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Bolletino web gratuito a cura del Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Giugno 2013 n. 2 WEB NOTIZIE, TESTIMONIANZE e DOCUMENTI del Centro Studi e Ricerche Storiche“Silentes Loquimur” – 33170 Pordenone (Italia) Via Div.Folgore 1, Casella Postale 335 Biblioteca: - 33170 Pordenone - tel: 0434209008-FAX 0434081649 e.mail: [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] SITO: www.silentesloquimur.it (Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia) e ( Patrocinio Regione del Veneto, Provvedimento 5.2.2009) Perché un WEB-NOTIZIE ? Un sito non può essere solamente il “museo” di un Istituto, ove si conservano le memorie degli eventi, l’elenco delle pubblicazioni, che trasportano nella “STORIA” le “storie”. Un sito “storico” deve generare dibattito, non blog sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti, trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”. Un sito “storico” attraverso la comunicazione reciproca, via e-mail, deve personalizzare l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle “rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico” deve concorrere alla costruzione della ricerca e nella distribuzione della ricerca per rendere vivo il concetto della libertà, che è soprattutto cammino per un confronto da condividere attraverso i risultati del dibattito. Da qui l’idea di costruire un notiziario per ritrovare i popoli e la loro Storia. Il notiziario avrà un percorso su canali di interesse che si modificheranno in ogni numero, ma che si proporranno nelle pagine. A seconda dell’e-mail suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi lascio alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto! Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” Sede Sociale e operativa: Via Div. Folgore, 1 – 33170 Pordenone - Tel. 0434 209008 – Fax 0434 081649 e-mail: [email protected] - [email protected] - [email protected] - [email protected]

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WEB NOTIZIE, TESTIMONIANZE e DOCUMENTI del Centro Studi e Ricerche Storiche“Silentes Loquimur” – 33170 Pordenone (Italia) Via Div.Folgore 1, Casella Postale 335Biblioteca: - 33170 Pordenone - tel: 0434209008-FAX 0434081649

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(Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia) e ( Patrocinio Regione del Veneto, Provvedimento 5.2.2009)

Perché un WEB-NOTIZIE ? Un sito non può essere solamente il “museo” di un Istituto, ove si conservano le memorie degli eventi, l’elenco delle pubblicazioni, che trasportano nella “STORIA” le “storie”.

Un sito “storico” deve generare dibattito, non blog sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti, trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”.

Un sito “storico” attraverso la comunicazione reciproca, via e-mail, deve personalizzare l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle “rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico” deve concorrere alla costruzione della ricerca e nella distribuzione della ricerca per rendere vivo il concetto della libertà, che è soprattutto cammino per un confronto da condividere attraverso i risultati del dibattito.

Da qui l’idea di costruire un notiziario per ritrovare i popoli e la loro Storia.

Il notiziario avrà un percorso su canali di interesse che si modificheranno in ogni numero, ma che si proporranno nelle pagine.

A seconda dell’e-mail suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi lascio alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto!

Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”

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____Storie@Storia___pag.2____________________________________________

INDICE:

pag. 3 Le opere permanenti italiane ed austriache nella I Guerra Mondiale: la loro

efficienza bellica, a cura di Leonardo Malatesta

pag. 16 La vittoria di Nikolayevka, di Giovanni Crosato – Ricercatore Centro Studi

"Silentes Loquimur"

pag. 20 Il bis di Berenice, di Mario Conforti

pag. 23 Il Bus de la Lum, di Bruno Vajente

pag. 25 Proposte Editoriali: I Giorni della Merla.

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___________________________________________Storie @ Storia pag. 3______

LE OPERE PERMANENTI ITALIANE ED AUSTRIACHE NELLA 1ª GUERRA MONDIALE: LA LORO EFFICIENZA BELLICA

A CURA DI LEONARDO MALATESTA

Introduzione

Dagli Anni ’60 nel nostro Paese c’è stata una riscoperta della 1ª guerra mondiale. Sul punto, si affrontati vari temi: dalle operazioni belliche, alla giustizia militare, al fronte interno.

Un aspetto poco studiato è quello dell’architettura militare. Un progresso, in merito, è stato compiuto dai primi Anni ’90 dal Gruppo di Studio delle Fortificazioni Moderne di Milano. Questa associazione, che ha il merito di aver raccolto tutti gli appassionati del tema, pubblicò un Notiziario inviato ai soci ed una pionieristica bibliografia sulle fortificazioni moderne1, che censì tutte le pubblicazioni fino ad allora uscite.

Dopo questo primo input, negli anni successivi, sono nate a livello locale altre associazioni per studiare un determinato settore. Un esempio per tutti è l’ASSAM (Associazione per gli studi di storia e architettura militare) di Torino, che grazie al suo infaticabile presidente, Pier Giorgio Corino, è riuscita ad ottenere in gestione il Forte Bramafam a Bardonecchia e a trasformarlo in un museo.

Dato il numero di pubblicazioni, l’attenzione degli studiosi si è rivolta verso la 1ª Guerra mondiale e sul fronte del Trentino, dove alcune opere di montagna furono protagoniste delle vicende belliche2. 1 G.S.F.M., Bibliografia sulle fortificazioni moderne, a cura di A. Flocchini, Milano, 1993, 1996.

2 M. Ascoli, F. Russo, La difesa dell’arco alpino 1861 – 1940, Roma, 1998; P. Bortot, I forti del Kaiser. Opere corazzate nel Sud – Tirolo italiano 1900 – 1915, Tassotti Editore, Bassano del Grappa, 2005; W. Belotti, J. Ceruti, Il forte italiano del Corno d’Aola, in Aquile in Guerra, n. 5, Eurostampa, Fizzonasco, 1997, pp. 12 – 19; A. Flocchini, Il forte Canali di Tirano, in Notiziario della Banca Popolare di Sondrio, n. 68, Sondrio, 1995, pp. 88 – 93; A. Flocchini, I forti della grande guerra, in Storia Militare, n. 13, Albertelli, Parma, 1994, pp. 43 – 52; A. Flocchini, Il forte di Oga, in Militaria, n. 7, Hobby

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Si possono segnalare per la loro validità i volumi di Luca Girotto sulla Fortezza Brenta – Cismon e il volume di Robert Striffler sui forti italiani dell’altipiano di Asiago disponibile solo nell’edizione tedesca, a proposito dei quali non è possibile rinvenire ulteriori opere degne di nota.

Per quanto riguarda le opere austriache, la situazione non è migliore, anzi (direi) arretrata. Il mediocre lavoro di Gian Maria Tabarelli, pur utilizzando fonti archivistiche inedite come quelle del Genio militare austriaco di Trento, non ha inquadrato il periodo storico, lasciando molto a desiderare per la politica fortificatoria austroungarica. Oltre al volume di Tabarelli, negli ultimi anni sono apparsi, all’interno di atti di convegni, alcuni contributi dello studioso viennese Willibald Rosner, il volume di Rolf Hentzschel ,quello di

