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Abbonamenti versamento sul conto corrente bancario: Banca Intesa IBAN: IT37 G030 6901 4950 5963 0260 158 intestato a SATURA ASSOCIAZIONE CULTURALE ANNUALE 40,00 SOSTENITORE A PARTIRE DA 50,00 Anno 4 n° 16 quarto trimestre Autorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008 In copertina Pietro Canale, Senza titolo,acrilico su tela, cm 100x120, 2009 SATURA è un trimestrale di Arte Letteratura e Spettacolo edito dall'Associazione Culturale Satura Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l'autorizzazione scritta della Direzione e dell'Editore Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile per la redazione per la pubblicazione vanno inviati a: SATURA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova Le opinioni degli Autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quella della direzione della rivista Tutti materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti SaTuRa Trimestrale di arte letteratura e spettacolo Redazione Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone Redazione milanese Simona De Giorgio via Farneti,3 20129 Milano tel.: 02 74 23 10 30 e-mail: [email protected] Direttore responsabile Gianfranco De Ferrari Segreteria di Redazione Virginia Cafiero Collaboratori di Redazione Manuela Capelli, Barbara Cella, Delia Dattilo, Maura Ghiselli, Flavia Motolese, Lucia Pasini, Enrico Pedrini, Gabriele Perretta, Federica Postani, Editore SATURA associazione culturale Amministrazione e Redazione SATURA piazza Stella 5, 16123 Genova tel.: 010 2468284 cellulare: 338 2916243 e-mail: [email protected] sito web: www.satura.it Progetto grafico Elena Menichini Stampa Essegraph Via Riboli 20, 16145 Genova

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In copertina Pietro Canale, Senza titolo,acrilico sutela, cm 100x120, 2009

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sommario

3 PREMIO SATURACITTÀ DI GENOVAAdele Desideri -15 agosto, LevantoSilviano Fiorato - ConnubioLucio Pisani - Se qualcosa rimanePasquale Balestriere - Memorie d’UlisseFabio Delucchi - IrelandCristinaMantisi - I silenzi dell’ariaGino Sarti - Lo StenUmberto Vicaretti - Carpe diemMaria Vittoria Barroero - Se solo potessiElena Capello - Ricordi spezzati

14 UN POETA DA RISCOPRIRE:IL CLASIO (LUIGI FIACCHI)Davide Puccini

20 DUE POESIEGuido ZavanonePer i bambini di GazaLa Giustizia

21 QUANDO IL PLAGIO È D’AUTOREGiuliana Rovetta

26 LA FLORA IN GUIDO GOZZANOTRA TRADIZIONEED INNOVAZIONERosa Elisa Giangoia

34 LA VOLPONAGuido Zavanone

38 GOTICO, BAROCCO E LIBERTYNELL’INCANTESIMO DI PRAGA.CON UN PIZZICO DI MISTEROMilena Buzzoni

44 L’ANIMA AFFOGATA NEL VINO.IL VINO, LA DISPERAZIONEE LA MORTE NELLE NOVELLEPER UN ANNO DI PIRANDELLOMarco Chiariglione

56 PROSPEZIONIUna voce accordata sull’eternoAngelo MundulaDensità di vita e di scritturaGuido ZavanoneParlare al volto della TerraGuido ZavanoneConoscere in poesiaGuido ZavanoneIl coraggio della pauraGiuliana RovettaUn poeta “sontuoso”Rosa Elisa GiangoiaA dieci anni di distanzaRosa Elisa GiangoiaLa Natura ed il DivinoRosa Elisa Giangoia

CRITICA65 PIETRO CANALE

Luciano Caprile

FUMETTO72 SERGIO GERASI

Favole, musiche e grandi nasiManuela Capelli

PERSONAGGI77 A OTELLO SOIATTI

CON RICONOSCENZAGiannino Piana

78 PITTORE DEL SILENZIO, POETADELL’ESSENZA, EDITORE DICULTURA, PER CINQUANT’ANNIORATORE NOVARESE:GLI OTTANTADI OTELLO SOIATTILiviano Papa

79 IL QUADERNO DEI VERSIPOLENSI DI OTELLO SOIATTILicia Micovillovich

CULTURA E DINTORNI81 CULTURA È DIVERSO

DA CULTURALEFiorangela di Matteo

UNA POESIA83 PER LE ANTICHE SCALE

Antonio Ferro

CRITICA84 RENZO MAGGI

LE PAROLE DI PIETRARoberto Valcamonici

IL LIBRO88 CARLO SERRA

LA VOCE E LO SPAZIOPer un’estetica della voceDelia Dattilo

VETRINA90 ROBERTA BUTTINI

Giorgio Di Genova92 ORETTA CASSISI

Francesca Tosa94 PILLINO DONATI

PresenzeAngelo Mistrangelo

96 LUISA GIOVAGNOLIUn postulato di luce e colore,di geometrie e di simboliSilvia Bottaro

98 GRAZIA LAVIAVisioni fra(me)sViola Lilith Russi

100 LUCIANA LIBRALONElisa Aste

102 BRUNA MILANIElena Colombo

104 ISABELLA RAMONDINIAndrea Rossetti

108 SATURARTE 2012XVII Concorso Nazionaled’Arte Contenmporanea

111 Dal WebPRESENT’ART COMMUNITYMario Napoli

112 III Edizione PREMIO SATURACITTÀ DI GENOVA - 2012

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SATURA arte letteratura spettacolo2^ EDIZIONE PREMIO DI POESIA INEDITA “SATURA - CITTÀ DI GENOVA”

Palazzo Stella - Genova - Piazza Stella 5Premiazione sabato 17 dicembre 2011 - ore 17

GIURIA: Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Rosa Eli-sa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Gui-do Zavanone.

POETI PREMIATI:PRIMO PREMIO alla poesia 15 agosto, Levanto di Adele DesideriSECONDO PREMIO alla poesia Connubio di Silviano FioratoTERZO PREMIO alla poesia Se qualcosa rimane di Lucio PisaniQUARTO PREMIO alla poesia Memorie d’Ulisse di Pasquale Balestriere QUINTO PREMIO alla poesia Ireland di Fabio DelucchiSESTO PREMIO alla poesia I silenzi dell’aria di Cristina MantisiSETTIMO PREMIO alla poesia Lo Sten di Gino Sarti OTTAVO PREMIO alla poesia Carpe diem di Umberto VicarettiNONO PREMIO alla poesia Se solo potessi di Maria Vittoria BarroeroDECIMO PREMIO alla poesia Ricordi spezzati di Elena Capello

POETI SEGNALATI: Sandra Ansaldi, Gianluigi Bavoso, Giovanni Casalino, Franco Castellani, GiulioCervellati, Andrea Cramarossa, Laura Di Marco, Clara Di Stefano, Rosanna Gam-berale, Esther Grotti, Maria Mineo, Antonella Modàffari Bartoli, Massimo Pallavi-cini, Luigi Paraboschi, Maribel Pesce Maineri, Renzo Piccoli, Domenico Pisana,Marilina Severino, Piergiorgio Zambolin, Giorgia Zamboni.

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ADELE DESIDERI

15 agosto, Levanto

Dalle valli montane giungiamoa questo screpolato mare di luci.Nel ferro incidiamototem e serpenti marini- sul legno contortoponiamo anfore d’oroin offerta ai trapassati.

Ci raduniamo qui,in attesa di una donna che,con il filo – con l’ago – riannodigli orli slabbrati, rammendi la lisastoffa e sui cappelli ponga fioridi cartapesta – segnalidi una memoria mancata,di una fallita scommessa.

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SILVIANO FIORATO

Connubio

Valica il disco chiaro della luna- ombra che scioglieluce che ravviva –

questo inarcarsi morbido dei corpie il sorriso che spuntaal bianco dell’avorio.

Sospendono le vociappese nel silenziocome grappoli al cielo;ogni fessura filtra la sua linfa;ogni petalo sfogliae si conclude.

Solo la quiete tace il suo respironella pagina bianca che si chiude.

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LUCIO PISANI

Se qualcosa rimane oltre il durare

Quella fanciullache giace ormai da tempo nella pietraforse un giorno rideva ed ora è soloidolo scuro, pietra nella pietra.Non so se vede gli alberi e gli uccelliche a primavera, liberi nel canto,danno un senso alla vita e alle stagioni.Forse anche ella un giorno intonò un cantoalle attese e agli eventiaffidando il messaggio del suo esisterea persone distratte o affaccendate.Né vale domandarsi se tuttoraun’eco scavi ancora nella pietramentre il tempo trascorre indifferenteed anche la memori si fa stanca.

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PASQUALE BALESTRIERE

Memorie d’Ulisse

E giaccio qui sul cuore di Penelopealla tardiva fiaccola che brucial’ultimo buio della notte. Stancaè però questa donna della tela.La trama della vita anch’io ripongoe ancora il tempo misuro tra lunae luna, nel ricordo di violentischiaffi d’onda sul ben contesto guscioche sbanda e salta e affonda con sussultidi cuori e tenui speranze d’approdi.Ah, pianure di Troia, dove in nerigrumi s’estinse tanto chiaro sangue,dove i migliori compagni lasciaronola vita, sciolte membra, per la viamaestra! Torti e canuti sentieria me il fato prescrisse, senza gloria.

(Ogni viaggio è compiuto. Sei venutoa capo d’ogni rotta, i tanti sfaglidi cuore dominati dai ricordi.Le stelle non ammiccano, silenti.)

Ci sono storie di navigli, presidalla terra e domati dai bardotti,vènule di città, invasi un tempoda grida di fatica, ora dismessi,d’alzaie spenti e vedovi. Neppurein quelli c’è più respiro di vento.È tempo d’acquietarsi nella sera.

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FABIO DELUCCHI

Ireland

Galway-Dublin, Howthfebbraio 2008

Forse ero io il ragazzo che aspettavi, sulla panchinadi fronte al molo e, davanti, l’Oceano ti parlava.Seduta, di te vedevo solo l’ombra bionda, dietrola stele che ricorda la mia terra, le gesta eroichee la grande impresa che rende ancora la mia cittàfamosa. Annotavi sul diario, scrivevi: “qualcosa…”.

Riconosco ancora, da questa piazza, sospesoall’ultimo piano, tra quelli di mille angeli biondi il tuosorriso di donna d’Irlanda, rivedo la tua forza.

Il mare entra nel piccolo porto di Galway, ci dividee si congiunge alla foce col torrente, a grandi onde.I cigni sullo scalo chiedono pane ai turisti, pesceai pescatori. E noi?

Sarebbe troppo facile, adesso, dire che tu “gli somigli”,un’offesa alle tue ali, un limite ai tuoi colori. Un frenoal tuo giovane cuore che batte ancora, lontano.Le foche sembrano invece cani strani all’Agling Clubdi Howth, dove attendono qualcuno che le ristori di fishand chips, nuotano in posa sotto il molo; forse ridonodei nostri corpi.

Avrai dunque trovato un senso alle parole che cercavi?Quel senso che io non riuscivo a darti, a spiegarticon parole semplici, forse perché ignoto a me pure:mai cercai prima di allora nella vita un sensoche non fosse, per me e per gli altri, sopravvivenza.

Avremo scritto ora, anche noi, le nostre parole,trovato il vero nel sentimento che si mostra, a volte,tra due corpi uguali così diversi? “Un’altra lingua, forse!”.

Amica lontana, cigno, foca, uomo che mi inquietae sorride lieta, le nostre terre sono in realtà tanto vicineche se mi sporgo sento ancora la tua voce riemergere,nelle poche foto che conservo e portano il tuo nome.

“La città di Genova alla città di Galway. 29.VI.1992”.

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CRISTINA MANTISI

I silenzi dell’aria

Nessuno muove i silenzi dell’ariaeppure qualcuno ha lasciatoun percorso di ormeche portano altrovesulla sabbia in attesa dell’onda.Nella rada la nave appare sospesain questa monocromia di luce,nella leggera assenza di pallide visionidove il cielo e il maresono un’unica tavola bianca.In evanescenti trasparenzeun fiore di agave si protendecon l’ultimo suo grido alla vita.Aspettando nuove armonie di soledormono i gabbianicol capo sotto l’alanell’immobilità del sonnoin attesa del vento.E, in questo silenzio che smorza il respiro,potrei cominciare il mio viaggiocamminando sul filo dell’acquafino a toccare l’orizzonte lontano.

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GINO SARTI

Lo Sten

Quante volte di seranel metato fumoso:“Mai trentatré cartuccenel caricatore,snervi la molla dell’elevatore,s’inceppa”.

Solleva dolcementela zazzera bionda,lo stupore negli occhi sbarrati.Avevi sedici anni, Sergio,lo Sten, inceppato, sull’erba.Più in là, carponi,gorgogliava sangue il nemico,gli strappi dei miei cinque colpinella giacca a vento.Il sole giocavasulla doppia esse d’argentodelle sue mostrine.Altissimi nel cielo tersotuonavano, indifferenti,cento quadrimotori.

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UMBERTO VICARETTI

Carpe diem

Al sole di gennaio, Robinù,stende un guanto con stimmate di cielodall’attico d’una panchina blu.Vecchia volpe del furto con destrezzaruba ridendo il sole, Robinù,senza dare nell’occhio il guanto chesferza fustiga slabbra tramontana(non si accorgono i ricchi dell’esproprio,passi rapidi a radere il pavè).

Equivocando forse col Poetache gli lasciò nell’Urbe quella casa- Via Orazio – senza numero civico –del giorno ruba un unico elemento,il solo che occupando interamentecentotrenta decimetri quadratilascia indenni le stanze ed il parquet.

Parla agli alberi, ascolta fole arcane.Poi srotola un giornale demodènell’andito della sua casa blu,ne libera minuzzoli di paneper un’agape gaia con gli uccelli.Sbreccia sbriciola scambia insieme a loromiche minute con parole ignote(sorpresi noi da tanta meravigliastranieri a quel fraterno rendez-vous).

Si fa notte e appagato, Robinù,il guanto con il sole nella manosi stipa nella teca di cartone,per caso non gli riesca di scippareal Controllore Capo di frontiera(check-in partenze per altre stazioni)residuo un permesso di soggiornoin quella casa blu – ampio giardino –quattro luci – con vista sul metrò.

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MARIA VITTORIA BARROERO

Se solo potessi

Se solo potessirichiamare a me i giorniquelli del cantoe delle rimembranzequelli indomitidelle rappresaglie d’amoree delle palpebre socchiusepotrei attraversare senza tremoreil ponte del distaccoquasi in pacecon i rendiconti dell’anima.

Aspetterei il tempo buonola mano dell’angeloche preme sul mio pettoe mi sospinge nell’orbita di un bacio.

Se solo potessiadagiarmi quietaa vendemmiare la vita.

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ELENA CAPELLO

Ricordi spezzati

E’ terra di confinein cui mi muovo a stento,se il tempo che ho vissutonon è quello che sento.Ho vent’anni, ma vedoI miei figli incanutire.Facce che non conoscomi vogliono impediredi cercare mia madrein questo gelido tempiodi polvere e di mobilicoperti da lenzuola.Voci che non conoscomi chiamano: “Señora”,poi ritorna il silenzio, e sono sola.Ma ricordo il primo giorno davanti al mare,coi bambini per mano e la risaccache rubava la sabbia sotto i piedi,come adesso, vedi?Mi rubano il presentequeste onde maligne nella mente,con pazienza infinitala congiura dei giornimi deruba la vita.L’oggi non ha memoria,solo orme profondelasciate dal dolorenella mia storia.Domani non ha memoria,solo orme profondelasciate dall’amorenella mia storia.

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UN POETA DA RISCOPRIRE: IL CLASIO (LUIGI FIACCHI)

di Davide Puccini

Mi sia consentita, in avvio, una considerazione di ca-rattere personale: forse non mi sarei mai deciso a legge-

re il Clasio se non vi fossi stato per così dire obbligato dal-la curatela di un’edizione delle opere di Renato Fucini attual-

mente in corso di stampa per la casa editrice Le Lettere, dal mo-mento che lo scrittore toscano ne parla come di una lettura fonda-

mentale per la sua formazione. Felice obbligo, che mi ha procurato il piaceredi scoprire o riscoprire un poeta delizioso. Ma procediamo per ordine, comin-ciando con il fornire qualche notizia sull’autore.

Non si contano, nel corso dell’Ottocento, le ristampe che riuniscono le Fa-vole (cento, nella raccolta definitiva del 1807) e i Sonetti pastorali (1789) del Cla-sio, al secolo Luigi Fiacchi (Scarperia nel Mugello 1754 - Firenze 1825), sacerdo-te ed erudito, accademico della Crusca, filologo e apprezzato curatore di testiclassici (rinomata, in particolare, l’edizione delle opere di Lorenzo il Magnificodi cui fu incaricato direttamente dal granduca Leopoldo II, lodata anche dal Car-ducci che pure si mostra poco benevolo con la sua poesia, trattandola con suf-ficienza): dovevano andare a ruba, se molti dei più attivi tipografi fiorentini neapprontarono una nella prima metà del secolo, e nella seconda metà ne furonospesso pubblicate anche fuori regione. Ma nel Novecento le edizioni si rarefan-no alla svelta fino a scomparire del tutto, dopo aver tentato timidamente la stra-da dell’antologia scolastica: i tempi ormai non erano propizi. Negli ultimi decen-ni del Clasio è stato ripreso, è vero, il poemetto in ventinove ottave Lamento diCecco da Varlungo in morte della Sandra (1804) insieme a quello in quaranta ot-tave di Francesco Baldovini1, gustoso rifacimento di una novella del Decameron(VIII 2) composto intorno al 1661 ed edito nel 1694, in risposta del quale è sta-to scritto quasi un secolo e mezzo dopo; ma si tratta di un idillio rusticale chesi può collocare sulla scia della Nencia da Barberino laurenziana, una sapientis-sima esercitazione accademica sulla parlata del contado, senza dubbio piacevo-le, che però interessa più la storia della cultura che quella della poesia.

Con queste premesse, è ovvio che anche la critica sia latitante, con po-che eccezioni. A parte i cenni nelle storie letterarie più corpose e nelle anto-logie di lirica settecentesca o gli scritti d’occasione per il centenario della mor-te, ci sono in sostanza soltanto due saggi specifici nel corso del Novecento, eper di più pressoché contemporanei in coincidenza con il bicentenario dellanascita, uno di Ettore Allodoli2 e l’altro di Piero Bigongiari3: ed è certo degno

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1 I lamenti di Cecco da Varlungo, a cura di O. S. Casale, Roma, Editrice Salerno,1991.2 E. Allodoli, Luigi Fiacchi detto il Clasio, in “Nuova Antologia”, LXXXIX (1954), 1848, pp. 509-16.3 P. Bigongiari, Introduzione al Clasio, in “Paragone”, VI (1955), 62, pp. 42-52. Il saggio è stato poi raccoltonel volume Capitoli di una storia della poesia italiana, Firenze, Le Monnier,1968.

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di nota che se ne sia occupato un poeta come Bigongiari, sodale e coetaneo diLuzi e Parronchi, critico raffinato e sensibile.

Del resto in passato gli estimatori di prestigio al Clasio non sono man-cati davvero: basti ricordare che il Leopardi nella sua Crestomazia della poe-sia italiana gli dètte un posto di primo piano, concedendogli ampio spazio conben quattordici favole, la prima estrapolata a mo’ di introduzione con il pro-prio titolo, Il Canocchiale della Speranza, probabilmente perché ci sentiva un’an-ticipazione della sua stessa poesia, e le altre riunite anonimamente sotto la di-citura “Favole varie”. Leggiamo almeno la prima:

Un giorno la Speranzaper ciaschedun mortalefece un bel Canocchiale.Questo, come è d’usanza,dall’un de’ lati suoiingrandisce l’oggetto oltremisura;dall’altro lato poimostra piccola e lungi ogni figura.Se l’uom dal primo lato il guardo gira,il ben futuro mira;guarda dall’altro lato,e vede il ben passato.D’altra parte noi non possiamo sfuggire alla suggestione di presentire

Leopardi in I due Calendari (LXXXVII), dove viene smentita la speranza che ral-legra la gioventù, o nella “Donzelletta” della favola XXVI, nella “Ginestra… te-nera” della LXXIX o ancor più nel Cervo della LXXXII, che ammonisce il Cerbiat-to impaziente di diventare adulto come un “Garzoncello scherzoso”: “Infelice!ah! di tua vita / sì fiorita / tu non prezzi ora le rose! // Non temer: veloci i van-ni / hanno gli anni, / e fia pago il tuo desire; / ma, o mio figlio, ah! tu nol vedi:/ quel che chiedi / t’avvicina al tuo morire”.

Si aggiunga che, se la statura di Renato Fucini non è quella del Leopardi,per lui – lo abbiamo accennato – la scoperta del Clasio è stata addirittura deter-minante, come dichiara esplicitamente nelle postume note autobiografiche, ai finidi una vocazione letteraria, e gli rende un omaggio scherzoso citandolo nella suanovella più famosa proprio in compagnia del Leopardi e del Metastasio4.

Più di recente al Clasio è toccato solo il posto che gli era dovuto nel Di-zionario biografico degli Italiani5 con una scheda che, sebbene puntuale quan-to ai dati di fatto, risulta piuttosto reticente sul suo effettivo valore, tanto da

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4 Riferendosi al periodo 1849-53, cioè ai suoi sei-dieci anni, il Fucini scrive in Foglie al vento: “Leggevo al-lora il Clasio, le favole e i sonetti pastorali: e tanto ero innamorato di quella lettura che detti allora ilprimo tuffo in quella specie di romanticismo realista che mi ha accompagnato per tutta la vita” (Firenze,Soc. An. Editrice “La Voce”, 1922, pp. 29-30). E nella novella Scampagnata: “«Il Metastasio va lasciato stare;ma anche questo qui [Leopardi], badate, Cosimo, è carino ma carino dimolto. E anche lui ha scritto conque’ versi uno più lungo e uno più corto che mi piacciono tanto perché c’è il comodo di metterci quantivocaboli si vole… Ma come son difficili! e come li tratta bene anche il Clasio!» / «O quello!» saltò su il sorCosimo; «o quello, che è scritto poco bene, con tutte quelle sentenze!»” (in Le veglie di Neri, Firenze, Bar-bèra, 1882, pp. 233-34).5 F. D’Intino, Fiacchi Luigi (Clasio), in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 47, Roma, Istituto della En-ciclopedia Italiana, 1997, pp. 316-17.

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indurre chi non le conosca a supporre che le Favole siano scritte in prosa.Ma dunque, venendo al punto dopo questa necessaria premessa biobi-

bliografica, perché dovremmo leggere o rileggere il Clasio? Perché la sua poe-sia, nata con intenti pedagogici all’interno del ricco filone favolistico del Set-tecento, è un miracolo di grazia espressiva e di purezza linguistica, e la mo-rale conclusiva non fa mai aggio su una rappresentazione del mondo anima-le e vegetale, o più ampiamente naturale e anche inanimato, spesso domesti-ca (con l’asino, il gatto, il cane e la gallina vi compaiono perfino la piattola ele tignole) e resa sempre con una punta di sapido realismo, a dimostrazioneche, nonostante le premesse sfavorevoli, lo Spirito soffia dove vuole. La sem-plicità e la limpidezza dello stile sono così notevoli da farci dimenticare checi troviamo di fronte a un poeta dotto, che ben conosce il mestiere. La varie-tà metrica è al servizio di un orecchio infallibile: se la sestina di endecasilla-bi, con la sua distesa cantabilità, può ricordare nei momenti più felici l’ottavad’oro dell’Ariosto, i versi brevi, non solo settenari ma anche quinari e quadri-sillabi, vengono usati per aderire strettamente al ritmo e al carattere della nar-razione, mentre l’alternanza di versi lunghi e brevi consente modulazioni ine-dite e originali. La favola IV, L’Usignolo e la Rondine, in quartine di ottonari arime alterne, è chiusa da una sestina, sempre di ottonari, che allarga il respi-ro proprio in coincidenza con la morale. Questa sorta di ampliamento ritmi-co in explicit si ritrova anche nella IX, La Neve e la Montagna, in cui la sequen-za di decasillabi a rima baciata è conclusa da una quartina di tre endecasilla-bi e un decasillabo a rime incrociate, e nella XVI, La Cera e il Mattone, dalla strut-tura simile. Il già ricordato Canocchiale (XI) è costituito da un’unica strofe didodici endecasillabi e settenari che, senza darlo a vedere con segnali tipogra-fici esterni come sporgenze o rientranze, si organizza in tre quartine: la pri-ma a rime incrociate, la seconda a rime alterne, la terza a rime baciate. Le quar-tine di quinari (di cui il primo e il terzo sdrucciolo, il quarto tronco) unite a duea due dalla rima del secondo e quarto verso della favola XII, Il Zeffiro, l’Ape ela Rosa, sembrano suggerire proprio il fremito ondeggiante della Rosa al sof-fio dello Zeffiro. La XLI, Il Pastore e il Girasole, comprende strofe formate dadue quinari a rima baciata seguiti da un endecasillabo tronco, più altri due qui-nari a rima baciata seguiti da un nuovo endecasillabo tronco in rima col pre-cedente, con l’effetto di un periodo musicale brevissimo che all’improvviso siallunga per poi smorzarsi subito. La favola LXXXII, Il Cerbiatto e il Cervo, pre-senta strofette di quattro ottonari e due quadrisillabi, secondo lo schema AaBCcB;la XC, L’Elefante, terzine di due endecasillabi rimati, che come base hanno in-variabilmente un quinario sdrucciolo, separati da un decasillabo sdrucciolo: ela metrica rende alla perfezione l’andatura goffa e pesante dell’animale che ten-ta di attraversare uno stretto ponte. Discorso simile si può fare per la favolaXCV, La Zanzara e la Farfalla, dove le quartine di settenari, il primo e il terzosdrucciolo, il secondo e il quarto in rima, mimano il volo oscillante. Le rime sonoin genere facili, cioè non ricercate, ma non banali, e la naturalezza del perio-dare, appena ingentilito da qualche inversione sintattica, è accresciuta da unuso avveduto dell’enjambement, non molto frequente ma spesso incardinatosul nesso forte aggettivo/sostantivo.

Il garbo settecentesco di questi apologhi si sostanzia di un trasparentecorrelativo oggettivo e di una concretezza concettuale che non esita a delinea-re non solo una morale che deriva dal buonsenso ma perfino il dettato evan-

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gelico senza mai rinunciare alla sua sorridente leggerezza. Così La Gallina nel-l’isola del fiume (XCIII) salvata dalle acque evoca “un’eterna Provvidenza in cie-lo / che il mondo a voglia sua regge e conduce; / né del tuo capo un vil capel-lo solo / fia che senza di Lei ne cada al suolo”, con preciso riferimento a Mat-teo X 29-30. Pare proprio che l’ammaestramento sia offerto con tocco partico-larmente delicato, quasi con pudore, quando è di carattere religioso, come nel-la già ricordata favola XLI: “Or tu, se vuoi, / apprender puoi / il tuo dover, oPastorel, da me: / tu pur sovente / alza la mente / a Chi la vita ed ogni ben tidiè”. Tutta da assaporare la XIV, L’uccello nel campo dei lacci, con la sua “ar-guzia luminosa” e il disegno “sottile e sicuro”, secondo la definizione di Bigon-giari, la cui morale si riscatta da ogni astrattezza concludendosi con il dettopopolare “gatta ci cova”; e questa tendenza sentenziosa è ribadita anche allafine della XXXVI, Il Fanciullo e il Gatto (“a can che lecca cenere, / non gli fidarfarina”), e da altre favole. Non c’è da stupirsene: i saggi ricordati non lo cita-no, ma il suo studio Dei proverbi toscani, lezione detta nell’Accademia dellaCrusca il dì 30 novembre 1813 come premessa alla Dichiarazione di molti pro-verbi, detti e parole della nostra lingua di Giovanni Maria Cecchi, del quale esi-stono varie edizioni ottocentesche, ci dice quanto il Clasio fosse ferrato in ma-teria. In altri casi la morale è già nei fatti o nelle parole dei protagonisti, e ilpoeta si guarda bene dal ripeterla inutilmente. La favola XIII, La Testuggine eil Serpente, si conclude così: “Or qual precetto mai trar si potria / dalla Favo-la mia? / Io nol dirò, ché assai palesemente / l’ha già detto il Serpente”; nellaXXVI, La Donzella e la Sensitiva, l’ammonimento moralistico è pronunciato di-rettamente dalla pianta dietro alla quale l’autore si cela (“Se modesta e saggiasei, / far tu dèi / quel che fare a me tu vedi”), e così nella XXX (dove l’ultimoverso, “vide che chi mal fa, male riceve”, è anche variante di un noto prover-bio), nella XXXI, XXXIII, XXXIV ecc. Ma se pure è l’autore a enunciare l’insegna-mento che si ricava dalla favola, lo fa con tale bonomia che non giunge mai im-portuno e calato dall’alto. La cordialità sembra essere il suo segno distintivo,e anche quando la morale è oggettivamente amara, basandosi sulla realisticaconoscenza dell’uomo come è e non come dovrebbe essere, è sempre rischia-rata dalla luce della verità. A volte il succo pedagogico si trova all’inizio (I, XXecc.), come se, adempiuto coscienziosamente il dovere, ci si potesse poi lasciarandare a cuor leggero al piacere del racconto.

Si dirà che si tratta di un mondo idilliaco che ha ben poca rispondenza conla realtà, ma a parte il fatto che la poesia può ben nutrirsi di una fantasia vagheg-giata, è molto meno vero di quanto si pensi, e non perché la morale si incarica sem-pre, in un modo o nell’altro, di riportare al mondo reale, bensì proprio per la qua-lità della rappresentazione: si consideri ad esempio la frequenza con cui torna iltema della fame come motore dell’azione, o comunque quello dell’interesse ma-teriale, solo di quando in quando trasceso dai buoni sentimenti, del resto sem-pre trattati come un’aspirazione, una meta da raggiungere, piuttosto che comeregola. E, per dirne una, l’invito a non comminare affrettatamente la pena di mor-te per un delitto, perché non si può poi tornare indietro e restituire la vita all’in-nocente ingiustamente condannato, che sostanzia la favola LXXXI Il Pastore, puòconfigurarsi perfino come una cauta adesione alle tesi del Beccaria e un elogio delriformismo asburgico che il 30 novembre 1786 aveva portato Pietro Leopoldo adabolire, primo stato al mondo, la pena di morte in Toscana (il 1° dello stesso mesedi quello stesso anno il medesimo sovrano aveva nominato il Clasio insegnante

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di filosofia e di matematica nelle sue scuole). E c’è comunque la solida realtà deisentimenti, se càpita di commuoversi alla triste sorte di quella Lepre (LXXXIII) chepure, con la sua indecisione che risulterà fatale, deve dimostrare la tesi inizialeche “l’indugiato rimedio allor non giova”.

Sembra inoltre, lo abbiamo già accennato, che il Clasio sia riuscito a libe-rarsi felicemente del peso dell’erudizione. Le reminiscenze letterarie che si avver-tono, perlopiù sul versante popolaresco toscano, sono così ben assorbite nel con-testo che risultano piuttosto segnali di appartenenza linguistica scelti con gusto,discrete strizzatine d’occhio al lettore. Se la “Rosa purpurea / dal molle sen” del-la favola XII (formula ripresa anche nella XXIV: “nel molle sen delle purpuree fo-glie”) non può non ricordare l’immortale verso del Poliziano “ardisce aprire il senoal sol la rosa” (Stanze I 78 4), tanto più che “odorifero /spandea tesoro”, con unverbo che il Poliziano lega alla rosa nella non meno celebre ballata I’ mi trovai, fan-ciulle, un bel mattino (v. 21: “Quando la rosa ogni suo foglia spande”), l’uccellinodella favola XIII, “che avea / sì vecchia fame / che quasi ei la vedea”, è un nipoti-no dei molti affamati del Pulci (Morgante XVIII 196 1-2: “Io vedevo la fame / inaria”; XIX 77 5: “però che in aria la fame vedea” ecc.), tanto più che alla fame siunisce un aggettivo come vecchio nel senso di ‘solenne, grande’ tipicamente pul-ciano (V 38 7: “una vecchia paura”; XV 54 8: “un vecchio colpo” ecc.) e nella XXIIIsi trova proprio il nesso “una vecchia paura” appena ricordato. Anche il Gatto del-la favola XLVI, “che a rubar cominciò fin dalla culla”, è un discendente di Margut-te, “cattivo insin nell’uovo” (XVIII 141 1); e al Pulci (XXIV 99 3) rinvia pure la lo-cuzione “far lima lima”, che vale ‘schernire’, della LXVI. Nella favola LXV l’espres-sione “avea ’l cervello sopra la berretta”, cioè ‘era fuori di testa’, rimanda di nuo-vo a una ballata allora assegnata al Poliziano e torna nel Varchi (di cui il Clasiocurò varie opere) e nel Cecchi (di cui curò due commedie). In un caso riecheggia,è vero, il Tasso, ma rielabora con fine artificio il verso della Liberata “il pietosopastor pianse al suo pianto” (VII 16 8), rinunciando all’allitterazione ma raddop-piando l’annominazione nella favola XLIX: “ché dolersi al dolore, piangere al pian-to / è d’un’anima bella il primo vanto”; oppure si noti come riusa il Petrarca delson. CCCII (“e compie’ mia giornata inanzi sera”), riplasmandolo con garbo in sen-so popolare nella già ricordata LXVI: “che lo conduce a notte innanzi sera”, e an-cor più il “corporeo velo” della canzone CCLXIV 114 attribuendolo a una piatto-la nella LX.

Non sono assenti espressioni della lingua viva, come in buondato (XIV),che vale ‘in gran quantità’, biasciasorbacerbe (XL) per ‘persona arcigna e ina-cidita’, batter la capata (LXXVIII) per ‘morire’, grasso bracato (XCVI) per ‘gras-sisimo’; ma il Clasio è sempre stato molto attento a non servirsi di riboboli checorressero il rischio di rimanere confinati nel vernacolo, attenendosi invece aquella solida genuinità toscana che era ormai diventata patrimonio comune deimigliori e nella penna di un toscano poteva godere di una freschezza nativa.

Gli aspetti peculiari delle Favole del Clasio che abbiamo cercato di evi-denziare, e in particolare la concretezza della rappresentazione, emergono an-che dalla sua riflessione teorica, però opportunamente elaborata a posteriori:quando la Lezione sopra l’apologo detta nella Società Colombaria l’anno 1803fu svolta, i giochi ormai erano fatti o quasi. Dopo la dottissima introduzione,che ripercorre la storia dell’apologo e i deboli tentativi di definirne le caratte-ristiche ad opera soprattutto dei letterati francesi, l’autore pone una premes-sa filosofica, sottolineando la difficoltà di apprendere idee astratte che non sia-

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no legate all’esperienza sensibile, da cui deriva anche la scarsa popolarità del-la matematica. Quindi le verità morali, per essere comprese più facilmente daifanciulli e dagli adulti non assuefatti alla scienza, debbono essere rivestite dielementi materiali: “Se vogliasi per esempio far sentire vivamente una certa ve-rità morale, non sarà inopportuno l’inventare un fatto come seguìto tra gli ani-mali, o tra diverse altre cose corporee; e conservando i caratteri e le convenien-ze degli Attori, modificarlo colla forza dell’ingegno per modo che tra esso fat-to e la verità da inculcarsi apparisca una perfettissima somiglianza”. Una talepoetica utilitaristica, esposta da un letterato che per tutta la vita ha insegna-to filosofia e matematica, seguace delle idee chiare e distinte mentre il secolodei lumi è agli sgoccioli, avrebbe potuto condurre alla disfatta. Ne scaturisceinvece una definizione della favola non solo pienamente rispondente alla re-altà dei fatti, ma veicolo fecondo di risultati raggiunti sul piano della poesia:“una finta azione di cose corporee, che espressa e dipinta all’anima come sefosse presente, rende sensibile e per conseguenza più chiara, a forza della suasomiglianza, un’astratta verità morale”.

Dei Sonetti pastorali (propriamente 40, anche se nel loro complesso sono 55,di cui i sonetti XLV-XLVII dedicati a Gesù Cristo) si dà in genere una valutazionelimitativa, accomunandoli al Lamento6, ma sono invece abbastanza vicini alle Fa-vole, sia per la perspicuità, tanto più apprezzabile in una forma chiusa che lasciaal poeta ben poco spazio di manovra, sia per la tematica. Per esempio il sonettoXX, sulla duplice natura celeste e terrestre della farfalla, un tempo bruco (e non èda escludere una delicata simbologia spirituale), riprende la favola XCIX, La Far-falla e il Cavolo; il sonetto XXXVIII sembra una continuazione della prima, L’Agnel-la e lo Spino, prendendo le mosse dalla conclusione di questa per approdare a unanuova morale che evoca con accenti toccanti la benignità divina: “Anzi, tu qui l’eter-na man non senti? / Sì, quella man che per arcane strade / i benefici suoi porge aiviventi”. Anche quando gli argomenti sono almeno in parte nuovi rispetto alle fa-vole, come la nocività della guerra per la povera gente del sonetto XI o la pietà pergli sventurati del XXXIII, vengono trattati con la stessa chiarezza ornata di imma-gini sensibili. Semmai il breve volgere di quattordici versi non lascia adito al respi-ro narrativo tipico del Clasio e gli permette soltanto un raccontino condensato oscorciato che in qualche caso finisce per risultare epi gram matico; e talvolta il tra-vestimento pastorale e mitologico diventa un po’ ingombrante in così poco spa-zio, mentre nelle favole avviene perlopiù di percepirlo discretamente sullo sfon-do come allusione appena sfiorata. Quello che di necessità manca ai sonetti e li ren-de meno appetibili è la mobilità ritmica delle favole, che si rigenera ogni volta chepassiamo dall’una all’altra; e tuttavia ci sembra che l’autore meriti un posticino an-che nella storia di questa forma tanto privilegiata nella nostra tradizione lettera-ria da non essere mai tramontata dalle origini ad oggi, e potrebbe darne ragione,in conclusione, il Giudizio dell’abate Giovan Battista Zannoni che precede il testoin molte edizioni ottocentesche: “sì nelle Favole come nei Sonetti pastorali regnauna maravigliosa semplicità, e tutta vi si scorge l’arte perché l’arte si occulti”.

