bene e vivano nella piùcompleta comunione delle donne e dei figli che saranno educati in comune alriparo dai possibili favoritismi dei padri.

8.2.1 L’uguaglianza di genere

Le bambine avranno la stessa educazione dei lorofratelli, senza che vi sia preclusione di principio per laloro inclusione futura tra i reggitori o i difensori: lacomune natura umana è infatti l’elemento di sostanzamentre, in relazione alla sfera pubblica, le differenzetra maschi e femmine sono puramente accessorie.

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«Noi perseguiamo alla lettera, con molta decisione e pervicacia, la tesi secondo cui a naturedifferenti non toccano mansioni uguali, ma non abbiamo assolutamente indagato a quale specieappartengono l’una e l’altra natura e a che cosa miravamo con la nostra definizione, quandoabbiamo assegnato diverse mansioni a ciascuna natura, e mansioni uguali alla stessa natura»[…].

«Se dunque», proseguii, «il sesso maschile e quello femminile risulteranno differenti in rapportoa una determinata arte o a un’altra occupazione, diremo che l’assegnazione dei rispettivi compitiva fatta con questo criterio; se invece risulteranno differenti solo per il fatto che il sessofemminile partorisce e quello maschile feconda, diremo che per quanto concerne la nostraquestione non è ancora stato dimostrato che la donna differisce dall’uomo, ma resteremodell’idea che i nostri guardiani e le loro donne debbano svolgere le stesse mansioni» […].

«Pertanto, caro amico, nel governo della città non c’è alcuna occupazione propria delladonna in quanto donna, né dell’uomo in quanto uomo, ma le inclinazioni sono ugualmenteripartite in entrambi, e per sua natura la donna partecipa di tutte le attività, così comel’uomo, pur essendo più debole dell’uomo in ognuna di esse» […].

«Allora le leggi che abbiamo fissato non sono impossibili da realizzare né simili a piidesideri, se davvero la nostra legislazione è conforme alla natura; piuttosto vanno contronatura, a quanto pare, le disposizioni vigenti contrarie alle nostre!» […].

«Quindi abbiamo stabilito una legislazione non solo realizzabile, ma anche ottima per la città».

«E’ così ». Repubblica, V, 454c-457a.

8.2.2 Riportare la città all’eguaglianza naturale

In conclusione, nella Repubblica Platoneporta a compimento la propria riflessionesulla giustizia, sostando in particolare suitemi dell’uguaglianza e della libertà deicittadini, già affrontati attraverso lametafora della biga alata e di Er.

Con la metafora della biga il filosofointerroga infatti la natura umana e indicanella scelta ciò che differenzia gliuomini e ne spiega le azioni: gli uomini,infatti, condividono la stessa natura

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filosofi-reggitori

difensori

molteplice e complessa, nella quale laragione (simboleggiata dall’auriga) siintreccia con la volizione (l’anima irascibilerappresentata dal nobile cavallo bianco) econ i desideri (l’anima concupiscibileincarnata dal cavallo nero).

Non ci sono dunque anime elevate oignobili – d’oro, d’argento e di metallo vile– per natura o per destino, ma ognuno èpotenzialmente filosofo, guerriero o umilecontadino a seconda della parte di sé chedecide di far emergere o, in terminiplatonici, della funzione dell’anima a cuidecide di obbedire.

A differenza di quanto dicono i poeti –Platone detestava Omero – gli uomininascono uguali, nessuno è aristos(eccellente) per nascita o condizione,ma lo diventa scegliendo o disprezzando laconoscenza e la virtù.

Questo è infatti il significato del mito di Er,nel quale l’ammonimento della moira Lachesi– anime che vivete un solo giorno, si preparaper voi un altro tempo di incarnazione il cuidaimon (destino) sarete voi a scegliere:ognuno di voi deciderà se tenere in altaconsiderazione o no la virtù e la conoscenza:l’eccellenza è senza padrone, ognuno ne avràa seconda che la onori o la disprezzi – indicaesattamente il compito di ogni uomo di decidere chi essere, di forgiare la propriapersonalità (di individuarsi per usare la terminologia junghiana) diventando se stesso.