e Work Italiana Editrice, Cinesello Balsamo, 1994, pp. 12 – 16; A. Flocchini, Il forte Montecchio di Colico: l’unico superstite della grande guerra, in Rivista Storica, n. 10, Cooperativa Giornalisti Storici, Chiavari, 1994, pp. 62 – 67; R. Hentzschel, Festungskrieg im hochgebirge, Athesia, Bolzano, 2008; R. Hentzschel, Österrreichische gebirgsbefestingungen im estern weltkrieg. Die hochebenen von Folgaria und Lavarone, Athesia, Bolzano, 1999; L. Girotto, Forte Tombion. La sentinella del Canal di Brenta, Litodelta, Scurelle, 2008; L. Girotto, 1866 – 1918. Soldati e fortezze tra Asiago ed il Grappa, Rossato, Novale – Valdagno, 2002; L. Malatesta, Forte Cornolò e la difesa della val Posina durante il 1° conflitto mondiale, in Forte Rivon, n. 8, Schio, 2007, pp. 57 – 73; L. Malatesta, Il forte di Cima Campolongo, in Forte Rivon, n. 10, Schio, 2009, pp. 80 – 98; L. Malatesta, Il forte di Cima Campolongo. Dal risorgimento alla Grande Guerra, la storia di una fortificazione italiana di montagna, Temi, Trento, 2009; L. Malatesta, Il difensore della val d’Astico: il forte di Punta Corbin. La storia costruttiva e bellica di un’opera permanente della grande guerra, Temi, Trento, 2010; L. Malatesta, Il dramma del forte Verena: 12 giugno 1915. Nel 90° anniversario dall’avvenimento della distruzione del forte Verena, le sconvolgenti verità provenienti dagli archivi militari, Temi, Trento, 2005; L. Malatesta, Il forte italiano di Punta Corbin: la sua storia costruttiva e bellica, in Forte Rivon, n. 9, Schio, 2008, pp. 32 – 53; L. Malatesta, Il forte italiano di Casa Ratti: la costruzione, l’impiego bellico e la sua cattura durante la Strafexpedition, in Forte Rivon, n. 7, Schio, 2006, pp. 36 – 51; L. Malatesta, La cintura fortificata degli altipiani di Folgaria – Lavarone – Vezzena nella 1ª guerra mondiale: funzione strategica ed impiego bellico , in Tirol vor und im 1 Weltkrieg, Bolzano, 2005, pp. 233 – 247; L. Malatesta, La drammatica vicenda del forte Verena nel giugno 1915, in Forte Rivon, n. 6, Schio, 2005, pp. 49 – 57; L. Malatesta, La guerra dei forti. Dal 1870 alla grande guerra le fortificazioni italiane ed austriache negli archivi privati e militari, Nordpress, Chiari, 2003; L. Malatesta, La guerra dei forti. Le fortificazioni italiane ed austriache durante la prima guerra mondiale, in Nuova Storia Contemporanea, n. 4, Le Lettere,

Firenze, 2006, pp. 137 – 150; L. Malatesta, La linea fortificata Brenta – Cismon dal 1870 alla 1ª guerra mondiale, in Dolomiti, n. 2, Belluno, 2004, pp. 7 – 23; L. Malatesta, Le fortificazioni italiane dell’altipiano di Asiago: progettazione, costruzione ed impiego bellico nella 1ª guerra mondiale, in Dolomiti, n. 4 – 5 – 6, pp. 11 – 23, pp. 7 – 16, pp. 19 – 32; L. Malatesta, Le opere fortificate della grande guerra in Friuli, in Memorie Storiche Forogiuliesi, n. LXXXIII/MM III, Arti Grafiche Friulane, Udine, 2004, pp. 191 – 240; L. Malatesta, Le opere fortificate italiane della grande guerra in Valtellina, in Rassegna Storica del Risorgimento, n. 3, Roma, 2008, pp. 407 – 444; M. Puercher, Forte Belvedere Gschwendt. Guida all’architettura, alla tecnica e alla storia della fortezza Austro – Ungarica di Lavarone, a cura di G. Leonardi, C. Prezzi, Curcu e Genovese, Trento, 2005;W. Rosner, La difesa del confine orientale del Sudtirolo mediante fortificazioni, in Una trincea chiamata Dolomiti, a cura di E. Franzina, Gaspari, Udine, 2003, pp. 17 – 28; W. Rosner, La fortificazione degli altopiani trentini e l’offensiva del 1916, in 1916 – La Strafexpedition, a cura di V. Corà, P. Pozzato, Gaspari, Udine, 2003, pp. 73 – 87; R. Striffler, Von fort Maso bis Porta Manazzo. Bau – und kriegsgechichte der italianischen forts un batterien 1883 bis 1916, Verlag Nienesberg Verlag, Nurnberg, 2004; G. M. Tabarelli, I forti austriaci in Trentino, Temi, Trento, 1988.

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Paolo Bortot del 2005 e l’anno successivo l’opera postuma di Mario Puercher sul forte Belvedere.

I saggi di Rosner, pur avvalendosi di fonti archivistiche inedite, presentano gravi errori dovuti alla poca conoscenza della storia militare italiana. Eppure leggendo un saggio di Mazzetti3 o di Ruffo4, l’autore si sarebbe reso conto chiaramente che i forti italiani erano stati costruiti per scopi difensivi e non offensivi come sostenuto nei suoi saggi.

Il libro di Hentzschel, non introduce alcuna novità sul tema dei forti austriaci, utilizzando fonti già note. Il volume di Bortot risente dell’impostazione architettonica e non storica dell’autore, non inquadrando adeguatamente il periodo storico e tralasciando la descrizione della situazione italiana soffermandosi troppo sui particolari architettonici delle singole opere fortificate.

La guida di Puercher, pur con i limiti che può avere una pubblicazione del genere, fornisce molte informazioni sulla storia costruttiva e bellica della fortificazione austriaca. In merito, è esemplificativa la pubblicazione del diario del Forte Belvedere, fonte già utilizzata da chi scrive nel volume La guerra dei forti.

L’obiettivo di questo intervento è di fornire un’analisi comparativa ed aggiornata delle fortificazioni italiane ed austriache protagoniste della “Guerra dei forti”.

I forti italiani ed austriaci alla prova del fuoco: la grande guerra

Le ostilità cominciarono nella notte del 24 maggio 1915. Secondo il diario dello sbarramento Agno - Assa Agno - Posina fu aperto il fuoco contro i bersagli stabiliti il giorno prima. Secondo la testimonianza del colonnello Fabbri, “alle ore 3.55 del maggio, il forte Verena, con due colpi squillanti, metallici, laceranti, che attraversarono il cielo

3 M. Mazzetti, I piani di guerra contro l’Austria dal 1866 alla prima guerra mondiale, in L’Esercito italiano dall’unità alla grande guerra, Roma, 1980, pp. 161 – 182; M. Mazzetti, L’importanza strategica del Trentino dal 1866 alla 1ª guerra mondiale, in La prima guerra mondiale e il trentino, a cura di S. Benvenuti, Edizioni Comprensorio della Vallagarina, Rovereto, 1980, pp. 25 – 44.

4 M. Ruffo, L’Italia nella Triplice Alleanza. I piani operativi dello SM verso l’Austria Ungheria dal 1885 al 1915, Roma, 1998.

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azzurro, intona l’inno di guerra. A distanza di pochi secondi, rispondono, da lontano, i cannoni di Campolongo e Cima Corbin”5.

Nei primi giorni di guerra, i forti interessati dalle operazioni belliche furono quelli situati tra la provincia di Vicenza e quella di Trento, mentre tutti gli altri, ad esempio quelli di Verona6, della Valsugana7 e del Friuli8 non spararono mai un colpo, essendo le prime linee molto lontane dalle loro dislocazioni. Nelle settimane successive vennero tutti disarmati, data la scarsità di bocche da fuoco in seno all’esercito italiano.

Le opere interessate dalle operazioni belliche furono i forti italiani Campolongo9, Punta Corbin10, Verena11 nell’altipiano di Asiago e le opere austriache di Spitz Verle, Busa Verle, Luserna, Cherle, Sommo Alto e Doss del Sommo.

Le condizioni di vita nei forti austriaci sotto i bombardamenti furono descritte da due protagonisti, l’aspirante ufficiale Fritz Weber e l’alfiere Luis Trenker. Così Weber

5 U. Fabbri, Sulle Cime, 10º Reggimento Alpini, Roma, 1935, p. 9.

6 Per maggiori informazioni sulle fortificazioni italiane di quella zona si rimanda a Comando FTASE – HQ – LANDSOUTH, Le fortificazioni nel veronese, evoluzione ed armamento, a cura di U. Pelosio, Verona, 1986; L. Malatesta, I forti italiani nella provincia di Verona dall’unità alla grande guerra, in Forte Rivon, n. 13, Schio, 2012; F. Meneghelli, M. Valdinoci, Il sistema difensivo della Lessinia, Orion Edizioni, Montorio Veronese, 2010.

