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ZORZI ALESSANDRO UNIVERSITA’ DI PADOVA LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA A.A. 2004/2005 APPUNTI DI PATOLOGIA GENERALE Morte cellulare, infiammazione, patologia da stress ossidativo e ambientale, patologia genetica, esotossine batteriche ed oncologia

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ZORZI ALESSANDRO

UNIVERSITA’ DI PADOVALAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

A.A. 2004/2005

APPUNTI DI PATOLOGIA GENERALE

Morte cellulare, infiammazione, patologia da stress ossidativo e ambientale, patologia

genetica, esotossine batteriche ed oncologia

appunti del corso tenuto dai prof. Bernardi, Chieco Bianchi, Colonna e Pozzan e dalla dott.ssa Rossetto

Ai miei colleghi studenti:

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Questi sono gli appunti che ho preso nel corso delle lezioni di patologia generale svolte nel corso del primo semestre dell’anno accademico 2004/2005.Tengo a precisare che questi appunti non sono stati in alcun modo visionati dai professori, e che quindi contengono sicuramente errori o inesattezze.E’ questo il motivo principale per cui non ho voluto utilizzare questi appunti per fini di lucro: perché non si possono considerare un prodotto di qualità. Possono essere utili per integrare i propri appunti, per leggere le stesse cose scritte da una mano diversa, ma non potranno mai essere paragonati o sostituire gli appunti ufficiali forniti dai professori nè soprattutto il libro di testo.Sarò grato a chiunque vorrà segnalarmi gli errori che ha trovato in questa dispensa, anche quelli di ortografia.

Alessandro Zorzi

APPUNTI DI PATOLOGIA GENERALE2

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La patologia generale ha lo scopo di scoprire i processi elementari operanti nelle malattie. Essi sono raggruppabili in pochi grandi capitoli: patologia cellulare, immunopatologia, infiammazione e tumori.La patologia generale si interroga sul come e sul perché hanno origine le malattie: Patogenesi: meccanismi molecolari e biochimici che sono alla base della comparsa di fatti patogeni; Etiologia: ricerca le cause che sono alla base della comparsa di malattia.

ONCOLOGIA (Chieco Bianchi)

IntroduzioneImportanza dell’oncologia: 1 individuo su 3 o 4 si ammala di tumore nel corso della propria vita; 1 individuo su 4 o 5 muore di tumore; in Italia più di 250.000 morti all’anno si registrano per questa patologia; il tumore è la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari.La causa principale dell’aumento delle morti per neoplasia è probabilmente l’invecchiamento generale della popolazione. In realtà le cause esogene di tumore rappresentano solo una piccola percentuale che si va ad aggiungere alla quota dovuta a cause endogene.I 5 momenti fondamentali per affrontare il problema neoplastico sono:1. prevenzione:

primaria: prima dello sviluppo della malattia; secondaria: diagnosi precoce, cioè durante il periodo pre-clinico;

2. Diagnosi;3. Terapia:

Chirurgica; Radioterapica; Chemioterapia.

4. Riabilitazione;5. Assistenza domiciliare.

DefinizioniCancro: crescita cellulare (relativamente) autonoma, non (abitualmente) causata da alcuno stimolo fisiologico e progressiva. Ne esistono circa 100 forme diverse.Ipertrofia: aumento del volume di un tessuto per aumentato volume cellulare;Iperplasia: aumento del volume di un tessuto per aumentato numero di cellule;Metaplasia: sostituzione di un tipo di cellule con una determinata differenziazione con altre di un diverso tipo cellulare. Essa è dovuta alla riprogrammazione dell’espressione genica, generalmente nell’ambito consentito dalle potenzialità differenziative del foglietto embrionale da cui quella cellula deriva.Displasia: alterata differenziazione cellulare. Alterata architettura tessutale. E’ ancora reversibile.Anaplasia: scarsa o assente differenziazione cellulare. Alterata organizzazione cellulare.Dalla displasia che è ancora reversibile si può passare allo stato di “carcinoma in situ”, irreversibile (cioè autonomo). L’espressione “in situ” indica che la neoformazione non ha ancora oltrepassato la membrana basale. Dal carcinoma in situ si passa a carcinoma invasivo.Per alcuni organi, per es. nella cervice uterina, si usa fare delle distinzioni in gradi: Displasia lieve (CIN I): lesioni intraepiteliali pavimentose di basso grado (reversibile); Displasia moderata (CIN II): lesioni intraepiteliali pavimentose di alto grado (reversibile); Displasia grave con carcinoma in situ (CIN III): “ “ “ “ (irreversibile); Carcinoma invasivo.Lesioni precancerose: è uno stato di lesione tissutale che ha un elevato rischio di evolvere in cancro. Oggi è un concetto statistico. Un discorso particolare può essere fatto sul polipo: è una neoformazione benigna che sorge a carico di un tessuto epiteliale con un asse di connettivo e vasi, rivestito da epitelio. I polipi dell’intestino sono abbastanza frequenti e se sono sporadici sono benigni. Ma se sono multipli (poliposi del colon) allora si tratta di una situazione congenita con alta probabilità di trasformazione neoplastica.Le cellule tumorali: Possono svilupparsi in ogni tessuto dell’organismo dove vi sono cellule in grado di replicarsi; La loro velocità di replicazione è, di solito, maggiore di quella che caratterizza le corrispondenti cellule normali. Vi

sono però frequenti eccezioni, ad es. nelle leucemie. Difatti il midollo leucemico ha una cinetica replicativa più lenta rispetto a quella di un midollo normale;

Ai fini della diagnosi è importante distinguere tra tumori benigni e tumori maligni anche se non è spesso facile perché i parametri sono spesso sfumati. I criteri di distinzione sono i seguenti:

TUMORI BENIGNI TUMORI MALIGNIVelocità di crescita Lenta Rapida

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Tipo di crescita Espansiva (a scapito dei tessuti circostanti)

Invasiva

Metastasi No Si (possibile)Anaplasia (grado di differenziazione) (morfologia)

No Si (possibile)

Segni e sintomi generali No Si

Criteri di classificazione dei tumori: Sede anatomica: importante per la sintomatologia, l’evoluzione ed il trattamento; Criterio morfologico: aspetto macroscopico: colloide, midollare, scirroso (non molto usato). aspetto microscopico e classificazione istogenica (tessuto di provenienza). Grado istologico di malignità; Classificazione in stadi (stadiazione): indica l’estensione della malattia.

CLASSIFICAZIONE ISTOGENETICANeoplasie epiteliali: benigne: epitelioma; maligne: carcinoma o adenocarcinoma se di origine ghiandolare;Neoplasie del connettivo: benigne: -oma maligne: -sarcomaNeoplasie dei sistemi ematopoietico: tessuti solidi: linfomie linfatico sangue: leucemia

GRADI ISTOLOGICI DI MALIGNITA’ (grading)A seconda della differenziazione cellulare riconoscibile:I differenziazione cellulare nel 75-100 % della popolazione cellulare;II 50-75%III 25-50%IV 0 -25%(Tanto meno il tumore è differenziato tanto più è invasivo)Altri esami sono tesi a riconoscere: L’attività mitotica; Lo stroma; Lo stato della membrana basale; L’infiltrazione della “capsula”; L’invasione vascolare: essa è un segno di inizio di metastasi. Stessa cosa dicasi per l’invasione delle guaine

perineuronali; Filamenti intermedi (cheratine); Molecole superficiali di differenziazione (CD).

STADIAZIONE DELLE NEOPLASIEE’ importante per standardizzare il trattamento, valutare la prognosi e rendere omogenee le osservazioni e le verifiche sui risultati della terapia. Il sistema più usato è il TNM:T- tumore primitivo:T0 : non vi sono segni del tumore primitivo;Tis : carcinoma in situ;T 1-4: grado progressivo delle dimensioni e/o dell’estensione del tumore primitivo;Tx: non vi sono dati sufficienti per definire il tumore primitivo (il 10% dei casi clinici col tumore già in fase avanzata hanno metastasi ma non si riesce a stabilire la sede primaria. Allora si deve fare trattamento basandosi sul tipo di cellula).N- linfonodi regionali:N0: non vi sono segni di interessamento dei linfonodi regionali;N1-3: grado progressivo di interessamento dei linfonodi regionali (trattasi dei livelli linfonodali);Nx: non ci sono dati sullo stato dei linfonodi.M - metastasi a distanzaM0: non vi sono segni di metastasi a distanzaM1: presenza di metastasi a distanzaMx: non ci sono dati per stabilire la presenza di metastasi.

Dogmi dell’oncologia

La neoplasia è una malattia multifattoriale nella cui genesi concorrono più fattori; La neoplasia è una malattia multifasica.

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Dal punto di vista del fattore tempo vi è una lunga fase silente (o preclinica) non diagnosticabile nemmeno con i migliori metodi di indagine. Questo fase può durare mesi, anni o addirittura decenni. Ma quando il tumore diventa visibile esso porta alla morte, se non trattato, nel giro al massimo di pochi anni.Questo perché:1 cellula ---) 30 divisioni ---) 10^9 cellule =1 g di tessuto (minima massa di tessuto rilevabile) ----) 10 divisioni ---) 10^12 cellule = 1 kg di tessuto (massima massa compatibile con la vita)Tuttavia nelle fasi finali del tumore si ha un accrescimento più rallentato. La curva “Gomperziana” descrive l’andamento dei tumori nella specie umana. Da essa si può evincere che definiti:Tc = tempo del ciclo cellulareTd = tempo reale di raddoppio della massa neoplasticaTpot = tempo teorico di raddoppio della massa neoplasticaAllora:Td Tpot = perché una perdita cellulare si verifica in tutti i tumori. Ciò avviene sia naturalmente per apoptosi o . . . . . . . ischemia sia per questioni terapeutiche;Tc Tpot = perché non tutte le cellule si replicano spontaneamente.

Immortalizzazione

Una cellula è immortalizzata se è in grado di replicarsi per un lungo periodo di tempo in condizioni adeguate di cultura. Si tratta tuttavia del passo iniziale nel cammino che porta al tumore poiché una cellula immortalizzata non è ancora una cellula trasformata dal momento che comunque presenta un’autonomia di crescita relativa. Perché diventi immortalizzata una cellula deve: Perdere il controllo del ciclo cellulare; Resistere all’apoptosi; Presentare un blocco differenziativo; Esprimere la telomerasi.CICLO CELLULARE:E’ un momento biologico estremamente complesso e regolato.Il periodo G1 è seguito dalla fase S di sintesi del DNA, quindi da una fase G2 e dalla mitosi. Con G0 si indicano quelle cellule che sono fuori dal ciclo: per esempio gli epatociti nel fegato adulto. Questi ultimi però, se sottoposti ad uno stimolo (es. parziale epatectomia) possono rientrare nel ciclo per rigenerare il parenchima. Il passaggio da G0 a G1 è legato ai “fattori di competenza”, rappresentati di solito da fattori di crescita.In G1 esiste un sistema di controllo che la cellula deve oltrepassare per entrare in fase S (check point 1). Lì intervengono fattori di crescita, come IGF1 e IGF2, che permettono alla cellula di oltrepassare il check point, o fattori come l’IFN o il TGFβ, che hanno invece effetto opposto.A livello di G2, prima della fase di mitosi, esiste un altro check point.Il sistema di progressione e di attivazione del ciclo è basato sul sistema di cicline e CDK (chinasi ciclina dipendente). Checkpoint 1: ciclina D + CDK4 o CDK6Più avanti in fase G2: ciclina E + CDK2, ciclina A + CDK2Checkpoint 2: ciclina A e ciclina B + CDK1 (MPF: maturation promoting factor)Il sistema delle cicline/CDKs agisce soprattutto a livello del checkpoint 1 dove c’è la proteina RB. Nella forma ipofosforilata RB impedisce alla cellula di progredire poiché lega a sé il fattore di trascrizione E2F. Se invece è fosforilata si dissocia dal fattore da E2F e permette alla cellula di progredire. Il sistema di regolazione dei complessi ciclina/CDK è articolato. In particolare esistono degli inibitori:P16-P15-P18-P19 agiscono a livello del checkpoint 1 e sono detti INK4 (inibitori della chinasi 4);P57-P27-P21 agiscono su tutte le CDK e sono detti CIP (inibitori proteici della CDK).In molte neoplasie vi è l’alterazione di P16 che permette alla cellula di progredire lungo il ciclo. La terapia dei tumori sarebbe molto più efficace se si riuscisse a colpire tutte le cellule in fase S. Purtroppo però tra cellule appartenenti alla stessa massa neoplastica si verifica un notevole sfasamento del ciclo tanto che solo circa il 20% delle cellule si trovano contemporaneamente in fase S.Una coltura di cellule normali si replica una ventina di volte e poi degenera e muore. Una coltura di cellule immortalizzate invece oltrepassa questo limite.TELOMERASIE’ un enzima deputato al ripristino di sequenze nucleotidiche all’estremità dei telomeri. Si è visto che durante la divisione delle cellule normali queste sequenze si usurano ad un punto tale che la cellula non può più dividersi. Questo processo, in coltura, porta alla crisi e alla senescenza della coltura stessa.Tuttavia se vi è una telomerasi attiva che ripristina le sequenze allora la cellula può continuare a moltiplicarsi. Ciò non avviene solo nelle cellule neoplastiche ma anche in quelle germinative.L’85-95% delle cellule cancerose mostra un’alta attività telomerasica.BLOCCO DIFFERENZIATIVOUna cellula attraversa tre fasi: staminale, proliferativa e di cellula matura.Le cellule staminali possono dividersi dando origine ad altre cellule staminali oppure a cellule un po’ più differenziate ma con ancora la capacità replicativa (fase proliferativa). I fattori di crescita agiscono su entrambi i tipi di cellule.Se a questo punto subentrano dei blocchi nella capacità di espressione di geni che codificano per proteine funzionali vi è un blocco della differenziazione, cioè le cellule non percorrono più la strada verso la maturità. Ciò succede in molti

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tumori: l’aumento della massa neoplastica è dovuto all’accumulo di cellule che non si differenziano e non raggiungono la maturità. Il blocco è spesso dovuto a metilazione di alcuni siti del DNA.

Clonalità dei tumori

Il tumore origina da una singola cellula: vi sono perciò dei marcatori che identificano ogni cellula appartenente al clone. Questi marcatori devono essere indelebili e si trovano soprattutto nel DNA. Ad esempio nelle cellule linfoidi questo marcatore può essere il tipo di riarrangiamento del DNA. Altri marcatori di clonalità sono dei cromosomi alterati, come il cromosoma Philadelphia.Un concetto importante è che la clonalità e l’eterogeneità di un tumore non sono concetti contrapposti perché una porzione della massa tumorale può avere altre mutazioni che la diversificano dal resto. Però la mutazione iniziale sarà sempre presente.

Fenotipo della cellula neoplastica

Nessun carattere preso singolarmente ci consente di distinguere una cellula neoplastica rispetto ad una normale. Difatti la diagnosi si basa su un insieme di caratteri: Modificazioni cellulari: sia in senso molecolare che morfologico che possono interessare sia il nucleo, che il

citoplasma, che la membrana (volume cellulare, forma della cellula, rapporto nucleo/citoplasma che di solito è spostato verso il nucleo).

Alterazione delle funzioni cellulari; Modificazione dell’interazione intra od extracellulare: inibizione da contatto, locomozione cellulare, adesività

intercellulare; Alterazioni del citoscheletro; Rigonfiamento mitocondriale ad indicare un maggior consumo energetico.

Per quanto concerne il nucleo: Numero: spesso è presente più di un nucleo; Dimensioni: di solito maggiori del normale; Colorabilità: un nucleo ipercromatico implica un maggiore contenuto di acidi nucleici; Membrana nucleare: più o meno fenestrata; Cariotipo: frequentemente è aneuploide con cromosomi in più o in meno o con cromosomi alterati:

Aumento del numero di cromosomi; Rotture dei cromosomi soprattutto a livello dei siti fragili; Traslocazioni, inversioni e delezioni: bilanciata se due pezzi di cromosomi si spostano reciprocamente. Nella

leucemia mieloide cronica c’è una traslocazione 9-22 con formazione di un cromosoma 9 con più geni e un piccolo 22 detto cromosoma Philadelphia. La formazione del cromosoma Philadelphia amplifica a dismisura l’attivazione di una tirosin-chinasi presente nel cromosoma 22. Altre alterazioni cromosomiche vengono dette random per distinguerle da quelle, come la 9-22, che sono specifiche per un particolare tipo di tumore. Inoltre bisogna distinguere tra alterazioni primitive a quelle sovrapposte successivamente e che si trovano solo in alcuni gruppi cellulari.

BCR = breackpoint cluster region: non esiste un singolo punto di rottura ma una regione in cui possono verificarsi delle rotture. Ciò succede per es. nel cromosoma 22.

Amplificazione genica (un gene replicato 20-30-40 volte implica anche una maggiore espressione del suo prodotto).HSR = homogeneus staining region: sono regioni di amplificazione genica evidenziabili col metodo di Giemsa.

Nella cellula normale: La crescita cellulare è dipendente dalla densità; La cellula è ancorata a superficie inerte (in coltura); Vi è una dipendenza da siero o da fattori di crescita; È presente il fenomeno dell’inibizione da contatto.

Invece in una cellula neoplastica si verifica: Perdita di ancoraggio della cellula alla propria superficie di crescita (in coltura). Ciò mima il fenomeno che si

riscontra in vivo, quando le cellule non sono più ancorate alla matrice. L’ancoraggio della cellula alla matrice è dovuto a integrine che possono contrarre rapporto soprattutto con la fibronectina. Il sito di legame della fibronectina per l’integrina è un dominio R-G-D (arginina, glicina, aspartico). Nella trasformazione questo legame è inibito o a causa della diminuzione della fibronectina o per alterazione delle integrine. In particolare in alcuni tumori si verifica l’alterazione della proteina “catenina” che media il legame tra integrine e fibronectine o ancora della proteina APC, un gene oncosoppressore che in alcune cellule media il legame tra integrine e fibronectine.Oltre alle integrine esistono altri tre tipi di “citoadesine”: le caderine che mediano il rapporto tra cellule omeotipiche, le selectine che mediano l’adesione eterotipica (ad esempio tra l’endotelio e le cellule del sangue) e le Ig come le ICAM;

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Perdita della inibizione da contatto (mezzo solido) o della capacità di crescere in modo dipendente dalla densità (mezzo liquido). Questo fenomeno dipende verosimilmente dal fatto che le cellule neoplastiche richiedono meno fattori di crescita e sostanze nutritive rispetto alle cellule normali;

Capacità di crescita in terreni semisolidi (un ambiente non naturale per cellule normali); Inversione di polarità, capacità invasiva e capacità metastatizzante (grado esasperato di autonomia neoplastica).

La metastasi

La capacità di dare origine a metastasi è legata alla capacità delle cellule tumorali di dare origine a cloni (capacità clonogenica). Normalmente non tutte le cellule della massa tumorale hanno capacità glomogenica ma soltanto una piccola frazione di esse e ciò è dovuto ad un’eterogeneità nella popolazione neoplastica: dalla massa prende origine una nuova linea cellulare a causa di una mutazione che gli conferisce capacità metastizzanti.Proprietà delle metastasi:1. le metastasi costituiscono una caratteristica peculiare dei tumori maligni;2. nell’80-90 % dei casi, se non proprio nel 100%, una persona con tumore muore a causa delle metastasi;3. circa il 30% dei pazienti a cui viene diagnosticato per la prima volta un tumore solido maligno (eccezion fatta per

gli epiteliomi cutanei) presenta metastasi;4. nel 5-10% dei pazienti con metastasi diffuse non si riesce a diagnosticare la sede del tumore primitivo;5. la diffusione metastica riduce fortemente la possibilità di cura del tumore.La disseminazione delle cellule metastiche può avvenire:1. per via ematica;2. per via linfatica;3. in cavità (peritoneale, pleurica). Il tumore può infatti esfoliare: carcinomi pleurici possono per esempio erodere la

pleura viscerale e riversarsi nella cavità pleurica. Nel peritoneo possono riversarsi cellule tumorali dell’ovaio o del crasso.

I motivi che determinano il distacco delle cellule tumorali dalla sede del tumore primitivo sono essenzialmente due:1. per pressione meccanica;2. per alterazione del sistema ligamentoso cellulare.I vasi che irrorano i tumori presentano grosse fenestrazioni che le cellule possono attraversare agevolmente. Il problema è piuttosto quello di uscire dal circolo nell’organo bersaglio. Innanzitutto si verifica l’adesione della cellula al lato luminale della cellula endoteliale. Si forma quindi un piccolo coagulo che coinvolge anche la stessa cellula tumorale. L’endotelio è danneggiato e le cellule neoplastiche possono così attraversarlo.Si calcola che solo una cellula su mille immessa nel sangue dia origine a metastasi.Organotropismo delle metastasi:Alcuni tumori primitivi metastatizzano in alcune sedi in maniera preferenziale. Ciò dipende dalla sede anatomica, dall’isotipo e da altri fattori. Se ad esempio un tumore colpisce l’intestino, il cui sangue refluo è drenato per via portale, è chiaro che la sede della metastasi primaria sarà il fegato. Se invece il tumore è in una sede drenata dalla cava la metastasi primaria sarà probabilmente nei polmoni (cava ---) cuore ---) arteria polmonare).Casi particolari riguardano per esempio il tumore della prostata o della mammella dove si verificano spesso metastasi ossee perché c’è una stretta correlazione tra il sistema venoso vertebrale di Botson e questi organi.Ci sono però cellule che, a causa del tipo di recettori che esprimono, presentano predisposizione a provocare metastasi in alcune specifiche sedi. Esistono inoltre le “metastasi da metastasi”: dalla sede della metastasi primaria possono partire gruppi cellulari che creano metastasi secondarie.Importante per la crescita neoplastica sono i fattori neoangiogenetici: un tumore è difatti scarsamente irrorato. L’ipossia fa liberare un fattore trascrizionale, l’HIF, che attiva la trascrizione di geni come il VEFG (fattore di crescita endoteliale), la NO sintetasi, proteine anti apoptotiche…

Geni coinvolti nella oncogenesiLo sviluppo del tumore è favorito dalla mutazione di tre categorie di geni:1. Protooncogeni (che vengono trasformati in oncogeni): sono geni che promuovono la crescita cellulare. Le forme

alterate (oncogeni) esplicano un effetto dominante, con guadagno di funzione;2. Geni oncosopressori : inibiscono la crescita cellulare. Le forme mutate esplicano un effetto recessivo, con perdita di

funzione.3. Geni coinvolti nella stabilità del DNA .Si noti che non solo mutazioni del DNA possono provocare questi effetti ma anche modificazioni epigenetiche. Un esempio è l’ipermetilazione del promotore di un gene.

Oncogeni:Gli oncogeni sono forme alterate di geni chiamati proto-oncogeni. I proto-oncogeni, le cui forme mutate sono coinvolte nella genesi dei tumori umani, sono spesso localizzati in vicinanza di punti in cui si verificano frequentemente rotture cromosomiche o in siti che rappresentano un bersaglio elettivo di mutazioni. Studi su traslocazione cromosomiche “non random” hanno reso possibile la scoperta di oncogeni attivati in seguito a queste traslocazione. Ad esempio nel linfoma di Burkitt si verifica una traslocazione 8-14 e il gene myc viene sovra espresso.

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I proto-oncogeni sono trasmessi come caratteri mendeliani classici (ma le forme mutate, gli oncogeni, non sono trasmissibili), sono conservati filogeneticamente, sono circa un centinaio e il loro prodotto proteico è funzionale alla proliferazione ed alla differenziazione cellulare. Le proteine codificate dai proto-oncogeni possono essere: fattori di crescita; recettori per fattori di crescita; fattori di trascrizione; proteine pro o anti apoptotiche.Alcuni proto-oncogeni:BCL-1 = ciclina D1;BCL-2 = proteina anti-apoptotica;BCR = fattore attivante la funzione GTPasica delle proteine G;MET = recettore per il fattore di crescita degli epatociti.I meccanismi che portano alla trasformazione dei proto-oncogeni in oncogeni possono essere molteplici: Amplificazione del gene, fino ad aversi anche 100 copie dello stesso gene; Traslocazione: si formano dei geni chimerici (A----B traslocazione ---AB---) che danno vita a proteine di fusione

con significato oncogeno; Mutazioni puntiformi: è il caso del gene RAS; Traduzione in retrovirus acuti (solo in modelli sperimentali, nell’uomo non sono mai stati riscontrati); Attivazione in CIS o in TRANS: sequenze retrovirali con capacità di amplificazione trascrizionale possono attivare

a distanza le sequenze dei proto-oncogeni.RASE’ una proteina monomerica molto importante localizzata di solito nel foglietto interno della membrana citoplasmatica. Quando un fattore di crescita raggiunge il recettore esso dimerizza e trasferisce il segnale mediante proteine adattatrici.La Farnesil Transferasi α, fosforilata dal recettore attivo, lega la Farnesil Transferasi β che a sua volta lega p21 attaccandola alla membrana e attivandola.L’attivazione modifica RAS che, in forma natia, lega il GDP mentre in forma attiva lega GTP. La forma attiva di RAS fosforila un’altra proteina, RAF, dando avvio ad una cascata di segnali che portano alla trascrizione di geni importanti per la crescita cellulare.Il RAS torna in stato inattivo perché possiede un’attività GTPasica. Però questa attività è molto scarsa e necessita delle proteine GAP perché questa essa sia potenziata.RAS mutata (o meglio se muta la parte di RAS, chiamata p21, che idrolizza GTP) perde la capacità GTPasica e la capacità di essere riconosciuta dalla proteina GAP: RAS è così costitutivamente attiva.

Nota: non è sufficiente l’attivazione di un singolo oncogene perché la cellula sia trasformata.

OncosoppressoreNelle cellule neoplastiche le mutazioni a carico dei geni oncosoppressori devono sempre colpire entrambi gli alleli. La mutazione di uno solo dei due alleli difatti normalmente non dà origine a tumori, anche se non sempre passa inosservata. Ciò è dovuto al fatto che la mutazione di un oncosoppressore provoca perdita di funzione la quale può essere compensata dall’espressione dell’altro allele. Si parla perciò di mutazione con effetto recessivo. La mutazione di un solo oncogene invece è sufficiente per rappresentare un guadagno di funzione: si parla allora di mutazione con effetto dominante.Le mutazioni possono essere qualitative (puntiformi) o quantitative (perdita di materiale genetico o inattivazione dei prodotti proteici). Un esempio di mutazione quantitativa è la LOH (loss of eterozigosity) A differenza di quanto avviene per gli oncogeni la mutazione degli oncosoppressore può colpire le cellule germinali ed essere trasmessa alla prole. I figli saranno maggiormente esposti al rischio di sviluppare tumore essendo sufficiente una singola mutazione (sull’allele sano).Alcuni oncogeni possono essere trasmessi per via ereditaria:met: provoca carcinoma papillare del rene;ret: sindrome da neoplasia endocrina multipla (MEN tipo 2); carcinoma midollare familiare della tiroide; morbo di Hirschspring (o mega-colon congenito).Alcuni oncosoppressori, contravvenendo alla regola, hanno invece effetto dominante. Un esempio è P53 che deve formare degli omotetrameri per funzionare. Se solo uno dei 4 monomeri è alterato l’intero tetramero non funziona più.Ci sono tre osservazioni che giustificano quanto detto in precedenza: Osservazione sperimentale : se si crea un ibrido dalla fusione di una cellula tumorale (due alleli malati) con una

cellula sana (due alleli sani) la cellula risultante non avrà fenotipo tumorale perché i prodotti dei geni sani sono in grado di compensare. Se però uno dei cromosomi sani viene eliminato allora la cellula assume fenotipo neoplastico. Questo fenomeno è detto “aploinsufficienza”: il prodotto di un singolo allele sano a volte non è sufficiente per ripristinare la normale funzionalità cellulare;

Osservazione clinica : nel retinoblastoma familiare c’è un gene, chiamato RB, che subisce la mutazione in uno dei due alleli già in fase pre-zigotica. Ne consegue che tutte le cellule somatiche hanno un allele RB mutato ed uno

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normale. Se per cause successive si verificano altre mutazioni anche l’altro gene RB può essere alterato. La cellula assume così fenotipo neoplastico. Nel retinoblastoma sporadico l’ipotesi è che lo zigote sia normale ma che una stessa linea cellulare subisca due successive mutazioni (teoria dei 2 hits). La teoria è stata convalidata da studi clinici.La forma ereditaria colpisce bambini molto piccoli. E’ spesso bilaterale e multifocale. La forma sporadica invece si sviluppa in bambini a partire dai 6/7 anni, è monolaterale e monofocale.