Questa faticosa costruzionedell’uomo non avviene peròastrattamente, nel vuoto dellecircostanze, ma nel vincolo dellecondizioni e dell’esperienza in cuiognuno si trova a vivere (lotestimoniano le scelte che Ulisse eAgamennone operano sotto lo sguardostupito di Er). Ognuno è perciòpotenzialmente libero, ma condizionato

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produttori

matrimonio

di fatto dalle materiali condizioni di vitain cui si trova ad operare le propriescelte. E’ questo il problema a cuiPlatone intende dare risposta nellaparte centrale della Repubblica.

La città sarà, infatti, giusta solo seguidata da chi è capace di contemplarerazionalmente il bene generale e diagire in modo libero e autonomo(filosofi-reggitori), difesa da chi samettere l’ardimento e il coraggio alservizio di tutti (difensori) e alimentatada chi ama circondarsi delle cose e dei piaceri materiali (produttori).

Alla posizione occupata in questa divisione sociale del lavoro corrisponde però undiverso prestigio e riconoscimento, cioè un diverso status che può renderemaggiormente ambite le condizioni del reggitore e del soldato. Come realizzare dunquele condizioni di una scelta davvero libera, cioè non condizionata dalla nascita, taleda far emergere la scelta autonoma, la propensione, il bisogno di autorealizzazione diognuno?

8.2.3 L’abolizione delle cause della diseguaglianza: famiglia e proprietà

Platone ritiene necessario abolire la famiglia ela proprietà, quali condizioni originarie didiseguaglianza, ed attribuire ad ogniposizione sociale il tipo di felicitàcorrispondente.

L’ottima repubblica (callipolis, in greco) è unostato in cui uomini e donne, sciolti da vincolosentimentale esclusivo, vivono nella perfettacomunione dei beni e dei figli; figli cheappartengono a tutta la città e a cui lo statoriserva quindi le stesse cure e la stessaeducazione. Solo così è possibile realizzarequell’uguaglianza delle condizioni che offre adognuno la possibilità di scegliere liberamente inquale direzione sviluppare la propriapersonalità.

Reggitori e difensori saranno mantenuti dallostato secondo le loro necessità e opererannoricompensati dal prestigio e dalla considerazione

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proprietà

beni dei produttori

per la loro superiore virtù. Non potrannopossedere beni, così che non siricostituiscano le condizioni didiseguaglianza che sono fonti diingiustizia e disarmonia sociale. Il loroappagamento corrisponde, dunque,non a un criterio astratto di equità, maa ciò che più conviene alla loro natura(nella quale domina l’anima razionale evolitiva) e al bene della città.

Quanto ai produttori, sarà concesso aloro soli, in virtù del tipo diappagamento ricercato dalla loro animadesiderante, di possedere i beniprodotti. Questa uguaglianza ditrattamento dei diseguali corrisponde,in embrione, alla formulazione delsuperamento comunista delladistinzione tra lavoro fisico eintellettuale poi enunciato da Marx conla celebre formula «da ognuno secondole sue capacità, a ognuno secondo i suoibisogni»:

In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazioneasservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavorointellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primobisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anchele forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loropienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la societàpuò scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoibisogni! [K. Marx, Critica del programma di Gotha, 1875].

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Nonostante la convergenza sulla necessità platonica della soppressione della proprietà edella famiglia, Marx considerava lo stato delineato dalla Repubblica platonica un «sistemadi caste» (Il Capitale) eppure Platone ha concepito una società egualitaria, non soltantoesente da discriminazioni delle donne, ma anche in grado di porsi il problema dellarealizzazione dell’uguaglianza. Infatti, se nella fase fondativa della costruzione dellostato giusto (callipolis), i produttori sono esclusi filosofi e difensori hanno la stessaeducazione

9. L’idea, la sua esistenza e il suo rapporto con il mondo sensibilenegli ultimi dialoghi

Nei dialoghi della maturità, Platone aveva suggerito che la verità non è né soggettiva (ilnostro vedere, come sensazione o riflessione), né oggettiva (le cose), ma è il compito diunificare il pensiero con le cose.

