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Bimestrale web gratuito a cura del Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Dicembre 2012 numero 4 WEB NOTIZIE, TESTIMONIANZE e DOCUMENTI del Centro Studi e Ricerche Storiche“Silentes Loquimur” – 33170 Pordenone (Italia) Via Div.Folgore 1, Casella Postale 335 Biblioteca: - 33170 Pordenone - P.ta Ottoboni 4, tel: 0434209008-FAX 0434081649 e.mail: [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] SITO: www.silentesloquimur.it (Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia) e ( Patrocinio Regione del Veneto, Provvedimento 5.2.2009) Perché un WEB-NOTIZIE ? Un sito non può essere solamente il “museo” di un Istituto, ove si conservano le memorie degli eventi, l’elenco delle pubblicazioni, che trasportano nella “STORIA” le “storie”. Un sito “storico” deve generare dibattito, non blog sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti, trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”. Un sito “storico” attraverso la comunicazione reciproca, via e-mail, deve personalizzare l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle “rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico” deve concorrere alla costruzione della ricerca e nella distribuzione della ricerca per rendere vivo il concetto della libertà, che è soprattutto cammino per un confronto da condividere attraverso i risultati del dibattito. Da qui l’idea di costruire un notiziario bimestrale per ritrovare i popoli e la loro Storia. Il notiziario avrà un percorso su canali di interesse che si modificheranno in ogni numero, ma che si proporranno nelle pagine. A seconda dell’e-mail suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi lascio alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto! Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Sede Sociale: Via Div. Folgore, 1 – 33170 Pordenone Sede Operativa: Piazzetta Ottoboni, 4 33170 Pordenone - Tel. 0434 209008 – Fax 0434 081649 e-mail: [email protected] - [email protected] - [email protected] - [email protected]

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Bimestrale web gratuito a cura del Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Dicembre 2012 numero 4

WEB NOTIZIE, TESTIMONIANZE e DOCUMENTI del Centro Studi e Ricerche Storiche“Silentes Loquimur” – 33170 Pordenone (Italia) Via Div.Folgore 1, Casella Postale 335Biblioteca: - 33170 Pordenone - P.ta Ottoboni 4, tel: 0434209008-FAX 0434081649

e.mail: [email protected] [email protected] [email protected]@silentesloquimur.it SITO: www.silentesloquimur.it

(Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia) e ( Patrocinio Regione del Veneto, Provvedimento 5.2.2009)

Perché un WEB-NOTIZIE ? Un sito non può essere solamente il “museo” di un Istituto, ove si conservano le memorie degli eventi, l’elenco delle pubblicazioni, che trasportano nella “STORIA” le “storie”.

Un sito “storico” deve generare dibattito, non blog sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti, trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”.

Un sito “storico” attraverso la comunicazione reciproca, via e-mail, deve personalizzare l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle “rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico” deve concorrere alla costruzione della ricerca e nella distribuzione della ricerca per rendere vivo il concetto della libertà, che è soprattutto cammino per un confronto da condividere attraverso i risultati del dibattito.

Da qui l’idea di costruire un notiziario bimestrale per ritrovare i popoli e la loro Storia.

Il notiziario avrà un percorso su canali di interesse che si modificheranno in ogni numero, ma che si proporranno nelle pagine.

A seconda dell’e-mail suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi lascio alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto!

Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”

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____Storie@Storia___pag.2____________________________________________

INDICE:

pag. 1 Perchè un WEB-NOTIZIE ? Introduzione del Nostro fondatore, Marco

Pirina

pag. 3 Contributo di analisi alla ricerca degli scomparsi da Gorizia - settembre

1943 - maggio 1945 - La situazione ai nostri giorni, di Giorgio Rustia

pag. 5 Se questi son partigiani..., di Giovanni Pietro Crosato

pag. 9 La tragedia del Galilea, di Mario Conforti

pag. 12 Caduti e prigionieri per una Patria dal doppio volto: quale quello giusto?

di Bruno Vajente

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___________________________________________Storie @ Storia pag. 3______

CONTRIBUTO DI ANALISI ALLA RICERCA DEGLI SCOMPARSI DA GORIZIA(SETTEMBRE 1943 – MAGGIO 1945)

LA SITUAZIONE AI NOSTRI GIORNI.