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6 Per esempio G. Savoca, in Parini e la poesia arcadica, Roma-Bari, Laterza, 1979 (LIL 34), p. 97: “A metàstrada tra l’esercitazione cruscante […] e lo scherzo letterario stanno i Sonetti pastorali e il Lamento diCecco”.

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DUE POESIE

di Guido Zavanone

Per i bambini di Gaza

Abbiamo piantosul vostro popolo martoriatosui fanciulli portati a morirenelle camere a gas.Abbiamo piantoe abbiamo chiesto perdono.Davanti al lutto dell’alba diciamo:tutto questo non va dimenticato.

Mai avremmo credutoche voi,i giusti sopravvissuti,vessilliferi di un mondo diverso,avreste versato il sangued’altri fanciulli innocenti.Davanti al lutto dell’alba diciamo:anche questo non va dimenticato.

La Giustizia

In questo temponiente più ci persuadedell’ingiustizia vincente.Consacrata nei templi, scrittanei codici, si aggira per i tribunalisi organizza nella nostra menteci tranquillizza con l’aspettodi ciò che è statoda sempre, del risaputoche suscita rispetto.Ed è l’oppostodella giustizia che combattegrida dai tettiinfastidendo chi la sentee versa il sangueproprio e tra la gentemostra il suo voltodisfatto e piangente.

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QUANDO IL PLAGIO È D’AUTORE

di Giuliana Rovetta

Lo scandalo che ha scatenato in Francia tutta una serie di accuse di fal-so, plagio, contraffazione e altrettante risentite repliche degli scrittori interes-sati ha avuto, come a volte accade, un inizio casuale e una risonanza inaspet-tata. Una giovane insegnante di lettere francesi, Evelyne Larousserie, in forzaal Collège Armand Lanoux di Marne-la-Vallée parte per le vacanze estive negliStati Uniti portando con sé un allettante libro umoristico. S’intitola I’m Stran-ger Here Myself: Notes on Returning to America After 20 Years Away, che nel-la versione francese suona American rigolos: chroniques d’un gran pays, conevidente riferimento al titolo di un famoso film degli anni ottanta, AmericanGigolo1. Si tratta di una gustosa satira di costume scritta da un americano vis-suto a lungo in Inghilterra, senza pretese d’indagine sociologica ma con spun-ti interessanti, nati da un’osservazione ironica e attenta. La lettrice, avvertitaquanto basta, si stupisce nel costatare che interi brani di questo libro si tro-vano riprodotti in un romanzo satirico sulla società francese, Ticket d’entrée2.L’autore, Joseph Macé-Scaron, non è affatto uno sconosciuto esordiente ma oc-cupa una posizione de choix nel mondo giornalistico e editoriale: vicediretto-re del settimanale Marianne, direttore dell’autorevole Magazine Littéraire, Macé-Scaron è spesso presente nei programmi culturali televisivi di Canal + e RTL,dove spicca per il suo ruolo di critico severo e informato.

Da un raffronto tra svariati passaggi selezionati da Acrimed (Action Cri-tique Médias), associazione creata dagli allievi del sociologo Bourdieu e lancia-ta sul web negli anni novanta come polemico osservatorio dei mezzi di comu-nicazione, si può notare che la somiglianza non si limita a semplici assonan-ze fra i testi o ad echi dovuti a una comune ispirazione, ma rappresenta un casodi plagio vero e proprio, indubbiamente facilitato da quelle funzioni tipo “co-pia e incolla” che rendono automatico e immediato il recupero, senza rispet-to del copyright, di materiali già pubblicati. Nel caso di Macé-Scaron, dopo unbreve tentativo di difesa, l’accusato ha dovuto ammettere di aver peccato dileggerezza, ricopiando da certi appunti annotati in fase di lettura e della cuiprovenienza aveva perso memoria3. Fatto sta che l’autore saccheggiato a pie-ne mani viene citato nel testo en passant una sola volta. Dopo questa platea-le gaffe il direttore di Magazine Littéraire non si è salvato da ulteriori assaltidella stampa: la rivista satirica Le Canard enchaîné gli addebita un furto di pa-role4 ai danni del saggista Victor Malka risalente al 1999 e L’Exprès confermaquesta pratica come uso ripetuto se non abituale. Lo scandalo non ha tuttavia

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1 Bill Bryson ne è l’autore, l’editore è Payot Rivages, Parigi, 2003, la traduzione in francese è di Christia-ne David Ellis.2 Joseph Macé-Scaron, Ticket d’entrée, Grasset, Parigi, 2011.3 La dichiarazione è stata rilasciata dall’autore in un’intervista curata da Laure Daussy in Arrêt sur ima-ges del 22 agosto 2011.4 Michel Schneider, Voleurs de mots, Gallimard Tel, Parigi, 2011.

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impedito all’interessato di mantenere tutte le sue funzioni e persino di veder-si assegnare da una giuria di giornalisti il Prix de la Coupole.

Sulla base di questi fatti viene da chiedersi insieme a Béatrice Gurrey5:la Francia è il paradiso dei plagiari? Occorre fare un passo indietro e soffer-marsi sulle differenze che si possono riscontrare nel comune sentire, più chenella legislazione, a fronte di questo problema, risolto con maggior vigore inpaesi come la Germania o gli Stati Uniti, e lasciato in un limbo d’impunità pro-prio in Francia. Una tradizione ben attestata nel passato e ripresa anche in tem-pi recenti vede nel plagio, nonostante la sua connotazione negativa, una for-ma di scrittura che non esula totalmente dal campo della creatività letteraria.Secondo Giraudoux “Il plagio è alla base di ogni letteratura, ad esclusione del-la prima che è comunque sconosciuta”. Come sostiene oggi Marc Escola, tut-ta la letteratura è fatta di prestiti e prelievi che possono essere servili oppuredar vita a un testo che con opportune modifiche sintattiche, ritmiche, lessica-li si distingue da quello che è stato plagiato fino ad acquisire caratteristichedi originalità6. D’altronde Proust, grande maestro del pastiche (termine che equi-vale all’imitazione consapevole di uno stile che appartiene ad altri), nel dar vitaai suoi Pastiches et Mélanges nel 1908 sapeva, scrivendo alla maniera di Bal-zac o di Flaubert, di Michelet o dei Goncourt, di inventare una scrittura che pri-ma non esisteva: una langue proustienne calata di volta in volta nei binari in-derogabili dei modelli scelti.7 Nel curriculum di uno scrittore l’eventuale pro-duzione di testi scritti “alla maniera di”, può essere vista dunque come una fasedi passaggio, un’esercitazione che serve a farsi le ossa e a mettere alla provale proprie capacità, eventualmente migliorandole.

Nella letteratura del Novecento la questione si carica della maggior im-portanza assunta dalla sfera dei diritti individuali, che interessa il ruolo del-l’autore in quanto proprietario della sua opera. Dietro questo impulso aumen-tano i casi di ricorso ai tribunali con un andamento crescente a partire daglianni ottanta.

Gli esempi da citare, ovviamente con esiti giudiziari non sempre omo-genei, sono ultimamente messi sotto osservazione da un sito apposito anima-to dalla specialista Hélène Maurel-Indart, autrice di un saggio sull’argomento,in cui viene analizzata la controversa frontiera che divide il plagio vero e pro-prio da altre modalità di riscrittura, come appunto sono il pastiche, la paro-dia, il sequel8. Può trovare spazio anche un plagio effettuato a carico di testinon ancora scritti? Il paradosso, che è il pane di Pierre Bayard, come dimostra-no i titoli di molti suoi libri9, si spinge fino a immaginare un “plagiat par anti-cipation”, una sorta di deriva fantascientifica in cui la letteratura dà prova di

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5 Le plagiat sans peine, Le Monde, 23 settembre, 2011.6 Marc Escola, Plagiat et création littéraire, in Atelier de théorie littéraire, http://www.fabula.org/atelier7 Vedi Guido Almansi, Guido Fink, Quasi come, Bompiani, Milano, 1976.8 Hélène Maurel-Indart, Du plagiat, Folio Essais, Gallimard, Parigi, 2011; il sito www.leplagiat.net,in continua evoluzione ed aggiornamento, conta numerosi collaboratori nel mondo universitario egiornalistico.9 Pierre Bayard, Comment améliorer les oeuvres ratées?, 2000; Demain est écrit, 2005; Comment parlerdes livres que l’on a pas lus?, 2007; Le plagiat par anticipation, 2009; Et si les oeuvres changeaient d’au-teur?, 2010: tutte le opere sono pubblicate da Éditions de Minuit, Parigi.

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preveggenza e i legami fra gli scrittori sfuggono alla legge cronologica per coa-gularsi intorno a nuclei tematici dove i rimandi contano di per sé, secondo unconcetto di simultaneità che esula dal calcolo temporale. Non sfugge, sotto trac-cia, la ovvietà (o il conservatorismo, secondo l’opinione di alcuni come FrancSchuerewegwen10) di questo ragionamento, pur ammantato di originalità in omag-gio al consolidato stile Bayard: i grandi artisti, gli scrittori di genio sono sem-pre in anticipo sul proprio tempo, rappresentano in qualche modo una comu-nità che condivide certe intuizioni, formano una specie di Pantheon dove ci sidà del tu e si ignorano le leggi temporali.

Partendo da un’enunciazione oggettivamente non contestabile com’è ladefinizione di Jacques Finné, secondo cui il plagio è “una citazione senza au-torizzazione, senza virgolette, senza referenze”11 possono essere fatte rien-trare in questa casistica operazioni di portata più o meno ampia: si va dai pre-lievi della camerunense Calixthe Beyala12, accusata d’aver copiato, fra gli al-tri, Romain Gary e il nigeriano Ben Okri, alla caduta in tentazione di Alain Minc13,che elargendo in una biografia di Spinoza una preziosa ricetta di gelatina dirose, la attribuisce al filosofo olandese, mentre ne è artefice Patrick Rödel, asua volta autore di una biografia spinoziana in circolazione. Piccolezze? LaGurrey14 tira in ballo Jacques Attali, scrittore prolifico ed economista semprealla ribalta per i suoi molti incarichi pubblici, che nello scrivere Histoire du temps15

ha attinto a materiali dello storico Vernant e dello scrittore Ernst Jünger, su-scitando le ironiche scuse del suo editore Fayard: “Attali? autore geniale, mapoco pratico nell’uso delle virgolette”.

Gli argomenti avanzati a loro difesa dagli autori colti in fallo in alcuni casisono incredibili: s’invocano a discolpa errori tecnici che hanno prodotto la spa-rizione delle note o cancellato le virgolette nel testo. In altri casi sono patetici:così Patrick Poivre d’Arvor riguardo a una biografia di Hemingway scritta “all’ame-ricana” assicura in un primo tempo che la versione diffusa, e fatta oggetto di mol-te sperticate recensioni, non era quella definitiva…ma una bozza inviata per sba-glio che sarebbe stata poi rivista segnalando al momento dovuto le eventuali ci-tazioni. Il personaggio PPDA (così lo chiama il suo pubblico e i giornali france-si) è certamente interessante, sia per il temperamento poco remissivo che l’haspesso messo al centro delle cronache, sia anche perché resiste sotto la luce deiriflettori fin dai tempi in cui la fedele militanza a fianco di Giscard d’Estaing, pre-sidente della Repubblica negli anni 1974-1981, gli ha consentito di portare avan-ti una brillante carriera di giornalista televisivo su diversi canali nazionali. Au-tore di una trentina di romanzi, alcuni scritti a quattro mani col fratello Olivier,nel gennaio di quest’anno quando comincia a circolare tra gli addetti ai lavori unabiografia di Hemingway, preannunciata dall’editore Arthaud, viene improvvisa-mente accusato dal settimanale L’Express16 di aver trasferito nel suo Hemingway,la vie jusqu’à l’excès un centinaio di pagine tratte dalla biografia dello scrittore

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10 Franc Schuerewegen, in Acta, Fabula, cit., 25 febbraio 2009.11 Jacques Finné, Des mystifications littéraires, José Corti, Parigi, 2010.12 Calixthe Beyala, Les honneurs perdus, Albin Michel, Parigi,1996.13 Alain Minc, Spinoza, un roman juif, Gallimard, Parigi,1999.14 Vedi nota 5.15 Jacques Attali, Histoire du temps, Fayard, Parigi, 1982.16 Jérôme Dupuis, Patrick Plagiat D’Arvor, L’Express, 5 gennaio 2011.

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americano riconducibili alla penna di Peter Griffin, oggi defunto. Questo testo,pubblicato nel 1985 da Oxford University Press e tradotto da Gallimard quattroanni dopo, è praticamente introvabile in libreria. Però PPDA è riuscito evidente-mente a procurarselo.

Le pagine indebitamente prelevate da Griffin sono un centinaio, su untotale delle circa 400 di cui consta l’opera con cui PPDA avrebbe voluto ono-rare Big Ernest nel cinquantenario della morte. Troppe per una disattenzionecasuale, senza contare che l’intenzione di sviare dal testo plagiato è visibile inalcune manovre che lasciano immutata la sostanza, come l’utilizzo estremo disinonimi o l’inversione delle parole nella frase. Come nota l’estensore dell’ar-ticolo accusatorio, anche le divagazioni storiche (ad esempio quella che riguar-da il fronte italiano nel 1917) sono identiche e persino le descrizioni dei pae-saggi sono in molta parte coincidenti. Come si difende l’autore? Spiega di averpassato una ventina di mesi a documentarsi su diversi testi fra cui ovviamen-te anche numerose biografie (“non potevo comunque inventargli una vita di-versa!”). Tra queste ammette di aver apprezzato soprattutto quella di Griffin,ma contesta di aver volutamente utilizzato materiali tratti da quella biografiae nega in ogni caso la malafede (anche se non spiega perché nella bibliografiamanca proprio quel libro). A suo carico resta l’ombra di un’ipotetica recidivache ha dei risvolti alquanto dubbi, visto che vi si mescolano rapporti profes-sionali e privati. L’accusatrice che trascina in causa PPDA è infatti questa vol-ta una sua ex fiamma, ferita dalla pubblicazione del libro Fragments d’une fem-me perdue17 e decisa a contestargli non solo il reato di violazione della sua pri-vacy, in quanto il romanzo adombra situazioni della loro vita di coppia, ma an-che quello di plagio, dato che nella redazione dell’opera è stato fatto largo usodi una corrispondenza personale senza preventiva autorizzazione.

Se l’autore accusato si difende asserendo che il progetto di questo libroera stato concordato con l’interessata (Agathe Borne ha dimostrato di coltiva-re qualche ambizione letteraria), a cose fatte la danneggiata fa invece valere ilprincipio secondo cui le lettere appartengono sì al loro destinatario, ma que-sti non ha il diritto di renderle pubbliche senza il consenso della persona chegliele ha indirizzate. Una relazione amorosa che Cristophe Carron definisce to-xique18 approda dunque ad una sentenza che condanna Poivre d’Arvor al pa-gamento di 33.000 euro di danni morali. In questo caso è sembrato facile con-trastare un utilizzo poco corretto di materiali strettamente privati, ma in al-tri casi la situazione può essere più evanescente, soprattutto quando vengo-no invocati dei danni più immateriali di una banale scopiazzatura.

A riferire di un caso controverso che non ha mancato di suscitare pole-miche è La Revue littéraire19 riguardo a due romanzi che vertono sullo stessodrammatico tema: la morte di un figlio raccontata dalla madre. Sotto accusaè la giovane scrittrice di successo Marie Darrieussecq che nel raccontare la toc-cante storia della perdita di un bambino in Tom est mort sembra essersi lar-gamente ispirata al lungo racconto di Camille Laurens intitolato Philippe20. Piùche il ricorrere di echi, coincidenze, assonanze e somiglianze sintattiche e più

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17 Patrick Poivre d’Arvor, Fragments d’une femme perdue, Grasset, 2009.18 Cristophe Carron, Voici, 8 septembre 2011.19 Camille Laurens, Marie Darrieussecq ou Le syndrome du coucou, La Revue littéraire n.32, 2007.20 Camille Laurens, Philippe, POL, 1995; Marie Darrieussecq, Tom est mort, POL, 2007.

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ancora che il calco di una narrazione strutturata in scene identiche o quasi, quel-lo che crea la sensazione di una vera imitazione è il particolare soggetto -unaspecie di tabù letterario- che viene scelto a distanza di non molti anni con lastessa intuizione di farne un racconto in prima persona. Solo che mentre perLaurens si tratta di una dolorosa esperienza vissuta, il che giustifica il taglioimpresso, quello di una faticosa elaborazione del lutto profondamente senti-ta, nel caso di Tom siamo in presenza di pura fiction in cui le varie tappe ven-gono progettate a tavolino, aiutandosi forse con la feuille de route dell’ante-cedente, non solo letto attentamente, ma anche pubblicamente apprezzato.

In mancanza di evidenti copiature o sostanziosi prelievi la contestazio-ne avanzata da Laurens, della quale si può comprendere il sentimento di fru-strazione profonda, verte su una sorta di plagio attinente alla sfera psichicache, pur non avendo alcuna valenza né letteraria né tanto meno giuridica, tro-va però accoglienza nell’ambito di un concetto generico di correttezza e leal-tà fra scrittori (per di più, come in questo caso, appartenenti alla stessa –im-barazzata- casa editrice). Fin troppo ovvia in questo caso la difesa dell’accu-sata: non esiste divieto a raccontare una storia già raccontata, ad ambientareuna vicenda in un contesto già utilizzato, a immaginare di soffrire ciò che qual-cuno ha sofferto davvero. Da plagio, o plagiat psychique, l’azione negativa diimpossessarsi di un modo di pensare e di sentire si trasforma in singerie: unoscimmiottamento che rimane ovviamente senza sanzione, essendo le esperien-ze umane a disposizione di chiunque voglia farne materia di scrittura. Siamoqui in un territorio che nuovamente confina col pastiche, ma in direzione con-traria, visto che l’intenzione è quella di trattare un tema altrui ma usando ilproprio stile e linguaggio.

Nei margini in cui si muovono le contestazioni a cui abbiamo accenna-to, trovano spazio giuste rivendicazioni, a volte un esagerato protezionismo,spesso qualche pedanteria. Allora meglio scegliere la via di Philippe Sollers, au-tore di libri di grande successo da oltre un cinquantennio; dalla sua bibliogra-fia ha depennato il primo romanzo, Une curieuse solitude, apprezzato a suotempo da Louis Aragon e François Mauriac: “Questo libriccino è un plagio. Per-sino il titolo non è mio”.

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LA FLORA IN GUIDO GOZZANO TRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE

di Rosa Elisa Giangoia

La produzione poetica di Guido Gozzano rappresenta, per ormai conso-lidata interpretazione critica, il punto di presa di distanza e superamento diuna tradizione che aveva avuto la sua fase di massima elaborazione fino all’esau-rimento con D’Annunzio e l’apertura verso il nuovo di una poesia che avrà isuoi esiti significativi attraverso le varie esperienze del Novecento, in partico-lare con la prima produzione di Eugenio Montale. Questo carattere di snodosi riflette anche nei fiori a cui il poeta fa riferimento nei suoi testi, alcuni deiquali provengono da una consolidata tradizione poetica, soprattutto con ere-dità tardo romantiche e leopardiane, mentre altri si affacciano per la prima vol-ta sulla scena letteraria, sostenuti sia da un’apertura verso il realismo, sia dalnuovo gusto liberty che si va affermando in tutta Europa.

A segnare la continuità con la tradizione nella poesia di Gozzano è in-nanzitutto la rosa, che comunque si connota di caratteristiche nuove, in per-fetta sintonia con la sensibilità del tempo e con le valenze simboliche che piùrecentemente questo fiore aveva assunto in D’Annunzio. Vediamo innanzitut-to la lirica Le due strade, che compare ne La via del rifugio e con alcune varian-ti ne I colloqui. Il verso d’apertura «Tra bande verdi gialled’innumeri ginestre»indica subito l’attraversamento del territorio poetico leopardiano e dannunzia-no da parte di Gozzano. Infatti alle ‘ginestre’, introdotte in poesia da Leopar-di come elemento di forte novità, si unisce l’aggettivo ‘verdi gialle’ (ne La viadel rifugio, che diventa ‘verdigialle’ neI colloqui), tipicamente dannunziano, comedimostra Edoardo Sanguineti con citazioni da Climene (nel Poema paradisia-co), «I licheni ed i muschi verdegialli» (v.10), e da Il fuoco1. Nuovo è comunquel’accostamento di questo aggettivo composto al fiore della ginestra con il pre-ciso intento di raggruppare con realismo in un unico accostamento cromati-co i fiori, gli steli e le foglie, secondo la netta percezione visiva che se ne puòavere al momento della fioritura. In questo paesaggio punteggiato da ginestrefiorite, Gozzano colloca «una bella strada alpestre» che «scendeva a valle»: cipuò sorgere il dubbio se l’ambientazione sia in Piemonte, dove sulle pendicidelle Alpi, di solito non fioriscono ginestre, o in Liguria, dove le pendici più sas-sose e assolate degli Appennini nel mese di maggio si ricoprono di solari ciuf-fi di ginestre, per cui l’aggettivo ‘alpestre’ riferito alla strada potrebbe signifi-care genericamente ‘di montagna’, al di là della precisa catena in cui il poetasi trovava, insieme ad una sua non più giovane amica. Su questa strada, all’im-provviso, compare ‘una ciclista’: è una ‘Signorina’, caratterizzata da un insie-me di elementi che ne sottolineano la modernità e la giovinezza. Innanzitut-to proprio perché è ‘una ciclista’, una persona cioè che, per spostarsi, usa il nuo-

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1 Prose di romanzi II, p. 712 e p. 736.

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vo mezzo, che richiede abilità e gagliardia fisica, solo dagli inizi del Novecen-to entrato in uso in Italia, specie per le giovani donne, ma già nobilitato poe-ticamente dal Pascoli2, inoltre ha un nome moderno, si chiama infatti Grazia,anche con il diminutivo-vezzeggiativo Graziella, ormai di moda in Italia sullascia del successo del romanzo Grazielledi Alphonse de Lamartine (1852). Maad accrescere il fascino adolescenziale di questa figura concorrono anche le rose.Infatti il poeta, in entrambe le versioni del testo, accenna per ben due volte alla«bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose»3. Ecco che il fiore tradizionale sim-bolo di giovinezza, ritorna ancora una volta con questa funzione, indicata in-direttamente attraverso il dare luce e colore ad un oggetto, la bicicletta, anch’es-sa simbolo di giovinezza, in quanto emblema della modernità. Questa nota divigoria giovanile viene poi accentuata dal participio ‘accesa’ che stabilisce unlegame vitalistico tra la bicicletta e le rose che si riverbera sulla figura della fan-ciulla Graziella. Nel testo compreso ne La via del rifugio, però, le rose servo-no anche ad indicare l’opposto, cioè la bellezza della donna matura che ormaista per declinare e spegnersi, secondo una simbologia di consolidata ascenden-za letteraria. Infatti il poeta, a proposito della sua non più giovane amica dice:«Belli i belli occhi strani della bellezza ancora / d’un fiore che disfiora e nonavrà domani. / Al freddo che s’annunzia piegan le rose intatte, / ma la donnacombatte nell’ultima rinunzia».

La rosa come tradizionale simbolo di fugacità della giovinezza e soprattut-to della vita, secondo l’antica tradizione classica, ripresa nell’Umanesimo e nel Ri-nascimento, ritorna in Gozzano in Carolina di Savoia, a proposito della quale prin-cipessa morta giovanissima, il poeta ripete due volte «Visse la vita d’una rosa» (v.2 e v. 46) con derivazione immediata e precisa da François de Malerbe (1555-1628)che nella Consolation à M. Du Perier così atteggia il motivo della tradizione: «Et,rose, elle a vécu ce que vivent les roses, / l’espace d’un matin». In Gozzano ‘ro-sa’ è in rima con ‘sposa’, facile rima di lunga durata letteraria.

Le rose sono per Gozzano simbolo sicuro di giovinezza e di voluttà, recu-perato secondo un gusto estetizzante e dannunziano. È quanto vediamo nel com-ponimento Il più atto, dedicato a suo fratello minore, Renato, al quale augura mol-te soddisfazioni: «A lui vada la vita! A lui le rose, i beni, / le donne ed i piaceri!»(vv. 7-8). Il termine ‘rose’ sembra riassumere tutti i piaceri più vitali e voluttuosi,anche per i rimandi a D’Annunzio4. Di conseguenza per il poeta le rose diventa-no simbolo dei piaceri non goduti in Cocotte: «Non amo che le rose / che non col-si. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…Vedo la casa,ecco le rose / del bel giardino di vent’anni or sono!» (vv. 69-72).

La rosa è accostato da Gozzano, secondo tradizione, alla viola, in Paoloe Virginia: «Muto mi reclinai sopra quel volto / dove già le viole della morte /mescevasi alle rose del pudore…» (vv. 140-142), dove la derivazione più imme-diata e diretta è da Bernardin de Saint-Pierre, tanto che nella prima stampa sonofra virgolette “viole della morte” e “rose del pudore” a sottolineare il loro ca-rattere quasi di citazione dallo scrittore francese: «Les pâles violettes de la mortse confondaient sur ses Joues avec les roses de la pudeur», ma in realtà gli ar-chetipi dell’accostamento di questi due fiori con queste precise valenze sim-

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2 La bicicletta, in Canti di Castelvecchio, 1903.3 v. 20, v.68; v. 18, v. 62.4 Il censore, v.1; La casta veglia, v. 13 nell’Intermezzo; la Sestina nell’Isotteo; Le belle ne Le Chimere.

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boliche si possono trovare ben più indietro, e soprattutto nella tradizione poe-tica italiana, a partire da Petrarca. Ma Gozzano accosta le rose anche a fiori en-trati da poco ad adornare i giardini, come il geranio. Cosi ne L’assenza, doveil poeta vive un momento di inquietudine per l’assenza della madre dalla casae dal giardino dove «sopra un geranio vermiglio, / fremendo le ali caudate /si libra un enorme Papilio…» (vv. 14-16). Guardando il giardino si sente ‘stu-pito’ (v. 26) e aggiunge: «I fiori mi paiono strani: / ci sono pur sempre le rose,/ ci sono pur sempre i gerani…» (vv. 30-32), in un mescolarsi di tradizione enovità realistica, tipica del primo Novecento.

Le rose sono per Gozzano, secondo un gusto tipicamente decadente, sim-bolo di avvizzimento e di morte, così in Suprema quies, componimento carat-terizzato da un gusto macabro, compare«un mazzo sfasciato ed avvizzito / dirose rosse», fiori che ritornano, velati della malinconia del disfacimento, ad or-nare la figura evocata della Poetessa in Il viale delle Statue: «Anche recava, con-tro il suo costume, / due rose rosse nelle nere chiome» (v. 102). Ma è soprat-tutto nei sonetti di Domani che le rose assumono una vistosa connotazione didisfacimento: «Un servo aduna i belli / fiori che inghirlandarono i capelli / eli gitta allo stagno, indifferente. // Le rose aulenti nella notte insonne, / le roseagonizzanti, morte ai baci / nelle capellature delle donne, // scendon piano conl’alighe tenaci, / in su la melma livida e profonda, / con le viscide larve dei ba-traci» (I, 6-14) e «Pace alle rose in fondo dello stagno, / in loro fredda orren-da sepoltura» (II, vv. 1-2).

Per Gozzano le rose entrano anche in quel mondo particolare dei fioririprodotti, finti e secchi che egli, forse unico, introduce nella sua poesia. Eccoallora «la gonna a rose turchine» (v. 21), non sappiamo se ricamate o stampa-te, di nonna Speranza e della sua amica Carlotta, le quali indossano anche «unoscialle ad arancie, a fiori, a uccelli, a ghirlande» (v.23), e «le turchine / rose tra-punte della bianca veste» (Primavere romantiche, vv. 33-34), decisamente rica-mate. In queste precisazioni la natura si arricchisce delle invenzioni della fan-tasia e così le rose diventano ‘turchine’, assecondando quell’aspirazione che ifloricoltori perseguivano da tempo e che solo recentemente si è realizzata. Sono«le buone cose di pessimo gusto» (v. 1, v.12), in cui rientrano «gli albi dipintid’anemoni arcaici» (v.8) esoprattutto «i fiori in cornice» (v. 1), i «fiori finti» (Isonetti del ritorno, II, 7 e Della cavolaia, v. 96), accanto a cui si possono collo-care i «fiori secchi» (Le non godute, v. 79). In verità nell’Ottocento i fiori ripro-dotti in seta, quelli essiccati per composizioni o conservati sotto vetro per finiornamentali hanno avuto grande diffusione e successo, fortuna che è duratafino a quando, ai primi del Novecento, hanno cominciato a funzionare, primain Francia sulla Costa Azzurra e poi anche in Italia sulla Riviera Ligure, le ser-re, capaci di fornire fiori freschi in ogni stagione dell’anno, per cui quelli fin-ti e secchi sono stati percepiti come fuori moda, obsoleti, come appunto li vede,con il suo animo moderno, Gozzano, nei cui anni dovevano iniziare ad esseregià in uso i fiori di serra, come possiamo rilevare dalla poesia Un rimorso: «Fug-gimmo all’aperto: / le cadde il bel manicotto / adorno di mammole doppie. //O noto profumo disfatto / di mammole e di petit-gris…» (vv. 14 – 18). Siamoin un contesto elegante e mondano e la donna indossa quanto è più di modanella Torino primonovecentesca, capitale italiana della moda di derivazione fran-cese. Infatti ha il manicotto di pelliccia di petit-gris, in cui infilare le mani pertenerle calde, come le donne dannunziane del Piacere e della Leda senza cigno,

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anche qui adorni di mazzi di violette per profumarli. Siamo in inverno, se oc-corre il manicotto e le mammole sono ‘doppie’, cioè con petali doppi, e profu-mano, quindi sono fresche, coltivate nella novità delle serre e per questo ele-mento di modernità e di eleganza.

Una notazione particolare meritano «le mele che sanno di rose» a cui Goz-zano accenna ne L’ipotesi (v.90), le quali «emanerebbero, amici, un tale aromache il cuore / ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici» (vv. 91-92). Il con-nubio tra le mele e le rose (in botanica appartenenti entrambe alla famiglia del-le Rosacee) è molto antico, tanto che se ne potrebbe trovare l’archetipo nellavicenda di santa Dorotea, miracolosamente capace di procurare mele e rose nel-la stagione invernale), ma in realtà qui si allude ad una particolare varietà dimela, chiamata appunto ‘mela rosa’, coltivata in Piemonte, che emanava unafragranza di rose ed era particolarmente utilizzata in quelle preparazioni ga-stronomiche in cui le mele si combinano con le rose (marmellate, gelatine e li-quori di rose), oltre che collocate negli armadi per profumare la biancheria ela cui buccia veniva posta sulla brace per profumare gli ambienti. Nella poe-sia di Gozzano si caricano però di un’ulteriore valenza, in quanto proprio il fat-to che queste mele emanino una fragranza di rose diventa elemento memoria-le di evocazione della giovinezza, ristabilendo, pur attraverso l’abbassamen-to quotidiano e casalingo delle mele, il circuito tradizionalmente letterario dirose e giovinezza.

Il giglio è in Gozzano fiore di gusto tipicamente liberty, o ancor meglio,preraffaelita, come vediamo nel sonetto La preraffaelita, in cui viene tratteg-giata una donna tipica delle raffigurazioni dei pittori Preraffaeliti, cioè langui-da, eterea, fredda e distante, che appunto «Tien fra le dita de la manca un gi-glio / d’antico stile, la sua destra posa / sopra il velluto d’un cuscin vermiglio»(vv. 9-11). Versi che saranno ripresi identici anche nel sonetto L’Antenata. Ol-tre che da raffigurazioni pittoriche, l’immagine di questa donna ha un antece-dente immediato in Viviana May de Panuele di D’Annunzio, a proposito dellaquale il poeta dice: «O voi che compariste un dì, vestita / di fino argento, a Dan-te Gabriele, / tenendo un giglio ne le ceree dita»5. Nel testo di Gozzano dob-biamo però notare la rima ‘giglio / vermiglio’, che ci riporta immediatamentea Iacopone da Todi (72,6), quasi che il poeta volesse ricreare un suo persona-le clima letterario preraffaelita, come dimostra anche l’incipit di Laus Matris:«Laudata sii dal figlio / che, compiuti vent’anni, oggi lascia li inganni / ritor-na come giglio» (vv. 1-4), in cui la ripresa da Iacopone della rima ‘figlio /giglio’può costituire un’ulteriore attestazione del “francescanesimo” di Gozzano. Rimeche ritornano in triade ancora nelle terzine conclusive de La falce: «…sopra illin vermiglio / tutto di sangue che un baglior rischiara / la sposa muore, bian-ca come il giglio. // La Morte, intanto, il feretro prepara: / a l’alba di diman lamadre e il figlio / saran racchiusi nella stessa bara» (vv. 9 14).È un componi-mento di amore materno e di morte, ritmato, nella conclusione, dalla ripresadi queste rime iacoponiane che proiettano il legame tra madre e figlio nell’alo-ne del rapporto tra Cristo e la Madonna, con riferimento al sacrificio tramitel’aggettivo ‘vermiglio’. In un altro contesto poetico, quello de La culla vuota,invece, ‘figlio’, oltre che con ‘giglio’, rima con ‘artiglio’: «Oh, voce roca, fune-

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5 Due Beatrici, II, ne La Chimera, vv. 3-5.

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bre sul vento / sei tu, la Morte? Che m’hai tolto il figlio? / Ah! L’odo urlare, ur-lare di spavento, / bianco lo vedo com’è bianco un giglio, / un giglio chiuso dal-l’ossuto artiglio…» (vv. 27 – 31), con un chiaro riferimento alle dita della Mor-te, unghiate e lunghe come un artiglio.

Il gusto liberty porta Gozzano ad apprezzare soprattutto i fiori rampi-canti e dall’andamento sinuoso, quali il ‘convolvolo domestico’ che fa una ra-pida apparizione in Della passera dei santi (v. 107), come esempio di modifi-cazione della natura da parte dell’uomo, e il ‘caprifoglio’, presente nello stes-so componimento (v. 121), per dimostrare le capacità di modificazione da par-te della natura stessa per adattarsi ad altri esseri, in questo caso le macroglos-se, ma che ritorna con valore puramente ornamentale ne L’ipotesi : «(ma sem-pre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio)» (v. 26), con un’immagine in cuila leggerezza armoniosa della ringhiera del balcone si intreccia con la graziadella cascata di caprifoglio secondo un gusto tipicamente liberty. Ma, dato cheil convolvolo e il caprifoglio appartengono alla flora spontanea italiana, è il gli-cine che rappresenta l’elemento floreale del gusto nuovo e liberty di Gozzano.Il glicine è una pianta importata nel Settecento dall’Oriente, dove era ampia-mente diffuso nelle sue diverse varietà in Cina e Giappone, e ben ambientata-si da noi sulla fine dell’Ottocento per adornare i giardini della borghesia ita-liana con le sue piante dal fusto forte e sottile ed i rami flessuosi che si attor-cigliano sia attorno allo stesso fusto che tra di loro, capaci di intrecciarsi alleringhiere, alle pergole e ai berceaux per animarli in un breve periodo, tra la finedella primavera e l’inizio dell’estate, di bei fiori a grappolo in varie tonalità dililla che sfumano fino al bianco. Un pianta di rapido sviluppo e molto decora-tiva, soprattutto nella fioritura, con una sottile ambigua valenza femminile, peril portamento flessuoso, per l’estendersi dei rami come braccia che cercano unappiglio, per la robusta tenacia con cui si avvinghia ad ogni possibile suppor-to. Gozzano amava senz’altro questo pianta, presente al Meleto, come possia-mo vedere da L’analfabeta: «Biancheggia tra le glicini leggiadre / l’umile casaove ritorno solo» (vv. 25-26), da I sonetti del ritorno: «Sui gradini consunti, comeun povero / mendicante mi seggo, umilicorde: / o Casa, perché sbarri con lecorde / di glicine la porta del ricovero?» (I, vv. 1-4), «Il profumo di glicine dis-sipi / l’odor di muffa e di cotogna» (II, vv. 1-2), «O Casa fra l’agreste e il gen-tilizio, / coronata di glicini leggiadre, / o in mezzo ai campi dolce romitaggio!»(II, vv. 9-11), «o vecchie stanze, aulenti di cotogna, / o tetto dalle glicini pro-lisse» (VI, vv. 3-4). Il poeta, che usa per questa pianta la variante regionale fem-minile, la definisce ben due volte ‘leggiadra’, l’associa, in atteggiamenti sem-pre fortemente affettivi, ad una casa (dietro cui si cela la sua del Meleto), ab-bandonata e ritrovata, dove la glicine aggraziata e moderna, rallegra l’esterno,celando la muffa e l’odore di cotogne all’interno, che riportano al passato. Allagamma cromatica del glicine si collegano altri fiori cari a Gozzano, come il ‘col-co’, dai fiori violetti, che ‘sorride’ tra «le stoppie invalide…» (L’inganno v. 11),cheanche ritorna ne La Signorina Felicita: «Nel mestissimo giorno degli addii / mipiacque rivedere la tua villa. / La morte dell’estate era tranquilla / in quel mat-tino chiaro che salii / tra i vigneti già spogli, tra i pendii / già trapunti di beicolchici lilla. // Forse vedendo il bel fiore malvagio / che i fiori uccide e semi-na le brume» (VIII, vv. 381 – 388). È un fiore autunnale, collocato in questa sta-gione dal poeta in entrambi i testi, che sente l’autunno come preludio di mor-te; ma nel primo caso il fiore, pur nel contesto autunnale mortuario, rappre-

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senta una nota di rasserenante, seppur momentaneo, conforto. Infatti il poe-ta dice ‘sorride’, invece nel secondo caso diventa metafora della morte di ognialtro fiore e dell’approssimarsi delle nebbie autunnali, anche perché ne vienesottolineato il carattere di essere velenoso e quindi apportatore di morte.