Tuttavia, in opere come il Fedro e la Repubblica, Platone offre delle rappresentazionidelle idee quali enti in sé sussistenti, realtà universali separate dalle cose sensibili.

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Parmenides

Methexis: le cose partecipanodell’essere

Nell’allegoria della caverna, infatti, lo schiavo incatenato è immerso nella doxa, l’opinionesensibile, di cui sono simbolo le ombre proiettate sul fondo della caverna. Lo schiavoliberato è il filosofo che riesce a uscire dall’apparenza illusoria delle ombre per vedere lecose reali, le idee, appunto. Il sole, infine, che permette di riconoscere l’aspetto vero dellarealtà è l’idea del bene, l’idea suprema in virtù della quale l’intero mondo è costituito.

Nel Fedro, a sua volta, il mondo delle idee è collocato oltre il cielo (hyperouranos), asimboleggiare l’elevazione dell’anima alla conoscenza, superando l’apparenza delle cosesensibili. Con le immagini della Repubblica e del Fedro Platone allude quindi al dualismonon colmabile tra realtà sensibile (mondo del divenire) e realtà intelligibile (mondodell’essere).

Nelle opere della vecchiaia, sviluppate a partire dal dibattito suscitato nell’Accademiadalla dottrina delle idee, Platone si confronta, quindi, con il dualismo che emerge dallacontinua squalificazione del mondo sensibile: Socrate distrugge infatti comeopinioni (doxai) le definizioni particolari, opponendo loro l’universale, ciò che lacosa indagata è in sé, il ti estì (l’idea). E’ quindi necessario definire la realtà (l’essere) diquesti enti e del loro rapporto con il mondo sensibile, problema che Platone non affrontatematicamente fino al Parmenide.

9.1 I problemi del dualismo platonico e il rapporto delle cose col mondonel Parmenide

Il dialogo prende il nome dallo straniero che, in compagniadell’allievo Zenone, si sarebbe recato ad Atene doveavrebbe conversato con un giovane Socrate. Qui Platoneaffronta definitivamente il «venerando e terribile» eleate(Teeteto) di cui nel Sofista opererà il «parricidio».

Il suo obiettivo è di prendere definitivamente le distanzedal divieto di pensare la realtà sensibile (quale mondocontraddittorio di ciò che è e non è) e ri-fondare lascienza dei fenomeni – in modo alternativo rispetto aquanto aveva fatto Anassagora e stava facendo Democrito.

9.1.1 Cosa sono le idee?

Prima definizione: l’idea come oggetto di ordine superiore

Il primo tentativo platonico di spiegare il rapporto traidee e cose è nel concetto di partecipazione (mèthexis):le cose partecipano dell’essere. Se è così bisogna alloraammettere che le idee sono delle specie di oggetti diordine superiore che si distribuiscono sugli oggetti di

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Methexis: tutte le cose partecipano del divino

Le idee sono pensieri che esistono solonella nostra mente

ordine inferiore donando ad essi l’essere.

Questa ipotesi trova corrispondenza sul pianolinguistico, infatti nella frase «alcuni ateniesi sono buoni»,certi ateniesi partecipano della bontà. Tuttavia, ad unesame più attento, questa soluzione si rivela del tuttoinsoddisfacente. L’eleate infatti pone obiezioni rilevanti aquesta soluzione: se l’idea è una, come può ilmolteplice parteciparne?