A CURA DI GIORGIO RUSTIA

L’opera instancabile svolta oltre confine dalle associazioni dei parenti delle centinaia di migliaia di scomparsi di nazionalità slovena e croata, ha ottenuto in quest’ultimi anni risultati un tempo impensabili.

La Repubblica indipendente di Slovenia, sino dal 2004, ha istituito una “Commissione per la soluzione dei problemi legati ai luoghi di sepoltura nascosti” che ha ufficialmente affrontato questo “problema”e nel 2008 ha confermato con una relazione presentata in conferenza stampa anche a Trieste, l’esistenza di ben 581 di questi calvari con il vertice verso le viscere della Terra. Le voragini e le fosse comuni certificate vengono trasformate in sepolcri, non sono più i luoghi dove pochi singoli si recavano nascostamente a deporre un fiore, ma la loro posizione è contrassegnata con indicazioni stradali, i bordi degli abissi sono protetti da ringhiere e, come si può vedere nelle immagini di un pellegrinaggio alla foiba di Tarnova, riportate qui a fianco, non manca nemmeno il simbolo della croce cristiana.

Davanti alla foiba di Tarnova, la Repubblica di Slovenia ha eretto una grande stele metallica che è il monumento ufficiale che contraddistingue appunto, i luoghi di “sepolture tenute nascoste”. Uno analogo si trova pure nel cimitero di San Canziano a Capodistria nello spazio in cui sono stati sepolti circa 50 dei 130 scheletri riesumati dagli speleologi dello Speleo Club Dimnice di Capodistria nel 1992 ed inviati all’Istituto di Medicina Legale della Università di Lubiana.

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Foiba di Tarnova. Indicazione stradale.

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Il particolare rilevante della stele elevata davanti alla foiba di Tarnova, è rappresentato dalla scritta apposta su di essa: “Narodnost – Italijani, Slovenci”, frase Stele commemorativa eretta davanti alla Foiba di Tarnova dall’ esplicito significato sulla nazionalità degli sventurati che in questo abisso hanno perso la vita.

Da quanto è stato esposto precedentemente si rileva che, purtroppo, il problema della ricerca degli Scomparsi non è mai stato uno di quelli che, per la loro soluzione, hanno pesantemente influito sull’opera diplomatica dei nostri governi, sia nei lontanissimi anni del dopoguerra che ai giorni nostri.

Nell’ottobre 1945, fu la Commissione Alleata a presentare al governo jugoslavo, una lista parziale contenente i nomi di 2.472 cittadini italiani “rimossi a forza dalla Venezia Giulia” (vedasi il documento NA/UK, WO 204/10.834). La risposta jugoslava del 13 dicembre 1945 accusò l’Italia “di confondere l’opinione pubblica mondiale mediante un’inaudita campagna di diffamazione”. La replica jugoslava contestò che nell’elenco dei deportati ci fossero centinaia di nomi di italiani nati al di fuori della Venezia Giulia, centinaia di nomi di cittadini residenti nella zona B della Venezia Giulia amministrata dagli jugoslavi e centinaia di soldati dell’esercito italiano catturati, categorie di persone, queste che, secondo gli jugoslavi non rientravano in quelle la cui liberazione era prevista dall’articolo 6 degli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945.

Nella lista, secondo la replica jugoslava, vi erano i nomi di molti criminali di guerra già processati, condannati a morte e giustiziati, di molti prigionieri già restituiti nel mese d’agosto e perfino un certo numero di tedeschi che si trovano in Venezia Giulia come soldati.

Il 4 del mese di ottobre 1946, sotto la spinta dei parenti dei deportati, a Belgrado venne presentata dagli Alleati una nuova lista di deportati, ma questa volta cambiò la tattica degli slavi che la lasciarono cadere nel nulla. Ci furono altri tentativi effettuati dagli Alleati: da Trieste si mossero i generali Bowman ed Airey, facenti funzioni di “governatore militare” della Zona A del Territorio Libero di Trieste. L’intenzione sarebbe stata quella di portare la questione dei deportati a livello del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. ed il Foreign Office sarebbe stato d’accordo. Ma l’ambasciata inglese a Belgrado

sconsigliò il passo perché gli jugoslavi, anche contro tutte le evidenze, avrebbero potuto dare risposte ancora più polemiche di quelle date il 13 dicembre dell’anno prima ed a questo punto, tutto si fermò.