Tipico del gusto liberty e compreso sempre nella gamma cromatica delviolaceo, anch’essa particolarmente apprezzata dal gusto di questo momen-to, è il giaggiolo o iris, che incontriamo in Totò Merùmeni : «Ma come le ruineche già seppero il fuoco / esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori, / quell’ani-ma riarsa esprime a poco a poco / una fiorita d’esili versi consolatori…» (vv.49-52). Qui, però, il giaggiolo viene ad assumere il significato di ‘fiore del de-serto’, in base al retaggio leopardiano de La Ginestra. Sta ad indicare in parti-colare l’idea della poesia che non nasce dalla piena dei sentimenti, ma piutto-sto dall’aridità sentimentale, dall’«anima riarsa», come dirà Eugenio Montalene L’anguilla.

In un contesto autunnale e di morte compare anche la viola ne I sonet-ti del ritorno: «Ritorna la viola a tardo autunno: / non morirò premendomi ilrosario / contro la bocca, in grazia del Signore» (VI, vv. 12-14). Il poeta si au-gura di morire nelle ‘vecchie stanze’, in ‘Un letto centenario’ e soprattutto ‘ingrazia del Signore’, per cui la viola assume qui un carattere di conforto nel mo-mento della morte. Invece la viola e la mammola diventano elementi caratte-rizzanti la primavera in Primavere romantiche, componimento che il poeta de-dica alla Mamma per farle rivivere ‘le gioie della giovinezza’, anche se è ormaiuna ‘donna declinante’ (v. 6) per il dolore e l’età, tanto che, con un’immagineche in qualche modo riprende quella del melograno in Pianto antico del Car-ducci, dice: «Invano / fiorisce di viole il colle e il piano: / non ritorna per lei laprimavera» (vv. 6-8). Ma poi la giovinezza della donna viene rievocata in un con-testo di primavera, che sembra riecheggiare la figura dantesca di Matelda nelParadiso Terrestre: «Ella col libro qui venia leggendo / e a quando a quandoin terra s’inchinava / la mammola, l’anemone, e la flava / primula prestamen-te raccogliendo» (vv. 29 – 32). ‘Flava’ è termine caro al Carducci, come attribu-to di ‘chioma’6 e al D’Annunzio che riprende lo stesso nesso in Donna France-sca7, mentre lo collega a ‘sabbie’ in Ditirambo8. L’accostamento di questo ag-gettivo ad un fiore, in particolare alla primula, rappresenta quindi un’ innova-zione di Gozzano. La primula è fiore caro al poeta, presente due volte in Del-l’aurora, per creare un paesaggio primaverile, insieme agli anemoni, al bianco-spino, alla pervinca, al galanto e al bucaneve (vv. 9-10 e 52-53). Il galanto e ilbucaneve in realtà sono due nomi per indicare lo stesso fiore, ma probabilmen-te Gozzano è stato tratto in inganno da un passo non chiarissimo de I gemel-li del Pascoli9. Inoltre la primula ritorna nella lirica Il responso, dove Gozzanodice: «C’era un profumo mite che mi tornava bimbo: / … un gracile corimbodi primule fiorite». Sono versi di grazia crepuscolare, vicini alla sensibilità delD’Annunzio di Consolazione.

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6 in Idillio maremmano (v. 23) nelle Rime nuove.7 I, v.38, in La Chimera.8II, v.118, in Alcyone.9 «Ed egli fu il leucoio, ella il galantho, / il fior campanellino e il bucaneve» (VI, 9-10).

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Tra tradizione e modernità si pone invece il ‘garofano’ che Gozzano nel-la lirica Garessio immagina con gusto tardo-romantico, rinvigorito dalla recen-te realizzazione degli edifici di stile medievale nel Parco del Valentino a Tori-no, come ornamento delle «finestre medievali e oscure» dalle quali «non piùridon le dame ai bei vassalli», ma «i garofani bianchi, rossi, gialli // protendonle gran capigliature…». Si tratta di una poesia d’occasione in cui il poeta vuo-le tratteggiare un castello medievale come luogo di pace e di silenzio in cui farrisaltare la figura di Maria Marro, a cui la poesia è dedicata. Il modo, però, concui il poeta descrive i garofani, il fatto cioè che «protendono la gran capiglia-ture» ha qualcosa di liberty, per gli elementi di sinuosità e di scomposta gra-devolezza, oltre che per l’implicito collegamento che il vocabolo ‘capigliatura’comporta con la figura femminile. Ma Gozzano, in un altro testo, di gusto scher-zoso, La ballata dell’Uno, accenna anche al valore di simbolo ideologico e po-litico che il garofano rosso aveva recentemente assunto: «Finalmente il Vati-cano / lascia il Papa ed il Concilio, / balla il tango col Sovrano / dal garofanovermiglio».

Di gusto e derivazione decisamente dannunziano è il riferimento al fio-re dell’’oleandro’ che troviamo nella lirica «Demi-vierge» II, che inizia: «Dovesono la tunica e le armille / d’elettro che portavi a Siracusa? / E le fontane e itempli d’Aretusa / e l’erme e gli oleandri delle ville? ». L’ambientazione clas-sicheggiante ed i precisi riferimenti geografici (Siracusa) e mitologici (Aretu-sa) ci riportano infatti alla lirica L’oleandro (1903) di Gabriele D’Annunzio.

È invece di gusto tipicamente romantico il riferimento che Gozzano faalle margherite sfogliate per avere responsi sulle corrispondenze d’amore neL’amica di Nonna Speranza: «O margherite in collegio / sfogliate per sortile-gio sui teneri versi del Prati! » (vv. 45 – 40).

Da questa sia pur breve rassegna emerge che in Gozzano compaiono siafiori che hanno colpito la sua attenzione nella realtà, sia fiori nobilitati dallatradizione letteraria. A questo proposito possiamo notare in particolare la pre-senza dell’asfodelo nel sonetto La morte del cardellino: «Poi, con le mani, nel-la zolla rossa / scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo / d’asfodeli di menta elupinella» (vv. 9-11). I bianchi fiori degli asfodeli non sono comuni nel paesag-gio piemontese, né in pianura, né sulle pendici delle Alpi, mentre sono piut-tosto diffusi su tutta la dorsale appenninica, soprattutto nel sud. Probabilmen-te il poeta li cita perché erano, secondo le credenze della Grecia classica, i fio-ri dei morti, e anche perché compaiono frequentemente in Pascoli e in D’An-nunzio per cui si alonano anche di un carattere poetico moderno.

Derivata molto probabilmente dall’osservazione diretta durante i soggior-ni terapeutici in montagna è, invece, l’attenzione per i rododendri, fiori di co-lore rosa più o meno intenso e vivace, che si trovano solo sulle pendici alpi-ne, oltre i mille metri. Proprio in questo ambiente montano Gozzano collocala farfalla ‘parnasso’: «evocate un pendio di rododendri, / coronato d’abeti edi nevai, / e la bella farfalla ecco s’adagia / sullo scenario, in armonia perfet-ta» (Le farfalle II Monografie di varie specie. Del parnasso vv. 25 – 28). È lo sce-nario in cui vive questa farfalla dove «spiccano sul candore alcune chiazze /vermiglie come fior di rododendro» (vv. 37 – 38), farfalla che«diede l’ali alla neveed al ghiacciaio, / al macigno al lichene al rododendro» (vv. 51 – 52), che è op-portuno attendere «sull’orlo degli abissi, / fra gli alti cardi i tassi i rododen-

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dri» (vv. 72 – 73). Esotiche e nuove sono invece le orchidee, conosciute nellelontane terre d’Oriente e che il poeta ipotizza un tempo presenti anche da noiper la gioia di questa stessa farfalla ‘parnaso’: «In altra età, per certo, quandol’Alpi / erano miti come Trapobane, / la farfalla avea l’abito conforma / conle felci i palmizi l’orchidee» (vv. 55 – 58). Alle orchidee ben si adatta la farfal-la esotica ‘ornitottera’, a proposito della quale Gozzano dice: «E la farfalla, chenon so pensare / sui nostri fiori, sotto il nostro cielo, / ben s’accorda coi mo-stri floreali» (Dell’ornitottera, vv. 71 – 73), così viene definita l’orchidea!

Questi accostamenti tra fiori e farfalle meriterebbero un più accurato esa-me de Le farfalle Epistole entomologiche che Gozzano aveva iniziato a scrive-re per Alba Nigra, sotto cui si cela la poetessa Amalia Guglielminetti. A suo diredoveva essere una cosa molto nuova fatta di «lettere […] un po’ arcaiche comequelle che scrivevano gli abati alle dame settecentesche per iniziare ai miste-ri della Fisica, dell’Astronomia, della Meccanica; ma modernissime nel conte-nuto, fatte di osservazioni filosofiche nuove e di fantasie curiose e fanciulle-sche»10. Da queste parole emerge chiaramente l’atteggiamento di Gozzano de-sideroso di guardare alla tradizione, in questo caso andando anche più indie-tro nel tempo, al Settecento, e nello stesso tempo di apportare una forte notadi modernità al suo lavoro letterario, che nasceva anche dall’osservazione di-retta delle trasformazioni dei bruchi in farfalle, grazie al fatto che egli alleva-va personalmente una colonia di bruchi, come racconta in una precedente let-tera sempre alla Guglielminetti11. In questo poema, che rimase incompiuto allamorte dell’autore, ma che doveva, nelle sue intenzioni, essere anche correda-to da fotografie, stretti erano i rapporti tra le farfalle e i fiori, mutuati, però,più che da osservazioni dirette da memorie letterarie dei poemi Vie des four-mies e Vie des abeilles del Maeterlinck.

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10 Lettera del 17 settembre 1908 ad Amalia Guglielminetti.11 Lettera del 3 settembre 1908.

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LA VOLPONA

di Guido Zavanone

Riassunto delle puntate precedenti (1)

Maria, della la Volpona, è un’anziana e ricca vedova, che vive nel culto del denaro.

Ha una sua piccola corte: una lontana parente, due domestiche ad ore, un’in-

segnante cinese di yoga. Tutte l’accudiscono quasi gratuitamente essendo sta-

te designate quali eredi in un testamento che la Volpona ha mostrato loro ad

arte, minacciando continuamente di modificarne o revocarne le disposizioni.

Vivono così sotto ricatto, ma a sua volta Maria è succuba di una santona che

si atteggia a guida spirituale.

La Volpona è tutta tesa ad incrementare il proprio patrimonio e, con ingegnosi quan-

to spregiudicati artifici, acquista, a prezzo irrisorio, un grande appartamento di pro-

prietà della parrocchia per poi destinarlo a casa di riposo, che gestisce senza scru-

poli ricavandone guadagni cospicui.

Ma, un giorno, irrompe nei locali dell’Istituto la Guardia di finanza, che sequestra

la documentazione contabile e interroga gli anziani ospiti. Successivamente inter-

vengono gl’ispettori sanitari che dispongono la chiusura della struttura per alcune

settimane, mentre la Procura apre un fascicolo penale nei confronti di Maria, accu-

sandola di frode fiscale e, inoltre, di omicidio colposo in persona di due anziani de-

ceduti a causa di malnutrizione e mancanza di cure sanitarie.

Del caso si occupano ampiamente la stampa e fin la televisione nazionale che met-

tono alla gogna Maria, mentre buona parte dei ricoverati non fa più ritorno nella

casa di riposo e persino il figlioccio Carlo ne abbandona l’amministrazione.

Muore improvvisamente il fratello di Maria, molto facoltoso e scapolo; cocente è la

delusione della Volpona per essere stata pretermessa nel testamento.

(1) Apparse sui numeri, 5, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15 di questa rivista.

Colpita negli affetti e negli affari (di questi, temeva, neppure il tempo avreb-be rimarginato le ferite) Maria pensò di poter trovare conforto nelle cose del-lo spirito. Le tornavano ossessivamente alla mente le parole del fratello rivol-tele nel testamento: beffarde nell’intenzione, ma che pur contenevano un am-monimento: di distaccarsi dai beni terreni in vista dell’ineludibile appuntamen-to.

Nelle avversità le reazioni umane sono fondamentalmente due e oppo-ste: volgersi docilmente a Dio nella speranza di trattenerne la mano punitrice(come fanno, nella loro rassegnata saggezza, i cani che leccano la mano che lipercuote) o rivoltarsi imprecando per il torto che si ritiene di aver ricevuto.

Nel suo sano pragmatismo, Maria non aveva dubbi: era la prima via quel-la da seguire, la sola che poteva essere utile e fruttuosa.

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Ma come rabbonire e ingraziarsi Colui che tutto può? Con Lui non era-no consentiti i trucchi usati con successo nei confronti di don Carlo e delle al-tre persone di cui si era servita per i suoi scopi. Occorreva piuttosto un trami-te e questo, in mancanza di meglio, poteva essere Gianna, la santona tanto esper-ta in campo spirituale.

Ma, per averla completamente dalla sua parte, era necessario dissipareogni precedente malinteso, far capire a Gianna che le malefatte dei suoi figlierano ormai completamente dimenticate.

E la Volpona seppe trovare le parole più semplici ed efficaci per rasse-renare e propiziarsi l’amica: “Uno di questi giorni andiamo insieme a visitarel’appartamento che ti ho promesso; e che sarà presto tuo”, soggiunse con unsospiro.

Gianna si rasserenò prontamente e si dispose ad ascoltare con pazien-za gl’incalzanti interrogativi di Maria sul destino dell’anima (della sua, in par-ticolare) dopo la morte; problema che non turbava certo i sonni della santo-na. La quale disegnò intanto una sua strategia, che consisteva nel rassicurareMaria circa la sua vita eterna, ma non del tutto, se voleva tenerla in pugno. Era,del resto, lo stesso insegnamento della Volpona, quando mostrava il suo testa-mento e ne faceva trasparire, nel contempo, la revocabilità.

Prima però – pensava Gianna – bisognava fare piazza pulita d’ogni resi-duo affetto che potesse albergare nell’animo della sua amica nei riguardi del-le persone che la circondavano. Certo, sfondava una porta aperta, dato che Ma-ria amava soltanto se stessa. E tuttavia Gianna aveva notato un certo attacca-mento della Volpona a quelli che erano o potevano esserle utili: un surrogatodell’affetto che poteva essere pericoloso, un embrione della gratitudine, che bi-sognava estirpare.

Il figlioccio Carlo aveva prestato la propria opera nella Casa “San Pio” sen-za nulla pretendere? Aveva fatto bene i suoi calcoli contando di ereditare la Casa.Appena il “San Pio” era entrato in acque procellose lui aveva abbandonato lanave. Pronto, magari, a farvi ritorno quando la tempesta si fosse placata.

Che dire delle due domestiche che facevano “volontariato” presso Ma-ria? Infide e infingarde, non avevano esitato a tradirla ridicolizzandola in te-levisione, davanti a milioni di spettatori. Meritavano veramente quello che, conbella antifrasi, si chiama “il ben servito”, e, cioè, ad essere chiari, un bel calcionel sedere. Lo stesso valeva per la cinese, imbrogliona che insegnava quello chenon sapeva spacciandosi per medico; e ora non si faceva più vedere, eviden-temente temendo che se l’avessero notata al “San Pio” ne avrebbe sofferto lasua reputazione.

E ce n’era anche per la vicina di casa, bollata, senza tante perifrasi, come“invadente e pettegola”.

Restava Laura. “Di lei – diceva Gianna – non mi riesce di esprimere ungiudizio: parlare del nulla non è possibile”.

Per la verità erano tutte persone, eccettuata forse l’innocua Laura, cadu-te in disgrazia della Volpona, ma l’abilità di Gianna era quella di trasformarei moti oscuri dell’anima, quali il rancore, il risentimento, il disprezzo, in giu-dizi morali, tali, per la loro assolutezza, da non ammettere ripensamenti.

“Blindata”, per così dire, l’avversione di Maria nei confronti di quanti po-tevano essere di ostacolo ai disegni di Gianna, c’era da spazzare il terreno an-che da un nuovo pericolo che si andava profilando attraverso alcuni discorsi

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di Maria circa un, sia pur ancora nebuloso, proposito di lasciare alla Chiesa eai poveri buona parte delle sue sostanze. Gianna temeva, non senza ragione,la straordinaria forza attrattiva che la Chiesa esercita sui più sostanziosi pa-trimoni dei suoi fedeli. Il pericolo era concreto se don Carlo si era precipitatoal capezzale di Maria quando lei era degente all’ospedale.

Gianna corse prontamente ai ripari, facendo uscire dal cilindro delle sueconoscenze religiose un magico valore, a suo dire comune a tutte le religioni: quel-lo della povertà. I poveri, assicurava, è bene che restino poveri, in pool positioncome sono nella corsa per il Regno dei Cieli. E poi il denaro non lo sanno ammi-nistrare e quando diventano ricchi cadono immancabilmente in rovina. Quantoalla Chiesa – affermava Gianna – soffre proprio delle sue ricchezze; e la san-tità non la si trova certo fra i tronfi porporati, ma tra i poveri curati delle pe-riferie, a ottocento euro al mese.

Maria che in cuor suo disprezzava i poveri (“sono degli incapaci” sole-va dire) e nella Chiesa cercava solo un possibile tornaconto, fu facilmente con-vinta e non parlò più di queste sue pie intenzioni.

Gianna passò quindi all’azione.Già in passato aveva rilevato la propensione fiduciosa di Maria per le se-

dute spiritiche. Gliene parlò, ricevendo un assenso entusiastico.Le sedute, sotto la regia di Gianna in veste di medium, si svolgevano qua-

si ogni giorno in casa di Maria davanti ad uno speciale tavolino appositamen-te commissionato.

Il defunto marito di Maria era, per così dire, di casa con consigli econo-mici e finanziari molto apprezzati anche se di rado azzeccati.

Ma ciò che maggiormente commuoveva e, insieme, inorgogliva Maria eral’accorrere, dai luoghi più diversi dell’Oltretomba, di una moltitudine di per-sonaggi illustri, di “spiriti magni”, al solo generoso intento di confortarla e con-sigliarla. Tutti, dopo aver succintamente riferito la loro travagliata vicenda ter-rena, parlavano, pur senza scendere in particolari, della luminosa beatitudinein cui erano immersi e che attendeva anche l’anima eletta di Maria quando fos-se giunto il tempo. Nella confusione, si mescolavano, a volte, voci di personeancora vive senza che vi si facesse caso.

Fin che un giorno, dopo tante invocazioni, si presentò addirittura PadrePio, il santo caro a Maria. E questi si rivolse proprio a lei, dicendo con voce gra-ve e accorata: “Maria, la Casa di riposo che mi hai dedicato è in pericolo, asse-diata com’è da molti nemici agguerriti e protervi. Tu sei piena di sante inten-zioni per difendere me e la Casa, ma sei avanti negli anni e anche il malore cheti ha recentemente colpita è un avvertimento del Signore. Vedo accanto a te unapersona timorata di Dio in cui ripongo incondizionata fiducia, la tua amica Gian-na, che possiede una grande energia, fisica e spirituale. Dà a lei la cura dellanostra Casa e tu dedica quanto ti resta di vita alla preghiera e alle opere di bene”.

La Volpona fu dapprima commossa, poi sgomenta, infine dubbiosa. È adire che quando erano in gioco i suoi beni Maria ritrovava la sua antica forza,la sua vigile accortezza, la sana diffidenza contadina. Era, del resto, lei stessatroppo esperta tessitrice d’inganni per non avvertire quello, abbastanza roz-zo, di cui era in quel momento vittima designata.

Non fece trasparire nulla alla sua amica e, il giorno dopo, si recò dall’av-vocato Filippone per sentire il suo parere.

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Filippone, il quale aveva lui pure mire inconfessate sul “San Pio”, volleessere franco, quasi brutale: “La sua amica è un’imbrogliona maldestra e lei,Maria, è una grande ingenua”.

La Volpona, tradita ed umiliata nella sua autostima, pensò di sbugiarda-re la falsa amica fingendo di stare al gioco. E proprio Gianna gliene diede il de-stro organizzando un’altra seduta spiritica. Aveva, infatti, notato delle perples-sità in Maria e si propose di fugarle. Ed ecco farsi vivo nuovamente San Pio, ac-compagnato questa volta, a confermarne l’identità, da un intenso profumo dirose. La Volpona si alzò di scatto, lasciando la presa del traballante tavolino,accese la luce e vide Gianna che frettolosamente faceva scivolare nella sua bor-setta una boccetta di profumo. Nello scoprire la grottesca messinscena, Mariaebbe la struggente percezione, quasi una rivelazione, che anche la beatitudi-ne eterna in cui aveva creduto, altro non era che una callida invenzione; e que-sto fu il dolore maggiore ed accrebbe l’ira, lo sdegno per l’inganno.

“Vattene subito, tu e i tuoi spiriti!” – intimò a Gianna, scagliandole con-tro il complice tavolino.

La santona si precipitò verso la porta senza proferire parola, inseguitadall’invettiva di Maria: “Sei la degna madre dei tuoi figli”.

Dopo la “crisi mistica” così dolorosamente superata, subentrò in Mariauna crisi più difficile da vincere perché subdola ed ubiquitaria: il tormento del-la solitudine, che non le dava tregua e l’accompagnava in ogni luogo e momen-to. Tutti l’avevano abbandonata o tradita e lei vagava in un mondo estraneo,popolato da esseri indifferenti od ostili. Anche i suoi beni, a cominciare dallaCasa “San Pio”, sembravano allontanarsi da lei, fuggire verso creditori spieta-ti ed insaziabili, tra i quali si stagliava, in prima fila, l’ombra sinistra del Fisco,il moderno Leviatano che divora le sue vittime.

Di notte Maria aveva gl’incubi, si vedeva al fondo di un “buco nero”, dalquale era impossibile uscire e da cui non filtrava luce di speranza.

Un giorno, al colmo della depressione, mentre s’aggirava per casa guar-dando uno ad uno gli oggetti che l’adornavano quasi ad assicurarsi che fosse-ro ancora lì, al loro posto, le venne per le mani un pacco di fotografie ingial-lite dal tempo. Erano le fotografie della sua infanzia e della sua giovinezza quan-do ancora non l’aveva assalita il demone del denaro.

“No!”, si disse, quel passato non doveva perderlo, troppo a lungo lo ave-va relegato nella soffitta della sua memoria. Sentì che da quei relitti sgorgava,improvviso, un fiotto di vita e di umanità.

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GOTICO, BAROCCO E LIBERTY NELL’INCANTESIMO DI PRAGA. CON UN PIZZICO DI MISTERO

di Milena Buzzoni

Forando nuvole scure, atterriamo su una città grigia attraversata da unaMoldava lucida e sinuosa come la scia di una lumaca.

Usciamo dal portone dell’Hotel Roma a Mala Strana ( la città piccola ) la cuimaniglia è un ricurvo Colosseo di bronzo, per raggiungere il Ponte Carlo e immer-gerci subito nell’atmosfera retrò della wagneriana “città indimenticabile”.

Appena mettiamo piede fuori, ci rendiamo conto di aver fatto un passoindietro nel tempo : tutto ciò che ci circonda appartiene a un’altra epoca epersino le persone che incontriamo hanno qualcosa di obsoleto e dismesso:abiti che da noi non si usano più, fogge e colori anni ’50, pettinature corte emosse oppure giovani con strumenti musicali in mano, viole, violini, contrab-bassi smascherati dalla forma delle custodie nere. Vetrine antiquate, trafficorado, tante biciclette. E un silenzio diffuso come per rispettare un defunto.Eppure la città buia e misteriosa, la “Praga magica” di Angelo Ripellino, quellaarcana e ossessiva di Kafka, quella invasa dall’odore di “cetrioli in aceto il cuiacre sentore provoca angoscia” di Camus, sembra svanita nel chiarore di que-sto pomeriggio di maggio.

Attraversiamo parte del quartiere che sorge sulla sinistra della Moldava,nel triangolo compreso tra il fiume e il monte di San Lorenzo. Abitato da ar-tigiani e commercianti, fu fondato a metà del 1200 accanto alla città vecchiacome seconda città di Praga. Vicino alla chiesa di San Nicola, meraviglia delbarocco praghese, con la sua inconfondibile cupola verde-rame, “ la capovoltacoppa smeralda…come un faro di luce trionfale” di Milos Marten, si allineanole facciate dai tenui colori pastello, azzurro, verde, rosa, giallino sulle qualispicca il bianco dei riccioli e delle volute settecentesche. Sede di istituzionistatali e ambasciate straniere, i piccoli edifici di Mala Strana sembrano uscitiieri da un diligente restauro e danno subito una sensazione di ordine e puli-zia. Passiamo davanti a qualche “vinaria” dove si serve, insieme a una tipicacucina ceca, vino e birra. Arriviamo al monumento forse più rappresentativodella città, annunciato da due torri gotiche unite dall’arco della porta: quellapiù bassa faceva parte delle fortificazioni del ponte di Giuditta del XII secolomentre la più alta risale al 1464. Escono dal cielo con le loro guglie insieme allacupola di malachite di San Nicola e a quella di San Francesco dei Crociferi. Ol-trepassata la porta, ecco finalmente il ponte Carlo, il ceco Karluv Most, innal-zato nel 1357 su modello del ponte Sant’Angelo di Roma, da Carlo IV che sullerovine del ponte romanico di Giuditta fece costruire a Petr Parler, uno dei piùnoti architetti e scultori dell’epoca, un capolavoro tecnico e artistico in stilegotico: lungo 520 metri, alto 10, sostenuto da 16 massicci pilastri, divennepoco a poco il centro più animato della città: qui si commerciava, si esercitavala giustizia (i condannati venivano immersi nella Moldava dentro cesti di vi-

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mini) e si organizzavano tornei. A vegliare sul cammino di chi lo percorre lasequenza di una trentina di statue barocche, evangelisti, teologi, vescovi, santi,angeli muniti di una serie di oggetti, molti dei quali spiccano sul nero delbronzo con l’ottone lucido e scintillante di spade, croci, aureole che fendonol’aria con divina fatalità. Incontriamo il Turco che sorveglia un cristiano impri-gionato dietro spesse grate, San Tommaso con i suoi libri, Sant’Antonio da Pa-dova con i suoi vasi, il codice di Sant’Ivo, la clava di San Giuda Taddeo, lescatole di unguento dei medici Cosma e Damiano. Queste statue che adom-brano la vittoria della Controriforma in Boemia, la Chiesa trionfante a un se-colo dalla sconfitta dei protestanti nella battaglia della Montagna Bianca, nonhanno l’immobilità un po’ catatonica che di solito caratterizza sculture cosìmonumentali, al contrario sembrano coinvolgerci nello spettacolo che ognunarappresenta: alcune si sporgono in avanti, il cane del Turco potrebbe essere dicarne e ossa, l’angelo di San Francesco Borgia penzola disinvoltamente legambe sull’orlo del plinto.

“…. Chi non ha visto in che modo la notte, in certi giorni non segnati dalcalendario, queste statue abbandonano i piedistalli suicidi per mescolarsi aipassanti notturni, non capirà mai la mia poesia…” dice Vìtezslav Nezval.

Lo percorriamo sopraffatti da quella solennità un po’ sinistra e raggiun-giamo la città vecchia attraverso la torre di Stare Mesto che chiude il ponte al-l’estremità opposta.

Passando dalla via Karlova che ci regala un percorso intatto in mezzo afacciate originarie e locali caratteristici, arriviamo alla Staromehstské Nàmeh-stì, la grande piazza che racchiude alcune delle cose più belle di Praga. Subitosi è ammaliati dal gruppo bronzeo che dilaga al centro dove personaggi, rocce,croci mantengono la flessuosa dinamicità che solo il Liberty sa dare. Un mo-numento enorme, una colata di forme in movimento di fronte alle quali, a dif-ferenza di tanti anonimi monumenti sparsi nelle città, non si può passareindifferenti. La distribuzione delle figure e del paesaggio, la loro irregolarecomposizione, lo stagliarsi solenne di quella principale che si stacca dalgruppo in uno slancio verticale, ne fanno uno dei gruppi scultorei più sugge-stivi nei quali ci si possa imbattere. È dedicato a Jan Hus il riformatore reli-gioso boemo arso sul rogo per eresia. Alle sue spalle svettano i due campanilidella chiesa gotica di Tyn punto di riferimento degli utraquisti praghesi, l’alamoderata degli ussiti. Edifici rinascimentali e barocchi dalle facciate pastelloabbelliscono il versante nord e quello sud della piazza, mentre a sud-ovest sitrova il trecentesco municipio con la torre dell’orologio, l’Orloj. Restiamo in-cantati a guardare il meccanismo di questo orologio astronomico con il fa-moso corteo degli apostoli, le fasi lunari e la posizione dei pianeti. Ogni oragli ingranaggi mettono in moto uno scenario in cui appaiono le statue poli-crome dei dodici apostoli, la morte con la clessidra e la campana funebre, ilturco, l’avaro, il vanitoso e il gallo dorato che canta dopo l’ultimo rintocco. Leruote dentate, le figure, le allegorie, gli automi che vediamo muoversi sullafacciata della torre evocano certi giocattoli, la vetrina animata dei negozi perbambini! Tutto attorno, sulla piazza, gruppi di turisti che non riescono ad af-follarla. E vista così, verso sera, carica di una commovente bellezza, sembranon conservare neppure memoria dei tragici fatti che si sono alternati sulle suepietre. Nel 1419 infatti il popolo praghese, ussita, buttò dai balconi della mu-nicipalità il borgomastro e i suoi consiglieri: questa “defenestrazione” segnò

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l’inizio della rivoluzione ussita che terminò nel 1436. In seguito al matrimo-nio tra Ferdinando I e Anna Jagellone, sorella di Luigi II, re d’Ungheria e diBoemia, nel 1526 i primi Asburgo ottennero la corona boema. Sotto RodolfoII (1552-1612), Praga divenne lo splendido centro dell’Impero: astronomi, al-chimisti, artisti e studiosi di ogni genere tra i quali Keplero e Arcimboldo, ar-rivarono da tutta Europa. Aumentò però l’antagonismo tra la maggioranzaprotestante e i cattolici appoggiati dagli Asburgo. Dopo la morte di RodolfoII, gli Asburgo si ritirarono a Vienna e, nel 1618, i nobili calvinisti boemi “de-fenestrarono” dal castello i governatori asburgici. Da questo episodio ebbeorigine la Guerra dei Trent’anni, all’inizio della quale, nel 1620, i protestantipersero la famosa battaglia della Montagna Bianca che segnò il progressivodeclino di Praga e dell’intero paese.

Davvero tanti sono i luoghi, i quartieri, le piazze, i palazzi segnati da eventisignificativi, quasi che la città costituisca una sorta di atlante storico, la mappadelle proteste , delle rivoluzioni, delle battaglie e dei lutti che ne hanno marcatol’evoluzione. Piazza San Venceslao, dove approdiamo il mattino successivo, dopouna cena in un ristorante caratteristico di Mala Strana, è uno di questi. La grandepiazza, lunga e stretta (750 m. x 60!) e un tempo sede del mercato dei cavalli, èun esempio tipico della pianificazione urbanistica di Carlo IV. Oggi assomigliapiù a un viale e si snoda in discesa come una passatoia. La statua in bronzo delpatrono San Venceslao domina la cosiddetta “Croce d’Oro” cioè il nucleo della vitaeconomica e sociale della città. Nel XIX secolo, dopo la proclamazione della repub-blica in seguito al crollo dell’impero asburgico, la piazza diventa il sismografo po-litico della città: nel 1938 con il Patto di Monaco vede l’annessione del paese allaGermania nazista e dieci anni dopo il colpo di stato comunista che neppure iltentativo della “Primavera di Praga” di Alexander Dubchek riesce a rovesciare. Ilsacrificio dei due studenti Jan Palach e Jan Zajic ricordati qui da una croce dibronzo stesa a terra e, un po’ più avanti, da una lapide circondata da aiuole fio-rite, è ancora vivo e attuale e per quelli della nostra generazione che non hannodimenticato le immagini televisive, mantiene una forte carica emotiva. Il ’68 halasciato qui le ceneri delle vittime di una rivolta per la libertà che altrove in Eu-ropa sarebbe riuscita a sovvertire i rapporti di potere.

In questa piazza si è poi concentrata la protesta contro il regime comu-nista e qui inizia la rivoluzione democratica del 1989 chiamata, per il suo ca-rattere pacifico, “rivoluzione di velluto” che, l’anno successivo, dopoquarant’anni, porta alle prime elezioni libere. Nel 1992, poi, il parlamento slo-vacco proclama la propria sovranità con la scissione dalla repubblica ceca.

Scendiamo verso la “Croce d’Oro” in questa mattinata soleggiata efredda. Passiamo davanti alla facciata liberty dell’Hotel Europa mentre, difronte, sulla sinistra, ci accompagnano monumentali palazzi déco. All’internodi Palazzo Lucerna, alzando gli occhi verso la cupola della galleria che stiamopercorrendo, un enorme cavallo rovesciato è appeso alla sommità. Parodiadella statua di San Venceslao, è opera di un artista contemporaneo ceco DavidCerny, lo stesso che nell’89, al momento della svolta democratica del paese,aveva esposto un carro armato dipinto color fucsia! Qualche passo ancora edecco la vetrina di “Zara” l’imprenditore che agli inizi del ‘900 era andato inAmerica dall’amico Ford per imparare il sistema della catena di montaggio eapplicarlo alla propria fabbrica di calzature. Amato dai suoi operai, è tuttoraricordato per la modernità delle sue vedute.

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Passeggiamo nelle strade della “Croce d’Oro” cercando spicchi di soleche mitighino il freddo. Svoltiamo verso il cuore di Staré Mesto, la città vecchia,e prima di raggiungere la Staromestské nàmestì, la piazza con il monumentoa Hus che non ci stancheremo di guardare, ci imbattiamo in un altro emblemadella città, la quattrocentesca Torre delle Polveri. In contrasto con gli altri edi-fici per le sue forme gotiche e la facciata annerita era il punto di partenza peri cortei dell’incoronazione dei re boemi che terminavano al Castello davantialla cattedrale di San Vito. Il nome risale al 1600 quando cominciò ad essereutilizzata come magazzino per la polvere da sparo.

Decidiamo di fare una pausa e di sederci al caffè di uno dei palazzi piùsfacciatamente liberty che si possano immaginare. Una sosta inevitabile visto ilfascino che emana la Obecnì dum, la Casa Municipale, costruita tra il 1906 e il1911 sull’area del distrutto palazzo trecentesco di Venceslao IV. Prendiamo ilcaffè sotto lampadari e appliques di ottone perfettamente conservati come i ri-vestimenti di legno, le piastrelle, i vetri. Un piacere guardarsi attorno. E goderedella raffinata leggerezza di uno stile qui a Praga così magnificamente testimo-niato! Uno stile che, senza traumi e senza stonature, convive con le linee severee le oscurità del gotico e con i pastelli e le volute del barocco.

Riprendiamo il nostro percorso verso la Moldava ed entriamo nel quar-tiere ebraico “confitto in un’area esigua, tra la Città Vecchia e il fiume....è il piùpiccolo di tutti i quartieri praghesi....bizzarro labirinto di viuzze sudicie e nonlastricate, strette come i cunicoli di una miniera. Budelli cui le sporgenze ed igomiti davano un che di ubriaco, di barcollante, di onirico....” Questo il ghettodi Angelo Ripellino. Oggi le ristrutturazioni lo hanno ripulito restituendoun’immagine non molto diversa da quella delle altre zone della città, in or-dine e composta come una scolaretta al primo giorno di scuola. Chiamatoanche Josefov in onore di Giuseppe II che nel 1748 abolì parzialmente le di-scriminazioni verso gli ebrei, nel XIII secolo vede i primi insediamenti concen-trati nella zona della sinagoga Vecchio-Nuova. Qui ci assale un gotico silenzioe documenti, oggetti, parati: gli strumenti di una religione che sembra aggrap-parsi alle sue tradizioni, tenerle ferme nelle bacheche, per opporsi ai rischidel cambiamento dei tempi e alle minacce venute “da fuori”.

Entriamo nella sinagoga Pinkas, vero e proprio monumento commemo-rativo per i 77.297 ebrei boemi e moravi vittime dello sterminio nazista. I murisono interamente coperti dalla sequenza di tutti i nomi, in ordine alfabetico,delle vittime del genocidio.

Luft Oskar, Maderova Gertruda, Mahaler Alois, Nohel Arnost......seguitida data di nascita e data di morte. Di solito un breve intervallo tra l’una e l’al-tra. Ogni parete sembra l’ingrandimento di una pagina di giornale, nere le let-tere, rossi i numeri, un gigantesco sinistro necrologio.

