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1 1. ASPETTI GENERALI E INTRODUTTIVI 1. Diversi significati del termine Nella fede e teologia cristiana il tema della grazia è molto antico e ricco di aspetti. Per approfondirlo occorre tenere conto di numerose voci della Rivelazione, dell' Antico e del Nuovo Testamento, che ad esso si riferiscono. Per questa sua ricchezza e complessità, fin dai tempi più antichi, nella Chiesa sorsero numerose dispute. La sua elaborazione come specifico trattato teologico "De Gratia", nell'ambito della teologia dogmatica, risale al XVII secolo (1680) in seguito alla controversia con i teologi della Riforma 1 . Esso, quindi, è piuttosto recente, inoltre, nel tempo ha ricevuto differenti collocazioni. Nel Catechismo Romano del Concilio di Trento era posto agli inizi della teologia dei sacramenti e considerato tra i loro effetti. L'attuale spostamento nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) appare molto significativo. È stato posto nella Parte Terza, dedicata alla Vita in Cristo, come introduzione alla vita morale del cristiano. Egualmente significativi sono i titoli sotto i quali è collocato. La Sezione Prima specifica "La vocazione dell'uomo: la vita nello Spirito". Il capitolo terzo di questa riguarda "La salvezza di Dio: la legge e la grazia". L'articolo secondo, sotto il titolo: "Grazia e giustificazione" svolge nell'ordine: giustificazione, grazia, merito e santità cristiana (nn. 1987-2029). In breve, la grazia passa dalla sezione dei sacramenti a quella della vita nello Spirito, come base della sua espressione morale. Quanto al termine grazia, è stato sottomesso a numerosi impieghi linguistici, assumendo significati e contenuti assai diversi. Nel linguaggio comune ha indicato l'insieme dell'amabilità e bellezza, in particolare femminile, e la gentilezza nell'atteggiamento o negli atti esteriori. Nel passato linguaggio politico-sociale significò le concessioni straordinarie o i gesti di generosità magnanima esercitati dalle supreme autorità verso i sudditi. Nell'attuale linguaggio giuridico indica i provvedimenti con cui i Capi di Stato commutano o condonano, in tutto o in parte, pene inflitte con sentenza irrevocabile. Nel linguaggio filosofico riguarda il favore o la pura benevolenza verso un inferiore o il carattere estetico di movimenti, forme e atteggiamenti. In quest'ambito, però, i tentativi di un maggior approfondimento non hanno condotto a espressioni precise, ma soltanto generiche, collegate a idee diverse come: dono, libertà, gratuità, volontà di apertura, scambio di bene o amore 2 . Comunque sia, è evidente che si tratta di significati assai lontani da quelli che il termine riveste nella Scrittura e nella teologia. 2. Argomento e temi, nella fede e nella teologia Riguardo alla teologia, in primissima approssimazione possiamo dire che grazia (greco charis, latino gratia) designa la benevolenza personale assolutamente gratuita di Dio, che si comunica all'uomo e gli effetti di questo suo favore 3 . Si è detto "primissima approssimazione" perché il concetto, per la sua vastità e complessità, potrà essere ampliato, approfondito e completato solo mediante indicazioni più dettagliate e specifiche, che emergeranno nello sviluppo dei suoi vari aspetti. Nella Rivelazione, infatti, molte realtà e concetti si riferiscono, a diverso titolo, alla grazia. Dovremo approfondirle, quindi, a partire dalla Scrittura. In campo teologico dovremo poi seguire gli sviluppi dei diversi aspetti, che avvennero in seguito a numerosi errori o interpretazioni unilaterali, che portarono a eresie (pelagianesimo, semipelagianesimo, ecc.) sulle quali la Chiesa dovette pronunciarsi. L'elaborazione del trattato avvenne, in particolare, nel periodo del Tridentino e in seguito alle controversie con la Riforma. Nel secolo XX, il tema acquistò ulteriore ampiezza e vigore nel dibattito teologico che precedette e seguì il Concilio Vaticano II. Queste brevi premesse ci avviano a comprendere le ragioni delle impostazioni più recenti: quella sintetica del Catechismo della Chiesa Cattolica e quelle più ampie e descrittive della teologia, che saranno approfondite, volta per volta, nei successivi approcci. Il Catechismo al n. 1996 definisce la grazia come "il favore, il soccorso gratuito che Dio ci dà perché rispondiamo al suo invito: diventare figli adottivi, partecipi della natura divina, della vita eterna". Aggiunge poi: "La grazia è un partecipazione alla vita di Dio; c'introduce nell'intimità della vita trinitaria" (1997). Al n. 1999, accennando alla grazia di Cristo, la definisce: "il dono gratuito che Dio ci fa della sua vita, infusa nella nostra anima dallo Spirito Santo per guarirla dal peccato e santificarla". Questa è la grazia santificante o deificante, ricevuta nel Battesimo che, in noi, diviene la sorgente dell'opera di santificazione. Al n. 2000 precisa ancora: "La grazia santificante è un dono abituale, una disposizione stabile e soprannaturale che perfeziona l'anima stessa per renderla capace di

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1. ASPETTI GENERALI E INTRODUTTIVI

1. Diversi significati del termine Nella fede e teologia cristiana il tema della grazia è molto antico e ricco di aspetti. Per

approfondirlo occorre tenere conto di numerose voci della Rivelazione, dell'Antico e del Nuovo Testamento, che ad esso si riferiscono. Per questa sua ricchezza e complessità, fin dai tempi più antichi, nella Chiesa sorsero numerose dispute. La sua elaborazione come specifico trattato teologico "De Gratia", nell'ambito della teologia dogmatica, risale al XVII secolo (1680) in seguito alla controversia con i teologi della Riforma1. Esso, quindi, è piuttosto recente, inoltre, nel tempo ha ricevuto differenti collocazioni. Nel Catechismo Romano del Concilio di Trento era posto agli inizi della teologia dei sacramenti e considerato tra i loro effetti. L'attuale spostamento nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) appare molto significativo. È stato posto nella Parte Terza, dedicata alla Vita in Cristo, come introduzione alla vita morale del cristiano. Egualmente significativi sono i titoli sotto i quali è collocato. La Sezione Prima specifica "La vocazione dell'uomo: la vita nello Spirito". Il capitolo terzo di questa riguarda "La salvezza di Dio: la legge e la grazia". L'articolo secondo, sotto il titolo: "Grazia e giustificazione" svolge nell'ordine: giustificazione, grazia, merito e santità cristiana (nn. 1987-2029). In breve, la grazia passa dalla sezione dei sacramenti a quella della vita nello Spirito, come base della sua espressione morale.

Quanto al termine grazia, è stato sottomesso a numerosi impieghi linguistici, assumendo significati e contenuti assai diversi. Nel linguaggio comune ha indicato l'insieme dell'amabilità e bellezza, in particolare femminile, e la gentilezza nell'atteggiamento o negli atti esteriori. Nel passato linguaggio politico-sociale significò le concessioni straordinarie o i gesti di generosità magnanima esercitati dalle supreme autorità verso i sudditi. Nell'attuale linguaggio giuridico indica i provvedimenti con cui i Capi di Stato commutano o condonano, in tutto o in parte, pene inflitte con sentenza irrevocabile. Nel linguaggio filosofico riguarda il favore o la pura benevolenza verso un inferiore o il carattere estetico di movimenti, forme e atteggiamenti. In quest'ambito, però, i tentativi di un maggior approfondimento non hanno condotto a espressioni precise, ma soltanto generiche, collegate a idee diverse come: dono, libertà, gratuità, volontà di apertura, scambio di bene o amore2. Comunque sia, è evidente che si tratta di significati assai lontani da quelli che il termine riveste nella Scrittura e nella teologia.

2. Argomento e temi, nella fede e nella teologia Riguardo alla teologia, in primissima approssimazione possiamo dire che grazia (greco charis,

latino gratia) designa la benevolenza personale assolutamente gratuita di Dio, che si comunica all'uomo e gli effetti di questo suo favore3. Si è detto "primissima approssimazione" perché il concetto, per la sua vastità e complessità, potrà essere ampliato, approfondito e completato solo mediante indicazioni più dettagliate e specifiche, che emergeranno nello sviluppo dei suoi vari aspetti. Nella Rivelazione, infatti, molte realtà e concetti si riferiscono, a diverso titolo, alla grazia. Dovremo approfondirle, quindi, a partire dalla Scrittura. In campo teologico dovremo poi seguire gli sviluppi dei diversi aspetti, che avvennero in seguito a numerosi errori o interpretazioni unilaterali, che portarono a eresie (pelagianesimo, semipelagianesimo, ecc.) sulle quali la Chiesa dovette pronunciarsi. L'elaborazione del trattato avvenne, in particolare, nel periodo del Tridentino e in seguito alle controversie con la Riforma. Nel secolo XX, il tema acquistò ulteriore ampiezza e vigore nel dibattito teologico che precedette e seguì il Concilio Vaticano II. Queste brevi premesse ci avviano a comprendere le ragioni delle impostazioni più recenti: quella sintetica del Catechismo della Chiesa Cattolica e quelle più ampie e descrittive della teologia, che saranno approfondite, volta per volta, nei successivi approcci.

Il Catechismo al n. 1996 definisce la grazia come "il favore, il soccorso gratuito che Dio ci dà perché rispondiamo al suo invito: diventare figli adottivi, partecipi della natura divina, della vita eterna". Aggiunge poi: "La grazia è un partecipazione alla vita di Dio; c'introduce nell'intimità della vita trinitaria" (1997). Al n. 1999, accennando alla grazia di Cristo, la definisce: "il dono gratuito che Dio ci fa della sua vita, infusa nella nostra anima dallo Spirito Santo per guarirla dal peccato e santificarla". Questa è la grazia santificante o deificante, ricevuta nel Battesimo che, in noi, diviene la sorgente dell'opera di santificazione. Al n. 2000 precisa ancora: "La grazia santificante è un dono abituale, una disposizione stabile e soprannaturale che perfeziona l'anima stessa per renderla capace di

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vivere con Dio, di agire per amor suo". Le definizioni teologiche sono più estese, dovendo rispondere alle incomprensioni e difficoltà sollevate dalla mentalità e cultura di ogni tempo. I teologi, quindi, la presentano in questi termini: la grazia è l'amore di Dio che si rivolge all'uomo in maniera gratuita, inattesa, incomprensibile e lo conduce alla salvezza nella comunione con Lui, mostrando che la resistenza a Lui è una prigionia dell'uomo in se stesso (alienazione), che può essere vinta solo da un intervento liberatore.

Questa descrizione intende dire che: a) la grazia è non solo l'amore di Dio, ma Dio stesso, poiché Dio è amore (1Gv 4,8); b) la grazia di Dio che si rivolge all'uomo è un atto libero dell'infinita bontà divina; c) essa è piena gratuità e puro dono; d) essa è del tutto inattesa perché dipende solo dalla libera iniziativa di Dio verso l'uomo peccatore; e) il suo mistero o incomprensibilità dipende dal fatto che nessuna creatura può "comprendere" l'immensa bontà, amore e benevolenza di Dio, né le forme con cui la realizza e manifesta (come l'incarnazione, sofferenza, umiliazione, passione e morte del Figlio); f) il dono con cui Dio salva consiste nella comunione personale di vita con Lui e nel dono di poterlo conoscere e amare senza limiti; g) Dio vince il peccato, il rifiuto e la chiusura dell'uomo, non con la violenza, ma liberando e rinnovando interiormente il peccatore, mediante la sua bontà, perdono e amore incondizionato4. Il Signore libera pure l'uomo dall'illusione di poter decidere del senso della propria vita, fidando solo nel proprio potere. Tale illusione non è solo vana e inutile, ma sprofonda la persona nell'assurdo, l'alienazione totale, il fallimento e la prigionia di sé. Questa ricchezza e profondità del rapporto fra Dio e l'uomo spiega la difficoltà di ogni tentativo di definire il termine grazia. La stupefacente ricchezza di significati concentrati in questa parola spiega pure le ragioni per cui essa sia divenuta un tema centrale nella Rivelazione, la fede, la vita cristiana e la teologia.

Spiega pure gli ostacoli che la chiesa ha dovuto superare e le difficoltà che ha dovuto affrontare per assicurarne i giusti contenuti e la corretta comprensione teologica. Spiega infine perché, coinvolgendo quasi tutti i differenti trattati teologici, possa venire sviluppata secondo prospettive molto diverse, anche se complementari, e venire collocata in settori che vanno dalla teologia sistematica (antropologia teologica), a quella dei sacramenti, fino alla teologia morale e spirituale. Le definizioni sopra riportate mostrano pure le ragioni che hanno reso il XX secolo un altro importante momento di riflessione e comprensione della grazia. In esso si sono approfondite le dimensioni interiori, individuali e inesperibili su cui si concentravano le precedenti esposizioni, assieme all'attenzione alle sue dimensioni esterne, comunitarie, sociali e alle sue mediazioni ed esperibilità esterne. Questo arricchimento si deve, soprattutto, a due fattori: l'accresciuta sensibilità alle tematiche sociali, nel secolo XIX e XX; il concludersi di alcune idee tipiche della modernità. Ciò esige che un discorso contemporaneo sulla grazia, in Occidente, tenga conto che l'uomo si è abituato a ritenersi obbligato solo a se stesso, a non aspettarsi alcun dono o benevolenza, a ritenere tutto come dovutogli, a contare solo sulle proprie capacità e realizzazioni, ad attribuirsi il diritto esclusivo di negare o affermare sensi, valori e significati, in breve, a imporre esclusivamente la sua volontà di autonomia assoluta5.

Tali idee e atteggiamenti, di matrice ideologica tecnicista e scientista, benché arretrate e confutate, condizionano ancora larghe parti della cultura attuale. Esse contrastano radicalmente con la capacità di pensare la vita come grazia o dono di Dio. Il dono di sé generoso e gratuito, che Dio ha attuato in Cristo diviene, pertanto, un'esigenza specifica dell'evangelizzazione, della catechesi e del dialogo interculturale del XXI secolo. D'altra parte è egualmente necessario non attenuarne la portata mistica, soprannaturale e religiosa del tema, essenziale per il dialogo interreligioso.

3. Per una teologia contemporanea della grazia L'idea di fondo da tenere sempre viva è il fascino della grazia come dono, che ne fa

un'imprevedibile e smisurata espressione di generosità e gratuità non dovute. È tale fascino divino che suscita lode e gratitudine senza fine. A tal fine occorre valorizzare l'impostazione di Ef 1,3-10, che la collega alle categorie della benedizione, elezione, predestinazione, redenzione, sapienza e prudenza. Se la sua essenza consiste nell'amore del Padre per il Figlio Gesù Cristo e, in lui, per noi, va sottolineato bene che l'atteggiamento paterno di Dio, che ci vuole suoi figli, precede ogni volontà e supera ogni progetto umano. Ne consegue che la benedizione è il dono dello Spirito Santo, che compendia tutto ciò che il Padre dà e può dare. La predestinazione sottolinea che il nostro essere di figli è antecedente a ogni volere creato. La redenzione è la liberazione dal peccato e la trasformazione divina di tutto il nostro essere spirituale e corporeo. Queste azioni divine, come dono assolutamente

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gratuito, avvengono in prospettiva trinitaria, elevando l'uomo all'esistenza della Trinità e aprendolo al rapporto con ognuna delle persone divine. Questa vita trascendente e divina si attua in una comunione solidale che ne fonda l'aspetto comunitario o ecclesiale. Appartenere a Cristo, quindi, significa entrare nell'ambito della intersoggettività centrata in lui, ossia appartenere alla sua Chiesa. Le persone divine che si donano e comunicano a noi costituiscono la grazia increata. L'effettiva trasformazione che provocano nel nostro essere costituisce la grazia creata. Esse indicano la necessità di armonizzare sempre i seguenti aspetti: appartenenza al mondo della trascendenza divina; partecipazione alla figliolanza di Dio in Cristo; liberazione dalla schiavitù del peccato; vita di autentica libertà nel rapporto con Cristo, liberatore dal peccato e salvatore universale6.

Tale armonizzazione è possibile se valorizziamo due elementi da tenere sempre uniti nei diversi approfondimenti e sistemazioni teologiche. Il primo è la grazia interiore, ossia l'aspetto invisibile e incalcolabile dell'amore divino che opera in noi. Il secondo è la grazia esteriore, che riguarda le mediazioni simboliche, sociali, politiche e le strutture del mondo, attraverso le quali anche la grazia può passare. Essi vanno tenuti presente, poiché consentono di vedere la grazia come nucleo intimo e compendio dell'intera realtà evangelica. La loro duplice dimensione costituisce un punto chiave della riflessione teologica, perché esplicita, approfondisce ed esprime maggiormente la ricchezza della grazia. Un altro elemento imprescindibile è la necessità di una stretta cooperazione fra la sovrana libertà e gratuità del dono di Dio e la libertà, sostenuta dallo Spirito, della risposta umana. Anche a questo riguardo la teologia della grazia deve affrontare le difficoltà e i problemi sollevati dalla mentalità moderna e contemporanea. Essi derivano dal mancato riconoscimento dei limiti delle capacità umane e dal rifiuto dell'umiltà che il messaggio dell'umiliazione, passione e morte in croce di Cristo comporta ed esige riguardo alla fede cristiana.

Di fronte ad esse la dottrina della grazia deve: a) sottolineare la storicità della grazia divina sia nel suo accadere nell'evento di Cristo, che nel suo comunicarsi nell'evento della chiesa; b) approfondire la grazia esteriore, ossia ciò che la fede scopre e identifica negli avvenimenti terreni, storici e sociali e afferra come offerte dell'amore divino; c) esprimere il paradosso evangelico della croce, ossia delle umiliazioni, sofferenze e contraddizioni della vita quotidiana, che riducono al silenzio le pretese immanenti e le illusioni intramondane. Così intesa, la grazia indica la vera apertura attuale alla vita eterna7. Un'altra esigenza sempre più urgente è l'incontro e dialogo della fede con le antiche tradizioni religiose o le nuove forme emergenti. La prospettiva della grazia non può trascurare il fatto che in alcune di esse, sia pure in forme estremamente diverse e imperfette, si possano trovare diverse istanze salvifiche quali: a) aspirazioni a incontrare Dio; b) desideri d'entrare in comunicazione, dialogo e comunione con lui; c) ricerca di un soccorso alla propria insufficienza, solitudine, limite e finitezza. Ovviamente, ogni religione è condizionata dalla propria concezione di Dio. Visioni cosmo-vitalistiche, monistiche, panteistiche di un dio impersonale, non distinto dal mondo, non consentono uno sviluppo adeguato delle predette istanze. Vi sono, tuttavia, forme religiose che esprimono aspetti più elevati. Nell'induismo la Bhakti sottolinea l'amore, abbandono in Dio e unione del cuore con il Signore supremo. Essa risponde al bisogno di condivisione, amore, fede e visione, che l'uomo prova verso il divino. Essendo molto ricca di significato, è stata tradotta con vari termini: partecipazione amorosa, amore/fede, devozione, dedizione, attaccamento, affetto, fervore, fedeltà, adorazione. Ciò perché essa riguarda quello spazio in cui l'uomo si riconosce come partecipe del divino. Nella sua forma classica, ossia il Bhagavadgita, il testo indù che maggiormente promuove l'azione e la devozione, la bhakti, sul piano della conoscenza, mantiene la trascendenza del divino; su quello della rappresentazione, risponde al desiderio di vedere; su quello dell'attività e dell'affettività, mobilita le forze dell'uomo e le focalizza sul suo oggetto8. Pure la mistica musulmana del Sufi vede Dio come polo di tutta la vita, al quale si accede per la via del puro amore, vertice della vita spirituale9. Anche in alcune religioni primitive Dio è avvertito come un "tu" che si china su noi per grazia e con amore. Questi casi, tuttavia, offrono solo accenni a una comunione, non sempre scevra da forme di tipo naturalistico, cosmico e vitalistico. Solo nella Rivelazione e fede biblico-cristiana, il pieno spazio alla comunione soprannaturale e interpersonale può fare superare tali limiti10.

Anche a questo proposito, quindi, il tema della grazia si rivela di particolare importanza, sottolineando il dono assolutamente libero e gratuito di sé che, in Cristo, Dio fa all'uomo, perché questi lo accolga nella fede, trasformando tutta la sua vita. È in questo contesto che le prospettive e le conseguenze della grazia investono globalmente tutti i temi teologici: rapporto fra vita trinitaria e universo (creazione, protologia); rapporto fra Dio e uomo peccatore e redento (antropologia teologica,

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soteriologia); chiesa e sacramenti (ecclesiologia, sacramentaria, liturgia); compimento futuro (escatologia). Riguardo allo sviluppo delle mediazioni terrene, le prospettive e le conseguenze della grazia fanno da base all'etica teologica (teologia morale) e all'impegno spirituale ascetico, contemplativo (teologia spirituale) e operativo (teologia pastorale). Questi stretti rapporti spiegano perché il tema della grazia, come trattato teologico, nel corso del tempo e nelle varie epoche, abbia dato luogo a elaborazioni sistematiche collocate, di volta in volta, in diverse parti della teologia. A tutt'oggi, per la teologia della grazia, rimangono particolarmente importanti e attuali gli sviluppi antichi e recenti della cristologia, della teologia dello Spirito Santo (pneumatologia), centrata sul dono e l'autocomunicazione divina, e dell'antropologia come attuazione, potenziamento e compimento delle strutture fondamentali della persona umana. Di esse occorrerà tenere il debito conto. Il tema della grazia si collega pure a quelli della giustificazione, santificazione e merito che svilupperemo nel corso della trattazione.

1 L. Serenthà, "Uomo", DTI, III, 523. 2 A. Lalande, DCF, 353-354. 3 A. Beni, "Grazia", NDT, 607. 4 O. H. Pesch, "Grazia", ET, 442-444. 5 Pesch, "Grazia", 441-442. 6 G. Manca, La grazia, Cinisello B. 1997, 9-14. 7 Pesch, "Grazia", 447-448. 8 M. Delahoutre, "Bhakti", GDR, 212-213; "Bhagavadgita", ibid., 211; G.R. Franci (a cura), La Bhakti.

L'amore di Dio nell'induismo, Cuneo 1970. 9 R. Caspar, "Sufismo", GDR, 2049-2051; F. Schuon, Sufismo, Roma 1982. 10 Beni, "Grazia", 593.

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2. GRAZIA: CONTESTO, TERMINI, DISTINZIONI

Anche questo capitolo è introduttivo e presenta alcuni dei termini e delle distinzioni formulate nei secoli, per meglio elaborare l'argomento. La loro presentazione ha il fine di conoscerne la loro esistenza, significato e utilità in senso generale. Durante lo sviluppo successivo dei diversi argomenti, ritorneremo ad essi, ogni volta che occorrerà, per chiarirli e comprenderli meglio. Al momento occorre ricordare che essi non nacquero da sottigliezze e non costituiscono elaborazioni complicate o arbitrarie, ma esprimono il risultato degli sforzi, sovente ardui e faticosi, dell'intelligenza disposta a credere e della fede desiderosa di pensare e capire. In definitiva sono il frutto dello Spirito che spinge la Chiesa ad approfondire sempre più quel mistero delle Persone divine e delle relazioni tra loro e con noi che stanno alla base del mistero della grazia e degli altri ad esso connessi (elezione, predestinazione, giustificazione, santificazione, deificazione, merito). Più brevemente potremmo dire che termini e distinzioni furono elaborati per capire meglio, fin dove è possibile, il mistero della presenza e dell'azione divina nella Chiesa e nel mondo. Per questo la loro comprensione matura gradualmente, approfondendo gli specifici temi.

1. Il contesto reale della grazia Il miglior modo per comprendere i problemi e i significati collegati al tema della grazia è di

collocarli nel loro reale contesto storico e nel loro autentico ambito spirituale e umano. Questi sono indicati dalla Scrittura. Fin dalle sue prime pagine emerge la vicenda dell'uomo che, volendo fare a meno di Dio e meglio di lui, si è ritrovato in una triste condizione di disordine e miseria (peccato originale). Rifiutando l'amicizia con Dio e perdendo il dono dell'integrità (grazia, possibilità di non peccare) i nostri progenitori e i loro discendenti si trovarono nell'incapacità di dominare la violenza delle loro passioni e istinti e di sottrarsi alla forza del peccato, che s'impadronì del mondo. In tale condizione, l'umanità ha sperimentato l'impossibilità di salvarsi con le sue sole forze e ha subito una crescita impressionante del potere del male. Essa passò, così, dalla disobbedienza originale alla diffidenza reciproca (Gn 3, 1-19), all'omicidio (Caino, Gn 4, 1-16), alla volontà di sterminio (Lamech, Gn 4, 23-24). Morte, inganno e violenza entrarono nel mondo e s'impadronirono dell'uomo. L'umanità imparò a manipolare i materiali, ma non riuscì ad accompagnare il progresso tecnico con quello spirituale e morale, scadendo sempre più nella grave condizione descritta in Genesi 6, 5-6: "Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo".

Anche dopo il diluvio il male riprese la sua corsa inarrestabile. Il tentativo di assicurare l'unità del genere umano mediante grandiose realizzazioni (Babele) portò soltanto maggiori incomprensioni e divisioni (Gen 11, 1-9). Questa tragica crescita e trionfo del male mostrano l'assoluto bisogno di Dio e del suo aiuto, che l'uomo ha per vincere il male. Il peccato originale, infatti, ha così indebolito le capacità spirituali, intellettuali e morali dell'uomo, da non consentirgli più, senza l'aiuto divino, una vita libera dal peccato e la capacità di compiere azioni moralmente buone e opere oneste per tutta la vita. Tale aiuto divino, e la nuova situazione positiva che esso produce, è detto grazia dalla fede cristiana.

2. Alcune interpretazioni contrastanti Nella vita della Chiesa, la concezione biblico-cristiana della grazia ha subito interpretazioni

diverse, nel corso del tempo. Alcune erano opposte o addirittura contraddittorie, legate ad alterni eccessi infondati di ottimismo o di pessimismo. L'ottimismo fu di Pelagio e dei suoi seguaci (pelagiani), secondo i quali la condizione umana, prima del peccato originale, non differiva da quella successiva. Ritenevano, quindi, che: la tendenza al male è naturale; la natura umana può osservare, da sola, la legge di Dio e di Cristo; la grazia aiuta l'uomo soltanto a fare meglio ciò che può fare da sé. A distanza di molti secoli il pessimismo fu dei protestanti e seguaci di Giansenio (giansenisti), che sostenevano la totale corruzione intrinseca dell'uomo, in conseguenza del peccato. Per loro, tutto ciò che l'uomo fa è sempre e soltanto peccato. La corretta fede ecclesiale si oppose agli opposti estremismi e anche alle loro forme più attenuate (semipelagiani da un lato, rigoristi dall'altro), esponendo la verità rivelata secondo la verità e il sano, equilibrato realismo della dottrina cattolica. Sottolineò, pertanto, contro i pelagiani, l'assoluta necessità della grazia divina, perché l'uomo possa orientarsi a Dio come

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valore assoluto e amarlo e servirlo al di sopra di ogni altra cosa. Evidenziò che la grazia illumina l'intelligenza, fortifica la volontà e sostiene tutta la persona.

Contro protestanti e giansenisti ribadì che l'uomo, nonostante tutte le difficoltà incontrate dopo il peccato originale (forza della concupiscenza, indebolimento della libertà, impossibilità di evitare tutti i peccati personali ecc.), sotto l'influsso della grazia soprannaturale di Cristo e in forza di essa, può orientarsi veramente a Dio e al bene e compiere atti moralmente buoni. La libertà umana, infatti, non è stata totalmente distrutta, ma soltanto profondamente ferita, dal peccato originale.

3. Trasformazioni del tema e principali distinzioni Queste lotte per la verità apportarono, durante i secoli, diverse trasformazioni al tema. S. Agostino

negli ultimi vent'anni della sua vita, sottolineò contro Pelagio che, dopo il peccato, per condurre una vita cristiana, la persona umana ha bisogno di un "aiuto" (auxilium) che la liberi dal peccato e le dia pure la forza (gratia operans) di corrispondere (gratia cooperans). Ciò riguarda tanto la libertà che le opere. La sua dottrina riguardante la libertà, il peccato, la grazia e il merito, fu trasmessa ai secoli successivi. Nel medioevo questi temi ricorsero ancora, ma S. Tommaso collegò la dottrina sulla grazia con quella sulla legge. La Riforma, invece, sollevò il problema della giustificazione, come tema centrale della salvezza e di tutta la verità cristiana. Di conseguenza, anche la grazia venne trattata in tali termini, con particolare ampiezza, dal Concilio di Trento. Nei secoli XVI-XVIII sorse la controversia "de auxiliis" sulla grazia sufficiente e la grazia efficace. I professori della facoltà di Würzburg posero il trattato della grazia subito dopo la Cristologia. Nel tempo che precedette il Concilio Vaticano II vennero riproposti i temi dell'inabitazione divina nell'anima dei giusti, della volontà salvifica universale di Dio e dello stretto rapporto fra Cristo e la grazia. Nel post-concilio, invece, emersero sempre più i temi del rapporto fra Chiesa, fede, grazia e sacramenti. L'attenzione si appuntò sulla persona dello Spirito Santo che opera nella e per la grazia, più che sulla sua opera, ossia la grazia. Si accese, inoltre, un crescente interesse per la grazia nella condizione dei non cristiani.

Come si è già visto in parte, nel contesto generale della rivelazione biblica, dell'annuncio ecclesiale, degli sviluppi storici, dottrinali e delle controversie sopra accennate, la riflessione teologica si trovò a dover sviluppare numerosi termini e distinzioni, riguardanti i molteplici aspetti e compiti della grazia. Anche il Magistero ne utilizzò alcune per le sue definizioni. Presentiamo, quindi, alcuni di questi termini e distinzioni principali, nelle loro formulazioni più semplici, rinviando le spiegazioni approfondite ai luoghi appropriati che più avanti lo richiederanno. Riteniamo importante illustrarne fin da ora il senso e l'utilità dato che, a volte, alcuni credenti e anche teologi rivolgono loro alcune critiche. Tali suddivisioni e distinzioni diventano comprensibili, invece, se le collochiamo entro lo sforzo mai esaurito e sempre rinnovato di: a) comprendere più profondamente questo grande e difficile mistero; b) collegarlo con la maggior chiarezza e precisione possibile alle altre verità rivelate; c) capirne il significato e l'utilità per la vita umana e cristiana. Sono queste, infatti, le esigenze che hanno portato, ogni volta e senza sosta, a elaborare nuovi termini e distinzioni o a specificare, rinnovare e chiarire quelle precedenti. Alcune divennero parte dell'annuncio e della catechesi abituale della Chiesa, tanto che le ritroviamo sia nel precedente Catechismo Romano del Concilio di Trento, che in quello del Concilio Vaticano II, il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica.

È, quindi, molto interessante esaminare l'impostazione che il secondo ha dato a tutto il tema della grazia. Alla sua collocazione abbiamo già accennato nel capitolo precedente. Qui noteremo come, nel presentare la grazia e il suo potere di giustificarci, parta dalla conversione che opera la giustificazione (nn. 1987, 1989). Sottolinea, quindi, che la conversione, sotto la mozione della grazia, fa rivolgere l'uomo a Dio, lo allontana dal peccato e gli fa accogliere il perdono e la giustizia dall'Alto (n. 1989). La giustificazione non è una semplice remissione dei peccati, ma anche la santificazione e il rinnovamento interiore dell'uomo (1989). Al riguardo, cita alla lettera il Concilio di Trento (DS, 1528). Sottolinea poi che, con la giustificazione, Dio infonde nei nostri cuori la fede, speranza, carità e l'obbedienza alla sua volontà (n. 1991). Precisa, quindi, che il termine giustizia, da cui deriva quello di giustificazione, indica la "rettitudine dell'amore divino" (n. 1991). Definisce quindi la grazia "partecipazione alla vita di Dio che c'introduce nella vita trinitaria" (n. 1997). La conversione e giustificazione sono dette pure grazia prima, che nessuno può meritare, essendo date solo da Dio, come puro dono (n. 2027). La grazia santificante o deificante è il dono gratuito che Dio, nel Battesimo, ci fa di sé e della sua vita, per mezzo della fede in Gesù Cristo. Essa è infusa in noi dallo

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Spirito Santo, che ci guarisce e santifica, per cui è in noi la sorgente dell'opera di santificazione (n. 1999). La grazia santificante viene pure detta grazia abituale, perché è dono stabile e permanente, come disposizione soprannaturale ad agire secondo gli inviti della volontà divina. Ciò la distingue dalle grazie attuali, che sono gli interventi mediante i quali il Signore continua ad operare in noi, sia all'inizio della conversione, che in tutto il corso della sua opera di santificazione (n. 2000). Il Catechismo distingue pure le grazie sacramentali, come doni particolari e specifici dei singoli sacramenti e le grazie speciali, che si dividono in: carismi, o doni ordinati alla grazia santificante, a servizio della carità che edifica la Chiesa, che hanno come fine il suo bene comune (n. 2003); grazie di stato, che aiutano a esercitare le responsabilità inerenti sia alla vita cristiana che ai ministeri della Chiesa (n. 2004).