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Stele commemorativa eretta davanti alla Foiba di Tarnova.

Particolare della stele. Vi si legge: NARODNOST - ITALIJANI, SLOVENCI.

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A livello delle azioni del governo italiano, come risulta dalla nota 24 delle pagine 578 e 579 del capitolo “Perché non fu costituito il Territorio Libero di Trieste” del 1° volume della “Questione di Trieste” del professor Diego de Castro, docente emerito dell’Università di Torino, ci fu l’interessamento dell’ambasciatore italiano a Varsavia, Eugenio Reale, che il 25 novembre 1946 informò l'Associazione delle famiglie dei deportati in Jugoslavia di essersi rivolto ripetutamente, anche se inutilmente, ad Edward Kardelj sulla sorte degli scomparsi dalla Venezia Giulia e promise di non lasciar cadere le sue richieste sul problema.

Quasi contemporaneamente anche il ministro degli esteri, Pietro Nenni, confermò alla citata Associazione che il governo italiano continuava ad interessarsi per la liberazione delle persone prelevate e portate in Jugoslavia nel 1945, ed il 3 marzo 1947, le famiglie dei deportati furono assicurate che uno dei più importanti compiti affidati alla legazione italiana che si stava aprendo a Belgrado, sarebbe stato costituito dal problema del rimpatrio dei deportati.

L’11 novembre 1949, i Sottosegretari alla Presidenza, Giulio Andreotti e Gaetano Martino, ricevettero a Roma una delegazione triestina di questa associazione e confermarono il loro appoggio, mentre De Gasperi, allora Capo del Governo italiano, disse ai parenti degli sventurati, che l’Italia non avrebbe compiuto alcun atto di amicizia verso la Jugoslavia, se non fossero stati restituiti i connazionali prelevati e deportati oltre confine da Trieste, Gorizia, Fiume e dall’Istria.

Sfortunatamente, come risulta dalle pagine 1042 e 1043 del citato “La questione di Trieste” del professor Diego de Castro, questo solenne impegno era del tutto irrealizzabile, non solo per la oggettiva situazione di rappresentanti di una nazione sconfitta che pesava sui nostri governanti, ma anche perché sino dal 19 di aprile 1947 era stato parafato a Belgrado il cosiddetto “accordo commerciale Mattioli” nel quale la Jugoslavia era definita “nazione più favorita”, nel febbraio del 1949 erano stati firmati, ad Udine, degli accordi per regolare il traffico di frontiera ed il 13 aprile dello stesso anno, sempre prima della promessa di De Gasperi, il senatore Bastianetto aveva firmato a Belgrado il primo accordo per la pesca nelle acque jugoslave con il pagamento alla Jugoslavia di un canone di 700 milioni annui di lire. E questi sono solo alcuni esempi degli atti di “amicizia” che l’Italia aveva già fatto verso la Jugoslavia al momento dell’impegno di De Gasperi.

Fu così che in fase di definizione del Memorandum di Londra (1954), le richieste di liberazione di prigionieri italiani in Jugoslavia, fatte dal nostro governo, si limitarono a soli sette nominativi di nostri connazionali condannati per fatti di molto successivi alla fine della guerra, cui la Jugoslavia aggiunse di sua iniziativa quelli di una trentina di italiani comunisti cominformisti fatti infiltrare in Jugoslavia dalla Zona A o dall’Italia, all’epoca del dissidio tra Tito e Stalin per

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Risposta jugoslava alla prima nota Alleata (dicembre 1945).

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fomentare la rivolta contro il Maresciallo. Ora però, sono passati più di sessant’anni da allora, le dittature sono state ripudiate sia in Italia che nei paesi nati dalla Jugoslavia.

Due anni fa, col concerto del maestro Muti tenuto il 13 luglio a Trieste, i Presidenti Napolitano, Turk e Josipović hanno posto simbolicamente termine alla lunga e rovinosa epoca degli etnocentrismi contrapposti, dando avvio ad un percorso di sincera collaborazione a beneficio di tutti gli abitanti dell’Adriatico orientale.

Il 3 settembre 2011, a Pola, Napolitano e Josipović hanno segnato una nuova salutare tappa, riconoscendo reciprocamente i torti arrecati e le sofferenze subite dai rispettivi popoli.