Osservazioni genetiche: se i geni mutati vengono trasmessi in linkage con marcatori (es. microsatelliti) si può studiare la relazione tra malattia e presenza del marcatore associato al gene malato. Analizzando il sangue periferico si nota nelle forme familiari la presenza dell’allele malato. Poi, chiaramente, perché si sviluppi il tumore è necessaria un’ulteriore mutazione. La penetranza di una malattia indica la percentuale di individui con l’allele mutato che prima o poi sviluppano tumore.

RB RB è una proteina implicata nel primo check point, quello cioè che blocca la cellula in fase G 1. Se la proteina è ipofosforilata il ciclo non va avanti poiché RB forma un complesso con il fattore trascrizionale E2F che viene inattivato.Se RB è fosforilato dal complesso CDK/ciclica esso si stacca da E2F che può così fungere da fattore trascrizionale. Questo evento consente alla cellula di superare il primo check point.La proteina RB può non essere presente se sono presenti mutazioni geniche ma può anche essere inattivata se forma complessi con proteine virali, spiegando l’azione cancerogenica di queste proteine virali:E7 dell’HPVE1a dell’adenovirusLT dell’SV40Anche P53 è inattivata se complessata con proteine virali.P53E’ un fattore trascrizionale. Ha un dominio che lega il DNA e media l’attività di regolazione della trascrizione mentre con un altro dominio lega altre proteine per formare omotetrameri.Quando si verifica un danno non letale al Dna cellulare P53 si attiva e stimola la trascrizione di geni come p21 cip (inibitori delle CDK) che arresta la cellula in fase G1 o GADD45 che ripara il DNA. Se il danno viene riparato riprende il ciclo, se esso invece è troppo grave allora un’altra possibilità che P53 ha è quella di attivare dei circuiti apoptotici mediando l’espressione di BAX ed inibendo la trascrizione della proteina anti-apoptotica BCL-2.Quando si verifica un danno al DNA si attivano però due circuiti che fosforilano in due posizioni tipiche P53 rendendola resistente all’ubiquitinazione (proteolisi). Altrimenti l’emivita di P53 sarebbe bassissima. P53 mutata (e inattiva) è più stabile della forma normale e di conseguenza può essere messa in evidenza con metodi immunoistochimici.MDM2 è una proteina che blocca l’attività di P53 con meccanismo a feedback negativo: la sua espressione è mediata da P53 e il suo effetto è quello di inibire P53 stessa. P19ARP lega MDM2 sottraendola al legame con P53. Se P19 non è funzionante la P53 rimane inattiva e perde la sua funzionalità.La perdita di funzione di P53 è molto grave perché può originare un clone di cellule con mutazioni successive a danno del DNA che però non vengono riparate. Quasi il 50% dei tumori sporadici presentano una mutazione che interessa p53.L’alterazione di p53 in cellule della linea germinale provoca nella prole la sindrome di LI-FRAUMENI caratterizzata da tumori alle ossa e dei tessuti molli in genere.APCE’ il gene responsabile della poliposi adenomatosa del colon (FAP). Questa proteina contrae rapporti con la β catenina favorendone la degradazione. In questa maniera la β catenina non può più svolgere il suo ruolo di fattore trascrizionale nei confronti di geni coinvolti nella replicazione cellulare. Ovviamente se APC è inattiva o malfunzionante la replicazione cellulare avverrà più facilmente.Segni associati alla poliposi del colon sono l’ipertrofia dell’epitelio pavimentose della mandibola ed osteomi multipli della mandibola. Ci sono inoltre alcune varianti della FAP come la sindrome di Torcout nella quale compaiono tumori cerebrali.L’alterazione dell’APC è un evento precoce tanto che questa alterazione si rivela già allo stato di adenoma. Tuttavia questa alterazione non è di per sé sufficiente allo sviluppo del tumore ma deve essere seguito questo percorso:Epitelio normale Alterazione di APCDisplasia a livello dell’epitelio ghiandolare Demetilazione del DNA (evento epigenetico che riguarda alcuni promotori)Adenoma precoce Alterazione di RASAdenoma intermedio Alterazione DCC (deleto nel cancro del colon): è un gene che codifica una proteina simile a N-CAM che . . . . . . serve per l’ancoraggio e la trasmissione dei segnali.Adenoma tardivo Alterazione p53

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Carcinoma Altro?Metastasi

Proteine deputate alla stabilità genomicaLa gran parte dei tumori umani sono sporadici, compaiono cioè in un nucleo familiare senza che vi siano stati altri casi.Esiste però una quota di tumori con una base genetica: esempi sono la sindrome adenopoliposa del colon (FAP), il retinoblastoma, la sindrome da neoplasia endocrina multipla…, che hanno tutte specifiche alterazioni geniche recessive alla loro base. Una quota più grossa di tumori si sviluppano però in persone le quali hanno alterazioni geniche che le predispongono a sviluppare una neoplasia in senso generico: ne sono un esempio una quota delle persone colpite dal cancro non poliposico del colon (HNPCC), dal tumore della mammella o dell’ovaio.La penetranza della malattia è nei primi casi del 95 %, nei secondi solo del 60%.Le principali caratteristiche delle sindromi tumorali ereditarie sono: L’esordio della malattia tumorale in età precoce rispetto a quelli che manifestano il tumore di tipo sporadico; Storia familiare di neoplasie; Tumori primitivi multipli di diverso isotipo nello stesso paziente (sindrome di Li Fraumeni); Origine multifocale di un determinato tumore.I geni predisposti alla stabilità del genoma sono i responsabili di quella fetta di alterazione che predispongono genericamente al tumore. Questi geni, detti caretaker, sono recessivi ma se anche entrambi gli alleli sono mutati l’individuo è solo predisposto a sviluppare alterazioni della crescita cellulare. Sono necessarie infatti almeno altre due mutazioni perché si sviluppi neoplasia. Ciò è diverso da quello che succede per i geni oncosoppressori, detti anche gatekeeper, dove la delezione di entrambi gli alleli dà inizio al processo neoplastico.I geni caretaker sono predisposti alla stabilità del genoma e la loro alterazione comporta una instabilità genetica generale. L’instabilità genetica di una cellula viene messa in evidenza mediante lo studio di marcatori microsatelliti particolarmente conservati: se la lunghezza di questi marcatori cambia a causa di delezioni o inserzioni siamo di fronte a instabilità genomica. Si suole considerare presente: Alta instabilità, se 2 o più microsatelliti su 5 sono alterati (o > 30/40% dei marcatori analizzati); Bassa instabilità, se 1 microsatellite su 5 è alterato (o < 30/40 % dei marcatori analizzati).Quando si sviluppa un tumore come l’HNPCC non c’è in realtà modo di stabilire se esso sia sporadico o se invece la persona ne fosse geneticamente disposta a causa di una alterazione di un gene caretaker. Generalmente si tende a considerare quella un tumore originato per predisposizione genetica quando:1. almeno tre parenti hanno sviluppato un cancro del colon, uno di questi deve essere parente di 1° grado degli altri

due;2. sono affette due generazioni successive;3. a uno dei parenti è stato diagnosticato il tumore prima dei 50 anni.I geni caretaker entrano in gioco nei meccanismi di riparazione del DNA, come per esempio il “mismatch repair” (la rimozione dalle catene di nuova sintesi del DNA di segmenti nucleotidici contenenti basi non complementari inserite erroneamente). I geni coinvolti in questo processo sono almeno sei, i più importanti dei quali sono hHSH2, hHSH6 e hPHS2. La perdita di funzione di uno o più di questi geni provoca instabilità genomica. Dopo l’alterazione dei geni per la riparazione perché si sviluppi tumore devono essere colpiti altri geni come il recettore per il TGFβ (quindi non oncogeni o oncosopressori in senso stretto). Si noti comunque che un tumore che presenta l’alterazione dei geni caretaker di solito si localizza in sede prossimale ed è accompagnato da una prognosi favorevole.BRCA1 e BRCA2Il fattore genetico può essere importante per la predisposizione al tumore mammario e a quello dell’ovaio. All’interno dell’insieme delle forme familiari ce n’è una fetta di origine ereditaria, di cui sappiamo cioè il preciso difetto genico che ne ha portato allo sviluppo: due di questi difetti genetici possono essere l’alterazione dei geni BRCA1 e BRCA2.I membri di famiglie ad alto rischio hanno circa il 40% di probabilità di sviluppare tumore entro i 70 anni e quelli sicuramente portatori di mutazione addirittura il 70/80 % contro il 10/15 % della popolazione normale.Un fenomeno non ancora spiegato è che un tumore con caratteristiche ereditarie tende a comparire sempre più precocemente nelle generazioni successive.

Fattori esterni implicati nella cancerogenesi (cancerogenesi chimica)Saggi di cancerogenicitàStabilire se un prodotto possa o meno avere capacità cancerogena è importante perché ogni anno 2/3000 sostanze chimiche vengono immesse nel mercato.Fino a poco tempo fa la metodica prediletta era il “bioessay”: si facevano cioè esperimenti su piccoli animali, soprattutto topi e ratti, studiando l’eventuale sviluppo di tumori. Come variante si può usare l’animale neonato che è particolarmente sensibile ai fattori cancerogeni poiché le sue difese immunitarie ed i processi di detossificazione non sono ben sviluppati. Ancora si può somministrare ad un animale gravido il possibile cancerogeno valutando se il neonato, che ha assorbito queste sostanze per via transplacentare (o attraverso il latte), sviluppi tumori con più alta frequenza.Nella graduatoria delle sostanze cancerogene una delle più potenti è l’aflotossina B, una tossina prodotta da un fungo che se somministrata a dosi giornaliere di 0,001 mg nel ratto provoca un aumento del 50% delle possibilità che

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l’animale sviluppi tumore nel corso della sua vita. All’altro estremo troviamo il dolcificante saccarina che produce gli stessi effetti con una dose giornaliera di 10g (dose troppo alta per poter considerare la sostanza pericolosa).Queste metodiche sono ormai quasi del tutto abbandonate a causa dei limiti che presentano, tra i quali:1. tempi di esecuzione lunghi (almeno due anni, cioè la vita media di un ratto);2. costo elevato per comprare e mantenere un animale tanto che per ogni sostanza questi studi possono costare

6/700.000 euro;3. bassa sensibilità;4. limitata applicabilità per molti prodotti;5. risposta influenzabile dall’assetto genico dell’animale;6. variabilità nell’incidenza di tumori che non dipendono dalla sostanza.Oggi si preferisce fare altri saggi e solo quando vi è un forte dubbio si torna alla sperimentazione animale. Tra i saggi ora più usati ci sono quelli in vitro volti a stabilire il potere mutageno di una sostanza (tenendo però in considerazione che solo l’85% delle sostanze in grado di provocare mutazioni sul DNA sono anche cancerogene).Test di Ames:Si prende un ceppo di Salmonella che ha perso la capacità di sintetizzare istidina ed è perciò incapace di crescere in un mezzo di coltura (a meno che la sostanza non sia addizionata).Si seminano i batteri su un terreno agar privo di istidina ma addizionato della sostanza che si vuole testare e di un omogeneizzato di fegato (difatti spesso le sostanze non sono cancerogene di per sé ma dopo aver subito trasformazione ad opera di enzimi, di cui il fegato è particolarmente ricco).Se crescono delle colonie significa che si è verificata una retromutazione, ovvero una nuova mutazione che ha permesso al batterio di riacquistare la sua capacità di sintetizzare istidina. Dal numero delle colonie e dalla concentrazione della sostanza utilizzata si può risalire alla sua cancerogenicità.Esiste un istituto, lo IARC, che ha avuto un ruolo nel classificare varie sostanze. L’osservazione, basata su dati clinici, epidemiologici e sperimentali, permette di inquadrare la sostanza in una di queste categorie:1. GRUPPO 1: cancerogeno accertato per l’uomo. Sufficienti evidenze permetto di escludere il ruolo del caso, del

confondimento e della distorsione dei dati sperimentali;2. GRUPPO 2A: probabile cancerogeno;3. GRUPPO 2B: possibile cancerogeno;4. GRUPPO 3: evidenze inadeguate per procedere alla classificazione;5. GRUPPO 4: probabile sostanza non cancerogena.Ai fini della prevenzione primaria il gruppo 1 ed il 2A devono essere considerati alla stessa maniera.NOTA: i cancerogeni chimici appartengono ad alcune categorie di composti organici ma possono anche essere sostanze inorganiche come il PVC (cloruro di vinile).“Attivazione” dei cancerogeniUna sostanza chimica, perché acquisti azione cancerogena, deve spesso subire un processo di attivazione ad opera di enzimi cellulari. Dal procancerogeno si passa così a cancerogeno prossimale e con ulteriori trasformazioni a cancerogeno terminale.Tuttavia i prodotti intermedi possono essere detossificati mediante coniugazione con altre sostanze ed escreti. Dal bilancio tra i due processi risulta se la sostanza avrà effetto cancerogeno ed in quale misura.Il cancerogeno terminale è un prodotto altamente instabile dal punto di vista chimico, dotato spesso di cariche positive: per questo tende a combinarsi con siti nucleofili presenti sia su DNA che su proteine. I composti che si formano vengono definiti “addotti” (composti di addizione).Anche cancerogeni diretti, che non richiedono attivazione, possono formare addotti come per esempio gli alchilanti del DNA. Ma si tratta comunque di una minoranza all’interno del gruppo dei cancerogeni.Riconoscendo la presenza nelle cellule di un individuo di addotti, magari mediante l’uso di specifici anticorpi monoclonali, si può capire se c’è stata un’esposizione al rischio.Esistono notevoli polimorfismi negli enzimi implicati nella attivazione dei procancerogeni. Questi polimorfismi fanno sì, almeno per quanto riguarda gli enzimi inducibili, che alcune persone ne producano in grandi quantità e altri meno. Se una persona ha un assetto genico che implica una alta inducibilità allora metabolizzerà rapidamente certe sostanze (ad esempio i prodotti del fumo) mentre altri, con bassa inducibilità, sono molto meno sensibili.La famiglia di enzimi maggiormente implicati in questi processi è detta CYP.Ecco un esempio di come la trascrizione di questi enzimi possa essere indotta: esistono dei geni che codificano per un recettore, chiamato AMR, il quale forma nel citoplasma complessi con proteine heat-shock e p56. Se arriva dall’esterno un idrocarburo esso si lega al complesso. Le heat-shock proteins e p56 si dissociano e al complesso idrocarburo-AMR si lega una proteina trasportatrice nucleare che media il suo trasporto nel nucleo. Lì il complesso può agire su elementi responsivi con attivazione della trascrizione di enzimi CYP. Questi attivano l’idrocarburo trasformandolo in epossido che ha azione mutagena sul DNA.

Riassumendo:PROCANCEROGENO

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Intermedi Detossificazione ed escrezione (citP450)

CANGEROGENO: legame al DNA, RNA, proteine Riparazione: cellula normale

Replicazione DNA Apoptosi

Lesione permanente del DNA (evento relativamente raro perché normalmente non si arriva a questo punto)

Cellula neoplastica Alcuni cancerogeni chimici alterano specificatamente alcuni punti del DNA: dalla presenza di una determinata mutazione si può determinare quale sostanza abbia scatenato il processo neoplastico agevolando così il compimento di studi epidemiologici. E’ questo l’esempio dell’aflotossina B la quale altera specificatamente uno specifico codone del gene per p53.Agenti promoventiSi tratta di sostanze che se somministrate a dosi ripetute dopo (non prima!) ad un’altra sostanza detta iniziatrice, anche a distanza di tempo, provocano lo sviluppo di tumore. Il solo iniziatore ed il solo promovente, oppure la somministrazione di promovente prima e di iniziatore poi non determinano lo sviluppo del cancro.Questo perché la sostanza iniziatrice è un cancerogeno che produce una lesione sul DNA. Le cellule sono poi spinte alla proliferazione dalla sostanza promovente. Ad esempio il benzopirene a dosi basse da solo non produce alcun effetto. Ma se ad esso segue l’olio di croton, un classico promovente, allora si sviluppa tumore.Un cancerogeno incompleto è un promovente mentre un cancerogeno completo è di per sé in grado di sviluppare tumore.AnticancerogenesiSi tratta di una serie di misure atte a ridurre il rischio di sviluppo di tumori dovuti a sostanze cancerogene:1. prevenzione della formazione di cancerogeni endogeni con antiossidanti come la vitamina E;2. inattivazione dei mutageni con sostanze coniuganti;3. induzione di enzimi che trasformano il procancerogeno in metabolita inattivo.Da qui si capisce il ruolo di una corretta alimentazione nella prevenzione del cancro.

Cancerogenesi fisicaPer cancerogenesi fisica si intende la cancerogenesi da stato solido (o da corpo estraneo) oppure la cancerogenesi da radiazioni.Cancerogenesi da stato solidoLa cancerogenesi da stato solido è provocata da sostanze chimicamente inerti o non biodegradabili che, se inserite nel corpo, possono alla lunga favorire la crescita di tumori intorno ad esse. Ciò che provoca l’effetto cancerogeno non è la costituzione chimica dell’oggetto ma il suo stato fisico: uno stesso oggetto può non avere alcun effetto cancerogeno se intero ma averlo se frammentato. Non si conosce il motivo di questo fenomeno.Tumori possono essere causati da microtraumi provocati da protesi imperfette, per esempio nel caso delle protesi odontoiatriche. Per fortuna ad oggi le protesi chirurgiche non hanno mai determinato l’insorgenza di tumori.Un altro strano fenomeno si osserva nel caso degli “scar cancer”, cioè di tumori, spesso carcinomi, che si sviluppano a livello dei tessuti cicatriziali. I calcoli biliari o quelli urinari possono provocare tumori. Lo stesso può fare un calore cronicamente applicato ad un tessuto.I casi più frequenti di tumori da stato solido sono quelli provocati dall’inalazione di asbesto. Si tratta di fibre di silicati idrati derivate dal processo estrattivo e di lavorazione dei minerali. Le fibre di asbesto possono essere di due tipi: arricciate oppure strette e sottili. Quest’ultime sono le più pericolose.L’asbesto ha avuto una larga applicazione nell’industria poiché costituisce l’amianto. Il problema è che queste fibre, pur non rappresentando un problema dal punto di vista chimico, possono essere inalate e penetrare in piccole ramificazioni bronchiali provocando tumori: l’asbesto (classe I IARC) provoca mesoteliomi pleurici (tumore molto resistente alla terapia e poco aggredibile dal punto di vista chirurgico) e carcinomi polmonari.Cancerogenesi da radiazioniLe radiazioni dannose possono essere:Elettromagnetiche: ionizzanti (X e γ) o semplicemente eccitanti (UV)Corpuscolate: raggi α e β, entrambe ionizzantiUnità di misura: Bequerel (Bq) = disintegrazioni per secondo 3,7 * 1010 Bq = 1 Curie

Gray = dose assorbita = J/KgLET (linear energy transfert) = energia trasferita dalla radiazione al bersaglio per micron di cammino percorso X e γ = hanno basso LET e sono in grado di compiere un percorso maggiore; α e β = hanno alto LET e si arrestano prima.EBR = danno biologico relativo, a parità di energia assorbita. X = 0,3

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Β = 1 α = 10/20

La radiazione ha un effetto diretto sulla molecola colpita oppure indiretto se provoca idrolisi e formazione di radicali dell’ossigeno. Una lesione può essere letale ad alte dosi di radiazioni oppure, a dosi più basse, produrre mutazioni che possono portare a tumori.I tessuti umani non sono ugualmente sensibili al cancro radio-indotto:Sensibilità elevata = tessuto mielopoietico e tiroide;Sensibilità media = mammella, polmone e ghiandola salivare;Sensibilità bassa = cute, osso, stomaco e altri.Nei bambini di Chernobyl si sono registrati molto carcinomi della tiroide per riarrangiamenti degli oncogeni RET/PTC (PTC = carcinoma papillare della tiroide).Nell’effetto cancerogeno delle radiazioni ha una grossa importanza l’efficacia dei meccanismi di riparazione del DNA. Questi sistemi possono essere alterati in tutta un serie di malattie (es xeroderma pigmentoso e sue varianti). Il problema per queste persone non sono solo le radiazioni ionizzanti ma anche quelle non-ionizzanti, come le radiazioni solari, che possono per esempio determinare nei bambini affetti da xeroderma pigmentoso l’insorgenza di tumori cutanei.Le radiazioni solari, in base alla loro frequenza, vengono distinte in:UVC: vengono di solito trattenute dallo strato di ozono;UVA e UVB: sono più pericolose e penetranti. Le UVB possono raggiungere lo strato basale dell’epidermide dove si trovano anche i melanociti. Gli UVA possono essere ancora più penetranti e raggiungere il connettivo sottocutaneo.Le UV possono provocare danni al DNA non sono alterando le basi, per esempio per deamminazione, ma possono anche portare alla formazione di dimeri pirimidinici. La formazione di dimeri di timina richiede una riparazione attraverso NER (escissione e risintesi). Se il sistema funziona male il danno non viene riparato e l’alterazione può essere trasmessa alla progenie cellulare.Più della metà delle radiazioni a cui si è sottoposti è dovuta al radon: è un gas insapore, inodore e invisibile; la sorgente maggiore è il suolo. Il radon, essendo un gas pesante, ristagna al pian terreno e negli scantinati. Altre

sorgenti possono essere rappresentate dall’acqua e da materiali impiegati nell’edilizia ricavati dalle case; emette soprattutto particelle α e raggi γ; può essere dannoso se inalato e determina l’aumento del rischio relativo soprattutto di contrarre carcinoma

polmonare.

Cancerogenesi viraleIl 15% delle neoplasie umane è associato ad infezione con virus oncogeni.L’incidenza di tali neoplasie potrebbe essere marcatamente ridotta attraverso vaccinazioni su larga scala, realizzando così un intervento di prevenzione primaria. Ad esempio la vaccinazione contro l’HBV ha ridotto sensibilmente l’incidenza degli epatocarcinomi. Lo studio dei virus oncogeni ha chiarito molti dei meccanismi alla base della trasformazione cellulare neoplastica.L’infezione di alcuni tipi di virus oncogeni, come l’EBV, è molto diffusa nella popolazione. Tuttavia solo in un caso su 1000 i portatori sviluppano un tumore dovuto al virus. Anche in questi rari casi inoltre il periodo di latenza tra infezione e sviluppo del tumore è molto lungo: si parla di parecchi anni.La cancerogenesi virale può essere: Diretta : il virus infetta una cellula progenitrice della popolazione clonale del tumore. Prendendo in esame le cellule

è possibile evidenziare le sequenze nucleotidiche virali; Indiretta : il virus non infetta necessariamente una cellula progenitrice del tumore e non è quindi dimostrabile nelle

cellule neoplastiche. Tuttavia esso esplica un effetto indiretto sulla replicazione cellulare e sulla iperplasia dei tessuti oppure sulla funzione immunitaria determinando così una predisposizione allo sviluppo del tumore. L’esempio più classico di quest’ultimo tipo è rappresentato dai tumori che insorgono nei soggetti sieropositivi per HIV. La conseguente immunodepressione predispone classicamente allo sviluppo di linfomi, sarcoma di Kaposi e cancro della cervice uterina. Questi sono tutti tumori che necessitano di una super-infezione di un altro tipo di virus. Se ne deduce quindi che la sorveglianza immunologica ha una sua importanza solo nei tumori associati ad infezione virale (o che, almeno, solo in questi casi è efficiente)

Ci sono dei fattori generali che possono rendere una persona colpita da un’infezione virale predisposta a sviluppare cancro:1. Compromissione della reattività immunitaria;2. Condizioni fisiologiche o patologiche di accelerata replicazione cellulare;3. Alterazioni geniche che predispongono al tumore (ad es. alterazione nei meccanismi di riparazione del DNA. Le

persone con xeroderma pigmentoso sono predisposti a sviluppare papillomi cutanei o addirittura carcinomi spinocellulari dovuti ad infezioni virali).

I più importanti agenti infettivi correlati a tumore nell’uomo sono:HBV, HCV: carcinoma epatico;HPV: carcinomi delle mucose genito-urinarie e prime vie digestive;EBV: linfomi e carcinoma nasofaringeo;HV8 (herpes tipo 8): sarcoma di Kaposi, particolari linfomi e malattie delle plasmacellule;HIV: linfomi, sarcoma di Kaposi e carcinoma della cervice.

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Non solamente i virus ma anche altri agenti infettivi possono essere responsabili, con meccanismi necessariamente indiretti, dello sviluppo di tumore: un esempio è l’Helicobacter Pilori, associato al carcinoma gastrico, o la Clamidia.In seguito a infezione di un virus a DNA esso può compiere un ciclo litico che porta eventualmente all’accelerazione del ciclo cellulare (es. verruca) ma comunque, alla fine, alla lisi della cellula. Alternativamente, se il virus infetta una cellula non permissiva, sono espressi solo i geni precoci ed il genoma virale rimane nella cellula o sotto forma di episoma oppure integrato nel DNA (ciclo latente).HPVQuesto virus ha un tropismo spiccatamente epiteliotropo (infetta sia gli epiteli mucosi che quelli di rivestimento).L’infezione più frequente è quella a livello del distretto genitale.Esistono molti sottotipi di HPV ma due di essi determinano un’infezione che è associato ad alto rischio di sviluppo di un tumore maligno: sono i sottotipi 16, 18, 31 e 45. Altri sottotipi sono invece associati a forme benigne che scompaiono spontaneamente.I coliociti (cellule grandi con molto citoplasma) sono indicativi di infezione da HPV.Due dei geni precoci di HPV sono particolarmente importanti nella sua azione cancerogena: E6 ed E7.E7 lega RB. L’eliminazione di questo freno fa sì che le cellule iperproliferino. E6 invece lega p53. Quest’ultima proteina non solo controlla il ciclo cellulare ma ha anche facoltà di determinare l’apoptosi della cellula legando la proteina BAX.Nei sottotipi ad alto rischio E6 ed E7 hanno molta affinità per RB e P53. Gli altri tipi hanno bassa affinità e perciò le cellule non perdono completamente la funzione di RB e p53. (ndr: la proliferazione della cellula è funzionale al normale ciclo litico del virus: esso infetta le cellule negli strati basali, ne determina la proliferazione e la lisi avviene negli strati superiori. Tuttavia può succedere che qualche cellula non permetta l’espressione dei geni tardivi: in questo caso se la cellula è affetta da un sottotipo ad alto rischio ha più probabilità di andare incontro a trasformazione neoplastica).EBVL’Epstain-Barr è un virus a dsDna lineare che appartiene alla famiglia dei virus erpetici. Lo spettro d’ospite è molto ampio così pure la prevalenza (> 90% negli adulti). Il tipo cellulare prediletto dal virus per la latenza è il linfocita B.L’infezione primaria avviene a livello della mucosa e dello strato linfoepiteliale. Il virus poi infetta le cellule B perché espongono un tipico recettore: il CD21.Nelle cellule B il genoma del virus EBV può esprimere i geni tardivi e determinare il tipico ciclo litico.Le cellule del linfocita TCTL combattono l’infezione ma anche dopo che la mononucleosi è guarita un certo numero di cellule B continua ad essere infettata dal virus in fase latente: si calcola che esse siano circa 1 su milione.In tutte le situazioni in cui c’è un’espansione policlonale B la carica virale aumenta e l’infezione può riattivarsi.Su sangue periferico di una persona infettata coltivato in vitro si vede lo sviluppo di linee di cellule linfoblastoidi: si tratta di linfociti B immortalizzati, ma che se trasfusi in un animale normale non si dimostrano essere neoplastiche.Tuttavia, se queste stesse cellule sono trasfuse in un animale fortemente immunodepresso, allora esse possono provocare l’insorgenza di tumore. Lo stesso può succedere anche in un uomo.I geni precoci più importanti dell’EBV sono gli EBNA (Epstain Barr nuclear antigen) e i geni LMP che sono espressi sulla membrana del linfocita infettato.EBNA1: serve per il mantenimento dell’episoma;EBNA2 : ha funzione transattivante su geni cellulari;LMP1: ha azione immortalizzante. E’ molto simile al recettore per il TNF e provoca una iperproduzione della proteina anti-apoptotica BC2-LUn gene litico è invece analogo all’IL10 e determina una proliferazione policlonale dei linfociti B.I linfociti B che contengono EBV in fase latente possono trovarsi in tre situazioni: Latenza di tipo I: è tipico del linfoma di Burkitt. E’ caratterizzata dall’espressione esclusiva di EBNA 1. Il sistema

immunitario non riconosce le cellule trasformate. Nel linfoma di Burkitt riconosciamo una forma endemica (il 100% dei linfomi di Burkitt è conseguente ad infezione di EBV) ed una forma sporadica (solo alcune di queste persone sono infette da EBV);

Latenza di tipo II: esprime EBNA I, LMP 1 e LMP2. E’ associata con linfomi di Hodgkin e con il carcinoma indifferenziato del nasofaringe. Sono tumori molto frequenti tra le popolazioni asiatiche;

Latenza di tipo III: il linfocita B esprime sia LMP1 che LMP2 e tutti e 6 gli EBNA. Sono associati con le linee linfoblastoidi, coi linfomi immunoblastici che si possono avere in persone immunodepresse e con forme proliferative policlonali di linfociti B che si verificano dopo un trapianto. In quest’ultimo caso è sufficiente ridurre l’immunodepressione per arrestare le forme proliferative.