Inseguiti dalle voci che ogni nome evoca passiamo da una sala all’al-tra poi saliamo al primo piano dove lo spazio è, in forma diversa, più indi-retta e subdola, altrettanto ossessivo: nelle bacheche che coprono i murisono radunati i disegni dei bambini chiusi nel campo di concentramento diTerezin: una notte di luna piena, gli alberi e il sole, il cammello e il deserto,le farfalle sui fiori.....

Sotto il nazismo morì il 90% della popolazione ebraica e alle comunitàreligiose vennero sottratti oggetti artistici e di culto allo scopo di costituirenella capitale ceca il cosiddetto “museo della razza estinta”. Senza volerlo fu

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posta la prima pietra del museo ebraico di Praga, uno dei più significativi perquanto riguarda l’arte sacra e profana.

Ecco, dopo qualche passo nel sole che si è intiepidito, le lancette dell’oro-logio sulla facciata del municipio: les aiguilles de l’horologe du quartier juif vontà rebours ricorda Apollinaire. È invece Ribellino ad accompagnarci per gli strettipassaggi del cimitero, all’ombra dei sambuchi : “Colpivano i visitatori la secolaremestizia di quel recinto, l’accatastarsi in un piccolo spazio dei morti di molte ge-nerazioni...la torva vitalità della plebe di pietre sciancate, il loro mistero che cre-sce nella stracca luce invernale....” Una necropoli spettrale fatta di undicimilacippi, da quelli più rozzi in arenaria, con la cima piatta o a mezzaluna o a cuspide( la più vecchia è quella del rabbino-poeta Avigdor Karò e risale al 23 aprile 1439)fino ai sarcofagi del ‘600 come quello, a forma di tabernacolo di Rabbi Low, illeggendario rabbino esperto di tutte le scienze comprese cabala e alchimia, legatoa Rodolfo II e creatore di un Golem. All’affollamento di queste lapidi sghembe an-nerite dal tempo, al mistero che emanano queste sepolture, si addice la leggendadel Golem, personaggio-chiave della Praga magica, il cui nome si incontra nelSalmo 139 con il significato di “embrione”, “grumo informe” e per estensione“uomo di argilla” a cui, secondo le indicazioni del libro della Creazione, si può darvita introducendo nella sua bocca lo schem, il foglietto con il nome impronuncia-bile di Dio. Tutto in questa necropoli ha qualcosa di arcano e fiabesco, anche leragnatele che “come stracci di crespo si tendono tra le urne”, l’assenza di fiori, imucchietti di sassolini lasciati dai visitatori sulle lapidi in segno di devozione oper esprimere una richiesta, la monotonia del grigio che si moltiplica di pietra inpietra, i rami ancora spogli dei sambuchi.

Tornando all’albergo la vista si rasserena lungo la superficie lucida dellaMoldava, i viali che la costeggiano, il ponte Carlo in lontananza che rovescia nel-l’acqua i suoi pilastri e le macchie nere dei suoi bronzi.

Guardando in basso verso l’argine, sul greto sabbioso tra la vegetazione,dentro un grande nido circolare, un cigno sta covando. Sembra una ballerina av-volta nel tulle che si inchina a fine spettacolo.

In un silenzio da biblioteca, attraversiamo l’isola di Kampa, separata daMala Strana dal ruscello del Diavolo, tra le facciate rococò di piccole case dainomi fiabeschi: “Alla volpe blu”, “Al guanto bianco”…..

-Che si mangia stasera?- chiede Marcello riportandoci alla quotidiana realtà.-Qualunque cosa, purché vicino”- risponde Federico che, portavoce delle in-

tenzioni di tutti, non ha più voglia di camminare.-Potrebbe andare quel posto che abbiamo visto stamattina, non sembra

troppo turistico, quello vicino all’albergo, un po’ in salita - propone LorenzoE dopo cinque minuti siamo seduti su una panca attorno a un tavolo in un

locale con le pareti rivestite di legno. Il menu è simile a quello delle sere prece-denti: gulasch, salsicce, stinco, prosciutto, selvaggina ma, fermandosi solo pochigiorni è facile evitare gli stessi piatti. Così scelgo lo stinco che non ho ancoramangiato. È proprio buono accompagnato dall’amarognolo della birra. La cenaci restituisce energia e torniamo in albergo a piedi chiacchierando .

Stamattina il Castello si presenta smagliante nella luce tersa di un maggiorispettoso delle stagioni. Le guglie della cattedrale di San Vito perforano un cieloazzurro senza sfumature e la facciata bianca del monastero di Strahov inneva lacollina di Hradcany che risaliamo attraverso un tranquillo giardino pubblico doveincontriamo solo una guardia a cavallo. Il Castello, che il Guinness dei primati cita

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come il più grande del mondo, è una città nella città. Con più di sette ettari di su-perficie, fu fondato attorno all’880 in stile romanico e successivamente rimaneg-giato fino al settecento, epoca a cui risale la forma odierna. Simbolodell’indipendenza ceca (nel 1989 al grido di “Havel na hrad!”, “Havel al Castello!”,la popolazione chiamò alla presidenza il più acceso oppositore del regime comu-nista!) è ancora oggi la residenza del capo dello stato. Si entra soggiogati dallamonumentalità di due statue di gigantomachia poste ai lati del cancello. Una seriedi cortili collega i vari edifici che compongono il complesso e vi si può ammirarel’enfasi di un barocco che si materializza in scale e fontane. Nella Galleria del Ca-stello opere eccellenti quasi inaspettate: Rubens, Tiziano, Veronese, Tintoretto….Il terzo cortile è dominato dalla gotica facciata della cattedrale di San Vito in cuivenivano incoronati e sepolti i re boemi. Un colpo d’occhio mozzafiato sollevalo sguardo in alto tra rosoni, pinnacoli, guglie e una torre di cento metri con lacampana di Sigismondo, la più grande della Boemia. L’interno ci risucchia con lasoggezione degli archi a sesto acuto, del buio trafitto dai fendenti colorati dellaluce che penetra dalle vetrate come attraverso un caleidoscopio, del silenzio cheassorbe i bisbiglii dei visitatori . Tremila pietre dure miste a pasta d’oro rive-stono la Cappella di San Venceslao costruita dal Parler a metà del 1300. Peccatonon avere più tempo per esplorare meglio questo luogo, scendere nelle cripte, vi-sitare tombe, attraversare sale con la meticolosità un po’ pedante del viaggiatoredi professione. Senza orari e senza regole. C’è però il tempo per una breve incur-sione nel monastero di Strahov, la bianca costruzione sulla collina di Hradcanyche con le guglie della cattedrale costituisce la più tipica veduta di Praga e, vistada Mala Strana, troneggia lassù come una gigantesca torta degli sposi! Puntiamosubito sulla biblioteca che conta ben 140000 volumi! Nella sala più vecchia, detta“teologica”, lignee bacheche barocche arrivano a un soffitto a galleria affrescatocon immagini allegoriche del Nuovo Testamento, una folla di figure capriolantifra nuvole e cieli azzurri. E a terra l’immensità di questa sala e del sapere concen-trato nei suoi libri si amplifica in una serie di mappamondi di provenienza olan-dese. Nella sala “filosofica” che ci congeda, si arriva attraverso un corridoio in cui,tra gli altri, 68 volumi documentano le piante legnose del paese. Ogni volume èdedicato a un albero con il cui legno è fatta la copertina.

Girando per le stradine tagliate dal sole che circondano il Castello, per-corriamo “la viuzza d’oro” o “vicolo degli alchimisti” che nelle loro casettetentavano di produrre la pietra filosofale nonché elisir di lunga vita e oro perl’imperatore Rodolfo II.

Ed ecco, al N.22, una delle case abitate qui a Praga da Kafka, lo scrittorepiù rappresentativo dello spirito di questa città ma anche dello spirito di cia-scuno di noi.

Basta distogliere gli occhi dalle quinte dentro le quali si muovono i suoipersonaggi, dal Castello, dal tribunale o dalla stanza in cui Gregor Samsa di-venta un insetto, per percepire un male comune.

È ancora Ripellino a notare che “con rimandi kafkiani si può rinvenire lostesso disagio di creatura sui margini, in ogni creatura praghese, straniera nella suaterra e soggetta agli abusi di autorità inaccessibili, a una solerte e sfuggente inqui-sizione, che scruta e braccheggia e manipola l’uomo... di lui decide una burocraziamisteriosa, a lui, si chiami Josef Svejk oppure Josef K, non resta che cercar sotter-fugi…..per passare attraverso il soffocante rituale di regole e di imposizioni”.

Che sia anche per questo che a Praga ci si sente a casa?

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L’ANIMA AFFOGATA NEL VINO.Il vino, la disperazione e la morte nelle Novelle per un anno di Pirandello

di Marco Chiariglione

In alcune Novelle per un anno Pirandello tratta di vino, più o meno di-rettamente, attribuendo ad esso, nella maggior parte dei casi, funzioni e signi-ficati rilevanti.

Le funzioni che il vino assume all’interno delle Novelle paiono moltepli-ci. Da una parte esso diviene una sorta di tramite verso la morte, in quanto unodei vizi che scaturiscono dalla disperazione e conducono a disfatta, suicidioe omicidio, oppure, all’opposto, in quanto esso sembra assumere connotati qua-si medicinali, di conforto (“Viatico”), rispetto alla trista condizione umana1. Dal-l’altra parte il vino è funzionale ad alcune parodizzazioni del sacramento eu-caristico.

È da intendersi che tali aspetti spesso coesistono all’interno delle novel-le che si andranno a indagare, tuttavia il motivo della disperazione per la mi-seria della vita dell’uomo, incapace di conciliare sogni e realtà, costituisce il fon-damento stesso dell’ispirazione pirandelliana, e il vino, che con tale dispera-zione pare talvolta persino identificarsi, diviene una sorta di vero e proprio tra-mite verso la morte, che è sia fisica – quella dell’omicidio ma soprattutto delsuicidio –, sia dell’anima, che quella fisica determina e precede.

***

Del vizio di bere vino quale causa ma soprattutto conseguenza della di-sperazione, dovuta a una vita abbattuta dall’insuperabile contrasto tra sognie realtà, vertono in particolare le novelle Vittoria delle formiche, E due!, Chi fu?e Donna Mimma.

Nella brevissima Vittoria delle formiche2 l’autore mostra, come soventeaccade nelle proprie novelle, il resoconto della capitolazione, della sconfitta di

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1 Lo stesso Pirandello nell’Avvertenza a ciascuno dei primi tredici volumi dell’edizione Firenze, Bem-porad, 1922-1928, delle Novelle per un anno a proprio modo – cioè con quella sua malinconica esofferente ironia – si scusava con i lettori per la propria troppo amara e triste concezione del mon-do e della vita; cfr. L. Pirandello, Avvertenza, in Note ai testi e varianti, in Novelle per un anno, acura di M. Costanzo, premessa di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1985, vol. I, tomo II, p. 1071: “L’au-tore delle Novelle per un anno spera che i lettori vorranno usargli venia, se dalla concezione ch’egliebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti pic-coli specchi che la riflettono intera”.2 L. Pirandello, Vittoria delle formiche, in Una Giornata, in Novelle per un anno, a cura di M. Costan-zo, cit., 19972, vol. III, tomo I, pp. 702-708 (il testo della novella – già pubblicata in “La lettura”, feb-braio 1936 – riproduce, con varianti, quello dell’edizione de Una Giornata, Milano, Mondadori, 1937del XV volume delle Novelle per un anno).

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un uomo e quindi la rappresentazione del suo tragico epilogo3. I “pensieri e irimorsi” – diffusamente descritti con la consueta cura per l’indagine psicolo-gica e per quell’efficacissima analisi delle più oscure e recondite ombre cela-te tra delle pieghe dell’animo umano4 – vengono figurati quali surreali “formi-che”5, descritte come “piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee”6, checostituiranno il delirante pretesto per quella che, al di fuori della prospettivaallucinata della narrazione, nient’altro è che la descrizione di un disperato sui-cidio. Interessante è che il vino, insieme alle donne e al gioco d’azzardo, sia ad-ditato quale “distrazione” definita prima “piccola” poi, rettificando, “non pic-cola né passeggera”7, cioè come uno dei vizi che hanno determinato il decadi-mento e la corruzione del protagonista, che resta – caso piuttosto insolito nel-le novelle pirandelliane – anonimo:

Era inutile che cercasse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confes-sarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come un vero porco, ecco, cosìdoveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco8.

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3 Si vedano in proposito, tra le tante, almeno le novelle che in qualche modo di vino trattano o cheperlomeno ad esso accennano, di cui diremo: Il “fumo”, E due!, Acqua amara, Sole e ombra, Soprae sotto, Il coppo, Un po’ di vino, Donna Mimma, L’uccello impagliato, Chi fu?; per non parlare poidelle opere teatrali e dei romanzi.4 Cfr. L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., passim.5 “Formiche” che significativamente danno titolo alla novella stessa. 6 L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., p. 706: “Erano formiche piccolissime e della più lieve esi-lità, fievoli e rosee, che un soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne soprav-venivano da tutte le parti; e il da fare che si davano; l’ordine nella fretta; queste squadre qua, que-st’altre là; viavai senza requie; s’intoppavano, deviavano per un tratto, ma poi ritrovavano la stra-da, e certo s’intendevano e consultavano tra loro”. Evidentemente si tratta di una descrizione tan-to allucinata quanto surreale delle formiche per figurare quelle ansie e agonie che tormentavanoil protagonista. Tale identità viene persino dichiarata direttamente dall’autore una volta che, nar-rando di come esse passeggiassero sul corpo dello stesso protagonista, il quale peraltro già tutti“sapevano pazzo” (ivi, p. 708), identificava tali formiche con i pensieri e i rimorsi che – appunto –lo assalivano impedendogli di dormire: “E ad un certo punto ecco che si vide uscire dalle manichedella camicia su quelle mani penzoloni le formiche, le formiche che dunque sotto la camicia gli pas-seggiavano sul corpo come a casa loro. Ah, perciò forse la notte lui non poteva più dormire e tut-ti i pensieri e i rimorsi lo riassalivano” (ivi, p. 707). I riferimenti, le figurazioni e i procedimenti psicoanalitici, in un’epoca tanto cruciale, sembrereb-bero piuttosto evidenti, persino in qualche modo pionieristici. Si ricordi che, anche a seguito del-la malattia mentale della moglie, Pirandello approfondì lo studio sui meccanismi della mente e sul-l’analisi del comportamento sociale nei confronti della malattia mentale, avvicinandosi sin da gio-vane alle teorie dello psicologo Alfred Binet e, successivamente, alle nuove teorie psicanalitiche diSigmund Freud.7 Ibidem: “Non ci poteva credere! Uno dopo l’altro s’era lasciati portar via dagli usuraj i poderi, euna dopo l’altra le case, per poter disporre d’un po’ di danaro di nascosto dalla moglie, per pagar-si qualche piccola passeggera distrazione (veramente, non piccola né passeggera; era inutile che cer-casse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per annicome un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco) e gli era ba-stato che la moglie non si fosse ancora accorta di nulla, per seguitare a vivere come se neppur luisapesse nulla della rovina imminente; e sfogava intanto le bili e le smanie segrete sul figlio inno-cente che studiava il latino”.8 Ivi, p. 704. Cfr. in proposito all’espressione “Aveva vissuto […] come un vero porco” la novella IlSignore della Nave, in Candelora, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19972, vol. III,tomo I, p. 427, e la commedia Sagra del Signore della Nave, in L. Pirandello, Diana e la Tuda, Sagradel Signore della Nave, a cura di R. Alonge, Milano, Mondadori, 1993, p. 107.

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Ma il “vino”, insieme al “giuoco”, è una giunta riportata nel testo dell’edi-zione delle Novelle per un anno rispetto a quello dattiloscritto con correzio-ni autografe a penna dell’autore, in cui il vizio era circoscritto alle donne (“Ledonne! le donne!”)9. Si deduce pertanto un’intenzione particolare e una rifles-sione che ha determinato l’autore a identificare proprio nel vino uno dei viziche hanno spinto al suicidio il protagonista della novella.

Sempre a un suicidio, questa volta esplicitato, di un giovane ventiseien-ne – Diego Bronner – disperato e rovinato per “un fallo di gioventù”, era già de-dicata la novella E due!10, ulteriormente impreziosita dalla commuovente figu-ra dell’anziana madre. Molti sono i tratti comuni con Vittoria delle formichequali il silenzio persino accresciuto dallo “zirlio” dei grilli intanto che non simuoveva una foglia11 e il cielo plumbeo12 dei luoghi in cui maturano e si svol-gono i suicidi che paiono consuonare con un disperato paesaggio dell’animadei protagonisti, ma soprattutto già le cause del decadimento cioè il vino, ledonne e il gioco d’azzardo:

Giovinastri, si sa! Invitati a casa da questo forestiere, riccone e scostuma-to, avevano fatto pazzie: vino, donnacce… s’ubriacavano… Ubriaco, quel-lo voleva giocare a carte, e perdeva13.

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9 Cfr. redazione dattilografata dall’autore di Vittoria delle formiche con correzioni autografe a pen-na, dalle Carte degli Eredi Stefano Pirandello, raccoglitore n. 32, cartellina verde, “Novelle. Dattilo-scritti” (cfr. anche raccoglitore n. 31, cartellina bianca, “Soggetti per novelle”), riportata in: L. Piran-dello, Vittoria delle formiche, in Note ai testi e varianti, cit., 19972, vol. III, tomo II, pp. 1433-1437:1435: “Doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni e anni come unvero porco, ecco, così sì doveva dire, come un vero porco; le donne! le donne!”. Cfr. L. Pirandello,Carteggi inediti con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo, a cura di S. Zap-pulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, p. 250 e nota 3; p. 252; p. 253 e nota 1; p. 255 e nota 2.10 L. Pirandello, E due!, in Scialle nero, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19965, vol.I, tomo I, pp. 176-185. Il testo della novella – già pubblicata con il titolo Strigi in “Il Marzocco”, 29settembre 1901 – riproduce, con varianti, quello con il titolo definitivo E due! dell’edizione de Scial-le nero, Firenze, Bemporad, 1922 del I volume delle Novelle per un anno.11 Cfr. ivi, p. 176: “Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l’argine. Solo, nel gran silenzio, s’udi-va un lontanissimo zirlio di grilli e – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui,con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto. […] Il Bronner stet-te un pezzo col volto in su a contemplar quella fuga, che animava con così misteriosa vivacità il si-lenzio luminoso di quella notte di luna”. Cfr. L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., p. 705 e 707:“Lasciava il pagliericcio; rinunziava a dormire; tornava a sedere sulla soglia della catapecchia; e lìil silenzio smemorato della campagna immersa nella notte, a poco a poco, lo placava. Il silenzio,non che turbato, pareva accresciuto dal remoto scampanellio dei grilli che veniva dal fondo dellagrande vallata”; e: “L’aria era immota; in attesa della pioggia che pendeva sulla campagna, in quelsilenzio sospeso che precede la caduta delle prime grosse gocce. Non crollava foglia”.12 Cfr. L. Pirandello, E due!, cit., p. 176 e 185: “Correva per il cielo una trama fitta d’infinite nuvo-lette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un miste-rioso convegno, e pareva che la luna, dall’alto, le passasse in rassegna”; e: “Continuava per il cielola fuga delle nuvolette lievi, basse, cineree”. Cfr. L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., p. 707:“Il cielo, durante la notte, s’era incavernato, e la pioggia pareva imminente”.13 In realtà a ubriacarsi sembrerebbe esser stato soprattutto il “Russo”, cioè la vittima di Diego edei “suoi compagni di crapula”, che quindi lo truffavano giocando a carte; cfr. ivi, p. 181: “Ubria-co, quello voleva giocare a carte, e perdeva…”; e ivi, p. 183: “Anch’io, va’ là, con gli altri. Era unospasso! E allora venivano le carte da giuoco. Giocando con un ubriaco, capirai, facilissimo barare…[…] Così… scherzando… Oh, questo, te lo posso giurare. Là risero tutti, giudici, presidente; finan-che i carabinieri; ma è la verità. Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scher-

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Dunque il vino nella novella, oltre a essere uno dei vizi che imbruttisce, di-viene anche il fondamentale strumento della sprovveduta truffa di Diego e “deisuoi compagni di crapula” ai danni del “Russo”, la loro sciocca vittima. A segui-to di tale truffa Diego Bronner subirà un imbarazzante processo14 e finirà in car-cere per tre anni15, la qual cosa in realtà costituisce solo apparentemente la cau-sa e l’origine della sua rovina. Infatti un passo della stessa novella mostra espli-citamente e significativamente che l’intento autodistruttivo del comportamentodel protagonista preesisteva, affermando che egli già da prima intendeva “affo-gare nel bagordo” il proprio sogno giovanile di scrittore16, per l’impossibilità direalizzarlo a causa dell’ostilità delle cose del mondo (che appena vengono accen-nate), cioè per l’incapacità o l’impossibilità di conciliare il sogno con la realtà. Iconseguenti sentimenti di disillusione e frustrazione sfoceranno allora necessa-riamente nel naufragio dell’anima nei vizi: vino, donne e gioco d’azzardo, vale adire in acque oscure, anzi “nere”17, proprio come quelle del Tevere in cui si get-terà lo stesso sventurato Diego Bronner18:

S’era proposto di non leggere più, di non più scrivere un rigo; e anda-va lì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere insé, per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poichéle tristi necessità della vita gl’impedivano d’abbandonarsi a esso, comeavrebbe voluto.19

E si noti che la prima redazione della novella, intitolata Strigi20 – pubbli-cata su “Il Marzocco”21 – proprio recita che il protagonista intendeva “uccide-re in sé la propria anima”:

Si era proposto di non più leggere, di non più scrivere un rigo; e andavalì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé lapropria anima, per affogare nel bagordo il suo bel sogno giovanile, poi-

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zare. Non ci pareva una truffa. Erano i denari d’un pazzo schifoso, che ne faceva getto così… E delresto, neppure un centesimo ne rimaneva poi nelle nostre tasche: ne facevamo getto anche noi, comelui, con lui, pazzescamente…”. 14 Cfr. ivi, p. 181: “L’accusa a tradimento dei suoi compagni di crapula, quel processo scandaloso,che aveva sollevato tanto rumore e infamato tanti giovanotti, scapati, sì, ma di famiglie onorate eper bene”.15 Cfr. ivi, p. 182: “Che è stato? Niente. Sono stato tre anni «in villeggiatura». Parliamo d’altro…”.16 Del giovanile sogno di scrittore si apprende indirettamente nel corso della narrazione, attraver-so i discorsi diretti e indiretti della madre; cfr. ivi, pp. 181 e 184: “Il suo figliuolo era tanto bravo!sapeva tante cose! scriveva, prima, anche nei giornali…”; e: “– Perché non lavori? perché non scri-vi più, come facevi prima?”.17 Cfr. ivi, pp. 176-177: “S’udiva […] – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui,con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto. […] Forse qualcuno,come lui, s’era messo a contemplare […] il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell’acqua nera fluen-te”.18 Cfr. ivi, p. 185.19 Ivi, pp. 183-184.20 Le “strigi” sono le civette o in genere gli uccelli rapaci notturni, verosimilmente qui a indicare uncattivo augurio e un presagio di morte. Improbabile che si tratti degli “strigi” intesi quali pesci d’ac-qua dolce. Cfr. le voci dedicate a Strige, in S. Battaglia, Grande dizionario della Lingua Italiana, To-rino, UTET, vol. XX, 2000, p. 359.21 Cfr. la nota 10 di questo studio.

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ché le tristi necessità della vita gl’impedivano d’abbandonarsi a lui, com’egliavrebbe voluto.22

Quindi il sogno era già stato ucciso in sé, insieme all’anima stessa. Si po-trebbe dire che il più era già stato fatto, non essendo ormai più possibile ri-prendere la vita (come invece sperava la madre, anche a costo della propria).La morte fisica era ormai ineluttabile e persino la parte meno gravosa, tantoche il primo suicidio che il giovane si figura di aver visto23, nient’altro rappre-senterebbe che la prefigurazione del proprio.

Chi fu?24, altra novella che tratta del vizio di bere vino, è piuttosto ati-pica rispetto alla produzione novellistica pirandelliana – difatti è una di quel-le non comprese dall’autore nelle Novelle per un anno e andrà poi in succes-sive edizioni a far parte dell’Appendice25 – particolarmente per i tratti spessoallucinati della narrazione e per il relativo sviluppo degno quasi di una sceneg-giatura teatrale o cinematografica, mostrando un’ispirazione sospesa tra l’oni-rico-psicanalitico26 e l’orrorifico.

Si tratta di una sorta di deposizione, si deduce a degli ufficiali di poli-zia, del personaggio protagonista, l’“ottimo giovane” Luzzi, in riferimento aifatti e alle cause di quello che si scoprirà essere un omicidio, precisamente quel-lo della madre di Tuda, che è la promessa sposa da cui questi era stato abban-donato pochi mesi prima, precipitandolo nella disperazione. Il movente sareb-be stato il disonore di Tuda, a causa della madre, che gli sarebbe stato svela-to dal defunto di lei padre Jacopo Sturzi.

Il tema dominante della narrazione, quasi un leitmotiv, è il vino: sin dalprincipio il protagonista pietosamente spiega l’infrangersi – ancora una volta– del proprio sogno: “Il sogno mio, il sogno mio di tant’anni era crollato!”27, dacui gli derivava un dolore alla testa che gli dava “il farnetico, il capogiro e i co-nati della vomizione”28, tuttavia nega le accuse di essersi “dato al vino, per di-menticare”29 – riconoscendo piuttosto d’aver ecceduto nelle “facili avventure”30

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22 Redazione della novella con il titolo Strigi in “Il Marzocco”, 29 settembre 1901, riportata in: L. Pi-randello, Strigi, in Note ai testi e varianti, cit., 1985, vol. I, tomo II, pp. 1156-1160: 1159, i corsivisono nostri. Cfr. A. Orvieto, Prose, a cura di C. Pellegrini, con appendice di lettere di Pascoli, Piran-dello, D’Annunzio, Capuana, Cecchi, Cardarelli, a cura di R. Fedi, Firenze, Olschki, 1979, lettera VIII,p. 178 e nota 1; e L. Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 285 e nota 1; p. 286 e nota 1.23 Cfr. L. Pirandello, E due!, cit., pp. 176-178 e 184-185.24 L. Pirandello, Chi fu?, in Appendice, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19972, vol.III, tomo II, pp. 986-992 (il testo della novella – poi pubblicata nell’Appendice dell’edizione: L. Pi-randello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, vol. II,1938 – riproduce quello pubblicato in “Roma di Roma”, I, 59, 27-28 giugno 1896).25 Si vedano in proposito ivi, pp. 1445-1446 e ivi, 1985, vol. I, tomo II, pp. 1071 ss.26 Cfr. in proposito al secondo capoverso della nota 6 di questo studio.27 L. Pirandello, Chi fu?, cit., p. 986.28 Ibidem: “Avevo qui un male, qui, alla testa, che mi dava il farnetico, il capogiro e i conati dellavomizione”.29 Ibidem: “E mente per la gola chi afferma che a Napoli mi fossi dato al vino, per dimenticare”.30 Ibidem: “Invece, m’ero dato alle… sì, alle facili avventure, scioccamente, per prendermi una rivin-cita, anzi una vendetta della coscienza, della fedeltà, dell’astinenza mia di tant’anni. Questo sì; ein questo, ne convengo, ho ecceduto”.

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– e precisa di non essere affatto ubriaco31 e ancora, come ripeterà nuovamen-te32, di non aver mai bevuto vino: “Vino, non ne ho mai bevuto”33.

Si parla dunque del vizio di bere vino, che viene riconosciuto persino piùforte della morte, attraverso le parole del morto-vivente Jacopo Sturzi, per ilquale rappresenta una vera e propria pena (“È una condanna”) con tratti di con-trappasso (“Più bevo, e più ho sete”):

– Sì, son morto, Luzzi – soggiunse; – ma il vizio, capisci, è più forte! Mispiego subito. C’è chi muore maturo per un’altra vita, e chi no. Queglimuore e non torna più, perché ha saputo trovar la sua via; questi inve-ce torna, perché non ha saputo trovarla; e naturalmente la cerca giustodove l’ha perduta. Io, per esempio, qui, all’osteria. Ma che credi? È unacondanna. Bevo, ed è come se non bevessi, e più bevo, e più ho sete. Poi,capirai, non posso concedermi troppe larghezze…34

Allora Luzzi viene costretto a bere vino fino a ubriacarsi dal “morto”, alquale non è possibile ribellarsi, così come è impossibile ribellarsi al vizio stes-so, implicitandone l’irresistibilità e l’inesorabile forza:

E m’attirò nell’osteria. Lì mi forzò a bere, a ribere, certamente con l’in-tenzione d’ubbriacarmi. Tanto era il mio stupore e tanto lo sgomento,che non seppi ribellarmi. Non bevo vino; eppure ne bevvi non so più quan-to. Ricordo: una nube soffocante di fumo; il tanfo acuto di vino. […]Anche bevendo mi guardava. A un tratto si riscosse e cominciò a par-larmi a bassa voce. Già la testa mi girava pei vapori del vino; ma quel-le parole strane sulle cose della vita e della morte, me la facevano gi-rar peggio35.

Quindi il tragico epilogo mostra Luzzi, ormai sopraffatto dall’ubriachez-za e dalla disperazione, che viene condotto sulla scena dell’assassinio da Ja-copo Sturzi36 – “come un fantasma d’incubo, che mi trascinasse verso un pre-cipizio” –, e si risolve nella repentina descrizione del delitto, che l’allucinazio-ne attribuisce proprio al “morto”, al “fantasma”, cioè lo Sturzi:

Cempennante, ebbro, con la testa in fiamme e più pesante del piombo, iogemevo: – Tuda? Tuda e la madre? – La figura di lui ammantellato mi siconfondeva nell’ombra violenta con l’ombrello ch’egli sorreggeva alto con-

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31 Cfr. ibidem: “Ubbriaco, io? Ma già, che meraviglia, se ora si tenta di far credere che mi finga paz-zo per iscusarmi?”32 Cfr. ivi, p. 990: “Non bevo vino”.33 Ivi, p. 986. Forse tale insistita ripetizione è volta a suggerire in qualche modo l’insinuarsi della“nuova” follia.34 Ivi, p. 989.35 Ivi, pp. 990-991.36 La figura ammantellata di Jacopo Sturzi, si badi, è descritta “confondersi nell’ombra violenta conl’ombrello”, suggerendone l’irrealtà e dunque che si tratti in verità di un’illusione, di un miraggio,di un autoinganno, di un’allucinazione; cfr. ivi, p. 992.

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tro la pioggia, e diveniva enorme agli occhi miei, come un fantasma d’in-cubo, che mi trascinasse verso un precipizio. E là, con uno spintone, micacciò dentro il portoncino bujo, urlandomi all’orecchio: – Va’, va’, da miafiglia!…Ora io ho qui, qui nella testa, soltanto gli urli di Tuda avviticchiata al miocollo, urli che mi spezzavano il cervello… Oh! fu lui, torno a giurarlo, fului, Jacopo Sturzi!… Lui, lui strangolò quella strega che si spacciava perzia… Se non l’avesse fatto lui, però, l’avrei fatto io. Ma l’ha strozzata luiperché ne aveva più ragione di me.Questa è la verità. Io ho le mani nette.37

Si ritrova dunque in questa novella piuttosto esplicita l’identificazionedel vino con il vizio, ma ancora con la disperazione e con la morte, questa vol-ta inferta a chi fu causa della propria rovina, cioè la lasciva38 e spregiudicatamadre di Tuda (la colpa della madre quale causa di rovina si riscontra – comevedremo – anche nella novella Sopra e sotto).

Allora la vera risposta alla domanda posta nel titolo della novella “Chifu?” – cioè “chi è stato?” –, a fondamento del racconto stesso, è proprio costi-tuita da tale identificazione: sono stati allo stesso tempo il vino, il vizio, la di-sperazione, e pesino la morte stessa i colpevoli, vale a dire tutti i sentimentiche invadevano la misera anima di Luzzi – evidentemente il reale assassino –che nella sua follia e palpabile allucinazione si era schizofrenicamente sdop-piato nell’alter ego del defunto Jacopo Sturzi39.

Ancora tratta del bere vino quale vizio, suggerendone i rilevanti nessi colmotivo della disperazione, la novella Donna Mimma.

Donna Mimma, il drammatico personaggio protagonista dell’omonimanovella e della stessa raccolta che la comprende40, assume i tragici connotatidell’impossibilità del ‘vecchio’ di potersi in qualche modo adattare al ‘nuovo’e trovarvi luogo. Infatti il disperato tentativo dell’anziana “ostrètica”41 di ade-guarsi ai nuovi tempi e alla scienza conduce, nonostante i propri immani sfor-zi, all’inesorabile sconfitta e all’impossibilità di ritrovare il proprio posto cuiera stata costretta a rinunciare. La conseguente frustrazione del personaggiosi manifesta in quotidiane scenate contro il farmacista e la giovane ostetricache è venuta “a rubarle il pane”42. E ancora, si noti, l’assoluta e terribile dispe-razione di donna Mimma è attribuita da qualcuno (“C’è chi dice che”43), non sen-

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37 Ibidem.38 Gli adulteri della moglie sono adombrati mediante una più o meno esplicita parafrasi da partedi Jacopo Sturzi, il marito defunto; cfr. ivi, p. 991. 39 Cfr. in proposito ivi, pp. 988-989.40 L. Pirandello, Donna Mimma, in Donna Mimma, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit.,19965, vol. II, tomo I, pp. 597-623 (il testo della novella – già pubblicata in “La lettura”, gennaio 1917;in L. Pirandello, Un cavallo sulla luna, Milano, Treves, 1918; e nell’edizione de Donna Mimma, Fi-renze, Bemporad, 1925 del IX volume delle Novelle per un anno – riproduce, con varianti, quellodell’edizione: L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, cit., vol. II, 1938).41 Cfr. ivi, pp. 618-619.42 Ivi, p. 623: “Invelenita contro tutto il paese, col cappellaccio in capo, ogni giorno ella scende inpiazza, ora, a fare una scenata davanti la farmacia, dando dell’asino al dottore e della sgualdrinel-la a quella ladra Piemontesa che è venuta a rubarle il pane”.43 Ibidem.

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za qualche implicita malignità, al fatto che si sia “data al vino”44 – cioè beva,si ubriachi – “perché dopo queste scenate, ritornando a casa, donna Mimma pian-ge, piange inconsolabilmente; e questo, come si sa, è un certo effetto che il vinosuol fare”45. Tale considerazione, indirettamente attribuita alla gente del pae-se ormai ostile, pare in realtà velare e allo stesso tempo esprimere lo strettis-simo rapporto che Pirandello instaura fra i termini ‘disperazione’ e ‘vino’. Il pian-to infinito e inconsolabile dello sconfitto viene infatti attribuito all’ubriachez-za, considerandolo nient’altro che un preciso e determinato effetto del vino.È come se in qualche modo l’autore più o meno direttamente additasse una sor-ta di identità tra vino e disperazione, inferendone i nessi causali.

*

D’altra parte il vino, seppure con modalità diversificate, assume i con-notati di una sorta di medicina o “viatico” per la disperazione umana all’inter-no delle novelle Sopra e sotto, L’uccello impagliato, Certi obblighi, La paura delsonno, Sole e Ombra, Il coppo, Un po’ di vino e Il “fumo”. Tuttavia l’ambito èsempre quello desolante dell’inaridimento e morte dell’anima, dovuto alla ca-duta dei sogni e delle aspirazioni di fronte al contrasto con la realtà della vita,che costantemente si risolve in disfatta, morte e sconfitta, ma con l’unica ri-levante eccezione de Il coppo, come si mostrerà.

Nella novella Sopra e sotto46 il vino e la conseguente volontaria dispera-ta ubriacatura – dei quali all’interno del racconto sono diffusi cenni costantie rilevanti47 – assumono un ruolo fondamentale e predominante, dal momen-to che costituiscono la strana medicina, la strana cura, attraverso cui il profes-sor Carmelo Sabato intende liberarsi della propria anima, che più non vuole,poiché ormai insopportabile e insostenibile: perciò si riempie di vino, per scac-ciarla in tal maniera da sé:

– Enrichetto… Enrichetto mio… no, per carità… non mi dire che ho un’ani-ma immortale… Fuori! fuori! Ecco, sì, ecco quello che io dico: fuori; saràfuori l’anima immortale… e tu la respiri, tu sì, perché non ti sei ancora gua-stato… la respiri come l’aria, e te la senti dentro… certi giorni più, certigiorni meno… Ecco quello che io dico! Fuori… fuori… per carità, lascialafuori, l’anima immortale… Io, no… io, no… mi sono guastato apposta pernon respirarla più… m’empio di vino apposta, perché non la voglio più,non la voglio più dentro di me… la lascio a voi… sentitevela dentro voi…io non ne posso più… non ne posso più…48

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44 Ibidem.45 Ibidem.46 L. Pirandello, Sopra e sotto, in La rallegrata, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit.,19965, vol. I, tomo I, pp. 550-558 (il testo della novella – già pubblicata in “Corriere della Sera”, 29marzo 1914; in L. Pirandello, La trappola, Milano, Treves, 1915; e nell’edizione de La rallegrata, Fi-renze, Bemporad, 1922 del III volume delle Novelle per un anno – riproduce, con varianti, quellodell’edizione: L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, cit., vol. I, 1937).47 Cfr. ivi, passim.48 ivi, pp. 554-555.