Se è accolta interamente dalle cose èinfatti molteplice (e non una), se èaccolta invece come “parte”, allora èdivisibile (argomento dell’ideadivisibile e moltiplicabile). E se c’èuna relazione tra l’idea e la cosasensibile, anche la relazione, se è vera,dovrà essere espressione di una idea, ela nuova relazione dovrà fare lo stessocon la precedente in un processoall’infinito (argomento del terzouomo). Inoltre, se le idee e le cose hanno natura differente, come potranno le ideespiegare le cose ed esserne modelli ideali? (argomento della dualità).

E’ il paradosso della reificazione (da res=cosa) delle idee: se le idee sono pensate comecose, sono enti contraddittori.

Seconda definizione: l’idea è un pensiero della mente

Se le idee non sono supercose, potrebberoessere dei pensieri che esistono solo nella nostramente. Si eviterebbe così il paradosso dell’ideadivisibile, perché come ente immateriale potrebbedistribuirsi su molte cose senza dividersi. Si trattadi una concezione sostenuta da alcuni sofisti nellaversione estrema del nominalismo (le cose sonosolo nomi) e in quella più moderata delconcettualismo (il nome esprime un concetto cheindica l’insieme delle proprietà possedute dallacosa, strumento utile per raccogliere in un nomeciò che è comune a più individui). Ma se le cosesono pensieri e non oggetti decade qualsiasitentativo di conferire oggettività alla nostraconoscenza.

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Le idee sono modelli di cui le cose sonocopie

E’ il paradosso dell’areferenzialità: se le idee sono pensieri, allora o sono “atti” (ilpensare) o contenuti mentali, ma non ha senso un pensare senza oggetto o un pensieroche abbia come oggetto se stesso; ogni riduzione idealistico-soggettiva dell’idea eliminala differenza tra il pensare e il pensato, cioè l’oggetto a cui il pensiero si riferisce.

Terza definizione: l’idea come archetipo o modello

Per ovviare alla reificazione dell’idea (cioè alla suariduzione a res, cosa) o alla sua idealizzazione cheinvece la trasforma in un puro contenuto mentale

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volto riflesso nello specchio

(noema), si potrebbe riprendere la concezione pitagorica secondo la quale ilrapporto tra idee e cose è simile a quella tra un modello (parádeigma) e la sua immagine,o riproduzione.

Si tratta dell’interpretazione dell’idea platonica più nota: le cose sensibili sono copie oimitazioni delle idee, ma questo – di nuovo – non è possibile, perché tra l’originale ela copia vi è rapporto di somiglianza che, come tale è sempre simmetrico: se Asomiglia a B, allora B somiglia ad A. Di conseguenza, non c’è alcuna ragione perdistinguere la copia dall’originale.

Ora, le difficoltà tanto della prima definizione (la partecipazione) che della terza(imitazione) dipendono da un problema ben più grave: l’indicazione dell’esistenza didue mondi separati (teoria dei due mondi): se tra le idee e le cose esistesseun’autentica separazione, sarebbe inutile cercare una relazione tra di esse. Ognirelazione apparterrebbe a uno solo dei due mondi e ogni tentativo di istituire unrapporto conoscitivo con le cose si rivelerebbe un’illusione.

Considerate queste difficoltà, sembra che ogniricerca della relazione tra cose e idee dia ragionealla tesi di Parmenide, secondo cui la molteplicitàdell’essere è impossibile, per cui o ci affidiamototalmente ai sensi e cadiamo nell’illusorietàdell’opinione, o prestiamo fede alla ragione erinunciamo ad avere scienza dei fenomeni. Inizia quila riflessione platonica sul rapporto tra unità emolteplicità che si snoda tra la posizione eleaticadell’assoluta univocità dell’essere e alcune ipotesi dimolteplicità, tra le quali quella che esprime il trapassodell’essere nell’esistente grazie alla mediazionedell’istante e la creazione del tempo.