RETROVIRUSI retrovirus, a seconda della complessità del loro genoma, possono essere distinti in semplici o complessi. I semplici possono essere a loro volta distinti in cronici o acuti a seconda della velocità con cui provocano tumori. Il prototipo del virus acuto è il virus del sarcoma di Raus. I retrovirus acuti sono comunque artefatti di laboratorio, e non sono presenti in natura.I retrovirus complessi, dal punto di vista oncologico, sono detti “transattivanti”.I virus acuti provocano tumore in pochi giorni ed esso è policlonale (sarebbe impossibile avere una massa sufficiente di cellule in pochi giorni se esse derivassero dall’espansione di un’unica cellula).Nei virus acuti vi è una perdita di geni virali e acquisizione di proto-oncogeni cellulari costitutivamente attivi. Il tipo di c-onc integrato determinerà il tipo di tumore che il virus sarà in grado di provocare.

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I virus acuti sono difettivi: hanno bisogno di un virus helper per la loro replicazione.I virus cronici provocano tumore perché, integrandosi random, possono capitare vicino ad un oncogene ed attivarlo con le loro sequenze LTR. I virus transattivanti invece esprimono una proteina transattivante virale che attiva a distanza l’espressione di protooncogeni cellulari, di geni per fattori di crescita o di loro recettori. HLTV-1L’HLTV-1, un deltaretrovirus, è il primo retrovirus umano ad essere stato documentato. Esso è un retrovirus complesso che oltre a gag, pol ed env codifica per proteine regolatrici e proteine accessorie.Esso è endemico in Giappone ma è presente anche nei Carabi e nel Sud America. In Europa si è registrato solo qualche caso sporadico.Questo è un virus transattivante che causa leucemia caratterizzata da linfociti con nucleo a forma di fiore (flower cells).Frequentemente questi soggetti presentano anche ipercalcemia con nefropatie causate da depositi calcifici nei nefroni.TAX è una proteina virale che interagisce con fattori trascrizionali i quali, a loro volta, possono attivare sequenze promotrici di numerosi geni cellulari come recettori per fattori di crescita, c-onc, citochine. Sembra inoltre che il virus provochi una down-regulation della DNA pol. Β, un enzima coinvolto nella riparazione del DNA: ciò contribuisce all’instabilità del genoma.A breve termine l’HTLV-1 è in grado di immortalizzare le cellule ed indurne una proliferazione (ad esempio perché producono molta IL1). In vitro cellule T infettate dall’HTLV-1 producono linee linfoblastoidi simili alle B infettate dall’EBV. La proliferazione è policlonale.Successivamente, nel giro di numerosi anni (anche decenni), il virus può portare ad alterazioni cromosomiche o eventi mutageni a carico di una cellula che così passa da iperproliferativa a tumorale: si sviluppa perciò una leucemia con crescita questa volta monoclonale.

Cancerogenesi mammariaSi trova solo nei topi ed è causata dall’infezione del virus MMTV (mouse mammary tumor virus).Esso produce una proteina (SAg) che funge da superantigene, provocando un attivazione policlonale dei linfociti T che, analogamente a quanto avviene per le infezioni da HLTV-1, predispone al tumore.Il virus ha una peculiarità: infetta le cellule delle mammelle e, trasmesso col latte, infetta i linfociti B appartenenti al tessuto linfoide annesso al sistema digerente del neonato. La produzione di SAg determina una iperproliferazione di linfociti T i quali, a loro volta, inducono una proliferazione di linfociti B con l’effetto di aumentare la carica virale.

Cancerogenesi da ormoniUn determinato ormone, se è prodotto in maniera squilibrata, può provocare a livello dell’organo bersaglio una iperproliferazione prima iperplastica e poi, eventualmente, tumorale. Squilibrio endocrino non è necessariamente sinonimo di iperproduzione ma sull’argomento se ne sa comunque poco. Per quanto riguarda l’ormone tiroideo particolarmente grave è l’assenza di feedback negativo a livello ipotalamico.Lo stesso può avvenire per esempio nell’ovaio se gli ormoni da esso prodotti sono anomali e non in grado di inibire la produzione di gonadotropine ipotalamiche. Questo può portare allo sviluppo di tumori della granulosa ovarica.Per quanto riguarda gli ormoni steroidei, come i glicocorticoidi, il loro recettore è normalmente inattivo perché legato ad una heat shock protein. Quando l’ormone si lega al recettore la HSP si slega e il complesso recettore + ormone può diffondere nel nucleo e funzionare da agente trascrizionale.Quando uno di questi sistemi è alterato si verifica uno squilibrio che può comportare la comparsa di tumori ormone-responsivi. I tumori ormone-responsivi sono tumori costituiti da cellule che sintetizzano recettori per determinati ormoni i quali ne inducono la proliferazione.Esistono dei farmaci, come il tomoxifen, che inibiscono competitivamente gli estrogeni: essi si usano nella prevenzione di una recidiva nelle donne che hanno già avuto un tumore al seno. Ma bisogna anche bloccare, con un altro farmaco, il processo di conversione del testosterone in estradiolo.A livello della prostata è il testosterone, o meglio il diidrotestosterone, a provocare lo squilibrio che porta alla iperproliferazione. Si può intervenire allora con il finasteride, un inibitore della 5α-reduttasi.Tuttavia questo spesso non è sufficiente perché prima o poi le cellule iperproliferanti perdono la dipendenza dall’ormone mediante diversi meccanismi come il blocco dell’espressione dei recettori, il metabolismo dei farmaci competitivi, anomalie nelle sequenze responsive agli ormoni…Ancora ormone-indipendenza si può avere se le cellule iper-esprimono geni come myc o Erb2 oppure se hanno mutato il geneRAS.Sindromi paraneoplastiche: alcune neoplasie umane provocano la comparsa di condizione morbose che non dipendono direttamente dalle lesioni causate dall’espansione della massa neoplastica. Un esempio è un tumore secernente ormone (che non è necessariamente un tumore di una ghiandola endocrina).Un altro esempio sono le ripetute tromboflebiti (coagulazioni intravasali) dovute a fattori prodotti dalle cellule tumorali.

Marcatori bio-umoraliSono marcatori di tumore usati normalmente. Per esempio un marcatore del tumore della prostata è il PSA (antigene prostatico specifico). Si dosa nel sangue. Più che per la diagnosi esso è importante per il monitoraggio contro le recidive.

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Un altro marcatore importante è l’antigene carcinoembrionario (CEA) che si trova iper-espresso nei tumori del colon. Anche in questo caso però serve soprattutto per il monitoraggio terapeutico mentre è assai meno sensibile per la diagnosi perché ci sono condizioni, come la colite, che possono portare ad un aumento del CEA.L’α-fetoproteina (AFP) è prodotta dal fegato fetale o da quello adulto quando sono in atto processi proliferativi.

Terapia antitumoraleLe terapie per i tumori maligni possono essere chirurgiche, farmacologiche o radianti. Questi sono i tre pilastri su cui si fonda attualmente la terapia antitumorale. A questi si aggiungono, in alcuni casi particolari, terapie ormonali (nei tumori ormone-responsivi), immunitarie (con cellule o anticorpi), biologiche (es. trapianto di midollo ematopoietico o somministrazione di immunomodulanti, cioè sostanze che modulano la risposta immunitaria. Vi sono anche alcune forme di terapia genica del tutto sperimentali).Le terapie biologiche acquistano oggi sempre maggiore importanza perché con i tre pilastri si è raggiunto un plateau di successi terapeutici. Allora si cercano nuove strade.Frequentemente si fa uso di associazioni terapeutiche anche perché si interviene con la terapia quando la neoplasia è già un po’ avanzata.Nella fase in cui il tumore è piccolo ma diagnosticabile (1-8 cm3) si può quasi sempre intervenire chirurgicamente e l’intervento chirurgico è risolutivo. Nelle fasi successive l’intervento chirurgico non è da solo sufficiente e ad esso bisogna associare una terapia.Una forma particolare di terapia è la “terapia neoadiuvante”: prima dell’intervento chirurgico, per migliorarne l’efficacia, si interviene spesso per ridurre la massa neoplastica.Chemioterapia:Esistono delle neoplasie che rispondono molto bene alla chemioterapia (gruppo I): Un gruppo di leucemie; Malattia di Hodgkin; Alcuni tumori pediatrici; Carcinomi a piccole cellule del testicolo.Ci sono però delle neoplasia che rispondono malissimo (gruppo IV), alcune delle quali sono molto diffuse: Carcinomi del rene, del colon-retto, della cervice e del pancreas; Adenocarcinoma del polmone; Melanoma maligno.Per inciso il cancro della mammella e della prostata appartengono al gruppo II.I farmaci agiscono su diversi siti della cellula in modo che essa sia attaccata su diversi fronti: esistono degli alchilanti del DNA, degli antimetaboliti etc…Malgrado ciò non si riesce ad ottenere un farmaco selettivo per l’elemento neoplastico: in sostanza i chemioterapici sono tossici. A breve termine la chemioterapia provoca nausea, vomito, brividi, febbre ed eruzione cutanea.Precocemente possono comparire leucopenia, plastrinopenia (che è la causa più importante che limita la progressione della terapia), mucosite nella bocca e nell’esofago, caduta dei capelli…A lungo termine si può riscontrare anemia, neurotossicità periferica, azospermia e amenorrea, danni epatocellulari…Infine tardivamente possono comparire leucemie o tumori solidi causati da un meccanismo di cancerogenesi iatrogena: tutti i farmaci chemioterapici sono essi stessi dei cancerogeni.Risposta alla terapia e resistenzaLa risposta che si può ottenere alla terapia è: Remissione completa: regressione completa di tutti i segni ed i sintomi di neoplasia per la durata minima di un

mese; Regressione parziale: regressione di più del 50% della somma del prodotto dei due diametri di tutte le lesioni

misurabili per la durata minima di un mese; Miglioramento obiettivo: regressione del 25-50%, non influisce sulla sopravvivenza; Progressione: aumento del 25% del volume della massa neoplastica oppure comparsa di nuove metastasi; Ricaduta: comparsa di nuove lesioni oppure aumento del 50% rispetto ai valori preterapeutici dopo un periodo di

remissione completa o parziale.I motivi per cui, nonostante la terapia, avviene progressione o ricaduta è che si sviluppano a livello di popolazione neoplastica dei meccanismi di resistenza.I tipi di resistenza sono essenzialmente due:1. Temporanea:

se ci sono componenti cellulari inaccessibili (santuari farmacologici), per esempio a causa della barriera ematoencefalica;

diminuita vascolarizzazione o limitata diffusione dei farmaci; alterata cinetica cellulare: ad esempio bassa frazione di crescita.

2. Permanente: Presenza, in elevata proporzione, di fenotipi cellulari geneticamente resistenti ad uno o più farmaci.

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Un esempio di resistenza è la resistenza pleiotropica o MDR (multiple drug resistance): la cellula diventa resistente a farmaci diversi. Ciò può essere dovuto alla glicoproteina di membrana p170: una pompa che cerca di allontanare dalla cellula sostanze estranee.Se questo meccanismo è efficiente, magari per amplificazione genica, allora il farmaco non riesce a raggiungere in concentrazioni sufficienti il suo bersaglio molecolare. Per ovviare a questo problema oggi si fa polichemioterapia, in modo da aggredire la cellula su più fronti.Nuovi tentativi terapeutici2. Uso di oligoantisenso per bloccare la trascrizione di particolari geni alterati (es. RAS). Il problema è che è difficile

veicolare queste molecole all’interno delle cellule;3. nel cromosoma Philadelphia si produce una tirosin chinasi BCR-ABL. E’ stata messa a punto una molecola,

surrogato dell’ATP (necessaria per l’attività chinasica), specificatamente selettiva per questa proteina. In questa maniera forme di leucemia mieloide cronica sono curate molto bene;

4. inibizione della tirosin chinasi responsiva a fattori di crescita con particolari farmaci. Purtroppo solo nel 20% dei casi si può applicare la terapia e solo per la durata di sei mesi prima che intervengano meccanismi di resistenza. Però questa terapia è priva di effetti collaterali;

5. uso, contro alcuni tipi di tumori, di anticorpi monoclonali. Il Cd20 è una molecola che si trova nelle cellule dei linfomi non-Hodgkin. Il legame Ag-Ac sulla superficie provoca apoptosi diretta;

6. Radioimmunoterapia: uso di un anticorpo monoclonale che veicola una sostanza radioattiva. La tossicità per i tessuti normali è ridotta.

LA MORTE CELLULARE (Bernardi)

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Apoptosi e necrosiLa morte cellulare ha tradizionalmente un connotato negativo ma l’apoptosi è un processo fisiologico importante in tessuti molto variabili come il sistema gastrointestinale (meno in tessuti perenni come il SNC).NECROSI:E’ la morte cellulare accidentale ad opera di acidi forti, di calore eccessivo o di qualsiasi altra perturbazione insostenibile per le strutture cellulari.Un aspetto comune della necrosi è la deregolazione della concentrazione di calcio nel citoplasma a causa di un danno alla membrana che ne determina entrata massiva per gradiente di concentrazione. Il calcio provoca dei danni agli organuli come mitocondri e lisosomi. Un’altra caratteristica costante è il rigonfiamento cellulare che si accompagna poi a lisi vera e propria con innesco della risposta flogistica.APOPTOSI:L’apoptosi, o morte cellulare programmata, è molto diversa dalla necrosi anche sotto l’aspetto della morfologia della cellula. Il processo inizia con l’attivazione degli enzimi della famiglia delle caspasi. Successivamente il nucleo viene frammentato da endonucleasi e vengono esposte sulla membrana molecole di fosfatidilserina. Queste molecole sono normalmente relegate al foglietto interno della membrana citoplasmatica dalle flippasi. Questi enzimi vengono però inattivati durante il processo apoptotico e la concentrazione di fosfatidilserine nei due foglietti della membrana raggiungono l’equilibrio.Infine la membrana plasmatica si estroflette e poco alla volta la cellula si frammenta (ma senza lisi). I macrofagi riconoscono le fosfatidilserina e fagocitano i frammenti apoptotici.In realtà si possono riconoscere anche degli stati intermedi:1. Apoptosi: serie di modificazioni stereotipiche (cioè sempre uguali) specialmente evidenti nel nucleo dove la

cromatina si condensa in forme semplici (globuli o semilune). Si nota inoltre la formazione dei corpi apoptotici.2. Morte programmata apoptosi-simile: la condensazione della cromatina è meno completa rispetto a quella che

avviene nell’apoptosi classica e la fosfatidilserina può essere esposta prima della lisi della membrana.3. Morte programmata simil-necrosi: non si verifica condensazione della cromatina ma vi è esposizione di

fosfatidilserina.4. Necrosi: è un processo accidentale che si blocca soltanto se viene rimosso lo stimolo che la innesca.

Meccanismi biochimici dell’apoptosiGli enzimi principalmente implicati nel processo apoptotico sono le CASPASI (cystenyl aspartate-specific proteinase): sono proteasi che contengono cisteina e che tagliano a livello dei residui di aspartato. Le caspasi sono anche coinvolte nell’infiammazione e trasformano alcune interleuchine dalla forma inattiva a quella attiva.La grande famiglia delle caspasi coinvolte nell’apoptosi si divide in caspasi effettrici (2;3;6;7) ed iniziatrici (8;9;10;12).Tutte le caspasi esistono in una proforma non attiva che contiene acido aspartico. Le caspasi iniziatrici sono attivate mediante un processo di “prossimità”: se esse vengono concentrate una vicina all’altra la debole attività proteolitica che possiede la forma inattiva è sufficiente perché gli enzimi si clivino e attivino a vicenda. Ciò non è vero per le caspasi effettrici che vengono attivate soltanto per proteolisi da parte di altri enzimi. Una volta che ciò è avvenuto esse dimerizzano ed espongono i siti attivi.Le caspasi sono molto selettive: effettuano tagli solo su particolari sequenze tetrapeptidiche e solo se esse sono esposte. Si ritiene che nella cellula ci siano soltanto circa 300 sequenze che posseggono con queste caratteristiche.Poiché l’apoptosi è un processo molto delicato esso è finemente controllato. Per quanto riguarda specificatamente le caspasi il metodo di controllo è rappresentato dalla proteina IAP (proteine che inibiscono l’apoptosi) la quale, legando le caspasi, le inattivano. Via estrinseca:Il processo dell’apoptosi comincia col legame da parte di un “recettore di morte” trimerico (il prototipo è il recettore per il TNF o per FAS). Il recettore quindi recluta delle “proteine adattatrici” dimeriche: esse contengono due domini, uno che lega il recettore, l’altro che lega le caspasi 8. Le caspasi 8 quindi si attivano per prossimità.Le caspasi iniziatrici, una volta attivate, clivano e attivano le caspasi effettrici: le caspasi 3.

Via intrinseca:La caspasi iniziatrice è la caspasi 9 e quella effettrice è la caspasi 3. La caspasi 9, pur essendo un’iniziatrice, non si attiva per prossimità è attivata da un complesso composto da CARD, APAF1 e CARD+PROTEASI 9. Questa “piattaforma”, normalmente inattiva, è attivata dal citocromo C e dalla dATP (oppure semplice ATP ma in concentrazioni maggiori).I mitocondri, oltre al citocromo C, rilasciano anche altri composti come la proteina SMAC che inattiva IAP e rende disponibili sia la procaspasi 3 che la 9. Un altro fattore importante è il fatto che i mitocondri, attraverso la produzione di ATP, influenzano il pattern della morte cellulare: difatti se c’è abbastanza ATP la cellula va in apoptosi ma se non ce n’è abbastanza per attivare la piattaforma per la conversione della caspasi 9 allora la cellula va in necrosi perché i mitocondri danneggiati non forniscono più energia alla cellula.Un meccanismo di controllo della via intrinseca è costituito dalle proteine Bax e Bcl-2. La proteina Bcl-2 (B cell linfoma 2) è una proteina in grado di immortalizzare le cellule perché, posizionandosi sulla membrana mitocondriale

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esterna rende difficoltoso il rilascio del citocromo C. Effetto opposto ha invece la proteina Bax che favorisce il rilascio. Dal rapporto reciproco tra le due proteine dipende se la cellula potrà andare in apoptosi o meno.Collegamento tra via intrinseca ed estrinseca:Le due vie, intrinseca ed estrinseca, comunicano attraverso la proteina BID, anch’essa appartenente alla famiglia di Bcl-2.BID è un substrato della caspasi 8: BID, clivata dalla caspasi 8 si trasforma in t-BID che trasloca nella membrana esterna dei mitocondri e favorisce il rilascio del citocromo C. Ci sono dei tessuti in cui non è possibile attivare la caspasi 3 se non viene coinvolta la via intrinseca attraverso la proteina BID.Attivazione della via mitocondriale:1. VIA DI BID: la caspasi 8 cliva BID. tBID va nei mitocondri e nella membrana esterna si formano tetrameri di BID

e BAX. Ciò provoca la formazione di fori sufficientemente grandi per il passaggio del citocromo C. Tuttavia i fori potrebbero non essere sufficientemente grandi da permettere il passaggio di SMAC e quindi la sola via di Bid potrebbe non essere sufficiente a determinare l’apoptosi (difatti la ciclosporina non blocca la via di BID ma tuttavia previene l’apoptosi. Vedi oltre).

2. VIA DELLA PERMEABILIZZAZIONE DELLA MEMBRANA ESTERNA o TRANSIZIONE DI PERMEABILITA’ DI QUELLA INTERNA.Il citocromo C è l’unico componente della catena respiratoria solubile: la membrana esterna ha il compito di contenerlo dentro il mitocondrio. La membrana interna invece è come un piccolo condensatore perché riesce a separare le cariche positive da quelle negative.Quando la catena respiratoria non funziona l’ATP sintetasi agisce al contrario: idrolizza ATP e pompa protoni contro gradiente. Se la respirazione si arresta in presenza di ATP (proveniente dalla glicolisi) la ATPasi mitocondriale idrolizza l'ATP e pompa i protoni dalla matrice allo spazio intermembrana. Se la permeabilità della membrana interna rimane bassa, si ristabilisce una differenza di potenziale elettrochimico protonico. In queste condizioni basta l'idrolisi di poco ATP per mantenere la differenza di potenziale elettrochimico protonico necessaria al funzionamento mitocondriale. Se la permeabilità di membrana invece aumenta (per esempio per l'apertura del poro di transizione della permeabilità o PTP) il mitocondrio non riesce a mantenere la differenza di potenziale elettrochimico protonico nonostante l'idrolisi di ATP, che diventa massimale. In questo senso l'apertura del poro precipita la crisi energetica perchè fa consumare più ATP. L'evento è rilevante per l'apoptosi perché se la cellula è carente di ATP esso viene utilizzato dalla ATP sintetasi e non ce n’è abbastanza per attivare l’apopotosoma: ciò fa abortire la risposta apoptotica e devia la morte cellulare verso la necrosi.La natura molecolare del poro non è nota anche se ci sono molte ipotesi e qualcuno ha proposto che la ATP sintetasi abbia un ruolo. Diverse sostanze determinano l’apertura del PTP: calcio, acido arachidonico… Altre sostanze, come Bax o BCL-2, influenzano la sensibilità del poro rendendone l’apertura più facile o più difficoltosa.Se la membrana interna non è più impermeabile perché si è aperto il poro il mitocondrio tende a rigonfiarsi per l’entrata di proteine diffusibili e acqua. Per gradi estremi questo rigonfiamento provoca la rottura della membrana esterna e la fuoriuscita del cit C e di SMAC. Il poro stesso può inoltre essere importante per il rilascio di proteine apoptogeniche dallo spazio intermembrana.

Il fenomeno di rigonfiamento è prevenuto dalla ciclosporina A che desensibilizza i pori della transizione della . . . . permeabilità (PTP)L’apoptosi non è di esclusiva competenza delle caspasi ma altri enzimi possono essere attivati e provocare questo processo: calpaine, proteasi attivate dal calcio, catepsine…Alcuni bersagli delle caspasi effettrici sono: PARP (poli adipil ribosio polimerasi): un enzima importante per la riparazione del DNA; Lamina: è una proteina di membrana nucleare. Il suo taglio rende più accessibile il nucleo alle endonucleasi; Flippasi; Endonucleasi: vengono attivate dal clivaggio e la loro azione si esplica sul DNA, in particolare nelle sequenze tra i

nucleosomi.

Mitocondri come bersaglio terapeutico delle epatiti tossinfettive:L’epatite è un’affezione del fegato che può essere virale, tossica o autoimmune. In particolare l’epatite fulminante è una forma abbastanza rara per la quale però non esiste terapia.Nel topo la somministrazione di LPS non induce normalmente epatite fulminante. Difatti la risposta infiammatoria all’LPS stimola la liberazione da parte dei macrofagi di TNFα. Questa citochina attiva la via dell’ NFKβ che stimola la trascrizione di geni che favoriscono la sopravvivenza della cellula. Però se per qualche motivo questa via è preclusa allora il TNFα può indurre l’apoptosi legandosi a recettori di morte.In pratica il TNFα può essere interpretato come un segnale apoptotico oppure anti-apoptotico. Dal fatto che prevalga la risposta epatoprotettrice o quella epatotossica dipende se l’epatocita rimarrà sano o meno.Nella cavia si può sensibilizzare il fegato agli effetti tossici del TNFα iniettando D-Galattosammina. Il galattosio è metabolizzato dal fegato e il primo passo della via è: UTP + Galattosio = UDP + Galattosio-P. Se c’è molto galattosio tutto l’UTP della cellula viene utilizzato nel metabolismo di questo composto e la sintesi dell’RNA, solo negli epatociti, è bloccata. L’effetto epatoprotettore del TNFα è perciò precluso.Se si fa una sezione istologica di un fegato dopo somministrazione di galattosammina e di LPS si osserva che non tutte le cellule muoiono per apoptosi: alcune muoiono per necrosi e si osservano anche infiltrati infiammatori.

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La coesistenza di apoptosi e necrosi nell'epatite fulminante sperimentale (ovviamente in cellule diverse) può essere legata a molti fattori, in particolare ai livelli di ATP. Ad esempio gli epatociti perivenulari hanno una tensione di ossigeno più bassa di quelli periportali e vanno incontro più facilmente ad ipossia. Se nelle cellule del fegato non esistesse un collegamento diretto tra caspasi 8 e caspasi 3 ma la via estrinseca si realizzasse mediante la via di BID e si bloccasse il PTP in teoria il danno apoptotico dovrebbe essere prevenuto.La ciclosporina, un inibitore del PTP, potrebbe prevenire entrambe le vie di apoptosi nel caso il poro fosse determinante in entrambi i casi.In effetti il quadro istologico dopo trattamento con ciclosporina è di molto migliore.Il metodo “Tunnel Staning” evidenzia in sezioni istologiche le cellule nei cui nuclei vi è attività delle endonucleasi. Negli animali trattati con ciclosporina non ve n’è nemmeno uno.Vi è però anche il problema della necrosi. Negli animali trattati con ciclosporina dopo al massimo 3 ore dalla somministrazione di LPS-galattosammina si registra un picco di ALT/AST (segno di necrosi) dopo 8 ore dalla somministrazione di ciclosporina, cioè quando svanisce l’effetto del farmaco. Di conseguenza il farmaco è in grado di bloccare anche la necrosi.Si è inoltre dimostrato che negli epatociti la via estrinseca per funzionare coinvolge la via intrinseca perché le caspasi 8 sono attivate anche in presenza di ciclosporina ma non le caspasi 3 (non vi è perciò collegamento diretto).L’esperimento produce gli stessi effetti anche se la necrosi è provocata con la somministrazione di Lfas, un composto che ha il vantaggio di non attivare la flogosi ed i macrofagi. Considerazione:a) Alcuni pazienti possono essere sensibili alle epatiti fulminanti: ad es. se vi è un blocco trascrizionale per altri

motivi;b) Via della sfingomielinasi neutra: questo enzima attiva la ceramide che a sua volta è precursore del ganglioside GD3

e della ceramide cer 1-P. La cer 1-P attiva la fosfolipasi A2 che produce acido arachidonico. Sia GD3 che l’acido arachidonico potrebbero attivare il PTP. L’acido arachidonico inoltre, con meccanismo a feedback positivo, stimola una maggiore produzione di GD3.Nel fegato c’è un’ulteriore via della sfingomielinasi acida che a sua volta attiva il PTP.

L’inattesa patogenesi mitocondriale di una malattia della matrice extracellulare: la carenza di collagene VIIl collagene VI, codificato da tre geni distinti (COL6A1; COL6A2; COL6A3), è una proteina che arricchisce la matrice pericellulare, in particolare nell’endomisio del muscolo scheletrico.Mutazioni del collagene VI sono legate a tre malattie. Il tipo e la gravità della malattia dipende dal sito di lesione genica, tuttavia non è affatto chiaro nell’uomo la corrispondenza tra genotipo e fenotipo. Le tre malattie sono:a) Miopatia di Bethem, AD: è caratterizzata dalla retrazione a livello delle articolazioni interfalangee delle ultime 4

dita accompagnata da debolezza muscolare con perdita progressiva di forza;b) Malattia di Ullrich sclerotonica, AR: è caratterizzata da retrazioni accompagnate da lassità delle articolazioni.