7 Per approfondimenti in materia delle fortificazioni italiane ed austriache della zona si rimanda a W. A. Dolezal, I forti dimenticati, Pilotto, Feltre, 1999; L. Girotto, Forte Tombion. La sentinella del Canal del Brenta, Litodelta, Scurelle, 2008; L. Girotto, 1866 – 1918. Soldati e fortezze tra Asiago ed il Grappa, Rossato, Novale – Valdagno, 2002; L. Girotto, I forti di Primolano.Un “Giano bifronte”, Sily Edizioni, Scurelle, 2010; L. Malatesta, La linea fortificata Brenta – Cismon dal 1870 alla 1ª guerra mondiale, in Dolomiti, n. 2, Belluno, 2004, pp. 7 – 23; L. Malatesta, Lo sbarramento austriaco della Valsugana: dai forti dell’800 allo Sperre Grigno, Quaderni della Fondazione Museo Storico del Nastro Azzurro, n. 1, Salò, 2012.

8 Per approfondimenti in materia si rimanda a R. Cuttini, Le fortezze del Tagliamento e l’opera di Col Roncone a Rive d’Arcano. Storia, conservazione, progetto, Arti Grafiche Fulvio, Udine, 2008; . Ebner, Fort Hensel. Il forte di Malborghetto durante la prima guerra mondiale, Edizioni Saisera, Valbruna, 2010; L. Malatesta, Le opere fortificate della grande guerra in Friuli, in Memorie Storiche Forogiuliesi, n. LXXXIII/MM R III, Arti Grafiche Friulane, Udine, 2004, pp. 191 – 240; L. Malatesta, Lo sbarramento austroungarico di Malborghetto: il forte Hensel, in Forte Rivon, n. 12, Schio, 2011, pp. 60 – 83; W. Schaumann, Valutazione tattico – operativa del confine carinziano nel contesto dell’Austria, in Confine orientale e strategia difensiva prima della grande guerra, Arti Grafiche Friulane, Udine, 1997, cit., pp. 79 – 97; M. Simic, Utrdbi pod Rombonom predstraža soške fronte, Lubiana, 2005; R. Todero, Una visita al forte Hermann con l’ausilio dei disegni originali, in Aquile in Guerra, n. 10, Eurostampa, Fizzonasco, 2002, pp. 54 – 62; U. Weiss, Il forte Hensel a Malborghetto 1881 – 1916, Verlag und Gesamtherstellung, Graz, 2007.

9 L. Malatesta, Il forte di Cima Campolongo, in Forte Rivon, n. 10, Schio, 2009, pp. 80 – 98; L. Malatesta, Il forte di Cima Campolongo. Dal risorgimento alla Grande Guerra, la storia di una fortificazione italiana di montagna , Temi, Trento, 2009.

10 L. Malatesta, Il difensore della val d’Astico: il forte di Punta Corbin. La storia costruttiva e bellica di un’opera permanente della grande guerra, Temi, Trento, 2010; L. Malatesta, Il forte italiano di Punta Corbin: la sua storia costruttiva e bellica, in Forte Rivon, n. 9, Schio, 2008, pp. 32 – 53;

11 L. Malatesta, Il dramma del forte Verena, 12 giugno 1915. Nel 90° anniversario dalla distruzione del forte Verena le sconvolgenti verità provenienti dagli archivi militari, Temi, Trento, 2005; L. Malatesta, La drammatica vicende del forte Verena nel giugno 1915, in Forte Rivon, n. 6, Schio, 49 – 57.

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descriveva la sua esperienza: “Ogni tre minuti ci appiattiamo, mentre un esplosione lacera i nostri timpani. La testa ci gira come una trottola. Dopo sei ore di fuoco, dodici di sosta, quindi altre sei d’inferno, se prima non veniamo fatti a pezzi. Ogni tre minuti, una parte della nostra copertura vola in pezzi sotto il loro tiro”12.

Il Forte Verle, comandato del tenente Giebermann, aveva incassato circa 130 colpi da 280 mm in varie parti, con la perdita di alcuni uomini, ma non vi erano stati danni visibili tali da giustificare l’abbandono del forte. Alcuni colpi da 280 mm avevano frantumato due cupole corazzate mettendole fuori uso. Dal punto di vista psicologico, non vi erano stati danni ingenti, eccettuando l'episodio del comandante rifugiatosi in cantina ubriaco.

Questo ufficiale, che non aveva spiccate doti di comando, tanto che i soldati lo chiamavano “Gimpelmann”, ovvero sciocco. Verso le 11 di mattina il tenente chiamò a rapporto gli ufficiali della fortezza, (il tenente Partik, il sottotenente Papak ed il capo medico dottor Wunderer), comunicando loro di avere già informato il comando dello sbarramento circa la sua intenzione di sgomberare il forte13.

I tre ufficiali protestarono perché non c’erano dei validi motivi per l’abbandono del forte: questo atto sarebbe stato un tradimento.

Il comandante non volle sentire ragione. Riunì nuovamente gli ufficiali alle 15.20 consegnando loro un ordine scritto del comando di sbarramento di Lavarone che disponeva di sgomberare immediatamente l’opera corazzata lasciando un presidio minimo formato da un aspirante ufficiale, 4 sottoufficiali e 50 uomini. Lo sgombero doveva aver luogo di notte perché, durante il giorno, si poteva essere individuati dall’osservatorio del Forte Verena.

Giebermann aveva redatto un falso rapporto perché il Forte Verle, anche se bombardato pesantemente dagli Italiani, era ancora in grado di resistere. Pure il comando di sbarramento trascurò di verificare le condizioni e convinse il comando di zona

12 F. Weber, Tappe della disfatta, Mursia, Milano, 1991, pp. 17-18.

13 Collezione Pozzato (C.P.), Copia in compendio del rapporto sul previsto abbandono e sgombero della forte Verle, s.l., s.d.

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di essere ancora in grado di resistere. L’abbandono dell’opera sarebbe stata una decisione assurda e avrebbe aperto una via per Trento.

Il giorno successivo, dopo che gli ufficiali si erano presentati al comandante dello sbarramento per spiegare la reale situazione, fu dato l’ordine di far rientrare tutti gli uomini che si erano allontanati dalla fortezza. Il tenente Giebermann si rifiutò di tornare dai soldati e per questo venne arrestato su ordine del Comando dello sbarramento e deferito al Tribunale Militare di Trento. Venne nominato nuovo comandante, il tenente Papak.

Il 28 maggio, dopo il tentativo di sgombero del Forte Busa Verle, si verificò un altro episodio analogo a quello del Forte Luserna.

Il primo giorno di guerra il Luserna fu colpito da proiettili da 149 mm. Il 25 maggio, la prima giornata di bombardamento pesante con obici da 280 mm, 210 mm e da 149 mm, si verificò la disfunzione dell’apparato di ventilazione. Il comandante dell’opera, tenente Emanuel Nebesar, diede i primi segni di depressione14.

Il 27 maggio Nebesar riferì falsamente al comandante del “Sperrkommando”, colonnello Terboglav, che i danni del forte erano gravissimi e che non era più possibile restare all’interno. La risposta del colonnello fu affermativa e, nella notte, il comandante del Luserna diede l’ordine di abbandonare la fortezza e di ritirarsi sulle posizioni di Wiaz e di Oberwiesen.

Dopo tre giorni e tre notti di bombardamento intenso, quasi tutte le torri corazzate risultarono inservibili. C’erano squarci profondi sulla copertura, che facevano temere che una granata potesse infilarsi in uno dei fori facendo così esplodere il deposito di benzina e quello delle munizioni: una prospettiva che terrorizzava tutta la guarnigione, compreso il comandante tenente Nebesar15. Essendo state distrutte le linee telefoniche, il forte era isolato, e non poteva chiedere aiuto alle opere vicine, anch’esse erano sotto il fuoco italiano.