Una ulteriore tappa l’hanno compiuta il Libero Comune di Pola in Esilio, l’Unione Italiana e la FederEsuli con il “Percorso della memoria e della riconciliazione” tenuto in Istria il 12 maggio di quest’anno per onorare le vittime italiane degli opposti totalitarismi ed infine, proprio in questi caldi giorni di luglio 2012, il Presidente Napolitano si è recato in visita di Stato in Slovenia intervenendo perfino al Parlamento di questa Repubblica. Ciò non risolve automaticamente tutti i problemi ancora aperti (tra i quali quello delle “sepolture anomale” dei nostri deportati mai più ritornati alle loro famiglie, che sta a cuore alla nostra Associazione) ma si è instaurato il clima adatto a risolverli.

Questo studio spera di aver fornito dati concreti che possano diventare il punto di partenza per un dibattito che contribuisca attivamente a dare risposte di civiltà e di cristiana pietà alle non poche famiglie goriziane ed italiane che ancora attendono di sapere, da quasi settant’anni, dove portare un fiore sul sepolcro, normale o “anomalo”, dei loro congiunti.

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SE QUESTI SON PARTIGIANI…

A CURA DI GIOVANNI PIETRO CROSATO

(Ricercatore del Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”)

Come in tutte e guerra, anche durante la guerra civile l’elemento femminile fu il più facile dei bersagli da colpire e, pertanto, il più esposto alle offese. Una violenza operata da entrambe le parti in lotta contro la donna che per la prima volta si affacciava alla scena pubblica e, anche, mi-litare. Donne stavano tra le file partigiane, ma anche nelle formazioni della Repubblica Sociale Italiana (da ora in acronimo RSI). Mentre, però, a quelle vittime appartenenti alla Resistenza o uccise dai nazisti e fascisti furono, giustamente, riservati onori e degne sepolture a quelle altre ch’ebbero la sorte d’essere state uccise dai partigiani non venne, molte volte, riconosciuto nean-che quel diritto minimo di una umana e cristiana sepoltura. Ma non immaginiamo che fosse indi-spensabile che la vittima avesse realmente tramato contro la Resistenza o fosse almeno apparte-nente all’apparato della RSI. Era, anche, sufficiente per una ragazza un nonnulla, come fermarsi a parlare o a ballare con dei giovani, magari fodom, che vestivano la divisa tedesca ed essere, come avvenne a Caprile Bellunese nell’ottobre del 1944, catturate dai partigiani che, ancora con le scarpette da ballo, le portano seco (in montagna dalle parti del Civetta) per interrogarle in quanto accusate di un qual “collaborazionismo sentimentale”. In quell’occasione solo l’arrivo di un buona nuova al distaccamento evita loro una rapata a zero mediante delle cesoie da pecore. L’episodio è descritto dall’ex - comandante partigiano Nello Ronchi (alias Simon) nella sua testimonianza alle-gata all’opera letteraria del Gianni De Col, “La fontana di Caviola” (Nuovi Sentieri Editore). Se in quell’occasione la violenza della rapata, per cui era già pronta una cesoia per le pecore, si limitò al paventare quell’atto in altri casi la situazione fu invece ben più tragica. Non si deve fare l’erro-re di sottovalutare l’atto, perché chi visse quegli anni potrebbe ben spiegare bene cosa signifi-casse per una donna dovere circolare con il capo rasato. Ma chi erano queste donne? Molte volte la violenza era comminata a madri, mogli, fidanzate, sorelle e figlie di appartenenti alla RSI (acronimo per Repubblica Sociale Italiana).). C’erano poi le ausiliarie della RSI che tra l’altro que-ste ultime essendo militari una volta catturate erano pertanto tutelate dalla Convenzione di Gine-vra. Ma una volta catturata una donna in divisa a volte neanche controllavano se fosse o meno au-siliaria, come scrisse la capogruppo della crocerossine della Divisione "Littorio" Antonia Setti Carraro (madre di Emanuela e futura suocera del Generale nei carabinieri Carlo Alberto dalla