4. Senso e uso delle distinzioni teologiche Questi termini e distinzioni furono, inizialmente, elaborati dalla ricerca e riflessione teologica. In

seguito vennero accolti dal Magistero che con la sua autorità li valorizzò per l'annuncio e la catechesi. Oltre a quelli ora citati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ve ne sono altri, egualmente elaborati dai teologi nel corso del tempo, nei loro sforzi e tentativi di approfondire, comprendere o risolvere i problemi che di volta in volta emergevano riguardo alla grazia. È necessario conoscere anche questi per capirli e utilizzarli con sereno discernimento. Al riguardo è importante ricordare che più che di forme diverse della grazia, si tratta di prospettive diverse sotto le quali essa viene considerata, in rapporto ai vari problemi che, sovente, di volta in volta vengono a emergere. Abbiamo, quindi, la grazia increata e grazia creata. La grazia increata indica Dio stesso, ossia la comunione delle stesse Persone divine che abitano nell'anima dei battezzati e credenti. Grazia creata indica invece i doni, distinti da Dio, che accompagnano la grazia increata, in particolare le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, che aderiscono all'uomo e lo trasformano. Alcuni distinguono pure la grazia in naturale e soprannaturale. Nella terminologia scolastica della grazia, la grazia creata fu detta abituale per indicarne la forma stabile e duratura e distinguerla dalle grazie attuali, che sono spinte o impulsi divini transitori. Venne pure detta soprannaturale perché supera le capacità dell'uomo, che non è naturalmente partecipe della natura divina. Grazie naturali sono tutti i doni naturali (d'intelligenza, volontà, sensibilità, capacità varie, beni, mezzi, condizioni esterne ecc.), che formano la struttura della persona e intessono la trama della vita, che la provvidenza divina elargisce liberamente, gratuitamente e generosamente a ogni persona. Grazie soprannaturali sono tutti i doni soprannaturali, riguardanti la libera e gratuita chiamata alla salvezza e santificazione, perché l'uomo divenga figlio adottivo di Dio e rimanga nell'intima comunione d'amore con Cristo e le Persone divine.

Altri distinguono pure fra grazia interna e grazia esterna. Grazia esterna è tutto ciò che opera sull'uomo dall'esterno, come la predicazione del Vangelo, gli esempi, le testimonianze, determinate situazioni ecc. Grazia interna è ogni influsso esercitato da Dio sulle facoltà interiori dell'uomo, come le illuminazioni dell'intelligenza e le mozioni della volontà. Solitamente, la grazia esterna è accompagnata dalla grazia interna, che opera congiuntamente con la prima. Si distingue pure fra grazia sanante o medicinale e grazia elevante. La prima indica le grazie interne, volte a sanare le conseguenze prodotte dal peccato e a farci vivere onestamente. La seconda indica gli influssi divini per renderci sempre più capaci di operare soprannaturalmente e disporci o aprirci alla giustificazione. È bene ricordare pure una distinzione, storicamente legata a un insieme di problemi sorti fra la fine del 1500 e gli inizi del 1600, che vanno sotto il nome di "controversia de auxiliis". I teologi del tempo distinsero, quindi, fra grazia sufficiente e grazia efficace. Al di là delle molte e complicate disquisizioni della controversia storica, possiamo dire che grazia sufficiente è quella che Dio, che vuole la salvezza di tutti (volontà salvifica universale), dona a tutti (e non solo ad alcuni), nel pieno rispetto della loro libertà. Grazia efficace è quella che diviene tale solo in coloro che liberamente l'accolgono, consentendole di produrre in loro gli effetti salvifici. Di ciò riparleremo nei capitoli finali.

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3. GRAZIA ED ELEZIONE NELL'ANTICO TESTAMENTO

La grazia è riconosciuta un concetto chiave dell'annuncio biblico che, tuttavia, non espone una dottrina sistematicamente elaborata, ma molti elementi essenziali, che nel loro insieme sono stati progressivamente sviluppati e completati. Benché rispetto all'Antico Testamento il Nuovo Testamento segni una notevole crescita, sia di estensione che di espressioni, esso non sarebbe comprensibile senza o al di fuori dell'Antico Testamento. Dovremo, quindi, collegare tutta la tematica della grazia alle più significative realizzazioni ed espressioni veterotestamentarie.

1. Antica alleanza, grazia, benedizione Esegesi e teologia concordano nel sottolineare l'importanza delle parole con le quali Dio si definì,

nel rivelarsi a Mosè: "Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e dei fedeltà, che conserva il favore per mille generazioni" (Es 34,6). È assai significativo che, per tradurre tali parole, sia stato necessario ricorrere a diversi modi: "Dio clemente e misericordioso, longanime, grande nella benevolenza e nella fedeltà"1; oppure: "Dio di tenerezza e di grazia, tardo all'ira e ricco di misericordia e fedeltà"2; e ancora: "Dio di pietà e misericordia, lento all'ira e ricco di grazia e di verità, che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato"3. Per esprimere le realtà qui e altrove indicate, il lessico ebraico si avvale di numerosi termini: Hen, che indica la misericordia (cuore che si china sulle miserie); Hesed, che indica la fedeltà generosa; 'Emet, che indica la fermezza incrollabile negli impegni; Rahamim, derivato da rehem, che designa il grembo materno e indica l'attaccamento viscerale della madre ai propri figli; Sedeq, che indica la santità inesauribile che assicura a tutte le creature la pienezza di diritti e la soddisfazione di ogni aspirazione. Scorrendo questi termini, la "grazia" di Dio appare preziosa al massimo e si capisce perché, come pregano i salmi, garantisca pace e gioia all'uomo, sovrabbondanza e torrente di delizie (Sal 36), sia migliore della stessa vita e considerata come il massimo di tutti i beni (63,4).

Questo tesoro della sua grazia, Dio non lo custodisce gelosamente, ma lo effonde generosamente su ogni sua opera, su ogni vivente e su quanti lo amano (Sir 1, 1-10). Il suo segno maggiore è dato dalla sua "elezione" d'Israele, iniziativa pienamente gratuita, non dovuta ad alcun merito, ma soltanto all'amore e alla fedeltà al giuramento da lui fatto agli antichi padri (Dt 7,8). La ragione di tutti i benefici elargiti da Dio al suo popolo è solo una: la sua grazia che, come Dio fedele, mantiene alla sua alleanza, per il suo amore (7,9).

2. Grazia e benedizione Un altro termine molto significativo è quello di "benedizione", gesto che spetta al padre e alimenta

la vita, la gioia e la pienezza di forza. Esso, riferito a Dio, indica molto di più. Quella che Egli rivolge a Israele, fa di questo popolo una benedizione destinata a tutte le nazioni (Gn 12,3), per consacrare tutti gli uomini nella sua santità divina. La benedizione manifesta Dio come Padre, che plasma il destino dei suoi figli (Is 45,10). La grazia diviene un amore paterno che crea dei figli. In più, l'infinita santità di Dio stabilisce, con coloro che ama, una promessa di vita santa e una costante vocazione alla santità. Ciò arricchisce di contenuti specifici l'idea dell'incontro personale, nel quale Dio posa sull'uomo il suo sguardo, il suo sorriso e lo splendore del suo volto. In questo modo i termini e i concetti che compongono la realtà della "grazia" rivelano l'atteggiamento e il contenuto di una libera e gratuita donazione personale di Dio al suo popolo. Lungo la storia della salvezza, Dio farà risplendere in molti modi il suo favore (hen) su Israele. Stringerà un patto di alleanza fondato sulla fiducia e fedeltà (hesed) e risponderà con inesauribile compassione e misericordia (rahamim) alle sue continue infedeltà. La grazia esprime, quindi, l'atteggiamento di benevolenza, fondato nell'essere stesso di Dio, che si rivela all'uomo e lo porta a vivere nel clima della donazione e dell'amore divino. In questa prospettiva è possibile comprendere la serie di fatti che testimoniano concretamente tale grazia: patto della promessa concluso con Abramo (Gn 15, 1-19); liberazione del popolo dalla schiavitù d'Egitto (Es 3,7-8); guida, assistenza e protezione nel cammino alla terra promessa (Es 15,11-13); perdono incessante delle sue colpe (Nm 14, 18-20); protezione, vita e fertilità (Sal 136, 1-9).

Appare chiaro che il patto d'alleanza e questi favori formano un tutt'uno (1Re 8,23; Dt 7,12). I profeti ricordano che quest'amore e benevolenza, nonostante le peggiori infedeltà d'Israele, non vengono mai ritirati e che la grazia di Dio non abbandona mai il suo popolo (Is 54,10). Questo, consapevole di ciò

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(Sal 89,29; 106,45), nella sua preghiera chiede al Signore di ricordarsi sempre delle sue misericordie "che sono dai tempi dei tempi" (Sal 25,6) e di liberarlo definitivamente da ogni timore e affanno. La stessa preghiera invita ad attendere con ferma fiducia l'opera di Dio, perché "nel Signore è la grazia" (Sal 130,7). Tenendo conto di tutti questi aspetti, si può dire che la grazia esprime la benedizione amorosa, del Dio pieno di benevolenza, misericordia e perdono. Questo suo essere ed atteggiarsi richiamano l'uomo ad aver fiducia nel gratuito dono di sé, che Dio attua liberamente verso il suo popolo prima, e poi verso tutta l'umanità. Devono, quindi, credere e sperare nelle sue promesse. La base di tutto ciò è la sua incondizionata fedeltà alla sua alleanza, che non verrà mai ritirata, e alla sua parola, che non verrà mai meno4.

3. Grazia e alleanza L'Antico Testamento mostra, dunque, che la grazia non è una realtà isolata o a sé stante, ma

strettamente collegata a molte altre: l'alleanza, l'elezione e la giustificazione. Il tema dell'alleanza, in ebraico berit, è egualmente fondamentale. Nel Medio Oriente antico, a livello sociale e culturale, indicava l'accordo vigente fra i diversi clan di quei popoli orientali, al fine di evitare scontri e garantire pace e buoni rapporti vicendevoli, anche là dove non giungevano i vincoli della consanguineità. Ci si premurava, pertanto, di conferirgli un carattere e valore sacro, mediante i giuramenti e i riti (sacrificio di un animale e pasto in comune) che lo contrassegnavano. Storia e letteratura del popolo ebraico ruotano attorno all'idea dell'alleanza stretta da Dio con Israele. In effetti, si può riconoscere già una prima alleanza "noaica" stretta da Dio con Noè, dopo il diluvio (Gn 9,9) che resta in vigore per tutto il tempo delle nazioni (CCC nn. 56-58). Essa assume il carattere di una nuova creazione del genere umano (Gn 9, 1-17). Vi sono poi le due alleanze con Abramo, la prima conclusa con un sacrificio rituale (Gn 15), come sopra ricordato e la seconda con l'impegno della circoncisione, quale suo segno (Gn 16-17). Vi è poi quella più solenne con tutto il popolo, ai piedi del Sinai (Es 19, Dt 5) e quella di Sichem che, dopo la conquista della terra, rinnova il patto (Gs 24,1-28). La sostanza di essa è che Dio intende essere, in modo del tutto speciale, il Dio del suo popolo, rendendo Israele il suo popolo per eccellenza (Es 6,7; Lv 26,12; Dt 29,12; Os 2,25), la sua nazione santa, il suo regno sacerdotale (Es 19,6) e la sua proprietà (Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,19; Sal 135,4).

I profeti non smisero mai di sottolineare (Am 5,14; Os 6,7; Ger 11,1-8) che i benefici dell'alleanza erano garantiti, se Israele rimaneva fedele al Signore (Dt 7,7). Israele, tuttavia, rifiutò di rispondere a Dio come un figlio e di consacrargli la vita e il cuore (Os 4,1; Is 1,4; Ger 9,4), ma fece scaturire le sue iniquità come l'acqua da un pozzo (Ger 6,7; Ez 16; 20). I profeti, quindi, denunciarono le sue continue infrazioni del patto (Is 24,5; Ger 11,10; Ez 44,7) e le loro tragiche conseguenze. Queste culminarono nella distruzione d'Israele, di Giuda, di Gerusalemme, del tempio e nelle rispettive deportazioni e schiavitù. Dio, però, nella sua infinita misericordia, neppure allora abbandonò il suo popolo, ma lo purificò, compiendo egli stesso ciò che l'uomo era radicalmente incapace di fare. Con l'opera del suo Spirito (Ez 36,27) preservò un piccolo resto con cui ricostruire un nuovo popolo (Am 3,12; 5,15; Is 10,20-22; 11,11; 28,5). Con esso avrebbe introdotto nel mondo la sua giustizia (Is 45,8; 51,6), avrebbe trasformato Gerusalemme da città corrotta in città santa (Is 1, 21-26), avrebbe tratto dai cuori ostinati e ribelli, dei cuori nuovi, capaci di conoscerlo (Os 2,21; Ger 31,31). Con tutto questo avrebbe attuato la nuova alleanza definitiva, eterna (Ger 31,31-34; 32,38-40; Ez 16,6; 16,60; 34,25; 37,26; Is 42,6; 49,8; 53,3; 55,3; 59,21; 61,8; Ml 3,1), universale (Is 49,6) interiore, incisa nei cuori (Os 2,21; Ger 31,31; Ez 36,23-28)5.

4. Grazia ed elezione L'alleanza descritta nella Scrittura appare la conseguenza dell'elezione del popolo da parte di Dio.

Egli stesso lo ha suscitato, lo ha scelto e ne ha fatto il suo alleato, rendendolo un popolo "a parte" (Nm 23,9). Elezione, quindi, significa suo possesso, unione, intimità, situazione di privilegio. Israele, il più piccolo di tutti i popoli, è eletto con perfetta gratuità e sovrana libertà (Dt 9,5; Gr 18, 2-6). La ragione unica dell'elezione è l'infinito amore di Dio e la sua incrollabile fedeltà alle sue promesse (Dt 4, 37; 7,8; 10,15). Essa, tuttavia, non è fine a se stessa, ma finalizzata alla missione, nel piano di salvezza che, da sempre, Dio ha voluto per tutta l'umanità. È questo piano che impone obblighi morali e spirituali, precisi e rigorosi, da adempiere fedelmente. Per questo i peccati, soprattutto l'infedeltà dei singoli e del popolo, sono un tradimento particolarmente grave. L'infinita misericordia del Signore,

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tuttavia, li perdona, purché il peccatore riconosca le proprie colpe (Gr 14,20), sia spiaciuto per averlo offeso (Sal 51,19; Is 57,15) e si impegni con tutte le sue forze nella via della conversione, abbandonando le vie del male (Gr 3,14; Ez 18,30-32; 33,11-16). Questa realtà viene pure indicata come giustificazione.

5. Elezione dagli inizi all'esilio L'elezione, quindi, è l'esperienza e la convinzione di aver ricevuto un destino diverso dagli altri

popoli e di essere in una condizione dovuta all'iniziativa totalmente libera e sovrana del Signore. Benché il termine che la designa, bahar e i suoi derivati, sia alquanto tardivo, la consapevolezza del fatto è antica quanto l'esistenza d'Israele come popolo di Dio. Il concetto è strettamente intrecciato con quello dell'alleanza e risale alla storia di Abramo (Gs 24,3). Esso ritorna ogni volta che Israele, consapevole di essere erede (Es 34,9), è invitato a una scelta (Gs 24,15). L'elezione, quindi è un progetto unico e un fatto continuo. La stessa descrizione della condizione dell'umanità in preda al peccato è il contesto generale che prepara a comprenderne il significato. Dio sceglie ed elegge Abramo per benedire in lui tutte le nazioni della terra (Gn 12,3). La discendenza ed eredità dell'elezione non è spontanea, naturale o automatica. Dio sceglie, ogni volta, secondo la sua volontà, le persone cui affidare una missione transitoria o stabile. Questa scelta, che pone a parte e consacra, riproduce gli aspetti dell'elezione d'Israele. Nei confronti dei profeti, da Mosè (Es 3; Sal 106,23) ad Amos (Am 7,15), Isaia (Is 8,11) e Geremia (Gr 15,16; 20,7) l'elezione diventa quasi sempre una vocazione. Essi sono strappati dalla loro vita abituale, dalla famiglia e amicizie e sono costretti a proclamare la volontà divina in opposizione a tutto il popolo.

Pure i re sono scelti ed eletti, chiamati da un profeta o costretti dal gioco degli eventi dominati da Dio. La loro funzione essenziale è di mantenere il popolo fedele alla sua elezione. È in base a questo che vengono giudicati (2Re 14,24; 15,3-4; 9-10; 24; 34-35). Anche sacerdoti e leviti sono eletti, scelti e messi a parte per svolgere il loro ministero, ossia tenersi alla presenza del Signore, le cui scelte ed elezioni si estendono a una quantità di fatti. Ha eletto la tribù di Giuda, il monte Sion (Sal 78,68), come suo soggiorno (Sal 68,17; 132,13) e il tempio di Gerusalemme per farvi abitare il suo nome (Dt 12,5; 16,7-16). Il Deuteronomio, che esprime il tema dell'elezione con bhr, ne sottolinea l'origine totalmente gratuita che nasce solo dal puro amore divino (Dt 7,7) e fa del popolo i suoi figli (Dt 14,1). Il fine dell'elezione è di consacrare a Dio un popolo santo, che diffonda nel mondo le grandiose meraviglie della generosità divina. Il modo di assicurarne la santità è la Legge (Dt 7,1-6; 26,19). Il popolo, invece, per le sue continue infedeltà e i troppi peccati, merita l'abbandono e il rigetto (Gr 31,37; Os 11,8; Ez 20,32), che Dio, tuttavia, non attua. Al contrario, con infinita misericordia, salva un "piccolo resto" dalla rovina generale, facendone il germoglio (Is 6,13; Zac 3,8) al quale rinnova il titolo di "mio eletto", "miei eletti" (Is 41,8; 43,20; 44,2; 43,10), per ricavarne un popolo interamente votato al suo servizio.

È all'interno di questi eventi e di questa storia che Dio manifesta il personaggio misterioso che chiama "mio Servo" (Is 42,1; 49,3; 52,13) e "mio Eletto" (42,1). Questo non è né un re, né un profeta, né un sacerdote, che venivano scelti e chiamati soltanto a un certo punto della loro vita. Il misterioso eletto, invece, è tale fin dal seno materno (Gr 1,5) e il suo nome non viene dagli uomini ma è dato solo da Dio (Gr 49,1). La sua intera esistenza è di Dio, elezione e consacrazione al suo servizio, pertanto è il Servo per eccellenza6. Israele, in confronto agli altri popoli, ha sempre vissuto l'antichissima esperienza di vita e di fede che lo distingueva e privilegiava per l'iniziativa d'amore di Dio. Quest'esperienza dell'elezione, nel Deuteronomio e in seguito venne espressa col termine bahar. Non è Israele che sceglie, ma Dio. Israele deve solo riconoscere e accettare ciò, obbedirgli, seguirne la via e i comandi. Nel corso dei secoli, tutte le vicende storiche saranno vissute da Israele in questa prospettiva. L'elezione dell'umanità è già espressa nei primi due capitoli di Genesi. Dio pone l'uomo nel giardino. Abele, (Gn 4,4), Enoch (5,24), Noè (6,8) sono "presi" da Dio, trovano grazia ai suoi occhi. La scelta sovrana di Dio, che opera gratuitamente per amore e benevolenza, domina tutta la storia, dai patriarchi fino a Mosè.

Di fronte alla schiavitù d'Egitto l'elezione assume toni più forti. La mano potente e vittoriosa di Dio: libera, redime, riscatta, acquista, salva. Egli opera per fare del suo popolo la sua eredità gloriosa. L'ingresso nella terra e la sua occupazione, per quanto mai completata, è la continuazione dell'esodo. Dio stesso, fedele al suo giuramento, dona al suo popolo la terra promessa. Da quando inizia la

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monarchia, i re sono gli eletti (bahar) di Dio. Rimangono tali pure quando deve rifiutarli e sostituirli, perché non hanno corrisposto alla missione loro affidata. I salmi 89 e 132 indicano Davide e il suo casato come eletti per sempre. L'elezione rimane, anche se Dio respinge un determinato "unto" per i suoi misfatti. Eletto (bahûr) diviene ora Israele, la cui grandezza non è causa, ma effetto dell'elezione gratuita di Dio, al quale deve sempre obbedire, come popolo "consacrato", "santo", "particolarmente suo" (Dt 7,5; 14,2; Es 19,5-6). Ciò è confermato con l'elezione di Sion/Gerusalemme, destinata a un solo culto, in un solo tempio, con un solo sacerdozio, così come c'è un solo Dio e una sola elezione.

6. Elezione nel post-esilio Il crollo generale prodotto dalla caduta di Gerusalemme, la distruzione del tempio, la deportazione

e l'esilio, sembrarono pregiudicare e dissolvere la permanenza dell'elezione. Tuttavia, un raggio di speranza e un'apertura al futuro permasero. Il Deutero-Isaia introduce un nuovo concetto: parla d'Israele in termini di "mio servo". Tutto il popolo ora appare investito dell'elezione e missione che già era stata di Davide (Is 55,3). Israele/Giacobbe, servo/eletto è collegato ad Abramo/mio amico. Contro quelli che ora temono la perdita dell'elezione, viene invece confermato: "Tu sei il mio servo, ti ho eletto, non ti ho rigettato" (41,9). Il servo dovrà rispondere con totale obbedienza, fedeltà e sottomissione. Dovrà testimoniare tale elezione con la sua sofferenza, umiliazione e morte, che non consentono interpretazioni vanagloriose. Il ritorno nella terra promessa e la ripresa della vita vengono espressi con termini che ricordano gli inizi dell'elezione. Allora la nazione fu costituita dal potente intervento divino che liberò il popolo dall'Egitto. Ora il piccolo resto è costituito dal ritorno alla terra e la ricostruzione. Nell'un caso e nell'altro è sempre Dio che opera. Vi è tuttavia, una grande differenza, poiché ora i salmi postesilici sottolineano che ciò che viene dato a Israele deve essere partecipato pure agli altri (Sal 47,8. 10; 135,4; 105,6. 43; 106,5).

Coloro che hanno veramente corrisposto all'elezione di Dio non sono gli israeliti in quanto tali, ma solo i "servi del Signore", ossia quanti hanno veramente corrisposto ai favori divini. L'elezione dell'antico Israele ha dato scarsi frutti. Vero popolo di Dio sono solo quanti cercano Dio (Is 65,10). Il tempio e Gerusalemme vedono allargarsi smisuratamente i loro confini: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli" (56,7). A Dio che elegge l'uomo, deve corrispondere l'uomo che cerca Dio, obbedendogli e osservando i suoi precetti7. Per questo la tradizione sacerdotale si preoccupa seriamente della possibilità di veder rifiutata l'elezione. Sottolinea le continue infedeltà dell'intero popolo ed evidenzia, per contro, la fedeltà di Mosè e di Aronne. Sposta, quindi, la fede dall'elezione generale del popolo verso la buona tenuta di un solo eletto. È quanto accenna pure Isaia, a proposito del "servo" di Dio (53,11) che, più tardi, il Nuovo Testamento applicherà a Gesù, unico, vero e perfetto eletto di Dio.

La dottrina della grazia è iniziata, quindi, con una pluralità di termini dell'Antico Testamento, che esprimono la relazione di fondo fra Dio e l'uomo. Dio guarda l'uomo e gli dona aiuto, soccorso, guarigione e salvezza. I vari termini indicano sempre la relazione di fondo che ha per oggetto i doni generosi e i benefici gratuiti di Dio, che esercita sempre la sua misericordia sui peccati, le infedeltà e i tradimenti dell'uomo. Il concetto di grazia dell'Antico Testamento prepara e sviluppa, dunque, tutti gli elementi della concezione del Nuovo Testamento. Tutti i termini e concetti più pregnanti dell'ebraico, che trattavano della grazia, per mezzo della traduzione greca dei LXX, confluiranno nella parola charis che diverrà determinate nel Nuovo Testamento8. Il Vangelo li prenderà e li farà confluire in un nome che è e rivela la realtà piena della grazia, come azione definitiva e risolutrice di Dio Padre: la persona, vita, morte e risurrezione del suo Figlio Gesù Cristo. Il dono definitivo di grazia, quindi, è la persona e l'evento di Gesù Cristo.

1DT, II, 38. 2 DTBD, 519. 3 B. G. Boschi, Esodo, in La Bibbia, (Nuovissima versione dai testi originali), Cinisello Balsamo, 1991, I,

300. 4 DT, II, 40. 5 DTBD, 520-521; NDT, 594.

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6 DTBD, "Élection", 337-342. 7 NDTB, "Elezione", 446-450. 8 O.H. Pesch, "Grazia", ET, 444.

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4. GIUSTIZIA E GIUSTIFICAZIONE NELL'ANTICO TESTAMENTO

1. Giustizia e giustificazione Il termine "giustificazione" ha assunto un notevole significato riguardo al tema della grazia,

soprattutto col sorgere del cristianesimo riformato. Il suo problema, tuttavia, è sorto come aspetto soggettivo della redenzione, riguardo alla sua appropriazione da parte del singolo. Nella Scrittura, tuttavia, il termine reperibile è solo quello di giustizia. La Bibbia ebraica, inoltre, ignora il suo significato greco di conformità a una norma astratta e impersonale1. Essa, infatti presenta il termine sedaqah che, sebbene tradotto con "giustizia", presenta un significato fondamentale profondamente diverso da quello inteso dalle lingue moderne e dal linguaggio comune. Nell'Antico Testamento, infatti, non si collega all'ordine giuridico o al rispetto delle leggi. Non si limita neppure al più ampio senso etico-morale, che indica il rispetto delle esigenze e dei diritti altrui, né al senso religioso, che indica rettitudine, perfezione, santità ecc. Ad esempio, le sedaqot (giustizie) magnificate nel canto di Debora (Gdc 5,11) non sono azioni giudiziarie, ma azioni salvifiche di Dio, che nella guerra ha agito a favore e in soccorso del suo popolo. Questo significato non è tardivo, né si limita a questo caso. Anche nelle profezie pre-esiliche nel loro insieme, infatti, tale famiglia di vocaboli non viene usata per designare un rapporto dell'uomo verso una norma legale, ma riguarda il Dio del patto, che è sempre fedele alla sua comunità. Probità del popolo e dono di salvezza di Dio formano un tutt'uno. Di conseguenza, il termine giustizia, riferito all'uomo, indica l'osservanza integrale di tutti i comandamenti di Dio, mentre riferito alla comunità indica un atteggiamento leale, fedele, costruttivo e solidale nei suoi confronti.

Riguardo a Dio, invece, indica il suo essere e agire di perfetta integrità, assoluta santità e perfezione. Si manifesta, quindi, nell'ordine e armonia che egli fa splendere nella creazione, nella forza meravigliosa e nella delicatezza con cui regge e governa l'universo, infine e soprattutto, nella misericordia e volontà di salvezza, che ispirano i suoi rapporti con l'uomo. La reale giustizia divina appare nei suoi gesti salvifici e con essi viene identificata. La giustizia di Dio, quindi, viene intesa nella prospettiva della misericordia. Per questo, creazione, sovranità divina e sedaqah vengono accostate strettamente nei salmi (5,9; 17,15; 22,32; 31,2; 33,5; 51,16; 71,2; 103,7; 119,40; 143, 1. 11), di modo che quelli che celebrano la giustizia di Dio, insistono nel sottolinearne la bontà e clemenza (Sal 7,18; 9,5; 96,13; 116,5; 129,3)2. Ciò si addice bene al contesto semitico, in cui la giustizia non è tanto l'atteggiamento passivo volto ad applicare imparzialmente la legge, ma l'impegno attivo del giudice volto a tutelare, con un giudizio favorevole, il più debole, perseguitato e posto in difficoltà (Gr 9,23; 11,20; 23,6). In tale contesto, di conseguenza, non vi è alcuna opposizione fra misericordia e giustizia. Nel Deuteroisaia il concetto di sedeq/sedaqah si tramuta in un elemento che abbraccia l'intera azione divina della salvezza3.

L'Antico Testamento applica anche all'uomo un concetto di giustizia scevro di ogni legalismo. Giustizia è soprattutto la fede, intesa come mezzo indispensabile per piacere a Dio. Ciò appare chiaramente in Abramo, che credette a Dio, in altri termini si affidò fiduciosamente alla promessa di Dio, che glielo accreditò a giustizia (Gn 15,6). Il suo credere significa rinunciare a cercare in se stesso appoggi e sicurezze, affidandosi totalmente al Signore. La sua giustizia, quindi, fu un atteggiamento di disponibilità alla comunione con lui. Abramo è giusto perché si apre alla comunione con Dio, che si ripercuote pure sulla comunione con gli uomini. Egli instaura il giusto rapporto con Dio, non per mezzo di un'azione legale o cultuale, ma perché crede e si affida alla fedeltà di Dio o, meglio ancora, al Dio fedele. I giusti, che il Signore cercava in Sodoma e Gomorra, erano persone solidali con tutte le altre, che rinunciassero alla violenza. La giustizia, che il Signore esigeva dai re, doveva consentire al popolo d'Israele una condotta leale, fedele e solidale, confacente ai generosi doni divini ricevuti. Le prescrizioni e i decreti che Dio diede al suo popolo, erano giusti (Dt 4,8) perché garantivano la pace e la giustizia se venivano osservati.

Poiché tutto ciò era grazia di Dio e non merito o conquista d'Israele, la comunione con Dio, la fedeltà alla sua legge e la fedeltà alla comunità esigevano la grazia divina. Fede e giustizia, infatti, sono correlative: giusto è colui che crede. Questo concetto ritorna con numerose sfumature nelle diverse situazioni ed epoche storiche. Negli ultimi libri dell'Antico Testamento si aggiunse, poi, un ulteriore aspetto: la giustizia è sapienza messa in pratica. L'influsso greco si mostra già in Sap 8,7, ove dikaiosyne unisce alla giustizia in senso stretto, le altre virtù cardinali: la prudenza, fortezza e

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temperanza. Sul termine dikaiosyne nella LXX vi è stato un acceso dibattito, per accertare quale fosse il suo senso genuino: quello greco o quello semitico/biblico? Poiché il termine venne usato pure per tradurre altri termini oltre a sdq, quali 'emet, mispat, hesed è prevalsa l'idea che esso abbia mantenuto il genuino significato biblico relativo alla salvezza4. In altri testi tardivi, giustizia è l'elemosina (Si 3,30; Tb 12,8; 14,9), come compassione misericordiosa che diviene carità. È in Isaia 40-66, tuttavia, che la "giustizia di Dio" assume la portata più ampia, che anticipa il grande tema paolino. Essa indica sia la salvezza del popolo deportato e prigioniero, che la misericordia e fedeltà divina. Tale dono, oltre la liberazione, comporta il conferimento di beni celesti, come la pace e la gloria, a un popolo il cui merito è solo quello di essere stato eletto da Dio (Is 45,22; 46,12; 51,1; 54,17; 56,1; 59,9). Giustificato significa glorificato (45,25). La giustizia di Dio è la manifestazione della sua misericordia e la realizzazione, come grazia e dono, delle sue promesse5.

Riassumendo i tratti fondamentali presenti nel termine ebraico sedeq/sedaqah, si può dire che esso: 1) non appartiene ad alcuna categoria forense, di diritto o altro, ma abbraccia l'intero ambito di vita degli israeliti, nei rapporti con Dio e col prossimo e può essere spiegato meglio con le categorie cultuali anziché giuridiche; 2) indica il concetto di un rapporto che può essere giustamente inteso come "patto" e tradotto come "fedeltà di comunità". Come, in conformità al patto, la giustizia di Dio si manifesta nella sua fedeltà d'amore, così il comportamento secondo giustizia, richiesto agli uomini, è la fedeltà di tutta la comunità allo stesso patto. Il termine sedeq/sedaqah, quindi, esprime due valori o significati in stretto e contemporaneo collegamento: la salvezza e il comportamento fedele secondo la giustizia. Ciò rende inseparabile la sedaqah umana da quella divina, perché la sedeq non è nell'uomo, ma l'uomo è nella sedeq. Per la grazia l'uomo si trova accolto nella sedeq, divina salvezza, e quindi impegnato anche a vivere secondo essa, come comportamento conforme alla giustizia6. È interessante notare che occasionalmente per tradurre sedeq furono usati pure termini come dikaioma, eleos e elemosyne (Dt 6,25; 2Sm 19,25; Sal 23,5).

Le difficoltà d'interpretazione s'incontrano pure nell'uso rabbinico, che mostra la stessa duplice tendenza. Da un lato la sedaqah viene interpretata in modo estremamente riduttivo e unilaterale come elemosina, beneficenza, opera buona, divenendo un termine quasi tecnico in questo senso. Dall'altro essa è ancora l'essenza di un comportamento gradito a Dio e viene intesa come comando, solo a partire dalle esigenze del patto con Dio, insite in essa7. Il Nuovo Testamento, e in particolare i vangeli, mostrano alcuni dei tratti essenziali del modo tradizionale d'intendere la giustizia nell'Antico Testamento. Dikaios vi indica l'uomo onesto, pio e timorato di Dio, che vive secondo la volontà e i comandamenti divini, per cui è giusto (Lc 2,25; 23,50) come erano giusti nell'adempimento degli ordinamenti divini i patriarchi (Mt 23,35) e i profeti (Mt 13,17; 23,29).