Il 28 maggio, dopo un bombardamento continuo con obici da 280 mm, la copertura del forte fu sfondata, Nebesar vide in questo danno un buon motivo per ordinare l’abbandono del forte. Durante il consiglio di guerra tenuto per questo scopo, il tenente

14 Archivio del Centro di Documentazione di Luserna (A.C.D.L.), diario del forte Luserna, allegati , s.l., s.d.

15 U. Mattalia, La guerra dei forti 1915-1916, Tipografia Valsugana, Levico, 1981, p. 26.

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Singer accettò l’ordine del comandante; venne quindi issata la bandiera bianca e, successivamente, Singer, assieme ai suoi colleghi Deutschamm e Wolfrum chiese di restare all’interno del forte, proposta che Nebesar respinse, allegando l’ordine emanato dal comando dello sbarramento16. Alle 16.30, sia le truppe italiane, sia quelle avversarie videro sventolare sulla copertura dell’opera la bandiera bianca della resa. Secondo la testimonianza di Weber, queste furono le loro sensazioni al Forte Verle: “Verso le ore 16, l’osservatore di servizio nella torretta corazzata, comunicava che quattro bandiere bianche sono state issate su Luserna.

Non possiamo credere alla cosa e fremiamo di sdegno. Se uno dei forti cade tutta la linea va in pezzi. La campana d’allarme squilla. In pochi minuti centinaia di uomini corrono lungo i corridoi, salgono le scale di ferro, raggiungono i loro posti. Su Luserna sventolavano effettivamente quattro bandiere bianche, visibili a occhi nudo”17. Trenker, che era incaricato di ripristinare le comunicazioni telefoniche con il Forte Luserna e si trovava alle pendici di Costalta, ricordò così questo episodio: “Verso le ore 16.00 sono al controllo di tappa quando all’improvviso il rombo delle esplosioni in arrivo da Luserna ammutolisce. Alzo lo sguardo. Nessuna nuvola di fuoco sul forte. Ma allora! È impossibile! Il mio binocolo vola fuori dal suo astuccio. Una bandiera bianca sventola là nel vento! Non mi sbaglio la vedo tanto chiaramente che potrebbe essere alla distanza di trenta passi, appesa ad un’asta sventola nel centro una grande bandiera bianca! È una pazzia! Se Luserna cade, tutto è perduto. Se solo un forte non è più in nostra mano, lo sbarramento doveva essere abbandonato. Lo so proprio come lo sa ogni altro, e deve saperlo prima di tutti il comandante del Luserna! Si tratta di pazzia o di tradimento! Il comandante di Luserna è un ceco!”18.

Non appena gli italiani videro la bandiera bianca, immediatamente cessarono il fuoco su ordine del Comandante dello sbarramento, generale Angelozzi, che quel giorno era in visita al Forte Verena.

16 Ibidem.

17 F. Weber, Tappe, cit., p. 24.

18 L. Trenker, Sperrfort, cit, p. 192.

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Il forte Belvedere, accortosi della bandiera di resa, cominciò a sparare sul precampo del Luserna per fare in modo che le truppe italiane non potessero avvicinarsi all’opera. Il tenente Nebesar aveva incaricato il medico del forte, dottor Gasperi, che essendo trentino parlava l’italiano, di compiere il rito della resa, pensando che i nemici fossero poco lontani. Non era così. Gli italiani schierati nella piana di Vezzena, la brigata Ivrea e il battaglione alpini Bassano, erano molto lontani dal Luserna. Il tenente colonnello Franchi, comandante del 2º battaglione del 161º reggimento fanteria, spiegò così la mancata avanzata italiana in direzione della fortezza avversaria: “gli occhi di noi tutti con incuriosito stupore erano rivolti a quel drappo di pace. Segno di resa? Tranello? Ma quasi immediatamente, a punizione di quella sua strana iniziativa, il forte veniva fatto bersaglio di violento fuoco di shrapnel dal più lontano forte austriaco di Belvedere; e la bandiera bianca ripiegò. Ma quella bandiera bianca aveva lasciato in noi una grande curiosità, una speranza, un sospetto, una certa quale suggestione”19.

Sotto il bombardamento dei forti Busa Verle e Belvedere, una pattuglia austriaca formata da uno studente diciottenne di Merano, Jöchler, e altri due uomini, correndo nel bosco riuscì a strappare la bandiera definita dagli imperiali della vergogna,. Il comandante Nebesar fu subito arrestato su ordine del capitano Bauer, comandante di settore, che lo consegnò al comandante dello sbarramento.

Il 30 maggio, il colonnello Terboglav fu collocato a riposo, a causa dell’inadeguatezza della sua opera di acquisizione di informazioni sul reale stato del Luserna. Alla fine di maggio iniziò la raccolta di testimonianze sul grave episodio da parte del tribunale militare di Trento, auditore il trentino Augusto Tommasini. Nel 1923 egli scrisse un libro intitolato Ricordi del Tribunale di guerra a Trento 1914-1918, nel quale raccontò le vicissitudini di Nebesar. Furono ascoltati tutti gli ufficiali e circa 150 soldati dell’opera20. Nebesar, che era boemo, dopo esser stato arrestato, fu condotto a Trento dal comandante della fortezza al quale chiese il permesso e l’arma per potersi uccidere. Considerato pazzo, fu ricoverato all’ospedale militare di Trento.

19 G. Franchi, Piccole luci nella grande gloria, Edizioni dell’Eridano, Torino, 1936, p. 17.

20 A. Tommasini, Ricordi del Tribunale di guerra a Trento 1914-1918, Arti Grafiche Tridentum, Trento, 1923, p. 115.

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In seguito, contro di lui e i suoi ufficiali venne celebrato il processo con l’imputazione di vigliaccheria e resa di una piazzaforte senza essere costretti dalle necessità21.

I soldati del forte, interrogati, descrissero il fatto in qualità di testimoni. La deposizione di Nebesar collimava con quello che avevano dichiarato i suoi subalterni, e cioè che il forte era totalmente accerchiato dalle truppe italiane e che la resistenza sarebbe stata inutile. Il comandante dichiarò che temeva una rivolta dei soldati: sentendosi sepolti vivi, non avrebbero più ubbidito ai suoi ordini22.

Il processo istruttorio fu molto lungo, la perizia medica del dottor Dejava dichiarò Nebesar pienamente conscio delle sue azioni al momento della resa. A conclusione del dibattimento processuale vennero assolti sia gli ufficiali sia il comandante. Nella sentenza, Nebesar fu ritenuto non responsabile del grave atto attribuitogli perché affranto e indebolito nelle facoltà mentali da tre giorni di bombardamento. La sentenza di assoluzione non venne confermata dal comandante del tribunale, e il processo fu quindi ripetuto con lo stesso esito del primo. Esempio della debolezza delle opere italiane fu il dramma del Forte Verena.

Alle 14.40, del 12 giugno 1915, il forte fu colpito da un proiettile d’obice da 305 mm, che penetrò tra la terza cupola e il muro anteriore dell’opera andando a scoppiare in corrispondenza di questa parte, demolendo il muro. Un terrapieno di resistenza. Quest’ultimo si rilevò insufficiente a livello strutturale poiché era di semplice muratura di pietrame diviso da intercapedine. Cadde anche il muro interno opposto, mentre rimanevano integri, o quasi, i muri o piedritti laterali e la rispettiva volta su cui posava la terza installazione23.

Rimasero uccisi tre ufficiali: il comandante del forte, Carlo Trucchetti, i sottotenenti Pietro Pace e Mario Colletti, 2 sottufficiali, 5 graduati di truppa e 32 soldati24. La causa della morte di tutte queste persone era stato l’ammassamento di tutti gli uomini che si erano ritirati nel locale deposito dei proiettili. Durante il

21 Ivi, p. 117. 22 Ibidem.

23 L’ultima ora del forte Verena, a cura di R. Federle, s.l, s.e., p. 7.

24 L. Malatesta, Il dramma, cit., p. 145.

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bombardamento il proiettile entrò nell’opera sotto la terza cupola facendo crollare la volta del locale e uccidendo così i militari.