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Chiesa). Nel suo caso solo la distrazione dei suoi aguzzini fece in modo che potesse scappare ed evitare di finire fucilata come ausiliaria della RSI, già cosa illegale, ma nel suo caso anche erro-nea in quanto lei e le altre con lei erano solo crocerossine. Quando, però, s’affannava a mostrare la croce rossa che portavano sul grembiule otteneva come risposta solo un “non vogliamo più Cristi né padroni! Vogliamo solo ammazzarvi tutti, voi fascisti: tutti, uomini e donne, grandi e bambini". Distruggere il nemico e, pertanto, quella rapata poteva, anche se fonte di ferite al cuoio capelluto e talvolta concludersi col capo cosparso di vernice o catrame, sufficiente. Come ben s’avvide la povera maestra elementare Corinna Doardo, trentanovenne, che venne dapprima rapata e quindi fatta camminare nel centro paese con, per una ulteriore umiliazione, una coroncina di fiori in te-sta. In mezzo ad una folla che la scherniva e la insultava. Al termine venne assassinata brutal-mente in un viottolo, ma non è chiaro se con una raffica di mitra o a bastonate. Il 26 aprile 1945 la ventenne ausiliaria della RSI Jolanda Crivelli, vedova di un ufficiale della Repubblica Sociale Italiana, raggiunse la sua Cesena per tornare dalla madre. Fu riconosciuta da alcuni partigiani co-munisti e al motto “è una fascista, moglie di un fascista” catturata e, dopo essere stata percossa a sangue e trascinata nuda per le strade di Cesena tra gli sputi della gente, fu fucilata davanti al carcere locale. Il suo corpo, ad ulteriore sfregio, rimase colà esposto per due giorni. Non erano considerate donne, ma animali da esporre al pubblico e che pertanto venivano anche trascinate, a volte, colle corde o catene utilizzate per le bestie. A Novara il vescovo monsignor Leone Ossola, amministratore apostolico della diocesi, riuscì ad impedire quel malvagio e crudele progetto di far sfilare nude circa trecento ausiliarie catturate e rapate. Avrebbero dovuto essere fucilate, ma questo non avvenne perché, come riferì l’ausiliaria Alda Paoletti nelle sue memorie, il predetto vescovo minacciò il comandante partigiano garibaldino che si sarebbe posto davanti alle ausiliarie, al momento della fucilazione, per precederle nella morte. Ma ci fu anche di peggio. Tina Morselli venne sequestrata a Motta di Cavezzo (MO) da un gruppo di partigiani che il fratello Alberto ave-va accusato di avere fatto la cresta sui soldi consegnati alla Resistenza. Sua unica colpa era l’essere una bellissima donna e di essere stata notata da chi catturò il fratello e la sua sorte fu quella di essere violentata a turno, e poi uccisa, da quel gruppo di partigiani che già (come si sep -pe in sede Giudiziaria) aveva sequestrato un altro proprietario e violentata la relativa figlia. Una motivazione di questi atti potrebbe essere nell’analisi del già citato Dal Pian, il quale afferma che ci furono partigiani “esaltati dalla convinzione che la giustezza dello scopo, “liberare l’Italia, concedesse loro il potere di vita e di morte, e invasati da una tale esaltazione da giustifi-care ogni azione che la loro forza bruta dettava, soprattutto sul sesso debole.”. Si potreb-bero raccontarne tante di quelle violenza, ma preferisco, anche per rispetto di quelle giovani vit-time, tacere e affidarle alla preghiera. Dopo tanti anni è, però, ora di dare un giusto rispetto an-che a tutte quelle donne, affermare che ebbero a subire delle violenze che non sono degne di un Paese civile come il nostro. Anche alla luce della deriva di questi ultimi tempi, inoltre, è necessa-rio affermare con forza che se un uomo, a qualunque colore politico o organizzazione appartenga, compie delle violenze su una donna è solo e sempre un vigliacco, un codardo capace solo di colpire delle persone più deboli di lui.