Questa malattia può portare a morte per insufficienza diaframmatica;c) Miosclerosi di Bradley: le retrazioni dominano il quadro della malattia e i pazienti non riescono quasi a muoversi.Istologicamente si nota mionecrosi: i nuclei residui appaiono raggruppati. Si notano inoltre fenomeni rigenerativi caratterizzati dalla presenza di nuclei in posizione centrale. Il quadro di necrosi non coinvolge solo il muscolo ma tutti i tessuti in cui il collagene VI è importante. La rigenerazione ha più o meno effetto a seconda del potenziale del tessuto. Esperimenti su cavie con mutazioni del collagene VI hanno evidenziato che isolando le fibre muscolari, 7 su 10 si contraevano in maniera regolare ma le restanti apparivano corrotte e si contrevano con forza molto minore rispetto al normale. Nelle fibre alterate i mitocondri apparivano alterati con inclusi densi. Il sarcolemma invece non aveva invece alcuna alterazione e questo è sorprendente se si considera che il collagene VI è una proteina extracellulare.Ad un’osservazione più approfondita si nota che vi è un disturbo del reticolo sarcoplasmatico e che i nuclei hanno la classica morfologia dei nuclei di cellule in apoptosi.La separazione delle cariche nei mitocondri è fondamentale per la loro struttura. Esistono dei composti lipofili e fluorescenti con carica positiva (TMRM+) che si concentrano nei mitocondri, avendo questi una carica di -180 mV, molto maggiore di quella del citoplasma che è di circa -60mV.I protonofori e i disaccoppianti disaccopiano la respirazione abbassando il potenziale elettrico. In questo caso il TMRM+ esce dai mitocondri e dalle cellule.La fibra va inoltre in contrattura per carenza energetica (simil rigor-mortis).Le fibre dei topi geneticamente modificati (KO) rispetto a quelli WT mostravano gli stessi valori di fluorescenza nei mitocondri. Tuttavia bloccando l’ATP sintetasi di un mitocondrio WT esso non si depolarizza mentre ciò succede nei mitocondri dei topi KO.Il quadro tornava normale se le fibre prevelate dai topi KO corrotte venivano piastrate sul collagene VI.Spiegazione:I muscoli dei topi malati non si contraggono con difficoltà ma faticano a rilasciarsi poiché vi è un problema energetico che preclude il riaccumulo di calcio nel reticolo sarcoplasmatico. Probabilmente una deficienza di collagene VI altera un segnale (probabilmente via integrine) provocando una disfunzione mitocondriale: aumento graduale del poro PTP, si verifica perdita di metaboliti e graduale perdita della funzione ATP sintetasica a favore di quella ATP litica. Molto ATP viene perciò consumato per mantenere intatti i potenziali di membrana. La carenza energetica preclude la possibilità al reticolo sarcoplasmatico di riaccumulare calcio.

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Come in un circolo vizioso l’aumentata concentrazione di calcio citoplasmatico aumenta il tempo di apertura del PTP, peggiorando la situazione.La ciclosporina A, rimediando la disfunzione mitocondriale, riesce a guarire i topi.

L’INFIAMMAZIONE (Pozzan)

Caratteristiche generali dell’infiammazioneL’infiammazione è la condizione patologica più comune. In realtà il fenomeno infiammatorio sta al limite tra patologia e fisiologia. Esso è una risposta stereotipata con modificazioni quantitative più che qualitative all’esposizione ad agenti esterni (biologici, fisici, chimici). Questa risposta può causare patologia ma di per sé è fisiologica.Il principio base dell’immunità acquisita è la specificità. Nel caso del fenomeno infiammatorio invece la risposta è aspecifica e uguale per ogni agente che l’ha provocata.L’infiammazione locale è descritta con questi segni e sintomi: RUBOR (rossore); TUMOR (tumefazione); CALOR (lieve aumento di temperatura locale); DOLORCi possono essere inoltre altri segni nell’infiammazione generale, come la febbre.Esistono infiammazioni acute e croniche riferendosi alla modalità di insorgenza e alla durata (anche se è ovviamente impossibile una separazione netta). Questi due tipi di infiammazioni sono abbastanza diversi anche dal punto di vista qualitativo poiché il processo cronico è dominato dalla partecipazione di cellule della classe linfocitaria e monocito-macrofagica mentre l’acuto è dominato dalla presenza di granulociti.

Comportamento dei vasi sanguigni nell’infiammazione: richiami biochimiciIl colore della pelle dipende dalla melanina e dal sangue: tanto più superficiali sono vasi e tanto meno melanina abbiamo tanto più imponente sarà il contributo del sangue al colore della pelle. In particolare il rossore indica che in quella zona la quantità di sangue è più elevata che in altre situazioni. Il flusso ematico locale aumenta perché si verifica vasodilatazione e vengono percorsi quei capillari cutanei dove in condizioni di riposo non fluisce il sangue. Ciò è dovuto al fatto che durante il processo infiammatorio si aprono gli sfinteri pre-capillari.Tra muscolo liscio e scheletrico la grande differenza è il tempo di contrazione (nello scheletrico al max 0,5-1 secondo) e i meccanismi biochimici che ne sono alla base.Nel muscolo liscio la contrazione è innescata fondamentalmente dall’enzima MLCK (chinasi della catena leggera della miosina). Ci sono poi delle fosfatasi che inducono il rilasciamento del muscolo.Nell’infiammazione l’enzima MLCK dev’essere inibito perché devono invece prevalere le fosfatasi così che gli sfinteri, che sono tonicamente ristretti, si rilasciano.Se il sistema è in equilibrio dinamico, cioè se sono attivate sia le MLCK che le fosfatasi, noi possiamo ottenere l’effetto di decontrazione sia riducendo l’attività delle chinasi che aumentando quello delle fosfatasi. Di fatto si verifica inibizione delle chinasi.Per inibire le MLCK si possono usare due meccanismi:1. attività della PKA che fosforila MLCK con effetto inibitorio;2. attività della PKG che fosforila MLCK con analogo effetto inibitorio.L’attivazione della PKA e della PKG avviene in seguito ad un aumento del cAMP o del cGMP citoplasmatico. Perché ciò avvenga devono essere attivati gli enzimi adenilato ciclasi e guanilato ciclasi. Questi enzimi, presenti nella membrana citoplasmatica, sono attivati da recettori di membrana a 7 domini transmembrana dopo legame con lo specifico ligando. L’azione dei recettori di attivare le ciclasi si esplica mediante l’ausilio delle proteine G. Il loro nome deriva dal fatto che queste proteine sono in grado di legare guanosin nucletodi: GTP quando attivate, GDP quando non attivate.Le G proteine esistono sia in forma monomerica che in forma trimerica. Le trimeriche sono costituite dalle subunità α β e γ. Quando il recettore lega il suo ligando si verifica un cambiamento conformazionale che si riflette sulla proteina G la quale espelle GDP e legando GTP si attiva. L’attivazione induce la separazione della subunità α dalle subunità βγ. Uno di questi due “pezzi” va ad agire su un bersaglio a valle.La famiglia dei recettori a 7 domini transmembrana va divisa in due gruppi:

1. il gruppo che attiva o inibisce il rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico attraverso la via che presuppone l’attivazione della fosfolipasi C (produzione di IP3 che a sua volta provoca rilascio di calcio);

2. il gruppo che attiva o inibisce le adenilato ciclasi.Di guanilato ciclasi ne esistono di due gruppi:

1. proteine di membrana, attivabili dal NAF (fattore natriuretico atriale);2. solubili e attivate dal radicale NO.

PI3K: è un enzima che sembra abbia un ruolo molto importante in molte risposte biologiche. Esso è una chinasi lipidica che ha come substrato il fosfatidilinositolo bis-P. Esso trasforma il PIP2 in PIP3

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NOTA:Meccanismi di trasduzione dei recettori accoppiati alle proteine G:

1. attraverso G proteine tetrameriche con subunità as: attivazione dell’adenilato ciclasi;2. attraverso G proteine tetrameriche con subunità ai: inibizione dell’adenilato ciclasi;3. attraverso G proteine tetrameriche con subunità aq e a11-15: attivazione della fosfolipasi C.4. attraverso le subunità β e γ delle proteine G tetrameriche vengono espletate altre funzioni:

attivazione della fosfolipasi C nei leucociti; modulazione di canali ionici; attivazione della PI3K con formazione di PIP3 sul foglietto interno della membrana. Con una serie

complessa di reazioni a cascata questo composto provoca un processo di riorganizzazione del citoscheletro che provoca una contrazione della cellula. Questo è il meccanismo biochimico attraverso il quale si realizza la contrazione endoteliale responsabile dell’aumento della permeabilità alle proterine (vedi oltre).

Comportamento dei vasi sanguigni nell’infiammazione: il meccanismo biochimico della vasodilatazione1. Attivazione di recettori da parte di agenti come l’istamina (recettori H1) accoppiati a G proteine con subunità aq

nelle cellule endoteliali. Di recettori per l’istamina ce ne sono di diversi tipi. Gli H2 sono espressi nella mucosa gastrica. Inibitori selettivi del recettore H2 sono usati nel trattamento delle gastriti o delle ulcere della mucosa gastrica e duodenale;

2. si attiva la fosfolipasi C che idrolizza il PIP2, con produzione di IP3 e DAG;3. l’IP3 induce il rilascio di calcio dal reticolo endoplasmatico;4. aumenta la concentrazione di calcio nel citoplasma;5. A) In alcune cellule:

o il calcio si lega alla calmodulina ed il complesso Ca-Calmodulina attiva la NO sintetasi di tipo costitutivo. Di NO sintetasi ne esistono varie isoforme. Quella di tipo endoteliale è simile a quella neuronale (molto importante perché si ritiene sia implicata nei meccanismi della memoria). Una terza famiglia è la NO sintetasi inducibile (ovvero la cui espressione genica, più che l’attività, è modulata) che è presente per esempio nei macrofagi;

o produzione di NO (messaggero 1);o l’NO, diffuso verso le cellule muscolari liscie sottostanti, si lega alla guanilato ciclasi NO dipendente con

produzione di cGMP;5. B) In altre cellule:

o si ha attivazione da parte del complesso Ca-Calmodulina della fosfolipasi A2 con produzione di acido arachidonico;

o sintesi a partire dall’acido arachidonico, ad opera delle cicloossigenasi, di prostacicline, di prostaglandine e di trombossani e, ad opera delle lipoossigenasi, di leucotrieni (messaggeri 2);

o i messaggeri 2, diffusi verso le cellule muscolari liscie sottostanti, si legano ad uno specifico recettore associato ad una proteina Gs con conseguente attivazione dell’adenilato ciclasi;

o l’attivazione dell’adenilato ciclasi porta alla produzione di cAMP;6. il cAMP (o il cGMP in alcuni tessuti) attiva la PKA (o PKG) che fosforila la chinasi della catena leggera della

miosina inattivandola.I due meccanismi (quello che coinvolge il messaggero 1 e quello che invece coinvolge i messaggeri 2) sono in alternativa e avvengono in cellule diverse.

Comportamento dei vasi sanguigni nell’infiammazione: l’edemaPerché non si modifichi il volume del liquido extracellulare ci dev’essere un equilibrio tra entrata ed uscita di liquido nei capillari. I parametri che regolano questo processo sono le pressioni idrostatiche e colloido-osmotiche di sangue e liquido extracellulare.La pressione idrostatica nelle arteriole si aggira intorno ai 30 mmHg mentre nelle venule essa è di circa 8/10 mmHg.La pressione osmotica è invece determinata dalle proteine del plasma che si oppongono all’uscita di plasma. La differenza di pressione colloido-osmotica tra interno ed esterno è di circa 18/20 mmHg.Nella parte arteriolare la pressione idrostatica è maggiore di 18 mmHg e perciò l’acqua tende ad uscire. Il contrario avviene nella parte venulare. Al netto vi è una piccola parte di liquido che esce in eccesso ma esso è drenato dal sistema linfatico.Nell’infiammazione acuta si verificano due eventi:1. aumento di flusso con conseguente aumento della pressione idrostatica. Questo si verifica anche in caso di un

arrossamento non infiammatorio ed in questo caso il sistema linfatico sarebbe perfettamente in grado di drenare il liquido extravasato;

2. la permeabilità alle proteine si modifica. Le giunzioni tra le cellule endoteliali si allentano lasciando passare proteine plasmatiche: così anche la differenza di pressione colloido-osmotica tra capillari ed interstizio si affievolisce

L’edema non è un evento esclusivo del processo infiammatorio ma si caratterizza per la ricchezza in proteine del liquido extravasato perché l’infiammazione varia la permeabilità dei capillari alle proteine plasmatiche.L’edema ha una funzione importante nel processo della guarigione perché: l’aumento di liquido nella zona extracellulare tende a diluire qualsiasi sostanza tossica ivi presente;

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l’aumento di permeabilità alle proteine permette ad alcune di queste, come le Ig o le proteine del complemento, di raggiungere il sito di infiammazione;

l’aumento di flusso permette che nella zona arrivi una maggiore quantità di sostanze utili per rigenerare i tessuti danneggiati;

aumento di flusso attraverso i vasi linfatici fa sì che più facilmente gli antigeni provenienti dalle zone infiammate raggiungano i linfonodi.

Si può valutare il processo infiammatorio dal tipo di proteine che extravasano: tanto maggiore è l’insulto infiammatorio tanto più marcata sarà la contrazione delle cellule endoteliali e tanto più grandi sono le proteine che raggiungono il liquido interstiziale.Oltre alla contrazione può darsi che un ruolo nell’edema possa essere ricoperto dall’aumento della transcitosi.Se l’endotelio viene danneggiato tanto che anche eritrociti possono passare nel liquido interstiziale allora si parla di infiammazione emorragica.

I leucociti e l’infiammazioneL’uscita delle cellule bianche è un processo attivo e complesso che avviene in stadi successivi e che richiede l’attivazione dell’endotelio in seguito a legame di particolari sostanze.Nel processo infiammatorio la viscosità del sangue aumenta per sottrazione di plasma. Si osserva che in questa situazione le cellule bianche, che normalmente scorrono al centro della colonna di fluido, tendono a marginare. Quello della marginazione è un processo altamente complesso e selettivo.I globuli bianchi, in particolare i granulociti neutrofili, si spostano in periferia e rotolano lentamente lungo l’epitelio. Questo rotolamento non è un fenomeno prettamente idrodinamico ma prevede l’interazione del leucocita con alcune molecole espresse sulla cellula endoteliale. Lo stadio successivo è quello dell’ “adesione ferma” durante il quale la cellula aderisce tenacemente all’endotelio e comincia a cambiare forma. Infine si passa al fenomeno della diapedesi che consiste nel passaggio attraverso la parete endoteliale: l’endotelio contratto presenta delle piccole finestrazioni che però non sono abbastanza larghe perché possa passare una cellula. Tuttavia le cellule bianche sono estremamente mobili: la membrana del leucocita comincia ad infilarsi tra due cellule endoteliali e piano piano forzano una separazione maggiore tra di esse in maniera da crearsi un passaggio abbastanza ampio. Nella membrana basale poi cerca delle fenestrature pre-esistenti attraverso le quali possa passare. Infine comincia un “viaggio” lungo anche parecchi mm per raggiungere il sito infiammato.Un endotelio normale ha pochissima tendenza a legare i leucociti perché il numero di recettori per le molecole adesive dei leucociti (e l’affinità di queste nei leucociti) è molto bassa. Questi recettori sono le P-selectine, normalmente presenti nell’endotelio in granulazioni dette “corpi di Weibel-Palade” ma espresse solo sulle membrane degli endoteli attivati.Le P-selectine sono molecole di adesione poco efficaci che permettono solo il rotolamento delle cellule. Per cui devono essere sintetizzate (questa volta ex-novo) altre molecole di adesione. Il processo di neosintesi richiede 1-2 ore.La fase di aderenza stretta dipende:1. dalla sintesi di molecole di adesione tipo ICAM e VCAM nelle cellule endoteliali attivate;2. aumento dell’avidità di legame delle integrine (es. LFA1) espresse sulla superficie dei leucociti. Questo processo è

stimolato da agenti chemotatticiI leucociti si muovono per chemotassi. Le sostanze chemotattiche possono essere di natura esogena (soprattutto batteriche), prodotte dai leucociti stessi o prodotte da altre cellule endogene. Sostanze chemotattiche di origine batterica: c’è un elemento comune a tutti i procarioti ma non agli eucarioti: la

formil-metionina, l’aminoacido portato dal tRna che riconosce il codone iniziatore degli mRna procarioti. Le proteine mature vengono modificate post-traduzionalmente ed una delle modificazioni più comuni è il taglio proteolitico del frammento N-terminale, in particolare dei primi 3-4 AA. I leucociti hanno un recettore che riconosce selettivamente piccoli peptidi contenenti formil-metionina all’N-terminale;

Sostanze chemotattiche di origine endogena: sono prodotte a partire da precursori inattivi presenti nel sangue. Di particolare importanza sono i fattori che si producono dall’attivazione del complemento. Questi fattori devono essere prodotti a partire da C3 o successivi in maniera da coinvolgere sia la via classica che quella alternativa. Infatti i componenti del complemento con maggiore efficacia chemotattica sono C3A e C5A. In particolare C5A è il più potente agente chemotattico essendo infatti attivo anche a concentrazioni di 10-12/-13 M;

Prodotti leucocitari: si tratta di un circuito amplificativo: le stesse cellule che si stanno muovendo in senso chemotattico sono stimolate a rilasciare ulteriori agenti chemotattici. In particolare, altamente potenti sono il leucotriene B4 (anche altri leucotrieni sono chemotattici ma lo sono a concentrazioni molto più alte ed in pratica non hanno significato dal punto di vista fisiologico) e il PAF (o fattore attivante le piastrine. E’ un prodotto del metabolismo fosfolipidico ed ha un’azione molo potente sulle piastrine). La produzione di LTB4 e PAF sono la conseguenza dell’attivazione di altri recettori per agenti chemotattici.

Chemochine: fino a qualche anno fa questo gruppo era considerato di secondaria importanza. Man mano che la ricerca in questo campo è andata avanti si è però scoperto che le chemochine sono un’ampia famiglia e che svolgono un ruolo importante non solo nell’infiammazione ma anche in molti altri processi (per es. nell’Homing dei linfociti). Le chemochine sono dei peptidi che vengono prodotti da molti tipi di cellule e hanno bersagli diversi. Esse sono raggruppabili in quattro famiglie che hanno in comune dei dettagli strutturali riguardanti l’organizzazione delle cisteine in esse comprese:

a. Famiglia CC: due coppie di cisteine, due cisteine adiacenti, formano due ponti disolfuro per molecola;

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b. Famiglia CXC: due coppie di cisteine, due cisteine separate da un aminoacido qualsiasi, formano due ponti disolfuri per molecola;

c. Famiglia C: due sole cisteine e un solo ponte disolfuro per molecola;d. Famiglia C3XC: due coppie di cisteine, due cisteine separate da tre aminoacidi qualsiasi, formano due

ponti disolfuro per molecola. Si conosce un solo membro di ciascuna delle due ultime famiglie.

Esiste inolte un gruppo di chemochine “costituitive” che presiede alla normale e fisiologica distribuzione dei leucociti nell’organismo; un altro gruppo delle chemochine “inducibili” coinvolte nell’infiammazione e, infine un gruppo di chemochine a cavallo tra i due precedenti gruppi coinvolte nel processo neoplastico.I recettori per le chemochine sono chiamati semplicemente CCR se il loro ligando è CC e via dicendo.Più chemochine interagiscono con uno stesso recettore: non vi è assoluta specificità anche se l’affinità di legame sarà diversa.La sensibilità di una cellula per una chemochina è variabile e dipende dai recettori espressi. Quindi una combinazione di chemochine richiamerà preferenzialmente un tipo di leucociti rispetto ad un altro. Di conseguenza la tempistica di produzione delle diverse citochine nel corso di un processo infiammatorio sarà diversa poiché prima devono interevenire i granulociti neutrofili e, solo in un secondo momento, i monociti e i linfociti.

La chemotassiI recettori per le chemochine sono dei classici recettori a 7 domini transmembrana associati a proteine G trimeriche. Le proteine G possiedono delle subunità αi e αq. Le αi, normalmente funzionanti come inibitrici della adenilato ciclasi, svolgono in questo caso attività identica a quella delle αq (attivazione della fosfolipasi C) con conseguente produzione di DAG e IP3. Quest’ultimo composto determina l’aumento della concentrazione di calcio intracellulare.Le subunità βγ attivano la PI3K con produzione di PIP3.Se delle cellule si muovono in senso preciso e orientato ci deve per forza essere un gradiente chimico dell’agente chemotattico all’esterno della cellula e un conseguente gradiente all’interno della cellula.La concentrazione del ligando nel liquido extracellulare tra un capo e l’altro di una cellula differisce solo dell’1-2% quando essa è molto distante dalla fonte mentre quando essa è vicina questa differenza è in pratica nulla.Evidentemente ci sarà una parte della cellula, quella rivolta verso la fonte, che presenterà una frazione maggiore di recettori saturati dal ligando ma la differenza è comunque davvero esigua e non si è ancora riusciti a dimostrare questa differenza di saturazione. Forse più che una questione di saturazione è un problema temporale: la parte della cellula che ha per primo presentato il legame ligando/recettore sarà quella dove si sviluppa il lamellipodio (la testa). Ma questa ipotesi non spiega come mai, spostando la fonte della chemochina, le cellule comincino a spostarsi verso la nuova sorgente cambiando il lamellipodio.Misurando la concentrazione di calcio all’interno della cellula si è verificato inaspettatamente che essa è più bassa dalla parte verso la quale la cellula si muove. Ma ancora più inaspettato è che anche senza questo gradiente di calcio le cellule si muovono lo stesso. Quindi il problema della chemotassi non è risolvibile considerando solo il calcio.Nemmeno il cAMP sembra esserne implicato, o meglio, sembra avere un ruolo inibitorio nel processo chemotattico.Allora si è presa in considerazione l’altra via che porta alla produzione di PIP3. In effetti si è scoperto che in una cellula che si sta muovendo si trova molto IP3K attivata nel lamellipodio.La produzione di PIP3 provoca il reclutamento di proteine G monomeriche le quali a loro volta possono indurre modificazioni nel citoscheletro.Quando le cellule sono arrivate in prossimità della fonte della sostanza chemotattica non viene più avvertita un’apprezzabile differenza tra la testa e la coda della cellula. Essa perciò si ferma.Come si spiega la distribuzione del calcio? L’IP3, prodotto dalla fosfolipasi C, diffonde in tutta la cellula in ms. Di conseguenza la distribuzione del calcio dipende dalla distribuzione del reticolo endoplasmatico all’interno della cellula. e nelle cellule che si muovono il reticolo è situato prevalentemente nell’uropodio (in coda). Inoltre c’è da considerare un altro fattore: l’espulsione del calcio dalla cellula. Questo processo dipende dall’attività di una pompa specifica attivata dal DAG. Esso, molto meno diffusibile, è prodotto prevalentemente nel lamellipodio. Di conseguenza questa pompa sarà molto più attiva in testa, pompando esternamente maggiori concentrazioni di calcio. La combinazioni di questi due eventi (reticolo e espulsione) è un’ipotesi plausibile per spiegare il gradiente.

Endocitosi e fagocitosiEsistono due tipi di endocitosi: endocitosi recettore-dipendente: un esempio è l’endocitosi delle LDL; costitutiva o “pinocitosi”: che siano presenti o meno sostanze in superficie, porzioni di membrana sono

continuamente endocitate.Il processo dell’endocitosi è molto attivo tanto che in alcune cellule tutta la membrana è rinnovata ogni mezz’ora.La fagocitosi è un processo altamente specializzato e assomiglia in larga misura all’endocitosi distinguendosi però da esso per una particolarità: le dimensioni delle porzioni di membrana coinvolte. Difatti una vescicola di endocitosi raggiunge al massimo le dimensioni di 1 μm mentre i fagosomi hanno dimensioni superiori a questa misura. Il processo di fagocitosi può interessare particelle così grandi da portare alla cosiddetta “fagocitosi frustrata” nella quale le cellule tentano, senza successo, di fagocitare particelle più grandi di loro.La fagocitosi riguarda in generale strutture corpuscolari come cellule, batteri, particelle estranee di grandi dimensioni mentre per i virus, le proteine e altre sostanze si parla di endocitosi.

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La fagocitosi deve essere per forza un processo finemente regolato poiché i fagociti professionali devono saper discernere non solo tra il self ed il non-self ma anche tra le cellule del nostro organismo che devono essere eliminate e quelle da salvaguardare.La fagocitosi è un processo tipico dei fagociti professionisti (macrofagi, eosinofili e neutrofili) ma essa può essere messa in atto anche da altri tipi di cellule: ad esempio se una cellula va in apoptosi spetta alle cellule vicine eliminare, fagocitandoli, i corpi apoptotici. Si tratta, comunque, di un’eccezione alla regola.Un batterio allo stato naturale è fagocitato “malvolentieri” e con pochissima efficienza.Tuttavia i batteri sono fagocitati con alta efficienza se ricoperti da “opsonine”, cioè anticorpi o fattori del complemento.Per quanto concerne le Ig i fagociti posseggono dei recettori per i Fc delle Ig. Essi però si attivano solo quando le Ig hanno legato qualcosa, e si trovano perciò raggruppate. Tuttavia perché si sviluppi una risposta anticorpale efficiente sono necessari parecchi giorni. Si sono sviluppate così delle opsonine che non richiedono memoria immunologica e che sono efficaci subito: esse sono in particolare C3b e C3bi. Queste due componenti vengono prodotte sia dalla via classica che dalla via alternativa. C3b e C3bi svolgono due funzioni diverse: C3b è una molecola che favorisce solo l’adesione della particella alla cellula fagocitica mentre il C3bi stimola specificatamente la fagocitosi. I recettori che riconoscono C3b e C3bi sono detti CR1; CR3 e CR4. CR1 in particolare riconosce C3b e non attiva di per sé la fagocitosi mentre CR3 e Cr4 legano C3bi è attivano la fagocitosi.Perché avvenga la fagocitosi è necessario che tutta la particella da fagocitare sia ricoperta da opsonine poiché recettore e opsonina devono formare un meccanismo simile ad una cerniera lampo. Così se solo una parte della particella è opsonizzata la fagocitosi si arresta.Il vacuolo intracellulare che si forma è detto fagosoma. Nel vacuolo devono avvenire altri eventi molecolari per portare alla digestione di ciò che è stato fagocitato. Essi sono fondamentalmente tre:1. sulla membrana citoplasmatica dei fagociti, e quindi anche in quella del fagosoma, è presente l’enzima NADPH

ossidasi. L’NADPH è uno dei composti implicati nelle reazioni redox, in particolare nella via dei pentoso fosfati. Nei fagociti professionali è presente un particolare tipo di catena respiratoria in cui il donatore di elettroni è l’NADPH anziché l’NADH e che porta alla produzione ad opera della NADPH ossidasi non di acqua bensì di radicale superossido (O2

-) poiché l’ossigeno viene ridotto in maniera monoelettronica e non bielettronica. Questo meccanismo avviene sulla membrana del fagosoma.I radicali dell’ossigeno sono particolarmente tossici per ogni tipo di cellula. I fagociti però possiedono l’enzima superossido dismutasi che li protegge dal radicale superossido. Inoltre i recettori che attivano la NADPH ossidasi sono gli stessi che legano le opsonine: di conseguenza la produzione di superossido avviene solo quando si forma un fagosoma. Infine il substrato riducente si trova nel citoplasma mentre il superossido è prodotto all’esterno della membrana (e quindi all’interno del fagosoma). Il sistema di controllo è tuttavia imperfetto e l’infiammazione, soprattutto se intervengono i neutrofili, provoca dei danni da radicali liberi anche al tessuto circostante.

2. sfrutta la NO sintetasi inducibile (la cui trascrizione è controllata ma che poi è costitutivamente attiva). La NO sintetasi è in grado di apportare modifiche alle proteine, in particolare nitrosilazione, con danneggiamento delle stesse. Il ruolo della NO sintetasi inducibile è tuttavia meno chiaro nel processo di uccisione dei batteri.L’NO è un gas e quindi potrebbe diffondere all’esterno del fagosoma e dannegiare i tessuti circostanti. Tuttavia esso è dotato di un campo di azione molto limitato, dell’ordine di pochi micron.

3. la distruzione completa della particella fagocitata avviene ad opera di tutta una serie di enzimi litici. I “granuli” dei granulociti sono difatti dei lisosomi specializzati che contengono tutti questi enzimi litici e le vescicole si riversano nel fagosoma formando il fagolisosoma.

Recettori per la fagocitosiCi sono alcuni recettori che agiscono senza il bisogno di opsonizzazione (efficienza da 10 a 100 volte minore):1. Mannose Receptors (simili alle lectine): riconoscono genericamente glicoproteine che hanno mannosio le quali non

sono normalmente presenti sulle cellule eucariotiche;2. Scavenger Receptorsi (simili alle lectine)Altri invece promuovono la fagocitosi di particelle opsonizzate:1. FCγRI: recettore per il frammento costante delle IgG. Questi recettori riconoscono le Ig aggregate;2. CR1: riconosce Cb3 e come detto precedentemente è un recettore di adesione più che di vera e propria fagocitosi;3. CR3 e CR4: riconoscono soprattutto Cb3I anche se CR4 è un po’ più promiscuo;4. C1q: riconosce particelle ricoperte da una proteina sierica, la MBL (lectina legante il mannosio). Le lectine sono

proteine che riconoscono alcune particolari specie di glicolipidi o glicoproteine.