2. Giustificazione: piano e azione salvifica di Dio Come si è visto, in tutto l'Antico Testamento traspare la percezione che l'uomo non può conquistare

il favore divino con la propria giustizia e le proprie forze, ma solo con la fede di essere gradito a Dio. Ciò testimonia la misericordia divina e apre una via d'accesso al mistero della giustificazione. I Salmi descrivono bene un processo straordinario, perché invocano una giustizia, che non è un giusto giudizio inteso come condanna per i peccati, ma come loro perdono (Sal 36,11; 51,16; 116,40). Ciò significa che Dio manifeste la sua giustizia mediante benefici gratuiti, addirittura universali, che superano del tutto ciò che l'uomo potrebbe attendersi per giustizia. Nella Scrittura l'ambito della giustizia è molto più ampio di quello della legge. Essa riguarda il giusto atteggiamento e comportamento verso le esigenze di ogni essere. Ecco perché pretendere di avere diritti, di aver ragione o di sentirsi "giustificati" davanti al Dio infinitamente santo, è profondamente errato e ingiusto. L'unico atteggiamento giusto è il riconoscimento del proprio peccato e dei propri limiti, lasciando a lui di manifestare la sua giustizia (Sal 51,6; 130,3; 143,2). In questo modo, davanti al Dio infinitamente giusto, l'uomo non ha nulla da temere, ma tutto da sperare. La Scrittura considera impossibile la giustificazione dell'uomo davanti a Dio, ma suggerisce pure che Egli, avendoci creati per la comunione con lui e conoscendo la nostra condizione di peccato, nel nome della sua santità, che è la sua stessa giustizia, non rinuncia a renderci capaci di divenire giusti o santi di fronte a lui.

L'errore e l'illusione dei capi e di molti membri del popolo nell'Antico Testamento, come dei farisei nel Nuovo, era di poter osservare integralmente la Legge, ritenendosi così giustificati (santi) davanti a Dio. Era di considerare alla portata dell'uomo, della sua intelligenza e volontà la capacità di trattare

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Dio secondo le esigenze della sua infinita giustizia o santità. Era l'atteggiamento che Paolo giustamente definì come perversione essenziale, ossia il "diritto di gloriarsi davanti a Dio" (Rm3,27). Esso fa dimenticare all'uomo che la fedele osservanza della Legge è essa stessa opera di Dio, realizzazione della sua grazia e della sua Parola8. La giustizia, quindi, è grazia di Dio, non conquista d'Israele, è dono divino estremamente generoso e non conquista umana. Il possesso della terra era il segno e simbolo di tale azione divina. Dio lo aveva dato gratuitamente al suo popolo, perché è fedele alle promesse che aveva fatto ai loro padri. Dio si rivolgeva al popolo peccatore e lo rendeva giusto, gli dava la giustizia donandogli la terra. Israele, quindi, è giustificato da Dio per pura grazia, per cui deve attuare al suo interno la stessa compassione, misericordia, fedeltà comunitaria verso tutti i poveri, umili e sofferenti (Am 2,6; 5,7. 12. 24; 6,12). Tale giustizia, che è dono divino, è la condizione per la comunione con Dio, la pace e la prosperità anche economica, politica e sociale. Israele e Gerusalemme, divenuti corrotti, saranno resi giusti dall'intervento risanatore di Dio (Is 1, 21-27). Poiché la giustizia viene da Dio solo, il popolo deve convertirsi a lui, ossia aprirsi a lui e accoglierne il dono cambiando vita.

Nei profeti la giustificazione è il piano e l'azione salvifica di Dio, per tutti coloro che sono lontani dalla giustizia (Is 46,12). Nei Salmi essa equivale a quello che Dio realizza per l'uomo, nell'ambito sia personale che comunitario (Sal 9,9; 96,13; 98,9). La proclamazione che sovente troviamo in essi, di "essere giusto", va interpretata come volontà di accogliere la giustizia divina, per cui giusto è sinonimo di credente (Sal 1,5-6; 32,11; 331,1). La letteratura sapienziale tende a identificare la giustizia con la sapienza. Gli sforzi dell'uomo per capire la realtà, il mondo e la storia sono vani, perché il senso di tutto ciò gli sfugge e solo Dio lo conosce. L'uomo deve imparare ad affidarsi a Dio e a ricevere da lui tutto quello che gli dà (Qohelet). Il libro della Sapienza potrebbe riassumersi nella frase che "conoscere Dio è perfetta giustizia e riconoscere la sua potenza è radice d'immortalità" (15,3). La sapienza dà la giustizia e questa conferisce la vita immortale e beata. L'ingiustizia è la forza al servizio dell'egoismo, mentre la giustizia è l'amore al servizio della vita. Poiché in Dio la giustizia è la potenza del suo amore, che salva perdonando, la giustizia dell'uomo non può essere che amore e perdono reciproco9.

1 GLNT, II, 1017 ss. 2 DTBD, "Justice", 636, 640-641. 3 W. Mann, "Giustizia", DT, I, 744. 4 Mann, "Giustizia", DT, I, 746-748. 5 DTBD, "Justice", 643. 6 Mann, "Giustizia", DT, I, 746. 7 Mann, "Giustizia", DT, I, 748-749. 8 DTBD, "Justification", 645-647. 9 A. Bonora, "Giustizia", NDTB, 714-722.

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5. LA GRAZIA NEL NUOVO TESTAMENTO

Nell'Antico Testamento, come si è visto, la grazia è presente in forme diverse e con nomi vari, come evento, promessa e speranza. Dio gratuitamente e generosamente la dona e l'uomo liberamente la riceve e responsabilmente l'accoglie. La lettura cristiana dell'Antico Testamento, che Paolo propone nella lettera ai Galati e ai Romani, consiste nel riconoscere, nell'antica alleanza, le varie opere e i vari aspetti della grazia. La venuta di Cristo mostra fin dove può giungere la benevolenza e generosità di Dio, che ci dona il suo Figlio unico e prediletto (Rm 8,32). In tale dono attingiamo il vertice dell'atteggiamento divino, che ha sempre unito amore, benevolenza, generosità, gratuità, misericordia e fedeltà. Assieme alla pace, la grazia costituisce l'augurio di quasi tutte le lettere apostoliche. Essa viene pure presentata come il dono per eccellenza, che compendia tutta l'azione divina per noi e tutto ciò che ogni uomo può augurare ai fratelli. Per Giovanni, in Cristo ci sono pervenuti la grazia e la verità (1, 14) che ci hanno fatto conoscere che Dio è amore (1Gv 4,8). Per Paolo, ogni sua azione è grazia (Tt 2,11; 3,4). Per i vangeli, Gesù è il dono supremo dell'amore e benevolenza del Padre (Mt 21,37; 26,28). Ciò manifesta pienamente tutta la tenerezza, benevolenza e misericordia con cui Dio si definiva nell'Antico Testamento.

1. Termini e concetti I vocaboli della radice greca char sono numerosi: charis = favore, benevolenza, ringraziamento,

ricompensa; chárisma = dono dato per benevolenza; charixomai = fare un dono gratuito, un favore, perdonare; charitoo = colmare di grazia, rendere amabile. Il Nuovo Testamento usa 155 volte il termine charis, di cui 100 volte in S. Paolo. In Gesù il concetto di grazia esprime l'amoroso chinarsi sui poveri, malati, disperati, perduti (Mt 11,5.28; Mc 10,26; Lc 15), il perdono senza limiti dei peccati (Mt 18,21-34), la ricompensa nel Regno (Mt 20,1-16) il dono della vita nuova (Lc 13,6-8; 7,35-50; 19,9). In Luca il termine indica il favore e compiacimento di Dio (1,30;2,40). Il saluto dell'Angelo nei confronti di Maria, checharitomene (Lc 1,28) piena di grazia, o meglio "ricolmata di grazia", ha una forza e un senso del tutto speciali, relativi alla sua missione e posizione nella storia della salvezza. Negli Atti degli Apostoli, charis indica la forza che proviene da Dio o dal Cristo glorioso e accompagna l'attività degli apostoli, dando successo alla missione (At 6,8; 11,23; 14,26; 15,40; 18,27). Gesù annunzia il vangelo e proclama il regno di Dio, che si compirà alla fine dei tempi col suo ritorno glorioso in cui manifesterà la sua giustizia. Esige, quindi, la trasformazione interiore (Lc 17,20; Mt 20,28; Mc 8,31-33) che stabilisce una particolare relazione con Cristo.

La metanoia, che provoca in noi, ci fa staccare da tutto e tutti: denaro e beni (Mt 6,19-21; Mc 10,17-27); diritti e onori (Mt 5,39-41; Mc 10,42-44); genitori, famiglia e parenti (Lc 14,26; Mt 10,34-39), per farci piccoli e poveri (Mt 5,3: 18,3-4) e renderci capaci di fare sempre e in tutto la volontà del Padre (Mc 3,35; Mt 7,21). Nel vangelo di Giovanni i beni portati da Cristo: vita, luce, spirito, ecc., sono tutti doni della sua grazia1. Per Paolo charis è la sostanza dell'azione salvifica di Dio in Gesù Cristo e di tutte le conseguenze della sua attualizzazione. La parola grazia, oltre a indicare l'origine della salvezza, nella scelta libera di Dio, esprime anche che la salvezza è solo grazia, perché Dio ha scelto di giustificare e salvare per grazia. Tale volontà non è astratta, ma si è manifestata in Cristo e pone il cristiano in comunione con Dio. Grazia è, quindi, la comunione con Dio in Cristo, ma anche la forza interiore che Cristo opera in noi, perché possiamo vincere il peccato e aprirci all'amore stesso di Dio. Indica, dunque, sia la gratuita volontà salvifica di Dio in Cristo, sia la realtà della salvezza donataci in Cristo, sia l'azione salvifica di Dio, con e per mezzo degli uomini.

La parola charis non appare mai pronunciata da Gesù, mentre nell'epistolario paolino, come si è detto, ricorre 100 volte, contro le rimanenti 55 del Nuovo Testamento. Segna, quindi, il passaggio dalla "predicazione di Gesù al Cristo predicato" e sottolinea il problema fondamentale della cristologia moderna2. Il termine esprime la sua continuità con l'Antico Testamento, compendiando la sollecitudine salvifica di Dio verso l'uomo, dalla quale derivano tutti i doni. In questa prospettiva, la grazia non è più soltanto uno dei temi della teologia, insieme agli altri, ma il tema, esprimendo la nuova situazione annunciata dal vangelo, dell'uomo davanti a Dio e con Dio. Sotto quest'aspetto riguarda ogni singolo tema della teologia. Divenne, infatti, un tema o trattato teologico specifico, non tanto in seguito alle accentuazioni individualiste della modernità, ma piuttosto per l'accentuazione personalizzante di Paolo, che sta alle sue radici. Tale personalizzazione non è arbitraria, poiché esprime una necessità intrinseca alla realtà stessa della grazia, che coinvolge pure il suo complesso e difficile rapporto fra

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volontà divina e libertà umana. Il Dono della grazia e della fede, infatti, avvengono in conformità con l'elezione, la giustificazione e la predestinazione.

2. Grazia come comunione con Cristo Nel Nuovo Testamento Paolo è indubbiamente l'autore che ha trattato maggiormente i temi della

grazia, elezione, giustificazione e predestinazione. Essi ricorrono con grande frequenza nei suoi scritti e ne formano quasi l'ossatura. L'esperienza personale dell'Apostolo vi ritorna con insistenza, formando una specie di biografia spirituale e teologica. Dio lo ha scelto fin dal seno materno (Gal 1,15, cf. Is 49,1.6) e gli ha rivelato il Figlio (Gal 1,16), che si è inserito completamente nella sua vita e, con la sua grazia, gli ha dato accesso a ogni grazia (Rm 15,2), alla fede, all'apostolato (Rm 1,5) e lo ha reso suo testimone (1Co 15,8). Nel capo V della lettera ai Romani, Paolo spiega perché Cristo è al centro della grazia divina: nella sua morte, il Padre ci ha mostrato il suo amore per noi, che eravamo ancora peccatori (5,8). Con tale opera di salvezza ci ha giustificati (resi giusti) davanti a lui e ci ha aperto l'accesso alla grazia della comunione vivificante con lui (5,2). Tale grazia è sovrabbondante (5,17) e fu resa possibile dall'obbedienza del Nuovo Adamo (5,12-21). Comunicandoci la nuova vita, ossia la sua stessa vita, ci ha pure liberato dalla legge, dal peccato e dalla morte. Questa sua esperienza personale Paolo l'estende a tutta l'umanità. Col termine "grazia" indica soprattutto il dono di sé, che il Padre compie per mezzo di Cristo e che consente all'uomo di sperimentare la nuova vita come comunione con Cristo e, in lui, avere pieno accesso al Padre.

Questa comunione col Cristo è possibile mediante la potenza dello Spirito Santo, che ci è stato dato generosamente, per agire nei credenti battezzati. Questo Spirito, che è insieme di Dio e di Cristo (Rm 8,9), fa vivere e operare, nella vita del credente (1,5), il Cristo glorioso che lo libera dalla legge e dal peccato (2Co 3,18; Rm 6,18-23; Gal 4,21-31). Cristo, che agisce nel profondo dell'uomo, è espressione e dono della grazia e amore del Padre. Tale amore lo Spirito stesso lo effonde in noi (Rm 5,5). Dio, che è causa di tutto in tutti (1Co 12,6), fa operare in noi tutti i carismi ordinari e straordinari per l'edificazione della comunità (1Co 14,12) e il bene della Chiesa (servizio, semplicità, consolazione, guida, misericordia, gioia ecc.) (Rm 12; 1Co 12). Tale grazia di Dio è data in vista della risposta nella fede. Fede e grazia formano un'unica realtà (Rm 4,16), che produce la giustificazione o salvezza (Rm 3,28). L'uomo, però, può sia fare fruttificare la grazia ricevuta (1Co 15,10) che renderla inutile (2Co 6,1), spegnendo lo Spirito ricevuto (1Tes 5,19). Essendo stati salvati per mezzo della grazia e della fede (Ef 2,8), siamo in grado di superare la legge e vincere il peccato, dei quali non siamo più schiavi (Rm 6,14). La speranza di salvezza si fonda solo nello Spirito (Gal 5,5), senza il quale nessuno può ottenere la liberazione dal peccato e dalla colpa (Rm 3,9), la giustificazione e divenire accetto a Dio. Tutto questo è puro dono (Rm 5,15.20; 11,6).

Esso avviene nella storia che, perciò, diviene storia della salvezza, il cui fine è il Regno, ossia la sovranità definitiva dell'amore di Dio su tutto e tutti, la gloria dei viventi e il completamento del creato. L'universale volontà salvifica del Padre e l'azione redentrice del Cristo, applicate alla vita umana per mezzo dello Spirito, si esprimono come doni di grazia inseriti nel tempo, che l'uomo applica con impegno e fatica, in mezzo a difficoltà e tribolazioni, in un continuo cammino di perfezione. Esse si manifestano in molti modi. Le Chiese della Macedonia hanno ricevuto la grazia della generosità (2Co 8,1), quella di Filippi la grazia dell'apostolato (Fil 1,7; 2Tm 2,9). La varietà dei carismi rivela l'elezione che introduce nella salvezza (Gal 1,6; 2 Tm 1,9) e consacra a una missione (1Co 3,10; Gal 2,8). La gratuità totale dell'elezione (Rm 11,5) viene da Dio, prima di ogni scelta umana (Rm 1,5; Gal 1,15) e segna tutta l'esistenza cristiana. Se dipendesse da qualche osservanza, non sarebbe più dono né grazia (Rm 11,6). Il fatto che essa sia donata all'uomo, ancora nemico di Dio e incapace di sottrarsi al peccato, aumenta la gratuità e generosità dell'elezione. La grazia sovrabbonda (Rm 5,12-21), perché Dio apre senza riserve i tesori inesauribili della sua generosità (Ef 1,7; 2,7) e li effonde senza limiti (2Co 4,15; 9,14).

Dal momento che ci ha donato il Figlio "come potrebbe non elargirci ogni grazia?" (Rm 8,32). Per questo la grazia è di una fecondità inesauribile e produce opere e frutti di ogni genere (1Co 15,10; 1Ts1,3; 2Ts 1,11), in particolare di carità (Gal 5,6), "che Dio ha preparato in anticipo perché noi le producessimo" (Ef 2,10). Paolo annota con vigore che la grazia "fa di lui tutto ciò che è e fa in lui tutto ciò che egli fa" (1Co 15,10)3. Poiché essa è un principio intimo e profondo di trasformazione e di azione, esige una costante collaborazione. Di qui il dovere di obbedirle (2Co 1,12) e corrisponderle

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(Rm 15,125; Fil 2,12). Essa, soprattutto, è nascita alla nuova esistenza (Gv 3,3) dello Spirito che vive nei figli di Dio (Rm 8,14-17). Il cristiano è "chiamato" (Gal 1,6) e "stabilito" (Rm 5,2) nella grazia, "vive sotto il suo regno" (5,21; 6,14), la vita nuova con Cristo Risorto (6,4.8.11.13). Paolo e Giovanni concordano pienamente nel mostrare la Grazia di Cristo come dono della vita (Gv 5,26; 6,33; 17,2), sia di Cristo che dello Spirito Santo (Rm 6,14; 7,6). Per questo libera l'uomo dal peccato e gli porta frutti di santificazione (6,22; 7,4). Lo Spirito, dono di Dio per eccellenza, attesta in noi che la grazia ci fa veramente figli di Dio (At 8,20; 11,17; Rm 8,16). Questa è la vera giustificazione operata dalla grazia (Rm 3,23), che ci rende al cospetto di Dio quel che Egli vuole da noi: figli davanti al loro Padre (Rm 8, 14-17; 1Gv 3,1). La gloria del cristiano sta nel non possedere nulla, ma di ricevere tutto, in particolare la giustizia (giustificazione) solo per grazia, nella quale soltanto, l'uomo riesce ad essere pienamente se stesso (Rm 4,2; 5,2; 2Co 12,9; Ef 1,6).

3. Teologia della grazia come scontro fra morte e vita Gli innumerevoli spunti di Paolo consentono di abbozzare una specie di teologia della grazia,

centrata sul tema dello scontro fra la morte e la vita. Male e decadenza ebbero origine dalla trasgressione di Adamo (Rm 5,18), che scatenò nel mondo la storia del peccato (5,12) e pose tutta l'umanità sotto il dominio della morte (5,17). Principio e fonte della vita è Cristo morto e risorto, nuovo Adamo in cui tutti siamo vivificati (1Co 15,22). La vita cristiana, che è la vita nuova di Cristo e in Cristo, è redenzione dalla colpa e liberazione dalla condanna (Rm 8,1), dal potere malefico del peccato (6,22; 7,24), dalla legge che pesa senza aiutare (Gal 3,13) e dalla morte fisica. Tutto ciò avviene mediante la risurrezione (1Co 15). Vita di grazia o cristiana è soprattutto lo Spirito Santo che abita in noi con la sua presenza personale, continua e attiva (Gal 4,6; 2Co 1,22; Rm 5,5; Ef 5,18; Col 3,16), rendendoci templi vivi di Dio e dimore dello Spirito (1Co 3,16; 6,19). Essa è una relazione intima e profonda con Cristo, che ci fa figli di Dio (Rm 8,14-17; Gal 4,4-7; Ef 1, 4-5), eredi con lui e nuova creazione (Gal 6,15; 2Co 5,17), persone nuove (Ef 4,21-24; Col 3,9-10), rivestite di Cristo (Col 3,27), rigenerate mediante il battesimo (Tt 3,5-7) per vivere la stessa vita di Cristo (Gal 2,20; Col 3,24) e divenire membra del suo corpo mistico (chiesa) di cui egli è il capo (Col 1,18; Ef 4,11-16).

Il cristiano vive nella e della carità, che è il primo dono e frutto dello Spirito Santo, superiore a tutti i carismi (1Co 12,31; 13,13). Deve, quindi, amare tutti con lo stesso amore con cui amano Cristo e il Padre. Caratteristica prima della grazia è la sua gratuità, che proviene dalla sovrana generosità del Padre. Egli ha donato agli uomini il suo stesso Figlio Unigenito, il prediletto (Rm 8,32). Con lui e in lui ha donato la giustizia (santità e carità), che trionfa su ogni egoismo e fa sovrabbondare la grazia dove abbondò il peccato (Rm 5,15). Solo nella fede che viene dallo Spirito vi è speranza di giustificazione (Gal 5,5), anche se l'uomo può spegnere lo Spirito ricevuto (1Ts 5,19) e rendere inutile la grazia ricevuta (2Co 6,1).

4. S. Paolo: spunti significativi e predestinazione S. Paolo sottolinea una serie di punti decisivi: 1) tutti sono giustificati gratuitamente per la grazia di

Cristo (Rm 3,21-31); 2) solo il libero dono della benevolenza di Dio assicura l'estensione della promessa a tutti gli uomini (Rm 4,2. 25); 3) la grazia non è solo in funzione del peccato ma, prima di tutto, di un dominio reale, nuovo, definitivo introdotto da Cristo, il cui fondamento è la nuova giustizia e il fine la vita eterna (Rm 5,15-21; 6,1); 4) morendo e vivendo con Cristo, non si è più sotto il potere del peccato, ma della grazia, che è vita eterna e vince il potere della morte (Rm 6,12-23); 5) la grazia è potenza di Dio, che si oppone alla pretesa giudaica di auto-salvezza per mezzo delle opere e a quella greca di auto-liberazione per mezzo della saggezza umana (2Co 1,12); cercare la giustizia mediante la legge significa gettare via la grazia e vanificare la morte di Cristo, principio della grazia (Gal 2,21); 6) separarsi da Cristo e staccarsi dalla grazia significa precipitare nel baratro della propria ingiustizia e ritornare schiavi del male (Gal 5,1-6); 7) per chi crede, tutta la vita diviene grazia (2Co 6,1-9; Rm 5,2); 8) charisma è il dono personale dell'unico Spirito, che si diversifica nei singoli cristiani e va vissuto nella preghiera e nell'obbedienza (Rm 12; 1Co 12); 9) la prontezza a soffrire per la fede e l'amore di Cristo è un dono per la comunità (Fil 1,20); 10) il concetto di charis non è legato a dikaioo, ma a sozo che aggiunge all'idea di giustificazione quella di grazia come salvezza (Ef 2)4.

Paolo usa i verbi proorizo (Rm 8,29.30; 1Co 2,7; Ef 1,5.11) e proginosko (Rm 8,29; 11,2) col significato di "predeterminare" e "determinare in anticipo". In 1Co 2,7, parla di una sapienza

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misteriosa e nascosta, che è l'intenzione eterna di Dio, ossia il suo disegno di salvare l'umanità mediante la morte di Cristo. Predestina gli uomini a essere conformi all'immagine di Cristo e divenire membri della famiglia divina. Dio opera secondo questo disegno, predeterminato a lode della gloria divina (Ef 1,6.11), mediante la grazia concessa liberamente (Rm 3,24) per salvare i peccatori (Rm 5,6.8). Lo realizza mediante la persona e l'opera di Cristo e l'annuncio del vangelo. In Dio non esiste parzialità, perché la sua grazia e salvezza sono apparse a tutti gli uomini (Tt 2,11). Paolo annuncia come Pietro che "Dio non vuole che alcuno perisca ma tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 3,9), perché Dio è pieno d'amore e di grazia. È il Padre, che ci ha donato il Signore Gesù Cristo, a chiamare tutti a sé, per quanto peccatori. Ognuno, quindi, deve credere e sperare nella salvezza5.

5. Teologia della grazia in Giovanni e negli Apostoli Gli stessi temi si ritrovano nel corpo giovanneo, che li esprime con termini e immagini diverse. Il

cristiano possiede fin d'ora la vita eterna, la cui pienezza si manifesterà alla risurrezione (Gv 5,24). Fonte unica di questa vita è Gesù che s'identifica con essa (Gv 14,6; 1Gv 5,12). Si può vivere solo uniti con Cristo: acqua viva (Gv 4,10), pane vivo e di vita (Gv 6), luce di vita (8,12), vite dei tralci (Gv 15). Tale vita divina nasce realmente da Dio (Gv 1,13; 1Gv3,9; 4,7; 5,1.18), viene dall'alto (Gv 3,3.7) e dallo Spirito (3,6.8) ed è una vera rigenerazione (1,12; 11,52; 1Gv 3,1-2; 5,2). Essa non ci fa solo figli, ma realizza una vera immanenza fra Dio e noi (1Gv 4, 12-16), perché Padre, Figlio e Spirito Santo venendo, rimangono con noi (Gv 7,38; 14,23). La partecipazione a questa vita, libero dono di Cristo (Gv 5,21), è legata ad alcune condizioni: fede in Gesù Cristo, vero Figlio di Dio (Gv 1,12; 20,31); amore verso tutti gli uomini (1Gv 3,14); battesimo necessario alla rinascita (Gv 3,5); eucaristia (Gv 6,53). L'affermazione che Dio ci ha fatto partecipi della sua natura divina si trova in 2Pt 1,3-46.

6. Grazia come comunione e inabitazione Sintetizzando i molti elementi qui raccolti, potremo dire che il Nuovo Testamento rivela la grazia

come vita divina, nella comunione col Padre, Figlio e Spirito, che ci viene donata rendendola effettivamente nostra. Questo essere figli di Dio è un'unione che non sopprime né sminuisce la trascendente sovranità della Trinità, come non sopprime ma potenzia la nostra umanità. Questo puro dono divino è presentato mediante concetti e immagini che ne sottolineano pure la stabilità o permanenza: vita nuova, figliolanza, inabitazione, sequela ecc. Esse indicano il nostro essere per sempre in e con Cristo, solidali con il suo destino. Per quanto presente fin da ora, essa è pure una realtà escatologica, che si sviluppa verso una pienezza futura e tende verso il mondo della risurrezione che ancora attendiamo. L'essere figli adottivi è una realtà globale che trasforma profondamente tutte le dimensioni del nostro essere, in senso trinitario e cristologico. La presenza di Dio, infatti, è chiaramente quella della Trinità nei suoi rapporti ad intra, che la costituiscono nella sua trascendenza assoluta e nei suoi rapporti ad extra, nei quali la comunione delle Persone divine si rivela e si partecipa nel rapporto dialogale del Padre nello Spirito con il Figlio Gesù Cristo. La vita che Gesù ci ha già donato e la cui pienezza sarà raggiunta nell'era escatologica è non solo pienamente umana ma vera esistenza divina. La sequela è assimilazione al Figlio di Dio, che ci fa chiamare il Padre "Abbà", partecipare alla risurrezione e ricevere il suo Spirito filiale. La risposta della grazia alla presenza della Trinità in noi è la fede, speranza e carità, nella piena comunione con Dio e il prossimo7.

7. Vita eterna, vedere Dio Questo traguardo di vita vissuta come corrispondenza alla grazia divina, con l'aiuto della stessa

grazia è detto vita eterna, che unisce i temi della salvezza e del vedere Dio. Sotto questo aspetto, la visione di Dio è uno dei temi più trattati nella Scrittura. Vedere il volto di Dio indica sovente la benevolenza di Dio che si mostra all'uomo. L'uomo non ha diritto di chiedere tale visione di Dio, ma Dio gratuitamente la concede in segno di speciale benevolenza e amicizia (Gn 16,12; 32,31; Es 24,10; Es 33,11,23; 34,5-10). Vedere Dio faccia a faccia significa incontrarlo, ma comporta pure la morte, se Dio non salva. Vederlo senza morire, quindi, è il segno di grande benevolenza ed eccezionale amicizia. Questo linguaggio dell'Antico Testamento è entrato nel Nuovo, ma senza spiegare in che consista la visione di Dio. 1Co 13,12-18 dice che come Dio ci conosce pienamente e direttamente, così anche noi lo conosceremo nella vita eterna. Vedere indica, dunque, la pienezza dell'incontro di amore

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e amicizia con Dio e Cristo. A questi concetti la teologia ne aggiunge altri che li precisano, come la fruizione, la beatitudine e il gaudio.

1 A. Beni, "Grazia", NDT, 595. 2 O.H. Pesch, "Grazia", ET, 444. 3 J. Guillet, "Grazia", DTBD, 523. 4 H.H. Esser, "Grazia", DCBNT, 826-832; Tra le lettere cattoliche, le più vicine a questi spunti di Paolo sono

1Pt ed Eb. 5 W.A. Elwell, "Predestinazione", DDP, 522-528. 6 Beni, "Grazia", 596. 7 G. Manca, La grazia, Cinisello B. 1997, 64.

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6. ELEZIONE, GIUSTIZIA, GIUSTIFICAZIONE NEL NUOVO TESTAMENTO

1. Concetti e contenuti di "elezione" Il tema dell'elezione conserva tutto il suo valore pure nel Nuovo Testamento. L'annuncio profetico

del Deuteroisaia sul "mio servo", "mio eletto" (Is 42,1) a Gesù non è applicato direttamente molte volte, ma lo è sempre in momenti solenni e decisivi quali il battesimo, la trasfigurazione e la crocifissione. In essi ogni volta è evocata la figura del Servo (cf. Lc 9,35; 23,35). Per il Battista Gesù è l'eletto di Dio, il servo di cui Dio si compiace e su cui posa il suo Spirito. Gesù è il Figlio eletto (Lc 9,35). Il titolo di "eletto di Dio" esalta il legame speciale che manifesta in Gesù non solo il Messia, ma il termine di un'elezione particolare e unica, di Figlio di Dio1. Da tutta l'opera salvifica e redentrice, da Abramo in poi, l'unico a meritare pienamente tale titolo è soltanto Gesù. Da "ecco il mio eletto" vaticinato da Isaia si giunge a "ecco il mio eletto", pronunciato solennemente dal Padre, che rivela il segreto e il mistero di Gesù: egli è il suo Figlio, santificato fin dal seno materno (Lc 1,35), esistente prima della creazione del mondo (Gv 1,1-3) destinato a ricapitolare tutte le cose (Ef 1,4.10; 1Pt 1,20). Non solo è l'unico vero eletto ma, senza di lui, non vi possono essere eletti né elezione. Egli è l'unica pietra eletta, viva, che sostiene l'intero edificio costruito da Dio, rendendo "pietre viventi" quanti credono in lui (1Ptt 2,4.6). Senza pronunciare tale termine, Gesù, mostra la più chiara consapevolezza della sua elezione.

Sa di venire-da e appartenere-a un altro mondo (Mc 1,38; Gv 8,14; 9, 23). Sa di avere un destino unico di "Figlio dell'uomo" e di realizzatore dell'opera di Dio (Gv 5,19; 9,4; 17,4). Sa che tutte le Scritture riguardanti l'elezione d'Israele fanno capo a lui (Lc 24,27; Gv 5,46). Tale consapevolezza determina in lui la volontà di servire e di compiere, fino in fondo, il compito e le opere affidategli dal Padre (Gv 4,34). Per compierle, Gesù elegge coloro che vuole (Mc 3,13) e li raccoglie attorno a sé, per formare il suo nuovo popolo. L'elezione compiuta da Gesù (Lc 6,13; Gv 6,70) viene dal Padre (Gv 6,37; 17,2) sotto l'azione dello Spirito Santo (At 1,2). Dice Gesù: "non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" (Gv 15,16; Dt 7,6). All'inizio della Chiesa, dunque, come per l'antico Israele, vi è un'elezione divina. Gesù intende costruirla sui testimoni stabiliti da lui (At 10,41; 26,16). Così avverrà pure per Mattia (At 1,24) e Paolo (At 9,15). Tutti quelli che lo ascoltano, credono in lui e lo seguono, sono oggetto della sua elezione. Essere discepoli è frutto di una precisa e generosa elezione. La sua mediazione rivela e mostra l'elezione gratuita e benevola del Padre.

La catena concreta di elezioni caratterizza tutta la vita della Chiesa degli inizi. Le elezioni ecclesiali per le varie missioni sanzionano le scelte di Dio conosciute attraverso lo Spirito Santo (6,3). I Dodici impongono le mani sui Sette (6,6). La Chiesa di Antiochia pone a parte Paolo e Barnaba, eletti dallo Spirito per la sua opera (13,1). La fede e l'accoglienza della Parola non derivano da saggezza o potenza umana, ma solo dalla scelta di Dio (1Co 1,26; At 15,7; 1Ts 1,4). Si costituisce, così, una "stirpe eletta" (1Pt 2,9). I credenti sono gli "eletti" (Rm 16,13; 2Tm 2,10; 1Pt 1,1). La Chiesa è l'Eletta (Ekklèsia, Eklekté, Gv 13; Ap 17,14) che, come nuovo popolo di Dio, è pienamente cosciente dell'adempimento messianico, per cui sente trasferita su di sé la realtà dell'elezione, che aveva contrassegnato l'antico Israele come popolo di Dio. Se ne sente partecipe e portatrice. Per il suo intimo rapporto con Cristo, spetta alla Chiesa, in quanto tale, l'insieme delle promesse e dei doni rivolti a Israele come popolo eletto e privilegiato da Dio. Ora, il motivo dell'elezione consiste nell'accoglienza di fede di Gesù Cristo come Signore, Salvatore, Figlio di Dio. A questa elezione, il Padre convoca, grazie al Figlio e nello Spirito, coloro che accolgono la parola, si convertono a lui, si pongono al suo servizio e attendono il Figlio. In questo modo li fa la sua Chiesa (1Ts 1,6-9).

2. L'elezione negli scritti di Paolo La realtà dell'elezione riceve in S. Paolo particolare attenzione e profondità. Per gli esegeti

specializzati negli scritti paolini, nella teologia di S. Paolo l'elezione e la predestinazione sono così fortemente intrecciate, da costituire quasi la struttura del suo pensiero, rendendo difficile analizzarli ed elaborarli come temi separati. Collegate a concetti come chiamata, disegno, volontà, consiglio di Dio, sono fortemente connesse con l'insieme della redenzione, la grazia e le altre realtà rivelate. Alcuni pensano che per capire la dottrina paolina su elezione e redenzione occorra muovere dalla dottrina su Dio, Realtà Suprema, Padre, Figlio e Spirito Santo, che progetta, elegge, chiama e predestina. Paolo dovette annunciare tutto ciò in comunità molto diverse dal punto di vista culturale e religioso. Per di

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più esse erano pure influenzate dallo scetticismo filosofico, dalle mentalità idolatre e pagane, da superstizioni e idee sbagliate sugli dèi. Doveva, dunque, sottolineare le qualità di Dio a proposito dell'elezione e predestinazione. Esse sono l'amore (Ef 1,4-5; 1Ts 1,4), la misericordia (Rm 9,16) la grazia (Rm 11,5), la sapienza e scienza (Rm 11,33). Presenta, quindi, il Dio infinitamente amoroso e misericordioso che, per grazia, elegge e con la sua sapienza predestina. Ciò fa escludere in partenza ogni timore di arbitrio. Dio, perciò, concepisce e inserisce il suo piano di salvezza come parte e strumento di attuazione del suo progetto di amore per l'umanità.