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______________________________________________Storie @ Storia pag. 9___

LA TRAGEDIA DEL GALILEA

A CURA DI MARIO CONFORTI

Questo articolo vuole essere un ricordo di una delle pagine tragiche della nostra storia, quella dell'8 Reggimento Alpini, ignorata da molti e commemorata ormai da pochi. La M/n Galilea era una nave passeggeri della Adriatica Società Anonima di Navigazione con uffici a Venezia e Trieste. Venne costruita presso i cantieri San Rocco di Trieste nel 1918 con il nome di Pisa. In seguito fu venduta alla compagnia Triestina nel 1935 e ribattezzata Galilea. Si trattava di una nave passeggeri con due eliche e motori a turbina, 8.040 tonnellate di stazza lorda, lunghezza 443 piedi e 8 pollici, larghezza 53 piedi e 2 pollici ed un pescaggio di 25 piedi e 11 pollici. Poteva raggiungere la velocità di 13,5 nodi con una portata di 47 passeggeri in prima classe e 148 in seconda. Durante il periodo bellico venne riclassificata come nave ospedale. In questa funzione fu adibita al trasporto di parte del Battaglione Gemona, inquadrato nella famosa Divisione Julia (Alpini). Precisamente furono ospitati a bordo, tra i saloni della prima e seconda classe ed i vari ponti, gli ospedali da campo 629, 630, 814, l'8^ sezione sanità e l'8° nucleo assistenza. Questo

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battaglione, dopo la campagna greca, fu assegnato alla difesa del canale di Corinto. Fu richiamato in Patria da dove sarebbe dovuto diventare parte di un'altra disavventura mussoliniana: il corpo di spedizione italiano in Russia.

I tre anni di guerra navale nel Mediterraneo, che videro a confronto l'Italia e la Gran Bretagna furono, in gran parte, una guerra di convogli. Le battaglie navali, gli scontri e gli altri episodi che hanno caratterizzato questi tre anni pieni di eventi furono, direttamente o indirettamente, causati dal trasferimento di personale e materiale da e per il fronte. Il peso delle perdite, spesso gravi, ricadde su coloro che effettuavano i trasporti. Il primo grossolano errore commesso dalle forze italiane fu l'invasione della Grecia in quanto comportò il trasferimento di vaste quantità di personale e materiale verso l'Albania. Nonostante la brevità del passaggio, l'Albania non aveva infrastrutture portuali tali da poter permettere lo sbarco delle merci in grandi quantità. Per onor di cronaca il secondo grave errore fu di non occupare la Tunisia, per poterne sfruttare i porti e controllare il Canale di Sicilia. In alternativa non venne occupata nemmeno Malta e troppo tardi se ne scoprì l'importanza strategica che rivestiva per gli Inglesi.

Questi viaggi, pericolosissimi, condotti da un numero sempre decrescente di navi, in condizioni sempre più difficili, cominciò dal Pireo, per poi continuare via Lutraki fino a Corinto. Quì la nave Galilea lasciò il porto la sera del 27 marzo 1942 in convoglio con le navi Crispi e Viminale. Nelle vicinanze di Patrasso, al convoglio si aggiunsero i piroscafi Piemonti, Ardenza e Italia. Il convoglio lasciò Patrasso alle ore 13.00 del 28 marzo scortato dalla Nave ausiliaria Città di Napoli, al comando del Capitano di Fregata Ciani, il cacciatorpediniere Sebenico e le torpediniere San Martino, Castelfidardo, Mosto e Bassini. La Regia Aeronautica si occupò della ricognizione aerea difendendo il convoglio con dei caccia fino all'imbrunire. La navigazione proseguì regolarmente nonostante le frequenti e ritmiche esplosioni di bombe di profondità. Alle ore 18.30, il convoglio passò Capo Ducati mentre il tempo cominciava a peggiorare con l'aumento della pioggia e banchi di foschia marina. Alle 19.00 le navi lasciarono la formazione in linea e si divisero in due righe. Malgrado il convoglio navigasse nella completa oscurità, questi divenne preda del sommergibile inglese HMS Proteus, comandato dal Lt. Cmd .Phillip Steward Francis. Il sommergibile era partito da Alessandria il 12 marzo per una infruttuosa missione di perlustrazione nel golfo di Taranto. Fu quindi trasferito nello stretto d'Otranto, dove affondò il Galilea. Dopo questo successo, il Proteus continuò la perlustrazione affondando, il 30 dello stesso mese, il Bosforo (3.648 ton.), per far rientro ad Alessandria il 4 aprile.