La soluzione proposta da Platone per superare ildivieto di Parmenide rappresenta il principalecontributo del filosofo alla logica: egli attacca la concezione eleatica dell’identità, larelazione tra cose e idee è asimmetrica. Infatti tra le cose e le idee non c’è semplicerapporto di somiglianza. Se infatti immaginiamo che l’idea sia un volto e la copial’immagine del volto nello specchio, l’immagine è un riflesso del volto, ma il volto non è ilriflesso dell’immagine.

Così ridefinito, il rapporto di imitazione (mímesis) che lega un modello alla sua immagine,esprime al meglio l’oggettività delle idee.

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8.2 Il rapporto delle idee tra loro negli ultimi dialoghi

Nel Sofista, nel Politico e nel Filebo, Platone compie un ultimo sforzo di chiarificazione etorna sul concetto di partecipazione, non più riferito però al rapporto delle cose conle idee, ma al rapporto delle idee tra loro. Tal rapporto è concepito ora nei termini diuna reciproca comunanza (koinonìa) che fa perdere alle idee l’immobilità della primafase e fa loro recuperare dialetticamente la complessità e ricchezza di determinazioni delreale.

Platone guarda ora non più alla sintesi unitaria della realtà, rappresentatadall’idea, ma al momento opposto della divisione o dell’analisi (diairesis) chepermette di ritrovare entro l’unità dell’idea la molteplicità che permette dicollegarla al mondo empirico. Ciascuna idea si articola, infatti, con quelle subordinate(più particolari) e sovraordinate (più generali) secondo precise regole di partecipazione ecomunanza. I loro nessi gerarchici possono essere stabiliti mediante la divisione. Ecco, adesempio, lo schema dell’idea di uomo offerto da Platone nel Politico:

Diairesis dell’idea di uomo

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Page 49: ~ gabriella giudici · Platone rispose: «Ma almeno non sanno di tirannide» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III]. Un secondo episodio narrato da Diogene Laerzio concerne l’invito

Ogni idea va quindi distinta da quella opposta (domestico/selvatico;quadrupede/bipede) con la quale non ha comunanza. La divisione va inoltre compiuta inuna sola direzione: in questo modo si evidenziano i rapporti di partecipazione tra idee:l’uomo è così un essere vivente, domestico, terrestre, pedestre, bipede, implume, manon potrà mai essere volatile e quadrupede. Questo rapporto di comunanza tra idee ogeneri diversi è quello che consente di risolvere il problema della verità e dell’errore: laverità dei nostri giudizi è infatti garantita dalla capacità di ripercorrere attraversoil lógos le articolazioni del mondo empirico e di quello delle idee.

8.3 Il parricidio di Parmenide nel Sofista

Nel Sofista, Platone spiega infine che l’errore non è ciò che non è, l’assoluto nullaeleatico, ma semplicemente un’altra idea, il non essere relativo che potrà essereincluso in un’altra diairesis. Pensare dialetticamente, afferma ormai Platone,comporta che si vada oltre i divieti di Parmenide e che per procedere si debbacommettere parricidio. Parmenide, infatti, aveva vietato di dire o di pensare «che il nonessere in qualche modo sia», mentre nel Sofista esiste «un essere del non essere» : il nonessere come diverso, il non essere come “altro” : il molteplice empirico è ormai“qualcosa”, non più la pura illusione (o contraddittorietà) eleatica.

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Quando ero più giovane, appena uno parlava di ciò che ora costituisce la ragione delle nostredifficoltà, ciò che non è, io credevo di averlo compreso fino in fondo. E ora tu vedi in quale maredi difficoltà siamo in relazione ad esso. […] Ma forse, anche riguardo a ciò che è, non meno cheriguardo a ciò che non è, noi internamente ci troviamo affetti dalla medesima difficoltà, e purediciamo di non avere problemi riguardo a ciò ed affermiamo di comprendere quando uno dicel’espressione che lo indica, e di non comprendere nell’altro caso, mentre siamo nella stessasituazione, nell’un caso e nell’altro [Sofista, 243b7-c7].

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