I granulociti neutrofiliI neutrofili sono cellule funzionalmente differenziate a vita breve (la loro vita media in circolo è di sole 12/16 ore). Essi presentano un nucleo polilobato con cromatina molto addensata ed una sintesi proteica ridotta benché non assente (per esempio producono citochine).All’interno del citoplasma queste cellule sono ricche di granuli: delle vescicole che altro non sono che particolari lisosomi, alcuni di essi particolarmente elettrondensi ed altri più chiari. Le granulazioni più scure sono detti granuli primari mentre gli altri sono stati definiti granuli secondari o specifici. I granuli primari sono classici lisosomi, i granuli secondari invece sono tipici dei neutrofili: hanno un basso ph (4, contro 6 dei primari) e contengono proteine abbastanza

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inusuali per i lisosomi come la proteina legante la vitamina B12 che è in effetti un agente batteriostatico. E’ stata ipotizzata infine l’esistenza dei granuli terziari che però non sono distinguibili al microscopio.Una volta formatosi il fagosoma i granuli si fondono con la sua membrana. Oltre a riversare all’interno del fagosoma gli enzimi contenuti nei granuli essi arricchiscono la membrana del fagosoma stesso di componenti della particolare catena respiratoria che permette il “burst respiratorio”. Questo meccanismo fa sì che il radicale superossido venga prodotto solo dopo la formazione del fagolisosoma.La fusione dei granuli coi fagosomi (o, per errore, con la membrana citoplasmatica) non avviene sempre ma solo quando la cellula è attivata da particolari stimoli. Inoltre l’attivazione degli enzimi lisosomiali avviene nel fagosoma a causa dei valori di ph bassi: se fossero sempre attivi gli enzimi lisosomiali potrebbero digerire il lisosoma stesso.I neutrofili però non sono cellule così precise tanto che a volte i granuli si fondono con la membrana citoplasmatica provocando così il versamento di enzimi litici e la produzione di superossido all’esterno. Sembra per esempio che in caso di ischemia il danno maggiore non sia provocato dall’ischemia stessa, che porta alla necrosi solo di un nucleo centrale, ma dalla risposta infiammatoria che coinvolge i tessuti circostanti che l’ischemia provoca per tutta una serie di fattori (come per es l’attivazione del complemento da parte di fattori di necrosi). Questo danno è probabilmente dovuto all’azione dei neutrofili. Gli enzimi lisosomiali però, anche se rilasciati all’esterno, non dovrebbero provocare dei danni poiché per la loro attivazione necessitano di un ph acido. Tuttavia l’ambiente di una zona infiammata tende ad essere acido perché: È ricco di cellule e quindi il metabolismo è elevato. I neutrofili hanno in particolare un metabolismo

prevalentemente anaerobico che porta alla produzione di acido lattico. In una zona infiammata ricca di neutrofili il pH è anche di 6;

I vasi possono essere danneggiati: la pCO2 aumenta e di conseguenza il pH diminuisce.Tra macrofagi e neutrofili esistono delle differenze: I neutrofili sono disponibili alla fagocitosi in ogni momento. I macrofagi invece hanno bisogno di un periodo di

successiva maturazione tanto che prima che un monocita diventi un macrofago vero e proprio ci vogliono dalle 12 alle 24 ore. Il processo maturativo è scatenato dall’azione di citochine, la principale delle quali è l’IFNγ. Così nelle prime ore dell’infiammazione agiscono solo i granulociti mentre macrofagi e linfociti sono attivati solo in un secondo momento;

I neutrofili hanno vita breve e la loro vita si riduce ulteriormente per i danni da loro stessi prodotti. Se non riesce ad uccidere la particella fagocitata esso, quando muore, la rilascia all’esterno eventualmente ancora viva assieme agli enzimi litici. Per evitare che ciò accada i macrofagi di solito fagocitano i neutrofili. Se ciò avviene l’infiammazione si risolve senza alcun danno ai tessuti circostanti.Se però i granulociti sono molti è inevitabile che si verifichi un danno massiccio al tessuto circostante con conseguente lisi e formazione di pus (quest’ultimo è composto di liquido edematoso, neutrofili e tessuto lisato). Se la zona dell’infiammazione è vasta si forma un ascesso.

La fagocitosi (secondo Colonna)La fagocitosi è operata dai fagociti professionali, delle cellule caratterizzate dal fatto che tentano di ingoiare qualsiasi cosa incontrino ad eccezion fatta dei microrganismi o delle cellule morte per la cui fagocitosi è necessaria una preventiva opsonizzazione con Ig o frammenti del complemento.Essa è per definizione l’internalizzazione, dipendente da recettori ed operata grazie ai filamenti di actina, di grosse particelle e di microrganismi mediante la formazione di grandi vacuoli (fagosomi) di diametro > 0,5 nm. Questi fagosomi maturano successivamente in fagolisosomi che sono acidi e ricchi di enzimi idrolitici.Il meccanismo ha tre eventi critici:1. riconoscimento della particella da ingerire mediante interazione col leucocita;2. internalizzazione e formazione del vacuolo fagocitico;3. uccisione e digestione del materiale fagocitato nel fagolisosoma.Se non si riesce a chiudere la vescicola gli enzimi litici sono riversati all’esterno: si parla in questo caso di “fagocitosi frustrata”. Analogamente per errore le sostanze possono essere riversate prima che la vescicola si sia chiusa completamente.Fagocitosi ed endocitosi sono processi diversi perché: la fagocitosi implica l’estroflessione della membrana, l’endocitosi l’introflessione; l’endocitosi è operata dalla clatrina, la fagocitosi dall’actina; la fagocitosi permette di internalizzare molecole più grandi.Nei neutrofili ci sono almeno due o tre tipi di granuli.L’energia per la fagocitosi proviene dalla glicolisi anaerobia ma le cellule consumano comunque ossigeno per produrre radicali. I ROS vengono prodotti dalla NADPH ossidasi e dalla mieloperossidasi. Oltre a radicali dell’ossigeno contro i batteri vengono prodotti anche radicali dell’azoto ad opera della NO sintetasi.I componenti citoplasmatici della catena che permette il burst sono sette e si assemblano solo nel momento del bisogno. Questo sistema può essere alterato geneticamente se uno dei componenti è alterato oppure so lo è il processo di assemblaggio.La complessità di questo meccanismo è un modo per evitare che la produzione di radicali si attivi quando non è necessaria.Si noti inoltre che:

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i radicali prodotti nel fagosoma, in presenza di ferro (e un batterio in effetti ne possiede in abbondanza), scatenano la reazione di Haber-Weiss e la produzione di OH;

l’H2O2 che si forma è substrato della mieloperossidasi, contenuta nei granuli primari, che forma lo ione ipoclorito ClO- (la varechina) che ha un’azione potente come quella dei radicali dell’ossigeno. Esso agisce su gruppi amminici e proteine con formazione di cloramine tossiche per i batteri;Questo è tuttavia un meccanismo aggiuntivo, il cui deficit non provoca disturbi.

Ma come è possibile l’uccisione dei batteri in zone poco irrorate e quindi povere di ossigeno?. L’organismo riesce comunque a difendersi perché, a causa della degranulazione, si verifica una diminuzione di pH, una scarica di proteine cationiche con attività battericida, lattoferrina per sottrarre il ferro, idrolasi acide con azione digestiva e una proteina che lega e sottrae la vitamina B12.Alla fine della fagocitosi i neutrofili subiscono morte apoptotica e sono a loro volta ingeriti dai macrofagi.Dal punto di vista molecolare la fagocitosi è innescata dal legame recettore-particella opsonizzata che provoca un aumento della concentrazione di calcio citoplasmatico con attivazione della PKC e avvio del processo di degranulazione e della catena della NADPH ossidasi.Se vengono prodotti radicali, perché essi non distruggono anche il fagosoma? La risposta è che i granuli secondari contengono lattoferrina che oltre a rivestire internamente le membrane sequestra il ferro (impedendo l’Haber-Weiss).Nel fagosoma è attivata una pompa protonica che provoca l’acidificazione del fagosoma stesso e attiva gli enzimi lisosomiali. Il basso ph stesso ha un’azione batteriostatica.Nel corso di un’infiammazione si può verificare un danno tessutale perché parte dei prodotti ad azione microbicida vengono rilasciati nello spazio extracellulare. I motivi sono essenzialmente tre:1. anticipato rilascio dei prodotti prima della completa chiusura del fagolisosoma;2. fagocitosi frustrata se le membrane non riescono a fondersi;3. danni alla membrana del fagolisosoma.

PAMPs (pathogen-associated molecular patterns)Le PAMPs sono molecole prodotte esclusivamente dai batteri e ricoprono funzioni uniche ed insostituibili nelle cellule che le producono. Sono quindi marcatori inequivocabili di invasione batterica. Esse sono altamente conservate all’interno di una particolare specie microbica perché il loro ruolo è indispensabile per la sopravvivenza. Non sono PAMPs per esempio le tossine perché se anche un batterio non le produce è comunque perfettamente in grado di sopravvivere. Un esempio di PAMPs è l’LPS.Gli eucarioti hanno sviluppato recettori per i PAMPs, di solito abbreviati in PRR (pattern recognition receptors). Esse sono un componente dell’immunità innata, cioè di quella branca del sistema immunitario che reagisce in maniera rapida ed aspecifica.Le caratteristiche dei PAMPs possono così essere riassunte:1. sono prodotti solo dai procarioti e non dagli eucarioti: un esempio sono le proteine formilate;2. sono sostanzialmente identici nei microrganismi della stessa specie;3. sono essenziali per la sopravvivenza delle cellule microbiche e quindi non possono mutare;4. a differenza dei fattori di virulenza sono prodotti sia da batteri patogeni che da saprofiti. Ciò testimonia il fatto che

queste sostanze identificano una invasione batterica in generale.I sistemi specifici di riconoscimento dei PAMPs sono definiti TLRs (toll-like receptors). Sono recettori di membrana identificati per la prima volta pochi anni fa in Drosophila e caratterizzati da:1. dominio extracellulare ricco in leucine (leucine rich region: LRR);2. dominio intracellulare caratteristico detto TIR (toll-IL1 receptor) perché simile a quello presente nel recettore per

l’IL1.Nell’uomo ne esistono dieci, forse undici e legano diverse sostanze: per esempio il TLR4 lega l’LPS, un componente della membrana esterna dei Gram negativi. Il TLR2 lega l’acido lipoteicoico, sostanza presente sulla parete dei gram positivi. Il TLR3 riconosce il dsRNA, patrimonio generico di alcuni virus (quindi non solo batteri!).Questi recettori sono abbastanza promiscui poiché riconoscono molti ligandi alcuni dei quali sono prodotti del nostro organismo: si tratta forse di un sistema di difesa contro cellule alterate. Essi sono espressi su leucociti, sulle cellule endoteliali e su altre cellule coinvolte nell’infiammazione come per esempio la microglia.Un sinonimo di PAMPs è endotossina: elementi strutturali di batteri non disegnati per essere tossici ma che producono tossicità. Esistono invece degli elementi che favoriscono la proliferazione dei batteri perché danneggiano l’ospite ed i suoi sistemi di difesa: sono queste le esotossine.Di gran lunga la più importante endotossina è l’LPS. La sintomatologia da infezione da Gram– non è dovuta tanto all’LPS in quanto tale ma dalla risposta infiammatoria eccessiva che si scatena nell’ospite.L’LPS è costituito da due parti: una prima parte oligosaccaridica, estremamente variabile, è riconosciuta dagli anticorpi clone-specifici e da una seconda parte che è un core lipidico costante che viene riconosciuto dai TLRs.Essendo un componente strutturale della parete dei batteri questo composto non viene normalmente rilasciato se non in seguito a due eventi: la lisi del batterio o la sua attiva moltiplicazione (in quest’ultimo caso viene prodotto troppo LPS e la parte in eccesso è rilasciata nell’ambiente).L’LPS che dovesse venire rilasciato nel sangue, ad esempio in seguito a sepsi, è riconosciuto dalla proteina epatica LBP (LPS binding protein) ed è da essa legato con grande affinità. L’LBP a sua volta si lega ad una proteina estrinseca presente sul foglietto esterno della membrana delle cellule monocito-macrofagiche chiamata CD14 o GPI anchored proteins (essendo esse ancorate al fosfatidilinositolo).

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Se nell’ambiente sono presenti lipasi, e molti batteri sono in grado di liberarne, il complesso CD14-LBP si libera e viene riconosciuto dai TLR4 espressi sulle cellule endoteliali.TLR4 attiva una cascata di segnali in parte simili a quella promossa dall’IL1 che porta alla trascrizione di una serie di geni. Questi sono moltissimi ma i più rilevanti sono IL1; TNF; IL6; NO sintetasi inducibile e COX2.IL1 e TNF sono potenti pirogeni endogeni e nei casi di setticemia esse sono prodotte in grandi quantità: si verifica febbre altissima resistente agli antipiretici.La NO sintetasi inducibile produce in maniera massiccia e sregolata NO. COX2 è una isoforma di cicloossigenasi espressa soprattutto sui leucociti e sulle piastrine.NO sintetasi e COX2 producono una serie di vasodilatatori: NO, prostacicline e prostaglandine. Se questi elementi sono prodotti nel sangue vengono attivate le cellule endoteliali di tutto l’organismo: ciò porta allo shock settico.L’LPS provoca inoltre l’attivazione di altre vie metaboliche nei leucociti con produzione di radicali dell’ossigeno che danneggiano le cellule, tanto più se sono riversati in circolo.Ancora l’LPS sia direttamente, sia attraverso le citochine, può indurre un aumento di adesività dei leucociti alle cellule endoteliali: si verificano ulteriori danni.Non ultimo l’LPS stesso è in grado di attivare la cascata coagulativa poiché attiva il fattore XII della coagulazione. Se ciò si verifica si può avere una coagulazione intravascolare con formazione di microtrombi diffusi.Il sistema di difesa è stato “progettato” per agire in loco senza produzione di gravi danni: il problema si verifica solo se l’LPS viene rilasciato in circolo.Topi Knock-Out per il gene del TLR4 a cui vengono iniettate dosi di LPS dieci volte maggiori di quella letale sopravvivono perfettamente. Negli uomini la mortalità da sepsi da Gram– è del 50% ed è la maggior causa di morte nei reparti di terapia intensiva.

Principali mediatori dell’infiammazione acutaI mediatori dell’infiammazione possono avere due origini: possono avere origine cellulare, essere cioè prodotte da cellule “locali” direttamente implicate nel processo

infiammatorio; possono invece essere prodotte da altri tessuti, primo fra tutti il fegato, ed essere riversate nel sangue sotto forma di

precursori inattivi.Alla categoria dei mediatori di origine locale appartengono: Istamina : deriva dalla decarbossilazione dell’istidina. E’ accumulata nei granuli dei basofili o dei mastociti ed è

rilasciata da queste cellule quando sono stimolate; Serotonina (5 OH-Triptamina) : ha un ruolo molto modesto nell’infiammazione; ATP e ADP : possono funzionare da mediatori cellulari. L’ADP è per esempio un attivatore piastrinico. L’ATP è

ancora più importante. Esso può costituire un segnale di morte cellulare: quando una cellula lisa difatti libera grandi quantità di ATP. Si è scoperto inoltre che in molte vescicole secretorie ci sono carriers che trasportano ATP dentro le vescicole.I recettori per ATP e ADP sono di diversi tipi e possono mediare risposte molto diverse. Alcuni di questi recettori possono provocare la formazione di canali molto grandi che da una parte hanno significato citotossico e dall’altra possono portare alla formazione di cellule giganti originate da fusione cellulari promossa proprio da questi recettori;

Prostaglandine/Prostacicline/Trombossani : sono prodotti dal metabolismo dell’acido arachidonico grazie all’azione della fosfolipasi A2 Ca++ dipendente e poi da COX 1 o COX2. I trombossani sono potenti aggreganti piastrinici (l’aspirina previene la formazione di trombi inibendo le COX);

Leucotrieni : il leucotriene B4 è prodotto dai granulociti stessi e funziona da agente chemotattico amplificante mentre altri leucotrieni hanno altre funzioni (as esempio il D4 è coinvolto nell’asma);

PAF (fattore attivante le piastrine) : nell’infiammazione funziona come l’istamina; Chemochine : modulano il movimento orientato dei leucociti. In particolare sono importanti per l’homing dei

linfociti. Chemochine sono anche coinvolte nei processi metastatici; Citochine : modulano le risposte immunitarie. Nell’infiammazione sono coinvolte in alcuni fenomeni. Per esempio

la febbre da gram- è dovuta alla produzione di TNF, IL1 e IL6; Sostanza P : è un neuromediatore coinvolto nella trasmissione degli stimoli dolorifici.Tra i mediatori di origine plasmatica un importante ruolo è rivestito dalle chinine come la bradichinina. La bradichinina è un peptide presente nel siero come precursore inattivo: il chininogeno. Quando si attiva il fattore XII della coagulazione il fattore XIIa proteolizza l’enzima precallicreina trasformandolo in callicreina che a sua volta trasforma per proteolisi il chininogeno in bradichinina.La cascata enzimatica implicata nella coagulazione porta alla produzione di trombina, un’importante mitogeno dei fibroblasti o di plasmina, un attivatore del complemento. Riassumendo oltre alle chinine i fattori di origine plasmatica sono C3a e C5a del complemento, la fibrina e i prodotti della sua lisi (fibrinopeptidi) e la trombina.

Difetti genetici delle funzioni leucocitarieLAD1/2 (deficienza di adesione dei leucociti): AR; queste malattie sono responsabili di difetti di adesività dei leucociti nell’endotelio. Nella LAD1 è mutata la catena β delle integrine ed è una malattia grave. Nella LAD2 è invece presente

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una mutazione nella fucosil-transferasi, un enzima coinvolto nella glicosilazione del recettore leucocitario per le selectine. I difetti di adesione sono in questo caso meno gravi.SINDROME DI CHEDIAK-HIGASHI: i granulociti, ma anche le mastcellule, presentano in questa malattia solamente due o tre grandi granuli, derivati dalla fusione delle migliaia di piccoli granuli normalmente presenti in queste cellule. Essi non fondono con il fagosoma ed è quindi preclusa la formazione del fagolisosoma.MALATTIA GRANULOMATOSA CRONICA: Ne esistono due forme: La più frequente forma è legata al cromosoma X. E’ un difetto di gp21, una proteina di membrana che costituisce

un componente fondamentale della catena respiratoria che consente il burst respiratorio. La forma meno frequente è invece AR. Essa risulta dalla mutazione di p47 e p67. Queste sono proteine

citoplasmatiche che si legano alla NADPH ossidasi attivandola. Le persone affette da questa malattia vanno continuamente incontro ad infezioni poiché i granulociti non riescono ad uccidere i microrganismi fagocitati.DEFICIENZA DI MIELOPEROSSIDASI: la mieloperossidasi è l’enzima che utilizza H2O2 per produrre altri metaboliti tossici dell’ossigeno coinvolti nell’uccisione dei patogeni.

Infiammazione cronicaGenericamente un’infiammazione acuta, a differenza di quella cronica, compare in pochi minuti e si risolve nel giro di pochi giorni. Ma non è una definizione accurata. L’infiammazione acuta è stata allora chiamata “angioflogosi” mentre quella cronica “istoflogosi” poiché in quest’ultimo caso la partecipazione vascolare è minore e sono presenti infiltrati linfocitari e monocito-macrofagici piuttosto che granulocitici.Tuttavia esistono dei casi in cui non vi è corrispondenza tra aspetto istologico e aspetto temporale dell’infiammazione: una polmonite virale, un processo infiammatorio acuto, non presenta un’infiammazione con coinvolgimento vascolare ma assomiglia istologicamente ad una malattia cronica con infiltrato linfocitario e macrofagico.Per questo si preferisce ancora usare i termini, seppur vaghi, di infiammazione acuta e cronica.Una infiammazione cronica può nascere come evoluzione di un processo acuto o come Infiammazione Cronica Primaria.Ci sono alcuni agenti infiammatori che hanno sviluppato la capacità di resistere ai meccanismi di uccisione. Questa resistenza provoca lo sviluppo di un’infiammazione cronica poiché poco alla volta, non essendo i granulociti riusciti ad assolvere il proprio compito, subentrano i macrofagi (fagociti ad attivazione più lenta ma molto più potenti) ed i linfociti.Ci sono tuttavia delle infiammazioni che nascono come croniche fin dall’inizio senza che si riscontri una apprezzabile fase acuta. Ad esempio alcune forme autoimmuni ma anche la tubercolosi. Ciò dipende dalle caratteristiche molecolari e dall’intensità dello stimolo.C’è poi una serie di processi, come le infezioni virali, che hanno caratteristiche a sé stanti.Le cause di infiammazione cronica possono essere: Batteri : i batteri possono in generale indurre l’instaurarsi di una infiammazione acuta. Ma se, data la carica

batterica, la sede, le condizioni generali…, questa infiammazione non si risolve in qualche giorno si può passare ad infiammazione cronica. Ci sono poi alcune specie batteriche le quali sono incapaci di indurre una risposta infiammatoria acuta e questa assume l’aspetto di infiammazione di tipo cronico fin dall’inizio;

Virus : molti tipi di virus inducono infezioni di tipo cronico, come ad esempio il virus dell’epatite C e B; Parassiti : le parassitosi sono un altro tipo di patologia ad agente eziologico biologico che spesso causano

infiammazioni di tipo cronico; Malattie autoimmuni ; Sostanze inerti : i corpi inerti capaci di indurre infiammazione inducono praticamente sempre infiammazioni di tipo

cronico.Le infiammazioni di tipo cronico si possono distinguere in due categorie: Tipo cronico diffuso ; Tipo cronico localizzato : sono localizzate in punti precisi e costituiscono delle masse di tessuto infiammato

caratterizzato dalla presenza di linfociti e di tessuto necrotico: si parla di granuloma.Le infiammazioni localizzate possono essere distinte in base al fatto che ci sia un’importante risposta immunitaria o se questa risposta è assente. Si possono allora avere “granulomi immunologici” (es. nella tubercolosi, lebbra, sifilide, sarcoidosi…) o “granulomi non immunologici” (sostanze estranee come carbone, talco, asbesto…).L’esempio meglio conosciuto di granuloma di tipo immunologico è quello tubercolare. Esso è dovuto al fatto che il bacillo tubercolare riesce a sopravvivere all’interno del macrofago non attivato. Si forma così un piccolo granuloma soprattutto a livello dei linfonodi ilari. Spesso il granuloma calcifica.Nella stragrande maggioranza dei casi il problema si risolve con questa situazione in cui i batteri sono in un certo senso “murati vivi”. La comparsa della malattia conclamata è dovuta all’instaurarsi del soggetto di condizioni particolari come l’immunodepressione e può essere causata da una nuova infezione o dalla riattivazione del focolaio “congelato”. Ciò perché la formazione del granuloma e il contenimento della malattia richiede una risposta immunitaria efficace. Gli esecutori della risposta immunitaria contro la TBC sono i macrofagi attivati, ma se l’attivazione non è pronta il micobatterio può diffondersi.Dal punto di vista macroscopico il granuloma si distingue per il fatto di essere localizzato. A livello microscopico può assumere le più svariate forme. Si distinguono alcuni tipi di cellule peculiari. Le più caratteristiche sono delle cellule giganti, risultato di svariate fusioni, con 50-100 nuclei disposti in periferia: esse sono chiamate cellule di Langhans.

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Queste derivano dalla fusione di altre cellule: le cellule epitelioidi, che non sono altro che macrofagi attivati giustapposti.In periferia si osservano linfociti T e, ancora più esternamente, la proliferazione dei fibroblasti forma una sorta di capsula. Nella zona centrale non sono presenti cellule: si parla di necrosi caseosa. La necrosi caseosa è una necrosi coagulativa, senza una componente vascolare intensa.Le cellule di Langhans sono quasi esclusivamente tipiche della TBC.Il granuloma luetico, dovuto alla sifilide, ha caratteristiche diverse: per esempio tende ad essere localizzato intorno a piccoli vasi arteriolari. A differenza del granuloma tubercolare c’è una componente di linfociti B piuttosto vistosa tanto che tra i linfociti è molto frequente osservare delle plasmacellule. In aggiunta a ciò la necrosi è diversa e peculiare.

Sintomi di tipo generale che accompagnano i fenomeni infiammatoriFebbre: è la dimostrazione che in qualche modo l’omeostasi termica dell’organismo è stata alterata. La differenza tra la febbre e un’ipertermia fisiologica (es. nell’esercizio fisico) è che in quest’ultimo caso l’organismo mette in moto tutta una serie di meccanismi per disperdere il calore. Nel caso del fenomeno febbrile invece questi meccanismi non sono messi in atto: anzi, il pallore tipico della febbre, è legato al fatto che si ha una vasocostrizione cutanea proprio per evitare una termodispersione.I recettori termici della cute sono caratterizzati dalla presenza di canali ionici la cui attività è strettamente dipendente dalla temperatura. Anche neuroni del centro termoregolatore ipotalamico hanno dei meccanismi per misurare la temperatura dei capillari che li perfondono. Essi sono sensibili a variazioni dell’ordine dei decimi di grado. Ci sono sia neuroni sensibili al caldo che neuroni sensibili al freddo.Il centro termoregolatore ha poi connessioni con molte altre zone del cervello: la modificazione della frequenza di scarica dei termoregolatori non influisce solo sul sistema para/ortosimpatico ma anche sulla corteccia motoria per innescare il brivido (contrazione involontaria della muscolatura volontaria col fine di produrre calore).Nell’infiammazione sono prodotti pirogeni endogeni, i quali sono in grado di ritarare il punto di lavoro del centro termoregolatore. Non si sa bene come questo precesso avvenga: in parte ciò è sicuramente dovuto al fatto che si verifica una produzione locale, da parte probabilmente delle cellule endoteliali poste in vicinanza dei centri termoregolatori in risposta ai pirogeni, di prodotti del metabolismo dell’acido arachidonico via ciclossigenasi (ciò giustifica l’azione antipiretica dell’aspirina). La produzione deve necessariamente essere locale perché le prostaglandine prodotte in periferia sono immediatamente inattivate e non potrebbero raggiungere i centri ipotalamici. Come poi i metaboliti dell’acido arachidonico riescano a modificare la frequenza di scarica dei neuroni ipotalamici rimane da stabilire.Nella defervescenza l’ipotalamo torna ad essere tarato sui 37 °C e, in seguito alla messa in atto dei meccanismi di termodispersione, la febbre cala.Le connessioni del centro termoregolatore sono così complesse che la febbre modifica anche atteggiamenti comportamentali.Dopo 100 anni di terapia antipiretica si è visto che combattere la febbre non porta alcuno svantaggio all’organismo nel combattere le infezioni. Probabilmente la febbre è stata conservata nella filogenesi perché essa esalta molte funzioni, come la fagocitosi.Leucocitosi: l’infiammazione porta ad una leucocitosi che costituisce il maggiore tra gli effetti metabolici ed endocrini.A seconda del tipo di leucocitosi si può indirizzare la diagnosi: una neutrofilia porta a propendere per un’infezione acuta di tipo batterico, una linfocitosi per una forma virale o un’infiammazione cronica, una eosinofilia per una parassitosi o una forma allergica.La prima diagnosi differenziale da fare, quando si parla di linfocitosi, è capire se si tratta di una linfocitosi infiammatoria o leucemica anche se non tutte le leucemie si accompagnano a leucocitosi perché alcune forme sono caratterizzate da una crescita a livello midollare. Ciò causa linfocitopenia dal momento che le cellule staminali sane sono distrutte da quelle neoplastiche.La differenza è che in una leucemia aumenta solo ed esclusivamente una categoria di cellule mentre, di solito, in una forma infiammatoria la linfocitosi si accompagna tipicamente a monocitosi. Inoltre la presenza di elementi immaturi nel sangue è un indice di patologia neoplastica.La semplice infiammazione non giustifica la leucocitosi: casomai dovrebbe verificarsi il contrario. Tuttavia dal sito infiammatorio vengono prodotte citochine (CSF: colony stimulating factor) che giungono nel midollo osseo e favoriscono da una parte il rilascio di leucociti nel sangue e dall’altra la produzione di cellule mature.L’intensità della leucocitosi è correlata all’intensità dello stimolo infiammatorio: tanto più ampio è il fenomeno infiammatorio tanto maggiore è la produzione di citochine. Alcune citochine non agiscono solo sul midollo osseo ma anche a livello delle stazioni linfatiche periferiche.Queste citochine sono l’IL1, l’IL2 (classica IL che induce proliferazione e maturazione dei linfociti T), IL5, IL7, IL3 (è un fattore di crescita aspecifico), GSF (fattore di crescita dei granulociti) e MSF (fattore di crescita dei monociti).Queste ultime tre citochine sono usati come coadiuvanti nella chemoterapia per ovviare alla leucopenia che si verifica nei soggetti trattati dal momento che i precursori delle cellule bianche sono molto sensibili a qualsiasi fattore antimitotico, ivi comprese le radiazioni.Altri effetti generali:

Produzione di proteine di fase acuta come la proteina C-reattiva e le serum amiloidi A e P. Queste proteine sono prodotte dal fegato in risposta a citochine come l’IL-1. Le proteine di fase acuta possono portare a conseguenze molto gravi (amiloidosi);

Aumento della produzione di glicocorticoidi;

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Aumento delle γ-globuline se il fenomeno infiammatorio comporta l’attivazione dei linfociti.