L'attacco fu veloce: alle 23.45 il Galilea fu colpito da un siluro sulla sinistra che causò uno squarcio di circa 6 metri, subito sotto il ponte di comando, nel secondo compartimento. La nave cominciò immediatamente a sbandare raggiungendo l'inclinazione di circa 15 gradi. Il comandante cercò subito di portare la nave verso le isole di Passo e Antipaxo, distanti circa 9 miglia. A causa delle avarie e delle intemperie questa manovra fallì. Sulla Galilea, come su molte navi adibite al trasporto truppe, non vi erano abbastanza lance e giubbotti di salvataggio per tutti i passeggeri. Le condizioni meteorologiche avverse peggiorarono la situazione. Il resto del convoglio si

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allontanò velocemente dal luogo dell'attacco, arrivando a Bari il 29 marzo, mentre la torpediniera Mosto cominciò il lancio delle bombe di profondità. L'agonia della nave continuò fino alle 3,50 del 29 marzo quando finalmente affondò. La Mosto cercò di salvare alcuni dei sopravvissuti, ma le acque fredde del Mediterraneo e la presenza del sommergibile nemico forzarono quest'unità al moto continuo. La mattina, intorno alle 08,30, arrivarono dalla base di Prevesa il MAS 516 e due dragamine, oltre all'arrivo di un idrovolante della Croce Rossa da Brindisi che si capovolse durante il tentativo di ammaraggio. Le opere di salvataggio continuarono fino all'avvistamento di scie di siluri. Le unità di scorta riportarono il danneggiamento di un sommergibile, non confermato negli annali della Marina Inglese.

Dei 1.275 uomini imbarcati sulla Galilea solo 284 furono salvati. Molti corpi non vennero mai trovati e molti portati dalla risacca sulle coste greche. Con gli alpini del battaglione Gemona perirono anche alcuni Carabinieri e dei prigionieri di guerra greci. La notizia del disastro raggiunse presto il Friuli, ove in molte località il reparto era stato in larga misura reclutato.

Ancora oggi, nei pochi superstiti sopravvissuti sono vive nella memoria i ricordi delle urla, il panico, l'acqua nelle stive, porte che non si aprono, gente che si butta in mare immaginando un affondamento immediato, le grida d'aiuto dal mare, invocazioni alle mamme, preghiere e poi il silenzio della morte.

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CADUTI E PRIGIONIERI PER UNA PATRIADAL DOPPIO VOLTO:

QUALE QUELLO GIUSTO?

A CURA DI BRUNO VAJENTE

Alle ore 19.45 dell’8 settembre 1943, divulgato dalla radio italiano, inizia il dramma dell’esercito italiano con il messaggio del maresciallo Badoglio dove il capo del governo comunicava che l’Italia ha “chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate” e che la richiesta è stata accolta.

Per centinaia di migliaia di soldati italiani inizia una tragedia vera e propria: abbandonati a se stessi nell’ora forse più critica dall’inizio della guerra.

Al momento dell’armistizio le forze militari italiane erano dislocate sia nel territorio nazionale che nei vari settori fuori dai confini e constavano in:

• circa 1.090.000 uomini (10 divisioni nel nord Italia , 7 al centro e 4 al sud della penisola e altre 4 in Sardegna), contro 400.000 soldati tedeschi ben equipaggiati e armati.

• 230 mila uomini in Francia (e Corsica);• 300 mila circa in Slovenia, Dalmazia, Croazia, Montenegro e Bocche di Cattaro;• più di 100 mila in Albania ;• circa 260 mila soldati in Grecia e nelle isole dell’Egeo.

L’esercito italiano, seppur numericamente superiore alle forze tedesche, rappresenta uno strumento bellico effimero, debole con divisioni per lo più inefficienti, malamente armate e con pochi mezzi corazzati, senza tralasciare poi il fatto che, in quel fatidico 8 settembre l’assoluta mancanza di direttive da parte dei responsabili dei vertici del governo (il capo del governo Badoglio,il gen. Ambrosio, capo di Stato Maggiore Generale e del capo di Stato Maggiore dell’Esercito gen. Mario Roatta) e l’imperdonabile leggerezza con cui si affronta il prevedibile momento della resa dei conti con i tedeschi, determinano lo sfacelo e il crollo totale dell’esercito italiano all’indomani dell’annuncio della firma dell’armistizio.

Nella Seconda Guerra mondiale l'Italia, in una prima fase, dal 10 giugno 1940 all'8 settembre 1943, ha combattuto a fianco della Germania, contro le forze alleate (Gran Bretagna,

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Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica), subendo drammatiche sconfitte sui campi di battaglia, ma anche le innumerevoli perdite di civili dovute ai bombardamenti alleati su obiettivi civili o militari.