Elezione e predestinazione, quindi, non sono fine a se stessi, ma strumenti di quel progetto elaborato dal profondo del suo amore e della sua eterna sapienza, che attua nel tempo e nella storia, mediante la sua grazia. Paolo non entra nei dettagli e non sviluppa per esteso questo progetto o disegno generale, che abbraccia tutto l'agire di Dio verso il creato e la storia. A lui interessa considerarlo nella prospettiva della redenzione. Questa finalizzazione alla redenzione, fa sì che Dio faccia concorrere tutte le cose al bene di coloro che ama e lo amano (Rm 8,28) e li chiami, facendo conoscere la sua multiforme sapienza attraverso la Chiesa (Ef 3,10). Tale disegno è imperscrutabile (1Co 2,16; Rm 11,33-35), ma Dio, che per mezzo dello Spirito Santo scruta le profondità divine (1Co 2,10-11), lo ha rivelato ai credenti (2,12), così che abbiano gli stessi pensieri di Cristo (2,16). Dio, quindi, in tutta la sua multiforme sapienza, manifesta il suo pensiero, volontà, disegno, misteri divini ed eterni, perché possano essere conosciuti mediante la Chiesa, corpo di Cristo (Ef 3,11).

Per esprimere l'elezione Paolo usa il verbo eklego, il sostantivo ekloge e l'aggettivo ekletos. Il verbo, già nella LXX, indica "scegliere", "scegliere per qualcuno" o "scegliere per sé" (1Co 1,27; Ef 1,4). Non implica, tuttavia, il rigetto di chi non è scelto, ma aggiunge una sfumatura di gentilezza, favore e amore (1Co 1,27-28; Ef 1,4). Haireo assume invece il senso di scegliere, più che di prendere o mostrare una preferenza (2Ts 2,13; Fil 1,22). Il sostantivo ekloge significa "scelta" e "selezione". Viene applicato in At 9,15, per dire che Paolo è "un vaso di elezione" ed è usato quattro volte nella lettera ai Romani. In 9,11 è riferito a Esaù e Giacobbe e in 11,5-7 a un'elezione dei giudei credenti, salvati dalle nazioni incredule. In 11,28 indica la scelta secondo l'alleanza e la promessa. In 1Ts 1,4 riguarda i singoli invitati alla gratitudine per la loro elezione. L'aggettivo ekletos significa "scelto" e "selezionato" (Rm 8,33; 16,13; Col 3,12; 1Tm 5,21; 2Tm 2,10; Tt 1,1). I credenti furono scelti in Cristo, prima dei tempi eterni (2Tm 1,9), prima della fondazione del mondo (Ef 1,4) per l'adozione (Ef 1,5), la conformità a Cristo (Rm 8,29), la salvezza dagli inganni dell'anticristo (2Ts 2,13) e la gloria eterna (Rm 9,23). La fonte dell'elezione è sempre la grazia divina e mai la volontà umana (Ef 1,4; Rm 9,11; 11,5)2.

Questi termini sono applicati all'elezione sia degli angeli (1Tm 5,21), che delle persone in gruppo (Rm 8,33; Ef 1,4; Col 3,12; 1Ts 1,4; 2Tm 2,10; Tt 1,1) o singole (Rm 16,13) e d'Israele. Riguardo alle persone, Paolo mostra le ragioni per cui nulla può separare da Dio gli eletti scelti, giustificati e glorificati in Cristo (Rm 8,28-39). Lo scopo della predestinazione è l'adozione nella famiglia divina (Ef 1,3-5). Sommando i vari elementi, appare che l'elezione indica l'atto di amore col quale, dall'eternità, Dio ha scelto, in Cristo, delle persone perché siano sante e senza colpa, adottandole nella sua famiglia secondo un disegno che comprende la loro chiamata, giustificazione, santificazione e glorificazione. Nessuno potrà ostacolare questo piano che Dio porterà certamente a compimento. Quanto a Israele, la sua storia complessa è un mistero che sarà svelato solo nel futuro, quando tutto Israele sarà salvato (Rm 11,26). Per questo la sua elezione dura per sempre, anche se per ora viene messo da parte.

3. Elezione: precisazioni e approfondimenti L'uso di chiamare eletti i cristiani, quindi, è in linea con tutto l'Antico Testamento e con tutta

l'iniziativa della gratuità, bontà e generosità divina. Il cristiano è eletto perché oggetto della bontà divina preveniente, gratuita e generosa (Gc 2,5; 1Co 1,27-31; At 15,7-11). Eletti, per i cristiani, è un'indicazione non solo teologica ma anche cristologica. Nella fede, il credente è unito all'opera salvifica del Figlio di Dio, di cui esprime la vita e attende il glorioso ritorno. Egli sa di essere salvato per grazia e che, alla fine, si salverà grazie alla fedeltà di Dio. Di qui l'esigenza di una vita di fede, continua vigilanza, instancabile perseveranza e buone opere, per essere trovati idonei e approvati al ritorno del Signore. Soltanto così si potrà essere con lui per sempre (1Ts 4,17). Lo Spirito Santo è la massima manifestazione del dono divino, che garantisce l'amore di Dio, lo manifesta e rende attivo in

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noi, rivelandoci e facendoci partecipi del mistero trinitario. Egli ricorda come le tre Persone operano nell'elezione: il Padre e la sua prescienza come causa; il Figlio e la sua redenzione come fine; lo Spirito e la sua santificazione come strumento e modo (Ef 1,3-14; 1Ts 1,4-5; At 15,7-11.14). Dio, quindi, non discrimina nessuno, né pagani, né ebrei, ma concede a tutti lo Spirito Santo (At 15,8-11). Il termine "eletti di Dio" indica sia la sua scelta libera, gratuita e sovrana, che la nostra condizione personale (Mc 13,20.27; Rm 8,33). Per quanto, invece, riguarda i vari popoli, va ricordato che l'alleanza attuata con Noè e l'elezione d'Abramo furono una benedizione per tutte le nazioni.

In Gesù, alleanza e benedizione sono portate a compimento per tutti. Gentili e Giudei sono riconciliati (Ef 2,14) ed eletti per formare quell'unico popolo che Dio si è acquistato (Ef 1,11.14). L'elezione, quindi, abbraccia tutti. Il suo rifiuto, tuttavia, è sempre tragicamente possibile, ma non intacca l'universalità dell'elezione, perché essa non è un atto magico, né una passiva accettazione. Richiede, invece, un consenso positivo e una fede efficace (Gv 6,64; 13,11.15.17; 15,16). Se necessario, l'eletto deve portare, faticosamente, con sofferenza e a prezzo della propria vita, l'indispensabile testimonianza davanti a tutti. Il rifiuto riguarda, comunque, l'escatologia ossia gli ultimi tempi. Per questa ragione non è ricaduto sugli ebrei, che "quanto all'elezione, sono amati a causa dei loro padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rm 11,28-29)3. Rimangono della massima importanza, dunque, i pochi ma incisivi testi che sottolineano l'elezione in Cristo fin dall'eternità (2Ts 2,13; Ef 1,4; 1Ptt 1,1s.20; 1Co 2,7; 15,49; 2Co 8,18; Rm 8,14. 29; Gal 4,4; Fil 3,21). Riassumendo questo aspetto, possiamo dire che i cristiani, grazie all'eterno amore di Dio, sin dall'eternità, sono eletti in Cristo a essere figli santi e fedeli del Padre e lo divengono in Cristo, con Cristo e per Cristo, come dice questa espressione dell'elezione che compendia tutta la salvezza4.

4. Giustizia e giustificazione Come si è accennato, l'Antico Testamento non parla di giustificazione, ma di giustizia di Dio e

dell'uomo. Il suo fondamento è la fedeltà a una relazione di comunione. Dio è fedele al suo patto. Non così Israele, la cui osservanza della legge doveva consistere nel vivere personalmente e comunitariamente la fede nella volontà di Dio. Per questo il Nuovo Testamento sottolinea l'errore fondamentale commesso da farisei e dottori della Legge nell'interpretare il significato e il ruolo dell'antica Legge. Essi credevano che bastasse osservarla minuziosamente e integralmente, nella sua lettera, per ritenersi "giustificati" davanti a Dio. Ritenevano, quindi, che l'uomo potesse attingere alle proprie risorse per raggiungere Dio e presentarsi a Lui come esige e si attende da noi. Questo atteggiamento e dottrina sono denunciati anche da Paolo come suprema perversione del "diritto di gloriarsi davanti a Dio" (Rm 3,27). Essi nascevano dall'errore di dissociare la Legge dalle promesse divine e dal dimenticare che l'osservanza, obbedienza e fedeltà alla Legge è pure essa opera di Dio e attuazione della sua Parola. Vero e unico giusto davanti a Dio, quindi, è soltanto Gesù Cristo (At 3,14). Egli è l'unico ad essere, davanti al Padre, quello che Egli esattamente si attende: il Servo obbediente nel quale Egli può compiacersi (Is 42,1; Mt 3,17). Egli solo compì fino in fondo ogni giustizia (Mt 3,15), soffrì e morì perché Dio fosse pienamente glorificato (Gv 17,1-4).

Egli mostrò davanti a tutto il mondo che Dio, con tutta la sua grandezza, è degno di ogni sacrificio e merita di essere amato sopra ogni cosa (Gv 14,30). Nella sua morte, che alcuni videro come riprovazione (Is 53,4; Mt 27,43-46), Gesù trova, invece, la sua giustificazione. L'opera da lui compiuta (Gv 16,10) è riconosciuta dal Padre, che lo risuscita e "giustifica" nel pieno possesso dello Spirito Santo (1Tm 3,16). La sua risurrezione ha per fine la nostra giustificazione (Rm 4,25). Ciò che la Legge non poteva assolutamente attuare, anzi escludeva categoricamente, ci è stato dato dalla grazia del Padre che, nella Redenzione di Cristo, ce ne ha fatto dono (Rm 3,23). Nel Figlio, che per la sua obbedienza e giustizia ha meritato la giustificazione per tutti gli uomini, anche noi siamo divenuti figli. In Gesù Cristo Dio ci ha resi capaci: di avere l'atteggiamento giusto che Egli si attende da noi; di trattarlo come merita; di rendergli la giustizia e gloria alla quale ha diritto. Questo significa essere giustificati al suo cospetto. Dio, dunque, per pura gratuità, dona all'uomo la grazia di trovare, nel più profondo del suo essere, l'atteggiamento giusto da assumere verso di lui, come si addice realmente ai suoi figli (Rm 8,14-17; 1Gv 3,1). Questa trasformazione interiore non è qualcosa di magico, ma è l'opera divina nel profondo del nostro essere (pensieri, parole, opere), che ci libera dall'orgoglio e amor proprio (Gv 7,18) e ci unisce a Cristo nella fede (Rm 3,28). Credendo in Cristo si diviene giusti e si entra nel mistero di Dio. Credere significa riconoscere in lui l'inviato del Padre, accogliere le sue parole, accettare di perdere tutto per il suo Regno. Guadagnare Cristo significa: ricevere da Lui la

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giustizia che viene da Dio e si fonda nella fede (Fil 3,8); riconoscere l'amore di Dio per noi; testimoniare che Egli è il vero e unico amore (1Gv 4,16)5.

5. Giustizia, giustificazione, salvezza Recentemente alcuni esegeti hanno proposto un'interpretazione un po' diversa. Per alcuni i Giudei

non avrebbero sostenuto che le opere della Legge consentono la salvezza, ma soltanto che consentono di rimanere in essa. Altri pensano che avrebbero identificato la salvezza col rimanere nel proprio stato di popolo dell'alleanza con Dio, che possiede la Legge. Paolo, quindi, avrebbe opposto ai Giudei che essi non hanno alcuno statuto nazionale di privilegio, ma che l'alleanza è aperta a tutti quanti credono in Cristo, ponendosi in continuità con Abramo (Rm 4)6. Nella predicazione di Gesù, tuttavia, più che la giustificazione, è fondamentale il tema della giustizia. Matteo l'identifica col fare la volontà del Padre rivelata nella parola di Gesù (7,21.24.26). La via della giustizia annunciata da Gesù nel discorso della montagna (Mt 5,6.10.20; 6,1.33) e sintetizzata nel comandamento dell'amore di Dio e del prossimo (Mt 22,37-40) è dunque credere e attuare la volontà del Padre. Gesù è giusto perché realizza pienamente il piano salvifico del Padre. Giustizia, dunque, è voler vivere come Cristo, in una famiglia di fratelli e sorelle che fanno la volontà del Padre (Mt 3,35).

Per Luca, Gesù è il giusto per eccellenza, come martire innocente che dona la sua vita per amore di Dio e dei fratelli (Lc 23,47: At 3,14; 7,52; 22,14). Per Paolo, la giustizia appartiene propriamente a Dio ed è la sua attività salvifica, misericordiosa e fedele per l'uomo, che si rivela e dona pienamente nel Cristo nostra salvezza (Rm 3,21-22). Essa è presente nel cristiano, perché è legata alla fede in Cristo e si compirà pienamente alla fine dei tempi. Credere in Lui significa ricevere da Lui il dono dello Spirito Santo. È in questo modo che i cristiani diventano "giustizia di Dio in Cristo" (2Co 5,21), persone nuove create "secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità" (Ef 3,24). Non sono solo "dichiarati" ma veramente "resi" giusti. La giustizia di Dio è la sua misericordia (Rm 3,25) che si esprime nell'efficace volontà di liberarli integralmente, perché vivano in piena comunione con Lui e con i fratelli, come membra di Cristo (1Co 12,27). La comunità è suo corpo e sua sposa (Ef 5,21-33). La giustizia è frutto dello Spirito e si esprime nell'amore, pace, gioia, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza, padronanza di sé, che sono i suoi frutti (Gal 5,13-25). Giustizia di Dio è il suo amore liberatore, donatoci per mezzo di Cristo, nello Spirito, per fare di noi la nuova comunità d'amore con Dio e i fratelli (Ef 2,14).

Ciò significa che solo Cristo dà all'uomo la capacità e la speranza di costruire un mondo più giusto7. In Rm 3,26 Paolo precisa come si realizzi nell'uomo l'azione salvifica (giustificazione) del Dio giusto e fedele: nella morte di Cristo il Padre si rivela, facendosi presente e operando come il Giusto che giustifica il credente. È la fede in Cristo, operante mediante l'agape o carità (Gal 5,6), che giustifica. Essa comporta l'adesione all'annuncio evangelico, la rinuncia a ogni pretesa di autosalvarsi e la piena accettazione dell'iniziativa di grazia del Padre. Avviene sotto il segno della perfetta gratuità divina ed esclude la possibilità di ogni vanto e autoglorificazione (Rm 3,24; Ef 2,8; 1Co 1,31). La realtà escatologica della giustificazione è veramente anticipata nel credente, mentre il suo compimento è oggetto di speranza (Gal 5,5). La giustificazione ha pure il suo risvolto etico-morale, perché apre all'uomo giustificato una nuova strada e nuove esigenze operative, proprie di chi è alleato e collaboratore di Dio nell'opera della salvezza. La giustizia è la forza della nuova vita. Mentre Paolo espone come l'uomo possa diventare giusto davanti a Dio, Giacomo espone come i giustificati debbano comportarsi esprimendo la loro adesione alla fede, mediante le opere concrete della grazia e non limitandosi alle sole espressioni verbali o intellettuali (Gc 2,14-26)8.

6. Visione riassuntiva Riassumendo, si può dire che tutto il Nuovo Testamento parla dell'azione salvifica di Dio, che

Paolo esprime ricorrendo al concetto di giustificazione. La grazia diviene allora la sintesi e l'essenza dell'evento che dona la giustizia o giustificazione (Rm 3,23). Del resto, pure Paolo usa l'espressione "opere della fede" (1Ts 1,3) che si può correttamente tradurre "opere derivanti dalla fede". In Paolo, la fede assume un'importanza unica perché richiede l'obbedienza (Rm 1,5) e l'attività. I credenti sono giustificati in base alla fede, che non deriva da meriti umani, ma è dono della grazia di Dio, però sono giudicati in base alle opere espresse dalla loro fede. Potremmo sintetizzare dicendo: i credenti sono giustificati dalla fede e giudicati sui suoi frutti. Le opere sono, così, la testimonianza viva e la

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dimostrazione visibile di una fede viva, reale e giustificante che esclude la fede morta (Gc 2,14-24). In questo modi i due aspetti della giustificazione espressi da Paolo e Giacomo si compongono e si corrispondono9.

Poiché tutti senza eccezione, giudei e pagani vivono sotto la schiavitù del peccato, che è inevitabile perdizione (Rm 1,24-32; 3,4.10-18), la salvezza è necessaria. Poiché l'obbedienza alla legge non può procurarla, è subentrata la potenza universale di Gesù, la cui espiazione salva ogni credente dal giudizio escatologico (Rm 3,22-26). Per questo, pretendere una propria giustizia basata sulle opere della legge diventa peccato (Gal 4,8-10; 5,1; 6,12-15; Rm 8,15; 9,32; 10,2; Fil 3,7-11). Cristo è la fine della legge e insieme il fine di essa, perché mira al compimento della legge come volontà di Dio, nella legge dell'amore in cui operano e crescono i frutti dello Spirito Santo (Gal 5,22). Benché l'uomo abbia sempre infranto l'alleanza, Dio l'ha sempre rispettata e mantenuta. Per questo giustifica l'uomo, rendendolo giusto in base all'espiazione compiuta da Cristo, una volta per tutte, nella sua passione, morte e risurrezione10.

1 L. De Lorenzi, "Elezione", NDTB, 452. 2 "Choice, choose, chosen", EDOT 10101; "Elect, elected, election", Ib., 196. 3 J. Guillet, "Election", DTBD, 342-344. 4 De Lorenzi, "Elezione", 454-458. 5 J. Guillet, "Justification", DTBD, 647-649. 6 A.E. McGrath, "Giustificazione", DDP, 791. 7 A. Bonora, "Giustizia", NDTB, 722-726. 8 G. Barbaglio, "Giustificazione", NDTB, 1988-1991. 9 McGrath, "Giustificazione", 796. 10 O.H. Pesch, "Giustificazione", ET, 431-432.

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7. SANTITÀ E SANTIFICAZIONE NELL'ANTICO E NUOVO TESTAMENTO

1. Santità nell'Antico Testamento: da Dio alle istituzioni La nozione biblica di santità è molto più ricca di quelle delle altre religioni e culture semitiche,

essendo definita a partire dall'autorivelazione di Dio, sorgente e fondamento di ogni santità. Nella Scrittura la santità è Dio stesso, quindi coinvolge il mistero di Dio e della sua comunicazione con l'uomo. Per questo la santità divina è inaccessibile all'uomo, a meno che Dio stesso non gli sveli la sua gloria, il cui splendore è insostenibile dall'uomo, fragile "carne". La Scrittura esprime il mostrarsi della gloria e santità divina, col termine "santificarsi" e con la descrizione di fatti ed eventi rivelativi: creazione, teofanie, protezioni miracolose, aiuti e liberazioni insperate, ma anche prove, castighi e calamità (Nm 20,1-13; Ez 28,25). Tutte queste manifestazioni indicano il senso in cui Dio è santo. Le maestose teofanie del Sinai (Es 28,25) mostrano la santità divina come una potenza terribile e misteriosa, che può annientare (1Sam 6,19) o benedire (2Sam 6,7-11) chi le si avvicina. Poiché esprime amore, misericordia e perdono (Os 11,9), non va confusa con la trascendenza o la collera divina. A Isaia, Dio appare re di maestà infinita, creatore la cui gloria riempie tutta la terra, centro di un culto che solo i serafini possono rendere, pur non osando contemplarne il volto. Per questo l'uomo non può guardarlo senza morire (Es 33,18-23; Is 6,1-5).

Benché inaccessibile, egli colma la distanza che lo separa dall'uomo mostrandosi come il Santo d'Israele, che con l'alleanza diviene gioia, forza, speranza, sostegno, salvezza e redenzione del suo popolo (Is 10,20; 17,7; 41,14-20). La santità divina, quindi, non si trincera dietro la sua trascendenza e separazione, ma esprime tutta la ricchezza di vita, potenza, bontà, verità e amore che Dio è e possiede. Non è un attributo divino, ma l'essenza stessa di Dio. Per questo il suo stesso Nome è santo (Sal 33,21; Am 2,7; Es 3,14) e può giurare per la sua santità (Am 4,2). La Scrittura, quindi, considera sinonimi perfetti Dio e "il Santo" (Sal 71,22; Is 5,24; Ab 3,3), che esige che la sua santità sia riconosciuta e manifesta a tutti gli uomini, mediante il culto e l'obbedienza che gli spettano come unico e vero Dio. Lo si santifica (riconosce santo) con una liturgia ben celebrata di cui dà tutti i dettagli (Lv 1-7). Essa ne manifesta la gloria e maestà (Lv 9,6-23; 10,1; 1R 8,10; 1Sam 2,17; 3,11). Il culto, tuttavia, deve essere sincera espressione di piena obbedienza (Lv 22,31), fede profonda (Dt 20,12), lode personale (Sal 99,3-9) e giusto timore (Is 8,13). Le norme cultuali che mostrano la sua santità riguardano: a) luoghi, zone, aree, santuari, tempio; b) persone, sacerdoti, leviti, primogeniti, nazirei, profeti ecc.; c) oggetti, offerte, vestiti, strumenti cultuali; d) riti, offerte, sacrifici, aspersioni, dedicazioni, unzioni; e) tempi, sabato, feste, anni giubilari.

Queste realtà costituivano "segni permanenti" della santità divina. I sacerdoti erano il segno del Signore che santifica il suo popolo chiamandolo al banchetto sacrificale di comunione (Lv 21,6-8). Il popolo invocava il perdono e il favore del Dio santo su di sé (Es 28,36-38). I nazirei s'impegnavano con voto a una vita rigorosa, che indicava la potenza della santità divina a favore del e in mezzo al suo popolo (Gn 49,26; Nm 6,5-8; Gdc 13, 5-7; 1Sam 1,11). Luoghi e oggetti destinati al culto divino divenivano segno e memoriale della santità di Dio. L'arca era il segno della presenza di Dio che parlava a Mosè e, per suo mezzo, a tutto il popolo (Es 25,10-22; 1Sam 6,20; Sal 99). Il tempio era il segno della stabile presenza salvifica del Signore (Es 25,8; Sal 11,4; Ab 2,20), che dava benedizione (Sal 118,26), parola (50,8), aiuto (20,3) esaudimento delle preghiere (1Re 8,30-40). Sante erano le offerte sacrificali (Lv 6; 8,31; 14,13), l'altare e le suppellettili (Es 29,36). Quanto ai tempi, erano segni per rivivere la comunione col Dio vivo, il suo esodo salvifico, l'esperienza del suo amore misericordioso (Is 61,10-11). Il sabato, in particolare, era il giorno del Signore, che santifica e fa partecipare al suo riposo (Is 58,13; Ez 20,12). Le feste rappresentavano l'oggi in cui il Signore convoca il popolo per rinnovare il memoriale dell'esodo e riattualizzarlo in una vita di fede in lui e di fedeltà all'alleanza (Dt 29,3). Il giubileo era il tempo della "liberazione" di tutti gli abitanti del paese (Lv 25,10).

2. Santità: dalle istituzioni alle persone Tutte queste realtà erano sante in proporzioni al rapporto più o meno stretto che avevano con Dio.

La loro santità non era della stessa natura di quella di Dio, né qualcosa di spontaneo o automatico, ma il risultato di una libera scelta o decisione divina. Lo stesso Sommo Sacerdote non poteva entrare nel Santo dei Santi che una volta all'anno e solo dopo purificazioni molto minuziose (Lv 16,1-16). Vi era,

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dunque, la santità infinita di Dio e la santità parziale, relativa delle realtà che dovevano manifestarla, pur velandola. Particolarmente importante era la condizione d'Israele, separato dalle nazioni per essere il popolo santo, sacerdotale, proprietà divina. Dio gli mostrava il suo incomprensibile amore, vivendo e camminando in mezzo ad esso (Es 33,12-17), manifestandosi a lui nella nube, nell'Arca, nel tempio o nella sua gloria, che lo accompagnava pure nell'esilio (Ez 1,1-28). Questa presenza attiva conferiva al popolo una dignità che lo obbligava a una santità morale. Per santificarlo, Dio gli comunicava la sua Legge (Lv 22,31) che doveva preservarlo dalle abominazioni e degradazioni pagane. Questa è la forza che gli dava sicurezza (Is 41,14-20; 54, 1-5), speranza e lo rendeva invincibile (Is 60,9-14).

A questa scelta gratuita e generosa di Dio che lo voleva santo, Israele doveva corrispondere santificandosi. Ciò comprendeva vari aspetti. Doveva purificarsi prima di assistere alle teofanie o partecipare agli atti di culto (Es 19,10-15). È Dio, comunque, che gli conferiva la purità, mediante i sacrifici (Lv 17,11) o purificandone il cuore (Sal 51). I profeti insistevano che ciò che purifica è l'obbedienza a Dio, l'amore, la giustizia (Dt 6,4-9; Is 1,4-20), ossia la santità vissuta, la vita santa in tutte le sue espressioni familiari, professionali, politiche, economiche, sociali ecc. (Lv 17-26), l'affrontare le difficoltà e sostenere le prove1. In tutto l'Antico Testamento infatti, il termine "santo" in modo assoluto può essere detto soltanto di Dio. La sua estensione alle altre realtà: Israele, Sion, tempio, culto è frutto dell'amore divino e del mistero dell'alleanza, con cui Egli si comunica per la salvezza del suo popolo. Quando Dio giura per la sua santità, giura per se stesso, perché la santità è il mistero più intimo della sua essenza (Am 4,2; Ab 3,3). Per Osea tale santità è il suo stesso amore, di padre tenerissimo che insegna a camminare al suo figlioletto (11,1-4), o di sposo che perdona e trasforma la sua sposa per vivere in comunione con lei (2,16. 21-25). La santità coincide con l'amore e la perenne misericordia, che rinnova e trasforma continuamente l'amato, perché sia "verginalmente santo" come dirà, più tardi, il Terzo Isaia (Is 62,4-5.12).

Isaia presenta l'assoluta santità divina attraverso il triplice "santo" (6,3). La sua "gloria" si manifesta come potenza d'amore che opera la salvezza. Egli apre al suo popolo la strada che conduce alla comunione di vita con lui e a una partecipazione al suo essere. Dio si rivolge all'uomo peccatore come amore che salva, perdonandolo e chiamandolo a una missione di salvezza. Per ottenere ciò, la sua santità è fuoco che purifica da ogni impurità, giudizio che contesta ogni infedeltà (10,16), grazia che invita a fede, fiducia e speranza quanti si aprono a lui (30,15). Nel Secondo Isaia vengono accentuati questi aspetti di Dio: realizzatore del nuovo esodo (43,3-5. 16-21) nella gioia e nella pace ( 55,5-12); creatore del suo popolo; sposo tenero che ama di amore sponsale (54,4-10) e offre sempre misericordia e perdono. In Ezechiele, Dio mostra la sua santità riconducendo il suo popolo nella sua terra (36,23-24). Questi aspetti della santità divina sono egualmente rintracciabili nella tradizione orante e liturgica (Sal 99), in cui Dio è invocato ed esaltato perché perdona, purificando l'uomo dai suoi misfatti, dandogli un cuore e uno spirito nuovo e non privando il peccatore pentito del suo spirito di santità (Sal 51,13). Il peccato è una ribellione che contrista il santo spirito del Signore (Ez 36.27).

Il termine santo, che definisce il mistero ineffabile della trascendenza divina, viene poi applicato a Israele come "popolo del Signore": "Tu sei un popolo santo per il Signore Dio tuo" (Dt7,6; 14,2.21; 26,19; 28,9). Tale santità si esprime come partecipazione alla vita, amore, vita e santità divina. Ciò è frutto dell'elezione, che fa del popolo la "proprietà" di Dio. Essa è puro dono gratuito dell'amore e benevolenza (grazia) divina e della fedeltà alle sue promesse (Dt 7,6-7). Comporta, quindi, che Israele cammini sempre nelle vie del suo Dio, obbedendo a tutta la sua legge (Dt 26,17-19) di santità (Lv 19,2)2.

3. Santità e santificazione nei vangeli Il Nuovo Testamento ha accolto la nozione di santità dell'Antico Testamento, conferendole

particolare ricchezza e profondità di significato, derivanti dalla fede pasquale della Chiesa e dall'esperienza del Dio unico rivelatosi in Cristo: Padre, Figlio e Spirito Santo. La santità divina acquista un carattere specificamente "personale", che dalla vita trinitaria si comunica agli uomini. Il Dio tre volte santo d'Isaia si ritrova nell'inno liturgico dell'Apocalisse, unendo insieme santità divina e onnipotenza salvifica (Ap 4,8). Santità e onnipotenza di Dio s'illuminano a vicenda (Lc 1,49). La comunità apostolica ha assimilato contenuti e temi dell'Antico Testamento, presentando Dio come Padre santo (Gv 17,11), Creatore dell'universo e Giudice trascendente (Ap 4,8; 6,10), sottolineando la santità del suo Nome (Lc 1,49), della sua Legge (Rm 7,12) e della sua Alleanza (Lc 1,72). La sua

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santità coinvolge e santifica gli angeli (Mc 8,38), i profeti e gli autori ispirati (Lc 1,70; Mc 6,20; Rm 1,2). Santo è il suo tempio e la Gerusalemme celeste (1Co3,17; Ap 21,2). Il suo Spirito Santo è all'origine della nascita redentrice di Gesù (Mt 1,18; Lc 1,35) e della sua missione salvifica. L'effusione dello Spirito su Gesù, al suo battesimo, lo indica inviato da Dio, per formare l'umanità nuova, il popolo nuovo, libero dalle forze del male e del peccato. Gesù è il nuovo Mosè che, nella sua croce e risurrezione, attua il vero esodo (Lc 9,31) che rivela la gloria del Padre Santo (Gv 17,11).

Per questo, nel quarto vangelo la santità di Dio si manifesta pienamente nell'esaltazione del Figlio, ossia la sua morte in croce che "attira tutti a sé" (Gv 12,32) e la sua resurrezione. La santità di Dio, nel Nuovo Testamento, appartiene in modo totale a Gesù, "il Santo di Dio", perché è il Figlio unigenito del Padre (Lc 1,35), totalmente partecipe della sua vita. La santità di Dio è il suo immenso amore che si rivela in Cristo (Gv 13,1) che sacrifica la propria vita, perché tutti abbiano vita in abbondanza (Gv 10,10). La sua santità investe i suoi eletti (1Pt 1,15) e si manifesta nell'avvento del suo Regno (Mt 6,9). Nel Nuovo Testamento Cristo è il Santo di Dio, la cui santità è strettamente legata al suo essere Figlio di Dio, alla sua concezione per opera dello Spirito Santo (Lc 1,35; Mt 1,18) e alla sua unzione nel battesimo del Battista (At 10,38; Lc 3,22). Vittorioso su tutti gli spiriti impuri è riconosciuto anche da loro "Santo di Dio" (Mc 1,24; 3,11). Come "Santo di Dio" e "Figlio di Dio" possiede il suo Spirito Santo, anzi ne è pieno (Lc 4,1), per cui lo dona, per vincere tutte le potenze del male (Mc 1,24; Lc 4,34) e lo manifesta con le sue opere e dottrina. Esse sono i segni inequivocabili della sua santità. In Giovanni l'espressione "Santo di Dio" sottolinea che Gesù possiede gli stessi attributi di Dio (Gv 6,69; Ap 3,7; 6,10), ha parole di vita eterna, rivela il Padre (6,68; 14,9), dona lo Spirito (1Gv 2,20). Davanti a lui ci si sente peccatori come davanti a Dio. (Lc 5,8).

È pure Santo come il "Servo" di Dio (At 4,27.30), che porta a compimento la missione del servo, nell'obbedienza, sofferenza e offerta della propria vita, come sacrificio di salvezza e riconciliazione (At 3,14; 1Pt 1,18) a favore di tutti gli uomini (At 4, 10-12; Rm 3,21-24). Per questo Dio lo ha esaltato (Fil 2,9) e risuscitato secondo lo Spirito di santità (Rm 1,4). L'opera salvifica e santificatrice di Gesù raggiunge la sua pienezza nella risurrezione, nella quale è "costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santificazione" (Rm 1,4). Con la pienezza dello Spirito Santo riceve dal Padre la potenza di effonderlo, come fonte di ogni santificazione (Gv 7,37-39). Asceso alla destra del Padre (Mc 16,19), può essere chiamato "il Santo", come il Padre (Ap 3,7; 6,10). Egli è colui che santifica i credenti in lui, perché li introduce nella propria vita divina (Eb 2,10-11). La sua santità è identica a quella del Padre (Gv 17,11), di cui condivide la potenza spirituale, la stessa misteriosa profondità e le manifestazioni prodigiose. La sua santità lo spinge ad amare i suoi, fino a comunicare loro la gloria ricevuta dal Padre e a sacrificare la propria vita perché anch'essi siano santificati. È così che mostra la sua santità (Gv 17,19-24).