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Il tono della novella, che pare in principio piuttosto leggero e scherzo-so, si appesantisce progressivamente sino alla drammatica rivelazione finale,che viene espressa con quell’amaro sorriso, invero qui ridotto ormai ad una smor-fia, tipico dell’umorismo pirandelliano49. Il disquisire tra i due principali per-sonaggi, l’anziano professor Sabato e il giovane professor Enrico Lamella, ver-te circa la grandezza o la piccolezza dell’uomo di fronte alle stelle (e all’immen-sità dell’universo, quindi) e in qualche modo, anche se non esplicitamente, sirisolve in un clamoroso e irriverente quanto ironico e insieme umoristico pseu-do-sillogismo pronunziato dal primo: “Le stelle sono grandi, io sono piccolo,e dunque m’ubriaco”50.

Ma già dal principio, mascherata dal registro comico – che poi si scopri-rà amaramente umoristico –, si trova in estrema sintesi la dichiarazione di quel-lo che si potrebbe chiamare il ‘senso della vita’ per i due personaggi – che pe-raltro in gran parte costituisce e spiega il significato della novella – espressoproprio attraverso ciò che essi bevono: vino il primo, perché voleva morire, bir-ra il secondo, perché non voleva morire:

Vino, il professor Sabato: vino, fino a schiattarne: voleva morire. Il profes-sor Lamella, birra: non voleva morire.

Ancora una volta il silenzio è la cornice, l’interludio e la premessa del-l’amara riflessione, interrotta – oltreché da “qualche remoto rotolio di vettu-ra” – nuovamente da “un curioso strido – zrì” forse di un pipistrello51, moltosimile allo “zirlio” delle novelle di cui sopra.

I motivi della disperazione vengono mostrati nell’ultima parte del rac-conto attraverso le disilluse parole del professor Sabato, le quali delineano atratti essenzialissimi la vicenda: la “perdizione” delle due figlie a causa dellacondotta della madre e moglie, di fronte al cui cadavere ora questi, ubriaco, erastato (ri)condotto in occasione della veglia funebre.

La corruzione delle figlie è inferita dapprima attraverso la “canzonettac-cia francese: «Mets-la en trou, mets-la en trou…»”52 e in particolare quella del-la seconda di esse, la quale il saccente professor Lamella avrebbe voluto persé: “Giovannina… Vanninella, sì… Célie… ah ah ah… Célie Bouton… La volevitu…”53. La “canzoncinella” esprime un esplicito quanto evidente invito all’at-to sessuale, presupponendo una corruzione della figlia in tal senso, conferma-to poi dal fatto che ella aveva cantato all’Olympia tale canzone: “L’hai sentitaall’Olympia? Mets-la en trou, mets-la en trou…”54. L’Olympia era un teatro di

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49 Cfr. L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio, in Opere diLuigi Pirandello, Milano, Mondadori, vol. VI, 19652, pp. 15-160.50 L. Pirandello, Sopra e sotto, cit., p. 554. Sarà plausibilmente da riconoscere in proposito anche unparodico richiamo al proverbiale “Cogito ergo sum” di Pascal, autore citato poco prima all’internodella novella stessa: “Ah, tu così ragioni? Questo, prima di tutto, l’ha detto Pascal. Ma va’ avanti!va’ avanti, perdio! Dimmi ora che significa” (ivi, p. 553).51 Cfr. ivi, pp. 550 e 552-553: “Dalle case, dalle vie della città non saliva più, da un pezzo, nessunrumore. Solo, di tratto in tratto, qualche remoto rotolio di vettura”, e: “Un improvviso, curioso stri-do – zrì – ferì il silenzio succeduto vastissimo all’ultima domanda del Lamella. […] Era stato forselo strido d’un pipistrello”.52 Ivi, p. 556.53 Ivi, p. 557.54 Ibidem.

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Parigi, costruito da Josep Holler (ideatore anche del Mulin Rouge) nei cui fa-mosi interni rossi si esibivano vedette e ballerine di can can55. Si deduce per-tanto, e una simile associazione doveva essere piuttosto automatica e imme-diata per i lettori dell’epoca, che proprio una tale equivoca vedette56 dovesseesser divenuta la figlia – in tal modo “corrotta” – del professor Sabato, al qua-le ella aveva peraltro mandato “un po’ di denaro”, e questi non l’aveva “riman-dato”, anzi lo aveva adoperato per comperare la birra proprio per quell’“idealista”di Lamella, in una chiusa dall’umorismo feroce:

– Sì… e sai? Vanninella m’ha… m’ha anche mandato un po’ di danaro…e io non gliel’ho rimandato, sai? Sono andato alla Posta, a riscuotere ilvaglia, e…– E…?– E ci ho comprato la birra per te, idealista.57

Anche il nome d’arte della figlia, Célie Bouton, potrebbe considerarsi un“nome parlante” in tal senso – tradotto si potrebbe rendere come “Bocciolo Mo-nello” – con piuttosto evidenti allusioni oscene. Un’ombra di questa vicendaperaltro, insieme allo stesso nome Célie Bouton – riferita però al personaggiodella madre – si ritrova nella commedia napoletana in tre atti L’abito nuovo diEduardo De Filippo la cui sceneggiatura fu scritta a quattro mani dallo stessoDe Filippo e da Pirandello58. Lo spirito delle due opere, la novella e la comme-dia, sembrerebbe in qualche modo consimile, dal momento che in quest’ulti-ma si biasima la svendita della dignità per la ricchezza59.

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55 L’Olympia è uno storico teatro di Parigi ed è il più antico music hall ancora in attività della capi-tale francese. La prima vedette a esibirvisi fu La Goulue, insieme con il suo gruppo di ballerine dican-can. In seguito accolse i maggiori artisti francesi. La gloria del teatro, che poteva contenere sinoa duemila persone, crebbe per poi arrestarsi nel periodo fra il 1929 e il 1944, in cui la sala vennetrasformata in un cinema. 56 Si tratta di una stella, come sarebbe divenuta Vanninella quale vedette dell’Olympia, ben diver-sa da quelle di cui filosofeggiava Lamella, come indirettamente in una feroce battuta sembrerebbestigmatizzare il professor Sabato: “– Va’ a guardare le stelle… va’ a guardare le stelle…” (L. Piran-dello, Sopra e sotto, cit., p. 558).57 Ibidem.58 Cfr. L. Pirandello e E. De Filippo, L’abito nuovo. Una commedia in tre atti, in Le commedie di Eduar-do, a cura di A. Ottai e P. Quarenghi, coordinamento L. De Filippo, Roma, L’Espresso, 2007, DVD VI(che riproduce l’edizione televisiva in bianco e nero del 1964), cito dalla copertina: “Lo scrivano Cri-spucci tenta disperatamente di difendere la propria dignità, e quella della figlia, dalla dubbia famadella moglie, che lo ha abbandonato per diventare una stella del circo col nome d’arte di Celie Bou-ton. Tornata improvvisamente a Napoli, la donna muore durante un’esibizione sulla pubblica piaz-za. Deciso a rinunciare a un’eredità che lo disonora e che compromette il buon nome della figlia,Crispucci è oggetto di pressioni interessate da parte di parenti e colleghi. Al ritorno da un viaggio,intrapreso per decidere dell’eredità, Crispucci trova la figlia pronta a una fuga d’amore. Vedendoin lei, abbigliata coi vestiti e i gioielli della madre, la moglie rediviva, lo scrivano muore, infagotta-to in quell’abito nuovo che è il simbolo di una ricchezza recente e, allo stesso tempo, di una digni-tà svenduta. L’abito nuovo, scritta a quattro mani con Pirandello nel 1936, andò in scena [nel 1937al teatro Manzoni di Milano] pochi mesi dopo la morte dello scrittore”.59 La commedia riprende anche la vicenda descritta nell’omonima novella pirandelliana; cfr. L. Pi-randello, L’abito nuovo, in Donna Mimma, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19965,vol. II, tomo I, pp. 624-632; e ancora L. Pirandello, L’abito nuovo, in Note ai testi e varianti, cit., tomoII, pp. 1232 ss.: 1232: “Della novella Eduardo de Filippo trasse uno scenario in dialetto napoletano(nel dicembre 1935: FR [F. Rauhut, Der junge Pirandello, München, Beck, 1964], p. 471). Prima rap-presentazione il 1° aprile 1937: SP II [L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, cit.], p. 1321”.

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Dunque il professor Sabato vuole morire, liberarsi della propria anima,scacciandola empiendosi di vino, in una follia di ubriaco, che tuttavia pare di-ventare l’unica sanità mentale possibile in un mondo ostile e sbagliato, la cuirealtà è incompatibile con i sogni e le aspirazioni dell’uomo. Si tratta di unaprospettiva tristemente volta all’estraniamento, all’annientamento dell’animae alla morte, in cui pare rimanere quale risorsa solamente l’amaro quanto spie-tato e terribile ghigno dell’umorismo.

Di nuovo, nella novella La paura del sonno60, un valore consolatorio as-sume il vino per Saverio Càrzara, costruttore di burattini e perciò chiamato “Magodelle fiere”, protagonista di una curiosa e tragicomica vicenda che mostra lamorte apparente della moglie e quindi la relativa “resurrezione”, tra scene ecommenti sospesi tra il comico e l’umoristico.

Sin dalle prime battute del racconto il vino si afferma essere “di con-forto” agli studi del “Mago”, che tutte le sere leggeva ogni sorta di libri per ispi-rare le proprie creazioni:

Egli, il Mago, ogni sera, vincendo lo stento con la pazienza, leggeva ognisorta di libri: dai Reali di Francia alle commedie del Goldoni, per arricchir-si vieppiù la mente di nuove cognizioni utili al suo mestiere.Gli era di conforto a quello studio un buon fiasco di vino.61

Sempre intento al lavoro il “Mago” forse talvolta beveva un po’ troppo,si asserisce infatti: “Attendeva ora assiduamente al lavoro, senza mai stancar-si. […] S’intratteneva qualche sera un po’ di soverchio col fiasco del vino”62.

Tuttavia il valore consolatorio del vino si manifesta in modo più eviden-te nel corso della veglia funebre della moglie – morta come si diceva solo ap-parentemente – in cui esso viene adoperato, in una scena molto divertente, da-gli amici che con il neo-pseudo-vedovo vegliavano per lenirne il dolore: non soloquello morale ma anche (e soprattutto) quello fisico, il “Mago” infatti “ha maldi denti”:

– Ah, che spasimo qua… – si lamenta questi a tarda notte.– Nel cuore? Eh, poveretto!– No. – Don Saverio accenna alla guancia. – Come se ci avessi un cane ad-dentato.– Scherzi del dolore… – gli risponde uno degli amici. […]– Come vi sentite adesso? – gli domanda uno, di lì a poco.– Ma che! lo stesso… – risponde il Mago. – Arrabbio dal dolore.– Forse, date ascolto a me, un goccetto di vino… – suggerisce il primo, rat-tristato e premuroso.

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60 L. Pirandello, La paura del sonno, in La giara, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit.,19972, vol. III, tomo I, pp. 53-69 (il testo della novella – già pubblicata in “Roma letteraria”, 25 mar-zo 1900; in L. Pirandello, Beffe della morte e della vita, cit. – riproduce, con varianti, quello dell’edi-zione de La giara, Firenze, Bemporad, 1928 del XI volume delle Novelle per un anno).61 Ivi, p. 54.62 Ivi, p. 56.

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E gli altri:– Certo!– Meglio!– Stordisce di più! La notte è così fredda!– Ma vi pare che possa bere? – domanda mestamente don Saverio. – Fanalì morta… Se voi volete, senza cerimonie: di là ce ne dev’essere…Uno degli amici si alza infreddolito e va a prendere il vino, seguendo leindicazioni del vedovo; non per sé, né per gli amici, ma per quel poveret-to che ha mal di denti… Una bottiglia e cinque bicchieri. […]Così, a poco a poco, la bottiglia si votava, ma piano piano, senza glo glo.E finalmente ruppe l’alba.63

(LA SECONDA PARTE DEL SAGGIO SARÀ PUBBLICATA NEL PROSSIMO NUMERO)

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63 Ivi, pp. 59-61.

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UNA VOCE ACCORDATA SULL’ETERNOdi Angelo Mundula

Dopo lungo silenzio ci raggiunge – da chis-sà quali isole vaganti (1) la voce mai perdu-ta di Carmelo Mezzasalma, con un titolo checi appare subito conclusivo di una parabo-la, di un periodo molto intenso e riassunti-vo della vita: Diario di preghiere, perché ognigiorno è giorno di attesa e, appunto, di pre-ghiera, come dire di quotidiano dialogocon Dio. E a ben pensarci, quelle sue “isolevaganti” sono quella sola isola da cui ci hasempre parlato e ci parla Carmelo, quell’iso-la in cui è depositata per sempre la sua setedi sapere e di conoscenza che sempre cul-mina nella conoscenza suprema, nell’isola pereccellenza, della Bellezza e della Verità. Difatto, per nessuno, come per Carmelo, diven-tato oggi com’era facile prevedere, don Car-melo, la poesia è “scala a Dio”. Forse qual-cosa di più: un modo, tra i più alti e nobili,per assecondarne i progetti; in parte, addi-rittura, per attuarli. Non più soltanto uno stru-mento di conoscenza, ma un modo per far-si, con Lui, grazie a Lui e per Sua grazia, crea-tor o quasi Sua longa manus, perché la suagrazia, ricevuta fin dalla nascita, si estendaa tutta la terra, a tutti gli uomini che la abi-tano. Il risultato più coerente, in fondo, «trachi si è trovato a vivere, come la mia gene-razione, un passaggio epocale – nei molti al-tri che ancora incombono – tra una lettera-tura come esperienza di vita e una lettera-tura di mercato, votata unicamente al suc-cesso, alla notorietà, alle cordate di schiera-menti fra Nord e Sud e di poetiche regiona-liste», come ben scrive il Nostro in una suaNota dell’Autore, davvero imprescindibile daltesto poetico. Ben presto egli aveva intuitoe voluto con tutta l’anima che mai l’amoreper la poesia avrebbe potuto soppiantare inlui l’amore per Gesù Cristo, la potenza del-la sua Risurrezione. Come ancora scrive nel-la sua nota: «Il dio cristiano e la poesia do-vevano camminare insieme, mai l’uno sen-za l’altro» Mezzasalma sa, tuttavia, fin d’al-lora, che «per creare fu necessario prima pian-

gere; che non c’è creazione senza dolore; eche, insomma, il canto del Poeta è sempre ac-compagnato e guidato da “Muse dolorose”».Prima che sacerdote, Carmelo Mezzasalmaè un uomo che, del sacro, del divino ha fat-to ragione della sua vita e della sua ricca sto-ria personale così come, più tardi, della poe-sia il suo specchio fedele. E se è vero che«l’anima vive dove ama», la sua anima, an-che poetica, è un’anima sempre in attesa diDio («Come un innamorato / vegliato, ognisera, dal puro silenzio / dell’attesa, ricevosempre / lettere d’amore al crocicchio / diquesto labirinto del tempo …». E’ un amo-re innato, o nato forse ancor prima della na-scita, «fin dal grembo di mia madre» (ci diceCarmelo), per miracolo dell’anima, per mi-racolo di Dio. Tutta la vita ne è, dunque, at-traversata quasi in preparazione, in attesa diquel grande Amore che non solo è la fonteprimaria della vita ma anche – ed è questala prima volta forse che lo si esplicita con tan-ta energia – la fonte primaria della poesia. Equi la poesia religiosa, grazie a Carmelo Mez-zasalma, fa davvero un salto di qualità, pro-ponendo a tutta voce la novità e l’originali-tà del poeta cristiano tout court nei confron-ti di ogni altro poeta. Come Mezzasalma cidice nella stupenda poesia dedicata alla Ma-dre (qui con la maiuscola perché qui maiu-scola e minuscola mirabilmente si fondono),la voce del poeta cristiano è, ab initio e persempre, una voce «accordata sull’eterno».

(1)Si allude ad un precedente libro del Nostro.

Carmelo Mezzasalma, Diario di preghiere,Edizioni Feeria, Panzano in Chianti (FI)2011, € 10,00

DENSITÀ DI VITA E DI SCRITTURAdi Guido Zavanone

Sandro Gros-Pietro è una figura felicemen-te complessa: editore, poeta, instancabile or-ganizzatore culturale, romanziere, saggista,insegnante. Ora si presenta di nuovo nellasua veste originaria e prediletta, quella dipoeta, in un libro che scardina le previsio-

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PROSPEZIONI Letture di Rosa Elisa Giangoia, Angelo Mundula, Giuliana Ro-vetta, Guido Zavanone

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ni del lettore. Come pochi, oggi, Gros-Pietrosembra l’erede del mondo beat (quello di Gin-sberg e di Snyder, per intenderci), in cui l’in-tensità – anche religiosa – delle esperienzeprovoca l’intensità sperimentale della scrit-tura. È veramente la traduzione «in formadi parole», come direbbe Dante, del vissu-to, del «nudo grido di vita e di morte» che«ci accompagna nel viaggio».Che cosa è la geoepica? Il poeta lo spiegaall’inizio: è l’epica del pianeta Terra, «pro-tagonista poetico, nella sua terrigna e ter-ragna consistenza, spessore biologico, ma-teriale, storico». Quindi esiste la geoepica,ma esiste anche l’uomo: solo che l’uomo èun semplice elemento di Gea, la Terra, noncerto il suo padrone arbitrario, non il cen-tro del macrocosmo. Di conseguenza, lapoesia di Gros-Pietro vede, con surrealismoe larghezza di sguardo, il mondo come unsistema policromo, ricchissimo di sfuma-ture che esistono a prescindere dall’uomo:«il segno / di rinoceronte tra le nuvole / ga-loppa / la coscienza smagata di parola / li-bera / in forma di terra e nuvole l’umana/ virtus»; «All’origine c’era un campo incol-to / alla periferia della città fra fossi / ster-paglie sassi era il regno / di formiche gril-li e cicale»; «Le nuvola sono geografia in cie-lo / più affidabile delle rotte annebbiate /degli eroi del gioco del calcio…».La poesia di Gros-Pietro è una ricchissimaesperienza linguistica. Lo ricorda anche Ros-sano Onano in una prefazione creativa e in-telligente. Mi colpisce la policromia diquesta epica, che sembra dipinta consmalti e – in modo onnivoro – incorpora-re tutto (potrò fare il nome di Schifano, ilrivoluzionario traduttore delle cose delmondo in forme dipinte e fotografate, in-stancabilmente, ardentemente?). Mi colpi-sce – dicevo – l’incredibile quantità di par-ticolari felici (caratteristica la cui invenzio-ne è attribuita da Borges, lettore dichiara-tamente edonista, a Dante). Tra i partico-lari, ci sono i nomi propri degli uomini edei luoghi. I nomi sono moltissimi, sparsinel libro: il traduttore e santo Gerolamo,Diotima e Socrate, Alcatraz e il Golgota, He-mingway e Cuba, Amsterdam e San Fran-cisco, Möbius e la città di Torino, il Torinocalcistico e Damasco, il Mar Nero e NewYork, e Lucio Dalla… È tipico della Neoa-vanguardia italiana e anche della genera-

zione Beat, ma qui siamo a mille miglia dalrictus professorale (come lo definì Alber-to Asor Rosa) di un Sanguineti. L’accumu-lazione di dati precisi e nomi veri non cirende automaticamente poeti. L’inventariodel mondo non deve essere narcisistico,cioè lo scrittore non deve mostrare lapropria abilità di accumulatore. L’elencodeve essere incarnato in una esperienza vis-suta, come nelle Geoepiche. Così Gros-Pie-tro non teme il lirismo, tutt’altro: il suo li-rismo è ricostituito da un salutare bagnonella complessità, e la sua lingua rinasce,nuova, dal contatto con flussi superiori allapovera singolarità dell’uomo. La poesia geoepica non può essere che re-ligiosa, nel senso più alto e mistico del ter-mine. Dio e Cristo sono presenze continuee tutto si riferisce a Dio: anche il Merlo can-terino che parla in un poemetto davvero sor-prendente. Così Gros-Pietro si separa dallamedia della sperimentazione italiana, e si av-vicina, semmai, ai grandi modelli america-ni. Ricordo la commozione con cui Allen Gin-sberg onora la madre morta, e confida a Dio– l’Eterno della rivelazione ebraica – che loadorerà sempre e comunque, «anche se nonè sposato», anche se pecca nei danteschi«mal protesi nervi». Anche il merlo cante-rino prega, a modo suo, e si prende una con-fidenza simpatica e drammatica con l’Eter-no. Ora più che mai, la poesia, secondo noi,ha bisogno di questa intensità, che non rin-nega nulla dell’umano e nello stesso temposa osservare ardentemente il cosmo e le «len-te immagini». Gros-Pietro ci ricorda, insom-ma, che la poesia non è un gioco.

Sandro Gros-Pietro, Le geoepiche e altri can-ti, Genesi, Torino 2010, pp. 96, € 12.00

PARLARE AL VOLTO DELLA TERRAdi Guido Zavanone

Ho un antico ricordo liceale, e a pensarcibene era già una dichiarazione di poetica:il poeta Quinto Ennio «tria corda haberesese dicebat», diceva di avere tre cuori, per-ché parlava il greco, l’osco e il latino. Dun-que Viviane Ciampi ha due cuori, entram-bi nobili: il suo stesso nome lo testimonia,la Francia ha battezzato Viviane e l’Italia leha dato la radice familiare, Ciampi.

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Questo libro parla della terra, dei luoghi,e soprattutto della gente che sta sulla ter-ra. La prima epigrafe è un pensiero di JeanGiono (nato e morto a Manosque, in Pro-venza, e anch’egli franco-italiano come laCiampi): è l’autore del romanzo L’Hommequi plantait des arbres, su cui molti di noisi sono commossi, perché è un richiamoal vero impegno, che non pensa al parti-culare di oggi ma pianta ghiande per farele querce di domani. E così Giono scrive:«Mentre cerca la sua vanga, incontra il vol-to della terra». Il volto della terra, propriocosì: come se la terra fosse una persona,e l’abitudine contadina lo crede. Ancheoggi il vecchio contadino di Carpi o di Fòs-soli lascia cadere un po’ di vino, perché laterra lo merita prima di lui: anche il suo-lo fertile ha sete, come tutti i viventi. Della Madre Terra, Viviane Ciampi parlacon una lingua che prende dal francese(con la sua precisione intellettuale) e dal-l’italiano (con la sua musicalità, anchequando è colloquiale). Ecco un esempio:«Alberi, campioni di longevità / guardia-ni dei mutamenti. / Così vicini! Bello nonvederli precipitare, / recidere… / Amarliè fortificarsi / e se in essi ti specchi / qua-si ti sgorgano / paesaggio e linfa / dallalingua». Oppure: «Dicono: nelle campagne/ non arriva il male / o arriva meno chealtrove. / Qui, la gioia si deposita compat-ta / come bocca di necessità e persino /venata di speranza». È nel contatto con lanatura che l’uomo può fortificarsi e ras-serenarsi, perché è la concretezza origi-naria degli esseri (compresi quelli che nonappartengono al genere umano, cioè lamaggior parte dei viventi): «Il lavoriodelle formiche / è un’unica poesia». In que-sta concretezza vitale tutto funziona per-fettamente, anche se non c’è una legge pre-stabilita: come la rosa del mistico Ange-lus Silesius «fiorisce senza perché», eppu-re fiorisce, così «non vi è legge che ordi-ni alle stagioni / di rinverdire i prati o alsole / d’indorare il grano» (e io, uomo dilegge, magistrato, in una intera vita pro-fessionale, avverto la maestà di un ecosi-stema che non abbisogna di leggi, perchéin esso tout se tient da sempre; ma l’uo-mo, che si impegna in un difficile percor-so di civiltà, non può rinunciare alle leg-gi, e ora ritroviamo nella natura ciò che

non siamo più e ciò da cui ci siamo sepa-rati, come specie). L’uomo riscopre ilmodo di vivere della rosa «senza perché»:infatti «il bello dell’infuocata campagna /è questa difficoltà di pensare o meglio /questa fuga dal pensiero pensante». E ilpensiero pensante deve interrogarsi in unmodo più vitale e sensibile, di fronte allecolline: sì, «forse» la natura ha qualche sua«logica sconosciuta», ma noi non possia-mo saperne nulla, e la nostra affermazio-ne rimane sottomessa ad un forse. Neicampi e nei boschi ricordiamo l’antica ve-rità socratica: sappiamo di non sapere, eil poeta non fa eccezione.I contadini vivono tra natura e cultura, usa-no intelligenza e lavoro durissimo per pie-gare i ritmi della natura a fini umani. Incambio, la terra chiede loro la stabilità sulsuolo, generazione dopo generazione (solonel dopoguerra questa continuità si èspezzata, forse troppo velocemente e vio-lentemente). Gli agricoltori non possono es-sere individualisti: occorre una comunità,un gruppo. Quindi questi «rematori dellaterra» «mantengono l’ansimare / di una fra-tellanza d’intenti», come le formiche poe-tiche. E quando uno scrittore si avvicina pu-ramente ai campi, contemporanei e paral-leli alle città (ma da esse separati) nasce unapoesia diversa: oggettiva e lirica nellostesso tempo, sensibile e pensante, filoso-fica e leggera, che prende il meglio dellaprosa e il meglio del lirismo. Se «l’opero-sità resta dentro nel sangue / la vedono coa-gularsi ad ogni fase della vita», la terra ciindica sempre «il giusto della vita» e«l’opera del mondo», come avrebbe dettoMario Luzi. Il poeta è lì, a sentire, cercaree dire la sua parola nuova.Ecco una delle parole nuove della Ciampi:alberitudine. L’alberitudine è «totalizzan-te», per lei: basta saperla vedere e sentire,con gli occhi e con il cuore bilingue italo-francese. L’alberitudine riapre gli occhi al-l’uomo e scioglie la sua lingua e la poesia.Per questo abbiamo abbondato con le cita-zioni (e non bastano): per dare conto, a chilegge, di una scrittura inusuale e piena dipáthos.

Viviane Ciampi, Le ombre di Manosque, Edi-zioni Internòs, Chiavari 2011, pp. 86, €10.00

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CONOSCERE IN POESIAdi Guido Zavanone

Ignazio Gaudiosi ha esordito come poetanel 1983, dopo i cinquanta anni. L’inizio tar-divo è stato compensato da una bibliogra-fia folta e da cospicui riconoscimenti cri-tici (di cui è testimonianza, tra l’altro, il vo-lume di Francesco D’Episcopo, IgnazioGaudiosi, poeta mediterraneo, Graus, Na-poli 2007, di cui abbiamo preso visione eche contiene molte ottime liriche). La notabiografica sulla quarta di copertina seguel’uso: primi premi, nomi di critici illustri,attività dentro e fuori la poesia. Ma noi cre-diamo di non essere ingiusti – anzi, al con-trario, di perseguire una vera giustizia – di-cendo che la poesia di Gaudiosi è indiffe-rente all’apparato che la circonda (tutto ciòche i giovani critici, formatisi con le sire-ne francesi degli anni ’70, chiamerebbero,forse, il «paratesto»). Vogliamo dire che lapoesia di Gaudiosi non ha tanto bisognodelle molte – e meritatissime – soddisfazio-ni critiche ricevute. Paradossalmente, sareb-be comunque una poesia luminosa, anchese non avesse guadagnato l’attenzione(come è successo a figure novecentescheimmense, da Dino Campana a Lorenzo Ca-logero e Guido Morselli, in vita). E nemme-no il lettore si nutre di sola critica: al con-vivio delle Muse il lettore di poesia vuolepoesia e basta, perché vuole il pane, la vita. Ci siamo convinti che Gaudiosi sia un poe-ta ispirato e che i suoi testi siano alti e no-bili. Prescindendo dai discorsi critici, cer-chiamo di farci un’idea personale, edesploriamo il libro, così magmatico e com-plesso: allora incontriamo testi di potentee virile ermetismo (l’ermetismo sonoro emediterraneo di Lorenzo Calogero, di Lu-cio Piccolo, di Michele Pierri: autori, non acaso, della Magna Graecia, grandi e anco-ra poco studiati e letti). Per esempio, Gau-diosi scrive: «È un cenno, / un segnacoloanzi / lo sciame brusente / che a gorgo sieffonde nella cervice / e non trova strada»,e il testo si chiude icasticamente, con unaforisma aristocratico: «Passare le deformieffigi alla specchiera / che lo sbaglio mon-di / sarebbe impresa assai corriva». Oppu-re nel componimento, Antinomie, che dàil titolo all’intera raccolta (e che può ricor-dare la metafisica di un altro autore ispi-

rato, l’Arturo Onofri del Ciclo lirico dellaterrestrità del sole): «Spirito e materia, vivamistura / che va a brinare il meglio delleessenze. / Sentenza in sublimanza, / il giu-sto compimento di un prodigio»). Il linguag-gio è sonoro e filosofico (perché questa poe-sia è filosofica), come – appunto – nei gran-di poeti che abbiamo menzionato: «ultrae-mergenze», «vertebrali consistenze», «vo-lontaria latitanza», «si elidono gli opposti»,«amorevoli affezioni», «futuribili miraggi»,«inopinata sintonia». Secondo noi, ne risul-ta una poesia elitaria e molto musicale, chemolto chiede e molto dà al lettore, il qua-le non sarà un lettore comune. E poi: c’è unvero piacere nell’atto della lettura, so-prattutto quando il lettore tenta un’esecu-zione ad alta voce: allora tutte le possibi-lità implicite nei versi si dispiegano, comedeve essere. Questa è una poesia di «ignote vibrazioni»,alta e tesa come un poema lustrale e miste-rioso, senza tempo anche quando fanno ca-polino le cose frastornanti della contempo-raneità, come il jet, o certi piccoli segni dilinguaggio giuridico (Gaudiosi è laureato inGiurisprudenza). Il poeta ha visto che«ciascuno corre sempre col suo tempo / perappianare i veli della sorte, / ma non po-trà scemare / il vento delle sue malinconie».Il «correre col suo tempo» e il «correre deltempo» (nella prima poesia, Nuziali veli I)sono pratici e visibili, avvenendo nel pre-sente; ma la malinconia è vento, è invisibi-le e interiore e non appartiene al tempo delcorpo, ma al vivere interiore dell’anima, chenon è nel tempo pubblico («l’ansia nasco-sta dei pensieri»). Ecco: la cifra è l’anima,l’anima dà e al contempo riceve la dettatu-ra dei testi, e conosce, nei modi intuitivi emisteriosi che le sono propri. Insomma, se-condo noi, Gaudiosi è uno di quei poeti as-soluti che si sono dedicati all’ascolto litur-gico del gran mare dell’essere. Infatti il poe-ta è come quella madre a cui si dice: «tra-vagli hai avvertito più di loro / perché giànato è il figlio nella mente». Oppure, det-to in altro modo: «la verità era già nel pro-prio grembo».

Ignazio Gaudiosi, Antinomie, introduzionedi Francesco D’Episcopo, prefazione di Ro-dolfo Tommasi, postfazione di Luca Griso-lini, Helicon, Arezzo 2010, pp. 114, € 11.00

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Il CORAGGIO DELLA PAURAdi Giuliana Rovetta

Circa una ottantina di anni fa usciva in Fran-cia un romanzo satirico ambientato in un pic-colo paese immaginario del Beaujolais, Clo-chemerle, per molti versi simile a quello chesarà poi da noi il guareschiano borgo di Bre-scello di Peppone e Don Camillo. Se nella Bas-sa padana si affrontavano, nella realtà ru-rale del dopoguerra, “rossi e bianchi” in con-tinuo e umoristico confronto, a Clochemer-le era stato messo in scena dall’autoreChevallier un gustoso teatrino, specchio del-la società di provincia, ricco di figurine ca-ricaturali: preti e contadini, politici e damedi carità, madri di famiglia e borghesi qua-si sempre votati all’ipocrisia.Sembra impossibile che da quello stesso au-tore, peraltro di grande successo negli annicinquanta e tradotto in oltre venti lingue,oggi arrivi fino a noi un testo pubblicato apiù riprese in Francia (la prima volta nel1930) che non fa sorridere affatto, anzi in-duce a riflettere, anche dolorosamente, eper di più appassiona per la profondità d’in-dagine e la libertà con cui viene trattato iltema che dà il titolo al libro, la paura. Untema non facile da inquadrare e che oggirichiama subito alla mente l’uso deterren-te cui questo sentimento si presta per in-durre nella collettività certi comporta-menti di maniacale prudenza e di rifiuto diveri o presunti “nemici” interni. Nei conflit-ti bellici poi questo tema è ancora più im-barazzante, in quanto non solo tradizional-mente inaccettabile per le regole dellavita militare ma anche sottaciuto nella per-cezione dei civili, in quanto assimilato a unaforma di viltà, almeno in fieri. Più ancora che la testimonianza romanza-ta di un giovane soldato nelle trincee e suifronti della grande Guerra, dai Vosgi, al Che-min des Dames, dalla Champagne per fini-re in Alsazia, soldato -sottolineiamo- par-tito volontario e che ha molti tratti in co-mune con l’autore stesso, La paura ha al-cune caratteristiche del pamphlet. E’ unalunga e progressiva meditazione, che diven-ta via via una requisitoria, attorno all’inu-tilità della guerra (e questo spiega le fasidi mancata distribuzione del libro, in cer-ti periodi particolarmente sensibili a unapossibile deriva disfattista). Con crudo rea-

lismo e con un’estrema precisione d’imma-gini, Chevallier riesce a raccontare, comepoi farà Emilio Lussu in Un anno sull’alti-piano, la vita vera del soldato, fatta di at-tese, speranze deluse, ordini impartiti allacieca da superiori non sempre degni di di-sporre della vita altrui. Non si raccontanosolo le lunghe marce e gli assalti, con la fa-tica che strazia il corpo e il panico che s’in-sinua nelle viscere, ma anche si allude al di-stacco profondo del soldato dal mondo chenon combatte, che cerca di mantenere lesue abitudini con un egoismo che sembranecessario per poter continuare a vivere.La prima guerra mondiale ha alimentato ilmito del sacrificio eroico, dell’abnegazioneportata all’estremo limite, in un misto d’in-consapevolezza dei fatti reali e di adesioneobbligata degli individui ai rispettivi ruoli,con un margine di comprensione troppo esi-guo. Come già Henri Barbusse nel suoscandaloso racconto Le feu, Chevallier vuo-le rompere la scorza fino allora impenetra-bile di un’epopea dai risvolti misconosciu-ti. Il grimaldello di cui si serve è la mise àjour di un istinto che per lui non deve es-sere sanzionato né represso ma accolto nel-le sue fondamentali dinamiche: la paura èun segnale di allarme che esercita il fisicoe la mente alla difesa, è un potente cataliz-zatore di energie che recluta ogni risorsa delcorpo e dello spirito. Il lungo resoconto diChevallier, del resto, non è tenero con chi neiranghi dell’esercito non compie il propriodovere, a qualsiasi livello di responsabilità,e riesce invece a mostrare attraverso l’esem-pio del suo alter ego Jean Dartemont, che sipuò agire coraggiosamente anche avendopaura e sforzandosi di vincerla.Colpisce poi, nelle pieghe del concitato re-soconto delle varie azioni, l’emergere di unatentazione non prevista nell’ambito milita-re cioè quella di fraternizzare col soldatonemico, come se nel quadro della genera-le disperazione fosse proprio questa la per-sona più adatta a comprendere lo statod’animo dell’io narrante. La distanza fra lasocietà borghese che esige il sacrificio deipropri giovani connazionali (purché non sitratti dei propri figli in senso stretto) e ladura realtà del fronte, finisce per affratel-lare i nemici in un comune sentimento didolore e d’impotenza. Anche questo, comesi vede, è un risvolto inedito da trattare e

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abbondantemente indigesto, per le ideeunanimemente accettate in certi contesti.La sincerità disarmante con cui Chevalliertratta la sua materia è ben riassunta dalleparole che mette in bocca al personaggiodel sergente Nègre, dotato di umor nero edi disincantata preveggenza: “Traccio il bi-lancio di questa guerra: cinquanta uominiillustri nei libri di storia, milioni di mortidi cui non si parlerà più e mille milionariche decideranno le leggi”. Difficile non ri-conoscere il contenuto di amara verità diquesta inappellabile sentenza.

Gabriel Chevallier, La paura, Adelphi, Mi-lano 2011, traduzione di Leopoldo Carra,pp. 327, € 20,00.