LE AMILOIDOSI Con l’allungamento dell’aspettativa di vita le patologie degenerative ed in particolare la forma di amiloidosi che si ha a carico del SNC (morbo di Alzheimer) sono diventate una grave malattia sociale.L’amiloidosi può essere la conseguenza di un’infiammazione cronica ed è dovuta alla deposizione di materiale amorfo di natura proteica in sede extracellulare. L’organo prevalentemente colpito dipende dal tipo di amiloidosi.Il termine amiloidosi deriva da amido perché i patologi della II metà dell’800 notarono che c’erano delle condizioni morbose in cui si notava una sostanza in sede extracellulare con proprietà simili a quelle dell’amido (metacramasia).Trattando il tessuto con un particolare tipo di colorante, il rosso Congo, si colora questa sostanza in maniera selettiva. Il colorante può essere iniettato in un paziente e si può poi misurarne la clearance: se ci sono depositi amiloidi una parte di questo indicatore viene sequestrato e la clearance diminuisce.Su base clinica le amiloidosi possono essere distinte in primarie o secondarie a seconda che la malattia sia senza cause apparenti o se, viceversa, accompagni altre patologie.Questi depositi possono provocare danni funzionali.Per quando riguarda la natura dell’amiloide, i depositi sono da un punto di vista della loro componente molecolare così formati: Circa il 90% è costituito da una componente proteica specifica che tende a depositarsi in forma di fibrille. Questa

componente varia a seconda del tipo di amiloidosi ed è la responsabile delle proprietà tintoriali; Circa il 10% è costituito da una componente costante P (serum amyloid P component, SAP): è una proteina sierica

appartenente al gruppo delle pentrassine. Si lega alle fibrille in tutte le forme di amiloidosi, ad eccezione dell’Alzheimer;

Una piccola quantità è costituita da glicosaminoglicani.Per molti anni si è classificato le amiloidosi come malattie primarie. Poi ci si è resi conto che il fenomeno è complesso e si è cominciato a classificare le amiloidosi in base al tipo di proteina specifica che si deposita.Le principali amiloidosi sono:1. AL: è legata a proliferazione monoclonale dei linfociti B. Colpisce in stragrande maggioranza pazienti affetti da

mieloma multiplo. E’ causata da un’iperproduzione di catene leggere, soprattutto di tipo λ, rispetto a quelle pesanti. Ciò da una parte provoca proteinuria e dall’altra porta alla creazione di depositi amiloidi;

2. AA: sono conseguenza di malattie croniche. Si depositano proteine dette SAA, appartenenti alle proteine di fase acuta;

3. compare in pazienti dializzati ed è dovuta al fatto che un componente dell’HMC, la β2 microglobulina, tende a depositarsi;

4. di tipo genetico legata a mutazioni puntiformi della prealbumina, porta ad una certa facilità di aggregazione e di deposito nei tessuti;

5. forme endocrine: particolarmente nota è l’amiloidosi che si accompagna al diabete di tipo II dove si ritrovano depositi amiloidi all’interno delle isole pancreatiche. Questi depositi dipendono dalla secrezione da parte del pancreas di un piccolo peptide, l’amilina, co-secreto con l’insulina. Si è scoperto che l’amilina è una proteina che in vitro ha effetti anti-insulinici: si è perciò pensato che il diabete di tipo II potesse essere dovuto ad un’iperproduzione di amilina. Oggi l’ipotesi è tramontata e il ruolo biologico di questo peptide resta ancora da definire;

6. MALATTIA DI ALZHEIMER: si tratta di una malattia di lunga durata che compare all’inizio con dei sintomi molto vari (disturbi dell’umore, perdita di memoria, disorientamento temporale e spaziale) e perciò per la diagnosi sono necessari almeno 1/2 anni dall’insorgenza.Con l’aggravarsi della malattia si notano segni caratteristici:

- amnesia anterograda;- disturbi del comportamento;- col progredire della malattia si arriva alla demenza completa.

Tra un cervello di un paziente normale e quello di uno affetto le differenze sono notevoli: vi è una forte atrofia corticale con ingrandimento dei ventricoli conseguentemente alla perdita di parenchima (neuroni colinergici).Alla PET si vede chiaramente che un cervello di un paziente Alzheimer è più piccolo e l’utilizzazione del glucosio è fortemente ridotta.In diverse zone cerebrali vi è la deposizione di materiale amorfo con una particolare struttura: un core centrale che sembra essere l’amiloide circondato da filamenti a raggio risultato della degenerazione degli assoni e dei dendriti dei neuroni circostanti.I depositi sono dovuti ad un piccolo peptide di 42 AA, detto β42, il quale è contenuto normalmente su una proteina di superficie dei neuroni (APP: amyloid precursor protein). La proteina è tagliata da un gruppo di proteasi e solo questo prodotto è responsabile della malattia.Può succedere che la proteina APP normale vada incontro a proteolisi selettiva da parte delle α,β, e γ secretasi. A seconda della via di taglio può o meno instaurarsi la malattia: se la proteina è tagliata dalle α secretasi non si verifica malattia, ma se essa è tagliata prima dalle β e poi dalle γ si verifica malattia.Circa il 5% dei pazienti affetti da Alzheimer hanno una predisposizione familiare: evidentemente ci sono delle alterazioni genetiche dell’APP oppure nei geni modulatori della funzione secretasica.

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Le forme familiari sono caratterizzate da una precoce età di insorgenza (prima dei 65 anni) e da un’ereditarietà autosomica dominante.Nel resto dei casi si parla di Alzheimer sporadico e non si è in grado di capire la patogenesi.

STRESS OSSIDATIVO, MALATTIE E INVECCHIAMENTO (Colonna)

Lo stress ossidativoL’ossigeno è caratterizzato da un paradosso: è essenziale per la nostra vita ma è anche un elemento tossico se è ad alte dosi. La fisiologia e la patologia non è relativa all’O2, che di per sé è un elemento inerte, ma alla sue forme reattive (ROS). I sistemi biologici, difatti, hanno imparato a rendere reattivo un elemento come l’ossigeno che di natura non lo è.I ROS possono essere i radicali oppure altri elementi come l’acqua ossigenata che sono reattivi pur non essendo radicali. Oltre ai ROS esistono anche le specie reattive dell’azoto (RNS) come l’ossido nitrico che è un’importante molecola segnale.La vita aerobia è caratterizzata da una situazione persistente di attacchi ossidativi. Lo stress ossidativo è dovuto a tutte le manifestazioni conseguenti all’esposizione ad un eccesso di ossidanti. Ciò si verifica in seguito a sbilanciamento tra i sistemi che producono ROS e quelli che li eliminano. Lo sbilanciamento si può realizzare o per iperproduzione di ROS o per deficit dei sistemi di detossificazione. Un esempio tipico di quest’ultimo caso è la carenza di vitamina E.Le conseguenze dello stress ossidativo sono: Patologie neurodegenerative (Alzheimer e Parkinson); Patologie cardiovascolari; Diabete; Tumori.La patologia associata allo stress ossidativo è dovuta a danni al Dna a cui si aggiungono i danni alle proteine e ai lipidi.In topi da laboratorio lo stress ossidativo conseguente ad irradiazione ha comportato un invecchiamento precoce. Gli stessi effetti ha prodotto una dieta priva di vitamina E.I ROS si producono in misura di circa il 4% dell’O2 consumato dai mitocondri. In virtù del sito di sintesi dei ROS il loro bersaglio prediletto è il mtDNA, meno il DNA nucleare. Il mtDNA viene riparato ma comunque col tempo esso si usura ed i mitocondri diventano meno efficienti: questo è uno dei meccanismi dell’invecchiamento.I sistemi viventi non hanno tuttavia inventato dei sistemi per eliminare totalmente i ROS perché essi sono comunque importanti come segnali o in altri processi. Di conseguenza vi dev’essere un’omeostasi tra produzione e eliminazione. Una quantità troppo bassa di ROS provoca un deficit nella risposta proliferativa e nei meccanismi di difesa (burst respiratorio). Un eccesso di ROS al contrario non provoca solo danni da stress ossidativo ma è anche causa di un’alterazione delle vie di segnale: ad esempio essi possono essere interpretati come segnali di apoptosi perché agiscono su fattori trascrizionali, come p53, che sono in grado di stimolare l’apoptosi.Quindi i ROS non producono solo danni ma sono anche essenziali in alcune funzioni importanti, come quella battericida. Anche in questo caso però c’è un aspetto positivo ed uno negativo: infiammazioni prolungate con grande produzione di ROS espongono al rischio dello stress ossidativo.La superossido dismutasi ci difende dall’anione superossido. Questo enzima è stato trovato in tutti gli organismi viventi: ciò sta a testimoniare che in tutte le cellule sono presenti radicali dell’ossigeno.In generale, oltre ai mitocondri, le principali sorgenti di radicali sono tutti quei siti in cui avvengono reazioni redox. Questo è dovuto al fatto che, essendo l’ossigeno ubiquitario (in particolare nelle membrane è solubile 6 volte più che nell’acqua), dove ci sono transizioni di elettroni liberi essi possono essere captati dall’ossigeno. Ogni volta che si produce anione superossido si crea anche acqua ossigenata che è molto tossica.Le sorgenti principali di radicali sono i mitocondri, il REL dove avvengono i processi di detossificazione, nei leucociti per il burst respiratorio e negli eritrociti per i processi redox a carico dell’emoglobina.I siti in cui gli attacchi ossidativi sono più pesanti sono le membrane, i mitocondri, il nucleo e le varie proteine.

Meccanismi di difesa anti-ossidantiI livelli di difesa sono essenzialmente tre:1. Inibizione della produzione di ROS;2. Cattura e neutralizzazione del radicale, che non si può agevolmente distruggere come se si trattasse di una proteina;3. Riparazione dei danni procurati dai ROS mediante riparazione del Dna e sostituzione di molecole danneggiate.I meccanismi di difesa sono costituiti da tre “barriere”:1. Barriera enzimatica: è la più importante perché gli enzimi non sono “monouso”. Il primo evento, dopo la

formazione di superossido, è la sua conversione in ossigeno ed acqua ossigenata ad opera della superossido dismutasi. E’ questo un enzima inducibile in caso la produzione di anione superossido sia massiccia. Esso ha inoltre un’altissima stabilità, funziona in una ampia finestra di ph (4,5 – 9,5), si trova a tutti i livelli nella cellula e in tutti i tipi di cellule.L’acqua ossigenata è comunque un ossidante. Allora subentra l’enzima catalasi che trasforma l’acqua ossigenata in acqua e ossigeno. Questo enzima si trova nei perossisomi, nei mitocondri degli epatociti e nel citoplasma degli eritrociti;

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2. Barriera vitaminica: le vitamine A, C, E ma anche l’acido urico e il glutatione sono tutti riducenti e quindi neutralizzano i radicali. La vitamina E, essendo idrofobica, protegge dai danni ossidativi in particolare a carico della membrana. Queste sono particolarmente pericolose perché una reazione ossidativa a carico di un fosfolipide si diffonde a catena su tutta la membrana. La vitamina E, intercalandosi tra i fosfolipidi, assume su di sé gli elettroni ed interrompe la catena di reazioni. Anche il colesterolo è un agente che protegge dall’ossidazione lipidica.I carotenoidi sono importanti antiossidanti e sono gli unici agenti che proteggono dai processi di foto-ossidazione;

3. Barriera dei chelanti del ferro e del rame: Reazione di Fenton: H2O + Fe2+ (Cu+) = Fe3+ (Cu2+) + OH- + OH*

Il radicale idrossile è il più reattivo tra i ROS ed è pericolosissimo perché contro di esso non abbiamo difese. Un sovraccarico di ferro e rame produce danni gravissimi tanto più che il ferro e il rame ossidati poi si riducono di nuovo: la reazione completa, o reazione di Haber Weiss, vede il rame ed il ferro funzionare da catalizzatori:H2O2 + O2

- --- (Cu/Fe) ---) OH* + OH- + O2

I processi ossidativi avvengono sia all’interno della cellula sia nel sangue. In esso i più importanti meccanismi di difesa sono le vitamine A, C, E ma, soprattutto, i chelanti del ferro e del rame.

Patologia associata al ferro e al rameTutte le cellule di tutti i tessuti necessitano di ferro e di rame per i citocromi, per la citocromo ossidasi e per la superossido dismutasi nonché per l’eme dell’emoglobina.Così come avviene per l’ossigeno anche in questo caso si crea un paradosso perché essi se si trovano allo stato libero sono altamente tossici perché catalizzano la reazione di Haber Weiss. Questi ioni possono arrivare ad essere presenti liberi nel sangue quando vi è un sovraccarico e quindi una saturazione dei sistemi chelanti.In particolare associate a queste condizioni ci sono due patologie gravissime: l’emocromatosi (eccesso di Fe) e la malattia di Wilson (eccesso di Cu).I sistemi chelanti sono rappresentati dalla transferrina, dalla ferritina (ogni molecola di ferritina può contenere 4000 molecole di ossido di ferro), aptoglobulina, emopexina e albumina.La transferrina ha due funzioni fondamentali: trasporta il ferro e lo lega impedendogli di catalizzare la reazione di Haber Weiss. Questa molecola nel sangue è saturata mediamente per solo un terzo in modo da poter ovviare ad un eccesso di ferro. La transferrina ha inoltre azione batteriostatica perché non rende disponibile il ferro che serve ai procarioti per crescere.Infine la transferrina opera il trasporto del ferro nelle cellule: La transferrina con il ferro legato è legata a sua volta dalla apotransferrina; Il complesso apotransferrina + transferrina è legato da un recettore cellulare e trasportato nei lisosomi; L’acidificazione dei lisosomi provoca il distacco della transferrina dal complesso apotransferrina + recettore; Il complesso apotransferrina + recettore torna sulla membrana e, a pH neutro, l’apotransferrina senza transferrina

legata si dissocia; Il ferro che è entrato nell’organismo va ad alimentare i depositi cellulari affidati alla ferritina, una proteina che

viene digerita quando vi sono richieste di ferro da parte della cellula per la sintesi di eme oppure perché deve essere immesso in circolo.

Su 5 g di ferro presente nell’organismo solo 1mg/l di esso si trova allo stato libero.Sia ferritina che transferrina hanno altissima velocità di sintesi così se il sovraccarico è grande i depositi aumentano.Queste due proteine tuttavia non sono sufficienti: ci sono altre proteine che legano il ferro come l’emosiderina e la lattoferrina.Un altro problema legato all’eme è quello che si libera in seguito a lisi dei globuli rossi: il ferro legato all’eme è infatti ancora in grado di catalizzare la reazione di Haber Weiss. In particolare questa reazione danneggerebbe il rene.Provvedono allora aptoglobina ed emopexina che legano emoglobina ed eme. Appena è avvenuto il legame la loro emivita scende di tantissimo poiché vengono portate al fegato ed eliminate.La ceruloplasmina ossida il ferro ed il rame (altro modo per impedire la reazione di Haber Weiss) e svolge il principale ruolo antiossidante nel sangue.Patologia:Il ferro presenta un problema: non viene mai escreto e tutto ciò che è assorbito si accumula nell’organismo. Il ferro è assunto a livello intestinale e lì avviene il controllo dell’assunzione.Per il rame invece la situazione è opposta: esso può entrare tranquillamente nell’organismo ma non può uscire liberamente.L’emocromatosi ereditaria è dovuta ad un’alterazione genetica che provoca un eccessivo assorbimento intestinale di ferro (circa 4 volte le dosi normali). A 40 anni una persona malata ha 20 g di ferro depositati nell’organismo, contro 1 g delle persone normali.Esiste anche una condizione che si chiama sovraccarico secondario di ferro che si verifica per esempio a causa delle trasfusioni in seguito alle emazie lisate.La malattia di Wilson è invece dovuta ad un difetto nella secrezione biliare di rame. Provoca danni gravi al fegato e al cervello (epatiti acute o fulminanti ed anemie emolitiche). Danni da agenti chimici esogeniLe sostanze chimiche esogene sono assorbite per ingestione, inalazione o contatto cutaneo.

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Tali sostanze sono spesso metabolizzate, attraverso percorsi multipli, con il risultato spesso di detossificare la sostanza in maniera che possa essere eliminata ma a volte di rendere una sostanza di per sé innocua una sostanza tossica.Ciò avviene soprattutto nel fegato, che è la sede principale di trasformazione enzimatica delle sostanze esogene. Questi processi avvengono ad opera di enzimi microsomiali presenti nel REL per ossidazione, riduzione, coniugazione…Come detto le conseguenze di questi processi possono essere: Inattivazione della sostanze esogena; Modificazione dell’attività; Attivazione metabolica: sostanze inerti sono trasformate in agenti reattivi.Un processo importante di attivazione metabolica è una reazione redox che porta alla trasformazione di una sostanza inerte in un radicale, mediante l’intervento di un coenzima che può essere: Un agente citostatico antitumorale (in questo caso la sostanza “radicalizzata” è l’ossigeno). Le sostanze citostatiche

anticancro hanno la caratteristica di intercalarsi tra le basi e di produrre in quella posizione radicale superossido. In sostanza si tratta di una terapia basata sui ROS. Tuttavia ci sono delle cellule che reagiscono ai danni da ROS, invece che con l’apoptosi, proliferando ancora di più ed altre che possiedono una pompa che espelle attivamente il farmaco;

Il citocromo B, nella catena che permette il burst respiratorio (ancora la sostanza “radicalizzata” è l’ossigeno); Il citocromo P450, coinvolto nei processi epatici di trasformazione metabolica delle sostanze esogene (in questo caso

la sostanza “radicalizzata” è un composto chimico esogeno). Il citocromo P450 costituisce una famiglia numerosa dal momento che ogni essere vivente possiede geni che codificano per un gruppo di citocromi. Il citocromo P450 è una proteina inducibile la cui sintesi può essere stimolata da diversi tipi di composti (es. etanolo). La variabilità individuale nella presenza e nel sottotipo del citocromo P450 determina, per esempio, la sensibilità individuale ai farmaci: un farmaco trasformato può essere eliminato, e quindi a parità di dose una persona può avere effetti inferiori; allo stesso modo un farmaco può essere trasformato in una sostanza che provoca effetti collaterali cui una persona può essere più sensibile che altre. Analogamente un procancerogeno può essere trasformato in cancerogeno e produrre effetti tossici: ciò dipende dalla variabilità individuale nei processi di trasformazione metabolica.

Detossificazione mediata dal citocromo P450:Il processo di detossificazione mediato dal citocromo P450 si svolge attraverso la seguente reazione:

NADPH + O2 + RH ---(cat: NADPH cit P450 reduttasi + cit P450) ---) NADP+ + H2O + ROHIn pratica è stato aggiunto alla sostanza R un gruppo idrossile, rendendola più solubile. Il ciclo continua finché tutta la sostanza non è resa solubile ed eliminata attraverso le urine. Se è questo il risultato del ciclo (e non è, per esempio, un radicale) la sostanze è correttamente eliminata dall’organismo.Questo sistema è detto MEOS (sistema microsomiale di ossidazione dell’etanolo) Tossicità del CCl4

Nei topi la somministrazione di tetracloruro di carbonio produce nella prima ora dopo la somministrazione statosi (accumulo abnorme di trigliceridi nelle cellule parenchimali, in particolare negli epatociti) mentre dopo 5/6 ore compaiono fibrosi, cirrosi e tumori epatici.Il CCl4, che di per sé è un solvente assolutamente inerte, produce disorganizzazione strutturale e funzionale delle membrane del reticolo endoplasmatico degli epatociti con conseguente blocco della produzione di proteine.Il fegato è l’epicentro del metabolismo lipidico: i lipidi trasportati dal sangue (come chilomicroni o acidi grassi liberi) sono captati dal fegato, trasformati e rilasciati sotto forma di VLDL. Ma se la sintesi proteica è alterata non si può produrre la componente proteica delle lipoproteine e i lipidi rimangono negli epatociti.La tossicità del tetracloruro di carbonio è dovuta al fatto che il processo di detossificazione mediata dal citocromo P 450,

invece di produrre una sostanza solubile ed eliminabile, produce radicale tricloro metile. Questo radicale è in grado di indurre perossidazione lipidica e quindi di creare danni alla membrana del reticolo.AlcoolL’assunzione cronica di alcool è causa di statosi epatica, epatite acuta e cirrosi. Analogamente anche i farmaci possono produrre epatopatie.I danni epatici da assunzione di alcool derivano principalmente dal suo metabolismo. L’etanolo assunto viene trasformato in acetaldeide e poi in acetato. Questa reazione può seguire due vie: o richiedere l’attivazione del MEOS oppure avvenire attraverso l’enzima alcool deidrogenasi (ADH).Nei soggetti non etilisti un assunzione normale di alcool è metabolizzata per il 90% dalla via dell’alcool deidrogenasi e solo per il 10% dal MEOS. Se invece il carico di etanolo è pesante l’alcool deidrogenasi non riesce a farvi completamente fronte e il 25 % dell’alcool ingerito è metabolizzato via MEOS.Addirittura negli etilisti, in cui l’alcool ha indotto una imponente produzione dei citocromo P450, anche in caso di assunzione moderata di alcolici il 50% dell’etanolo è metabolizzato via MEOS.In particolare l’etanolo induce la sintesi di isoforme del citocromo P molto più efficienti di quelle normalmente espresse: ecco perché anche se l’ADH è disponibile una buona parte dell’etanolo non segue quella via.Ciclo normale:Etanolo + NAD+ ---(ADH)---) Acetaldeide + NADH Acetaldeide + NAD+ ----(acetaldeide ossidasi) ---) acetato + NADH Se invece è coinvolto il MEOS:Etanolo + NADP+ + O2 ----(meos)---) Acetaldeide + O2

- + H2O2

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Acetaldeide + O2 + AcOx ---) Acetato + O2- + XaOx

La presenza di radicale può comportare ossidazione lipidica. Si lisano perciò epatociti e si libera ferro dai depositi epatici. La presenza di ferro e di radicali innesca la reazione Haber-Weiss che accentua il danno epatico.Inoltre, gli acidi grassi liberi che si accumulano nel fegato alterano le membrane provocando anch’essi necrosi degli epatociti.FarmaciUn farmaco come il paracetamolo può essere metabolizzato dal MEOS con la produzione di un metabolita tossico. Normalmente ciò provoca solo lievi danni ma se il MEOS è fortemente attivo perché è stato indotto da un altro composto, come l’alcool ,allora i danni possono essere più seri.Normalmente questo metabolita tossico è neutralizzato dal glutatione ma negli alcolisti, che normalmente sono anche malnutriti, esso è scarso. Il binomio alcool e paracetamolo è frequente perché spesso dopo una bevuta compare il mal di testa.Un’altra considerazione da fare è che in un non-etilista, siccome il citocromo P450 è molto più affine per l’alcool che per le altre sostanze, se si assume alcool insieme a farmaci essi sono detossificati con più difficoltà e la dose circolante è superiore di quella che si avrebbe in un individuo normale.Al contrario un etilista ha una maggiore disponibilità di MEOS che comunque è in grado di far fronte sia all’alcool che ai farmaci: addirittura la clearance del farmaco è aumentata e sono necessarie dosi maggiori.Dopo il cessato abuso cronico di etanolo l’alcool ritorna ad essere in gran parte metabolizzato dalla via dell’alcool deidrogenasi ma l’aumentata clearance dei farmaci persiste per vari anni.

DANNI DA RADIAZIONI

Cause fisiche di malattiaTutte le cause fisiche di malattia hanno una base comune: c’è un trasferimento di energia dell’ambiente dall’ambiente all’organismo (radiazioni) o viceversa (ipotermia).Due parametri fondamentali sono l’intensità e la durata di questo processo.Per quanto riguarda le radiazioni esse sono un fattore patogeno perché sono diffuse a livello ambientale. La patogenesi si attua mediante cessione dell’energia da esse posseduta al materiale biologico. Tale energia viene ceduta in modo non uniforme. Gli effetti delle radiazioni sono di tre tipi: termico, eccitante e ionizzante.Le radiazioni infrarosse producono solo effetti termici, le UV producono solo effetti termici e eccitanti mentre le radiazioni ionizzanti producono tutti e tre gli effetti.

Radiazioni ionizzantiUna radiazione è ionizzante se è in grado di liberare gli elettroni dagli atomi. Di per sé la ionizzazione non produce effetti patologici ma causa tuttavia danni con effetto: Diretto: se causa alterazioni biologiche a livello della molecola colpita. Gli effetti sono probabilistici e generali

(quindi non ci sarà un sito più colpito di un altro); Indiretto: produce radicali a scapito dell’acqua. Questo è l’effetto che causa la maggior parte dei danni da

radiazioni dato il grande contenuto di acqua nelle cellule.Quando una radiazione colpisce un materiale biologico gli eventi chimico-fisici avvengono in tempi rapidissimi ma gli effetti biologici possono presentarsi anche dopo molto tempo. In particolare: Danni biomolecolari: si manifestano dopo ms-ore; Effetti biologici precoci (morte cellulare, morte dell’individuo): ore-settimane; Effetti biologici tardivi (induzione di neoplasie, effetti genetici): anni-secoli.In quest’ultimo caso non si parla solo di effetti sul singolo, ma di effetti sulla popolazione.La radiosensibilità cellulare in generale è: Direttamente proporzionale alla capacità riproduttiva, espressa come indice mitotico; Inversamente proporzionale al grado di differenziamento cellulare.Si definisce bersaglio critico in una cellula l’area in cui la produzione di agenti ionizzazioni comporta il danneggiamento di strutture molecolari fondamentali per la vita della cellula. Il sito più critico in una cellula è probabilmente il DNA nucleare.I danni prodotti da radiazioni α e β sono massicci ma limitati nello spazio essendo il LET alto. Invece i raggi γ hanno un LET più basso ma penetranza maggiore: provocano danni di intensità inferiore ma diffusi nello spazio.Per unificare gli effetti delle radiazioni si è introdotto un parametro di confronto che tiene conto sia del tipo di radiazioni che l’energia da esse trasportata: l’efficacia biologica relativa. Essa è definita come il rapporto tra il LET della radiazione in esame ed il LET dei raggi x a 250kEv.In effetti un LET uguale a 1 indica la dose di una certa radiazione necessaria per produrre lo stesso effetto biologico di una dose di raggi X a 250kEv.

Danni alle cellule delle radiazioni ionizzantiSul Dna le radiazioni ionizzanti producono i seguenti effetti: Formazione di dimeri di timina: sono spesso causa di comparsa di tumori;

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Rottura a singola o a doppia catena: le singole rotture sono molto comuni e facilmente riparabili. Le rotture doppie, correlate nel tempo e nello spazio, non sono riparabili perché si verificano immediatamente processi di riaggregazione che comportano aberrazioni cromosomiche (formazione di anelli + frammenti acentrici; frammenti dicentrici + frammenti acentrici; traslocazione).

Rottura di legami a idrogeno; Alterazione degli zuccheri.Si noti che l’azione diretta rappresenta solo 1/3 dei meccanismi di danno totali mentre il resto è rappresentato dai meccanismi indiretti. Gli effetti acuti delle radiazioni ionizzanti dipendono dalla dose:> 10 Gy: necrosi1-2 Gy: uccisione delle cellule proliferanti< 0,5 Gy: nessun effetto istopatologico. Tuttavia si producono danni a livello subcellulare ed il DNA è il bersaglio primario. Cellule geneticamente danneggiate possono evolvere in cellule neoplastiche.A causa del fatto che la radiosensibilità è diversa da tessuto a tessuto gli effetti dell’irradiazione dell’organismo in toto sono caratterizzati da un quadro complesso. Particolarmente sensibili sono le cellule dell’epitelio intestinale e quelle del sistema immunitario.La radiosensibilità delle cellule si misura con le curve di sopravvivenza cellulare. Per morte cellulare in radiologia si intende la perdita della capacità riproduttiva, anche se la respirazione cellulare e la sintesi proteica possono protrarsi per ore.Le radiazioni ionizzanti obbediscono a leggi probabilistiche: la percentuale di cellule uccise non aumenta linearmente con la dose ma con andamento logaritmico (all’inizio piccole dose uccidono molte cellule, dal momento che la densità dei bersagli è grande; diminuendo poi la densità ci vogliono dosi più grandi. Ciò ha un’importante implicazione in radioterapia: non si riesce ad uccidere tutte le cellule).Le cellule in fase M sono le più radiosensibili, meno in G1, in G2 ed in fase S. Questo perché una cellula in fase M ha il massimo volume cellulare ed il Dna esposto.Fattori che influiscono sulle curve di sopravvivenza di un determinato tipo di cellule sono il LET; il momento del ciclo cellulare, l’ossigeno, i tioli come il glutatione (composti antiossidanti), la velocità di somministrazione della dose ed il frazionamento della dose.Per quanto riguarda l’ossigeno, le cellule più ossigenate sono più radiosensibili di quelle ipossiche (come lo sono quelle al centro di un tumore). Questo perché l’ossigeno è implicato nell’effetto indiretto da radiazioni.Per quanto riguarda invece il frazionamento della dose, se una stessa dose è somministrata a frazioni intervallate da ½ giorni, gli effetti sono minori perché nel frattempo esse possono riparare i danni. Questo effetto è particolarmente marcato nei tessuti ad alto indice mitotico, meno in quelli a basso indice mitotico.