Il sergente Giovanni Sperotto, nativo di Fara Vicentino ed appartenente al 9º reggimento artiglieria da fortezza, 15ª compagnia, dislocata al Forte Verena; fu uno dei pochi soldati non coinvolti nel disastro perché, circa mezz’ora prima del tragico evento, ebbe un colloquio con il capitano Trucchetti che gli ordinò di effettuare un’ispezione all’esterno dell’opera per individuare la posizione da cui proveniva il tiro avversario. Così si esprimeva Trucchetti: “É da quasi un’ora che questo bombardamento è in fase crescente e temo che lo scopo sia quello di far salire sulla montagna reparti di truppa per circondarci, distruggerci i cannoni e farci prigionieri”25.

Sperotto, convinto di andare a morire, eseguì l’ordine prendendo con sé altri 3 artiglieri. Dopo un quarto d’ora dalla loro uscita dal forte, udirono alle loro spalle un enorme botto e videro che, dalla cima del monte, saliva in alto un densa colonna di fumo nera. Capirono che il Verena era stato colpito. In poco tempo raggiunsero il luogo dove trovarono alcuni artiglieri feriti, che aiutarono la pattuglia guidata da Sperotto per sgomberare i morti e dare un aiuto ai feriti.

Venne subito inviato il capitano d’artiglieria Luigi Grill, della sezione di Asiago, su sua espressa richiesta, per fare in modo che la batteria potesse riaprire il fuoco. Verso sera giunsero ad Asiago 17 feriti, mentre le squadre lavorarono tutta la notte per estrarre i corpi sotto il fuoco avversario26.

Il 3 luglio era iniziato il lavoro di una Commissione d’inchiesta, voluta dal Comando del Genio della 1ª armata, per appurare le responsabilità del disastro del Forte Verena. Tale Commissione era formata dal generale Angelozzi, dal colonnello Strazzeri e dal capitano Lastrico.

Dopo un’ispezione all’opera, eseguita in modo molto approfondito, si iniziò la ricerca dei responsabili della costruzione dell’opera, iniziata assieme al Campolongo nel 1911. In quel periodo, il comandante del genio di Verona era il generale Botteoni; il comandante territoriale era il colonnello Antonio Polleschi ,mentre il direttore dei lavori

25 Ivi, p. 134. 26 Ivi, p. 137.

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era il capitano del genio Angelo Abbate Daga. Questi era, fin al 1905, alla direzione di Verona e, prima di questi due forti, aveva diretto i lavori di costruzione del Punta Corbin.

Il generale Botteoni e il colonnello Polleschi non poterono essere sottoposti all’inchiesta, perché in posizione ausiliaria. L’unica persona inquisita fu il capitano Abbate Daga che era rimasto al Verena fino al 1913, quando venne trasferito alla direzione di Novara.

Il capitano fu accusato di non aver ottemperato alle direttive sulla costruzione delle opere fortificate emanate nel 1907 dal Comando generale del Genio perché, dall’ispezione, era emerso che la facciata del forte, dove era entrato il proiettile da 305 mm era costituita da pietrisco minuto e da cemento non adatto a tale impiego. L’impresa costruttrice di Bergamo aveva utilizzato un cemento non adatto, quindi Abbate Daga fu accusato di frode.

Il generale Angelozzi interrogò personalmente il capitano, per pressioni che venivano sia dal comandante del Genio dell’armata, sia dal comandante del V Corpo d’Armata. L’inchiesta terminò a metà luglio con il deferimento al Tribunale militare di Verona del capitano Abbate Daga27.

Dall’inchiesta emerse chiaramente che i forti italiani erano stati progettati e costruiti per poter resistere ai cannoni da 150 mm e questo, fu un grosso errore di valutazione da parte italiana.Dai primi giorni di luglio, la maggior parte delle fortificazioni italiane venne disarmata perché non più utile allo sforzo bellico. Il compito operativo di tali fortificazioni era stato assolto in parte e. data la grave carenza di artiglierie di medio e grosso calibro in seno all’esercito italiano, tutte le bocche da fuoco disponibili vennero utilizzate al fronte.

27 Ivi, p. 159 – 169.

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Nel corso dell’offensiva austriaca del maggio – giugno 1916 in Trentino, la c.d. Strafexpedition28, alcuni forti, Cornolò29 e Casa Ratti30 furono interessati dalle operazioni cadendo in mano avversaria senza colpo ferire.

Durante la ritirata di Caporetto, il forte di Monte Festa in val Fella31 e il Forte Cima di Campo in Valsugana32 furono protagonisti di due episodi di resistenza italiana.

Considerazioni conclusive Le fortificazioni italiane ed austriache assolsero il proprio compito? La risposta è

negativa. Le opere italiane, erano state costruite seguendo il modello Rocchi33 che già allo

scoppio del conflitto era antiquato rispetto alle artiglierie in uso. Facendo un paragone con l’architettura militare asburgica si vedranno molti aspetti in comune con i Gebirgsfort di Vogl che però, già dagli inizi del ‘900 non vennero più realizzati.

Il tallone d’Achille delle fortificazioni italiane stava nella copertura, progettata per poter resistere ai medi calibri, il 150 mm. Entrando nel dettaglio, lo spessore del cemento precompresso, non armato variava dai 2 ai 2.50 m, le cupole corazzate del diametro di 5 m a saetta molto ridotta erano schiacciate per sfuggire ai tiri di lancio. Il

28 Per maggiori informazioni sulla battaglia rimando a E. Acerbi, Strafexpedition, Rossato, Novale – Valdagno, 1992; G. Artl, Die österreichisch – ungarische Südtirol offensive 1916, Vienna, 1983; G. Baj Macario, Strafexpedition, Corbaccio, Milano, 1934; R. Bencivenga, La sorpresa di Asiago e di Gorizia, Tipografia della Madre di Dio, Roma, 1932; 1916 – La Strafexpedition, a cura di V. Corà, P. Pozzato, Udine, 2003; L. Malatesta, Altipiani di Fuoco. La Strafexpedition del maggio – giugno 1916 in Trentino, Istrit, Treviso, 2009; L. Malatesta, L’esercito italiano alla prova della Strafexpedition: la sua efficienza bellica, in Associazione Archivio Biblioteca Dall’Ovo – Onlus, Annali, n° 1, 2011, Bergamo, 2011, pp. 51 – 78; Ministero della difesa, Sme, Ufficio Storico, L’esercito italiano nella grande guerra, vol. 3°, Le operazioni del 1916, L’offensiva austriaca, tomo 2°, 2° bis, 2° ter, Roma, 1936; H J. Patenius, Der angriffsgedanke gegen italien bei Conrad von Hötzendorf, Böhau Verlag, Vienna – Colonia, 1984.

29 Per maggiori informazioni sulla storia della fortificazione rimando a L. Malatesta, Forte Cornolò e la difesa della val Posina durante il 1° conflitto mondiale, in Forte Rivon, n. 8, Schio, 2007, pp. 57 – 73.

30 E. Acerbi, La cattura di Forte Ratti bugie e verità, Rossato, Novale – Valdagno, 1998; L. Malatesta, Il forte italiano di Casa Ratti: la costruzione, l’impiego bellico e la sua cattura durante la Strafexpedition, in Forte Rivon, n. 7, Schio, 2006, pp. 36 – 51.

31 Per maggiori informazioni sulla difesa del forte rimando a A. Faleschini, La difesa di monte Festa, Del Bianco, Udine, 1941; A. Gransinigh, La guerra sulle alpi Carniche e Giulie, Aquileia, Udine, 1994; S. Murari, Un episodio di guerra nelle prealpi Carniche, Mondadori, Milano, 1935; V. Prunari Tola, Le divisioni della Carnia di fronte all’invasione, Bodomina, Parma, 1928; T. Trevisan, Gli ultimi giorni dell’armata perduta. La grande guerra nelle prealpi carniche, Gaspari, Udine, 2002.

32 Per ulteriori informazioni sull’argomento rimando a L. Girotto, 1866 – 1918. Soldati e fortezze tra Asiago ed il Grappa, Rossato, Novale – Valdagno, 2002; L. Malatesta, Il forte Cima di Campo in Valsugana: storia costruttiva ed impiego bellico, in Forte Rivon, n. 11, Schio, 2010, pp. 48 – 69.