UN POETA “SONTUOSO”di Rosa Elisa Giangoia

Quando si incontra un poeta di cui si avver-te l’indubbia qualità, è sempre una grandeemozione, che si desidera comunicare e con-dividere con quanti sanno veramente apprez-zare la poesia. A me è recentemente capita-to leggendo La caduta di Bisanzio di Alessan-dro Rivali, una raccolta di poesie o, forse, me-glio un compiuto poemetto, che supera il sen-timentalismo soggettivo dilagante nella pro-duzione poetica attuale per presentare unavisione che, partendo dalla storia, sa attin-gere ad una dimensione esistenziale univer-sale, con una voce inconfondibile, di forte in-cisività espressiva. Caratteristica fondamen-tale diventa così un registro che potremmodefinire epico, ma non nel senso classico etradizionale, quanto piuttosto per il fatto chel’eroe è l’uomo singolo, pur nella sua uma-na piccolezza, contraddistinta dal male e dal-la sofferenza, sempre uguale nello spazio enel tempo, soprattutto sempre impegnato amisurarsi nella storia con una fine, con unacaduta, che, però, non è mai completamen-te tale, perché al di là delle macerie c’è sem-pre un’attesa ed una speranza.La storia, appunto, è l’elemento che carat-terizza questa seconda silloge di Alessan-dro Rivali, poeta giovane, poco più che tren-tenne, alla sua seconda prova poetica,dopo La Riviera di sangue (Mimesis, Mila-no 2005 e in edizione accresciuta Faraedi-tore, Santarcangelo di Romagna 2007),con un’attenzione ed una consapevolezza

della storia che parte dall’esperienza del-la famiglia paterna, residente negli anni ’30in prossimità del Barrio gòtico di Barcello-na e di lì fuggita fortunosamente, perscampare alle fiamme della guerra civile,nell’estate del ’36, fino ad approdare a Ge-nova, dove iniziò una nuova vita. Di qui de-riva all’autore la consapevolezza che la Sto-ria nella sua universalità sia l’ingranaggioche condiziona e determina la storia di ogniindividuo, di ogni famiglia, di ogni grupposociale, di ogni popolo e nazione, ma nonin senso fatalistico e rinunciatario, ma piut-tosto con una consapevolezza profetica chelo porta a guardare la Storia con una fidu-cia nella Vita che trascende appunto il sus-seguirsi degli eventi. L’attenzione dell’au-tore, in questo snodarsi di creazione poe-tica, definita “visionaria e sontuosa” da Ro-berto Mussapi ed “epica” da AlessandroRamberti, va a quei momenti critici dellastoria in cui qualcosa finisce, ma non è maiuna fine in senso assoluto, proprio perchéla Vita ha il sopravvento per cui la Storiasi rimette in moto, in quanto il suo fine èoltre il tempo in un disegno che all’uomosingolo e anche agli uomini dotati di auto-rità e potere sfugge, abbiano o meno la con-sapevolezza di esserne elementi determi-nanti. Simbolo di ogni caduta storica diven-ta appunto la “caduta di Bisanzio”, fine diuna civiltà dalla lunga e complessa eredi-tà, occasione di tormentosa sofferenza perchi si trovava a spendere la sua personaleesistenza lì in quel momento, ma nello stes-so tempo passaggio verso un futuro. A fareda corollario, in questa caduta, nella comu-ne esperienza del dolore, della sofferenzae della lacerazione, sempre come strettopassaggio verso il futuro, sono altre espe-rienze storiche, come Pompei, Persepoli eAtlantide, poeticamente rivissute da Riva-li attraverso il massimo di consapevolez-za storica nell’attenzione alle fonti, ma nel-lo stesso tempo con un’acuta capacità di pe-netrazione fantastica e visionaria nellepiù nascoste pieghe dell’animo di quanti nesono stati ad un tempo protagonisti, atto-ri e vittime. Proprio da questa tensione tradati storici e creatività immaginifica nascelo stile tutto particolare del poeta, che ri-crea la storia ed esprime l’intimo degli in-dividui sulla scena del tempo con una ri-cercatezza espressiva fatta di tensione les-

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sicale, di creatività sintagmatiche sempremolto forti, in un registro tutto teso da unlato al basso e negativo degli ambiti seman-tici del soffrire, del patire, del lacerare e delmorire, dall’altro disponibile ad apertureche gettino ponti oltre la storia. La carat-teristica dello stile poetico di Rivali è il con-trasto, tra vita e morte, orrore e pietas, re-altà e “altrove”, tra ferrigne e ofidiche ri-membranze dantesche e bagliori di speran-za che proprio nel magma espressivo ten-de a consolidarsi in certezze, fino all’appro-do ad un silenzio che si carica di misteroe di attese. Questa tensione tra storia ed ol-tre è massima nelle liriche della sezione Gio-vanni della Croce, imperniate sulla soffe-renza di una fiamma che oltre che tortu-ra è illuminazione di un oltre in cui cam-peggia la figura dell’Amato (“Paragonava lefiamme / al desiderio per l’Amato”, II) e tro-va un personaggio emblematico nel poetaEzra Pound, che valica con la sua poesia lacontingenza della personale biografia e del-la storia per proiettarsi in una dimensionedi assoluto luminoso, non ancora piena-mente compreso neppure dalla critica, incui “Dialogava con le forme del vento”.

Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio,Jaca Book, Milano 2010, pp. 134, € 14,00

A DIECI ANNI DI DISTANZAdi Rosa Elisa Giangoia

Il nuovo romanzo di Bruno Rombi Il labirin-to del G8 raccoglie ed intreccia le esperien-ze e le modalità narrative dei romanzi pre-cedenti dell’autore. Infatti alla linea realisti-ca, che aveva contraddistinto i due roman-zi di ambientazione sarda, Una donna di car-bone e Un oscuro amore, si intreccia una nar-razione surreale, tipica del romanzo La pi-ramide arquata, che diventa però funziona-le alla comprensione profonda ed autenti-ca della vicenda reale raccontata. Questo romanzo, come già si evince dal ti-tolo, rievoca, a dieci anni di distanza, ledrammatiche giornate che Genova visse inoccasione della riunione dei Grandi dellaTerra nel 2001, che videro azioni di conte-stazione duramente represse dalla polizia,con strascichi ed esiti giudiziari comples-si e forse non ancora del tutto chiariti. L’autore, attraverso pagine di narrazione

surreale, caricate di forti valori simbolici econdotte sul filo di dinamiche oniriche, rie-sce innanzitutto a ricostruire le sensazio-ni che tutti a Genova hanno avuto in queigiorni di dieci anni fa. Diffusa e fortemen-te avvertita era la percezione di sospensio-ne della normalità, a cui si accompagnaval’attesa inquieta e inquietante di qualcosadi eccezionale e temibile che dovesse ne-cessariamente accadere: tutta la città erain stato di pesante assedio, con ampio di-spiegamento di forze di polizia e militari,tutta la zona del centro storico era stata difatto rinchiusa dentro una cortina di fer-ro e tutti gli abitanti erano stati schedati conun lungo lavoro preventivo. Proprio in que-sto ambiente del centro storico di Genova,nell’intrico labirintico dei suoi vicoli, l’au-tore colloca l’intreccio di una serie di vicen-de di cronaca nera che impegnano con leloro rituali procedure le forze dell’ordineper la loro soluzione. Protagonisti ne sonoalcuni componenti dell’ampia comunità la-tino-americana che proprio in questa zonadella città ha la maggior parte delle sue abi-tazioni e che sembra ampiamente pratica-re rituali di tipo vudù. Nel romanzo, quin-di, vicende complesse di omicidi, forse ri-tuali, si verificano proprio nella zona piùcontrollata della città nei giorni della gran-de assise internazionale e dei cortei di pro-testa, prima pacifici, poi improvvisamen-te funestati dagli attacchi dei black bloc, du-ramente repressi dalla polizia, con l’assal-to alla palestra della scuola Diaz, i conse-guenti fermi di molti giovani e le inquietan-ti vicende alla caserma di Bolzaneto, men-tre l’allora Ministro degli Interni teneva lefila di tutta la situazione da una casermasul lungomare. L’abilità del narratore sta però nello stabi-lire un nesso di interdipendenza tra le duesituazioni: nella narrazione le storie di omi-cidi e di assassini che si verificano nel cen-tro storico hanno, infatti, una loro ragiond’essere proprio in quel luogo, in quel mo-mento preciso in cui si sta svolgendo il G8con le conseguenti repressioni della prote-sta e del dissenso. Sono vicende apparen-temente di cronaca nera locale, ma in re-altà manovrate dall’alto e da lontano, pro-prio per dare la possibilità alle forze del-l’ordine di agire con mano libera e pesan-te nel controllo e nella repressione.

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Ad emergere, però, come protagonista ditutta la narrazione, in ultima analisi, è so-prattutto la realtà umana, sociale e politi-ca della città di Genova, dei suoi abitanti,attenti e partecipi, che fedeli alla loro tra-dizione, hanno saputo mantenere atteggia-menti e condotta tali da salvare la continui-tà democratica, senz’altro in città e forsein tutto il paese. Di qui nasce un’importan-te lezione che dall’esperienza di quei gior-ni difficili può diventare linea guida per ognisituazione in cui occorra difendere le con-quiste democratiche del nostro paese.Ma il pregio di questo romanzo, condotto conmano abile dall’autore, nonostante le diffi-coltà derivanti dall’ intrecciare due fabulaee dal lavorare sul piano della realtà e del sur-reale, caricato di forti valenze simboliche, staanche nell’aver saputo tratteggiare conmano sobria, ma efficace, situazioni e figu-re di cui si è impossessata la cronaca, sfrut-tate dal giornalismo e dai mass media, sapen-do restituire loro quell’autenticità e quel-l’umanità che anche le situazioni più com-plesse e le figure più discusse richiedono: èin particolare il caso della ricostruzione del-la vicenda di piazza Alimonda che ha vistol’uccisione del giovane Carlo Giuliani da par-te del carabiniere Placanica, due giovani, tro-vatasi nella loro inesperienza a rappresen-tare due realtà contrapposte, guardate dal-l’autore con occhio paterno ed imparziale. Con questo suo nuovo romanzo BrunoRombi si conferma narratore di pregio, ca-pace di osservare la realtà e di trasferirla let-terariamente nella pagina narrativa interpre-tandola nelle sue dinamiche interne, carican-dola di suggestioni rivelatrici, ricavandonelezioni di valore non contingente.

Bruno Rombi, Il labirinto del G8, Conda-ghes, Cagliari 2011, pp. 172, € 10.00

LA NATURA ED IL DIVINOdi Rosa Elisa Giangoia

Sulla linea di una poesia armoniosamentemusicale, caratterizzata da intensa medita-zione e forte spiritualità, già ampiamenteportata avanti nelle raccolte precedenti, sicolloca la nuova silloge poetica di Marian-gela De Togni, Fiori di magnolia, che rappre-senta un continuum cantato, o per usare iltermine frequentemente impiegato dal-

l’autrice una “salmodia”, di penetrazione neldivino attraverso la natura. Se nella raccol-ta precedente, Cristalli di mare, era appun-to il mare con le sue variazioni di colori, diluci, di suoni e di movimenti, a costituirel’elemento che in un certo qual modo per-metteva alla poetessa di sfondare il murodel naturalismo per penetrare nell’Oltre, inquesta nuova raccolta sono i fiori a svolge-re questa funzione, come già dimostra il ti-tolo in cui ricorre il grande e bianco fioredell’albero della magnolia, fiore “candida-mente significativo”, come dice il prof.Neuro Bonifazi nella Prefazione. Per questopotremmo dire che l’ambientazione di que-sta silloge è il giardino, ma non nel sensodel locus amoenus di tradizione classica, inquanto, in tutta la produzione letteraria,quello è sempre un luogo di delizie, di ri-poso e di quiete appartato dal resto del mon-do, rispetto al quale rappresenta un’alter-nativa positiva, in contrapposizione. In que-sto itinerario poetico di Mariangela De To-gni, invece, tutto è giardino, il mondo stes-so, l’ambiente naturale è colto come un giar-dino in cui emergono elementi particolar-mente significativi ed attraenti che ancorauna volta portano l’autrice ad andare lei stes-sa, ma soprattutto a condurre il lettore, aldi là della realtà per attingere alla dimen-sione superiore del divino. In questo mon-do, in cui appunto i fiori occupano una di-mensione di centralità, tutto è naturale, anziè la natura stessa che porta all’Oltre, attra-verso un fatto, quello dell’essere oggetto del-la Creazione divina e quindi del conservar-ne tracce tangibile, che si rivela e manife-sta nella bellezza, con un recupero che nonè però intellettualistico e culturale, ma è im-mediato e spontaneo da parte dell’autrice,di quella linea platonica della bellezza ter-rena che è di per sé immagine di bontà, ca-pace di elevare e di orientare al bene. Il mon-do che si profila attraverso il susseguirsi del-le liriche di questa raccolta, che, come tono,come ispirazione, come musicalità, ma so-prattutto come ambiente, rappresentano ap-punto una continuità interrotta, che confe-risce al testo una natura letteraria di tipopoematico, è un mondo tutto all’insegna del-la natura, quindi un mondo colto essenzial-mente nella sua dimensione di creazione di-vina, quasi non toccato, non modificato dal-la mano dell’uomo, un mondo inalterato nel-

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la sua originalità primigenia, in linea conquanto ci ha insegnato Cicerone quando dice“il mondo della campagna è migliore di quel-lo della città, perché è stato fatto dagli dei,mentre quello della città è opera dell’uomo”.Nei versi di Mariangela De Togni sonoscarsissimi gli elementi che indicano manu-fatti umani e sono tutti di tipo religioso, cioècostruzioni architettoniche per il culto, lapreghiera, la vita monastica (“”arcate di unmonastero / medievale”, “chiostro” / “altefinestre / della chiesa vuota”, “chiesa /so-litaria”, “finestra a bifora”, ecc.). Allo stes-so modo quello che appare dalle liriche diquesta raccolta è un mondo pressoché di-sabitato dagli uomini: le uniche presenze cherileviamo sono quelle degli angeli, di GesùBambino, del Buon Samaritano; gli unici ri-ferimenti realistici sono alla Terra Santa. E’quindi un mondo poetico di silenzio e disolitudine, fissato in una dimensione sincro-nica fuori del tempo della storia, tutto tesoin un’esperienza dialogica trascendente, sen-za relazioni interpersonali, come testimo-nia il dialogo insistente con il “Tu” divinoo con la “Madre” e come attestano i frequen-ti riferimenti, anche lessicali, al “silenzio”e alla personale “solitudine”, che diventa-no, anche nell’esperienza esistenziale del-

la poetessa, le condizioni indispensabili percogliere, appunto nella “salmodia” del cuo-re, quella voce di canto, che per chi sa ascol-tarla può emergere dalla natura, solo in si-lenzio e solitudine, e che permette il dialo-go con il “Tu”, al di là del tempo e della sto-ria. L’unica presenza umana è quella di Sa-rah (Scazzi) la giovinetta barbaramenteuccisa dai suoi parenti, la cui vicenda hacommosso la poetessa ispirandole unatoccante lirica.Questo mondo, che fiorisce al divino, che in-nalza e consola ha un suo perno, cioè la suagiustificazione e saldezza in un elemento pre-ciso, nella Fede, a cui viene dedicata una bre-ve lirica, intensa, ma dubitativa riguardo allasicurezza del suo possesso, secondo l’inse-gnamento del Vangelo. Ma è chiaro che lapoetessa può regalare agli altri attraverso lesue liriche conforto e sicurezza, proprio per-ché personalmente è ispirata dalla fede, donodivino, ma anche accettazione continua, ri-cerca perpetua, adesione costante: è questo,indubbiamente, l’elemento che rende diver-sa, diciamo pure speciale la poesia di Marian-gela De Togni.

Mariangela De Togni, Fiori di magnolia, Edi-zioni Helicon, Arezzo 2011, pp. 67, € 11,00

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PIETRO CANALE

di Luciano Caprile

Certi artisti riescono a trasferire efficacemente in un riflesso interiore leimmagini del mondo esterno. Questo processo non si verifica di solito im-mediatamente. Ha infatti bisogno di un certo tempo di sedimentazione perraggiungere il suo scopo. Solo allora tutto ciò che viene recepito dallo sguar-do corrisponde a quello che viene acquisito dall’anima e il risultato di unasimile evoluzione visiva e percettiva si evidenzia sulla tela. Tale percorsonon ha sovente un andamento lineare poiché i tentennamenti, i ripensa-menti, i passi indietro, i dubbi si insinuano nei pensieri e nei gesti come iltimore di non saper più ritrovare la via del ritorno da un viaggio intrapre-so verso l’ignoto. Senza tener conto che in questi casi non esiste la con-quista definitiva di una certezza ma solo la consapevolezza, man mano

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Ricordi, acrilico su tela, cm 60x70, 1997

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che si procede, di trovarsi nella giusta di-rezione operativa dove l’arrivo coincide colconcetto di partenza se il comportamentosegue le norme richieste dalla circostanza.Da qualche tempo Pietro Canale ha scel-to un simile approccio creativo avendo alungo sondato un terreno prodigo disuggestioni post-impressioniste o fauvesdove il colore si traduceva in macchia ela macchia in evocazione paesaggistica.Con implicazioni figurali più o meno mar-cate e talora con tentazioni ancora più de-scrittive che emozionali. Da qui il rischioricorrente del passo indietro e la minac-cia di vanificare l’intero progetto evolu-tivo. La mostra a Palazzo Robellini di Ac-qui Terme parte dal momento in cui l’ar-tista genovese prende coscienza della sua

capacità di volgere in un diverso territo-rio quegli impulsi timbrici che facevanoparte di un interessante, sensibile, perso-nale patrimonio coltivato nel tempo conperspicacia.Le prime opere in rassegna, databili tra il1996 e il 1998 a preannunciare il nuovocorso, sono da attribuirsi a quel travagliofigurale di cui si è appena detto. Infatti ilPaesaggio del 1997 traduce in macchie lefolte chiome dei due alberi in primo pia-no, mentre un accenno di case comparesull’orizzonte serale caratterizzato da ri-petute sovrapposizioni di pennellateorizzontali che intendono annullare ognitentazione narrativa più dettagliata. E sea proposito di Ricordi è ancora leggibilequalche frammento figurale nell’impasto

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Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x120, 1998

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cromatico d’insieme, con Machine l’uni-ca traccia da collegarsi al recente passa-to sembra affidata a quella linea che cor-re sulla tela col compito di contenitore. Se-guono altre opere che affrontano il fan-tasma dell’immagine da trasferire in per-cezioni o in agglomerati compositivi dalseducente impatto timbrico. Il distacco de-finitivo dalle origini sembra affidato a unSenza titolo interpretato nei toni del bluche annuncia il deciso approdo di Cana-le nell’agognato territorio dell’informale.A un simile momento di svolta è seguito unperiodo di riflessione scandito da sperimen-tazioni eterogenee che sono proseguite perqualche anno per lasciare infine il passo aun ulteriore, interessante capitolo nel com-plesso percorso del nostro autore.

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Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x120, 1998

Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x100, 2010

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Senza titolo, acrilico su tela, cm 120x200, 2010

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...Alla ricerca del tempo e delle cose perdute. Pietro Canale parte daun'indagine proustiana condotta su schegge di passato per appro-dare al limitare dell'informale, alle plaghe del non esplicitato, del nondetto, di un astrattismo che lascia sempre intravedere squarci direale. Sarà perché, in fondo, il figurativismo non è estraneo al suo pe-regrinare intellettuale ed estetico: nei suoi lavori, tanti e multiformi(nell'accumularsi strati di materia, nella densità del disegno, nella fi-losofia compositiva, nel lirismo paesaggistico tenuto in sottotraccia)sono i rimandi alla tangibilità dell'essere, tanti gli ammonimenti a ri-nunciare per le nostre percezioni al filtro del concettuale.Le tele di Canale sono un concentrato di sovrapposizioni. Lo stessopiano narrativo prediletto negli ultimi anni dall'artista genovese sipresta a letture multiformi, anche se mai ascrivibili a una mera vi-sione nostalgica delle cose. Anzi, Canale attraverso la sua testimo-nianza induce a non accettare l'inerzia come regola universale. C'èribellione in queste sbavature di colore, in queste volute programma-ticamente confuse e avvinghiate le une alle altre (concordiamo conLuciano Caprile, che parla di suggestioni post-impressioniste o fau-ves), in queste campiture dagli orizzonti incerti....

da un commento di Marco Bevilacqua su “Arte IN”

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Note biografiche e mostre

Pietro Canale nasce a Genova nel 1951.Le sue esperienze artistiche iniziano nei primi anni Ottanta quando in-contra i pittori Andrea Bagnasco e Flavio Fracasso con i quali stringeun’amicizia che lo porterà in breve tempo a interessarsi con passioneall’arte dedicandosi allo studio del disegno e delle tecniche pittoriche.Dal 1985 le sue opere vengono accolte in numerose mostre collettive.Contemporaneamente la sua ricerca pittorica, rivolta a un paesaggio

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che col tempo si interiorizza sempre di più, viene gratificata da signi-ficative esposizioni personali. Questi anni sono pieni di stimoli, di con-tatti e di esperienze artistiche condivise con centri culturali eassociazioni come Promotrice Belle Arti Liguria, Centro Culturale N. Ba-rabino - Genova, Galleria S. Donato - Genova, Galleria L’Universo - SantaMargherita Ligure, Galleria Erox Art - Dolceacqua, Mostra personale Sa-tura - Genova, Esposizione Palazzo Zenobio - Venezia, Mostra personalePalazzo Robellini - Acqui Terme. Pubblicato dal 2001 sul Dizionariodegli Artisti Liguri (De Ferrari Editore). È presente su riviste a tiraturanazionale tra le quali ARTEin. Sue opere sono presenti in collezionipubbliche e private in Italia e all’estero.

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Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x100, 2010

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SERGIO GERASIFavole, musiche e grandi nasi

di Manuela Capelli

Mettete insieme Milano, Allan Poe, Lovecraft e Scla-vi, ma anche Kerouac, i poeti Beat, le favole clas-siche e Chomet e avrete una parte dell’anima diSergio Gerasi, all’esordio come autore comple-to con “Le tragifavole” (ReNoir Comics), una rac-colta di racconti immersi in un’atmosfera al con-tempo iper-realistica e surreale. Laddove infat-ti, in ognuna delle storie a fumetti, la sceno-grafia riporta a terra, fra le strade milanesi, ipensieri volano insieme ai protagonisti eai loro grandi nasi. Come Il burattinaio, unasorta di Pinocchio all’incontrario che vignet-ta dopo vignetta non solo reinventa la favola man-tenendo le peculiarità di un genere oggi raro piùche mai, ma evoca la musicalità e il senso delritmo che costituiscono l’altra anima di Ser-gio, batterista e fondatore della rock band200Bullets.Prima di cimentarsi come autore unico,dando spazio a un personaggio nato du-rante l’edizione 2006 della 24 ore del fu-metto (maratona fumettistica che preve-de la realizzazione di una storia di 24 tavo-le in 24 ore), Sergio disegna, lavorando con grandi testatee con grandi teste: dagli inizi su “Lazarus Ledd” (Star Comics) aidisegni per “Jonathan Steele”, “Cornelio” (il fumetto di Carlo Lucarelli)e le ultime fatiche su “Dylan Dog”, è passato dalla trasposizione in fu-metto di un racconto di Alan D. Altieri su testi di Tito Faraci, «Interna-tionoir», e per ReNoir Comics, su testi di Davide Barzi, «G&G»: un omag-gio al grande Giorgio Gaber, premiato come miglior graphic novel nel-l’edizione Full Comics 2010. In questi giorni, invece, escono alcune sueillustrazioni nel nuovo inserto culturale ‘La Lettura’ del Corriere dellaSera. Ed è proprio dal suo eclettismo che partiamo.

Come disegnatore hai lavorato, da Steele a Cornelio a John Doe finoa Dylan Dog oggi, su una certa tipologia di personaggi. Come autore,per quanto tragiche, a delle favole. Sentivi la necessità di un cambiodi registro?Decisamente sì, ho spesso necessità di movimentare il mio lavoro cheper natura è statico, almeno fisicamente. Il lavoro del disegnatore, ocomunque in generale dell’autore di fumetti, è spesso strettamente le-

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gato al proprio studio, alla propria casae alla propria scrivania. Uno strano os-simoro dato che al contrario, per farlo nelmigliore dei modi, bisogna viaggiaremolto con il pensiero. Ecco che, quindi,nel mio caso (ma sono certo sia una con-dizione comune per chi fa il mio stessomestiere) quella scarica elettrica di fan-tasia che si prova iniziando un lavoro,magari su un personaggio nuovo, diven-ta vitale.Nondimeno quando si inizia un nuovolavoro, si parte dalla raccolta di documen-tazione, non solo visiva, ma anche nozio-nistica, sull’argomento che la storiatratterà: questo aspetto diventa un’occa-sione di studio che arricchisce. Cosa chenon guasta mai. Nel mio caso specificopoi, dopo anni (una decina, ormai anzisono quasi undici) di lavoro su un gene-re popolare ben delineato e con certe re-gole, ho sentito la necessità “autoriale”di sperimentare un linguaggio narrativoa fumetti strettamente personale, srego-lato e nato unicamente dal bisogno di rac-contare delle storie a modo mio.Alcuni autori dichiarano che i loro per-sonaggi prendono vita da sé, mentre sem-bra che tu, anche perché ti auto-ritrai incerte tavole, tratti i tuoi come burattini,di cui condurre le esperienze…Il carattere fondante delle Tragifavole è iltravestimento, fatto con un velo fantasticoposato sopra situazioni più o meno reali,situazioni avvenute realmente.Prendo spesso spunto da quello che misuccede per poi rielaborarlo con calma,con una visione più metaforica, piùevocativa.Si può a ragione dire che i miei personag-gi nascono dentro di me e uscendo se neportano dietro un pezzo. Ecco perchénon assegno mai dei nomi a questi per-sonaggi. Ed ecco anche il perché hannotutti una fisionomia simile, riconoscibi-le e con un denominatore unico: un nasoimportante.Ecco, appunto, il naso: di Pinocchio, diCirano, di Uno, nessuno, centomila, dei

tuoi protagonisti. Citando il tuo libro,“Strano stile questo, e che nasoni!”…“Del naso come è ovvio ci sarebbe mol-to da dire”, così scriveva Asor Rosa. Aldi là di questo, quando per la prima vol-ta partecipai alla 24 hic, mi decisi a rea-lizzare qualcosa di completamente diver-so dal solito. Dal mio solito. E lì ci fu unagrande svolta nella mia testa. Questo sti-le, questi nasi e queste figure dinocco-late si sono disegnate quasi da sole. Evi-dentemente le avevo lì, in un angolo del-la testa, ed è stato naturale prenderequella strada in un’ ottica di libertà crea-tiva totale. Subito dopo il mio primo la-voro per la 24 hic i commenti furono co-stanti e insistenti, molto positivi comun-que, e già mi identificavano con quellodei nasoni, i nasoni di Gerasi, ecc.Il naso, nell’arredamento di un volto, èimportantissimo, forse ancor più degliocchi per certi versi. È il naso che deci-de cosa farti notare di un volto, alle vol-te ti spinge a guardare gli occhi di unapersona, alle volta la bocca, altre volte èpiù timido e ti presenta il volto nella suainterezza, altre volte è un naso orgoglio-so che si mostra per primo, nella suamaestosità.E poi come dimenticare Zanardi…Fra le definizioni di favola, ci sono “nar-razione con personaggi immaginari checontiene un ammaestramento morale” e“qualsiasi narrazione di fatti inventati”.A quale corrisponde di più il tuo libro?Forse in parte ti ho già risposto. Credoche la mia visione stia vagamente nelmezzo, anche se con un velo di presun-zione mi piacerebbe dire di avere una vi-sione tutta mia delle favole, ecco perchéle ho chiamate in quel modo. Quello checerco sempre di evitare è un certo ‘am-maestramento’ (morale per di più) – nonmi piace mai generalizzare i concetti –tantomeno cercare di sopraelevare il miogiudizio sulle cose rispetto a quello dellettore. Non sono un maestro, che me nescampino! Io cerco semmai di suggerire,evito, per quanto mi è possibile, un cer-

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to aspetto didascalico nei confronti del-l’argomento trattato. Cerco cioè un dia-logo con chi legge, non voglio mai dirgliche il mio pensiero è la visione giusta del-le cose, ecco perché nelle storie cerco diprendermi in giro e di smussare anchei personaggi nel momento in cui il fram-mento narrativo è al culmine.La solitudine esistenziale è uno dei temidelleTragifavole. Parlando invecedella so-litudine nel processo creativo: quanto èimportante, stimolante, angosciante?La solitudine è una condizione ricorren-te della mia vita a tutti i livelli: sentimen-tale, sociale e lavorativo.Ecco perché ci sono così affezionato(rido, nda). Tralasciando i primi dueaspetti, la solitudine che caratterizza que-sto lavoro è una costante. Alcuni mieiamici/colleghi la fuggono, si alleano instudi collettivi dove lavorano fianco afianco. Io invece tento di sfruttarla nelmigliore dei modi perché la solitudine èun serbatoio di creatività molto genero-so, se lo sai aprire e se sai frugarci den-tro. Tutto sommato poi ho sempre pen-sato che potrei lavorare in un luogo pie-no di gente ma nel momento in cui ab-bassi lo sguardo sul foglio bianco, sei ine-sorabilmente da solo, quindi tanto vale…‘la solitudine non è mica unamalattia, ènecessariaper star bene in compagnia’…e ancora …’un uomo solo è sempre in buo-na compagnia’… così diceva Giorgio Ga-ber, a cui sono molto legato.Come fumettista, hai lavorato sia da solosia insieme ad altri autori. Quali ritieniessere i punti di forza dell’una e dell’al-tra esperienza?Personalmente non mi ritengo uno sce-neggiatore di professione, anzi, non hoil mestiere per farlo. Ecco perché le Tra-gifavole, mio -per ora- primo e unico la-voro da autore completo, hanno un in-cedere così strano e sregolato (ma che co-munque ha colpito molto i lettori, a quan-to ho potuto constatare). Ti dirò che quin-di lavorare con altri sceneggiatori –di pro-fessione- mi permette di concentrarmi

unicamente sui disegni e tutto diventapiù sciolto, morbido e naturale. Mi rilas-so, insomma. Ebbene sì, il mio lavoro èdisegnare, e disegnare mi rilassa: sonoun privilegiato, lo so.Quando invece devo tirar fuori una sto-ria dalla mia testa lo faccio con una cer-ta dose di malessere, ma non perché vadoincontro a un qualche blocco creativo,anzi. È un malessere dettato dal fatto chescrivo quasi sempre e solo per tirar fuo-ri un disagio. Le Tragifavole sono una se-rie di racconti nata nel corso di diversianni, che piano piano son rimasti lì a gal-la, fino a che poi non ho più potuto la-sciarli ‘stagnare’. Dovevano lasciare po-sto ad altro.Scrivere i dialoghi di un fumetto e scri-vere i testi di una canzone. Quali sonosecondo te le principali differenze di duetesti che necessitano entrambi di una cer-ta sinteticità?La prima e più evidente caratteristica del-la canzone è che è costruita quasi su uno

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schema matematico, dato che deve convivere con la musica. Ha neces-sità di rima (non sempre, fortunatamente) ma soprattutto di metrica(anche se alle volte si può ‘barare’). La sintesi che si attua nel testo diuna canzone è più forte di quanto si debba fare in un fumetto, biso-gna appellarsi a quella che Jannacci chiamava poetastrica. Anche i dia-loghi che mettiamo nelle cosiddette nuvolette nascondono però delleinsidie, anzi molte. Io ho cercato di evitarle, nelle Tragifavole, spostan-domi più su un gergo quotidiano che, se noti, si distacca molto da quan-to si legge normalmente nei fumetti popolari, come Dylan Dog per esem-pio, che proprio in questi giorni sto terminando di disegnare.Facendo riferimento alla storia che hai scritto per la 24h del 2007, mipotresti dire quali sono le principali difficoltà del tuo lavoro?Premetto che le difficoltà di una 24ore in cui bisogna fare 24 paginedi fumetto sono tantissime. Molte più del normale, ecco perché dopoben tre edizione di fila (tra cui la storica prima di Milano nel 2005) hodeciso di desistere. Come ti dicevo mi trovo costretto a scindere il la-voro di solo disegnatore da quello di autore completo.Quando disegno le difficoltà tecniche non sono molte, anzi se mi trovo difronte a qualche vignetta compli-cata o a qualche tavola ‘ardita’,questo diventa più uno spronomaggiore, piuttosto che una diffi-coltà. Al massimo può capitare ditrovarsi in totale divergenza crea-tiva con lo sceneggiatore, ma è dif-ficile che questo avvenga. In quelcaso subentra il fattore ‘professio-nalità’: questo è il mio lavoro e cer-co di farlo al meglio, anche quan-do non sono estasiato dalla storia.Analizzando invece le difficol-tà da autore unico le cose sicomplicano: come ti dicevonon ho mestiere (nel senso an-tico del termine) nello scrivere,quindi o mi trovo di fronte aun’ispirazione viscerale oppu-re evito di farlo, di fare fumet-ti tutti miei. Molto spesso mitrovo di fronte a storie chenon riescono ad arrivare adun finale soddisfacente per cuirimangono lì, nel cassetto, o piùverosimilmente in una cartellasull’hard disk del computerchiamata ‘storie senza fine’.Rimangono lì perché prima opoi da qualche parte dovrannoandare, di questo sono certo.

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Passando alla lavorazione, che tecnica hai utilizzato per le Tragifavo-le e da cosa è stata dettata la scelta monocromatica del seppia? È sta-ta tua o concordata in fase editoriale?Da qualche anno ormaisono passato all’utilizzodel pennello. Le Tragifavo-le, quindi, sono state realiz-zate (come tutto quelloche faccio) con un pennel-lo numero 2, in martoraW&N e china nera. Non usopraticamente altri stru-menti. Qualche pennarelli-no per piccoli ritocchi,eventualmente per le par-ti più delicate delle campi-ture, ma in linea di massi-ma con un pennello e unaboccetta di china possofare più o meno tutto. Tut-to quello che son capace difare naturalmente. Nontutto in senso assoluto.Le tavole delle Tragifavo-le, in realtà, non sono inseppia, ma sono in chinadiluita (quindi nere e gri-gie). La decisione di virareil tutto al seppia è nata perdifferenziare questo lavo-ro da G&G, altro mio libro(e di Davide Barzi) uscitopochi mesi prima, sempreper lo stesso editore, Re-Noir Comics (libro dedica-to al teatro-canzone diGiorgio Gaber).Il seppia in ogni casodava alle storie un caloreparticolare, che mi ha su-bito convinto.In una delle favole c’è una battuta che fa riferimento ai “fumetti di se-rie B”: quali sono secondo te?Accidenti non mi costringerai a fare dei nomi. Mi sembrerebbe anti-patico… diciamo che ci sono alcuni fumetti che non hanno mai il co-raggio di essere fumetti ma vorrebbero essere solo ‘narrativa’ e altrifumetti che non riescono nemmeno da lontano a sembrare ‘narrati-va’. Ecco questi non mi piacciono mai molto… spero di non essere ri-sultato troppo ermetico in questa mia risposta.

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A Otello Soiatti, con riconoscenza

di Giannino Piana

Ho conosciuto Otello Soiatti – Otèlo come da sempre preferisce farsichiamare nel ricordo delle sue origini istriane – circa quaranta anni fa,nel locale, che aveva preso in affitto nel centro di Novara, per promuo-vere una serie di iniziative culturali, che spaziavano da conferenze ecicli di lezioni sui temi più diversi a letture di poesie e di prose poe-tiche, da mostre di pittura e di grafica alla redazione della rivista “Tem-po sensibile” fino all’organizzazione del premio letterario “Città di No-vara”, che ha coinvolto nel trascorrere degli anni un numero semprepiù nutrito di concorrenti provenienti da ogni parte d’Italia. Mi ha su-

bito colpito la passione, la tenacia e il disinteresse con cuispendeva il suo tempo (e probabilmente anche par-te delle sue risorse economiche) per un servizio cul-

turale alla città, senza ricevere peraltro dalle isti-tuzioni pubbliche il riconoscimento e la gratitu-dine che si sarebbe meritato. Proveniente dal-l’Istria, e più precisamente dalla città di Pola, dal-la quale è stato costretto ad emigrare come esu-le insieme a molti altri conterranei, negli anni

Cinquanta, Otèlo ha conservato sempre viva la no-stalgia per la sua patria lontana; una nostalgia

struggente che affiora ogniqualvolta il di-scorso cade sulle origini, e i ricordi, sem-

pre nitidi, dell’infanzia e dell’adolescen-za trascorse in quel lembo di terra ap-

paiono soffusi da un velo di mesti-zia, divenuto un tratto distintivo

della sua personalità. L’inseri-mento nella città di Novara

non è stato per lui (come delresto per molti altri pro-

venienti da fuori) un’im-presa facile: la pro-verbiale diffidenzadei novaresi, soprat-tutto verso chi dimo-

stra spirito d’iniziati-va (in qualsiasi campo

ciò si manifesti) nonha man-

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cato di procurargli momenti di scoramen-to. Ma Otèlo ha saputo resistere con osti-nazione e oggi, a distanza di anni, puòdire con orgoglio di aver dato il propriocontributo alla costruzione di un tassel-lo significativo della cultura della città.Il merito più grande di Otèlo non sta tut-tavia nella sua attività di operatore cul-turale, per quanto – come si è detto – as-sai importante. Sta soprattutto nella at-tività poetica, da sempre coltivata, ma cheè andata soggetta, negli ultimi decenni,a un processo di accelerazione di parti-colare intensità. Il ritiro anticipato dal-la De Agostini, dove ha lavorato per lun-ghi anni, e l’abbandono di ogni iniziati-va pubblica (compresa la rinuncia allapubblicazione della rivista “Tempo sen-sibile”; rinuncia che gli è particolar-mente costata) hanno provocato l’emer-gere di uno stato di effervescenza crea-tiva che si è tradotta nella pubblicazio-ne di un numero sempre maggiore di li-riche con una varietà di soggetti e di for-me espressive davvero sorprendente. Èun vero peccato – ma anche questo(forse) fa parte di quella diffidenza tipi-camente novarese di cui si è accennato– che non si sia trovato un editore loca-le disposto a raccoglierle (almeno alcu-ne) in un testo antologico, offrendo inquesto modo ad un vasto pubblico lapossibilità di fruirne. Sì, perché Otèlo èun vero poeta, che nasconde, sotto lascorza apparentemente rude della suapersona – chi lo conosce sa che questodipende dal suo carattere schivo e dal-la sua innata timidezza – una squisitasensibilità per le vicende degli uomini eper i colori della natura, rivelando unafinezza d’animo non comune e unagrande capacità di trasferire sulla cartaimpressioni ed emozioni, trasfigurategrazie alla forza del suo istinto interio-re. È un poeta che sa interpretare, pene-trandoli, i messaggi che vengono dalle si-tuazioni più ordinarie della vita, ricavan-done suggestioni che accendono do-mande, antiche e nuove, di senso. È, in-

fine, un poeta che sa scavare in profon-dità nella memoria del passato – è que-sto anche frutto della sua esperienza diesule – non per arrestarsi ad essa ma peraprire varchi di speranza per il futuro.Di tutto questo (e di molto altro ancora)gli siamo sinceramente grati celebrandocon gioia i suoi ottanta anni. Ad multosannos, Otèlo!