Il suo sacrificio, a differenza di quelli dell'Antico Testamento, santifica i credenti in lui, nella verità (Gv 17,19), perché comunica loro la santità vera. Essi partecipano veramente alla vita di Cristo risorto, mediante la fede e il battesimo, che conferisce loro "l'unzione che viene dal Santo" (1Co 1,30; Ef 5,26; 1Gv 2,20). Sono quindi "santi in Cristo" (1Co 1,2; Fil 1,1) per la presenza dello Spirito Santo in loro (1Co 3,16; Ef 2,22), battezzati nello Spirito Santo, come aveva predetto il Battista (Lc 3,16; At 1,5; 11,16). Il termine "Santo" riferito a Dio, designa soprattutto lo Spirito Santo, agente principale della santificazione, che colma le comunità con i suoi doni e carismi, con un'ampiezza e universalità assai maggiore rispetto all'Antico Testamento. Questo perché la resurrezione di Cristo compie i tempi messianici (At 2,16-38).

4. Santità, santificazione e giustificazione in S. Paolo Santità e santificazione sono considerate da Paolo con particolare attenzione e profondità. Egli

sottolinea con forza che i cristiani sono santi e devono santificarsi, per il fatto che Dio è infinitamente santo ed esige la santità. Le motivazioni per santificarsi sono soteriologiche, escatologiche ed etiche. I credenti devono condurre una condotta pura e santa perché, salvati da Cristo, devono farsi trovare irreprensibili al suo ritorno. Non vi sono invece accenni cultuali. Sono innumerevoli i testi in cui Paolo si rivolge alle comunità cristiane chiamando "santi" i loro membri. In certi casi "santo" è il popolo di Dio (1Co 3,17; Ef 2,21). La santità è, insieme, una condizione e un processo che coinvolge il credente, ad opera di una o più delle Persone divine (Rm 15,16; 1Co 1,2; 1Ts 5,23; Ef 5,26). Il verbo hagiazo, che indica il modo corretto di vivere, ha sempre una di loro come soggetto. Gli esegeti della Riforma

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hanno molto enfatizzato il tema della giustificazione. La loro precomprensione ha condizionato il rapporto fra giustificazione e santificazione, dando luogo a due interpretazioni: a) la santificazione è la conseguenza della giustificazione; b) le due realtà e i due concetti vengono a sovrapporsi. Nel primo caso la santificazione non sarebbe altro che la conseguenza, lo sviluppo e l'attualizzazione della giustificazione.

A prova di ciò si adducono i testi in cui Paolo dice ai credenti di vivere in modo da piacere a Dio (1Ts 4,1-5,22), perché Egli vuole la loro santificazione (1Ts 4,3). Inoltre nella parenesi paolina la parte etica segue sempre quella dogmatica ed è motivata dalle esigenze escatologiche (essere irreprensibili per la venuta del Signore). I cristiani devono vivere in un'atmosfera permeata di santità. Viene pure sottolineata la diversità che intercorre fra i termini di hagiosyne e hagiasmos. Il primo designa lo stato di santità, il secondo il processo attivo che porta ad essa. Paolo usa il primo per spiegare ai cristiani in che stato si trovano, mentre usa il secondo per invitarli a progredire nella vita gradita a Dio. La seconda interpretazione vede la giustificazione e la santificazione come concetti sovrapposti, di cui il secondo avrebbe un valore più soteriologico che etico. Al di là di tali specificazioni, si sottolinea, tuttavia, che la concezione che Paolo ha della giustificazione e della santificazione è molto complessa, per cui la loro connessione diviene ancora più intricata e risente molto dei contesti in cui viene esposta o applicata. Rimane quindi plausibile l'idea complessiva che la santificazione comprenda sia il trovarsi in una condizione di santità che il dovere vivere in modo da crescere nella santità.

Se si vuole ulteriormente specificare, si può dire che la giustificazione mette in evidenza la situazione iniziale del credente come "conversione", ma comporta e contiene pure la vita in Cristo Gesù nostro Signore (Rm 6,23). La santificazione contiene il momento iniziale della conversione, ma costituisce il fine cui il credente deve tendere, ossia la vita eterna (Rm 6,22-23). Si potrebbe pure dire che la santificazione rappresenta il livello più alto della giustificazione. Questa idea si accorda bene all'esegesi abituale dei capitoli 6-8 della lettera ai Romani, che parlano della vita del credente giustificato, in termini di santificazione. Il termine impurità, in questi casi, si oppone a giustizia ed equivale a iniquità. Parlando di santificazione, Paolo esorta a un comportamento corretto in vista del ritorno di Cristo e in Rm 6 e 1Ts 4 esprime la santificazione o perfezione dei credenti come processo in corso, operato da Dio mediante lo Spirito. Per questo esorta i singoli e le loro Chiese alla lotta incessante, per mantenersi saldi in Cristo. Inoltre, propone santificazione e perfezione come mete da perseguire sempre (Rm 6,2.12; 2Co 9,27; Fil 1,6; 2,12-18; 3,12-15), perché saranno complete solo al ritorno di Cristo (1Ts 3,13).

Quanto all'unione, in certi casi, del termine "Santo" a "Spirito", sembra che Paolo intenda dire che come lo Spirito, che realizza l'opera divina, è santo o al completo servizio di Dio, così il credente si santifica nella piena dedicazione di sé a Dio3. L'aggettivo "Santo" indica che lo Spirito è la persona divina che realizza la santità divina del popolo della nuova alleanza. È lui che comunica la vita del Padre e del Figlio, effonde il loro amore nel cuore dei credenti, (Rm 5,5) conferendo loro la condizione di figli (Rm 8,14). La sua presenza è permanente, perché i redenti sono templi suoi e di Dio (1Co 6,11.20), in comunione con lui (2Co13,13). I credenti sono suoi testimoni e profeti (Lc 1,15; 7,28), abilitati a testimoniare la santità di Dio con la loro fede, speranza, carità e carismi, distribuiti per l'utilità comune (1Co 12,4-11). In questo modo la Chiesa si edifica nell'amore (Ef 4,15-16.30). Egli rende i credenti conformi a Cristo risorto (Rm 8,11) ed è garanzia e caparra della loro risurrezione futura, che completerà la loro dignità di figli di Dio (Rm 8, 23; Fil3,20-21; 1 Gv 3,1-2). Poiché lo Spirito compie tutto ciò nei credenti, coloro che si chiudono a lui e gli resistono rifiutano la salvezza che il Padre offre agli uomini (Eb 10,29). Questo è il peccato contro lo Spirito Santo di cui ha parlato Gesù (Mt 12,31).

5. Santità e Chiesa Per quest'azione universale dello Spirito, che libera l'uomo dai suoi peccati (At 2,38-39; Gv 20,22-

23) e lo inserisce nella comunità dei santificati dal "sangue dell'alleanza" (Eb 10,29), il termine "santi", da eccezionale che era nell'Antico Testamento e riservato egli eletti dei tempi escatologici, è nel Nuovo applicato a tutti i cristiani. Dapprima i membri del piccolo gruppo della Pentecoste (At 9,13; 1Co16,1; Ef 3,5), poi la comunità primitiva di Gerusalemme, i fratelli della Giudea (At 9,31-41) e infine tutti i fedeli (Rm 16,2; 2Co 1,1; 13,12). Lo Spirito li rende partecipi della santità divina, vera nazione santa e sacerdozio regale. Ricolmandoli della presenza del Dio tre volte santo, li rende

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"tempio santo del Signore" (Ef 2,21), "edificio spirituale" (1Pt 2,5), "tempio del Dio vivente" (2Co 6,16; 1Co 3, 16-17), "tempio dello Spirito" (1Co 6,19). Guidati da lui i cristiani, frutto della sua azione santificatrice (Gal 5,22), rendono a Dio il vero culto, offrendosi a lui in Cristo, come sacrificio santo (Rm 12,12; 15,16; Fil 2,17). La loro santità, che deriva dall'elezione (Rm 1,7; 1Co 1,2), esige di rompere con il peccato e i costumi pagani (1Ts 4,3), operando secondo la santità che viene da Dio e non secondo la saggezza della carne (1Co 6,9; 2Co 1,12; Ef 4,30-5,1; Tt 3,4-7; Rm 6,19). Il cristiano, afferrato da Cristo, deve comunicare a tutte le sue sofferenze e alla sua morte, per giungere alla risurrezione (Fil 3,10-14).

Finora la santità lotta col peccato e i santi devono santificarsi per essere pronti al ritorno del Signore (1Ts 3,13; Ap 22,11), glorificato in mezzo ai suoi santi (2Ts1,10; 2,14)4. La Grazia dello Spirito è il fondamento etico-morale della nuova alleanza, in cui l'uomo è invitato a essere perfetto come il Padre celeste (Mt 5,48), imitatore di Dio come figlio carissimo (Ef 5,1), che ama con lo stesso amore di Cristo (Gv 13,34-35; 15,12-13; Rm 15,7; Ef 5,2; Fil 2,5). Ciò è impossibile all'uomo, ma è possibile a Dio (Mt 19,26; Mc 10,27; Lc 18,27), per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù (Eb 10,10). In questo modo, per il cristiano, l'amore, che si attua nell'offerta di sé per i fratelli, diviene la continua epifania della divina santità salvifica e testimonia la risurrezione di Cristo, già attiva nella Chiesa (Gv 13,35; Gal 5,6; 6,15). La Chiesa, comunità della nuova alleanza, è il popolo santo, sacerdotale, eletto e chiamato a proclamare le meraviglie della santità divina (1Pt 2,9-10). È la famiglia dei santi (Rm 1,7; 1Co 1,2), la sposa santa e immacolata, che Cristo col suo amore rende vergine e rinnova nella fede e carità. La santità della Chiesa appare in tutti i suoi membri santi e immacolati (Ef 1,4), perché figli di Dio ed eredi della risurrezione (Rm 6,4). La loro santità è dono di Dio, condizione attuata dalla sua grazia salvifica, apparsa in Cristo e posta in opera dallo Spirito Santo (1Co 6,11).

Per questo il battezzato, pur vivendo nel mondo, non è più di questo mondo (Gv 17,14) e caratterizza la sua vita con le prove, la lotta, l'ascesi continua. I credenti, già santi ma non ancora del tutto, si santificano sempre più (2Co 7,1) nella docilità allo Spirito, che li apre all'amore del Santo che li santifica. In questo modo lo Spirito Santo li unisce al Risorto, li trasfigura nella sua immagine gloriosa (2Co 3,18), li fa vivere in Cristo e Cristo in lui (Gal 2,20). La Chiesa, già raggiunta dalla risurrezione salvifica di Cristo (1Co 13,13; Rm 5,45) mediante il battesimo, con ogni eucaristia si unisce sempre più strettamente al Risorto, si disseta al suo Spirito (1Co 12,13) e cresce nella speranza della piena santità, allorché Dio sarà tutto in tutti (1Co 15,28). L'invocazione "Vieni Signore Gesù" (Ap 22,17) e l'ammonizione "il santo sia santificato ancora" (Ap 22,11) chiedono a Dio di poter crescere sempre nella carità operosa (Tt 3,8), nella testimonianza coerente della verità, della fraternità e dell'amore, perché ogni nazione, razza, popolo e lingua, possa cantare il canto di Mosè e dell'Agnello "Tu solo sei Santo" (Ap 15,3)5.

1 J. De Vaulx, "Saint", DTBD, 1178-1181. 2 G. Odasso, "Santità", NDTB, 1419-1423. 3 S.E. Porter, "Santità, santificazione", DDP, 1390-1395. 4 De Vaulx, "Saint", 1182-1184. 5 Odasso, "Santità", 1424-1427.

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8. CENNI DI STORIA DEL DOGMA

La vita nuova, portata da Cristo, dovette confrontarsi con la tradizione religiosa dell'Antico Testamento (ebraismo), la "pietà naturale" del paganesimo e la saggezza dei dotti, dando risposta ai loro interrogativi, affrontando incomprensioni e superando opposizioni ed errori. Il vangelo, annunciando la nuova situazione dell'uomo davanti a Dio, apriva prospettive fondamentali per la riflessione teologica: Dio che dà i suoi doni nella grazia, l'uomo che li accoglie nella fede. Nella grazia e accoglienza si attuano la predestinazione, l'elezione e giustificazione, la figliolanza divina, la conformità a Cristo, la deificazione o santificazione, che conduce alla pienezza della santità. Uno dei primi problemi era di stabilire il rapporto in cui stanno tra loro grazia divina e libertà umana. Esso riguardava pure la redenzione, ossia il processo cosmico universale e il processo "educativo" (o paidéia) che ha per fine di portare l'uomo all'affinità con Dio, ossia riportarlo alla sua immagine. Riguardava pure la "ricapitolazione" (o anakephalaiosis) paolina di tutto in Cristo e in particolare la partecipazione (o méthexis) alla vita divina e divinizzazione (théiosis). I giudei cristiani, nel II secolo, sottolineavano soprattutto le nuove esigenze etiche1, la necessità delle opere accanto alla fede2, la fede e la carità come vincolo della Chiesa3.

1. Padri orientali e greci I Padri greci, contro il pessimismo gnostico e manicheo, muovendo dall'idea di partecipazione alla

natura divina (Pietro), della rinascita ad opera dello Spirito Santo (Giovanni) e dell'adozione (Paolo), svilupparono l'aspetto del Dio diventato uomo, perché gli uomini fossero divinizzati (Atanasio)4. La vita nuova venne concepita come divinizzazione. I padri impegnati nella lotta contro la gnosi: Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene intesero la divinizzazione come conformazione a Cristo, attuata dallo Spirito Santo, che non è solo l'ospite delle anime o della Chiesa, ma il principio della vita divina e dell'unità interiore. Gli alessandrini Clemente e Origene sintetizzarono l'economia della grazia nella deificazione (theopoiesis) e nel nostro essere, per grazia, ciò che Cristo è per natura, come disse poi Giovanni Damasceno, ricapitolando tutti i loro insegnamenti5. La dottrina orientale della grazia raggiunse il suo maggiore sviluppo nelle controversie trinitarie e cristologiche dei secoli IV e V. Rigenerazione, adozione, dono dello Spirito Santo, sua presenza attiva nelle anime e nella chiesa, partecipazione in Cristo alla natura divina, vennero sostenute abitualmente.

I Padri orientali sostenevano la deificazione (theiosis) o divinizzazione, come base per dimostrare che Cristo e lo Spirito, mediante la grazia, ci rendono veramente partecipi della natura divina. Sono, quindi, vero Dio perché, per poter divinizzare i cristiani, devono essere persone divine. La sintesi più vigorosa è quella di Cirillo di Alessandria. Il Verbo si è fatto uomo per divinizzare gli uomini e ha riempito di sé l'umanità intera. Il principio santificatore è lo Spirito Santo, che col battesimo ci assimila al mistero di Cristo, per morire e risorgere con lui. L'uomo, così, diventa figlio di Dio e partecipe della natura divina. Quest'impostazione rappresenta anche oggi il cuore del trattato sulla grazia nella teologia orientale. Lo Spirito Santo unisce tutti i fedeli tra loro e in Cristo, in modo da formare un tempio o un unico corpo che aspetta la risurrezione gloriosa, come coronamento della santificazione e divinizzazione6. I Padri orientali rimasero sempre fedeli alla loro presentazione della grazia come stato di comunione con Dio.

2. Padri occidentali o latini I Padri occidentali o latini, come Ilario e Ambrogio, a partire da Clemente Romano, che

evidenziava i frutti e benefici della grazia (vita immortale, splendore di giustizia, libertà nella verità, fede fiduciosa, purezza di santità)7, sottolinearono maggiormente l'aspetto dinamico e antropologico della grazia. Le differenze d'impostazione e sistemazione cominciarono con la controversia pelagiana. Pelagio, agli inizi del V secolo, muovendo da una posizione naturalistica, che si risolveva nella pretesa di un'autonomia assoluta dell'uomo da Dio, negava che: 1) la volontà umana fosse stata indebolita dal peccato e fosse incline al male; 2) Adamo fosse in uno stato superiore a quello in cui si trovarono gli uomini dopo il peccato; 3) il soccorso della grazia interna fosse necessario per resistere al male e operare il bene. Per contro asseriva che l'uomo, con la sua libera volontà, può attuare tutti i precetti divini e, di conseguenza, essere giusto davanti a Dio. I suoi seguaci (pelagiani), per incentivare nei cristiani l'impegno morale, sostenevano un'etica naturalistica, che esaltava la capacità dell'uomo di conseguire la grazia con le proprie forze. Anch'essi, quindi, affermavano che tra lo stato dell'uomo

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prima del peccato e quello dopo il peccato non vi è differenza sostanziale e che il peccato originale non avrebbe tolto nulla di quanto l'uomo aveva prima, ma sarebbe stato solo un cattivo esempio. La redenzione di Cristo, quindi, non avrebbe ridato nulla, ma solo riparato il cattivo esempio, per cui l'uomo poteva conquistare, con le sue sole forze, la vita eterna.

Contro Pelagio, Agostino oppose che: prima del peccato originale, c'era la grazia; dopo il peccato, essa è necessaria per non peccare e perseverare nell'amicizia con Dio; la grazia non è opera dell'uomo ma dono gratuito di Dio; Dio opera nella sfera della libera volontà senza intaccarla. Difese, quindi, l'assoluta necessità della grazia di Cristo che, nel giustificare l'uomo decaduto, gli rende la libertà, l'amore, il gusto del bene e della giustizia8. Approfondì, inoltre, tutti gli elementi della tradizione greca: abitazione di Dio nei giusti, partecipazione alla natura divina, inserimento in Cristo. Impostò pure la tematica della grazia in rapporto all'agire morale dell'uomo. La sua preoccupazione di difenderne il primato, l'efficacia e la gratuità assoluta lo portò, tuttavia, a impostare nello stesso modo il tema della predestinazione, lasciando nell'ombra la volontà salvifica universale di Dio e non dando sufficiente rilievo alla libertà dell'uomo. Da ciò, in seguito, sarebbero derivati alcuni inconvenienti. Nel 418 il concilio di Cartagine condannò gli errori pelagiani e ribadì che la grazia che giustifica l'uomo: 1) non solo rimette i peccati, ma è un soccorso che consente di evitarli; 2) non solo ci fa conoscere ciò che dobbiamo fare o evitare, ma ci fa amare e osservare i comandamenti divini e ci rende capaci di compiere azioni salutari; 3) non è data per renderci più facile, ma possibile, compiere i precetti divini. Ciò significa, quindi, la necessità assoluta della grazia. La condanna di Pelagio fu confermata da Papa Zosimo (DS 225-230).

Sempre nel V secolo, prima in Africa (427), poi nel sud della Gallia (Francia) e altrove, alcuni teologi, fra cui Cassiano (430-435) e Vincenzo di Lerino (435) diffusero idee pelagiane attenuate, dette perciò semipelagiane. Sostenevano la necessità della grazia per la giustificazione, ma non per l'inizio della fede, ponendone l'iniziativa nelle mani dell'uomo. Tentavano di conciliare le dottrine di Agostino e Pelagio, dicendo che, nell'opera della grazia, Dio e l'uomo collaborano come "cause parziali" (sinergetismo). Tali idee le fondavano sul principio delle volontà salvifica universale di Dio. Nel secolo VI, le loro dottrine furono combattute da Cesario di Arles (543), mentre il Concilio di Oranges (529), confermato e approvato dal Papa Bonifacio II (531) (DS 373-375) le condannò. La dottrina cattolica ribadì l'assoluta necessità della grazia divina per tutti gli atti con i quali l'uomo si dispone alla giustificazione. Come già detto, alcuni aspetti della teologia di Agostino finirono per generare alcune difficoltà tanto che, nella teologia carolingia, sorse una controversia sul suo pensiero riguardo alla predestinazione. Agostino, infatti, negli ultimi anni, preoccupato di difendere l'efficacia della grazia e l'assoluta gratuità della predestinazione, lasciò in ombra la volontà salvifica universale e non diede sufficiente rilievo alla libertà dell'uomo. Al di là di queste lacune e di un certo rigorismo, la sua dottrina sulla grazia divenne la fonte della riflessione teologica occidentale9.

Va pure ricordato Leone Magno (V secolo), per la sua dottrina sulla grazia, come partecipazione alla figliolanza di Cristo. Raccogliendo il pensiero dei Padri latini, sottolineò la figliolanza come nuova nascita e nuova vita, ricevuta con la fede e il battesimo. La grazia è partecipazione alla vita di Cristo, come il battesimo è partecipazione alla sua morte e risurrezione. La morte di Cristo, infatti, non fu un evento puramente biologico, ma la libera decisione con cui prese su di sé la morte più ingiusta e crudele, nell'obbedienza d'amore al Padre. L'effetto di ciò permane indelebile nella sua natura umana, per cui la sua risurrezione, operata da Dio, rimane la sua azione più perfetta. Essa è per sempre superiore a ogni azione che un essere umano possa compiere sulla terra e ha impresso, nella natura umana di Gesù, un'impronta che rimane incancellabile per tutta l'eternità. È l'impronta che pone la volontà del padre, sempre e in tutto, al primo posto. La grazia del cristiano è la partecipazione a questa grazia di Cristo per cui, senza la sua incarnazione che rende cristiformi, la partecipazione alla natura divina sarebbe impossibile.

È chiaro, quindi, già dai primi secoli e nei primi padri, che l'uomo diviene santo per la morte redentrice di Cristo, che ne cancella i peccati e lo rende giusto. Questa giustificazione è un rinnovamento interiore, che facendo abitare Dio nell'uomo, ci rende partecipi della vita divina e ci conferisce una nuova attività soprannaturale. Tale dottrina permase nei secoli che seguirono. Nella riflessione successiva, soprattutto medievale, sorsero invece numerose questioni, centrate sulla santificazione dell'uomo, che attenuarono gradualmente il vigore della posizione agostiniana, centrata

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prevalentemente sull'amore giustificante di Dio. Le successive polemiche restrinsero alquanto la prospettiva, rispetto alla ricchezza e complessità dei dati finora esaminati.

3. Controversie, eresie, decisioni conciliari A notevole distanza di tempo da pelagiani e semipelagiani, le occasioni di maggior attrito sui temi

della grazia vennero dalle posizioni di Lutero, Calvino, Baio, Giansenio e i seguaci del razionalismo e immanentismo. Con Lutero, Calvino e Zwinglio, tuttavia, il dibattito si poneva esattamente agli antipodi del pelagianesimo. Erano intercorse, nel frattempo, le scissioni nominalistiche, quelle fra fede e scienza, natura e soprannatura, la tensione fra teologia dotta e pietà monastica e popolare, l'abbandono della scolastica a favore dell'umanesimo ecc. Tutto questo contribuiva, da parte dei riformatori, a riformulare una nuova dottrina della grazia, che collocava la giustificazione dell'uomo nella predestinazione assoluta di Dio (Calvino, Zwinglio) o nell'imputazione dei meriti di Cristo a un uomo che rimarrebbe, sempre e comunque, peccatore (Lutero). Ciò che la teologia medievale aveva elaborato sulla grazia creata e i suoi mezzi (sacramenti), in queste dottrine andava perduto. Esse sostenevano che, dopo il peccato originale, la natura umana è completamente corrotta e soggetta alla concupiscenza, la volontà radicalmente incapace di atti buoni, il libero arbitrio inesistente. L'uomo non può essere, né diventare, giusto davanti a Dio. La giustificazione è una semplice imputazione della giustizia di Cristo.

Contro tali errori, il Concilio di Trento definì la dottrina della Chiesa sulla realtà della grazia interna, santificante (abituale), attuale e soprannaturale. Il decreto "De iustificatione" sottolineò dettagliatamente, dal punto di vista teologico, la gratuità assoluta della prima grazia e della perseveranza. Espose la preparazione, lo sviluppo e gli effetti dell'evento, nel quale l'uomo è risanato dal peccato e santificato da Dio. Nella sessione VI, ai capitoli 6 e 7, sancì che la grazia santificante è causa formale della nostra santificazione, ossia che Dio produce nella nostra anima la giustizia, rinnovandoci e facendoci veramente santi (cap. 7). La grazia e la carità sono diffuse nel nostro cuore e ad esso aderiscono, per opera dello Spirito Santo (can. 11). La grazia è una realtà soprannaturale operata da Dio nell'intimo dell'anima e la sua realtà è comprovata dai suoi effetti formali, ossia la filiazione adottiva e il diritto alla vita eterna, che costituisce il merito. Sempre nella sessione VI, capitolo 7, definì che la santificazione (o grazia santificante) ha come causa finale la gloria di Dio e di Cristo e la vita eterna per l'uomo; causa efficiente è Dio che purifica e santifica; causa meritoria è Cristo con la sua redenzione; causa strumentale è il sacramento del battesimo, causa formale è la santità e giustizia con cui Dio ci giustifica, rendendoci veramente santi10.

Nel XVI secolo, il teologo Michele Baio (1513-1589), appellandosi a S. Agostino, insegnava che l'uomo decaduto, senza la grazia, è incapace di fare atti onesti, per cui necessariamente pecca in tutte le sue azioni, anche nel tendere alla virtù. Sosteneva, inoltre, che l'influsso salvifico di Dio era dovuto alla natura umana, quindi era puramente naturale. Anche riguardo alle sue dottrine la Chiesa dovette riconfermare la vera fede sulla grazia, condannando, nel 1567, 79 sue proposizioni. Nel secolo XVII, il vescovo Giansenio (1638) sostenne una dottrina, sintetizzata in alcune tesi condannate nel 1653 (DS 2001-20007) e, con maggior solennità, dalla Bolla Unigenitus del 1715. Questi gli errori principali: la grazia ad Adamo era dovuta; le virtù dei pagani sono soltanto vizi; umanità e uomo, anche in stato di grazia, sono soggetti alla concupiscenza peccaminosa; è possibile peccare anche senza libertà interiore di scelta; Gesù è morto solo per gli eletti, mentre la massa rimane dannata. L'ultima affermazione contraddiceva direttamente due verità fondamentali della Scrittura e della fede: 1) la volontà salvifica universale di Dio, che vuole che tutti si salvino (1Tm 2,3-6); 2) l'universalità della Redenzione di Cristo, morto veramente per tutti (2Co 5,14).

La dottrina della Chiesa ribadiva di nuovo che: gli effetti principali della grazia sono la giustificazione e il merito; la giustificazione è non solo l'effettiva liberazione dal peccato, ma anche la vera partecipazione alla natura e vita divina; il merito è il dono col quale Dio ci consente di crescere nella grazia e produrre frutti soprannaturali mediante le buone opere che la sua grazia consente di attuare. Precisava pure l'esigenza di amare Dio per se stesso e non solo come causa della propria felicità11. La lotta contro le dottrine di Baio, Giansenio e Quesnel portò alla formazione del concetto di natura pura, che considera la natura umana senza la grazia e senza le conseguenze del peccato originale. Esso, però, causava un certo estrinsecismo, contro il quale avevano già reagito, nella Spagna del 1500, i grandi mistici (S. Teresa d'Avila e S. Giovanni della Croce) e, nella Francia del 1600, la

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scuola francese (de Bérulle, S. Francesco di Sales) e l'Oratorio, sottolineando una devozione cristocentrica.

4. Sviluppi più recenti Abbiamo pure ricordato il razionalismo e l'immanentismo che, negando ogni ordine soprannaturale,

negavano indirettamente pure la grazia12. Il moralismo pedagogico dell'illuminismo e le dispute che lo seguirono contribuirono a un certo estrinsecismo della dottrina della grazia, contro il quale, in tempi più recenti reagirono varie correnti spirituali quali la devozione a Cristo (D. Marmion, R. Guardini), la mistica della trinità (J. Alfaro), la dottrina dei misteri (O. Casel) e l'inabitazione dello Spirito Santo (H. Volk). Queste nuove impostazioni contribuirono ad allargare notevolmente le tematiche sulla grazia. Alcuni aspetti riguardanti la grazia vennero trattati anche nelle encicliche di Pio XII, come l'inabitazione della Trinità, nell'enciclica Mystici Corporis (1943) e la soprannaturalità dell'ordine di salvezza, nell'enciclica Humani Generis (1950). Il Concilio Vaticano II, nella costituzione Sacrosanctum Concilium (1963) ha presentato la liturgia come fonte di ogni virtù e grazia, mentre il decreto Perfectae Caritatis (1965) descrive i consigli evangelici come mezzo per raggiungere la carità perfetta. La grazia vi è sottolineata come libero dono di Dio, in forza del quale l'uomo diviene figlio di Dio, tempio dello Spirito Santo, partecipe della vita e natura divina13. In risposta alle obiezioni della cultura moderna, i teologi più recenti tendono a sottolineare che la grazia sostiene, anziché ledere, la libertà umana. Accompagnando il cristiano nel suo cammino progressivo verso la pienezza e la perfezione, lo rende sempre più libero della vera libertà dei figli di Dio (Gv 8,36; Rm 8,21), quindi lo fa sempre più capace di trasformare il mondo e di attuarvi i compiti e le responsabilità che il Signore gli affida14.

1 Did., 1-6; Barn., 18-21. 2 I Clem., 32-35. 3 Ignaz. Ef., 14. 4 Oratio de Incarnatione, 54. 5 De fide orthodoxa, IV, 8. 6 A. Beni, G. Biffi, La grazia di Cristo, Torino 1974, 41. 7 Epist. Ad Cor., 35-46. 8 H. De Lubac, Agostinismo e teologia moderna, Bologna 1968. 9 Nel corso dei tempi vi furono diversi interventi per chiarire l'autorità della dottrina di Agostino ed evitare

esagerazioni o abusi del suo enorme prestigio, cf: Ep. "Apostolici verba" ad episcopos Galliarum, Maii 431 (DS 237); Ep. "Sicut rationis" ad Possessorem episc. Afrum., 13. Aug. 520 (DS 366); Bonifatius II Ep. "Per filium nostrum" 25. Ian 531 (399), ai più recenti, cf Pius XI L. enc. "Ad salutem", 22. Apr 1930 che ricorda: "Augustini loquentis auctoritas supremae ipsi Ecclesiae docentis auctoritati anteferatur" (AAS 22 (1930), 204). Cf A. Beni, "Grazia", NDT, 598.

10 P. Parente, "Grazia", EC, VI, 1023-1026. 11 K. Rahner, H. Vorgrimler, "Merito", DDT, 385-386. 12 J. Van der Meersch, "Grace", DTC, VI, 2, 1570. 13 Beni, "Grazia", 599. 14 Beni, "Grazia", 605.

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9. CONVERSIONE, GIUSTIFICAZIONE, GRAZIA, DEIFICAZIONE, INABITAZIONE

1. Conversione e giustificazione Il tema della giustificazione, fortemente enfatizzato dai teologi riformati, nella Chiesa cattolica non

ha mai costituito il centro dei problemi relativi alla grazia. Rispetto ad esso il Concilio Vaticano II ha sottolineato maggiormente la santificazione e la santità. Ciò che conta, comunque, è porre Dio al centro della vita e del pensiero umano e mettere ordine nella vita umana, riconoscendo che l'iniziativa di Dio è sovrana, viene prima e che l'azione umana è insufficiente senza la grazia. Questi aspetti appaiono chiaramente nell'impostazione sistematica del trattato sulla Grazia esposta nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Iniziando con la giustificazione (nn. 1987-1995), pone la conversione come prima azione della grazia divina che opera la giustificazione. Mediante la conversione "l'uomo si volge verso Dio e si allontana dal peccato, accogliendo così il perdono e la giustizia dall'Alto" (n. 1989). Riconferma, quindi, che la giustificazione, secondo la definizione del Concilio di Trento: "non è solo remissione dei peccati" e ribadisce che è "anche santificazione e rinnovamento dell'uomo interiore, attraverso l'accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l'uomo da ingiusto diviene giusto e da nemico amico, così da essere erede secondo la speranza della vita eterna (Tt 3,7)" (n. 1989)1.

La dottrina cattolica sottolinea chiaramente che lo stato d'ingiustizia e inimicizia con Dio, proprio del peccatore, è causato dal peccato originale o dai peccati personali. Il passaggio allo stato di giustizia e amicizia con Dio, quindi, comporta: 1) la remissione vera e propria dei peccati; 2) il rinnovamento interiore dell'uomo, reso giusto, amico di Dio, erede della vita eterna e capace di merito. Il Catechismo della Chiesa Cattolica cita S. Atanasio per sottolineare che con la giustificazione "entriamo a far parte della natura divina" e che "lo Spirito divinizza coloro nei quali si fa presente2. La vocazione alla vita eterna dipende interamente dall'iniziativa gratuita di Dio, poiché egli solo può rivelarsi e donarsi. Inoltre, è soprannaturale perché supera tutte le capacità di ogni creatura, quindi anche quelle dell'intelligenza e della volontà dell'uomo (n. 1998).

2. Preparazione alla giustificazione L'attenzione rivolta alla conversione, come prima azione della grazia e preparazione alla

giustificazione, ci porta a riflettere sulla parola del vangelo che meglio esprime questa realtà: la metanoia. Possiamo sintetizzare i vari aspetti del capitolo 15 di Luca (le tre parabole della misericordia: pecora, dracma e figlio perduti) in questi punti. L'uomo deve compiere un lungo e arduo cammino di distacco e di separazione dal peccato, per camminare verso Dio e Cristo. Tale cammino comporta un'avversione al peccato, una conversione a Dio e un incontro con Cristo, che dà la remissione dei peccati e la nuova vita. Il Concilio di Trento, nei capitoli 5,6,8 del decreto sulla giustificazione aveva chiarito bene che la grazia comincia il cammino verso la giustificazione, l'accompagna e lo sostiene. A sua volta, durante tutta la preparazione, l'uomo deve corrisponderle, facendo così la sua parte. La necessità della preparazione è fondata, non nell'essenza della giustificazione, ma nella natura umana che deve essere conscia di ciò che fa. Tale consapevolezza si ha nell'adulto. Nel bambino si risveglia al momento in cui sa rendersi conto di ciò che i suoi genitori hanno fatto sorgere in lui. È nel momento della decisione, positiva e consapevole, che la giustificazione diviene da puramente donata, effettivamente accolta. Per questo è necessario che gli adulti, che fanno battezzare i bambini, siano consapevoli della necessità di tale accoglienza. Essi devono dare pure una fondata speranza di educare bene il bambino nella fede cristiana.