33 L. Malatesta, Gli studi del generale Enrico Rocchi e il suo modello costruttivo, in Castellum, n. 44, Milano, 2002, pp. 29 – 38.

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cannone sporgeva completamente dalla torre e l’avancorazza era annegata nel cemento per un solo metro. I 4 o 6 cannoni erano disposti in linea retta.

“I nostri forti dovevano costituire delle potenti batterie chiuse, al sicuro dalle offese e dalle sorprese, ispirate al criterio dell’economia e della robustezza, capaci di battere, fino a distruggerle, le opere avversarie, e di controbatterne le artiglierie, esercitando così la loro azione contro bersagli resistenti, ed essendo ancora in grado di assicurare il fiancheggiamento tra opera e opera.

Quindi armamento potente ad azione lontana (cannoni da 149 A), con esteso campo di tiro azimutale, robustamente protetto in costruzioni alla prova di limitato sviluppo e provviste dello stretto indispensabile ad assicurare il funzionamento delle artiglierie”34.

La collocazione geografica delle opere, di solito in posizioni dominanti valli o strade, erano facilmente individuabili dai nemici.

Durante i primi mesi di guerra, i danni maggiori le opere italiane li subirono nella copertura: vennero sfondate parti ed anche alcune cupole forate. Le installazioni in pozzi, fossero state Schneider, Armstrong, Ispettorato, Grillo non subirono molti danni perché il metallo resistette ma furono ammaccate o spostate dalla loro installazione.

Le cupole si scoperchiarono perché il proiettile scoppiò in prossimità della base della torre vicino all’avancorazza, il lato debole. La rigidità dell’installazione rappresentava sia un pregio che un limite: gli urti ricevuti si ripercuotevano completamente sui suoi organi, provocando delle forti sollecitazioni, superiori 20 volte rispetto a quelle previste35.

I danni alle murature furono provocati dal tiro dei grossi calibri austroungarici, 381 e 420 mm che colpirono i forti Campolongo, Punta Corbin e Verena nei primi giorni dell’offensiva del 1916. Questi grossi proiettili forarono come se le strutture cementizie fossero di burro.

Le opere austriache, in alcuni casi, Busa Verle e Luserna, furono sul punto di capitolare. Le loro coperture, i dati parlano chiaro, non resistettero al tiro dei grossi calibri italiani, 280 e 305 mm perché furono i primi ad essere costruiti negli anni 1907 – 1910, mentre gli altri della Cintura dei forti degli altipiani (Belvedere, Cherle, Doss del Sommo e Sommo Alto) edificati negli anni successivi, avevano uno spessore maggiore

34 G. Cirincione, Considerazioni e deduzioni tratte dal comportamento delle opere permanenti sulla fronte trentina durante la grande guerra, in Rivista di Artiglieria e Genio, vol. 2, Stabilimento Tipografico, Roma, 1923, p. 155.

35 Per ulteriori informazioni sulla resistenza delle cupole corazzate e sul suo sviluppo nel primo dopoguerra rimando a A. Guidetti, Studio della trasformazione delle installazioni a pozzi tipo S in casamatte girevoli della fortificazione odierna, in Rivista di Artiglieria e Genio, vol. 3, Stabilimento Poligrafico, Roma, 1920, pp. 172 – 214.

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della copertura, ben 3,50 m. Un punto debole fu nelle guarnigioni, formate da personale anziano e poco addestrato che, sotto le pressioni psicologiche dei bombardamenti nemici, in alcuni casi, crollò. Tali guarnigioni assolsero il loro compito difensivo.

Per quanto attiene, invece, a quello offensivo, solamente grazie al fondamentale aiuto dei grossi calibri riuscirono a distruggere le contrapposte fortificazioni solo un anno dopo, quando erano già disarmati.

Nel complesso, tutti e due i sistemi difensivi non ebbero un peso determinante per il conflitto perché, secondo i piani operativi anteguerra, dovevano assolvere compiti marginali nel primo periodo di guerra per poi esser scavalcati dalle truppe in linea.

Già durante il conflitto mondiale si vide che queste forme architettoniche erano superate rispetto ad un conflitto moderno. Erano più efficaci in una guerra di posizione le fortificazioni campali come le trincee. L’esperienza della guerra fece in modo che negli Anni ’20 ci fu un ampio dibattito sulle nuove forme di fortificazione permanente che portò, dagli Anni ’30 alla costruzione del Vallo Alpino del Littorio36. L’autore ringrazia per la collaborazione l’Archivio Provinciale di Bolzano, il Centro di Documentazione di Luserna, l’Ufficio Storico dell’Esercito.

36 Per maggiori informazioni sull’argomento rimando a D. Bagnaschino, Il Vallo Alpino a Cima Marta, Atene Edizioni, Arma di Taggia, 2002; D. Bagnaschino, Il Vallo Alpino: le armi, Associazione per lo Studio del Vallo Alpino del Littorio, Ventimiglia, 1996; D. Bagnaschino, M. Amalberti e A. Fiore, La linea Maginot del mare, Melli, Borgone – Susa, 2007; D. Bagnaschino, P. G. Corino, Alta Roja fortificata, Melli, Borgone – Susa, 2001; A. Bernasconi, G. Muran, Il Testimone di cemento, La Nuova Base Editrice, Udine, 2009; A. Bernasconi, G. Muran, Le fortificazioni del Vallo Alpino Littorio in Alto Adige, Temi, Trento, 1999; P. G. Corino, VIII settore G.A.F. Il Vallo Alpino nella conca di Bardonecchia, Elena Morea Editore, Torino, 2008; P. G. Corino, L’opera in caverna del Vallo Alpino, Melli, Borgone – Susa, 1995; P. G. Corino, Valle Stura fortificata, Melli, Borgone – Susa, 1997; P. G. Corino, P. Gastaldo, La montagna fortificata, Melli, Borgone – Susa, 1995; A. Fenoglio, Il Vallo Alpino, Susa Libri, Cuneo, 1992.

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___________Storie @ Storia pag. 17_____________________________________

LA VITTORIA DI NIKOLAYEVKA

A CURA DI GIOVANNI CROSATO

Nel gennaio del 1943 l’ARMIR (Armata Italiana in Russia), che aveva sostituito il precedente CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), si trova a fronteggiare una situazione quasi disperata. I nostri soldati sul Don erano senza una seconda linea, ma tennero fino a che ciò fu possibile. Poi avviene il patatrac, lo sfacelo. L’attacco russo sfondò il fronte a lato degli alpini che furono, pertanto, costretti a ripiegare per sfuggire ai carri armati russi che li stavano chiudendo in una morsa mortale. Situazione aggravata perché l’ordine di ripiegare dal Don venne dato con molto ritardo.

Ecco che si potrebbe spiegare in poche espressioni quel ripiegamento come una vittoria di un esercito che colla forza della disperazione riesce a trovare la strada per rientrare alla propria Patria. Si potrebbe dire che contemporaneamente, o quasi, in quella steppa gelata v’erano due colonne di italiani. Una che si dirigeva verso ovest, colla speranza di rientrare a baita, e l’altra verso est, verso una meta sconosciuta, in quella che verrà chiamata la marcia del “davai”. La prima sarà quasi una qual anabasi degli alpini in terra russa, una scommessa quasi disperata di rompere quell’accerchiamento nemico.

Una sintesi estrema della situazione la delineerà il generale Nasci che, il 20 gennaio, annotò nel suo diario. «...Stremati e ridotti i battaglioni della Julia a meno di 150 uomini ciascuno; con solo pochi mezzi, scarsamente munizionati, del Gruppo Conegliano. Duramente provati tre dei cinque battaglioni della Cuneense, privi ormai di artiglierie. La divisione Vicenza non è per costituzione unità adatta a operare nelle gravissime circostanze del momento. Rimane a me più vicina e più salda la divisione Tridentina rinforzata da pochi ma preziosi carri armati e semoventi tedeschi».