Pittore del silenzio,poeta dell’essenza,editore di cultura, percinquant’annioratore novarese:gli ottantadi Otello Soiatti

Di Liviano Papa

Lungo e sensibile, umile e riservato, è ilpercorso silenzioso e continuo nellacultura novarese di Otello Soiatti, che, findai primissimi Anni Settanta, ha dona-to alla città di Novara, il suo ingegno, lasua spontaneità, il suo slancio di gran-de generosità a favore di un ideale di cul-tura e umanesimo universale, osteggia-to, nel suo cammino da incomprensioni,inadeguatezza e mancanza di di apertu-ra di quel lembo di cultura cittadina ver-so il nuovo che avanza, ad aprirsi ad essoe non rinchiudersi a riccio, senza possi-bilità di dialogo. Otello Soiatti (1930, 13ottobre), figlio di Vittoria Crismanich edi Giorgio, profughi dell’Istria, di Pola, havissuto quel fardello di atrocità che la sto-ria, in ritardo, riconosce. Abbandona, co-stretto, la sua terra generatrice. A Nova-ra, lavora come analista chimico alla Ro-diatoce, successivamente all’istitutoGeografico De Agostini, come cromista;stimato dai fratelli Baroli, Adolfo che in-

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tratterrà un ottimo rapporto fiduciarioe di stima, anche quando prenderà la de-cisione a quella “Grande avventura cul-turale”, sorreggendolo sempre e daAchille, il primo Amministratore delega-to, il secondo, Presidente dell’istituto; finquando, convinto, compie quel genero-so gesto di donarsi alla cultura, che nonè solo novarese ma universale, trascinan-do in questa splendida avventura laconsorte Romana Massarotto (1932-1988), di Rovigno, conosciuta all’età di16 anni, lui più anziano di due, dalla qua-le unione nascono Daniele, Laura e Eli-sabetta. La moglie, per un male incura-bile, dopo vicissitudini familiari (la cop-pia si separa), anni dopo viene a manca-re. Competente, lavoratore scrupoloso,serio, molto stimato, sente la necessitàdi esternare la sua gioia di vivere, di svi-luppare i suoi pensieri, di esternare lesue capacità nell’ambito della cultura,dell’arte (è uno dei primissimi acredere nella pittura di Dario Bre-vi che, successivamente, sarà unodegli esponenti di spicco dei nuo-vi futuristi, gruppo voluto dalnoto gallerista milanese Lucia-no Inga Pin, Alessandro Savel-li e aver portato in auge al-cuni artisti di grande sen-sibilità che hanno con-tribuito a fare la sto-ria dell’arte), come iltoscano GiovanniAcci, della musica,della poesia, nelmondo radiofoni-co. Con gli AnniSettanta dà l’avvioa questa avventuraculturale, caldeg-giata dalla fami-glia, nel promuove-re premi letterari enello stampare larivista Tempo Sen-sibile. Organizzato-re di concorsi, pre-

mi letterari, mostre, convegni a tema po-litico, fine pittore, meditativo e contem-plativo, silenzioso. Il suo lungo percor-so, felice e tortuoso, ancora oggi, che èinsigne poeta, non è accettato o compre-so dalla cultura novarese, anche se ne-gli anni, non è mai venuto meno quellospirito poetico che fa grande la colletti-vità, la città di appartenenza che ha unsuo Grande Figlio, non ancora scopertoe valorizzato. Schivo e silenzioso, Otel-lo Soiatti ci trasmette una grande lezio-ne di vita.

Il quadernodei versi polensidi Otello Soiatti

Di LiciaMicovillovich

Chi volesse una voltadi più ripercorrereidealmente le con-trade di Pola e nel

contempo confronta-re le proprie sensazio-

ni con quelle di uncompagno di viaggio,

non troverebbe occasio-ne e persona più adatte di

Otello Soiatti e del suo “Qua-derno dei versi polensi”,nel quale si intrecciano fit-tamente ricordi, leggen-da, cronaca e Storia. Mon-te Zaro, San Michele,Monte Ghiro, la Riva, iGiardini sono “luo-ghi” di una leggendacollettiva e perso-nale inscindibiledalla Storia anticae recente. La non-na, gli amici, ilprimo amore vi-vono nei nostri

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ricordi in questa cornice idealizzata e rea-le ad un tempo. I “luoghi” sono ancoralà, spesso immutati. Possiamo, riveden-doli, oscurare quanto di attuale non ci ri-guarda e ritrovare le nostre orme equelle di chi ci ha visto nascere o ci haaccompagnato nella crescita. Possiamoaccendere un virtuale occhio di bue eorientarlo sui segni leggibili solo per noi,facendoci registi e attori di quella ricer-ca di sé che non sia contemplazione ma-linconica delle cose perdute ferme a quelgiorno fatidico, quanto piuttosto rivisi-tazione di tappe, situazioni e fatti fon-damentali nella costruzione della nostrapersonalità. Quasi un tornare a scuola colnostro compagno più attento e sensibi-le, nel banco di una volta. Cos’è la nostraterra se non una grande scuola dove ab-biamo conquistato identità, sentimenti,abilità indispensabili a vivere? Cammina-re, parlare, nuotare,capire la natura,leggere, amare la patria. Chi ha impara-to a camminare su un deserto non saràmai uguale a chi ha mosso i primi pas-si sull’erba; chi ha imparato a nuotare nelfiume ha una conoscenza dell’acqua di-versa da chi ha fatto il “cagnetto” in Man-dracchio. Chi è nato in un paese sperdu-to non può avere innato il senso della Sto-ria come chi ha avuto la ventura di apri-re gli occhi all’ombra di monumentali ve-stigia di un lontanissimo e meno lonta-no passato. Nel percorso che Otello So-iatti ci propone il senso della Storia è do-minante, espresso in toni pacati, ma net-ti, essa è il grembo in cui è cresciuta ognistoria personale e quella di un popolo,lieta, triste, tragica. E la lettura, sempregratificante, di questi versi armoniosi dilargo respiro riserba qualche sorpresa:l’esule sa volgersi indietro verso amici econoscenti che non condivisero la suasorte dopo aver condiviso cultura, tradi-zioni, abitudini e affrontarono così un di-verso esilio, riconoscendo tardi l’espro-priazione.

CONCERTOLeggo affiorante cauto dal silenzioil modulare virtuoso del violinonell’apparente aereità del suonoche si fa corpo e anima furtivada nota in nota e agile armoniasu cadenze dettate al pianofortenel lirico afflato strumentaledi un concerto che presto finirà.

NATALEVive il Natale a luci intermittentisull’abete da cromie inghindarlatoQualche candela langue e si consumaNel riquadro festoso della sera…Anche il presepe attende lietoevento fissato a mezzanotte…E all’ingiro il pacco dei regaliA soddisfare la sete dell’avere.

RISACCALeggo il flusso costante del pensareche rapido s’insinua nella mentecome un’onda fremente di risaccain spruzzi franta turbinosi e varinel variegare dentro la memoriaradunata allo scoglio solitariofratello di altri scogli solitariche il mare lambe appena e se ne va.

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Cultura è diverso da “Culturale”

di Fiorangela Di Matteo

Oggi, così come siamo, si è nella migliore situazione possibile: si puòsolo migliorare (e rubo il sillogismo a Mago Merlino quando incita Se-mola a lavorare per porre le basi al futuro Re Artù ch’egli già sapevaesistere in lui).L’argomento “culturale” questa volta prende spunto dai linguaggi cheemergono nella vita di tutti i giorni, da ciò che appare sui quotidiani,nelle riviste, in televisione, in radio; insomma nei principali mezzi di

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Altare (SV) Villa Rosa – Sede Museo dell’Arte Vetraria.( Courtesy Museo del Vetro)

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Page 82: SaTuRa · NONO PREMIO alla poesia Se solo ... Forse anche ella un giorno intonò un canto alle attese e agli eventi affidando il messaggio del ... da questa piazza, sospeso

comunicazione. Il vocabolo è, a dir poco,abusato. Tutto, quasi tutti gli argomen-ti trattati sono accompagnati dall’agget-tivo “culturale”. La considerazione èd’obbligo: se è vero che tutto è culturae che la “Cultura” è alla base di tutte lemanifestazioni dell’uomo è anche veroche l’aggettivo “culturale” limita a fattodi poco conto una cosa seppur eccezio-nale. Non siamo forse arrivati al puntoin cui si ricominci a chiamare le cose conil proprio nome?La definizione in sé poco avrebbe di irri-verente, è l’abuso che l’ha banalizzata! IlTurismo culturale, in primis, la scopertadell’interesse del pubblico (quindi un fi-lone da sfruttare da un buon ufficioMarketing) per mostre, mercati, sagre, fie-re, festival ha creato la necessità di iden-tificare un’attività che di suo avrebbe unfine molto più generico e indefinito.Perfino i programmi televisivi hanno mo-dificato il modo di proporsi inserendo iltermine “culturale” in rubriche e sezio-ni di programma con l’ottica di rivolger-si a quella categoria di persone che“chiedono di più” ai programmi defini-ti “di intrattenimento”, con il fine ultimo,ben si badi, di omogeneizzare il tutto.Ma tutto questo perché? Nel mondo dioggi tutto è mercato, quindi tutto è de-terminato dalle leggi del mercato; i pro-tagonisti del mercato sono: offerta e ri-chiesta. La richiesta di qualificare un’at-tività rappresenta, per un buon ufficioMarketing, la soluzione per vendere unparticolare prodotto. Il termine cultura-

le offre, in questo senso, la soluzione achi chiede la particolarità della cosa, ilcammeo, oggetto della qualificazione del-l’offerta. Un buon ufficio marketing hala capacità, poi, di generare un’attesa nelconsumatore finale (in questo caso nonsi parla né di visitatore né di pubblico nédi utente, bensì di “consumatore”) che sideclina attraverso foto accattivanti discorci e campanili, oppure tramite ripro-duzioni di soffitti in mattoni e/o a bot-te all’interno dei quali il consumatore sisente protetto e ben custodito. A questoriguardo il ritorno al passato è rassicu-rante: il passato è passato e non può pre-sentare novità inquietanti (tipiche cosedella realtà quotidiana). Ecco allora il fio-rire di resort, location simil - medievalie case-vacanza in antiche cascine, mostredi autori semisconosciuti, presentazio-ni di libri autoprodotti, convegni o con-ferenze intorno al pelo nell’uovo. Perchéqueste cose continuano a proliferare? Larisposta è semplice: il consumatore tro-va un’offerta già pronta e riccamente con-fezionata alla quale si adatta un po’. Lacosa presenta due grandi vantaggi: il pri-mo è la soddisfazione alla pigrizia o allafretta che ci accompagna attraversol’acquisto di un prodotto già bell’e pron-to, il secondo è che in questo mondo disolitudini ci viene prospettata una ma-niera per incontrare ed incontrarsi,quindi un’occasione di comunicazio-ne... Fino a quando? Speriamo sia unamoda passeggera e si ritorni alla cara vec-chia “sostanza”.

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PER LE ANTICHE SCALE

di Antonio Ferro

Amare così senza vedertiper ricordar soltantogli echi di parole amantiquando i pugni stringevano strettilenzuola di flanellaed il cielo tersoforzava le fessureper raggiungere i tuoi occhi.I sassolini bianchiperduti lungo la stradasempre conduconoal tuo verde portonesotto portici d’ardesia,e la mente saleper le buie scalecercando la luce lassùsotto antiche tegole di tetti.Quando i tuoi sussurrierano le sillabedei miei pensierilo spazio lì si dilatavae diventava immensocome l’angosciache sentivo dentrotriste presagiodi perderti per sempre.

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RENZOMAGGI – LEPAROLEDI PIETRAL’INAFFERRABILE DELLA BELLEZZA

di Roberto Valcamonici

La scorsa estate - in occasione della mostra di sculture e disegni “REN-ZO MAGGI – LE PAROLE DI PIETRA – L’inafferrabile dellabellezza”, pres-so la Galleria La Meridiana di Pietrasanta (LU) - la Fondazione Henraux,costituita di recente dall’ omonima storica azienda versiliese del mar-mo, ha pubblicato con lo stesso titolo una specifica monografia sull’ar-tista versiliese che ha dato avvio alla collana “I maestri dell’Henraux”.La Fondazione è nata dalla volontà di Paolo Carli (attuale Presidente del-la Henraux Spa) di recuperare e dare continuità al progetto e alla stra-ordinaria esperienza di Erminio Cidonio, amministratore unico della so-cietà Henraux negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, che riuscì a realiz-zare presso gli stabilimenti di Querceta un polo internazionale di scul-tura, con la presenza di artisti del calibro di Henry Moore, Jean Hans Arp,

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Anfitrite, bronzo, cm 70, 2010

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Juan Mirò, Antoine Poncet, Henri GeorgesAdam, Isamu Noguchi, Francois Stahly,Emile Gilioli, GeorgesVantongerloo, Giò Po-modoro e numerosi altri, che dettero vitaa una stagione artistica e culturale di gran-de vitalità, i cui effetti perdurano ancoraoggi nei laboratori e negli studi di scultu-ra di Seravezza e di Pietrasanta.La pubblicazione, a cura di RobertoValcamonici e con testi di Paolo Carli,Giuseppe Cordoni, Lodovico Gierut, An-gela Lazzaretti e Roberto Valcamonici(Bandecchi&Vivaldi, Pontedera-Pisa, 2011;206 pagine con illustrazioni a colori e inbicromia), è stata ufficialmente presen-tata il 5 agosto presso, il Salone dell’An-nunziata nel Chiostro di S. Agostino a Pie-trasanta, dai critici e storici dell’arte An-tonella Romualdi, Fulvia Strano e Costan-tino Paolicchi, alla presenza del sindacodott. Domenico Lombardi. La monogra-fia e la mostra, prendendo a pretesto lavitalità creativa di Pietrasanta nel pano-rama dell’arte contemporanea, si sono in-serite nel dibattito, fatto proprio anchedall’ultima edizione della Biennale di Ve-nezia, in merito alle ragioni attuali del-la Bellezza, se essa possa veramente esi-stere e cosa si debba considerare tale.Con riferimento all’opera dello scultoreRenzo Maggi, è ben evidente che la poe-tica impregnata del mito greco-ellenistadelle sue opere deve molto alla purezzadelmarmodalla quale egli fa nascere il suostraordinario virtuosismo espressivo. Vi è,dunque, come sostiene Giuseppe Cordo-ni nel testo pubblicato nel volume, un “bel-lo naturale” che lo scultore avverte pree-sistere nell’ordine stesso del Cosmo e neimateriali ch’egli presceglie. La scultura diMaggi, attraverso la sua raffinata distilla-zione formale, non fa che portare a com-pimento unametamorfosi del lutto in luce,attraverso una Natura capace di trasmu-tare nel suo grembo il nero del dolore incandore assoluto. A fornirgliene la chia-ve è il classico mito della Niobe mutilatadei suoi figli che del marmo sostanzia lastessa genesi; attraverso un’interessante

poetica del frammento, ove le sue figure-visioni balenano come catturate sul filo delsogno-mito-ricordo, pervase da un’aura lu-nare che ne determina la matrice forma-le e il sentimento. Sottili scaglie di statua-rio purissimo della Cava delle Cervaiole (leultime lacrime della Niobe) danno origine,allora, ai suggestivi “stiacciati” delle sue“donne-luna”. Come se soltanto dinnanziall’amoroso sguardo di Selene l’uomopotesse ritrovare quella giusta disposizio-ne d’animo che gli consente di tornare acontemplare e a riflettere.Stante l’ampiezza del volume, che si sno-da su un’intervista all’artista e ben cinquesaggi, proponiamoal lettore una sintesi del-l’intervento di apertura di Roberto Valca-monici L’inafferrabile dellaBellezza (nel vo-lume è ciò che appare come sintesi del sag-gio in inglese). Il libro haun costodi 20 euroepuò essere richiestodirettamente alla Fon-dazione ([email protected]).

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Il sogno di Selene, 2011marmo statuario Altissimo cm. 30

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L’INAFFERRABILEDELLA BELLEZZA

La storia della formazione del pensieroestetico moderno è lunga e complessa enon è certo possibile ripercorrerla in que-sto breve testo se non limitandoci a ri-chiamare solo le linee di fondo e i con-cetti fondamentali che possono essere diutilità a capire e a formarci un’ideapersonale sul tema tanto dibattuto del-la bellezza nell’arte.Riferendosi al ruolo dell’arte nella socie-tà, Freud sosteneva che l’utilità dellabellezza non fosse evidente e che, a pri-mavista, essanemmeno risultasse neces-saria alla civiltà, ma che, nonostante ciò,laciviltànon avrebbe potuto farne ameno.Lascienzadell’estetica studia le condizio-ni per cui il bello è sentito tale, ma i piùargomentano che tale scienza non è sta-ta in grado di fornire spiegazione alcunacirca la natura e l’origine della bellezza.La complessità e anche, in certamisura,l’equivocità insite nel binomio “arte-bellezza” sono ben espresse nel sopra ri-chiamato pensiero di Freud, secondo ilquale il vero scopo dell’arte è la libera-zione delle tensioni presenti nella nostraanima e che la sua forma visibile è sol-tanto un prodotto secondario in unprocesso rivolto a obiettivi che con label-lezzanon hanno niente a che vedere. Se-condo il padre della psicoanalisi, dunque,la bellezza non fa parte in nessun casodegli obiettivi immediati dell’artista; ciòa cui egli è veramente interessato sonoi problemi della vita: la bellezza gli ser-ve soltanto come arma, come difesa e se-dativo nella lotta con la realtà.Da quando Platone e Aristotele definiro-no l’arte una “imitazione della natura” esvilupparono le prime idee generali sul-la bellezza - secondo le quali il “bello” ve-niva considerato come uno dei caratte-ri costitutivi dell’essere, i loro successo-ri non hanno cessato di confermare, ne-gare, o precisare questa definizione.E’ nel secolo XVIII che, con riferimento

all’estetica, inizia una riflessione criticanuova e si sviluppa una teoria secondola quale la bellezza non è una proprie-tà oggettivadelle cose, masoltanto il frut-to di un incontro del nostro spirito conesse, cioè qualcosa che nasce solo per lamente e in rapporto alla mente. Bellez-za, quindi, come ideale che si rivela nelsentimento e che identifica, o per lomeno riavvicina, i sentimenti estetici aquelli etici.Sul piano pratico, lo svolgersi del pensie-ro filosofico-estetico, a cui si è accenna-to, ha fatto da cornice alla nascita e al-l’evoluzione degli stili artistici negli ol-tre due millenni che ci separano dalle pri-me formulazioni del pensiero estetico daparte dei filosofi greci. Si è passati da unconcetto di Bellezza che esiste fuori dinoi, come pensava Platone, a unaBellez-za che è proiezione del nostro spirito,come pensava Kant; al superamentocon il Rinascimento della concezione me-dievale dell’arte come attività manualee meccanica, dove l’artista è autonomonel determinare l’orientamento ideolo-gico e culturale del proprio lavoro; dal-la grigia uniformità accademica del Neo-classicismo agli impulsi innovatori delRomanticismo; dal linguaggio impressio-nista, basato sull’uso della luce e del co-lore per una rappresentazione della re-altà esteriore, all’ Espressionismo chesposta la visione dell’occhio all’interio-ritàpiù profondadell’animo umano e allacarica sovversiva delle avanguardie delsecolo scorso che, nel voler disvelare isentimenti più reconditi dell’animo uma-no, sembrano bandire la Bellezza dal-l’orizzonte estetico e rivalutare la disar-monia e il fascino del Brutto, come Ba-con fa, ad esempio, deformando il dipin-to di Papa Innocenzo X di Velazquez.Questa esperienza ci dice, innanzitutto,che ogni forma di arte dipende in granparte dalla sensibilità del suo tempo eche ogni generazione ha guardato l’artecon occhi nuovi e diversi e che, quindi,è soltanto dall’accumularsi delle diver-

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se interpretazioni che risulta il senso pie-no di un’opera d’arte per la generazio-ne successiva. Emerge, inoltre, che il con-cetto del bello è fatalmente generico e pe-nosamente vacuo. Si ritiene, infatti, co-munemente bello quello che piace agli oc-chi e che viene osservato con piacere, sen-za però considerare che il piacere offer-to dalla natura è di specie diversa dal go-dimento artistico.Dunque, poiché c’è un abisso fra bellez-za naturale e pregio artistico, da molteparti si sostiene che andrebbe evitato iltemine “bello” nel giudizio sull’arte e con-siderato che per poter correttamente in-

terpretare e penetrare nel processo di for-mazione dell’operad’arte è assolutamen-te indispensabile che questa venga let-ta nel punto di vista dell’artista. Un’ope-ra d’arte, per sua stessa natura, non è néuna componente, né una copia del mon-do della realtà, ma un mondo a sé stan-te, libero, completo, autonomo e per com-prenderla a fondo è necessario entrarein quel mondo, conformarsi alle sue leg-gi e ignorare al contempo le credenze, gliobiettivi e le condizioni che ci sono pro-prie nel mondo della realtà.Nella concezione esteticamoderna, sem-pre più si va affermando che l’arte si ètrasposta dal piano della contemplazio-ne e rappresentazione dell’ordine delcreato a quello della ricerca e del dibat-tito e, quindi, che la bellezzanon sta tan-to in ciò che si vede, ma piuttosto nelmessaggio di cui l’opera è portatrice. Talemessaggio, spesso anche provocatorio,va decifrato e se noi non sappiamoniente o non vogliamo saper niente delfine che l’artista ha voluto perseguire, lasua arte non ci potrà dire molto.Il giudizio di ciò che individualmente con-sideriamo bello dovrebbe, dunque, poterscaturire dauna libera, mapenetrante at-tività di interpretazione del lavoro del-l’artista, capace di far emergere il suo spi-rito creativo e di decifrare il più possi-bile correttamente il contenuto del suomessaggio artistico.In conclusione, possiamo affermare chela Bellezza è dappertutto: è nella realtà,è nelle schegge di vita che gli artisti tra-sformano in opere, è nella memoria diimmagini che si alimenta dal vissuto diogni artista, è nell’altrove dell’artista cheper mezzo di essa definisce e interpre-ta il mondo. La Bellezza, con la sua di-mensione etica ed enigmatica, rimane co-munque sempre l’interrogativo fonda-mentale dell’arte e un’urgenza dell’artecontemporanea.

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Niobe mutilata dei suoi figli, 2011marmo statuario Carrara cm 90

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CARLO SERRALA VOCE E LO SPAZIO - per un’estetica della voce

di Delia Dattilo

Carlo Serra è nato a Milano nel 1959 dove, a conclusione del suo per-corso accademico presso l’Università Statale di Milano, si è laureatoin filosofia, su relazione di Giovanni Piana, con una tesi su La conce-zione dello spazio musicale nel pensiero di Jacques Chailley.Sin dagli esordi, partendo dai paradigmi metamorfici della fenomeno-logia husserliana, lo studioso ha inteso improntare la sua ricerca sul-le strutture simboliche del suono, le morfologie dello spazio musica-le e l’analisi delle strutture ritmiche, privilegiando le osservazioni sulrapporto tra il suono e lo spazio e tenendo conto di alcuni esempi delrepertorio artistico figurativo occidentale, ma anche di certi eventi per-formativi novecenteschi, di cui si è servito per corroborare le sue ar-gomentazioni sulle relazioni acustico-spaziali date e poi organizza-te, quindi intenzionali.In Musica Corpo Espressione (Quodlibet Studio, 2008) si è occupatodei rapporti che la musica organizza con lo spazio in cui si trova a ri-suonare; lo ha fatto sondando sia le riflessioni sugli attributi acusti-ci in sé, che sulle modalità espressive, narrative della qualità timbri-

ca dell’entità sonora, per cui - e con cui - nelNovecento sono andate delineandosi delle pre-cise prospettive di elaborazione della nozio-ne di corpo sonoro.L’orientamento fenomenologico della sua ri-cerca è chiaro sin dalle prime pagine del te-sto del 2008, quando asserisce che «la mu-sica […] non è primitiva ed elementare sul-la sua superficie, ma lo è essenzialmente: ilsuo corpo tiene assieme elementi sempli-ci ed oggettivi quali le note, i timbri, i rit-mi, e li porta ad evidenza, rendendo pos-sibile il concretizzarsi delle sue strutturesul piano dell’ascolto» (Serra, 2008, p. 10).Sembra riaffiorare la Filosofia Primadove, per Husserl, «noi, in quanto filo-sofi agli inizi, essendo dunque involon-tariamente diretti all’idea di una cono-scenza universale […] vogliamo segui-re il principio dell’ “evidenza” pura,nella più stretta universalità del vo-lere. […] Non vogliamo riconoscerenulla definitivamente come esisten-te o esistente così, in qualsivogliamodo d’essere, che non ci stia da-

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vanti agli occhi come esistente così ocome esistente nel suo modo d’essere,che non cogliamo in se stesso esattamen-te come è stato inteso e posto nella no-stra credenza conoscitiva».Elaborando i temi relativi all’organizza-zione della scansione ritmica e le rela-zioni entro cui avviene il confronto trail timbro vocale e il rumore, la nozionedi corpo sonoro diventa il riferimentotangibile attraverso cui lo stesso even-to sonoro si manifesta; in altre parole«il corpo […] è il suono, inteso come unamaterica concretezza attraverso cui sirende visibile un gioco di forme» (Ser-ra, 2008, p. 10).La riflessione che accompagna a posterio-ri questa definizione gravita attorno al-l’idea dei rapporti tra il timbro e la formasimbolica, che ad esso va integrandosi cul-turalmente, in particolar modo nell’inte-razione del suono con lo spazio, dalla qua-le sorge inevitabile una matrice narrativa,tale perché del tutto pertinente e compre-sente alla qualità del segnale acustico,quindi materiale concreto che rimandaal-l’idea di ciò che è in sé e di ciò che diven-ta nel farsi mondo.Nel testo pubblicato da il Saggiatore (Lavoce e lo spazio, per un’estetica dellavoce, 2011), Serra torna ad affrontare laquestione dei rapporti intercorrenti trai suoni e lo spazio, ridefinendo e indivi-duando nella voce umana il soggetto del-la sua riflessione («Il mondo raccontatoattraverso la vocalità»): le considerazio-ni si infittiscono e specializzano non cer-to per un puro manierismo accademico,né perché sia ritenuto concluso un per-corso d’indagine più generico relativo alcorpo sonoro, al contrario, e in assolu-ta coerenza con le dissertazioni prece-denti, l’ultima fatica si stringe intimamen-te attorno alla dimensione vocale, descri-vendone la struttura senza pretendere diconsegnarsi al pubblico attraverso unapretesa teoretica assolutistica, ma con-fessando immediatamente la sua natu-ra interpretativa.

La voce è trattata come evento nonesclusivo dell’organo auditivo che lapercepisce, o dell’apparato che la produ-ce, ma come epifania interagente con lospazio: suscettibile alla disciplina.La sottomissione della voce alla regola for-male e stilistica, nel corso della storia, hasospinto il pensiero filosofico a porre - eporsi - una serie di problematiche - di na-tura ora qualitativa (Aristosseno), ora eti-ca (Platone), ora rappresentativa (Schopen-hauer) - gravitanti attorno la sua effettua-lità, sia nel sistema spaziale sia in quel-lo iconico. In quanto evocazione la voceè un atto cerimoniale che si estrinseca neitermini di un relazione instaurata sullefondamenta dell’espressività che, pertan-to, sottintende la necessaria presenza delcarattere di un io coestensivo.Ne La voce e lo spazio l’operazione com-piuta è quella della costruzione di una va-sta rete di sottilissime analogie e analisidi alcune eventualità vocali appartenentialla sfera dell’oralità, nelle quali è possi-bile scorgere l’oggetto delle meditazionisulla materia vocale che ha permeato il No-vecento - da Schoenberg a Bartók, da Nonoa Ligeti.

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ROBERTA BUTTINI

di Giorgio Di Genova

In Liguria, e precisamente a Genova, anche la toscana Roberta Butti-ni dal 1970, cioè quasi in contemporanea con Costa, s’è applicata allostudio dell’evoluzione umana, rivolgendo il suo interesse all’antropo-logia sociale e culturale dei miti e dei rituali dalla preistoria all’archeo-logia industriale, non senza affondi nella comunicazione.Pertanto nel suo lavoro ella accoglie reperti del neolitico e oggetti d’usoquotidiano, considerati come i totem del nostro tempo, nonché oggettidi archeologia industriale. Nell’ambito di tale ricerca nascono, nel ‘73,Con-sumismo, sorta di mostro inghiottitore, realizzato con una dentata boc-ca, spalancata sistemata su un w.c. ed un paio d’occhiali da sole; nel ‘74,i dipinti Ipotetici segni comunicativi, tavole sinottiche con elementi neo-litici e fossili o con segni grafici primordiali; nel ‘75, l’ambiente Evolu-zione, impostato sulle “radiografie” dei crani dell’homo sapiens attualee dell’homo futurus-umanoidi sulle pareti e gli oggetti e apparecchi re-lativi al suo habitat, telefono compreso: nel ‘76, in agosto, all’interno delcapannone dell’Officina Trasformatori della Compagnia Italiana Elettri-cità Ligure, Carro ponte, una performance con protagonista un gancio

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Arte maschile, juta, cuoio, legno su tela, cm 130x150, 1990

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bicorne, a voler testimoniare l’agonia e lamorte del vecchio oggetto industriale(198); nel ‘77, l’installazione Equazione, co-stituita da immagini su fondo rosso e fon-do bianco, abbinate a coppia e appese allepareti, poste in rapporto dialogico con labipartita Oppressione del ‘75, sistematainclinata a terra. (...)La performance è stata poi presentata nel-l’ottobre dello stesso anno alla Galleria LRdi Genova. Altri lavori di archeologia in-dustriale sono Per la ricostruzione euro-pea, Alchimia e galvanizzazione Allarmi,gli ultimi due relativi a impianti industria-li sorpassati, come Centrale termica, co-stituita da fotografie della vecchia centra-le termica di Canevari, che fu la prima deltipo costruita dall’Ansaldo di Genova,utilizzata per l’illuminazione stradale,l’alimentazione del tram e le piccole uten-ze domestiche privilegiate di Genova. (...)L’arte antropologica di Roberta Buttini pre-senta analogie e divergenze con quanto hafatto Costa. Infatti anch’ella recupera ma-teriali poveri, dal legno al tessuto, alle con-chiglie ed altro, ma li mette in rapporto conla pittura, nonché con la scrittura traideografica e cuneiforme che non di radoassume forme pittografiche. Inoltre i suoibacini di riferimento sono altre culture, daquelle dell’America Centrale a quelle del-l’Oriente, anche estremo, passando perquelle aborigene dell’Australia. La suaproduzione, come ha osservato Beringhe-li, “nasce dal proposito di creare unastruttura formale adatta a comunicare unsostrato, un riferimento emozionale osensibile, come è nel caso in cui “inventa”un alfabeto probabile, proponendo addi-rittura una inevitabile vertigine mentale chetiene conto della fonologia e delle differen-ti pronunce. O laddove trasforma il passa-to magico e rimosso della primitività in un“figurato” che sollecita aree tipiche dellamitologia pagana o della ritualità tribale”.La Buttini in realtà più che proseguire ildiscorso antropologico/artistico di Co-sta lo sposta nell’ambito della pittura, incui affoga talvolta i reperti oggettuali, e

del segnismo che dall’impianto scrittu-rale dei lavori del ciclo Artificio comu-nicativo n.2 del 1980, in cui non manca-no epidemie di papiri con geroglifici, slit-ta negli esiti decorativi del ciclo Segni co-municativi del 1996-97, ciclo che giun-ge addirittura a far ricondurre i segni ver-so l’ideografia, com’è nella tavole delle81 “piastrelle incorniciata da un alfabe-to astruso (Segni comunicativi, 1997).Ovviamente la comunicatività di tali arti-fici e segni è comunemente frutto di unapersonale rielaborazione fantastica dell’ar-tista quale a furia di praticare l’antropo-logia assorbe l’immaginario magico oscil-lante tra il grafico-simbolico e l’iconismosemplificato per suggestioni neolitiche otribali in composizioni affollate e non dirado pletoricamente riccamente affastel-late in atmosfere in cui le parti in luce evi-denziano immagini, disegni e segni, chenelle parti in ombra vengono assorbiti (Ma-gia del segno, 1996).La Buttini, tuttavia, mescola all’antropo-logia culturale dei miti e dei rituali gli og-getti d’uso quotidiano e dell’archeologiaindustriale cui reperti considera totemdel nostro tempo, con palese contamina-tio di pensiero tribale e post-modernocon risultati di adattamento dell’otticadell’arte antropologica al versante par-ticolarissimo dell’industrial art, per cosìdire. (www.robertabuttini.com)

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Ipotetico alfabeto, olio su tela, cm 119x141, 1980

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ORETTA CASSISI

di Francesca Tosa

Oretta Cassisi, allieva di Scanavino, Garaventa, Verzetti e Fieschi havissuto e lavorato a Milano e Roma. Artista d’esperienza, in continuaevoluzione artistica, si muove attualmente nel panorama italiano, pro-ponendo lavori dalle diverse sfumature sia tematiche che tecniche. Dal-la sua prima personale del ‘76 in piazza di Spagna non si è mai fer-mata: esposizioni, mostre e vernissage. Fa parte dei 100 Pittori di viaMargutta fino al 1980, in seguito del gruppo “Pittori del Naviglio” diMilano. Nel 1977 è la volta della sua Personale a Roma nella Galleria“Cedimarte” di Sinibaldi. Con la “Numana Ars” di Roma partecipa anumerose collettive conseguendo premi e segnalazioni. Nel 1979 Rea-lizza un’opera, “Il Baccanale”, per l’Accademia della Marca di AscoliPiceno. Si susseguono numerose Personali, a Siena, Genova e Milano.Nel 1982 consegue il Secondo Premio Accademia Internazionale ArteModerna di Roma. Poi Ginevra e di nuovo Milano. Un turbinio di co-lori ed emozioni per un’artista attenta ai temi sociali, etnici, urbani-stici. Dà voce a quell’inconscio che silenziosamente domina le nostreesistenze, architetture antropomorfizzate, città sommerse e metafo-re irriverenti. Inizia un periodo di studio e sperimentazione artistica;l’evoluzione della tecnica pittorica porta la pittrice ad una nuova “per-

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Cubo tavolino, plexi stampato, cm 40x40x40, designer Federico Ruggiero

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sonale” dopo circa sei anni. Dal 1996, laGalleria Nazionale d’Arte Moderna diRoma conserva alcuni dei suoi lavori ealcune opere sono tuttora in permanen-za nello spazio espositivo di Viale Vitto-rio Veneto e nello spazio espositivopresso lo studio dell’architetto Bruna So-linas. Dal 2001 espone alla III° Biennaled’Arte Moderna di Firenze; a Genova inoccasione della “Mostra del Collezioni-smo e Luministica”, “Non solo moda” artee spettacolo e Fiera d’Arte Contempora-nea. Poi la I° Triennale d’Arte Contempo-ranea a Parigi. Dal 2006 Collettiva “Eccen-triche Visioni” Castello della Lucertola adApricale, “MACEF”, Personale d’ArteContemporanea a Palazzo Ducale diGenova e collettiva sulla Shoa. Rassegnad’Arte Contemporanea “Probabili Indizi”- Galleria Satura – Palazzo Stella a Geno-va. Nelle sue opere, legate a doppio filotra immaginario e realtà, si evidenzia una

particolare attenzione al colore e all’uti-lizzo dei materiali. Di formazione pitto-rica e grafica, l’artista ha talvolta inseri-to nei suoi quadri elementi scritturali chefondendosi con l’immagine rendono im-mediatamente l’idea di un arte impron-tata non solo sull’aspetto estetico ma diun’arte umana, intrisa di sentimento maanche d’ironia. Dimostra notevole padro-nanza nella tecnica del collage, negli in-terventi ad acrilico su fondo di giorna-le e di carta di recupero, ricorrendo spes-so ad applicazioni con materiali di diver-sa natura. Nell’ “L’ora del bisogno” adesempio, opera eseguita con tecnicamista, sono stati attaccati pezzi di oro-logi e carte da gioco sulla tavoletta delWC. Le protagoniste delle riviste patina-te assumono tutt’atra posa dopo l’inter-vento interessante dell’artista, Orettastravolge l’ordinario e lo fa bene. Serven-dosi di tutta quell’esperienza tecnica, ma-turata in anni di studio e in una vita de-dicata all’arte.