Paolo descrive la remissione dei peccati come una "raschiatura" a fondo, per cui essi non esistono più (Col 2,14). La descrive pure come un "lavaggio", che cancella definitivamente ogni macchia (1Co 6, 9-11). Essa comporta, inoltre, un rinnovamento interiore profondo. "Mediante il lavacro rigeneratore e rinnovatore dello Spirito Santo" (Tt 3,5) l'uomo è generato di nuovo, rinasce (Gv 3,6), riceve una nuova vita: quella divina. La giustificazione ci trasforma talmente, da fare di noi nuove creature (Gal 6,15; 2Co 5,17). Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica i nn. 1990-1995 a spiegare in che cosa consista e che cosa significhi la giustificazione. Essa: 1) separa l'uomo e ne purifica il cuore dal peccato, liberandolo e guarendolo dalla sua schiavitù (n. 1990); 2) fa accogliere la giustizia di Dio, ossia la rettitudine dell'amore divino, infondendo fede, speranza, carità e obbedienza alla volontà divina (n. 1991); 3) stabilisce la collaborazione fra la grazia di Dio e la libertà dell'uomo (n. 1993); 4) implica la santificazione di tutto l'essere (n. 1995). Per questi motivi, essa è l'opera più

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eccellente dell'amore di Dio (n. 1994), dell'infinito amore e misericordia del Padre, meritataci dalla Passione del Figlio Gesù Cristo (n. 1992), affidata all'azione del maestro interiore che è lo Spirito Santo (n. 1995). La giustificazione comporta l'adozione. Essa, nel linguaggio comune, significa l'accoglienza e l'aggregazione di una persona estranea in una famiglia, con gli stessi diritti ai beni (eredità), propri dei figli naturali.

Essa presuppone la comunanza di natura (l'uomo non può adottare un animale). Dio, pertanto, adottandoci come figli, ci fa partecipi della sua stessa natura divina. Per questo, Scrittura e Tradizione parlano di deificazione, nella quale l'uomo, pur rimanendo uomo, partecipa alla natura divina. Paolo tratta chiaramente dell'adozione in Rm 8,15-17, mentre Giovanni (1,12-13) dice che il Verbo "ha dato il potere di diventare figli di Dio" a coloro che "da Dio sono nati", ossia quanti credono in lui. Il termine "generati da Dio" è ripetuto più volte nel Nuovo Testamento: (1Gv 2,29; 3; 4,7; 5,1). Gesù è detto primogenito fra molti fratelli (Rm 8,29) e di noi dice che siamo partecipi della natura divina (2Pt 1,4) in senso reale. La nostra differenza dal Figlio Unigenito è che, mentre la sua generazione dal Padre è eterna, necessaria, increata e immanente, la nostra invece è nel tempo, libera, creata ed esterna. La vita divina, quindi, ci è comunicata in modo creato e la nostra deificazione è effetto di una libera grazia, ma non della natura di Dio. Essa "ci conforma alla giustizia (santità) di Dio, il quale ci rende interiormente giusti con la potenza della sua misericordia" (n. 1992).

3. La grazia santificante Approfondito l'argomento della giustificazione, passiamo ora a quello della grazia. Infatti la

giustificazione è opera della grazia di Dio, che viene definita come favore e soccorso gratuito che Dio ci dà, perché rispondiamo al suo invito a diventare suoi figli adottivi e a partecipare alla sua natura divina e alla sua vita eterna (n. 1996). Come si è detto per la giustificazione, anche la grazia è una partecipazione alla vita di Dio, che c'introduce nell'intimità della vita trinitaria, ci dà la vita dello Spirito, infonde in noi la carità e forma la Chiesa (n. 1997). Si tratta, dunque, di qualcosa d'intimo e interiore all'uomo, un dono creato da parte di Dio, gratuito, ossia offerto per pura bontà, santificante, perché ha il potere di renderci veramente santi e di farci crescere nella nostra santificazione. La giustificazione, infatti, non sarebbe possibile senza l'infusione in noi di un principio soprannaturale, creato da Dio stesso, che ci abiliti (renda capaci) a operare soprannaturalmente, da figli di Dio. La grazia santificante è, quindi, un dono che lo Spirito Santo effonde nei cuori e "inerisce" (dal latino in-haerere ossia aderire e unirsi intimamente) alle nostre persone. Questo termine è già stato usato dal Concilio di Trento (DS 1561). Il Catechismo chiama la grazia santificante o deificante, ricevuta nel battesimo, "grazia di Cristo" e la definisce dono gratuito che Dio ci fa della sua vita. Essa è infusa nella nostra anima dallo Spirito Santo, per guarirci dal peccato e santificarci (n. 1999).

Si tratta di un dono abituale, di una disposizione stabile e soprannaturale a vivere con Dio e agire per amor suo, secondo la sua vocazione (n. 2000). Nell'operazione misteriosa della giustificazione, Dio imprime in noi l'immagine di se stesso, della sua intelligenza, volontà, verità, bontà e amore, in modo da renderci capaci di conoscere e volere come Lui stesso conosce e vuole. La nuova natura conferitaci ci abilita a conoscere e amare Dio come Egli stesso si conosce e si ama. La creazione attua in noi la somiglianza, la giustificazione attua l'immagine. Essa è creata, ma tale da rispecchiare veramente Dio. La grazia santificante può dirsi il traboccare della natura divina, che si riversa su di noi e si comunica a noi, per renderci simili a Lui. Se il Figlio è l'immagine increata del Padre noi siamo la sua immagine creata, ma identica. Con la giustificazione, l'uomo, rimanendo uomo, comincia a conoscere e amare come Dio. Tutto questo si può pure esprimere con il termine grazia creata. La giustificazione, tuttavia, significa molto di più, poiché oltre al dono creato, l'uomo riceve il dono increato che consiste nell'inabitazione delle tre Persone divine nella nostra persona. Si tratta di una loro presenza speciale: la Trinità stessa viene ad abitare nell'anima del giusto, facendo di essa il proprio tempio e la propria casa. Le Persone divine sono presenti tutt'e tre, anche se, nel parlare comune, si attribuisce solo allo Spirito Santo quest'opera di amore.

4. L'inabitazione divina In noi, Dio è presente con la sua stessa sostanza: "se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre

mio lo amerà, e verremo a lui e dimoreremo presso di lui" (Gv 13,23). Le tre Persone divine abitano nell'anima di chi le ama. La loro presenza nell'anima dei giusti realizza le promesse e le profezie

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dell'Antico Testamento, riguardanti il cuore nuovo e lo spirito nuovo, lo Spirito divino in noi, la capacità di custodire e attuare i decreti divini (Ez 36,26-28). La realizzazione ha superato di gran lunga le antiche attese e immaginazioni. Nessuno avrebbe mai immaginato che lo Spirito di Dio potesse essere una persona divina e che sarebbe venuto ad abitare con il Padre e il Figlio nell'anima resa giusta dalla grazia divina (santificante). Giustificazione, grazia santificante, inabitazione divina, sono grandi misteri rivelati, che superano la nostra comprensione. I teologi, tuttavia, hanno cercato di chiarirli in qualche modo. Per Vasquez-Galtier Dio rimarrebbe presente nell'anima del giusto per produrvi e conservarvi la grazia santificante, permettendole di operare soprannaturalmente. Per altri Dio sarebbe presente come il conoscente nel conosciuto, poiché la grazia santificante rende l'uomo capace di conoscere e amare Dio come è in se stesso e ciò spiegherebbe perché la fede sia l'inizio della visione intuitiva.

Più soddisfacente sembra l'esempio di Flick-Alszeghy, per i quali l'inabitazione, essendo essenzialmente l'amicizia fra l'uomo e Dio instaurata dalla giustificazione, richiederebbe una comunione vitale, che rende necessaria la presenza di Dio nell'anima. Il Concilio di Trento ha espresso pure le cause della giustificazione; causa finale (o fine) è la gloria di Dio e di Cristo e la vita eterna; causa efficiente è lo stesso Dio misericordioso, che gratuitamente purifica e santifica; causa meritoria è Gesù Cristo con la sua passione, morte e risurrezione; causa strumentale è il battesimo o lavacro di rigenerazione; causa formale è la giustizia (santità) di Dio con la quale siamo rinnovati, santificati e resi suoi figli (DS 1529). Riassumendo: la giustificazione che Cristo ci ha meritato e ci conferisce mediante il ministero della sua Chiesa è una rinascita spirituale, una nuova creazione, la deificazione dell'uomo, effetto di un'operazione misteriosa di Dio che, senza essere una generazione vera e propria, fa dell'uomo un figlio adottivo di Dio. Con essa Dio conferisce all'uomo una nuova natura, la grazia santificante e il nuovo agire da "figlio"3. Così espressa, essa specifica e approfondisce la definizione sintetica del Catechismo che abbiamo esaminato prima: "la grazia santificante è dono abituale, disposizione stabile e soprannaturale, che perfeziona la persona per renderla capace di vivere con Dio e di agire per amor suo" (n. 2000).

5. Virtù infuse, doni e frutti dello Spirito Santo Per quanto riguarda le virtù infuse, i doni e i frutti dello Spirito Santo, appare utile seguire

l'impostazione che il Concilio di Trento ha dato nel suo Decreto sulla giustificazione al capitolo VII. Dopo la nozione della giustificazione, infatti, sottolinea che: "nella stessa giustificazione l'uomo, con la remissione dei peccati, riceve insieme tutti questi doni, per mezzo di Gesù Cristo, nel quale è innestato: la fede, la speranza e la carità. Infatti la fede, qualora non si aggiungano ad essa la speranza e la carità, non unisce perfettamente a Cristo, né rende vive le membra del suo corpo". In base a queste indicazioni, i trattati teologici avevano sviluppato la teologia delle "virtù infuse", nel contesto d'assieme della giustificazione. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, invece, trattando la giustificazione e la grazia all'inizio della vita morale, le ha spostate, assieme ai doni e ai frutti dello Spirito Santo, nel contesto delle tematiche morali, inserendole dopo le virtù umane, all'interno dello stesso art. 7 (dedicato alle virtù), del capitolo I, dedicato alla "Dignità della persona umana" (nn. 1812-1832). La grazia, invece, è stata trattata dopo, all'articolo 2 del terzo capitolo.

La successione che ne risulta, pertanto, non sembra la migliore per il tema della grazia e giustificazione, e forse neppure per la teologia morale, poiché pone in primo luogo le virtù umane (nn. 1804-1809), mentre fa loro seguire quelle divine o teologali (nn. 1812-1829), relegando soltanto all'ultimo i doni e i frutti dello Spirito Santo (nn. 1830-1832). Per di più, i richiami alla grazia sono solo pochi e brevi, mentre nessuno è fatto alla giustificazione. Sembrerebbe, quindi, teologicamente preferibile l'impostazione del Concilio tridentino, che rendeva più chiaro lo stretto collegamento che intercorre fra giustificazione, grazia, virtù infuse, doni e frutti dello Spirito, esprimendo meglio il loro carattere e, soprattutto i ruoli e funzioni svolti da ciascuno di essi, nel contesto della giustificazione, della grazia, della santificazione e dell'impegno etico/morale. È importante, quindi, sottolineare bene che la grazia non è l'unico dono né l'unica realtà infusa nella giustificazione ma che, assieme a questa e in forza di essa, Dio infonde pure le virtù teologali (forze divine) ossia la fede, speranza e carità. I teologi usano un esempio significativo per spiegarne il ruolo e la funzione. Dicono, infatti, che come l'intelligenza e la volontà sono le facoltà o principi indispensabili all'uomo per vivere, conoscere e agire umanamente, così le virtù teologali sono le facoltà o principi indispensabili al cristiano per agire cristianamente, ossia da figlio adottivo del Padre4.

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Questi principi o forze, pertanto, devono essere permanenti come la grazia e sono dette o definite come virtù, secondo la classica definizione delle virtù come "abiti" (habitus). Sono dette pure teologali, perché riguardano specificamente Dio e la vita divina. Esse sono infuse da Dio (Gal 5,5) e permanenti, perché indispensabili. Devono, quindi, rimanere nei giustificati e di fatto vi "rimangono" (1Co 13,13; cf. 1Ts 1,3; 5,8) come fondamento di tutta la vita di grazia (Rm 5,1-5). Sono esse che consentono di conoscere e comprendere il mistero di Cristo e conseguire il fine soprannaturale al quale il Padre ci ha destinati. Per raggiungere il fine, tuttavia, occorre conoscerlo e per questo è necessaria la fede. Inoltre, non basta conoscerlo, ma occorre avere pure la ferma fiducia di raggiungerlo e per questo è necessaria la speranza nell'aiuto di Dio. Infine, per raggiungerlo, bisogna soprattutto amarlo e per questo è necessaria la carità. Per queste ragioni si pensa che le virtù teologali, nel battesimo, vengano infuse assieme alla grazia. Lo stesso va detto dei "doni": sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio, (Is 11,1-2; cf CCC 1830-1831) e dei "frutti" dello Spirito Santo: amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità (Gal 5,22-23; cf CCC n. 1832).

Numerosi teologi, assieme a S. Tommaso, ritengono che anche le virtù cardinali, dette pure morali o umane, vengano infuse, dovendo servire a conseguire la pienezza di una vita non solo umana e naturale, ma anche e soprattutto cristiana e soprannaturale, come esige la santificazione dei credenti5. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, avendo posto virtù, doni e frutti alla base della vita morale, ne sottolinea ripetutamente la funzione in essa. Le virtù teologali "fondano, animano e caratterizzano l'agire morale del cristiano" (n. 1813), in quanto sono la radice delle virtù umane. Inoltre, le rendono idonee a far partecipare le facoltà dell'uomo alla vita divina (n. 1812). I doni, a loro volta, sorreggono la vita morale, rendendo i battezzati docili alle mozioni dello Spirito Santo (n. 1830). I frutti, infine, sono le perfezioni che lo Spirito plasma nei giustificati, come primizie della gloria eterna (n. 1832).

1 DS, 1528. 2 S. Atanasio di Alessandria, Epistulae ad Serapionem, 1, 24; PG 26, 585B. 3 D. Grasso, Il messaggio di Cristo, Assisi 1968, 257. 4 Grasso, Il messaggio di Cristo, 254-256. 5 S. Th. 1,2, q. 63, a. 3.

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10. ESPOSIZIONE SISTEMATICA: TEMI E PROBLEMI DELLA GRAZIA

Come si è visto, nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha dovuto difendere più volte la sua dottrina da interpretazioni unilaterali ed estreme, da esagerazioni di aspetti giusti e da impostazioni poco equilibrate o pregiudizievoli di problemi validi. Le conseguenti dispute hanno consentito, tuttavia, di precisare o approfondire meglio i contenuti autentici, di riordinarli secondo la loro importanza, di collegare le verità relative alla grazia, giustificazione elezione e santificazione tra loro e con gli altri trattati teologici riguardanti la vita divina, la cristologia, la soteriologia, la protologia, l'antropologia soprannaturale e l'escatologia. Rimane, inoltre, sempre viva, l'esigenza di esporre i diversi argomenti nei modi più rispondenti alle esigenze dei credenti, di fronte alle difficoltà e agli interrogativi sollevati dalle diverse società e culture nei vari tempi e luoghi. In questo capitolo raccoglieremo ed esporremo quegli aspetti, utili pure per la fede e le esigenze spirituali della nostra epoca.

1. Giustificazione e grazia: assoluta gratuità e generosità Il primo dato da cui muovere è l'assoluta gratuità della grazia e della giustificazione, che Dio

concede, non in virtù dei meriti, capacità od opere buone dell'uomo, ma esclusivamente per la redenzione salvifica operata da Gesù Cristo. Essa, come si è visto, ha costituito in tutti i tempi, un caposaldo fondamentale della dottrina della grazia, al quale altri argomenti si collegano. Il secondo dato, sempre egualmente affermato, è l'assoluta necessità della grazia, perché l'uomo possa compiere gli atti che lo dispongono alla giustificazione. Entrambe evidenziano come l'uomo, resosi peccatore e nemico di Dio, non possa mai, con le sue sole forze, compiere azioni di tanto valore da meritare di diventare, da nemico, amico di Dio, suo figlio adottivo, partecipe della sua intima comunione divina ed erede dei suoi beni, della sua vita eterna e della sua gloria. Il terzo dato sempre affermato è la volontà salvifica universale di Dio, che dona la salvezza e la giustificazione come grazia, ossia come dono benevolo, favore libero gratuito e generoso, offerto volentieri a tutti, senza eccezioni. Ogni tentativo di restringere e mutare questi tre dati, base del mistero della grazia, ha sempre incontrato la più ferma opposizione della Chiesa, basata sulla volontà di Dio, che vuole veramente "che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità" (1Tm 2,3-4) e, di conseguenza, abbiano tutti i mezzi necessari a conseguire la vita eterna e la salvezza.

Tale volontà non ammette eccezioni e non esclude nessuno, essendo fondata su un solo Dio, che è Dio di tutti, e su un solo Mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, che ha immolato la sua vita per tutti, meritando per tutti e a tutti la grazia della salvezza. Cristo, infatti, morendo sulla croce, ha riconciliato col Padre e risanato l'umanità intera. Ha istituito come mezzi ordinari della grazia la predicazione e i sacramenti della Chiesa, senza escludere altri mezzi, con cui Dio può conferire la sua grazia e salvezza a quanti, non potendo essere raggiunti dai mezzi ordinari, non si oppongano alla sua azione. La volontà salvifica universale, come la grazia, in chi non l'accetta o la rifiuta ostinatamente, non produce automaticamente i suoi effetti. L'uomo, perciò, può riceverla solo se "sotto la mozione della grazia, si volge verso Dio, si allontana dal peccato, accoglie il perdono e la giustizia dall'Alto" (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1989), dà il suo assenso di fede alla Parola divina e coopera nella carità alla mozione dello Spirito che lo previene e custodisce (n. 1993).

La giustificazione, mediante la potenza della misericordia divina e per i meriti di Cristo, rende l'uomo interiormente giusto (santo) e conforme alla giustizia (santità) di Dio, lo destina alla gloria divina e alla vita eterna, (n. 1992). Mediante il battesimo, sacramento della fede, separa l'uomo dal peccato e lo libera dalla sua schiavitù, ne purifica e guarisce il cuore, lo riconcilia con Dio (n. 1990), v'infonde la fede, speranza, carità e obbedienza alla volontà divina (n. 1991). Per questo la Chiesa considera la giustificazione "l'opera più eccellente dell'amore di Dio", ancora maggiore della creazione del cielo e della terra. Questi, infatti, passeranno, mentre la salvezza e la giustificazione degli eletti non passeranno mai1. La considera pure maggiore della creazione degli angeli nella giustizia, perché manifesta maggiormente la misericordia divina (n. 1994). La giustificazione, per i suoi contenuti ed effetti, implica la santificazione di tutto l'essere, sotto la guida del "maestro interiore" che è lo Spirito Santo (n. 1995). Perché l'uomo si prepari alla giustificazione è assolutamente necessaria la grazia interna. La giustificazione viene dalla grazia, che è il favore gratuito di Dio, ma anche il suo soccorso, che ci dà per rispondere al suo invito, diventare suoi figli adottivi e partecipare alla sua natura e eterna (n. 1996). È, quindi partecipazione alla vita di Dio,

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ingresso nella sua vita trinitaria, condivisione del suo Spirito, che infonde in noi la carità fraterna e forma la sua Chiesa (n. 1997).

Questa chiamata alla vita eterna è soprannaturale. Superando le capacità dell'intelligenza e le forze della volontà di ogni creatura, dipende solo dalla libera e gratuita iniziativa di Dio (n. 1998). Tutto questo è detto grazia santificante o deificante che è la fonte della nostra santificazione (n. 1999). Essa consiste nel dono abituale, nella disposizione stabile e soprannaturale, che perfeziona l'uomo, lo rende capace di vivere con Dio e di agire per suo amore. Ciò la distingue dalle grazie attuali, che indicano gli interventi divini con i quali Dio agisce, sia all'inizio della conversione, che durante la nostra santificazione (n. 2000). Per i teologi, esse consisterebbero nelle illuminazioni dell'intelligenza e nelle mozioni della volontà, con le quali le nostra facoltà spirituali e umane vengono preparate e disposte a riconoscere, capire e mettere in atto le realtà divine. La grazia sarebbe come una nuova condizione, che fa vedere ogni cosa sotto un nuovo aspetto e in una nuova dimensione, quella di Dio e della sua salvezza. Per questo Paolo esortava i cristiani a pregare di essere illuminati per conoscere "a quale speranza [Dio] li ha chiamati, quale ricchezza di gloria riserva la sua eredità fra i santi e quale sia la grandezza sovrabbondante della sua potenza a favore di noi che crediamo" (Ef 1,18-19). Per comprendere tutto ciò è necessario che Dio illumini gli occhi della nostra intelligenza.

2. Giustificazione, cooperazione, varie forme di grazia Per Giovanni ciò che rende capaci di comprendere le realtà di Dio è opera dell'unzione dello Spirito

(1Gv 2,20). A sua volta, essa muove la volontà, perché metta in pratica tutto ciò che lo Spirito ci ha fatto conoscere, di modo che "è Dio che suscita in voi il volere e il fare per attuare il suo beneplacito" (Fil 2,13). Ciò avviene perché la giustificazione, come libera iniziativa di Dio, esige la cooperazione, che è la libera risposta dell'uomo. Entrambe richiedono le adeguate disposizioni interiori dell'uomo, che sono necessarie per poterla attuare (n. 2002). L'uomo può entrare in comunione soprannaturale con Dio, solo in base al libero dono divino, al quale corrisponda in piena libertà. Dio, ispirando nell'uomo la fiducia, speranza, carità, penitenza, lo dispone a essere perdonato dei suoi peccati e a ricevere la giustificazione. Con l'esercizio di questi atti, in cui il primo posto spetta alla fede, come totale fiducia, abbandono a Dio, assenso alla sua Parola e alle sue promesse, l'uomo coopera alla sua salvezza. Tale cooperazione umana alla grazia divina deve poi esprimersi concretamente nelle opere della fede e della carità. Ciò significa che se Dio giustifica l'uomo, gratuitamente e senza suo merito, esige tuttavia che egli cooperi ai suoi doni con atti di virtù, a cominciare da quelli di fede. Tale cooperazione è resa possibile solo dall'aiuto della grazia attuale elevante, che designa tutti gli interventi divini (grazie attuali) sia all'inizio della conversione che nel corso della santificazione (n. 2000).

Come la preparazione ad accogliere la grazia è opera esclusiva della grazia, così lo è pure l'indispensabile cooperazione alla giustificazione mediante la fede, perché è Dio stesso che porta a compimento nell'uomo quello che ha cominciato, esigendone, però la cooperazione (n. 2001). S. Agostino la sintetizza efficacemente così: "operiamo certamente anche noi, ma operiamo cooperando con Dio che opera prevenendoci con la sua misericordia". Ci previene e ci segue per chiamarci, guarirci, santificarci, glorificarci2. La grazia, dono dello Spirito Santo che ci giustifica e santifica, comprende pure tutti gli altri doni che Dio ci elargisce, per associarci alla sua opera. Tali doni sono le grazie sacramentali proprie di ciascun sacramento, le grazie speciali dette anche carismi che hanno come fine il bene comune della Chiesa, rivelandola e accreditandola come popolo santo di Dio3 e le grazie di stato, che accompagnano l'esercizio della responsabilità della vita cristiana e dei ministeri ecclesiali (nn. 2003-2004). Ciò introduce il problema della differente distribuzione della grazia. Non tutte le grazie sono eguali. L'ineguaglianza nella distribuzione della grazia rivela l'assoluta trascendenza di Dio4, che distribuisce i suoi doni in assoluta libertà, per la miglior realizzazione del suo piano di salvezza e per il maggior bene dei singoli, della Chiesa e dell'umanità.

Ciò fa parte del mistero della salvezza, che supera la nostra intelligenza e ragione, ma è un mistero di amore e saggezza infinita, da accogliersi con fede, speranza e amore, nell'attesa che un giorno ci venga svelato. È in questo contesto che diviene significativa la distinzione che avevamo accennato nel secondo capitolo, fra grazia sufficiente e grazia efficace. Si era detto che essa è storicamente legata all'insieme dei problemi sorti fra la fine del 1500 e gli inizi del 1600, designati col nome di "controversia de auxiliis". I teologi del tempo distinsero la grazia sufficiente e la grazia efficace in complicate disquisizioni dovute allo stato della teologia di quel tempo. Nel contesto di quanto

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abbiamo esposto qui sopra, e ricordando che Dio vuole la salvezza di tutti (volontà salvifica universale), la grazia sufficiente è quella che Dio dona a tutti (e non soltanto ad alcuni), nel pieno rispetto della loro libertà. Essa diviene pure grazia efficace se viene liberamente accolta, consentendole di produrre nel ricevente gli atti, effetti e frutti della salvezza. La distinzione mette in particolare luce il valore della preghiera, con la quale si esprime, nel modo migliore, il desiderio, l'attesa e la volontà di rendere efficaci i doni del Signore, accogliendoli, valorizzandoli e mettendoli in atto, confidando totalmente nel suo amore misericordioso, gratuito e generoso.

In breve, si può dire che la preghiera aiuta l'uomo a mantenersi nel clima della conversione, dell'obbedienza e della docilità al fascino della grazia e della salvezza. Esprime, inoltre, nel più alto grado, la libertà dell'uomo, che Dio stesso ha voluto e che sempre rispetta. Dio, infatti, previene l'uomo e prende per primo, nei suoi confronti, l'iniziativa salvifica, tuttavia lo fa rispettando sempre e totalmente la sua libertà. L'uomo è giustificato e si salva, quindi, solo se lo vuole, lo accetta e lo chiede. Assieme a questo problema è stato sollevato, più volte, quello del rapporto fra la prescienza divina e la salvezza del singolo. Esso si può porre in questi termini: se Dio conosce infallibilmente l'atto libero dell'uomo prima ancora che venga posto, quest'atto come può rimanere libero? Nessuno dei diversi tentativi fatti per risolverlo ha dato risultati soddisfacenti. Oggi, a uno sguardo retrospettivo appare sempre più legato a quella cultura esasperatamente razionalistica, alla quale abbiamo accennato più volte. Appare pure più improntato, forse, a una certa curiosità intellettuale che alle esigenze di una genuina comprensione. In definitiva, non è mai apparso essenziale per la fede. Certamente alcuni dei termini ed elementi che lo compongono appaiono insufficientemente chiariti o posti in modo imperfetto. Vediamone alcuni: quale è, realmente ed esattamente, il modo divino di conoscere; che cosa significa, realmente ed esattamente, il tempo per Dio; qual è, realmente ed esattamente, la relazione che intercorre tra Dio, il tempo, la conoscenza divina e quella umana del tempo; qual è, realmente ed esattamente, il significato del "prima" o del "dopo" riguardo agli oggetti del suo conoscere e del suo modo di conoscere, ecc. Per questi problemi e altri ancora che, del resto, non erano affatto essenziali e furono accantonati, non abbiamo elementi precisi e affidabili. Ricordiamo, a puro titolo di esempio, un falso problema sull'onnipotenza divina, che i non credenti si divertivano a proporre ai credenti, per metterli in imbarazzo o farsene gioco: può Dio creare un sasso così pesante da non poterlo sollevare?

3. Dinamismi della grazia, santificazione, perseveranza Si è già detto che giustificazione e grazia non sono processi magici, né automatici. A sua volta, la

vita nella grazia dell'uomo giustificato non è un facile idillio. Anzitutto l'uomo continua a muoversi sempre nella luce della fede, che comporta anche le sue oscurità. Si trova, poi, nel continuo rischio o pericolo di perdere ciò che aveva acquisito, infine non può sottrarsi all'esigenza di crescere sempre, ossia tendere alla pienezza della santità che la sua santificazione esige. Ciò significa che la vita di grazia non è mai statica, ma intensamente dinamica, esigendo continua crescita e sviluppo. Essi avvengono con l'osservanza dei comandamenti divini, il compimento di opere buone, l'esercizio delle virtù teologali, umane e dei doni dello Spirito Santo, la docilità alle ispirazioni divine e l'obbedienza al piano o progetto di vita che il Signore ha su di noi. Amare Dio significa fare la sua volontà. Inoltre, non vi è solo l'impegno positivo, ma anche l'aspetto negativo, ossia la lotta spirituale contro ogni sorta di nemici, ostacoli e tentazioni che si oppongono al cammino del cristiano (1Pt 5,8). Senza il continuo soccorso della grazia divina, l'uomo soccomberebbe al male e al peccato. L'uomo da solo, senza l'aiuto di Dio, non può superare tutte le tentazioni e perseverare nella grazia ricevuta, può sempre peccare e perdere la giustificazione con il peccato mortale5 non, però, con quelli veniali. Solo la B.V. Maria ebbe il privilegio di essere preservata anche da ogni peccato veniale6.

D'altra parte, con l'aiuto di Dio tutto è possibile (Mt 6,13; 11,30; 26,41; Gv 15,4; 1Co 10; Fil 4,13; 1Gv 5,3). Ciò vale pure per la perseveranza nello stato di grazia, sia durante la vita che nella morte. Essa, asserì il Concilio di Trento, è "un gran dono di Dio" (DS 1566). L'aggettivo "grande" è interpretato variamente dai teologi, ossia nel senso che: 1) nessun dono può essere maggiore del conseguimento della vita eterna; 2) la perseveranza finale è l'opzione decisiva per ogni uomo; 3) essa è il massimo segno e dono di benevolenza del Signore. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, sottolinea che la grazia, appartenendo all'ordine soprannaturale, sfugge alla nostra esperienza e può essere conosciuta solo mediante la fede. Tuttavia, per capire se la grazia operi veramente in noi abbiamo come criterio di discernimento la parola stessa del Signore: "dai loro frutti li potrete riconoscere" (Mt

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7,20). Oltre all'impegno nelle buone opere, essa c'invita pure a ripetere la bellissima preghiera contenuta nella risposta di S. Giovanna d'Arco ai suoi giudici, come esorta il Catechismo della Chiesa Cattolica: "Se non vi sono, Dio voglia mettermici; se vi sono Dio mi ci conservi" (n. 2005). Un'altra bellissima invocazione è quella dei cristiani d'Oriente: "Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, abbi misericordia di me e salvami".

1 S. Agostino, In Evangelium Johannis tractatus, 72, 3. 2 Id., De natura et gratia, 31; PL 44, 264. 3 K. Rahner, H. Vorgrimler, "Carisma", DDT, 87. 4 D. Grasso, Il messaggio di Cristo, Assisi 1968, 273. 5 Concilio di Trento, DS, 1555, 1573, 1619. 6 Id., DS, 1573.

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11. MERITO, SANTIFICAZIONE, DIVINIZZAZIONE, INABITAZIONE

Il Catechismo della Chiesa Cattolica conclude l'argomento della grazia e della santità cristiana, con questa citazione del Concilio di Trento: "i figli della Santa Chiesa nostra madre sperano giustamente la grazia della perseveranza finale e la ricompensa di Dio loro Padre, per le opere buone compiute con la sua grazia, in comunione con Gesù" (n. 2016). Conferma, quindi, lo stretto collegamento fra perseveranza, santificazione, buone opere, ricompensa e merito.

1. Giustificazione e merito La dottrina del merito ha sempre avuto un posto particolare nella teologia della grazia, che ricorda

come esso non vada inteso in senso strettamente giuridico e come nessuno possa vantare diritti davanti a Dio. Il Concilio di Trento, trattandone, intese affermare che le opere dei figli di Dio sono buone, fanno crescere nella giustificazione e hanno una proporzione con l'aumento stesso della grazia e della vita eterna1. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, per meglio chiarirlo, muove dal concetto del termine, come retribuzione, dovuta da una comunità, all'azione meritevole di uno dei suoi membri. Così inteso si riferisce alla virtù della giustizia, in conformità al principio dell'eguaglianza, che ne è la norma (n. 2006). Rimanendo sul terreno strettamente giuridico, quindi, è evidente che per la smisurata diseguaglianza che intercorre fra Dio e l'uomo, non può esserci alcun merito nei confronti di Dio (n. 2007). Di conseguenza, nella vita cristiana, il merito dell'uomo davanti a Dio deriva solo dal fatto che Dio, liberamente e gratuitamente, ha disposto di associare l'uomo all'opera della sua grazia (n. 2008). Sorgente di tutti i nostri meriti davanti a Dio, dunque, è soltanto la carità di Cristo.