Sarebbero innumerevoli gli episodi che si potrebbero citare. Innumerevoli le persone che si dovrebbero riportare. Da quel zoppolano, quindi friulano e pordenonese,

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Aldo Bortolussi. In Patria era baritono nei cori della sua parrocchia e di Conegliano, ma di lui resta anche un busto nell’atrio del suo Comune a ricordo della sua medaglia d’oro al Valor Militare. Colpito a morte dalle schegge di una granata oltre a chiedere lumi del suo commilitone ha la forza di proferire un “torneremo a cantare le nostre canzoni”. O come quell’alpino che rischiava di morire nell’estremo sacrificio di volersi trascinare appresso la salma di un suo commilitone ch’era anche suo vicino di casa. Dovutolo abbandonare non sapeva darsi pace pensando a come avrebbe potuto ancora salutare quella madre che lo aspettava e che non avrebbe, ora, neanche avuto il conforto di potere piangerne la salma.

Se in Italia si diceva che “pietà l’è morta”, in quelle estreme e desolate terre russe, con una temperatura di decine di gradi sotto lo zero, la pietas era ben viva e presente. Come ben dimostrava quel sacerdote che poi venne ad essere quasi eletto a proprio patrono dagli alpini: don Carlo Gnocchi. Inutile anche solo cercare di sintetizzare la sua persona, in quanto non sarebbe certo sufficiente neanche tutto il presente giornale. Volontario in guerra, ma non perché vi credesse bensì solo per essere appresso a quei giovani soldati, descrisse delle pagine memorabili in quel ripiegamento. E gli alpini gli furono sempre immensamente grati. In un’occasione, mentre stava trascinandosi appresso un commilitone ferito gravemente, era stato distanziato dal resto della truppa. Una volta che il ferito decedette ne benedisse la salma. Quindi si rivolse ad alcuni soldati, non italiani, che gli stavano vicini chiedendo loro una crosta di pane da mangiare. Avutane in risposta quasi ringhiata non rispose in malo modo, ma anzi li benedisse. Sarebbe poi morto in quella terra estrema se non fosse stato raccolto da alcuni alpini del Battaglione alpino L’Aquila che lo caricarono su una slitta e poi lo recarono in posto sicuro.

Non si fermarono manco per avere un ringraziamento, perché quello era lo spirito di quelle giornate: fare il proprio dovere senza avere una speranza o desiderio di medaglie. Lo riferisce anche Rigoni Stern nel suo resoconto autobiografico, Alla fine arriva l’ora del passare o morire, ovvero il 26 gennaio 1943, ovvero il giorno di Nikolajewka (o Nikolajewska secondo la grafia tedesca). Una battaglia epica con i russi che volevano chiudere definitivamente la sacca e gli alpini che dovevano attaccare per non vedersi chiudere la via per la patria.

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In questa giornata non possiamo certo dimenticare delle figure epiche come il generale Martinat, il quale una volta uscito da un’isba ove insieme ad altri ufficiali stava tratteggiando un’offensiva, si vide passare avanti il Battaglione Edolo. Occorrendo dare uno stimolo in quella situazione di stallo, che avrebbe potuto portare alla disfatta, prese un moschetto e al motto «Ho cominciato con l'"Edolo", voglio finire con l'"Edolo"» e si gettò anima e corpo nell’attacco urlando «Avanti alpini, avanti di là c'è l'Italia, avanti!». Morì in quell’attacco e venne sepolto dai russi, insieme ad altri 39 ufficiali e 3000 alpini, in grandi fosse comuni. Anche il generale Reverberi s’avvide che tutto, in quel pomeriggio, stava per essere perduto e balzò su un carro armato tedesco e lo fece lanciare contro il nemico sovietico. Tanto fece il suo incitamento con la voce, ma fu soprattutto quel gesto che elettrizzò la colonna che lo seguì entusiasticamente e arrivò a sfondare quelle linee nemiche. In quelle giornate sarebbero tanti gli episodi da citare.

Dal 17 al 31 gennaio gli alpini affrontano centinaia di chilometri pur di non arrendersi. Gli alpini camminano, combattono e muoiono a oltre quaranta gradi sotto zero. A volte arrancando per dodici ore nella steppa di ghiaccio ed andando all’arma bianca a conquistare un’isba per la notte.

Alla fine oltre trentamila coloro che ne porteranno un ricordo indelebile nelle carni, in quanto anche chi la scamperà ne avrà comunque l’esistenza segnata. Ma alla fine quell’accerchiamento lo rompono, ed ecco allora perché possiamo parlare di vittoria degli alpini e che il tutto si potrebbe sintetizzare in quella frase di un contestato, e più volte negato, bollettino russo: “ ... soltanto il Corpo d'armata alpino deve ritenersi imbattuto sul suolo di Russia..”.

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__________________________Storie @ Storia pag. 20______________________

IL BIS DI BERENICE

A CURA DI MARIO CONFORTI

Pochi sanno che nel Golfo di Trieste c'é una nave fantasma. Esattamente 200 anni fa (il 17.09.1812) durante uno scontro navale poco a largo di Duino, la goletta francese Berenice veniva attaccata e affondata dalla fregata inglese Indomitable; un episodio dimenticato del periodo delle provincie illiriche, quando Napoleone dominava l'Europa con le sue armate. Trieste faceva parte di un'unità amministrativa con capitale Lubiana e la città confinava con il Regno d'Italia. Di quel naufragio avvenuto solo sette mesi dopo la più nota battaglia di Grado in cui colò a picco il brick italo-francese Mercurio (oggi importante sito archeologico sommerso) non vi è ricordo.

La goletta Berenice era impegnata, con i suoi 8 cannoni, per azioni di corsa e pattugliamento, quando venne intercettata, alle ore 02.25 del 17.09.1812,

dall'Indomitable, impegnata a sua volta nel blocco navale imposto dall'Inghilterra. La goletta francese avvistò l'altra nave ma la scambiò per la fregata francese Lothringen e proseguì incurante nella navigazione nell'oscurità. Gli Inglesi, appena avvistata la nave e identificata per nemica, tagliavano

sopravvento la rotta della goletta e alle ore 03.50 aprirono il fuoco con i cannoni di sinistra. La Berenice, gravemente colpita, accostò di 185 gradi a sinistra, puntando verso la costa più vicina, sparando con i cannoni di poppa, cercando di raggiungere il tratto di mare protetto dalla batteria costiera del Castello di Duino. La Indomitable accostò di 90 gradi a sinistra e sparò un'altra bordata con i cannoni di prora. La Berenice fu nuovamente colpita e cominciò ad imbarcare acqua. Intanto dagli spalti del Castello di Duino la difesa aprì il fuoco ed i colpi caddero vicino alla fregata inglese, che si portò

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velocemente fuori tiro. Intanto la Berenice affondò. Poco prima delle 4.30 era tutto finito.

Dopo più di 100 anni la Regia Marina Militare ordinò a vari cantieri navali la costruzione delle corvette classe "Gabbiano" da impiegare nella scorta dei numerosi convogli verso la Libia. Detta necessità divenne impellente nel 1941 quando si decise la costruzione di 60 unità, adatte anche alla caccia ai sommergibili. Furono navi molto versatili, dotate di ecogoniometro e di un potente armamento, si rivelarono le migliori e le più moderne tra le unità della Regia Marina. Molte, sopravissute agli eventi bellici, costituiranno l'ossatura della Marina Militare, restando in servizio fino agli anni '70. La propulsione, oltre ai motori diesel per la marcia normale, prevedeva due motori elettrici per la marcia silenziosa al fine di consentire all'unità, durante la caccia ai sommergibili, di eseguire la ricerca nella quasi totale assenza di vibrazioni e di sorgenti rumorose, rendendo così più facile avvicinarsi all'obiettivo senza essere scoperti. Le unità vennero costruite in 5 serie: Gabbiano (nomi di uccelli marini – 12 unità), Ape (nomi di insetti – 12 unità), Antilope (nomi di mammiferi – 9 unità), Artemide (nomi mitologici femminili – 18 unità) e Scimitarra (nomi di armi – 9 unità).

La corvetta Berenice (distintivo ottivo C66), della serie Artemide, fu costruita dai Cantieri Navali "C.R.D.A." di Monfalcone.