Oretta

Cassisi

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Architettura metafisica con testa di donna, oliosu cartone cm 102 x 72, 1999

Figura, olio su tavola, cm 70x50, 1999

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PILLINO DONATIPresenze

di Angelo Mistrangelo

Attraverso la sequenza delle “Presenze”, Pillino Donati offre ancorauna volta il segno di una ricerca pittorica caratterizzata dalla trasfor-mazione della tela in una superficie che ha il fascino di antiche muracorrose dal tempo, di luoghi legati alla memoria, di una gestualità ano-nima che traccia frasi, parole, disegni capaci di sottolineare una situa-zione, di chiedere aiuto, di rivelare un amore.Muri, quindi, comedocumenti di lotte a volte impossibili, di vibranti richia-mi a una società assente, consumistica, lacerante; di sottili inquietudini che

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Presenze 3, tecnica mista, cm 100x100, 2012

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s’insinuano nel tessuto di un intonaco or-mai sgretolato, ma pronto ad assorbire unalinea incerta, misteriosa, scandita daun’energia che scaturisce da una comuni-cazione immediata e non condizionata.In tale angolazione la pittura di Donati as-sume una propria capacità evocativa, unapossibilità di suggerire una situazione, ditracciare le mappe di un percorso che pre-varica ogni semplicistica o riduttiva inter-pretazione delle frasi sui muri per, vicever-sa, avvertirne tutta la straordinaria magia.A queste sue “Presenze” Donati affida ilmessaggio di una umanità che avverte l’in-clinazione dell’era tecnologica, delle pro-blematiche sul nucleare, di una dimensio-ne politica legata alla figura di Mandela oal dramma de “la fame del mondo”.Donati, perciò, sottolinea questi aspet-ti attraverso una pittura che nulla con-cede a troppo facili risvolti figurali, matutto appare scandito dall’insegna di unadenuncia sociale che sembra un urlo li-beratorio, un segnale, una protesta.Il suo dettato si snoda con continuità, conuna vibrazione della materia che sancisceil valore di un “dire” che non è mai sola-mente grafia, ma ideale congiunzione frale antiche grotte di Altamira e questi muriricchi di parvenze fluttuanti nell’atmosfe-ra come un ricordo lieve e incorporeo.Il suo discorso – ha scritto Franco Mar-chiaro – è contraddistinto da una “ricer-ca culturale che proprio tra le vecchiecase addossate sul porto ha trovato la

sua ispirazione: il muro. Ed ecco che mes-saggi di protesta, speranza, lotta, amo-re vengono assimilati e trasposti sugrandi pannelli dove appaiono, ma piùspesso si intuiscono, i grandi travagli del-la società contemporanea…”.E in questi pannelli si legge la storia del-l’uomo che fluisce attraverso “tracce” in-delebili, profondi silenzi, segni che talo-ra perdono il loro significato di denun-cia per divenire il protesto per “fare” pit-tura, per una poetica che va al di là deldato conoscitivo per trasmettere il climadi un dipingere intessuto di luce.In effetti Donati ha raggiunto, dopo al-cune fasi di sperimentazione, un linguag-gio in cui le zone di colore determinanoun alternarsi di momenti, di sensazioni,di emozioni.Un colore raggrumato, dilavato, inciso.Un colore che assorbe la luce e la restitui-sce attraverso l’impasto in una sorta di ri-scoperta del territorio, di un frammento diidentità, di affreschi che affiorano con tut-ta la loro carica di “classicità”, ma soprat-tutto con la suggestione di un tempo remo-to che ancora ci appartiene e ci seduce.Tra le pieghe di queste superfici si pro-filano lettere incompiute, imprecazioni,esclamazioni che riconducono l’attenzio-ne intorno all’indagine fotografica di Da-rio Lanzardo, alle periferie buie dellegrandi città, ai muri di cinta di palazziesclusivi e alle case del centro storico conbrandelli di manifesti.In ogni caso è la parola l’insostituibile ar-tefice dei lavori di Donati, la pulsante ten-sione espressiva mediante la quale con-ferisce alle proprie “tavole” il valore dimessaggio anche dove il tessuto informa-le prende il sopravvento e i segni vengo-no annullati, sconfitti, inglobati nel mag-ma di una materia mai greve. Una mate-ria, la sua, elaborata con controllata mi-sura, con la volontà di conferire alla pro-pria tematica una linfa vitale, approdan-do così a una realtà espressiva che si faveicolo della forma sostenuta dalla pro-fondità dei contenuti sociali e culturali.

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Presenze 4, tecnica mista, cm 100x100, 2012

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LUISA GIOVAGNOLIUn postulato di luce e colore,di geometrie e di simboli.

di Silvia Bottaro

Luisa Giovagnoli non ha mai smesso di compiere un approfondimen-to forte dentro sé e fuori per cercare di descrivere, narrare il “paesag-gio” sia esso quello mentale, sia quello urbano della vita quotidiana.Definire, in un certo senso, “postulati” i suoi lavori significa conside-rarne l’origine, l’idea, nata da un principio che non è dimostrato néha in sé necessità intrinseca, ma che si ritiene, comunque, necessarioammettere per spiegare fatti non contestati, oppure affermazioni nonmesse in dubbio, che senza tale principio non si potrebbero spiega-re. Seguendo Kant sono “postulati” l’esistenza della libertà umana, l’esi-stenza di Dio, l’immortalità dell’anima. Teoricamente essi sono sem-plici “ipotesi” che sono necessarie per la ragion pratica e, pur non es-sendo dimostrabili, sono l’oggetto di una “fede razionale”.La Giovagnoli nelle sue infinite analisi labirintiche e vorticose nei segni,nelle figurazioni geometriche, negli innesti, quasi fossero un gioco enig-matico, nelle valenze fortemente simboliche del colore ha una “fede ra-zionale”, dalla quale emerge la forte sua personalità. Ascolta, vive il dram-ma del territorio urbano, è vicina al simbolismo delle sue città, quella

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Mutazione, olio su tela, cm 70x100, 2008

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di Dio e quella dell’uomo, nel solco delcontrasto fra la trascendenza e la storia,l’utopia e la realtà, la tensione progettua-le e l’inerzia attuale ed eventuale. Le suetele ci parlano del respiro della sofferen-za della città, del disagio, dalla mancan-za, molto spesso, di felicità. Guardandoil tessuto antico delle strade, delle faccia-te dei palazzi storici si sente l’equilibriotra la natura e l’uomo con le sue creazio-ni, la calma delle strade e la loro sicurez-za. È un richiamo, invece, alla pauracontemporanea che si vive nelle nostremetropoli, tanto ansiose di sicurezza, maincapaci di tessere, di tracciare positiverelazioni di amicizia, di dialogo.Luisa Giovagnoli scompone i vari ele-menti ben sapendo che le città antiche era-no spazialmente centrate sulla cattedra-le. Oggi, invece, hanno perso tale asse “sa-cro”: si è smarrito, in un certo senso e, con-sumata la scintilla della spiritualità, oggiil territorio urbano si riduce a una regio-ne senza poesia, senza luce, non vogliamocredere senza speranza.Abraham Cowley, scrittore inglese del Sei-cento, nel suo saggio Il giardino afferma-va che “Dio fece il primo giardino e Cai-no la prima città”, ed Erskin Caldwell nel-la sua Viadel tabacco (1932) scriveva: “la

vita della città non è stata creata da Dio”.La nostra Pittrice è in equilibrio tra sto-ria e futuro e si confronta con uno dei temidella nostra generazione: la città nella cit-tà che cresce su se stessa trasformando-si, il ricordo corre alle tante aree industria-li dimesse, chiamate ad accogliere nuovefunzioni. La memoria, la storia sono il no-stro vero tesoro: si deve mantenere, purnelle trasformazioni, l’identità storica. Intale contesto generale si muove la pennel-lata sicura, ricca, fenomenica della Giova-gnoli dove, in una sorta di gorgo caotico,effettua una specie di crasi vegetale, ar-chitettonica, mentale.Il cammino della pittrice è felice e pone l’os-servatore davanti ad una ricerca sì inquie-tante, ma riflessiva e coinvolgente. Emozio-ni legate al colore che diventa elemento cro-matico del suo linguaggio persuasivo, ac-compagnato da una rara maestria del se-gno, sempre netto, deciso, tagliente. La lucee la vivacità cromatica sono una sua carat-teristica che contraddistingue lo sforzo com-piuto dalla Giovagnoli della ricerca di unasintesi, in un certo modo, di una musicali-tà intrinseca del suo stendere la materia adolio sulla tela. Immagini sempre dinamiche,vitali che prendono corpo, vita, nella pre-senza geometrica del suo orizzonte.

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Freedom, olio su tela, cm 50x50, 2010

Parole al vento, olio su tela, 50x45, 2011

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GRAZIA LAVIAVisioni fra(me)s

di Viola Lilith Russi

Immagini dalla tv. Ci scandiscono il tempo e in un battibaleno la se-rata è finita, la luce inghiottita. Fluida e caotica sequela di forme chepenetra dalla retina alle ossa, dalle papille gustative allo stomaco. En-treranno nei nostri sogni, si dissolveranno nel sangue. Le Immagini.Ci sono quelle viste dal treno, osservate dal tram. Quale sarà il cana-le di scolo, quale il fiume che ne ospiterà il peso? Restano immaginise non le si attende al varco…perché altrimenti si trasformano in Vi-sioni. Dal passivo all’attivo la prospettiva dello sguardo ribalta le per-cezioni e dall’invasione si passa al nutrimento. Visioni fra(me)s è il pro-getto di Grazia Lavia che dà corpo all’etereo e restituisce alle imma-gini la necessità di esistere. Soffermandosi su quello che sfugge, l’ar-tista offre un tetto allo straniero, lo ama. Dà la possibilità all’imma-gine in fuga e a se stessa di nutrirsi. Di allargare la sua casa, arricchir-la dei segni che le mancavano. Se non si pescano dal mare i tesori chesolo per noi e in quell’istante luccicano, si rischia di non vedere. Di as-sistere passivi alla danza dei frames senza che si crei una parentesidi accoglienza, calore, nutrimento fra-(me), fra-(te). Solo alcune meri-

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Lavi

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Visioni fra(me) 1, foto da video, cm 20x30, 2011

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tano il colpo di fulmine, lo scatto volu-to o casuale. Parole scritte su un muro,un manifesto strappato, le sagome di uncartone animato vengono immortalatidall’occhio che fotografa per poi accor-gersi, in un secondo momento, del loroaver cambiato vita. Cos’è accaduto nelpassaggio da immagine a visione, cosa c’ènel filtro ottico emotivo che ha pescatoe poi osservato? Il loro viaggio nello spa-zio, nel tempo, nel ricordo, nella piazza.Per il momento. La possibilità di un ul-teriore innamoramento di chi passa e che,catturato dalla nuova forma, dia loro unpassaggio. Una sorta di autostop che gen-tilmente ci chiedono. Le immagini. Gra-zia Lavia le accompagna, si fa da loro ac-compagnare, porgendo ai viandanti l’oc-casione di continuare a viaggiare.

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Visioni fra(me) 2, foto da video, cm 20x30, 2011

Visioni fra(me) 2, foto da video,cm 30x20, 2012

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LUCIANA LIBRALON

di Elisa Aste

“Dagli occhi delle donne derivo la mia dottrina: essi brillano ancoradel vero fuoco di Prometeo, sono i libri, le arti, le accademie, che mo-strano, contengono e nutrono il mondo” William ShakespeareChe cos’è uno sguardo se non l’espressione di un pensiero talvolta vo-lutamente celato. Intimi archetipi divenuti essenziali nelle rappresen-tazioni della pittrice Luciana Libralon: interprete delle gesta quotidia-

Luci

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Lib

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Il desiderio, acrilico su tela, cm. 120x100, 2012

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ne del mondo femminile e attenta a queldettaglio capace di rendere “nomade” unroutinario percorso.Ammirando le opere di Libralon si diven-ta compagni di viaggio: l’itinerario è il glo-bo, osservato attraverso i leggeri atteg-giamenti di donna, che possono differi-re per regole e celerità, ma che rimango-no immutati nell’anima.Il taglio è fotografico, quasi a rappresen-tare un attimo di pausa vissuto con or-goglio, per concedersi “all’obbiettivo”. Lesue opere sono poesie sognate in bian-co e nero, materializzate in figurazionidai vividi colori.La pittura di Libralon è puro istinto , sonole casuali emozioni dell’artista ad esse-re poste su tela, attraverso un’indaginesu fascino ed eleganza, ben evidenti nel-le rappresentazioni “liberty”, dove sonoleggiadria e sensualità le principali pro-tagoniste.

Il percorso espressivo dell’artista piemon-tese, dominato dall’immagine della don-na, manifesta volontà di ricerca. Ricor-do della corrente romantica combinataa tendenze liberty: l’immagine apparesoggettiva ed ogni opera é esperienza.L’evidente attenzione all’espressività del-lo sguardo parla dell’anima: occhiata rivol-ta all’osservatore; quegli occhi parlano, for-se di noi che ne decidiamo il senso.Il trionfo del corpo vienemeno, anche lad-dove la materialità sia espressa con eros,perché la psiche ti riconduce all’arcanodub-bio dell’essere.In generale la produzione dell’artista traeispirazione dalla natura, che é anch’essadonna, dalla bellezza eterea; non sottraefascino al soggetto, ma anzi diviene sog-getto in parallelo, con i suoi colori e il mi-racolo della nascita di un nuovo fiore.

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Il golfino rosso, acrilico su tela cm 120x100, 2012

Lo stupore, acrilico su tela cm. 120x100, 2012

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BRUNA MILANI

di Elena Colombo

Con i suoi acquarelli ispirati ai quattro elementi, l’artista romana Bru-na Milani rappresenta le emozioni dell’Uomo inserito nella Natura.La serie “Acqua” trasporta lo spettatore in un mondo essenziale, a vol-te fiabesco a volte irruente. È una pittura liquida e forte: la poetica ro-mantica di William Turner unita alla visione onirica di un bambino eagli Oscuri Presagi delle nuvole sul Campo di Grano con Corvi di VanGogh. Lentamente, con sequenze cinematografiche, i paesaggi brumo-si si trasformano in puri concetti, che raffigurano Riflessi mossi comeun diagramma sismico o la casuale esplosione di colori che s’inseguo-no sulla stessa scala cromatica. Fuoco è una collezione di eruzioni. InPassione e Specchio di Passione la luce richiama l’impatto modernoe drammatico di Lorenzo Mattotti, riletti secondo l’esperienza trascen-dente della DivinaCommediadi William Blake. Il prisma solare si scom-pone nelle sue componenti primarie: non c’è linearità ma un’irrequie-ta morbidezza che sembra stemperare la concezione artistica di Kan-dinskj per mostrare un flusso di coscienza instabile: la quiete sinuo-sa del blu e del verde si accosta all’energia del rosso e dell’arancio, ladensità del movimento fugge verso la rarefazione del bianco. Nel qua-dro Voglio Vederti Danzare si materializza l’esperienza musicale diFranco Battiato.

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Lampi di nostalgia_fuoco, acquarello, cm 36x48, 2008

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Le sensazioni si fondono nella serie Aria, in cuigocce-stella bianche s’irradiano su sfondi sidera-li, misteriosi e suggestivi come le fotografie sa-tellitari dello spazio profondo. Spazi di calma pun-teggiati di luce meditativa (Infinito) o vortici di pen-nellate disciolte in cui riecheggia ancora unpost-impressionismo macchiato d’astrazione(Notte di Stelle).La successione delle opere costituisce un percor-so che si allontana dal “qui” per disegnare un “là”,un’ipotesi personale che si muove dall’interiori-tà all’esterno e traccia cammini interpretabili sog-gettivamente.Un ultimo guizzo (Mutamenti) e il pubblico tor-na sulla Terra. Lo sguardo fatica a rimettersi a fuo-co, i colori sono ancora irreali, frutto di un sognoà la Chagall (Foglie Blu) … infine si ferma su det-tagli specifici, fiori, steli e corolle: dall’universoindividuale alle piccole realtà frammentate e fa-cilmente riconoscibili.

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Mutamenti-terra, acquarello, cm 36x48, 2009

Voglio vederti danzare, acquarello, cm 72x35, 2011

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ISABELLA RAMONDINIdi Andrea Rossetti

L’universo artistico di Isabella Ramondini è fatto di volumi morbidi,avvolgenti, animati da luci colorate, delicate e sfumate, con cui l’arti-sta gioca, utilizzandole come delle pennellate di colore “virtuale”; uncolore mobile nella sua possibilità di esserci e sparire a seconda del-la volontà del fruitore, o cangiante, come nell’imponente installazio-ne “La casa nell’albero” del 2008, nella quale l’illuminazione varia dalverde al bianco. Quest’opera (realizzata in ferro, lexan, tessuto resi-nato, led e un pannello fotovoltaico), essendo composta principalmen-te di materiali riciclati e riciclabili, caratteristica che contraddistinguetutte le creazioni dell’artista, consente d’inserire pienamente la Ramon-dini all’interno di un “fare arte” realmente contemporaneo; la sua èun’arte che dialoga con il mondo che la circonda e non diventa un’espres-sione avulsa, s’inserisce energicamente nella tematica del basso im-

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La casa nell’albero, installazione luminosa, materiali riciclati e riciclabili, m. 5,50x5, 2008

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patto ambientale, di grande importanzae interesse di questi tempi.La Ramondini è riuscita a coniugare congrande sensibilità uno dei simboli natu-rali per eccellenza, l’albero, all’artificiali-tà dell’illuminazione elettrica, in un’instal-lazione alimentata con energia solare;un’opera quindi “ecologica”, il cui consu-mo complessivo è pari ad una lampadi-na da 120 watt, grazie all’utilizzo di led.Soffermarsi su questa installazione, an-dando oltre ai soli valori formali di cui sifa portatrice, permette di comprendere apieno la poetica dell’artista: la “casa” el’“albero”, sono elementi entrambi porta-tori di un concetto di stabilità, di appar-tenenza ad un proprio ambiente. Per la Ra-mondini diventano un tutt’uno, sono en-trambi radicati nel terreno dove poggia-

no, inamovibili elementi primigeni, rap-presentanti del solo rifugio in cui l’uomopuò nascondersi. Una scala appoggiata al-l’albero è il mezzo che permette di riusci-re nell’impresa, di entrare nella casa-albe-ro per estraniarsi dal mondo esterno e ri-trovare se stessi.Isabella Ramondini mostra la spiccata ca-pacità di infondere alle proprie creazio-ni una delicatezza, un’eleganza fatta dagiochi di luci eteree che danno vita allesuperfici in cui sono inserite, fluttuantiquasi fossero mosse dal vento, pienamen-te padrone dell’ambiente in cui sono in-serite; al contempo, come in un movi-mento di contrappunto, espone unapersonalità forte e decisa, indagatrice del-l’umanità circostante e delle tematichepiù attuali.

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Astra particolare soffitto, installazione luminosa, allu-minio e lampadine a incandescenza, m 7x2,5, 2005

La casa nell’albero, installazione luminosa, materialiriciclati e riciclabili, m. 4,50x4, 2009

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ROSANNA ZUCCHELLI

di Nicola Davide Angerame

Disegnare mondi invisibili è da sempre una delle ossessioni preferitedegli artisti, soprattutto da quando Vasily Kandinsky inventa l’arteastratta nei primi anni del Novecento. Il mito ne tramanda la nascitanarrando come il padre dell’arte spirituale, entrando un giorno nel suostudio, si sorprendesse ad ammirare un quadro a testa in giù,diventato “irriconoscibile” dal punto di vista descrittivo e trasformatosiin una possente impressione emotiva. Da allora l’arte compie spessoaccelerazioni ispirate a quella liberazione del linguaggio pittorico, cheancora oggi è foriera di nuovi generi e specie artistiche.La proposta di Rosanna Zucchelli beneficia di questa libertà e ne adottala radicalità, costruendo dimensioni visive che mirano a raggiungere gradielevati di complessità e muovendosi dentro una proliferazione di formee di colori, spesso dotati di un’armonia complessiva che li tiene insieme.Pittura e disegno qui sono alleate e non conosco prevaricazione.L’equilibrio permette loro di edificare sempre nuove composizioni, le qualiappaiono però in sintonia come i pezzi di un puzzle infinito. La lororipetizione nella differenza provoca effetti di distorsione, spessomusicale, di una realtà che altrimenti appare monocorde, sempre ugualea se stessa e chiusa nella certezza di leggi fisiche insuperabili. Zucchelli

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Senza Titolo, acrilico su tela, cm 40x80, 2011

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evade da questo mondo e trova nellapropria interiorità quelle luci, quei colorie quelle forme che ricordano in parte lagrande infatuazione che gli anni Sessantahanno conosciuto nei confronti dellapsichedelia, la quale prometteva unamoltiplicazione dei mondi visivi ed unaintensificazione delle sensazioni a partireda un allargamento della coscienza grazieall’aiuto che le sostanze psicotropepotevano apportare alla percezione. Mal’arte, che è più forte di qualsiasi sostanza,può fare di meglio e portare sul piano diuna superficie una moltitudine disollecitazioni sensibili che ciascuno dinoi è chiamato a colmare di senso. Un sensoche non è prettamente quello offertodall’intelletto, attraverso il significato, maè quello più ricco e mobile del sentimento,della sensazione, dell’emozione.Zucchelli lavora su questi elementi,cercando di costituire una nuova sintassiper un nuovo lessico di forme e diprospettive chiamate a tradurre nel visibileuna vita interiore piena di desiderio,caratterizzata da una potente fascinazioneper il dettaglio, il quale non appare fine ase stesso ma immerso dentro un magmadi vita in perenne movimento.Il fascino di queste composizioni è datospesso dalla loro illimitatezza. Il dialogoche le figure e le tinte instaurano tra loroappare come un illimitato fluire, il cui

confine è solo quello accidentale dellasuperficie su cui giacciono comeintrappolati. C’è un qualcosa dipotentemente biologico in queste formemorbide e curvilinee, che spesso sichiudono in cerchi e che, meno sovente,diventano rette in grado di trafiggere lospazio, ponendo come delle barriereprecarie attraverso cui l’occhio delfruitore riconosce, forse con sollievo, unordine pre-stabilito. Ma Zucchelli non èun’artista autoritaria. Le rigidità cheinserisce nelle sue composizioni sonosempre imperfette, come non previste enon definitive. In realtà nulla èpredeterminato. È una pittura, la sua, chesembra “riprodursi per mitòsi”, terminescientifico con cui si indica lariproduzione delle cellule per scissionebinaria, ovvero per duplicazione. I quadrioffrono così un‘impressione dinamica,che aiuta ad aprire lo spazio. Anzi,sono le stesse forme a creare lo spazio.A differenza di molta pittura, in cui leforme trovano riparo dentro lo spaziopreesistente della tela, usata come unaprotesi della realtà, in questi lavori lospazio viene creato a partire dallamoltiplicazione e dalla crescita di formeche sembrano indifferenti alla volontàumana. Esse possono crescere, econtinuare a riprodursi, anche al di là delconfine fisico della tela. Ciò può suscitareun disorientamento, al quale Zucchellioppone un ordine che è quello di unatessitura di luci e di ombre che in alcuneoccasioni accolgono al loro interno unvolto, uno sguardo. Ma la figurazione èappena accennata, come se facessefatica, il mondo del reale che essarappresenta, a farsi largo in quellaricchezza esuberante e squillante cheZucchelli porta alla luce a partire da un“fare” che viene alimentato dallaspontaneità e dall’immediatezza. Senzaalterare, ma anzi esaltando l’attenzioneper il dettaglio, l’amore per la singolaritàche viene riconfermato in ogni forma ein ogni colore.

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Senza Titolo, tecnica mista su carta, cm 30x50,2007

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SaturARTE17° Concorso Nazionale d’Arte Contemporaneain concomitanza con la Notte Bianca GenoveseGenova Palazzo Stella 08 - 22 settembre 2012

Giunto alla sua diciassettesima edizione, il Concorso Nazionale d’ArteContemporanea SaturARTE si conferma appuntamento ormai conso-lidato nell’ambito della promozione e dello sviluppo della ricerca ar-tistica e punto di riferimento nel panorama artistico ligure enazionale. La costante attenzione della critica, la qualità e l’impegnoorganizzativo oltre che l’alto livello di partecipazione lo rendonoanno dopo anno un appuntamento di prestigio. Il concorso, patroci-nato da Istituzioni pubbliche e private, vuole essere un momento diincontro oltre che riflessione tra artisti, critici e pubblico interessatoagli eventi culturali; un’occasione per allacciare nuovi contatti nel co-mune interesse per l’arte. La rassegna si svolgerà come sempre nellasplendida cornice di Palazzo Stella, che vanta una superficie esposi-tiva di oltre 500 mq. L’inaugurazione come ogni anno coinciderà conla Notte Bianca genovese.

REGOLAMENTOCon il Patrocinio di Regione Liguria, Provincia e Comune di Genova, Municipio1 Centro Est, SATURA art gallery - centro per la promozione e la divulgazionedelle arti, con sede in Genova, indice il 17° Concorso Nazionale d’Arte Contem-poranea SaturARTE.

Art. 1 Destinatari del concorsoIl concorso è rivolto ad artisti di tutte le nazionalità operanti in Italia nelle di-scipline di: pittura e fotografia.

Art. 2 Tecniche, formato e temaCiascun artista può partecipare con una sola opera, in piena libertà stilisticae tecnica (tempera, olio, inchiostro, acrilico, vinile, acquerello, grafite, collage,fotografia, ecc.) e su qualsiasi supporto (tela, carta, legno, ferro, plastica, ecc.).Le dimensioni sono libere purché dentro le misure massime di cm. 100x100.Il tema è libero.

Art. 3 Come partecipareÈ necessario inviare una fotografia a colori di dimensioni non inferiori a cm.12x18 e non superiori a cm. 24x30 o tramite CD. La fotografia potrà essere in-viata anche per posta elettronica in formato jpeg (almeno 300 dpi).Il modulo di partecipazione, la fotografia, la ricevuta dell’avvenuto pagamentoed eventuale materiale documentario/biografico dovrà pervenire entro il 30aprile 2012 a: SATURA art gallery, Piazza Stella 5/1 - 16123 Genova o all’in-dirizzo di posta elettronica [email protected] momento che la selezione avverrà sulla base delle fotografie ricevute, siconsiglia l’invio di fotografie professionali.Le fotografie e tutto il materiale documentativo non sarà restituito.Per consentire un coordinamento organizzativo adeguato s’invita ad inviare nel

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più breve tempo possibile il modulo di parte-cipazione.Il modulo di partecipazione è scaricabile dalsito: www.satura.ito www.facebook.com/satura.genovaoppure può essere richiesto presso la segre-teria del premio.

Art. 4 Prima selezioneLa selezione di tutte le fotografie ricevute av-viene attraverso il vaglio della Giuria del con-corso, il cui giudizio è insindacabile ed i cuinomi saranno resi noti il giorno dell’inaugu-razione.Le opere così selezionate parteciperanno alla17^ rassegna d’arte contemporanea Satu-rARTE ospitata negli splendidi locali di Pa-lazzo Stella. Alla rassegna parteciperanno,inoltre, artisti invitati direttamente dal comi-tato organizzatore per i quali non è previstaalcuna selezione.La rassegna s’inaugurerà sabato 08 settembre2012 in concomitanza della notte bianca ge-novese e rimarrà aperta fino al 22 settembre2012.Data la natura spiccatamente culturale delConcorso, è richiesto un contributo di € 20,00per spese di segreteria ed organizzative.Il versamento potrà essere effettuato con bo-nifico bancario intestato a: Associazione Cul-turale Satura, Banca Intesa, Piazza Leonardoda Vinci 9/R Genova (IBAN IT37 G030 69014950 5963 0260 158) o tramite vaglia po-stale intestato a: Associazione Culturale Sa-tura, piazza Stella 5/1 16123 Genova,oppure assegno circolare non trasferibile in-viato all’indirizzo dell’Associazione.In caso di mancata selezione per l’eventoespositivo, il contributo per le spese di se-greteria non sarà restituito.

Art. 5 Presentazione delle opereAgli artisti selezionati sarà richiesta l’operaoriginale. L’opera dovrà essere senza vetro,senza cornice e provvista di un’unica attac-caglia, (le opere fotografiche potranno esserepresentate con vetro). Le opere dovrannogiungere presso SATURA art gallery, (piazzaStella 5/1 16123 Genova) entro la data chesarà successivamente comunicata agli artistiselezionati. Le opere inviate per corrispon-denza saranno accettate solo con spese e ri-schio a carico del partecipante, sia perl’andata sia per il ritorno (restituzione).

Art. 6 PremiUna Giuria altamente qualificata, i cui nomisaranno resi noti il giorno dell’inaugura-zione, sceglierà le opere vincitrici e il suogiudizio sarà insindacabile e inoppugnabile,ogni possibilità di ricorso è perciò esclusa.Sarà individuato tra i partecipanti un primopremio assoluto nelle diverse sezioni: pit-tura e fotografia, cui sarà offerto una mostrapersonale nel corso del 2013, un servizio adhoc di tre pagine, con intervista e pubblica-zione delle opere, sulla rivista SATURA arteletteratura spettacolo.Al secondo e al terzo classificato saranno de-dicati, nel corso del 2013, una mostra collet-tiva presso la sede dell’Associazione e unservizio di due pagine, con intervista e pub-blicazione delle opere, sulla rivista SATURAarte letteratura spettacolo.La rivista SATURA arte letteratura spettacolodedicherà ampie rubriche dedicate al premio.Il montepremi complessivo sarà arricchitoda premi istituzionali che saranno resi notiil giorno della premiazione. Il Comitato Or-ganizzatore si riserva di individuare, tra ipartecipanti, artisti emergenti, cui proporrepossibilità espositive personalizzate. Leesposizioni sopra indicate sono comprensivedi allestimento, vernice e comunicati stampache verranno realizzati a cura della segrete-ria organizzativa del premio. Le spese di tra-sporto (andata e ritorno) e le eventualiassicurazioni delle opere saranno a carico ecura degli Artisti. Le opere rimarranno diproprietà degli Artisti.

Art. 7 CatalogoTutti gli artisti che supereranno la prima se-lezione (Art. 4) saranno ammessi alla 17^rassegna d’arte contemporanea SaturARTE,dovranno versare un contributo di € 60,00 aparziale copertura delle spese per il catalogodella mostra e per quelle organizzative, conle medesime modalità elencate all’art. 5. Unacopia del catalogo sarà data gratuitamente aogni artista partecipante che potrà essere ri-tirata durante i giorni dell’esposizione;l’eventuale spesa di spedizione postale delcatalogo nei giorni successivi alla chiusuradella rassegna sarà a carico dell’artista.

Art. 8 PremiazioneLa premiazione dei vincitori avverrà pressoPalazzo Stella sabato 08 settembre 2012 alle

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ore 17.00, in concomitanza con l’inaugura-zione della rassegna e nella giornata dellaNotte Bianca genovese, alla presenza delleAutorità invitate e di personalità di spiccodel mondo artistico e culturale.

Art. 9 Restituzione delle opere ammesseLe opere ammesse alla mostra potranno es-sere ritirate personalmente dall’artista, o daun suo incaricato munito di delega, dal 22 al29 settembre 2012 durante l’orario di aper-tura della Segreteria.Gli artisti che faranno pervenire le loro operetramite corriere espresso, dovranno richie-derne la restituzione incaricando un lorocorriere di fiducia ed a proprie spese.Le opere dovranno essere inviate in un’ap-posita cassa con viti riutilizzabile per il ri-torno. Le opere non ritirate entro i terministabiliti saranno considerate lascito degli ar-tisti all’Associazione Culturale Satura.

Art. 10 LiberatoriaGli organizzatori, pur avendo la massimacura delle opere ricevute, non si assumonoalcuna responsabilità per eventuali danni ditrasporto, manomissioni, incendio, furto oaltre cause durante il periodo della manife-stazione, del magazzinaggio, dell’esposi-zione e della giacenza. Agli artisti èdemandata la facoltà di stipulare eventualiassicurazioni contro tutti i danni che leopere potrebbero subire.

Art. 11 Accettazione delle condizioniGli artisti sono garanti dell’originalità del-l’opera che presentano e partecipando al 17°Concorso Nazionale d’Arte ContemporaneaSaturARTE accettano implicitamente tutte lenorme contenute nel presente regolamento,nessuna esclusa.

Art. 12 Immagine delle opereIl Concorso sarà largamente pubblicizzatosia in ambito locale sia nazionale e, a tal fine,lo sfruttamento delle immagini delle opereesposte resterà ad esclusivo vantaggio degliorganizzatori.

Art. 13 PrivacyLe informazioni custodite nell’archivio del-l’associazione verranno utilizzate per la par-tecipazione al concorso e per l’invio delmateriale informativo. È prevista la possibi-

lità di richiederne la rettifica o cancellazione,come previsto dalla legge 675/96 sulla tuteladei dati personali.

Organizzazione Generale:SATURA ART GALLERYAssociazione culturale – centro per lapromozione e divulgazione delle arti

Direzione artisticaed organizzazione: Mario NapoliCoordinamento artistico:Milena Mallamaci, Mario PepeCoordinamento organizzativo:Virginia Cafiero, Flavia MotoleseSegreteria organizzativa:Federica Postani, Andrea Rossetti,Francesca TosaAddetto stampa:Maura GhiselliTermini di scadenza:30 aprile 2012Sede della mostra:Palazzo Stella, GenovaDate della mostra:08 – 22 settembre 2012Riferimenti telefonici:010.246.82.84 - cell. 338.291.62.43E-mail: [email protected]://www.satura.itwww.facebook.com/satura.genova

Con il patrocinio e la partecipazionefinanziaria di

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Regione LiguriaProvinciadi Genova

Comune di GenovaMunicipio 1 Centro Est

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Dal WEBPresent’Art Community

di Mario Napoli

La Present’Art Community è una comu-nità virtuale dedicata all’arte e alle suemolteplici sfaccettature, volta ad offriresostegno e visibilità a tutti coloro chegravitano attorno al mondo artistico eculturale: creativi, artisti, designer, galle-risti, curatori, critici, collezionisti, mece-nati e aziende.Realizzata dalla società cinese PresentContemporary Art con base a Shanghai

e dall’italiana Present Art Associazione di Collezionisti e Mecenati, laPresent’Art Community è un’importante occasione di contatto con ilpubblico internazionale, un ponte di comunicazione e di concretiscambi culturali ed economici tra Oriente e Occidente.

La pluriennale attività ed esperienza della Present Contemporary Art– che nei suoi progetti si avvale del costante coinvolgimento di in-fluenti personalità del mondo dell’arte, della cultura, dell’economia,e della collaborazione con esperti di diversi settori socio-economicied istituzioni pubbliche e private – fanno della Present’Art Commu-nity un sicuro riferimento e un mezzo funzionale per la creazione disinergie e opportunità di lavoro a livello internazionale.

Tra i principali obiettivi della Community vi è quello di dare voce aidiversi linguaggi dell’arte, supporto e visibilità a coloro che operanoin questo settore, con la determinazione di creare un’ampia vetrinain grado di valorizzare e promuovere l’operato dei singoli all’internodel panorama artistico cinese ed internazionale.

Oltre ad essere un’utile piattaforma d’informazione e d’opportunità,la Present’Art Community offre una serie di servizi che garantisconoai suoi iscritti un sostegno concreto per le loro attività professionaliquotidiane.

Specificare all’atto dell’iscrizione segnalato da Satura art gallery

Join us!www.wepresentart.com

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SATURA arte letteratura spettacolo

3^ Edizione Premio di Poesia Inedita“Satura - Città di Genova”deadline 30 giugno 2012

Con il Patrocinio di Regione Liguria, Provincia e Comune di Genova,Municipio 1 Centro Est, la rivista “SATURA arte letteratura spettacolo”è lieta d’annunciare la terza edizione del Premio di poesia inedita “Sa-tura – Città di Genova”. Un concorso a tema libero e aperto a tutti, fi-nalizzato a dare visibilità all’attività poetica, la meno mercificata dellearti, e, negli ultimi tempi, troppo spesso relegata in angusti spazi delpanorama culturale italiano. Noi riteniamo invece che la poesia sia l’at-tività umana che più di ogni altra tende, in mezzo al trionfo dell’inau-tentico, a restituirci quello che ci è stato sottratto, a dare un senso noneffimero alla nostra esistenza, a porsi come un itinerario verso la veritàattraverso la Parola. E la nostra Associazione – interdisciplinare nelcampo artistico, occupandosi anche di narrativa, arti figurative e mu-sica, - vuole anche testimoniare la crescente sensibilità che all’arte poe-tica rivolge la città di Genova, dove ha luogo ogni anno, nel mese digiugno, un Festival Internazionale della Poesia. La Liguria è terra dipoeti: molti vi ebbero i natali e, altrettanti, giungendo da luoghi lon-tani, se ne innamorarono e le dedicarono il loro canto. In questo solcovuole porsi, con umiltà il premio “Satura – Città di Genova”.

Per il Regolamento completo rimandiamo al sitowww.satura.it

Organizzazione generale: “SATURA arte letteratura spettacolo”Direzione artistica ed organizzazione:Associazione Culturale SaturaCoordinamento organizzativo: Flavia MotoleseSegreteria organizzativa: Virginia Cafiero, Elena ColomboAddetto stampa: Maura GhiselliTermini di scadenza: 30 giugno 2012Premiazione: 15 dicembre 2012Riferimenti telefonici:010.246.82.84 – 010.66.29.17 cell. 338.291.62.43e-mail: [email protected]://www.satura.it www.facebook.com/satura.genova

Con il patrocinio e la partecipazione finanziaria di:

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Regione LiguriaProvinciadi Genova

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