La grazia, unendoci a Cristo con amore attivo, assicura il carattere soprannaturale di ogni nostra azione e, di conseguenza, il suo merito davanti a Dio. Come i Santi, dobbiamo anche noi conservare sempre viva la coscienza che tutti i nostri meriti sono pura grazia (n. 2011). I meriti della vita di giustificazione e delle opere buone, quindi, vanno attribuiti anzitutto alla grazia di Dio, poi alla libera collaborazione dell'uomo che, tuttavia, è anch'essa opera della grazia divina. Il merito dell'uomo, quindi, va tutto a Dio, dal momento che è originato e causato dai meriti di Cristo e dalle ispirazioni e aiuti dello Spirito Santo (n. 2008). Si tratta, comunque, di un vero merito, anche per l'uomo, a motivo dell'adozione filiale, che ci rende veramente partecipi della natura divina e ci fa "coeredi" con Cristo, della promessa della vita eterna. La dignità di figli di Dio è talmente alta, da costituire una ragione di merito del tutto valida per la persona giustificata, resa capace di compiere opere degne di considerazione da parte di Dio. Le azioni, fatte sotto l'influsso della grazia attuale, conseguono una proporzione tra opera e premio, dando luogo a un vero diritto derivante dalla grazia, giustificazione e amore gratuiti di Dio. Tali meriti e diritti sono doni gratuiti della bontà divina (n. 2009)2. Ciò che l'uomo non può assolutamente meritare, invece, è la giustificazione stessa, detta grazia prima o prima grazia santificante.

La ragione è che, l'ordine della grazia è iniziativa assoluta di Dio, per cui nessuno può meritare la grazia che origina la prima conversione, il perdono e la giustificazione. In seguito, ossia una volta giustificati, sotto l'azione della grazia, ossia le mozioni dello Spirito Santo e della carità, possiamo meritare, per noi stessi e per gli altri, le grazie utili alla nostra santificazione, l'aumento della grazia, della fede, speranza e carità e la vita eterna. La vita eterna è il premio che Dio accorda al giustificato, per le opere buone compiute in stato di grazia. Pure i beni temporali possono essere meritati, secondo i disegni della sapienza e provvidenza divina. Tutti questi beni sono oggetto della preghiera cristiana, che provvede al nostro bisogno di grazia per le opere meritorie (n. 2010). Le condizioni per meritare, quindi sono: 1) lo stato di grazia; 2) la vita presente, prima della morte, o "stato di via"; 3) l'uso della propria libertà a favore di Dio e del suo progetto su di noi. Le opere devono essere buone e rese soprannaturali. Oltre all'esercizio della vita teologale, si cresce nella grazia e santificazione anche per mezzo dei sacramenti, segni efficaci e veicoli della grazia, di cui tratta la teologia dei sacramenti.

2. Merito e buone opere Per la Chiesa cattolica, le buone opere, frutto e segno della giustificazione, sono pure azioni con le

quali l'uomo si guadagna la vita eterna. L'Antico Testamento riconosceva una retribuzione divina, che si è evoluta da punizione a premio (Dt 27,9-26; 28,1-14; 15-68), da collettiva a individuale (Ez 18,1-29), da terrena a spirituale ultraterrena (Sir 11,14-28). Nel Nuovo Testamento, i testi riguardanti le

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buone opere sono numerosi, fra cui, particolarmente importanti: Mt 16,27; Rm 2,6 e Ap 2,23. Le opere non portano alcun guadagno a Dio ma, per il cristiano, un premio che corrisponde ad esse, ma il cui valore è di gran lunga superiore. Nelle lettere ai Corinzi e ai Romani S. Paolo insiste sul fatto che le buone opere provengono dalla grazia. Ciò che la S. Scrittura chiamava "merces", il latino non cristiano chiamava "meritum". Tertulliano preferì il secondo termine, che si diffuse ampiamente. Il medioevo sviluppò il concetto distinguendo fra merito "de condigno" in base alla giustizia e "de congruo" in base all'equità.

Benché si trattasse solo di un'opinione di scuola, i protestanti la considerarono come dottrina cattolica, per cui il Concilio di Trento dovette chiarire pure questo punto. Disse, perciò, che l'uomo deve sempre fidarsi di Dio e di Cristo che, apprezzando l'uomo, vogliono che la vita eterna sia un risultato della sua azione. Nel Concilio Vaticano II, invece, la dottrina del merito è appena accennata (LG 41, 49). La dottrina cattolica sottolinea, quindi, che: 1) alla fine di una vita buona, Dio dona a ciascun cristiano la vita eterna e l'incontro con Lui; 2) in questa vita, Dio può comunicare grazie diverse agli uomini3; 3) nella vita eterna Dio retribuisce ciascuno secondo la misura della sua collaborazione4; 4) nella vita eterna il rapporto fra le differenti grazie e la differente collaborazione ad esse sulla terra determina la diversa profondità e intensità del rapporto con Dio. Il tema del merito, per non essere frainteso, deve rimanere strettamente collegato agli altri temi della grazia e, in particolare, alla giustificazione, santità e santificazione.

La giustificazione cristiana rinnova radicalmente l'uomo, ma segue le leggi di ogni vita, esigendo di essere non solo conservata (Mt 7,21; 10,22; 19,17; Gv 14,15; Gc 1,22) ma anche sviluppata e accresciuta fino alla sua pienezza o perfezione. Questo processo o cammino è detto santificazione e consiste nel fare vivere il Cristo in noi (Fil 1,21) o, ancor meglio lasciarsi vivere da lui (Gal 2,10) come sue membra vive e vitali, testimoni credibili e sua piena immagine e somiglianza. In questo cammino verso la perfezione, la grazia che accompagna il cristiano lo rende sempre più libero, della libertà dei figli di Dio (Gv 8,36; Rm 8,21) e sempre più fecondo nel realizzare i compiti che il Signore gli affida nel mondo. Ciò avviene mediante i mezzi abitualmente offerti a ogni battezzato: docile ascolto della Parola, preghiera personale e comunitaria, sacramenti (in particolare penitenza ed eucaristia), opere buone fatte per amore (Mt 6,1; 1Co 13,3). Questa è l'esistenza vissuta per Cristo, con Cristo e in Cristo5.

3. Santità e santificazione Il Catechismo della Chiesa Cattolica inizia la sessione IV, dedicata alla santità cristiana, con due

citazioni di fondo. La prima, della Scrittura (Rm 8,28-30), ricorda i passaggi e gradi operati dal Signore a favore di coloro che lo amano: li conosce da sempre, li predestina alla conformità col suo Figlio, li chiama, giustifica e glorifica (n. 2012). La seconda, del Concilio Vaticano II, (Lumen Gentium, 40) ricorda che "tutti i fedeli di qualsiasi stato e grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità". Sottolinea, quindi che "tutti sono chiamati alla santità", citando l'invito di Cristo: "siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Per raggiungere la perfezione, i fedeli usano le forze ricevute, secondo la misura del dono di Cristo, consacrandosi alla gloria di Dio e al servizio del prossimo6 (n. 2013). Fine del progresso spirituale è l'unione sempre più intima e profonda con Cristo, che ci fa partecipare al suo mistero mediante i sacramenti. L'unione viene detta "mistica" perché la partecipazione al mistero di Cristo ci fa partecipare al mistero della Santissima Trinità. Dio chiama tutti a quest'intima unione con Lui. Ad alcuni concede pure delle grazie speciali o dei segni straordinari, che manifestino a tutti il dono gratuito fatto a tutti (n. 2014). La santificazione, come cammino di perfezione, è impossibile senza il combattimento spirituale, il sacrificio, l'abnegazione dell'amor proprio e la rinuncia. Comporta, quindi, l'ascesi e la mortificazione, che conducono alla vita nella pace e alla gioia delle beatitudini (n. 2015).

La Scrittura sottolinea che Dio è il Santo per eccellenza. Questa santità è assoluta purezza morale e libertà da ogni difetto e debolezza. Per l'uomo, essa significa salvezza, purificazione e chiamata. Dio si manifesta Santo in queste azioni di salvezza. Non solo dà gli esempi della sua santità, ma santifica l'uomo, perché anch'egli si santifichi, assumendo a suo modello Dio stesso. Il Nuovo Testamento conserva il linguaggio dell'Antico, ma lo riempie di contenuti nuovi. Il Vangelo invita i credenti alla stessa santità del padre celeste (Mt 5,48). Le lettere di S. Paolo mostrano che inabitazione, santità e santificazione sono intimamente collegate. Esse approfondiscono il messaggio cristiano secondo le tre

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dimensioni dell'Antico Testamento: Dio si santifica, santifica l'uomo, l'uomo deve santificarsi. Riassumendo, possiamo dire che: 1) il Padre mostra la sua santità operando nei cristiani; 2) Cristo attua la nostra santità mediante la sua offerta sacrificale sulla croce e i sacramenti; 3) Padre e Figlio ci inviano lo Spirito Santo per santificarci; 4) l'uomo deve ricevere il dono della santità, farne la base della sua vita ed aumentarlo con il proprio impegno. La santità, quindi, è la partecipazione alla santità divina, che si mostra nella purezza di vita e nell'amore, misericordia e perdono per i fratelli e per i nemici.

Il Dio Santo si mostra tale, rendendoci capaci di compiere le opere buone che lo fanno glorificare dagli uomini. Ciò avviene, in particolare, per la sua Chiesa, che Egli ama, santifica e rende pura nel battesimo (Ef 5,25-27) e nella comunione dei santi (coloro che da Dio sono resi tali). Fino a tutto il Medioevo il termine usato al riguardo fu gratia gratum faciens che poi fu detta grazia santificante. Il Concilio di Trento ribadì la dottrina biblica, che l'uomo nella giustificazione viene santificato e nel suo catechismo tridentino ha lasciato insieme "santità e giustizia". Il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium ha dedicato il capo V alla vocazione universale alla santità, dicendo che Cristo, il Santo, ha santificato la sua Chiesa donandole lo Spirito Santo. Nella fede e nel battesimo, la partecipazione alla natura e alla figliolanza divina ci rendono santi (n. 40). Tale santità ci è data gratuitamente, senza nostro merito, per pura misericordia e come compito che c'impegna per tutta la vita. La santità di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo è il suo essere più intimo, libero da ogni limite, debolezza e difetto, pienezza di ogni bene e perfezione. Essa è partecipata all'uomo e deve contrassegnare la vita del cristiano, come impegno prioritario su ogni altro.

Esso è possibile, poiché l'uomo è immagine di Dio e in relazione con lui. La decadenza del peccato originale, tuttavia, non ha soltanto intaccato le sue condizioni e limiti creaturali, ma lo ha pure gravato delle sue conseguenze: debolezze, cattive inclinazioni, concupiscenza. La vita di santità, quindi, comporta un continuo e strenuo conflitto con l'uomo vecchio, ossia l'uomo decaduto e degradato. Quest'intimo conflitto il credente lo vive nella Chiesa, la cui santità, quindi, è assai più della somma di santità dei singoli cristiani. Infatti, in essa vive il Cristo, come suo capo e lo Spirito Santo, come sua anima. Sono essi i garanti della verità, certezza e santità vissuta in essa dai suoi membri. Per questo la santità del singolo non può essere costituita pienamente, senza la Chiesa poiché, senza l'Eucaristia, l'attività santificante di Cristo non sarebbe piena. Senza la Chiesa neppure l'opera dello Spirito è piena e neppure l'azione del Padre, fonte di ogni santità, può giungere pienamente all'uomo. Poiché la santità del corpo della Chiesa poggia sulle tre Persone divine, la santità dei credenti passa per il corpo di cui sono membra. Il modo migliore per aumentare la santità dell'intera Chiesa, quindi, è santificare se stessi. Si è santificati, quindi, dalla relazione con le tre Persone, in Cristo, nella sua Chiesa.

4. Inabitazione trinitaria, grazia increata, grazia creata La dottrina dell'abitazione della Trinità in noi è specifica del Nuovo Testamento, ma trova la sua

preparazione nell'Antico Testamento, nella forma di presenza e abitazione di Dio in mezzo al suo popolo. Sotto questo aspetto ne ha assunto pure alcuni termini. Le immagini e istituzioni più significative dell'Antico Testamento al riguardo sono diverse. In primo luogo abbiamo la colonna di fuoco e nube (Es 13,21; 14,19-20; 14,24; 25-31; 40,34-38) e la tenda o tabernacolo (Es 25,8-9; 29,42-46; Es 28,42; 40,34; Nm 9,15-23) che accompagnarono il popolo di Dio durante l'esodo e il cammino nel deserto verso la terra promessa. Raggiunta questa e attuato l'insediamento si ebbero il primo tempio (2Sm 7,1-7; 3Re 8,3-4) e, dopo la sua distruzione, la promessa del nuovo tempio (Is 2,2; 56,7; 60,7; Gr 33,18-21). Il Nuovo Testamento mostrò che il vero tempio inteso dal Signore non era più un edificio materiale, ma un tempio vivente, umano: Gesù di Nazaret (Mt 12,6; Gv 1,14; 2,19). Dopo di lui, pure i credenti in lui, i cristiani sono suo tempio e sua dimora (1Ts 4,8; Gal 4,6; Rm 5,5; 8,9; 1Co 3,16-17; 6,19; 2Co 6,16; Ef 3,17; 4,12). Fu S. Agostino a distinguere, per la prima volta, l'abitazione divina nella Chiesa e nelle persone. Più tardi S. Tommaso elaborò una bellissima formula: Dio è nel cristiano "sicut cognitum in cognoscente et sicut amatum in amante".

L'enciclica Divinum illud munus (1897) di Leone XII riprese un altro aspetto del pensiero agostiniano, quello delle due distinte presenze divine: a) una, ex creatione, in tutte le creature; b) l'altra, ex gratia, nei credenti battezzati. Dio ama, inviando lo Spirito Santo che viene in noi portando con sé il Padre e il Figlio. Paolo e Giovanni non separano mai le due forme d'inabitazione nelle persone e nella Chiesa, poiché l'inabitazione nella Chiesa è strettamente legata a quella nelle persone e

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viceversa. È in questo modo che lo Spirito Santo opera nella comunità ecclesiale. L'inabitazione della Trinità, detta pure presenza divinizzatrice o grazia increata, si capisce: a) distinguendola dall'onnipresenza divina creatrice in ogni cosa; b) cogliendola entro la teologia trinitaria delle missioni del Figlio e dello Spirito. Dio abita in noi rendendoci partecipi della sua vita divina di conoscenza e amore. Ciò lo attua donandoci la fede, la speranza e la carità, che sono, in sintesi, la grazia creata. Essa può dirsi, in altri termini, pure trasformazione o divinizzazione della nostra umanità. Questa realtà, che dipende continuamente dalla presenza della Trinità in noi, trasforma tutto l'uomo7. La grazia creata indica, invece, che l'uomo viene talmente trasformato dall'amore gratuito di Dio, da diventare partecipe della sua stessa natura divina.

Tale partecipazione è una perfezione immensamente più alta della natura umana ed è accidentale, ma non sostanziale. La trasformazione coinvolge due livelli fondamentali: a) la natura, che viene trasformata dalla grazia santificante o gratum faciens; b) l'intelligenza e la volontà che vengono potenziate dalle virtù teologali o infuse. L'uomo, quindi, viene trasformato totalmente nella sua unità. La grazia, sottolinea S. Tommaso, dona all'uomo un essere divino partecipato8. È dottrina del Concilio di Trento che la grazia creata è la trasformazione reale e permanente dell'uomo, dono e opera di Dio, per i meriti di Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo. La comunicazione di sé, che Dio fa all'uomo, è insieme: dono offerto, abilitazione ad accoglierlo, orientamento ineliminabile a tale accoglienza e all'unione perfetta nella visione beatifica. Il tutto in un dialogo che lascia sempre l'uomo libero di accettalo o rifiutarlo9. Poiché giustificazione, santità, vita nella grazia designano il nostro essere e vivere da figli di Dio, per l'azione dello Spirito Santo (Rm 8,14; Gal 5,16-18), dobbiamo pure approfondire quest'aspetto. L'azione dello Spirito Santo non proviene dall'esterno, ma dall'interno del giustificato, nel quale Egli abita e risiede abitualmente (1Co 3,16; 6,19; Rm 8, 9.11). La promessa di Gesù ai suoi discepoli, infatti, è che lo Spirito rimane sempre con noi, abita e vive in noi (Gv 14,16-17).

Il modo di questa "abitazione" è discusso dai teologi. Il punto fermo è, comunque, che la Trinità, ossia le tre Persone divine, abita nelle persone dei giusti, non solo con la presenza d'immensità di cui si è parlato, ossia la presenza di Dio in tutte le creature che egli crea, conserva e muove, ma con una presenza personale straordinaria e diversa, di amore. Con essa, come si è visto, Dio si comunica al credente, trasformandolo interiormente, rendendolo suo figlio, partecipe della sua stessa natura divina. Fin dagli inizi i teologi si sono chiesti se questa presenza sia diretta o indiretta, ossia per mezzo di un'altra realtà. La teologia orientale ha seguito il principio di Massimo il Confessore (662), sviluppato poi da Gregorio Palamas (1359), distinguendo in Dio la sua "essenza" incomunicabile e le sue "energie" (dynameis). Queste sarebbero le manifestazioni increate della sua essenza e distinte da essa. Nel credente non abiterebbe l'essenza divina, ma le energie divinizzanti di questa, che divinizzano l'uomo. La teologia occidentale ritiene che la grazia santificante significhi che la Trinità è presente nel cristiano come grazia increata e con i suoi doni interiori che costituiscono i doni creati o effetti soprannaturali prodotti nell'anima dalla presenza divina. I teologi discutono pure su quale grazia, increata o creata, preceda l'altra.

5. Divinizzazione del cristiano: fine e significato Quanto alle tre Persone divine, si ritiene che ciascuna agisca nel credente secondo il proprio

specifico personale. Il Padre opera come principio e fonte della Divinità o colui che genera il Figlio e spira lo Spirito Santo. Il Figlio opera come "tu" generato dal Padre e unico principio, col Padre, della spirazione e processione dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo opera come "noi" del Padre e del Figlio, legame di amore che li unisce, loro dono scambievole e reciproco. Abitando nel cristiano lega e unisce al Padre e al Figlio e conferisce la grazia creata o santificante, che rende figli adottivi del Padre, fratelli di Cristo e partecipi della vita eterna. Mediante lo Spirito partecipiamo della natura divina (2Pt 1,4) che costituisce la nostra divinizzazione. Su come intendere questa si hanno, di nuovo, due diverse interpretazioni fra la tradizione orientale e occidentale. La prima la intende come assimilazione a Dio e partecipazione alla sua incorruttibilità e immortalità, pur senza divenire come Dio e il suo Verbo. S. Atanasio identifica la divinizzazione con la filiazione adottiva10. Didimo il Cieco e S. Gregorio di Nissa la legano ai sacramenti, soprattutto l'Eucaristia11. S. Giovanni Crisostomo era contrario a usare questo termine, che non si trova nella Scrittura. Cirillo di Alessandria sottolineò fortemente l'Eucaristia nel processo di divinizzazione progressiva del cristiano12.

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S. Massimo il Confessore descrisse la divinizzazione come opera dell'Incarnazione, dono assolutamente gratuito e incommensurabile rispetto all'ordine della creazione. Per lui divinizzazione e Incarnazione sono solo due facce dell'identico mistero. Per S. Giovanni Damasceno la divinizzazione ha due tappe. La prima, più radicale, è l'Incarnazione o assunzione della natura umana da parte del Verbo, la seconda è l'attuazione di questa in noi, per mezzo del battesimo, l'Eucaristia e la vita virtuosa13. La tradizione occidentale pose l'accento sulla santificazione come raggiungimento della santità, parlando assai meno di divinizzazione, intesa come somiglianza con Dio, e assai più di grazia santificante vista come causa di divinizzazione o deificazione. Queste differenze, che non indicano opposizione, ma complementarità, dipendono dal fatto che gli orientali hanno sottolineato maggiormente l'Incarnazione come restituzione della somiglianza con Dio, perduta per la colpa di Adamo. Gli occidentali, invece, hanno sottolineano maggiormente l'Incarnazione come redenzione dell'umanità peccatrice e sua santificazione mediante la grazia. I due termini deificatio e deificari, tuttavia, si trovano pure in S. Ilario di Poitiers e S. Agostino, che già scriveva: "Dio ti vuol fare dio, non per natura come è lui che ti ha generato, ma per dono e adozione"14.

A differenza degli orientali, egli mise al centro della grazia il dogma della redenzione, anziché dell'Incarnazione, sottolineando maggiormente la guarigione del peccatore, pur senza misconoscerne l'aspetto divinizzante. Nel Medioevo, S. Bernardo vide la divinizzazione come trasformazione dell'anima in Dio, mediante l'accordo perfetto, la conformità tra volontà della sostanza umana e volontà della sostanza divina, ad opera della carità. In particolare sottolineò che, essendo Dio carità, divenire ciò che è lui significa divenire carità15. Nel secolo XIII i teologi occidentali guardarono soprattutto al mezzo col quale l'uomo è divinizzato o deificato. Per S. Tommaso la divinizzazione consisteva nella partecipazione per similitudine alla natura stessa di Dio, che sussiste nel mistero dell'unica sostanza in tre Persone. Essa ci deifica comunicandoci il consorzio della natura divina16. La dottrina della divinizzazione raggiunse il suo vertice con S. Massimo il Confessore per l'Oriente e con S. Tommaso d'Aquino per l'Occidente. Al Concilio di Trento si discusse sulla giustificazione. Dopo il concilio l'attenzione si spostò sul rapporto fra grazia e libero arbitrio, nel secolo XVII sulla controversia irrisolta de auxiliis e poi sul rapporto fra natura e soprannaturale (Baio) e sul predestinazionismo (Giansenio).

La divinizzazione del cristiano, nel suo profondo, esprime la risposta a tutte le aspirazioni dell'uomo, espresse o inespresse e segna il vertice massimo della sua dignità e nobiltà: partecipare alla stessa natura, vita, opera, felicità eterna di Dio, essere suo figlio in senso reale e non metaforico. Il cristianesimo, quindi, pur essendo la religione e il progetto di vita che più esige dall'uomo, è pure quello che lo esalta maggiormente e gli conferisce la massima dignità17.

1 G. Manca, La grazia, Cinisello B. 1997, 255-257. 2 Concilio di Trento, DS, 1546. 3 Al riguardo occorre chiarire che gli uomini non sono tutti uguali in se stessi, ma solo di fronte alla legge.

Questa differenza è essenziale e decisiva. Solo l'invidia del bene altrui impedisce di capire e accettare questo punto.

4 Occorre, quindi, distinguere bene fra la distribuzione di doni di grazia diversi in questa vita e la valutazione della loro valorizzazione nel giudizio finale.

5 A. Beni, "Grazia", NDT, 605. 6 Ibid. 7 Manca, La grazia, 67. 8 S. Th. I-II, 110,2, ad 2. 9 Manca, La grazia, 86-88, 96, 106. 10 S. Atanasio, De Incarnatione Verbi, n. 14, PG 25,111; De decretis Nicaenae Synodi, n. 14, PG 25, 361-

364; Discorso contro gli ariani, n. 19, PG 26, 361-364. 11 Oratio catechetica, n. 36, 2, PG 45, 92; n. 37, ib., 93-97. 12 In Johannem, 6, 54, PG 73, 577-580; Epist. 45, PG 73, 228-237.

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13 De fide orthodoxa, IV, 9-13, PG 94, 1117-1153. 14 Sermo 166, 4, PL 38, 909. 15 In Cantica, 61, 1, PL 183, 1071; Id., 83, 3, Ib., 1182, 1184; Id., 82, 8, Ib., 183, 1181. 16 S. Th. I-II, 112, ad 1. 17 "Lo Spirito Santo e la divinizzazione del cristiano", in La Civiltà Cattolica, 1998, IV, 13-15.

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12. PROPOSTE DI SINTESI, PRESENTAZIONI SISTEMATICHE, COLLEGAMENTI,

La ricchezza e complessità degli argomenti che si raccolgono sotto l'antico e tradizionale titolo di "Grazia" ha fatto emergere più volte l'esigenza di sintesi o presentazioni sistematiche, rese sempre alquanto difficili dalla necessità dei diversi collegamenti con le altre verità dottrinali. Essa, infatti, riveste tale centralità ed importanza, da esigere relazioni con quasi tutti gli argomenti della fede cristiana e i trattati teologici che intendono approfondirli, quali: protologia, antropologia, cristologia, soteriologia, pneumatologia, ecclesiologia, escatologia ecc. In senso più ampio, riguarda pure i diversi ambiti maggiori della teologia: sistematica, sacramentaria, morale, spirituale e pastorale. I collegamenti dovrebbero evitare il pericolo, sempre incombente, di trattare in modo esclusivo i suoi contenuti, isolandoli dagli altri, oppure legandoli eccessivamente soltanto all'uno o l'altro di essi. Ciò porta all'impressione che essa sia solo una parte della sacramentaria (Catechismo del Concilio di Trento) oppure riguardi solo la vita morale (Catechismo della Chiesa cattolica). Presentiamo, quindi, alcuni tentativi o proposte più recenti di sintesi, di presentazione sistematica e di collegamento, che potrebbero stimolare ulteriormente la ricerca e la riflessione sul nostro tema.

1. Sintesi e collegamenti per il tema della grazia Fra i tentativi di sintesi e di collegamento esaminiamo, ad esempio, quello del Nuovo Dizionario di

Teologia1. Esso articola il tema della grazia nelle seguenti sezioni: 1) Piano divino; 2) Cristo orientamento di tutta la vita; 3) Incontro personale con Cristo e nostra incorporazione a lui; 4) Elementi costitutivi della nostra incorporazione a Cristo; 5) Conseguenze della grazia giustificante. Come si vede, si tratta di un'ampia articolazione dei vari temi della teologia. Come inizio pone il Piano divino di cui sottolinea le grandi linee. Dio non si è limitato a creare l'uomo, spirito finito, incarnato, in comunione, ma fin dagli inizi, da tutta l'eternità, ha concepito, in modo assolutamente libero e gratuito, il grandioso disegno di elevarlo a trascorrere la sua eternità, in comunione con Lui, vivendo la sua stessa vita e felicità. Questo piano soprannaturale di salvezza abbraccia tutto e tutti, tempo e storia e ha come punto finale la pienezza del Regno di Dio. Il secondo aspetto della sintesi è dato dal collegamento cristologico, espresso nella sezione di Cristo orientamento di tutta la vita. L'autore sottolinea qui come fin dagli inizi, ossia da tutta l'eternità, il Padre ha predestinato il Figlio ad essere il primogenito di tutta la creazione, perché tutti partecipino alla sua gloria. Per questo ci ha scelto e predestinato ad essere suoi figli adottivi, in Cristo, con assoluta gratuità e infallibile efficacia. L'efficacia resta condizionata dalla nostra risposta, ossia alla condizione che non ci opponiamo ostinatamente al dono divino e rifiutiamo di essere salvati.

Il terzo aspetto è trattato nella terza sezione dedicata all'incontro personale con Cristo e alla nostra incorporazione a lui. Qui si sottolinea come il Figlio di Dio, con la sua: a) Incarnazione in Gesù Cristo, si sia fatto via, verità e vita per tutti gli uomini; b) Passione e immolazione sulla croce, sia divenuto il Redentore di tutta l'umanità; c) Risurrezione, abbia vinto il male, il peccato e la morte e ci abbia uniti intimamente a sé; d) Parola, Spirito, Sacramenti e Chiesa, ci abbia costituiti membra del suo Corpo che è la Chiesa, ossia sue membra, nell'una e sola "mistica persona". In lui e nella sua Chiesa siamo veramente uno in tutti e tutti in uno. Ciò porta a vedere la grazia nella prospettiva degli elementi costitutivi della nostra incorporazione a Cristo. La quarta sezione approfondisce, quindi, in questa prospettiva, l'unione e incorporazione a Cristo, la giustificazione, l'abitazione dello Spirito e delle persone divine in ogni credente e nella Chiesa e la divinizzazione. Vi si sottolinea come esse avvengono solitamente nel battesimo, in cui Cristo ci rende veramente giusti, cristificandoci e deificandoci. Tale incorporazione è il frutto di due realtà: il dono increato o inabitazione divina in noi, e il dono creato o grazia santificante creata, che opera nel credente una vera rigenerazione che si può considerare una nuova nascita e nuova creazione.

La quinta ed ultima sezione è dedicata ad approfondire le conseguenze della grazia giustificante. Vi si nota come i nostri peccati e la condizione di nemici di Dio siano cancellati, come Dio ci riconcili con sé, facendoci veri figli adottivi, eredi della sua vita e gloria eterna, concittadini del cielo, suoi familiari, destinati a vivere nella sua comunione intima e destinatari di un amore di benevolenza e di una compiacenza senza confini. Incorporandoci a Cristo, lo Spirito c'incorpora pure alla comunità-comunione della Chiesa sua sposa, suo popolo divino destinato a glorificare il Padre e servire i fratelli, costruendo fin d'ora il suo Regno finale. È in questo ampio contesto di realtà teologiche che l'autore ritiene si debbano sempre inserire, sviluppare e collegare tra loro gli argomenti riguardanti la grazia, la

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giustificazione, la predestinazione, la santificazione, la conversione e la divinizzazione. In esso troverebbero pure la migliore comprensione tutte le distinzioni e i problemi che abbiamo esposto nei precedenti capitoli, riguardo al trattato sulla grazia.

2. Proposta di presentazione sistematica Per la presentazione sistematica appare pure interessante quanto propone il Dizionario di

Teologia2, volto a collegare organicamente i diversi argomenti teologici connessi alla grazia. In primo luogo pone le seguenti "verità di rivelazione": 1) l'uomo come spirito incarnato, creatura dell'amore divino, totalmente dipendente dal suo Creatore; 2) l'uomo nel suo esistere naturale in qualità di "immagine" (imago) che fa di lui una "persona", che può e deve dare la sua risposta libera e consapevole alla Parola d'amore che Dio gli rivolge; 3) l'uomo chiamato fin dagli inizi a un'esistenza soprannaturale che lo rende "somiglianza" (similitudo) con Dio (comunione personale, alleanza); 4) il rifiuto opposto dall'uomo alla comunione e alleanza, che è divenuto la radice ed essenza di tutti i peccati; 5) la sua accettazione obbediente, che gli apre la via all'amicizia, all'adozione filiale, alla comunione divina, alla trasfigurazione e beatitudine, alla partecipazione alla vita eterna e alla gloria divina. Come si vede, questa impostazione è fortemente antropologica, ponendo continuamente l'uomo al centro del dramma di obbedienza/disobbedienza, accettazione/rifiuto. Essa dovrebbe spiegare meglio le ragioni per cui la grazia deve considerare e coinvolgere tutti gli aspetti della vita umana, nella prospettiva di Dio e del suo progetto di gratuita benevolenza, amore e salvezza.

L'Antico Testamento e la speranza escatologica vengono assunti per mostrare come: a) tutta la creazione sia grazia in senso lato; b) la grazia supponga e perfezioni la natura; c) la forza divina si dispieghi e manifesti proprio nella fragilità e debolezza umana. È guardando all'esistenza storica dell'uomo che la grazia mostra meglio la sua relazione tra Dio e l'uomo. In questo modo, predestinazione ab aeterno e giustificazione appaiono gli stadi più importanti del processo in cui emerge il mistero di grazia e libertà. L'impegno per il Regno di Dio fa emergere la lotta fra lo spirito e la carne, la fede e il mondo sottolineando, così, pure la necessità della perseveranza. Nella prospettiva della grazia il principio fondamentale è la libera, gratuita ed eterna decisione di amore di Dio, che la attua nella elezione, vocazione, conferimento della grazia abituale (sanante, elevante, santificante). È pure l'amore divino che la porta a compimento in noi, guidandoci e sostenendoci per tutta la vita con le sue grazie attuali. Sempre nella prospettiva della grazia, la giustificazione è, insieme, cancellazione della colpa e nascita soprannaturale da Dio, che ci fa suoi figli, nuove creature in Cristo, partecipi della sua "pienezza" (santità, santificazione, divinizzazione), membri del suo corpo mistico (Chiesa).

In questa nuova condizione l'uomo può meritare ossia compiere le opere e portare i frutti che Cristo esige e che meritano la ricompensa divina. La necessità della grazia non elimina la capacità dell'uomo di compiere opere naturalmente buone che, pur non essendo meritorie, sono importanti per preparare alla ricezione della grazia. Scopo delle operazioni della grazia è il Regno di Dio non solo nei singoli ma pure nella totalità del mondo.

3. Presentazione sistematica e collegamenti L'Enciclopedia teologica propone una sistemazione del trattato e dei suoi collegamenti, partendo

sia dal nucleo centrale della dottrina della grazia, che da una particolare attenzione alla condizione umana presente e futura. Essa sottolinea l'esasperato atteggiamento di autorealizzazione dell'uomo e della cultura contemporanea, come maggiore stimolo a dare una nuova sistemazione alle tematiche della grazia. Indica, quindi, i seguenti due compiti come particolarmente importanti: 1) mantenere irremovibile il nucleo di verità proprio della concezione della grazia interiore, ossia l'invisibilità e incalcolabilità dell'amore di Dio nelle strutture del mondo; 2) distinguere tale nucleo da tutte le mediazioni simboliche, sociali, politiche ecc., che la grazia possa assumere.

Questa impostazione porta con sé la seguente serie di conseguenze e condizioni riguardanti la teologia della grazia: a) va sviluppata come sintesi, nucleo intimo e prospettiva dominate dell'intera realtà del vangelo e della riflessione teologica, rinnovando e riattualizzando i problemi sollevati da S. Agostino in poi; b) deve superare le impostazioni che disgiungono, pongono in concorrenza o contrappongono grazia e libertà, per elaborare visioni che valorizzino sinergicamente l'azione divina e quella umana; c) esige un rilettura critica delle concezioni di libertà che, in maniera palese, occulta o surrettizia, tendono a sottrarsi al senso realistico del limite, che il messaggio della fede richiede; d)

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deve tematizzare la storicità della grazia divina sia nel suo accadere nell'evento di Cristo, che nella comunicazione di esso nell'evento della Chiesa; e) richiede un approfondimento e un'elaborazione riflessiva della grazia esteriore o esterna, come mediazione mondana della grazia, che la fede identifica negli eventi storici e negli avvenimenti mondani (interpersonali, sociali, politici ecc.) come offerte dell'amore divino; f) deve esprimere tutto il carattere paradossale della grazia, ossia il suo "tutt'altro", che si esplica nelle umiliazioni, sofferenze e insuccessi della vita, nell'interruzione delle attese e delle esigenze vitali dell'uomo, nel fallimento di tutte le speranze immanenti e intramondane; g) deve aumentare l'orientamento al futuro, come vero inizio attuale della vita eterna3.