Appena uscita dallo scalo, nel maggio del 1943, attendendo l'ordine di recarsi a Pola per l'applicazione dei tubi lancia siluri, ormeggiò a Trieste. Al largo del Vallone di Muggia si trovavano alla fonda le navi scuola Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci.

La notte del 9 settembre 1943, i Tedeschi evvero l'ordine di stare in guardia e impedire l'uscita dal Porto di Trieste di qualsiasi unità italiana. Quando le unità italiane presenti ricevettero il cablogramma che ordinava di lasciare il porto, la nave Ramb III salpò le ancore, ma i Tedeschi a bordo del vicino piroscafo armato Knudsen aprirono il fuoco e, mentre gli italiani rispondevano con la mitragliera e approntando il cannone a poppa, salirono a bordo catturando l'equipaggio e sistemandosi, a loro volta, alle armi. Nel frattempo la corvetta Berenice tentava l'uscita in mare.

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Le due navi in mano ai Tedeschi e un cannone antiaereo sulla strada di Opicina iniziarono a battere la corvetta.

Il primo colpo del cannone antiaereo mise fuori uso il timone e la Berenice, che iniziò a girare su sè stessa, divenne facile bersaglio e ben presto affondò con quasi tutto

il suo equipaggio (vi furono 17 superstiti su 97 membri dell'equipaggio).

Il relitto della Berenice fu recuperato solo otto anni dopo (nel 1951), permettendo il ritrovamento dei resti di numerosi marinai morti.

I caduti della Berenice sono ricordati da un monumento presso il Cimitero Monumentale di S. Anna a Trieste.

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BUS DE LA LUM

A CURA DI BRUNO VAJENTE

L’Altopiano del Cansiglio, di natura calcarea e carsica, è costituito da una vasta conca ellittica, con al centro un immenso pianoro verdeggiante. Gran parte dell’Altopiano è occupato dalla foresta demaniale del Consiglio, ricca di faggi, abeti bianchi e rossi, larici. Vi si accede da Vittorio Veneto o da Sarone, frazione del comune di Caneva, oppure deviando dalla Statale 51 Alemagna in località La Secca puntando su Farra e poi Tambre.

L’Altopiano ha un’altitudine che oscilla intorno ai 1000 mt. e vi si trovano i confini di ben tre provincie: Treviso, Belluno e Pordenone. Il terreno presenta vari inghiottitoi, doline, pozzi, voragini e cavità delle quali la più famosa è il BUS DE LA LUM, che nel 1924 vantava una profondità di 225 mt, forse con funzione di sistema idrico.

Nella leggenda il Bus de la Lum è la dimora della fate Andane, fate mostruose con chiodi al posto dei capelli e zanne al posto dei denti; si dice che esse uscissero prima che il sole sorgesse in cerca di cibo o legna per scaldarsi e rapissero i fanciulli che incontravano nei boschi; poi si radunassero e si accendessero dei fuochi che, visti in lontananza dai pastori Cimbri, li indussero a chiamare la voragine Bus de la Lum.

Altre leggende che si perdono nei secoli dicono che il nome derivi dai fuochi fatui che durante le calde notti dopo la peste del ‘700 salivano nell’aria dalle carogne degli animali morti, gettati nel fondo della voragine. Altre leggende, peraltro mai confermate, affermano che sarebbe in comunicazione attraverso una serie di condotti sotterranei ed un complesso sistema idrico con le inesplorate sorgenti del Gorgazzo.

Oggi il Bus de la Lum è solo un luogo da esorcizzare come ha tentato il parroco di Tambre, don Corinno Mares, con la gigantesca Croce Nera eretta sul bordo del baratro. Sul Bus de la Lum aleggia un brivido fatto di paure, di ricatti, di timori, perché molti

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sanno ma pochi parlano su ciò che è avvenuto veramente lì durante la guerra civile 1943/1945.

Nel bosco del Cansiglio, ove operava la Divisione Garibaldina “NINO NANNETTI”, a poche centinaia di metri dall’albergo San Marco, sede del Comando partigiano, si apre un orrido inghiottitoio, il Bus de la Lum, una foiba di origine carsica profonda m.225 (Rif.

Commissione Grotte E.Boegan n.153 Fr.). Questa foiba, negli anni 1944-1945, fu usata come luogo di eliminazione di civili e militari, giudicati dalle formazioni partigiani come spie.

Un numero non indifferente (come riferito dallo speleologo S.Mosetti che scese nel Bus nel 1950) di corpi di uomini e di donne finirono nel fondo nero della voragine tra urla disperate ed orribili schianti. Su di loro scese il “silenzio dei vivi”, ma, con una lunga battaglia per la verità

storica e per la loro dignità si dà voce alla loro sete di giustizia e di pace.

“SILENTES LOQUIMUR” … Silenziosamente parliamo… la loro storia, la storia delle loro vite e della loro tragica morte... Ma quante furono le vittime di questa foiba?

Di preciso non si sa… dal documento della Procura della Repubblica di Pordenone del 24.4.1950 si evince che furono recuperati 28 corpi dalla spedizione del Gruppo Speleologico Triestino.

Il 10 Maggio 1992, grazie al Gruppo SOLVE CAI di Belluno,altri 64 resti, come da verbale CC di Caneva, vennero recuperati e, grazie al Commissariato Onoranze Caduti del Ministero della Difesa, riposti nel cimitero di Caneva sotto una lastra rosata sulla quale viene ricordato il Centro Studi “Silentes Loquimur” e la data del recupero.

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___________Storie @ Storia pag. 25_____________________________________

I GIORNI DELLA MERLA

PROPOSTE EDITORIALI

La memoria storica attesta che i venti mesi che vanno dal settembre del 1943 all'aprile 1945 furono tra i più oscuri e sanguinosi dell'intera Storia d'Italia. Gli atti di valore, e anche i delitti più efferati, furono da ambo le parti numerosissimi, e lasciarono un triste strascico che si manifestò anche dopo la fine della guerra fino al 1948, costellato da episodi criminosi che insanguinarono le nostre contrade. Il triste ricordo degli eccidî bestiali perpetrati dalle bande comuniste, nel famigerato «Triangolo della morte» in Emilia-Romagna, richiama alla mente gli orrori della

guerra fratricida. 10000 le persone uccise: questo è il sanguinoso bilancio delle giornate che videro la fine della guerra civile in Emilia.

Le stragi volute, organizzate ed eseguite da uomini del Partito Comunista portarono a 3.000 i massacrati nel bolognese, 2.000 nel reggiano, 2.000 nel modenese, 1.300 nel ferrarese, 600 nella provincia di Piacenza, 500 in quella di Ravenna, 200 nel forlinese e 600 nel parmense, dovuto alla presenza di centinaia di vecchi esponenti comunisti Con l'arrivo delle truppe alleate a Bologna gli enti locali, i sindacati, le cooperative, gli organi di polizia passarono nelle mani di uomini di fiducia del Partito Comunista. Giorni di terrore si abbatterono sulla popolazione. Antichi rancori, vendette personali e odio politico si fusero esplodendo in un'atroce, incredibile e inarrestabile catena di omicidi, stragi collettive e angherie senza nome.

Nel modenese ebbe il suo epicentro nel «Triangolo della morte», cioè nella zona compresa tra i centri di Castelfranco Emiliano e Spilamberto nel modenese, e San Giovanni in Persiceto nel bolognese. L’autore, attraverso la ricerca di documenti e la

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raccolta di testimonianze sui fatti tristi e le ferocie perpetrate nel ferrarese, ricostruisce scorci di quel periodo: "... Lo stato di paura e intimidazione che aleggiava nel paese nei primi anni del dopoguerra ha lasciato il posto all’oblio e così i drammi che in quel periodo riguardarono oltre alla mia anche altre famiglie del paese, vennero semplicemente rimossi. Il clima creatosi nel corso dei decenni è tale che, ancora oggi, sembra che debbano essere i famigliari delle vittime a vergognarsi di un atto ignobile compiuto da altri e sempre negato o sottaciuto dai numerosi rappresentanti succedutisi alla guida dell’amministrazione locale…”

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