Risposta cellulare all’irradiamentoLa cellula risponde alle radiazioni bloccando il ciclo cellulare in fase G 1 per azione della p53 (se però p53 stesso è stato danneggiato o è geneticamente alterato questo non è possibile). Questo avviene affinché l’energia sia dirottata dal ciclo cellulare ai processi riparativi.La cellula quindi ripara le lesioni ma il processo non è esente da errori con conseguenti mutazioni. Se i danni non vengono riparati entrano in azione i meccanismi di morte apoptotica. Un p53 alterato comporta l’incapacità della cellula di morire per apoptosi in caso di danni estesi: in questo caso o la cellula muore per necrosi oppure diventa iperproliferativa.

Danni da radiazioni ionizzanti a livello tessutaleIl danno in un tessuto irradiato compare dopo un tempo che dipende dalla cinetica cellulare di quel tessuto. Per esempio nelle cripte intestinali (tessuto a rapida crescita) la desquamazione e la perdita dell’epitelio si verifica entro la prima settimana dall’irradiazione. Le conseguenze non si limitano solo ai processi digestivi ma si verifica anche setticemia.Nel sangue crollano subito i linfociti, seguiti dai granulociti entro pochi giorni e dalle piastrine nel giro di una settimana. Gli eritrociti invece hanno una sopravvivenza maggiore.Poiché un certo organo del corpo umano ha differenti linee cellulari la cui sensibilità può differire notevolmente le alterazioni si possono manifestare dopo solo pochi giorni (intestino) oppure dopo mesi (fegato, polmoni e cuore).

FotopatologiaLe radiazioni UV sono le radiazioni eccitanti più pericolose: esse si dividono, in base alla frequenza, in UVA (abbronzanti), UVB (cancerogene) e UVC (filtrate dall’ozono).Esistono sostanze chimiche (fotosensibilizzanti), come certi coloranti o le tetracicline, che assorbendo la luce si eccitano e possono causare modificazioni chimiche nelle strutture biologiche vicine.In particolare se i fotoni hanno energia sufficiente inducono la trasformazione dei fotosensibilizzanti in sostanze eccitate che possono trasferire la loro energia all’ossigeno e trasformarlo in ossigeno di singoletto, un radicale. In tal senso anche i danni fotochimici sono causati dai ROS.

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Le porfirie sono malattie causate da un’alterazione genetica che porta alla formazione di porfirine che non si trasformano in eme ma che, assorbendo radiazioni luminose, possono portare alla formazione di ROS.I danni più frequenti causati dai raggi UV sono le perossidazioni lipidiche, ossidazione di aminoacidi, ossidazione della guanina e formazione di dimeri di timina (predispongono ai melanomi).Il carotene ha la caratteristica di contrastare l’effetto dei fotosensibilizzanti riaccoppiando l’ossigeno.

PATOLOGIA GENETICA (Rossetto)

Malattie genetiche:Sono malattie in cui l’apparato genetico è totalmente o parzialmente (nel caso delle malattie multifattoriali) coinvolto nell’insorgenza della malattia. Le malattie genetiche possono essere catalogate come: Malattie monogeniche o mendeliane. Esse sono le più diffuse. Ci sono alcune malattie monogeniche, quelle dovute

ad espansione di triplette, la cui trasmissione discosta leggermente dalla legge di Mendel; Malattie citogenetiche: sono dovute ad alterazione grossolana del patrimonio genetico;

Malattie poligeniche multifattoriali: oltre alle mutazioni a carico dei geni anche i fattori ambientali sono implicati nella patogenesi. Tra le malattie genetiche si possono includere le malattie come il tumore o le malattie cardiovascolari, anche se i fattori ambientali giocano un ruolo importante;

Malattie genetiche mitocondriali.Malattie monogeniche: sono le più numerose tra le malattie genetiche tanto che ne sono state catalogate circa 5000. Seguono delle modalità di trasmissione che le portano ad essere catalogate come AD, AR, dominanti legate all’X oppure recessive legate all’X. Poche sono le malattie legate all’Y.Le malattie genetiche dominanti legate all’X sono molto rare, un esempio è il rachitismo resistente alla vitamina D. Molto più diffuse sono invece le malattie recessive legate all’X. Esse colpiscono quasi esclusivamente soggetti maschi, anche se una certa percentuale di femmine possono ammalarsi per il fenomeno della Lyonizzazione. In quest’ultimo caso la femmina sarà caratterizzata dalla presenza di mosaicismo: alcune cellule manifestano il fenotipo alterato e, se esse sono in percentuale rilevante, si può assistere alla manifestazione clinica della malattia.Le mutazioni implicate nelle malattie monogeniche sono dette submicroscopiche e possono comportare: Delezione parziale o completa del gene; Mutazione puntiforme con sostituzione di una singola base; Mutazione frameshift con inserzione di una o due basi e conseguente slittamento del codice di lettura.La mutazione può essere sia a carico della regione codificante (mutazione senso: sostituzione di un aminoacido con un altro; mutazione nonsenso: codone di stop) oppure a carico di regioni non codificanti.Le mutazioni che riguardano le regioni non codificanti influenzano la trascrizione o la maturazione del trascritto. Se esse riguardano il promotore o l’enhancer si può avere riduzione o blocco della trascrizione, se invece riguardano gli introni possono essere alterati i siti di splicing con maturazione anormale dell’mRNA.Malattie citogenetiche: si distinguono le anomalie strutturali, in cui si ha alterazione della struttura dei cromosomi (traslocazioni, delezioni e inserzioni), e le anomalie numeriche, che riguardano il numero dei cromosomi (aneuploidia). Per quanto riguarda le alterazioni strutturali, una persona portatrice di una traslocazione bilanciata può essere fenotipicamente normale. I problemi si pongono se queste aberrazioni coinvolgono cellule germinali perché in questo caso l’embrione che da esse si genera può essere parzialmente trisomico e/o parzialmente unisomico.All’interno delle traslocazioni un gruppo particolare è rappresentato dalle traslocazioni pericentriche o robertsoniane. Esse avvengono solitamente a carico di cromosomi acrocentrici e comportanto la rottura a livello dei centromeri e la formazione di un cromosoma con due braccia lunghe ed un piccolo cromosoma con due braccia corte che di solito viene perso. In questo caso, quindi, non si può parlare di traslocazione bilanciata.La delezione può essere singola, con perdita di un pezzo terminale di un cromosoma, oppure interna se si verificano due rotture successive. Nella maggior parte dei casi il pezzo deleto per rottura interna è perso, altre volte è risaldato in maniera invertita: si parla di inversione.Un caso particolare di delezione porta alla formazione di un cromosoma ad anello: ciò succede se vengono perse entrambe le estremità di un cromosoma e successivamente vi è un risaldamento reciproco dei due “monconi” con formazione di un anello.Per quanto riguarda le anomalie numeriche, le più importanti sono le trisomie e la più frequente è la sindrome di Down. Più rare, ma ancora compatibili con la vita fetale, sono le trisomie 13 e 18. Esistono anche alterazioni numeriche dei cromosomi sessuali. Le altre anomalie numeriche, compresa la trisomia dell’intero cariotipo, non sono compatibili con la vita e si verifica aborto spontaneo.Le anomalie numeriche derivano normalmente da una non disgiunzione durante le divisioni meiotiche nel corso della gametogenesi.La maggior parte delle aberrazioni cromosomiche non arrivano a manifestarsi perché sono incompatibili con la vita. Almeno il 50% degli aborti spontanei che avvengono nei primi mesi dello sviluppo embrionale sono dovuti ad alterazioni citogenetiche.

Anomalie numeriche di importanza clinicaTrisomia 21: sindrome di Down (colpisce circa 1/700 nati vivi). Essa è la causa più frequente di ritardo mentale.

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Nella maggior parte dei casi (95% circa) questi soggetti hanno 47 cromosomi e la trisomia deriva da una non disgiunzione durante l’oogenesi. La frequenza degli eventi di non disgiunzione aumenta moltissimo con l’età materna.Nel 4% dei soggetti invece la malattia deriva da una traslocazione che può essere ereditata da ambedue i genitori.Nel rimanente 1% dei casi si è visto che i soggetti presentano un mosaicismo: una mutazione dovuta ad una non disgiunzione mitotica a carico di una cellula nei primi stadi di vita embrionale determina la presenza di alcune cellule normali e di altre con 47 cromosomi.Le manifestazioni cliniche sono evidenti fin dalla nascita perché vi sono dei segni particolari. Tra i vari problemi che queste persone hanno, esse soffrono di cardiopatie congenite che ne determinano una drastica riduzione delle aspettative di vita, anche se la maggior parte supera almeno i 30 anni.Tuttavia le persone che arrivano a 40 anni manifestano spesso malattie neurodegenerative simili al morbo di Alzheimer. Le altre trisomie autosomiche o non sono compatibili con la vita oppure determinano la morte del bambino nelle prime fasi della vita.Per quanto riguarda le anomalie numeriche dei cromosomi sessuali si tratta sempre di non disgiunzione meiotica.Sindrome di Klinefelter, XXY: anche in questo caso la non disgiunzione si verifica durante l’oogenesi. E’ considerata la causa più frequente di ipogonadismo maschile, cioè di sviluppo insufficiente delle gonadi maschili.Come le altre sindromi legate ad aneuploidia dei cromosomi sessuali, la sindrome di Klinefelter diventa evidente solo durante la pubertà con lo sviluppo sessuale (ginecomastia, testicoli e pene più piccoli della norma, voce sottile ed acuta…).I soggetti possono presentare ritardo mentale ma ciò avviene comunque raramente.Sindrome di Turner XO: il soggetto è fenotipicamente femmina ma è sterile, con genitali infantili, amenorrea primaria e caratteri corporei particolari: capezzoli molto distanti, statura bassa, orecchie prominenti…Si associano spesso anormalità congenite a carico dei reni e dell’aorta (in particolare restringimento dell’arco aortico).

Malattie da espansione di triplette nucleotidicheQueste malattie riguardano l’amplificazione di DNA genico a causa della ripetizione di 3 basi. Recentemente è stata scoperta una malattia che mostra una ripetizione di 12 basi, ma si tratta dell’unico caso conosciuto.In totale le malattie causate da questo genotipo sono una ventina e sono tutte caratterizzate da un fenotipo neurodegenerativo. Gli esempi più comuni sono: Distrofia miotonica; Sindrome dell’X fragile; Atrofia muscolare spinobulbare; Malattia di Huntington.Ognuno di noi possiede, a livello delle porzioni geniche implicate nelle malattie sopraelencate, un numero di triplette ripetute fisiologicamente. Esiste un range di normalità: nel caso del gene dell’X fragile questo range è di 6-55. Se il numero di triplette è più alto (55-200 sempre nel gene dell’X fragile) vi è una situazione di “pre-mutazione” in cui il soggetto è definito “portatore sano” mentre infine, con più di 200 ripetizioni, si manifesta la malattia.Sindrome dell’X fragileE’ stata la prima sindrome, nel 1991, ad essere riconosciuta come malattia da espansione di triplette. Ha una frequenza piuttosto alta: 1/1250 è colpito e, dopo la sindrome di Down, è la seconda causa di ritardo mentale di origine genetica.La sindrome dell’X fragile è sempre associata a ritardo mentale e, assieme ad esso, vi sono altre caratteristiche fenotipiche che vengono identificate fin dalla nascita (orecchie grandi, mandibola pronunciata, lassità articolare e macroorchidismo).Le malattie da espansione di triplette sono caratterizzate da una modalità di trasmissione piuttosto peculiare: si verifica per esempio il fenomeno dell’anticipazione, che comporta che con il passare delle generazioni la gravità della malattia aumenta e l’insorgenza è sempre più precoce.Ciò è dovuto al fatto che queste triplette si amplificano durante la gametogenesi: nella sindrome dell’X fragile durante l’oogenesi, ma nella malattia di Huntington durante la spermatogenesi.Quindi una mamma premutata (portatrice sana) nel gene dell’X fragile genererà molto probabilmente figli maschi malati e femmine che possono essere malate o meno a seconda dello lyonizzazione ma, comunque, in forma lieve.A livello molecolare, a causa dell’espansione di triplette poste al 5’ del gene, si verifica una metilazione inappropriata che si estende fino alla zona promotoriale. La conseguenza è il silenziamento della trasmissione del gene, che in questo caso si chiama FMR-1.La proteina FMR-1 è ubiquitaria ma è particolarmente espressa nel SNC e nei testicoli. La funzione della proteina non è del tutto chiara. Ultimamente si è scoperto che essa presenta omologia di sequenza con proteine leganti l’RNA. In effetti essa lega specificatamente il 4% degli mRNA delle cellule neuronali. Probabilmente essa ha funzione di regolazione della traduzione di alcuni geni.

Distrofia miotonicaE’ la più comune distrofia ad insorgenza in età adulta. I meccanismi patogenetici sono molto diversi rispetto alla distrofia di Duchenne, che invece è la più comune distrofia infantile. La distrofia miotonica è difatti dovuta ad amplificazione di triplette del gene per la miotonina chinasi, situato nel cromosoma XIX. Questa malattia è a trasmissione dominante.

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Il quadro clinico è caratterizzato da debolezza muscolare e da miotonia, cioè dalla difficoltà di rilasciare determinati muscoli dopo averli contratti. Ma oltre ai segni a carico dell’apparato muscolare, la malattia colpisce anche l’apparato scheletrico, l’apparato cardiovascolare e gli occhi (caratteristica è la cataratta). Si associano molto spesso deficit dell’apprendimento.Anche nel caso di questa malattia è presente il fenomeno dell’anticipazione e, analogamente a quanto accade per la sindrome dell’X fragile, l’insorgenza della malattia è dovuta ad amplificazione durante l’oogenesi.Il gene coinvolto è il DM-1, che codifica per la miotonina chinasi, espressa in particolar modo nel cervello, nel cuore ed a livello muscolare.Le triplette che vengono amplificate si trovano questa volta al 3’ e la loro espansione causa un’alterata emivita dell’mRNA: nel muscolo la proteina è poco espressa mentre nel cervello è sovraespressa.Atrofia muscolare spinobulbareDegenerazione dei motoneuroni con associato ritardo mentale e insensibilità agli androgeni. La mutazione è localizzata all’interno del gene che codifica per il recettore degli androgeni nel cromosoma X. L’amplificazione porta alla trascrizione di un prodotto genico alterato perché contiene uno stretch di poli-glutammato.Malattia di HuntingtonE’ una malattia autosomica. Il gene interessato è localizzato nel cromosoma 4. La trasmissione è di tipo dominante e l’età di insorgenza è normalmente superiore ai trent’anni, tuttavia a causa del fenomeno dell’anticipazione essa può comparire anche più precocemente. L’amplificazione avviene nel corso della spermatogenesi.I soggetti affetti manifestano ad un certo punto della loro vita movimenti involontari degli arti superiori ed inferiori che provocano un tipo di deambulazione che ricorda una danza: da ciò deriva il nome Korea. Essi manifestano inoltre deficit di memoria ed alri disturbi comuni alle malattie neurodegenerative.La mutazione implicata nella patogenesi della malattia di Huntington è a carico del gene IT15 ed essa porta alla neurodegenerazione dello striato, in particolare del nucleo caudato e del putamen. La proteina anomala sembra difatti avere proprietà tossiche (vi è un acquisto di funzione che giustifica la trasmissione di tipo dominante).Sembra che fisiologicamente IT15 sia un neuroprotettore, proteggendo il neurone dalla morte per apoptosi. Il contrario fa la proteina mutata che trasloca nel nucleo, vi si deposita e determina l’apoptosi dei neuroni.

Disordini genetici dell’emoglobinaSono malattie molto rilevanti e frequenti nell’uomo. Molto di ciò che conosciamo sulla correlazione tra genotipo e fenotipo nelle malattie genetiche è dovuto proprio allo studio dei disordini genetici dell’emoglobina, essendo essi svariati e peculiari.I geni per le catene α si trovano nel cromosoma 16 mentre i geni per le catene ε, γ, δ e β si trovano nel cromosoma 11.Esistono diversi tipi di emoglobina espressi nelle diversi fasi dello sviluppo: emoglobine embrionali, ζ2ε2 e α2ε2; emolgobina fetale α2γ2; emoglobina adulta maggiore α2β2 e minore α2δ2 (circa 3% del totale). In un soggetto adulto residua circa un 1% di emoglobina fetale.Esistono diverse centinaia di difetti genetici a carico dell’emoglobina. Questi disordini portano ad una produzione di emoglobina anomala con alterazione di funzione e conseguente anemia.Riconosciamo: Anomalie strutturali dell’emoglobina (emoglobinopatie), spesso dovute a mutazioni di senso; Difetti di sintesi di una o più catene dell’emoglobina (talassemie): sono spesso dovute a mutazioni non senso,

splicing o frameshift.Le emoglobine mutate più frequenti sono:

- HbS (falco) : responsabile dell’anemia falciforme;- HbC: responsabile di una lieve anemia emolitica frequente in Africa occidentale;- HbE: sintesi inefficiente di globina β, è frequente in Asia;- HbM: non lega l’ossigeno perché l’eme è fissato nella forma ferrica, ridotta, e non si trasforma nella forma

ossidata.- Hb chesapeake: è un emoglobina con elevata affinità per l’ossigeno.

Alcune rare mutazioni possono alterare la stabilità dell’emoglobina modificandone la struttura terziaria, quaternaria oppure alterando il sito di legame.

Anemia falciformeÈ una malattia autosomica recessiva: l’8% dei neri americani è eterozigote (portatori del tratto falcemico) e 1/700 neri americani sono affetti.Nei paesi dove la malaria è endemica fino al 30 % dei neri è eterozigote perché questa condizione conferisce resistenza al plasmodio (polimorfismo bilanciato).Il difetto a livello genico è dovuto ad una sostituzione, per mutazione puntiforme, di un residuo di acido glutammico con una valina. Ciò provoca alterazione delle proprietà chimico-fisiche dell’emoglobina. Difatti l’aminoacido idrofobico valina si mette al posto dell’aminoacido idrofilo acido glutammico. La valina, quando l’emoglobina è deossigenata, è esposta in superficie e crea una zona adesiva idrofobica che interagisce con una tasca idrofobica presente normalmente nelle catene di emoglobina deossigenata. Il legame comporta una polimerizzazione delle catene di emoglobina le quali a loro volta si uniscono a formare delle fibre, genericamente composte ciascuna di 14 catene.

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La deposizione di queste fibre cambia la struttura degli eritrociti che da disco biconcavo diventano a forma di falce. In condizione di pO2 = 0 il globulo rosso è a forma di falce ma quando la saturazione cresce il globulo rosso riassume gradualmente la sua forma normale.Dopo un certo numero di cicli, però, si verificano alterazioni a livello della membrana dell’eritrocita il quale non torna più alla sua struttura originaria e si presenta sempre a forma di falce. Ciò comporta:

- Emolisi a livello splenico, a causa della fagocitosi;- Occlusione di piccoli vasi con eventi ischemici e macro e micro infarti. A livello renale l’occlusione può

avvenire anche quando il globulo rosso non ha la forma a falce perché le emazie con HbS hanno maggiori capacità adesive.

La sintomatologia clinica riflette il meccanismo di polimerizzazione e la velocità di polimerizzazione.I parametri che la influenzano sono: Bassa tensione di O2; Quantità di HbS:

o Negli eterozigoti la quantità di HbS è circa il 40%. Sono individui normalmente asintomatici a meno che non vengano esposti ad ipossia spinta;

o La presenza di HbF previene la polimerizzazione di HbS: difatti nel neonato la malattia non si manifesta fino al 5°-6° mese di vita. Per la terapia si utilizza un chemioterapico che induce la trascrizione per il gene HbF.

Doppi eterozigoti HbS/HbC presentano una malattia più grave rispetto agli eterozigoti Hbs/HbA; Concentrazione cellulare di emoglobina:

o Omozigoti in cui coesiste α-talassemia hanno una forma più lieve;o L’ambiente ipertonico della midollare del rene favorisce la disidratazione e facilita la falcizzazione.

L’ostruzione dei capillari diminuisce la PO2 e quindi aumenta ulteriormente la falcizzazione e peggiora il quadro.

La diminuzione del pH riduce l’affinità per l’ossigeno e quindi aumenta il grado di falcizzazione.Definizione di anemia emolitica: E’ una condizione caratterizzata da un’emivita media del globulo rosso inferiore al normale. In questo caso si verifica emolisi a livello dei capillari splenici ed un’aumentata eritrofagocitosi a carico dei fagociti dei cordoni splenici.Quadro clinico dell’anemia falciforme:o Anemia emolitica cronica;o Complicazioni vasoocclusive a carico del microcircolo della milza, dei reni, del fegato…o Iperbilirubinemia dovuta al catabolismo dell’eme;o Maggior suscettibilità alle infezioni, in particolari a quelle causate da pneumococchi e da emophilus (meningite);o Epatosplenomegalia: causata da una parte dal fatto che questi sono organi afferenti al sistema reticoloendoteliale e,

dall’altra, al fatto che in queste condizioni ci può essere eritropoiesi extramidollare. Dalla splenomegalia si passa ad una splenoatrofia per danneggiamento dell’organo a seguito delle occlusioni vasali.

Diagnosi:Striscio di sangue ed elettroforesi: il numero di globuli rossi a falce può essere enfatizzato trattando il campione di sangue con sostanze che favoriscono la polimerizzazione abbasando il pH (es metilsolfito).Prognosi:Il 90% degli affetti raggiunge i 20 anni, il 50% di essi supera i 50 anni.

TalassemieTalassemia α: α+: ridotta sintesi delle catena α dell’emoglobina; α0: assente sintesi della catena α dell’emoglobina;Talassemia β: β +: ridotta sintesi delle catena β dell’emoglobina; β 0: assente sintesi della catena β dell’emoglobina;

Su scala mondiale le talassemie sono le più frequenti malattie geneticamente determinate, frequente nei paesi mediterranei nonché in altri paesi tra cui quelli in cui la malaria è endemica. La malattia porta sia ad un basso livello di emogobina ma anche ad un relativo eccesso di una delle due catene.Talassemie αDal punto di vista dei difetti molecolari nella maggior parte dei casi il problema è la delezione di uno o più de i 4 geni (2 per ogni cromosoma 16, ognuno che contribuisce per il 25%) che codificano per la globina α.Esistono anche mutazioni più rare, che non sono delezioni:o Mutazioni del codone d’inizio o della sequenza immediatamente a monte;o Mutazioni non senso che inseriscono un codone di STOP;o Mutazioni nel sito di poliadenilazione.Per quanto riguarda le delezioni, esse avvengono solitamente per crossing over ineguale poiché i due geni ripetuti possono, nel corso della meiosi, appaiarsi in maniera diseguale. Si ottiene così un cromosoma con tre geni ed uno con un solo gene.Più geni sono presenti, meno grave è la malattia. Difatti:o Tre geni (eterozigote αα/α-): l’individuo è portatore silente, asintomatico e privo di anomalie strutturali nel sangue;

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o Due geni (--/αα oppure –α/-α): asintomatico ma con lieve anemia emolitica e con alcune cellule microcitiche. Si parla di “tratto α-talassemico”.

o Un gene (--/-α): moderata anemia emolitica con ipocromia e microcitosi. Il problema maggiore è in questo caso l’eccesso di catene β: si forma difatti la cosiddetta emoglobina H, formata da quattro catene β, che per le sue caratteristiche precipita nei globuli rossi diminuendone l’emivita e accelerandone l’emolisi. HbH ha inoltre alta affinità per l’ossigeno;

o Assenza di geni: la condizione è detta idrope fetale e non è compatibile con lo sviluppo intrauterino del feto in quanto si formano tetrameri di catene γ (Hb di Bart) la quale ha altissima affinità per l’ossigeno.

Talassemie βA livello molecolare questa malattia è raramente causata da delezioni mentre molto più frequenti sono le mutazioni puntiformi. In particolare quest’ultimo tipo di mutazione possono modificare:o La trascrizione (mutazione del TATA box oppure in una sequenza importante per la trascrizione situata 90 basi a

monte del sito d’inizio); β+

o Il significato dell’RNA: mutazioni non senso o frameshift; β0

o Lo splicing:o Mutazione di una base nel sito di splicing nella giunzione tra esone ed introne. La mutazione annulla

completamente la sintesi della globina; β0

o Creazione di un sito di splicing alternativo; β+

o Mutazione nei siti di poli adenilazione. β+

Anche se rare vanno comunque citate le delezioni. La più frequente di esse è dovuta ad un appaiamento anomalo nella meiosi tra i geni per le globine δ e β e formazione di un gene di fusione δ/β (Hb lepore). Il promotore del gene della globina δ è molto debole e l’espressione è bassa.Le conseguenze dell’alterata sintesi delle catene β sono:o Insufficiente produzione di HbA con globuli rossi microcitici ed ipocromici;o Squilibrio tra la sintesi delle globine α e β: le catene α in eccesso si aggregano e precipitano nei globuli rossi

determinandone la morte per apoptosi già allo stadio di eritroblasti (eritropoiesi inefficiacie). Gli eritrociti che sopravvivono vengono comunque eliminati nella milza;

Anche nel caso delle talassemie β, il quadro clinico dipende da quanti e come i geni sono colpiti. Si distinguono:o Talassemia maior (omozigosi β0/ β0 o β+/ β+): provoca anemia microcitica ipocromica, emolisi gravi,

epatosplenomegalia, iperplasia midollare (a causa dell’aumentata eritropoiesi) che provoca deformità dello scheletro. A causa delle ripetute trasfusioni si determina sovraccarico di ferro, che è la causa maggiore di danno soprattutto a carico di reni e milza. La mancanza di catene β non è comunque incompatibile con la vita.

o Talassemia minor (eterozigosi β0/ β o β+/ β): si verifica modesta riduzione di HbA, aumento di HbA2 (α2δ2), lieve anemia con ipocromie.

Fibrosi cisticaE’ la più comune malattia autosomica recessiva nella popolazione caucasica: 1 persona su 25 è eterozigote e l’incidenza della malattia è di 1/2500. L’eterozigote è una persona del tutto normale.La malattia è monogenica: nel 1980 è stato dimostrato che il tessuto epiteliale negli organi colpiti dalla malattia è impermeabile al cloro e nel 1989 è stato isolato il gene per la fibrosi cistica, chiamato CFTR (regolatore di conduttanza transmembrana della FC) mentre nel 1991 si è scoperto che la proteina prodotta da CFTR è un canale che trasporta lo ione cloro. CFTRE’ una proteina transmembrana, localizzata nella porzione apicale delle cellule epiteliali, appartenente alla superfamiglia dei trasportatori ABC (ATP binding casset).La proteina è costituita da due domini transmembrana che definiscono la selettività del canale e da due domini NBD che idrolizzano ATP. Infine è presente un dominio R, regolatorio, che quando viene fosforilato da una PkA apre il canale.CFTR subisce una maturazione post-traduzionale nel Golgi che consiste in una glicosilazione e nel “controllo qualità”. Esistono numerose diverse mutazioni a carico del gene CFTR. Sebbene ne siano state individuate centinaia esse possono essere raggruppate in 4 classi:1. alterata produzione della proteina a causa di mutazioni geniche di svariati tipi;2. alterazione del processo di maturazione post-traduzionale (es. per anomala glicosilazione);3. alterazione dei domini regolatori: in genere sono mutazioni a carico dei siti di legame per l’ATP o a livello dei siti

regolatori;4. mutazioni nei domini transmembrana che determinano un’alterata conduttanza del canale.Nei primi due casi la proteina viene degradata e di fatto viene a mancare la proteina canale a livello apicale.La mutazione di gran lunga più frequente (66%) è una delezione di tre basi (detta F508, dove F sta per fenilalanina). La delezione porta, come risultato finale, alla mancanza di una fenilalanina in posizione 508. In alcune zone questa mutazione rappresenta la causa del 90% dei casi di fibrosi cistica, mentre in Italia la percentuale scende al 52%.La mutazione causa una glicosilazione anomala e comporta un anomalo ripiegamento. Il sistema “controllo qualità” riconosce l’anomalia e induce la degradazione della proteina nel proteosoma. Il risultato finale è la mancanza del canale del cloro.