4. Collegamenti trasversali Come si vede, si tratta di criteri e proposte diverse, volte a impostare la teologia della grazia in

modo da valorizzarne la dottrina come prospettiva globale di molti, se non tutti, i temi teologici. I problemi che sollevano sono molti. Riguardo alla fede: valorizzerebbero adeguatamente l'atto complessivo di accoglienza dell'azione salvifica di Dio, come accoglienza che trasforma la vita? Riguardo alla dottrina trinitaria e alla teologia della creazione: diverrebbero coerentemente motivo centrale e dominante? Il confronto col tema e la visione extrateologica della libertà introdurrebbe in modo appropriato il tema irrinunciabile del peccato? Una prospettiva teologica rigorosamente antropologica sarebbe egualmente legittima ed appropriata? Quanto la riflessione sulla storicità della grazia deve divenire più acuta nella cristologia, soteriologia, ecclesiologia, dottrina dei sacramenti e della predicazione? La grazia orientata al futuro deve divenire il punto sistematico di partenza dell'escatologia cristiana, come dottrina del compimento del dono di grazia che ci è dato qui e ora? Questi e altri problemi potranno movimentare la riflessione sulla grazia e sugli altri temi connessi, nella ricerca e riflessione teologica del presente e del futuro.

1 A. Beni, "Grazia", NDT, 599-604. 2 J. Auer, "Grazia", DT, III, 51-55. 3 O.H. Pesch, "Grazia", ET, 447-448.

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13. TEMATICHE VARIE DELLA GRAZIA

Esaminiamo in questo capitolo un insieme di temi, prospettive e problemi riguardanti la grazia, che finora ebbero minore sviluppo, ma che potrebbero essere ulteriormente elaborati e che, comunque, è interessante conoscere.

1. Presenza divina e grazia come dialogo di comunione Una recente proposta indica nel modello dialogico un elemento valido per capire la grazia come

rapporto di Dio con l'uomo, in termini di presenza, appello, chiamata, risposta e accoglienza. Essa considera la presenza della Trinità in noi, una chiamata permanente all'unione con le persone divine, che sostengono e portano a compimento in noi la nostra stessa risposta. In questo dialogo di comunione la chiamata è la presenza della Trinità come Tu assoluto, che si dona nel dono che siamo noi stessi, come creature e figli, invitandoci in modo permanente ad accoglierla liberamente. La centralità della categoria intersoggettiva del dono viene compresa attraverso le categorie bibliche di verità, inabitazione, appartenenza, santità e figliolanza divina. La grazia, nell'aspetto creato e increato, è partecipazione alla grazia dell'incarnazione del Verbo e quindi al rapporto unico e divino che lega Padre e Figlio nello Spirito. Il Padre si autocomunica pienamente al Figlio, che perciò è la sua perfetta immagine e ne condivide in pienezza la divinità. Ma siccome il Figlio assume la sua umanità nell'unità della propria persona, il Padre si comunica totalmente a lui, anche come uomo. Questa autocomunicazione a Gesù è la grazia increata di Cristo e coincide con l'Incarnazione stessa.

Essa divinizza l'umanità di Cristo, la quale sussiste come umanità del Verbo. Tale divinizzazione è la grazia creata di Cristo. L'Incarnazione è il farsi uomo del Figlio di Dio e la corrispettiva divinizzazione della sua umanità, attraverso la sua intera esistenza, che culmina nella morte-risurrezione. La grazia creata in noi è trascendente e immanente. Trascendente perché ripercussione della presenza e autodonazione di Dio nello Spirito, che ci fa partecipare alla figliolanza divina in Cristo. Immanente in quanto perfezionamento massimo e sopracreaturale della nostra umanità, alla vita trinitaria di conoscenza e amore, e tende alla visione beatifica di Dio di cui è un anticipo1. L'inabitazione è la Trinità che ci chiama a far parte del suo mondo trinitario attraverso la nostra unione con Cristo. Questa accoglienza elevante ci è offerta sempre, poiché in Cristo il Padre ha accolto tutto il mondo umano e lo ha chiamato a far parte della propria vita divina. Non vi è nulla, quindi, della nostra esistenza che non sia influenzato da questa presenza e che non sia continuamente chiamato ad armonizzarsi alla volontà del Padre, vivendo da figli. Noi veniamo divinizzati, perché Dio ci accoglie nel suo mondo personale e non viceversa. La concezione biblica dell'inabitazione evoca la presenza di Dio nel suo tempio, che diventa sua appartenenza esclusiva e perciò santo2.

2. Grazia, libertà, liberazione Un'altra prospettiva, molto sentita nella seconda metà del secolo XX e tuttora significativa,

riguarda la libertà offerta all'uomo, nella grazia intesa come partecipazione alla vita divina di Cristo e, quindi, realizzazione somma della nostra umanità e comunione. Dio Padre, attraverso la redenzione di Cristo e il dono dello Spirito Santo, ci libera dal peccato, dalla morte, dall'estraneità e dalla irrealizzabilità della legge divina. Ci rende liberi, in modo permanente, nella fede e nell'amore vissuti nella speranza. La verità della grazia, nel Nuovo Testamento, ci ricorda, anzitutto, la sua esperienza liberante. L'esperienza della grazia come liberazione è totalmente permeata dalla gioia di essere amati in modo imprevisto, al di là di ogni merito e di ogni attesa. In Luca, le parabole della misericordia esprimono al massimo la grazia liberatrice e la gioia della libertà. L'amore di Cristo fino alla morte rivela pienamente la sua misericordia liberante, che ci trasforma col dono dello Spirito. La nostra libertà è la partecipazione a quella di Gesù. Essere liberi è tornare alla casa paterna ove il Padre ci attende e dove libertà, figliolanza divina e fraternità coincidono. La liberazione comincia con la conversione e prosegue fino alla piena libertà dei figli di Dio, nella risurrezione.

Il primato della libertà che appartiene a Dio in Cristo, è fondante per la nostra stessa libertà. Il dinamismo originario della libertà verso Dio, che la filosofia e la teologia cattolica hanno sempre riconosciuto, s'incarna nell'esigenza di essere, di verità e di trascendenza, condotti ed elevati dalla grazia, al termine sopracreaturale di Dio in se stesso. La nostra libertà è sempre un dono, una vocazione a trovare Dio e ad accoglierlo, per poter accogliere gli altri e l'intero cosmo, nella

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condivisione, oblazione, espiazione, perdono, rischio per gli altri e scelta per la comunione, che sono l'identità distintiva e le grandi chances del cristiano. La grazia presuppone la libertà che libera, sostiene e porta a compimento. Presuppone un soggetto libero chiamato a rispondere di se stesso e a realizzarsi nell'amore. Essa libera la libertà in due modi: a) ridonando all'uomo le capacità indebolite dal peccato (grazia sanante o medicinale); b) elevando le sue possibilità a un livello assai superiore a quello puramente creaturale (grazia elevante). Come ciò avvenga può essere un interessante tema di ricerca e dibattito teologico3.

3. Trascendenza e immanenza della grazia Per trascendenza s'intende il carattere propriamente divino, l'autocomunicazione della Trinità e la

partecipazione alla divinità di Cristo. Per immanenza s'intende la capacità della grazia di perfezione l'uomo in modo intrinseco. La tensione fra i due aspetti costituisce il mistero della grazia o del soprannaturale, che non fa parte della natura creaturale dell'uomo, ma, tuttavia, corrisponde alle attese più profonde e costitutive del suo essere. Dio non ci rende partecipi solo della sua natura, trasformando la nostra, ma ci eleva alla stessa vita delle Persone divine. Le caratteristiche dell'uomo, inteso come autocoscienza, autopossesso e alterità permetterebbero forse di cogliere meglio la trascendenza e l'immanenza della grazia rispetto a questa dimensione umana. Le persone scoprono di essere reciprocamente delle libertà che, nel mutuo rispetto, riconoscono la propria assoluta e inviolabile dignità. La persona umana aspira a godere di un rapporto interpersonale sommo che, però, può realizzarsi solo con le Persone divine. La grazia realizza in modo definitivo e ultimo la tendenza della persona a un rapporto io-tu di amore con Dio. Risultato importante della riflessione sulla grazia dovrebbe essere pure l'attenzione alla presenza salvifica della Trinità nel cuore di ogni persona e di ogni cultura4.

4. Concupiscenza Nel Nuovo Testamento, concupiscenza (epithymia) significa un desiderio vivo e forte, che spinge

l'uomo a peccare e lo conduce alla morte. Per Paolo questa epithymia è proibita da Dio, che le contrappone una epithymia (desiderio vivo e forte) positiva, che viene dallo Spirito, che vive nell'uomo e lo conduce alla vita. Per Giacomo la concupiscenza viene permessa da Dio, come prova, per farci conquistare la pazienza. Per Giovanni essa è l'attrazione del mondo, inteso come il grande avversario che si oppone a Dio. Per Paolo l'uomo, seguendo lo Spirito la può vincere e vivere. Per Giovanni chi, per l'amore al Padre, resiste agli stimoli del mondo, vivrà. La grande battaglia, quindi, è dentro l'uomo, combattuto fra la tendenza al male e la collaborazione agli inviti dello Spirito. Nel 397, S. Agostino usò per questa realtà il termine di "peccato originale" e più tardi S. Tommaso ne indicò le due componenti: la mancanza della giustizia originale, che viene cancellata dal battesimo e il disordine nelle forze dell'anima, che permane pure dopo il battesimo. Il Concilio di Trento inserì la concupiscenza nel decreto sul peccato originale, come sfondo della dottrina sulla giustificazione. Sottolineò che la libertà dell'uomo non scomparve, ma rimase danneggiata e indebolita.

Il battesimo cancella i peccati, ma non la concupiscenza che, però, non può arrecarci alcun danno, se noi non acconsentiamo. Con l'aiuto della grazia possiamo sempre vincerla. Essa, quindi non va confusa col peccato, anche se può condurre ad esso. Nei testi del Concilio Vaticano II il termine concupiscenza ricorre una sola volta5, ma il suo contenuto si trova in alcuni passi6. Ciò che conta è che la persona umana è scissa e divisa in se stessa, perché l'abuso della libertà ne ha oscurato il cuore e la mente. Come inclinazione al male non viene da Dio, ma dall'errato rapporto che l'uomo stabilì con lui. L'uomo, benché rinnovato completamente in Cristo, deve sempre lottare contro il male e con la concupiscenza che ha, in ciascuno, ampie radici. La sua origine risiede nel peccato originale (peccatum originale originans), ma le sue radici affondano pure nei difetti e peccati delle generazioni che ci hanno preceduto, dei nostri antenati e dei vari ambienti (persone, gruppi, strutture, istituzioni ecc.). Infine, essa è pure la conseguenza dei peccati personali di ognuno. Ogni peccato, infatti, oltre alla colpa in sé, comporta pure un danno alla nostra natura e un peggioramento dei nostri difetti.

Tutto questo, però, può essere vinto dalla grazia e dalla collaborazione personale ad essa. Comportando uno sforzo continuo, ci sprona a conoscerci pienamente, a sviluppare la nostra libertà e a chiedere l'aiuto degli altri. Senza tutto questo, ci rimane facile fallire. La potenza vittoriosa della grazia, nei suoi confronti, deriva dalla benevolenza divina che accompagna continuamente il dono

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della grazia, dalla nostra partecipazione alla natura e santità divina, dal legame fra la nostra grazia e quella degli altri (Chiesa, comunione dei santi). La nostra forza contro di essa viene dalle fede e dalla grazia, per cui una lotta puramente razionale o naturale contro di essa non può avere alcun successo.

5. Volontà salvifica universale Nella Scrittura, il tema della volontà divina di salvezza universale appare assai complesso. L'Antico

Testamento mostra, al riguardo, atteggiamenti che oscillano fra il particolarismo e l'universalismo. Il disegno divino s'inserisce nella storia umana, mediante l'elezione e la separazione d'Israele, tuttavia mira sempre alla salvezza di tutta l'umanità. I libri storici (Giudici, I-II Samuele, I-II Re, I-II Cronache) mostrano Israele come depositario di valori grandi ed essenziali: la conoscenza dell'unico vero Dio, il culto autentico, l'alleanza, le promesse e le speranze di salvezza. Per questo patrimonio religioso, spirituale e morale, le nazioni rappresentano un'abituale minaccia politica e un pericolo religioso e culturale. D'altra parte, già da allora, Dio appare pure come il Signore di tutti gli uomini, quindi anche delle nazioni, portatrici di valori umani che non sono altro che i suoi doni. Esse, perciò, non vanno disprezzate, anche se non beneficiano di tutti i doni divini d'Israele. I profeti preannunciano, invece, qualcosa di diverso, che apparirà alla fine dei tempi, riguardo al giudizio e alla salvezza divina (Is 3-21; Ger 46-51; Ez 25-32). La salvezza finale, quindi, non si limiterà solo a Israele, perché la conversione finale delle nazioni dovrà ricostruire l'unità originaria infranta dal peccato. Nell'ultimo giorno, Dio riformerà un unico popolo, che ritroverà l'universale unità delle origini (Zac 14; Dan 7; Is 42; 66). Mentre la Legge ha dato un certo esclusivismo a Israele, la profezia ha ricollegato la salvezza alle grandi prospettive universali, del mistero delle origini.

Pure il giudaismo postesilico è rimasto oscillante tra esclusivismo e proselitismo. Il giudaismo alessandrino tradusse la Bibbia in greco e pure in greco scrisse il libro della Sapienza. Ciò sembra mostrare la consapevolezza d'Israele della sua vocazione di popolo testimone e missionario7. Nel Nuovo Testamento, i vangeli presentano Gesù che, dapprima, cercò di convertire Israele per farne il missionario del Regno, in una prospettiva di totale universalità. Il suo popolo, però, rifiutò lui e il suo disegno. Gesù, allora, versò il suo sangue "per una moltitudine" (Mt 26,28) aprendo l'ingresso del Regno a tutti gli uomini. Dopo la sua risurrezione gloriosa, affidò ai suoi Apostoli la missione universale di annunciare il vangelo a ogni creatura (Mc 16,15), fare discepoli in tutte le nazioni (Mt 28,19), testimoniare fino agli estremi confini della terra (Atti 1.8). Il mistero dell'unità universale si realizza, fin d'ora, nella sua Chiesa, nell'attesa della sua pienezza nei cieli. L'Apocalisse presenta il giudizio sull'umanità peccatrice, che per la sua ostilità a Cristo va alla rovina, e la nuova umanità salvata dal sangue dell'Agnello. Mostra, quindi, un numero immenso di persone, che affluisce da tutte le nazioni, razze, popoli, lingue (7,9-17), per abitare per sempre nella nuova Gerusalemme (21,24). Offre, dunque, una visione di speranza in cui tutto il genere umano, redento, ritrova la sua piena unità.

Queste verità, la Chiesa le ha accuratamente conservate anche se, nelle varie epoche, le ha espresse secondo le diverse esigenze della dottrina. Recentemente, il Concilio Vaticano II le ha specificamente riproposte in alcuni testi più significativi. In Lumen Gentium ne ha trattato tre volte. La prima, nel capitolo I, sul mistero della Chiesa, a proposito della missione e opera del Figlio, sottolineando che tutti gli uomini sono redenti da Cristo, chiamati all'unità fra di loro (1Co 5,7), mediante l'unione con lui, luce del mondo8. La seconda volta ne ha trattato nel capitolo II, dedicato al popolo di Dio, riguardo alla nuova alleanza e al nuovo popolo, strumenti di salvezza per tutta l'umanità9. La terza volta, nello stesso capitolo, ne ha trattato nel paragrafo dedicato all'universalità dell'unico popolo di Dio, citando espressamente "tutte le nazioni della terra" e "tutti i fedeli sparsi per il mondo". Ha poi concluso in questo modo: "Tutti gli uomini sono dunque chiamati a questa cattolica unità del Popolo di Dio, che prima segna e promuove (praesignat et promovet) la pace universale e alla quale in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, dalla grazia di Dio chiamati alla salvezza"10.

La dichiarazione Nostra Aetate, sulle relazioni con le religioni non cristiane, ricorda che Cristo, per il suo grande amore per tutti gli uomini, "si è volontariamente sottomesso alla sua Passione e Morte a causa dei peccati di tutti gli uomini affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza"11. Il decreto Ad Gentes, sull'attività missionaria della Chiesa, ricorda il "piano universale di Dio per la salvezza del genere umano", la volontà di Dio che "tutti gli uomini siano salvi" e che l'opera salvifica di Cristo vale per tutti12. Il decreto Dignitatis Humanae, sulla libertà religiosa, sottolinea la necessità che il Vangelo

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raggiunga sia l'intero universo che ogni uomo13. Il Concilio ha confermato, quindi, che tutti possono ottenere la salvezza e Dio pone a loro disposizione tutti i mezzi necessari (grazia e obbedienza alla propria coscienza). Non si è pronunciato, invece, sul valore delle religioni non cristiane come mezzo salvifico, pur riconoscendo in esse elementi buoni e veri provenienti dalla luce di Cristo. Di questo trattano alcuni recenti documenti della Commissione Teologica Internazionale14 e della Congregazione per la Dottrina della Fede15.

1 G. Manca, La grazia, Cinisello B. 1997, 111, 113-115. 2 Y.M. Congar, Il mistero del tempio, Torino 1963. 3 Manca, La grazia, 181-183; 247; 260-262. 4 Manca, La grazia, 268-269; 274-278. 5 Presbyterorum Ordinis 13. 6 Lumen Gentium 36; Gaudium et Spes, 13. 7 J. Pierron, P. Grelot, "Nazioni", DTBD, 749-754. 8 Lumen Gentium 3. 9 Lumen Gentium 9. 10 Lumen Gentium 13. 11 Nostra Aetate 4. 12 Ad Gentes 3, 7. 13 Dignitatis Humanae 13. 14 Fede e inculturazione (1988); Il cristianesimo e le religioni (1996). 15 Dominus Jesus: Dichiarazione circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (2000.

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14. LA "DICHIARAZIONE CONGIUNTA" SULLA DOTTRINA DELLA GIUSTIFICAZIONE

1. Significato e carattere generale del documento Il 31 ottobre 1999 ad Augsburg, da parte della Federazione Luterana Mondiale e del Pontificio

Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani è stata firmata solennemente la "Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione" (DG), che raccoglie il lavoro preparato dagli specialisti, in trent'anni di dialogo teologico ed ecumenico1. Le si accompagna una "Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa Cattolica" che ribadisce i contenuti del n. 41, che: 1) esiste un consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione; 2) l'insegnamento presentato nella Dichiarazione non sottostà alle reciproche condanne del XVI secolo che, quindi, oggi non si applicano più né a cattolici né a luterani. Rimangono aperte altre questioni che saranno ulteriormente esaminate e sulle quali si ha un consenso differenziato. L'aggiunta dell'Allegato e della Dichiarazione ufficiale comune si deve al fatto che, nel 1997, vi fu un confronto sulle residue obiezioni e si decise di chiarire le questioni controverse in un documento dal titolo "Allegato". La Dichiarazione ufficiale comune sottolinea che tale Allegato "rafforza ulteriormente il consenso raggiunto nella Dichiarazione congiunta". Le conferme e l'approvazione del Documento, dell'Allegato e della Dichiarazione ufficiale comune furono sottoscritte dalla Federazione Luterana Mondiale, dalla Congregazione per la dottrina della fede, dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e ricevettero l'assenso del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II.

Il documento indica che cattolici e luterani possono dare una testimonianza comune di ciò che è per loro il fulcro della fede. Applicando la distinzione ecumenica tra verità della fede e formule con cui vengono espresse2, mostra che le spiegazioni cattolica e luterana della dottrina della giustificazione non si escludono necessariamente a vicenda. La stessa verità può essere espressa nell'ambito di tradizioni differenti, in formulazioni diverse, senza che ciò implichi diversità di fede, poiché possono risultare complementari. Questa è una pietra miliare, anche se non ancora il termine, del cammino. Rimangono alcune questioni che la Dichiarazione non ha ancora chiarito: il simul iustus et peccator, il significato criteriologico della dottrina della giustificazione, lo studio biblico più approfondito delle questioni dogmatiche riguardanti il ministero della successione apostolica nella Chiesa, il ministero petrino, peculiare del Vescovo di Roma, l'unità visibile della Chiesa, gli elementi necessari all'unità della Chiesa e in essa della diversità e libertà, la visione comune dell'ecumenismo, la necessità di tradurre interrogativi e risposte di allora in un linguaggio comprensibile per l'uomo di oggi. L'ecumenismo, dialogo nella carità e nella verità, in 40 anni ha raggiunto convergenze mai ottenute in 450 anni3.

2. Struttura, metodo, contenuti generali Il documento consta di quarantaquattro paragrafi suddivisi in una Premessa e cinque parti che

trattano: 1) Il messaggio biblico della giustificazione; 2) la giustificazione come problema ecumenico; 3) la comune comprensione della giustificazione; 4) la spiegazione della comune comprensione della giustificazione; 5) l'importanza e la portata del consenso raggiunto. Lo accompagnano: 1) le "Fonti per la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, che elenca i documenti elaborati in diversi dialoghi fra luterani e cattolici; 2) la Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa Cattolica con l'impegno a continuare ad approfondire lo studio dei fondamenti biblici e a cercare un'ulteriore comune comprensione della dottrina della giustificazione anche al di là di quanto trattato nella Dichiarazione; 3) l'Allegato con alcune delucidazioni sul documento. Il metodo consiste nell'esporre la fede comune in ciascuna delle verità esaminate e spiegare i diversi approcci e accentuazioni tradizionalmente seguiti dalle due parti. Dei contenuti presentiamo qui, più diffusamente, la Premessa e la Quinta parte, riguardante l'importanza e la portata del consenso raggiunto e sintetizziamo i punti salienti delle altre parti.

La Premessa richiama i principali punti del messaggio biblico sull'azione di Dio, che giustifica l'umanità decaduta e analizza il problema ecumenico della dottrina della giustificazione, per le due Chiese. Per la Riforma luterana del XVI secolo la dottrina della giustificazione ebbe un'importanza fondamentale, essendo considerata l'articolo primo e fondamentale, che governa e giudica tutti gli altri aspetti della dottrina cristiana. Fu sostenuta contro gli accenti diversi della teologia e della Chiesa cattolica romana e divenne il punto centrale di tutte le polemiche, con uno scambio di condanne

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dottrinali valide fino ad ora e causa di separazione delle Chiese (n.1). Per la tradizione luterana la giustificazione ha conservato tale valore (n.2). I documenti del dialogo consentono un bilancio, una sintesi e la possibilità di potersi esprimere in modo vincolante sull'argomento (nn.3-4). La Dichiarazione enuncia una comprensione comune della giustificazione operata dalla grazia di Dio per mezzo della fede in Cristo. Non contiene tutto ciò che ogni Chiesa insegna al riguardo, ma esprime il consenso sulle verità fondamentali, mostrando che elaborazioni diverse non causano più condanne dottrinali (n.5). Non sconfessa il passato delle Chiese, ma mostra i nuovi modi di valutarlo e gli sviluppi che esigono di esaminare da nuove angolature le questioni che dividono e le condanne (n.6).

Nelle altre parti il documento considera le componenti fondamentali della comune comprensione della Giustificazione. Sotto i titoli espressi in linguaggio più tecnico, si trovano i temi più importanti: 1) incapacità e peccato dell'uomo davanti alla giustificazione; 2) giustificazione come perdono dei peccati e azione che rende giusti; 3) giustificazione mediante la fede e la grazia; 4) l'essere peccatore del giustificato; 5) la legge e il Vangelo; 6) la certezza della Salvezza; 7) le buone opere del giustificato. Vi influiscono sempre le tre verità fondamentali sulle quali si è raggiunto il consenso: 1) la giustificazione è un dono libero e gratuito, effuso dalla Trinità, centrato su Cristo incarnato, morto e risorto, col quale lo Spirito Santo ci pone in relazione; 2) noi la riceviamo col dono della fede, per mezzo dello Spirito Santo, attraverso la parola e la vita sacramentale, nella comunità dei credenti; 3) la giustificazione è al centro del messaggio evangelico, in unità organica con tutte le verità della fede, con particolare carattere trinitario e cristocentrico. Passando alle singole parti, possiamo notare che la prima parte riguarda il messaggio biblico della giustificazione nell'Antico e Nuovo Testamento, sottolineando il modo comune di ascolto della Parola, che ha condotto alle nuove valutazioni.

3. Contenuti delle varie parti Si sottolinea, quindi che, nella Scrittura, la buona novella e i temi della giustizia e della

giustificazione sono rappresentati ed espressi in diversi modi, che vengono elencati (nn. 8-12). La seconda parte espone la giustificazione come problema ecumenico. Riconosce che le interpretazioni e applicazioni contraddittorie del XVI secolo furono una causa primaria di divisione e che i recenti studi biblici hanno consentito una significativa convergenza, che consente un consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione (n.13). La terza parte, sulla comune comprensione della giustificazione elenca i comuni fondamenti e presupposti teologici della giustificazione: l'opera di Dio Uno e Trino, l'invio del Figlio, l'Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, l'assoluta gratuità della salvezza e della grazia, la chiamata universale alla salvezza, il dono della fede, l'azione dello Spirito nella comunità, mediante la Parola e i Sacramenti, la nuova vita dovuta alla misericordia divina che fa nuove tutte le cose. La dottrina della giustificazione, quindi, ha una relazione essenziale con tutte le verità della fede connesse tra loro (nn.14-18)4. La quarta parte, che contiene la spiegazione della comune comprensione della giustificazione, presenta una struttura alquanto diversa dalle altre. Nei vari paragrafi, riguardanti le specifiche questioni, dapprima indica quello che "insieme confessano" cattolici e luterani, poi dedica due paragrafi successivi a spiegare che cosa intendono sia i cattolici che i luterani "quando sottolineano che". Si tratta quindi di un chiarimento delle "intenzioni".

Tenuto conto di ciò ci limiteremo a sintetizzare solo la prima parte, ossia gli "Insieme confessiamo". Essi dicono, nell'ordine, che: 1) riguardo all'incapacità e peccato dall'uomo di fronte alla giustificazione (4.1), l'uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio. La giustificazione avviene soltanto per opera della sua grazia, Dio non gli imputa più il peccato e fa agire in lui un amore attivo per opera dello Spirito Santo. Questi aspetti sono connessi (n.19); 2) riguardo alla giustificazione come perdono dei peccati e azione che rende giusti (4.2), Dio perdona per grazia il peccato dell'uomo e, nel contempo, lo libera durante la sua vita dal potere assoggettante del peccato, donandogli la vita nuova in Cristo (n.20); 3) riguardo alla giustificazione mediante le fede e per grazia (4.3), il peccatore viene giustificato mediante la fede nell'azione salvifica di Dio in Cristo e questa salvezza gli viene donata dallo Spirito Santo nel battesimo, fondamento di tutta la sua vita cristiana (n.25); 4) riguardo all'essere peccatore del giustificato (4.4), nel battesimo lo Spirito Santo unisce l'uomo a Cristo, lo giustifica ed effettivamente lo rinnova; l'uomo non può mai fare a meno della grazia incondizionatamente giustificante, non è svincolato dal dominio che esercita su di lui il peccato, non può esimersi dal combattimento contro l'opposizione a Dio che proviene dalla concupiscenza, deve chiedere ogni giorno perdono a Dio, è continuamente chiamato alla conversione e penitenza (n.28); 5) riguardo alla Legge e il Vangelo (4.5), l'uomo viene giustificato nella fede nel

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Vangelo, e i comandamenti di Dio rimangono in vigore, Cristo esprime la volontà di Dio che, per il giustificato, è norma del suo agire (n.31); riguardo alla certezza della salvezza (4.6), i credenti possono fare affidamento sulla misericordia, le promesse efficaci di Dio, la sua grazia nella Parola e nel sacramento ed essere certi di questa grazia (n. 34); 6) riguardo alle buone opere del giustificato (4.7), le buone opere e la vita cristiana nella fede e nell'amore, sono le conseguenze e il frutto della giustificazione e il dovere da assolvere dal cristiano (n.37).

La quinta parte spiega l'importanza del consenso raggiunto. Essa sottolinea che la dottrina esposta nella Dichiarazione mostra l'esistenza di un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali della dottrina della giustificazione, che rende accettabili le differenze di linguaggio, degli sviluppi teologici e delle accentuazioni particolari (n.40). Si pone, quindi, in continuità con l'essenziale comprensione della giustificazione formulata nel XVI secolo, al di là degli influssi politici, sociali, intellettuali, filosofici e teologici, che condizionavano entrambe le parti e portarono a eccessive reazioni teologiche ed esagerata diffidenza. Inoltre le sue espressioni non cadono sotto le precedenti reciproche condanne (n.41), che non erano infondate, ma avevano la serietà e il "significato di salutari avvertimenti" di cui tenere conto (n.42). Il consenso raggiunto deve avere effetti e riscontri nella vita e insegnamento delle Chiese. Infatti, la giustificazione ha avuto pure un peso nella disputa verificatasi nella cristianità d'Occidente con le altre Comunioni originate dalla Riforma (Anglicani, e Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate). Si ricordano pure le questioni che richiedono ancora una chiarificazione, per le quali l'accordo raggiunto offre una solida base: relazione fra Parola di Dio e insegnamento della Chiesa, ecclesiologia, autorità e unità della Chiesa, ministero dei sacramenti, relazione fra giustificazione ed etica sociale (n.43). Il passo compiuto è decisivo per il superamento della divisione e consente, con l'opera dello Spirito Santo, un avanzamento verso l'unità visibile (n.44).

4. Contenuti dell'Allegato e implicazioni pastorali L'Allegato consta di quattro paragrafi. Il primo ribadisce la cessata applicazione delle passate

condanne. Il secondo si suddivide in cinque sottoparagrafi, distinti con le lettere da A ad E. Non aggiunge contenuti particolari, ma ribadisce e sottolinea il significato di alcune espressioni contenute nei vari paragrafi della DG. Riporta interi brani, dai nn. 15, 16, 22, 25, 27, 28, 29, 30, 38, 39, senza seguire, però, il loro ordine numerico. Dopo aver ripetuto tale e quale DG 15, A) ribadisce DG 22, con brani di DG 28, 29, 30 per dire che la giustificazione è insieme perdono dei peccati e vero conferimento della filiazione divina, che però non elimina nell'uomo la possibilità di peccare. Il sottoparagrafo B), che cita DG 30 e 28, tratta della differenza di significato, per luterani e cattolici, della concupiscenza. Per i primi è "desiderio egoistico dell'essere umano che, alla luce della Legge spiritualmente intesa, è considerato peccato". Per i cattolici è "una inclinazione che permane negli esseri umani perfino dopo il battesimo, che proviene dal peccato e spinge al peccato". I luterani possono riconoscere che il "desiderio può diventare il varco attraverso il quale il peccato assale". Il sottoparagrafo C) ribadisce DG 15-16 che la giustificazione avviene solo per mezzo della grazia, DG 25 che la persona è giustificata indipendentemente dalle opere e che l'opera della grazia non esclude l'azione umana.

Il sottoparagrafo D) ribadisce DG 25 e 27, che la grazia proviene sempre dall'opera salvifica e creatrice di Dio e DG 38 e 39 riguardo alla preservazione della grazia. Il sottoparagrafo E) ribadisce che per mezzo della giustificazione siamo incondizionatamente condotti alla comunione con Dio, che comprende la promessa della vita eterna e che i giustificati saranno giudicati anche in base alle loro opere. Il terzo paragrafo ribadisce DG 18, che la dottrina della giustificazione è criterio irrinunciabile che orienta a Cristo tutta la dottrina e prassi della Chiesa. Il quarto paragrafo sottolinea che la risposta della Chiesa cattolica non intende mettere in dubbio l'autorità dei Sinodi luterani o della Federazione Luterana Mondiale che hanno iniziato e portano avanti un dialogo come interlocutori con uguali diritti e che rispettano i reciproci processi volti a raggiungere decisioni dottrinali.

Riguardo alle implicazioni pastorali del Documento se ne sottolineano tre. La prima è che il superamento in termini così positivi di uno dei maggiori ostacoli, consente un generale atteggiamento di maggiore comprensione e apprezzamento reciproco. La seconda è che i risultati conseguiti potrebbero spronare a un accresciuto impegno sul cammino dell'unità visibile. La terza è che i risultati conseguiti sono soprattutto opera della grazia dello Spirito Santo, per cui invita a testimoniare, sempre più uniti, i grandi valori comuni della fede in Cristo e dell'opera delle Persone divine per la salvezza

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umana, davanti ai falsi valori del materialismo e della secolarizzazione e ai ripiegamenti e disperazione di quanti ne sono preda.

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20.1.2000, 6. 4 Ciò rivaluta l'analogia fidei, particolarmente importante nella dottrina cattolica che il Catechismo della

Chiesa Cattolica, così espone: "per 'analogia della fede' intendiamo la coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della Rivelazione" (n. 114).

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SM Sacramentum Mundi, 5 vv., Brescia 1975