A questa prima fase della guerra corrisponde la situazione dei soldati italiani prigionieri di guerra catturati sui diversi fronti:

• 130.000 dagli inglesi in Africa settentrionale, dopo la prima offensiva terminata nel febbraio 1941, trasferiti in India, Australia e Sud Africa;

• 40.000 dagli inglesi in Africa orientale, tra il 1940 e il novembre 1941, con la resa finale di Gondar; trasferiti soprattutto in Kenia e in India;

• circa 60.000 soldati dell'ARMIR catturati dai russi nell'offensiva del Don di fine 1942, di questi circa 20.000 muoiono durante il trasferimento e altri 30.000 negli anni di prigionia, i rimpatriati, dopo la guerra, sono circa 10.000 (Dalla Russia solo dopo cinquant'anni, dopo il crollo del comunismo si viene a sapere di oltre 60.000 nomi ben catalogati negli schedari del KGB, mentre per anni i dirigenti sovietici e i comunisti italiani hanno sempre sostenuto che non c'erano più notizie..);

• 30.000 dagli inglesi in Africa settentrionale, nel novembre 1942, nel corso della battaglia di El Alamein; inviati soprattutto in Inghilterra e alcuni lasciati in Egitto;

• 100.000 dalle truppe inglesi, americane e francesi in Tunisia, nel corso della battaglia finale che porta alla perdita dell'Africa settentrionale; 80.000 in massima parte avviati verso gli Stati Uniti oppure consegnati ai francesi in Algeria e in Marocco, i rimanenti impiegati come lavoratori presso l'esercito americano;

• 120.000 dalle truppe anglo-americane in Sicilia, nel corso della conquista dell'isola, tra luglio e agosto 1943; 65.000 soldati sono poi rilasciati sulla parola.

In totale, gli anglo-americani ammontano presero prigionieri circa 600.000 unità. La loro condizione è estremamente variegata: quelli trasferiti negli USA sono impiegati nell'amministrazione statale e nelle industrie belliche e ricevono un regolare trattamento economico; al contrario, quelli assegnati ai campi del Nordafrica sono impiegati in lavori

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estremamente faticosi e logoranti, nelle miniere o in cantieri, e rinchiusi in campi molto simili a carceri, in condizioni climatiche pessime.

La sorte peggiore toccò probabilmente ai soldati dell'ARMIR fatti prigionieri dai russi nel pieno dell'inverno. La maggior parte di loro morì nel corso di trasferimenti effettuati in condizioni di clima estremo, con un'alimentazione scarsa e condizioni igieniche drammatiche, provocate dall'enorme massa di prigionieri catturati in poche settimane dai russi, nella confusione generale delle retrovie e nella scarsità di risorse di ogni tipo, carenti anche per le truppe sovietiche e per la popolazione locale.

Con la firma dell'armistizio e la dichiarazione di "cobelligeranza" la condizione di questi prigionieri non migliora; infatti, le clausole sottoscritte, se prevedono la riconsegna di quelli alleati, non definiscono il futuro di quelli italiani nelle mani degli alleati. Di fatto l'Italia è un paese sconfitto e in stato di occupazione, mentre i soldati italiani interessano come manodopera da utilizzare nelle situazioni più diverse. Così saranno liberati prima della fine della guerra solo alcune decine di migliaia di prigionieri: quelli residenti in Sicilia e catturati nell'estate del 1943, 16.000 tra i malati e i più anziani, 15.000 per ricostituire unità italiane in sostituzione di truppe alleate trasferite sul fronte francese. La maggior parte dei 600.000 prigionieri potrà rientrare solo a guerra conclusa, a volte dopo cinque e più anni di detenzione.Senza dubbio i campi nazisti sono quelli più noti ma spesso si dimentica la sventura di tante migliaia di soldati italiani che furono catturati dagli alleati e imprigionati in campi di prigionia dislocati in tutto il mondo. Eppure l'Italia, dopo l'8 settembre, era passata dallo stato di nemico a quello di alleato e alla fine della guerra era stata firmata un'intesa con l'URSS, sulla base della convenzione di Ginevra, per il rimpatrio di tutti i prigionieri o delle loro salme, come è avvenuto in tutti i paesi del mondo, anche nei più lontani o ritenuti più incivili.

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