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PatologiaLa secrezione del cloro è fondamentale per garantire l’adeguata idratazione delle mucose. Gli organi più colpiti sono i polmoni, il pancreas, l’apparato gastroenterico, l’apparato genito-urinario e le ghiandole sudoripare. La sintomatologia è molto variabile: può essere piuttosto lieve oppure grave e può insorgere alla nascita (5-10% dei casi) o anni dopo. Questa variabilità è presente anche all’interno di uno stesso genotipo ma non si sa bene perché.Se manca FCTR vi è assorbimento di sodio a livello delle mucose ma non secrezione di cloro con una conseguente disidratazione per effetto osmotico.Nelle ghiandole sudoripare vi è riassorbimento simporto Na/Cl. Se manca il trasportatore per il cloro il sudore è molto più ricco di ioni. Se infatti si dosano gli elettroliti nel sudore si osserva che la concentrazione è di 40-50 mEq/l nei soggetti normali mentre essa sale a 70 mEq/l nei soggetti affetti da fibrosi cistica.Segni clinici Vie aeree : presenza di muco denso e viscoso che provoca ostruzione e inibisce il movimento cigliare dell’epitelio

polmonare. Ciò provoca difficoltà respiratorie e predisposizione a infezioni che sono la causa della gran parte delle morti da FC (streptococcus aureus e pseudomonas aeruginosa, quest’ultimo trova un ambiente di crescita ideale nel muco viscoso presente in questi pazienti). Le infezioni portano a distruzione del parenchima e conseguente fibrosi;

Fegato : il blocco dei dotti biliari compromette la digestione e la funzionalità è ridotta. Questo succede però solo nel 5% dei casi;

Pancreas : l’occlusione dei dotti, nell’85% dei pazienti, impedisce al pancreas di liberare enzimi nel tubo digerente e causa atrofia e fibrosi del pancreas esocrino;

Intestino tenue : l’occlusione del canale intestinale da parte di feci compatte richiede l’intervento chirurgico in circa il 10% dei neonati (ilo da meconio);

Apparato riproduttivo : l’assenza dei dotti deferenti (causa sconosciuta) rende sterile il 95% dei maschi. Anche le donne possono essere sterili in seguito alla formazione di un tappo mucoso che impedisce l’ingresso del liquido seminale nell’utero;

Cute : alte concentrazioni di elettroliti nel sudore.TerapiaLa terapia genica, ad oggi, per questa malattia non ha avuto successo perché non si sono trovati vettori adeguati. Sono in corso di studio dei farmaci che “scortino” le proteine canale che, anche se glicosilate in maniera anomala, sarebbero funzionali. Un’altra strategia terapeutica è quella di potenziare altre classi di canali del cloro.I pazienti devono essere sempre tenuti sotto controllo perché vanno spesso incontro ad infezioni e l’uso di antibiotici ed anti-infiammatori è quasi costitutivo.

Ipertermia malignaE’ una malattia neuromuscolare autosomica dominante. E’ piuttosto rara ma molto subdola, in quanto soggetti che hanno una vita normale possono manifestare la malattia in seguito alla somministrazione di anestetici fluorurati o miorilassanti.Incidenza: 1/40.000 anestesie negli adulti e 1/12000 nei bambini (probabilmente per il maggior uso di miorilassanti).Segni clinici: Rigidità muscolare. E’ un segno patognomico in quanto in sede chirurgica si può avere difficoltà ad intubare; Ipertermia (crescita di temperatura rapida, circa 1 °C ogni 5 minuti); Squilibri del metabolismo (tachicardia, acidosi, tachipnea, cianosi, ipotensione); Squilibri elettrolitici (iperpotassemia, ipercalcemia); Aritmie; Edema polmonare; Discoagulopatie.PatologiaIn modelli animali si è scoperto che vi è un’anomalia nella regolazione del calcio intracellulare, in particolare nelle cellule muscolari. Il difetto genetico consiste nella mutazione a livello di un canale del calcio nel reticolo sarcoplasmatico. Questo canale, detto “recettore della rianodina” in quanto ha alta affinità per questa sostanza che funge da inibitore del canale stesso, è il canale voltaggio-dipendente la cui apertura in seguito all’instaurarsi del potenziale d’azione comporta la contrazione muscolare. La mutazione comporta una probabilità di apertura del canale 20-30 volte superiore al normale. Il canale è anche presente nei tubuli T. Nell’uomo il difetto genico si trova nel cromosoma 19. La malattia si manifesta in anestesia perché in queste condizioni vi è un aumento del potenziale di membrana dovuto all’anestetico. Mutazione e anestetico agiscono in sinergia aumentando la probabilità di apertura del canale.TerapiaLa somministrazione di “dantrolene” ha ridotto la mortalità dall’80 al 7%.

Distrofie muscolariLe distrofie muscolari sono un gruppo eterogeneo di malattie ereditarie, tutte caratterizzate da progressiva degenerazione muscolare. In tutte le distrofie muscolari l’analisi istologica rivela: Variazione delle dimensioni delle fibre muscolari; Presenza di aree di necrosi a livello muscolare; Sostituzione di aree di necrosi con tessuti fibroso e adiposo.

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DISTROFIA MUSCOLARE DI DUCHENNE (DMD)E’ la forma più comune di distrofia muscolare. Insorge già in età infantile ed è una malattia genetica recessiva legata all’X con un’incidenza di 1/3500 maschi nati vivi. Il 30 % dei casi ha una storia familiare negativa.Segni clinici Prime manifestazioni intorno ai 3-5 anni con difficoltà a deambulare e ad alzarsi da terra; Degenerazione progressiva dei muscoli prossimali della coscia e del bacino; Perdita progressiva dei muscoli prossimali della coscia e del bacino; Elevata concentrazione sierica di creatinina fosfochinasi che rispecchia degenerazione muscolare.La maggior parte muore intorno ai 20 anni per indebolimento della muscolatura cardiaca e polmonare.

DISTROFIA MUSCOLARE DI BECKER (BMD)E’ una forma lieve di distrofia muscolare di Duchenne, l’incidenza è di 1/20000, la comparsa più tardiva (adolescenza a 20 anni) e l’aspettiva di vita è più lunga.

PatologiaIl gene mutato in entrambi i casi è la distrofina, il gene più grande finora associato a malattia. La proteina è espressa nell’apparato muscolare ma anche a livello del cervello. Essa è una proteina che si localizza sul foglietto interno della membrana sarcoplasmatica (è una proteina estrinseca di membrana).I domini importanti per la funzionalità della distrofina sono: Actin binding domain, dominio legante i filamenti di actina del citoscheletro; Serie di domini ripetuti con caratteristiche comuni alla spectrina; Dominio ricco di cisteine che contiene due siti di legame per il calcio; Un dominio C-terminale che conferisce la tessuto-specificità per il legame alle glicoproteine di membrana.La distrofina e le proteine ad essa associate formano un ponte tra citoscheletro interno e matrice extracellulare per impedire fratture del sarcolemma indotte da sforzo meccanico durante le contrazioni muscolari.Il complesso è formato dalla distrofina che fa da ponte tra l’actina e i sarcoglicani transmembrana, uno dei quali è il β-distroglicano. Sul lato esterno della membrana l’α-distroglicano fa da ponte tra il β-distroglicano e la laminina, una proteina della matrice extra-cellulare.Basta che un elemento del complesso non sia funzionale, in particolare la distrofina, affinché le cellule vengano lese durante i cicli di contrazione-rilasciamento. La lesione porta all’entrata di calcio e necrosi.Mutazioni in DMD e BMD Il 65% dei maschi affetti da distrofia di Duchenne presentano una delezione più o meno estesa nel gene per la

distrofina che può coprire uno o più esoni. La delezione frameshift causa la produzione di una proteina più corta e alterata che viene degradata (fenotipo grave);

Il 5% dei casi sono dovuti a duplicazione di uno o più esoni; Le rimanenti mutazioni sono puntiformi; Delezioni “in frame” producono una proteina parzialmente funzionale, priva di un segmento interno (fenotipo lieve,

BMD); Un certo numero di casi, scoperti perché alcune femmine mostravano il fenotipo DMD, sono portatori di una

traslocazione X, 21. La traslocazione “taglia a metà” il gene per la distrofina.Terapia genica della DMDSuccesso in topi transegnici ma la sperimentazione clinica sull’uomo non è ancora iniziata perché: Si devono trovare mezzi efficaci di accesso alle cellule muscolari; Il gene è troppo grande per essere incorporato in adenovirus; Sono stati usati anche retrovirus ma essi infettano solo cellule in attiva proliferazione. Il gene è stato introdotto in

mioblasti embrionali i quali però, se reimpiantati, esprimono la distrofina solo transitoriamente.

ALTRE DISTROFIE MUSCOLARIAltre distrofie muscolari sono dovute a difetti nella proteine del complesso costituito dai sarcoglicani e distroglicani (es. la deficienza di α-distroglicano o β-distroglicani causa ARMD: autosomal recessive muscolar disease).Fisiologicamente dopo una serie di cicli/rilassamento il sarcolemma viene danneggiato. Però la cellula è in grado di innescare i processi di riparazione. In alcuni casi di distrofia muscolare il problema sta nella disferlina, una proteina cruciale nel processo di riparazione. Essa è mutata in due tipi di distrofia: la miopatia di Hiyoshi e la distrofia muscolare dei cingoli tipo 2b.

Patologie genetiche della trasduzione del segnaleSono malattie associate a difetti in geni che codificano proteine che trasmettono segnali dall’esterno all’interno delle cellule. Ad ogni ligando corrisponde un recettore. Per esempio i recettori per fattori di crescita sono tirosin chinasi. Altri tipici recettori sono quelli a 7 domini transmembrana (es. recettori per ormoni), altri ancora quando legano il ligando reclutano una tirosin chinasi citosolica (es. recettori per citochine).Le proteine di trasduzione, attivate dai recettori, innescano una serie di reazioni a cascata che portano per esempio ad attivazione dei fattori di trascrizione. Numerose malattie genetiche sono dovute a difetti nelle vie di trasduzione del segnale.

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Vie dei fattori di crescita I recettori sono delle tirosin chinasi i cui domini extracitoplasmatici possono essere di diverso tipo (domini ricchi di cisteine, domini Ig-simili…).In seguito al legame del fattore di crescita epiteliale (EGF) al recettore questo dimerizza e ciascuna subunità fosforila l’altra. In seguito all’autofosforilazione si ha reclutamento di proteine adattatrici. Una di esse è GRR2, che ha due domini: uno SM2 che interagisce coi siti fosforilati e un altro, SM3, che lega SOS. La proteina SOS a sua volta lega RAS.La SOS fa parte della famiglia GEF (GDP exchanging factor). Essa fa sì che RAS, normalmente inattiva e legante GDP, si attivi liberando il GDP e legando GTP.Questo è un processo fondamentale per la successiva trasmissione del segnale. Difatti RAS attiva RAF, una proteina che fa parte delle MAP-chinasi (attivatore delle capacità mitogeniche). Le MAP-chinasi sono enzimi in grado di fosforilare residui di serina/tiroxina. Le MAP-chinasi sono tre ed ognuna fosforila la successiva. L’ultima trasloca nel nucleo ed induce l’attivazione di fattori di trascrizione con sintesi di proteine che portano alla progressione del ciclo cellulare e l’entrata della cellula in mitosi.Nella cellula la disattivazione di RAS è effettuata ad opera della famiglia delle proteine citosoliche GAP (GTPase activating protein) che amplificano la debole attività GTPasica di RAS.Sono state identificate numerose mutazioni che portano ad una attivazione costitutiva di RAS, la quale comporta proliferazione neoplastica.Si può avere proliferazione neoplastica anche per difetti genici di GAP, i quali determinano la mancata inattivazione di RAS.NeurofibromatosiLa neurofibromatosi di tipo I, è una malattia AD con un’incidenza di 1/3500 tanto da essere considerata la più frequente malattia neurologica genetica. E’ una malattia a penetranza completa ma ad espressione variabile, 1/3 dei casi deriva da nuove mutazioni.Il gene NF1 è localizzato nel cromosoma 17 e codifica per la neurofibrosina. Essa è trascritta in tutte le cellule ma l’espressione avviene soprattutto nel SNC e nelle cellule cromaffini del surrene.Il risultato finale della mutazione è una perdita di funzione. L’inattivazione della proteina porta all’alterazione delle vie di trasmissione del segnale regolata dalle G proteine “RAS like”. Difatti la neurofibrosina non è altro che un tipo di proteina GAP e può essere classificata come un oncosopressore essendo essa un interruttore molecolare che spegne RAS. In assenza della proteina si assiste ad una proliferazione cellulare sregolata.Questa malattia genetica è caratterizzata dalla comparsa di vari tumori, soprattutto originati da cellule del neuroectoderma: Neurofibromi (tumori benigni dei nervi periferici dovuti a proliferazione sregolata delle cellule di Schwann e dei

fibroblasti perineuronali ed endoneuronali); Amartomi dell’iride; Macchie cutanee (macchie dette a “caffè-latte” per il loro colore); Ritardo mentale (non sempre e non è comunque un segno patognomico); Aumentato rischio di insorgenza di alcuni tumori maligni (neurofibrosarcomi, astrocitomi, rabdomiosarcomi).La sintomatologia insorge in età adolescenziale o anche più tardi.Retinite pigmentosaCon il termine di retinite pigmentosa (RP) si descrive un gruppo di malattie in quanto più difetti genici possono portare allo sviluppo dello stesso fenotipo anche se il gruppo è geneticamente e clinicamente eterogeneo. I difetti genici sono tutti a carico di proteine della via di trasduzione del segnale e possono essere AD, AR e legate all’X.Le malattie sono caratterizzate da degenerazione retinica con perdita di recettori visivi con proliferazioni focali dell’epitelio retinico pigmentato.La rodopsina ha la struttura tipica dei recettori a 7 domini transmembrana ed è legata ad una proteina G trimerica. Sui dischi dei bastoncelli ci sono numerosi canali per il sodio cGMP dipendenti. La membrana quindi, normalmente, è depolarizzata.I recettori a 7 domini transmembrana sono sempre associati a proteine G trimeriche. In assenza di segnale la proteina G lega il GDP. Quando il recettore si lega al ligando avviene un’attivazione della proteina G che rilascia il GDP e lega il GTP. Questo fa sì che la subunità α si stacchi da βγ e vada ad agire a livello di un effettore, diverso a seconda della via di trasduzione. Nel caso della via di traduzione del segnale luminoso il ligando è un fotone, il recettore è la rodopsina e la proteina G trimerica è detta transducina (GT). L’effettore che viene attivato in seguito al legame con la subunità Gα è la fosfodiesterasi. Ciò determina la chiusura del canale del sodio e una conseguente iperpolarizzazione.Alcune forme di RP autosomiche dominanti sono dovute ad un difetto nel gene della rodopsina nel cromosoma 3. Nell’80% dei casi si tratta di mutazioni puntiformi.La rodopsina mutata non viene trasportata nella membrana dopo la traduzione. Alcune forme mutate vengono trasportate ma destabilizzano la membrana portando così a morte i bastoncelli: ciò causa deposizione di pigmento e perdita di visibilità notturna.La morte dei bastoncelli può provocare degenerazione della retina con coinvolgimento anche dei coni e perdita anche della visibilità diurna. Altri casi derivano da mutazioni della fosfodiesterasi o dei canali del sodio.

ESOTOSSINE BATTERICHE (Rossetto)

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IntroduzioneLe esotossine possono essere definite come “armi” che il batterio patogeno ha sviluppato per riuscire a proliferare all’interno degli organismi animali.Fattori di virulenza: Flagelli: aiutano la penetrazione negli strati mucosi e dentro i tessuti; Enzimi: degradano componenti dello strato mucoso; Fimbrie ed adesine: mediano il legame del batterio alle cellule e alla matrice extracellulare; Tossine proteiche: causano alterazioni della fisiologia dell’ospite e/o dei suoi meccanismi difensivi.Tra le esotossine distinguiamo le: Tossine che agiscono sulla superficie della cellula eucariotica; Tossine che vengono “endocitate” e agiscono su un bersaglio intracellulare; Tossine che vengono iniettate dal batterio il quale è in grado di sintetizzare un complesso proteico di iniezione.

Tossine che agiscono in superficiea) Tossine che agiscono a livello dei recettori di superficie e che sono dette “superantigeni”. Appartengono a questa

categoria alcune enterotossine dello streptococcus e la tossina associata allo shock tossico (TSST-1) di staphylococcus aeureus. Esse inducono la proliferazione cellulare e la produzione di citochine. Una eccessiva sintesi di interleuchine è deleteria per l’organismo ospite

b) Tossine che agiscono sulla membrana:o Formando pori (emolisine e leucotossine): le tossine formanti pori sono prodotte dai batteri per attaccare i

leucociti dell’organismo. Esse causano un danno grave alla membrana e possono causare morte. Più monomeri, dopo il legame alla cellula bersaglio, polimerizzano. Ciascun monomero inserisce sulla membrana la propria porzione idrofobica formando dei pori che comportano il venir meno dell’equilibrio elettrolitico della cellula;

o Causando danno attraverso un’attività enzimatica: l’α-tossina di Clostridium perfringens è una fosfolipasi C con azione dermonecrotica ed emolitica. Questa tossine causa la gangrena gassosa;

o Con effetto detergente sul doppio strato lipidico: la δ-lisina di S.Aeureus è citolitica per molte cellule se presente ad alte concentrazioni perché agisce da detergente, cioè fa della membrana delle micelle lipidiche.

Tossine batteriche con bersagli intracellulariQueste tossine sono costituite da una parte B (binding) deputata al legame alla cellula e da una parte A che agisce attraverso un’attività enzimatica che si esplica su un target intracellulare.Ci sono tossine che si legano a tutte le cellule dell’ospite ed altre che invece sono più specifiche (es. neurotossine del tetano e del botulismo).Nella maggior parte dei casi soltanto la porzione catalitica passa nel citoplasma mentre la porzione B resta attaccata alla vescicola di endocitosi con la quale la tossina è stata internalizzata.Le tossine possono entrare nella cellula con modalità di internalizzazione diversa (es. con vescicole rivestite da clatrina oppure nude) e ciò dipende dai recettori.Queste tossine possono essere classificate in base all’attività enzimatica del loro protomero A:1. ADP ribosiltransferasi: la tossina prende il NAD, stacca l’ADP ribosio e lo lega ad una proteina bersaglio. L’effetto

dipende dalla tipo di proteina colpita;2. la tossina di Shiga è una adenina glicoidrolasi: l’enzima è in grado di staccare una adenina a livello dell’rRNA 28S

della cellula ospite col risultato di interrompere la traduzione e di bloccare così la sintesi proteica;3. Endopeptidasi: tagliano degli specifici legami interni delle proteine bersaglio. A questo gruppo appartengono la

tossina tetanica, le tossine botuliniche (neurotossine clostridiali) ma anche il fattore letale del bacillus antracis;4. Adenilato ciclasi: es. fattore edematoso del bacillus antracis.La difterite è causata soltanto dall’attività della tossina difterica così come la tossina tetanica e botulinica. Ciò agevola lo sviluppo dei vaccini. Altri batteri invece producono più fattori di virulenza.

Tossine con attività ADP-ribosil transferasicaTOSSINA DIFTERICALa tossina difterica è prodotta dal Corynebacterium diptheriae, un microorganismo che si moltiplica sulla superficie delle cellule epiteliali del corpo e non penetra nei tessuti circostanti.La tossina causa necrosi delle cellule della mucosa con formazione di essudato infiammatorio e pseudomembrane ma può anche diffondere e colpire altri tessuti, soprattutto quelli del cuore e del SNC.Il gene che codifica per la tossina è portato da un fago lisogenico β che rende il batterio tossigenico. E’ espressa in presenza di basse concentrazioni di ferro (perché al gene è legato un repressore genico che a sua volta lega il ferro e che si stacca dal gene, permettendo la trascrizione, solo quando il ferro non è presente). Si tratta quindi di una strategia del batterio per la sua sopravvivenza perché uccidendo la cellula esso ricava il ferro.La tossina è prodotta come pre-protossina e viene poi clivata in due frammenti A e B (la B contenente un sito di legame ai recettori) legati da un ponte disolfuro.Meccanismo d’azione

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Il recettore per la tossina è il precursore dell’EGF, che prima di essere liberato è presente come proteina di membrana. Al legame segue l’internalizzazione. L’endosoma ha al suo interno pH acido, fondamentale per l’attività tossica della tossina in quanto i bassi valori di pH determinano un cambiamento conformazionale di B che la rende capace di inserirsi nella membrana dell’endosoma.Poi si verifica un meccanismo di flip-flap che espone la subunità A all’esterno. Infine si rompe il ponte disolfuro e la subunità A rimane libera, nel citoplasma, di legarsi alla sua proteina bersaglio.Il bersaglio molecolare della tossina difterica è l’EF-2, il fattore di elongazione 2, una proteina deputata all’allungamento della catena polipeptidica nascente. L’EF-2 contiene nella sua struttura un aminoacido modificato, derivato dall’istidina (diftamide), che è lo specifico bersaglio del trasferimento dell’ADP-ribosio. Il risultato finale è il blocco della sintesi proteica e la morte della cellula.La tossina difterica è estremamente potente: è sufficiente una sola subunità A per uccidere una cellula in quanto è da sola capace di modificare tutti gli EF-2.TOSSINA COLERICALa tossina colerica non è in grado da sola di indurre la sintomatologia clinica del colera ma vi partecipa insieme ad altri fattori di virulenza.E’ prodotta da Vibrio Cholerae e la malattia insorge in seguito all’introduzione di acqua o cibi contaminati. Il batterio aderisce attraverso pili e fimbrie ai microvilli dell’epitelio intestinale. A questo livello il batterio produce i vari fattori di virulenza.Il colera è una malattia epidemica caratterizzata da diarrea massiva per alterazione dei meccanismi fisiologici dell’assorbimento intestinale di acqua e ioni.La perdita di molti litri di liquido al giorno comporta: Perdita di coscienza per minor irrorazione sanguigna cerebrale; Ipoglicemia; Ipocalcemia; Acidosi; Se non trattato con soluzioni glicosilate sopraggiunge morte per shock ipovolemico.Meccanismo d’azioneLa tossina colerica è caratterizzata dalla presenza di un protomero B costituito da 5 monomeri identici. Il fatto di avere 5 subunità β comporta un notevole aumento dell’affinità di legame per i recettori cellulari. In particolare essa lega 5 gangliosidi GM1 sulla membrana apicale degli enterociti.Il protomero A agisce sul suo bersaglio che è una proteina G trimerica (GS = azione stimolatoria) la quale media i segnali stimolatori portati a livello delle cellule epiteliali da parte di agonisti.Nel caso specifico si attiva una adenilato ciclasi.La subunità A trasferisce un ADP ribosio del NAD alla subunità α della proteina G su un arginina che si trova su un sito fondamentale per l’attività GTPasica di Gα. In questo modo Gα non è più in grado di idrolizzare il GTP e rimane costitutivamente attiva: la concentrazione di cAMP rimane costantemente elevata.L’effetto del cAMP è l’inibizione del riassorbimento di sodio e cloro e l’aumento della secrezione di cloro e bicarbonato con conseguente perdita d’acqua.L’attività tossica della subunità A della tossina è assicurata dal legame ad una proteina intracellulare: ARF.TOSSINA DELLA PERTOSSEDa sola non provoca la sintomatologia classica.La tossina è prodotta da Bordetella Pertussis, un batterio G- che causa la patologia della pertosse trasmessa per contatto diretto mediante goccie di saliva. Il batterio aderisce alle cellule epiteliali delle alte vie respiratorie tramite adesine o fimbrie e qui produce le tossine.Meccanismo d’azioneLa tossina della pertosse è fatta come la tossina colerica perché la subunità B è composta da 5 monomeri, in maniera da aumentare l’affinità di legame.La tossina agisce ADP ribosilando la subunità α di una proteina G I (inibitoria). Anche in questo caso il risultato è un aumento di cAMP perché in questo caso il trasferimento avviene nel dominio coinvolto nel legame della Gα al recettore. La conseguenza è che non c’è più interazione tra la proteina G e il recettore: l’adenilato ciclasi non può così essere down-regolata.

Le neurotossine clostridiali: tossine ad attività endopeptidasicheTETANOE’ prodotta da Cl. Tetani, l’agente eziologico del tetano. La tossina è unica.Questi batteri sono strettamente anaerobi e a contatto con condizioni avverse, come per esempio il contatto con l’aria ambiente, sporulano.Il tetano è un malattia conosciuta da moltissimo tempo perché i sintomi sono molto eclatanti: contrattura muscolare sporadica e generalmente a partire dai muscoli del viso (risus sardonicus) e poi del collo, del tronco e degli arti.La morte insorge per blocco dei muscoli respiratori.Il tetano è una malattia molto frequente nei paesi in via di sviluppo. In particolare è diffuso il tetano neonatale a causa della recessione del cordone ombelicale con strumenti non sterili. Il tetano è, in quei paesi, la prima causa di morte nel 1° anno di vita. Il vaccino non conferisce un immunità permanente ma è indicato un richiamo ogni 10/15 anni.

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Il c. tetani viene solitamente introdotto con una ferita. Se la ferita è poco irrorata e necrotica essa permette la desporulazione e la produzione della tossina.L’infezione è molto piccola e non causa una risposta infiammatoria evidente. La tossina prodotta diffonde e si lega ai terminali dei motoneuroni delle giunzioni neuromuscolari. La tossina tetanica poi viene trasportata attraverso l’assone del motoneurone fino al midollo spinale. Lì entra negli interneuroni inibitori del midollo spinale bloccando il rilascio di glicina e GABA. Viene così a mancare il feedback che impedisce la contemporanea contrazione dei muscoli agonisti ed antagonisti. Il risultato è una paralisi spastica.BOTULISMOE’ stato descritto per la prima volta nel ‘700. Al contrario del tetano si verifica rilassamento generalizzato dei muscoli con vari sintomi tra cui difficoltà a deglutire. La morte sopraggiunge generalmente per blocco dei muscoli respiratori. La mortalità è minore di quella del tetano e se il paziente supera la crisi respiratoria poi guarisce senza conseguenze.Il C botulinum produce sette sottotipi di tossine, nominate con le lettere da A a G.Il batterio è generalmente introdotto con cibi contaminati ma il soggetto adulto normalmente non si ammala se nel cibo non è già presente tossina preformata perché i batteri non riescono a causare infezione nell’intestino. I bambini invece possono essere sensibili anche alle spore.La tossina, assorbita a livello gastrointestinale, possiede tropismo per i terminali dei motoneuroni a livello delle giunzioni neuromuscolari. La tossina rimane a questo livello e agisce bloccando il rilascio di acetilcolina: conseguentemente si verifica un blocco del segnale di contrazione muscolare. Il risultato è una paralisi flaccida.STRUTTURA E AZIONE DELLE DUE TOSSINELa tossina attiva è costituita da una catena pesante di legame (H) e da una catena leggera (L) enzimatica. Le due catene sono tenute insieme da un ponte disolfuro.Caratteristiche di queste tossine è di necessitare di un legame con un atomo di zinco.Il meccanismo d’azione si basa sul fatto che le vescicole, per rilasciare il loro contenuto di neurotrasmettitori, devono fondere con la membrana presinaptica. La fusione è regolata da un complesso di proteine, tre delle quali si sono dimostrate fondamentali:- VAMP: proteina delle vescicole sinaptiche;- Sintaxina e SNAP25: proteine della membrana sinaptica.Queste tre proteine, in seguito all’innalzamento dei livelli intracitoplasmatici di calcio, formano un complesso multiproteico che permette la “neuroesocitosi”. Le proteine sono i bersagli molecolari dell’azione delle tossine tetaniche e botuliniche. Difatti le tossine proteolizzano un legame specifico di una delle tre proteine.I diversi sierotipi di tossina botulinica e la tossina tetanica agiscono in maniera molto specifica: VAMP è proteolizzata dalla tossina tetanica e da 4 diverse tossine botuliniche, SNAP25 da 3 tossine botuliniche e la sintaxina dalla tossina botulinica C (che proteolizza anche SNAP25).Queste tossine, a differenza della tossina difterica, non uccidono la cellula anche se sono i più potenti veleni naturali (sono sufficienti miliardesimi di grammo).A livello ultramicroscopico si nota un accumulo di vescicole.APPLICAZIONI CLINICHE DELLA TOSSINA BOTULINICALe caratteristiche di reversibilità ha portato all’utilizzo delle neurotossine botuliniche nella terapia di patologie come lo strabismo, il blefarospasmo (contrattura del muscolo della palpebra) e l’emispasmo facciale.Ultimamente la tossina botulinica è utilizzata per il trattamento dell’iperattività colinergica anche in terminali che innervano ghiandole o comunque in terminali acetilcolinergici del parasimpatico.Il beneficio terapeutico è limitato nel tempo perché comunque dopo un certo periodo la tossina perde il suo effetto. Un altro limite è che nel tempo si può sviluppare una risposta immunitaria contro la tossina, soprattutto se usata nel trattamento di grandi muscoli. Però c’è sempre la possibilità di cambiare sierotipo.

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