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165 P. Józef Urban (Prof. Facoltà di Teologia della Diocesi di Opole) DIALOGO INTERRELIGIOSO E MISSIONE “AD GENTES” Nei documenti postconciliari riguardanti il dialogo interreligioso si incontrano testi che definiscono il dialogo come un valore in se stesso senza riferimento alla missione. Ciò è già evidente nell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI del 6 agosto 1964 ed anche nei documenti pubblicati durante il Concilio stesso. Il promotore di atteggiamenti della Chiesa più aperti nei confronti delle religioni non cristiane circa tre mesi prima nella solennità di Pentecoste (17 maggio 1964) portò alla creazione del Segretariato per le Religione non cristiane. È sorta così una istituzione indipendente dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, incaricata fin dall’inizio dell’attività missionaria della Chiesa. Il Segretariato istituito da Paolo VI ottenne dall’Enciclica Ecclesiam suam una ulteriore ragione della sua esistenza. La terza parte dell’enciclica, totalmente dedicata al dialogo, nel quale il papa esorta la Chiesa a intrecciare il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà e cita tre categorie di persone come interlocutori di dialogo. Sono: l’uomo in genere, i credenti in Dio, i Fratelli separati dalla Chiesa Cattolica. Il fatto che sono messi al secondo posto gli Ebrei, i mussulmani e gli aderenti alle altre grandi religioni dell’Africa e dell’Asia come interlocutori del dialogo ci dà la chiara sensazione che possiamo accogliere la tesi che già prima della fine del Concilio il papa con la sua personale autorità riconosce il dialogo come mandato per la Chiesa di oggi. Dopo tale constatazione, cioè della separazione della non dipendenza del dialogo dalla missione di evangelizzazione, si pronunziarono in questo stesso senso anche i documenti conciliari Nostra aetate e Gaudium et spes.

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P. Józef Urban (Prof. Facoltà di Teologia

della Diocesi di Opole)

DIALOGO INTERRELIGIOSO E MISSIONE “AD GENTES”

Nei documenti postconciliari riguardanti il dialogo interreligioso si incontrano testi che definiscono il dialogo come un valore in se stesso senza riferimento alla missione. Ciò è già evidente nell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI del 6 agosto 1964 ed anche nei documenti pubblicati durante il Concilio stesso. Il promotore di atteggiamenti della Chiesa più aperti nei confronti delle religioni non cristiane circa tre mesi prima nella solennità di Pentecoste (17 maggio 1964) portò alla creazione del Segretariato per le Religione non cristiane. È sorta così una istituzione indipendente dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, incaricata fin dall’inizio dell’attività missionaria della Chiesa. Il Segretariato istituito da Paolo VI ottenne dall’Enciclica Ecclesiam suam una ulteriore ragione della sua esistenza. La terza parte dell’enciclica, totalmente dedicata al dialogo, nel quale il papa esorta la Chiesa a intrecciare il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà e cita tre categorie di persone come interlocutori di dialogo. Sono: l’uomo in genere, i credenti in Dio, i Fratelli separati dalla Chiesa Cattolica.

Il fatto che sono messi al secondo posto gli Ebrei, i mussulmani e gli aderenti alle altre grandi religioni dell’Africa e dell’Asia come interlocutori del dialogo ci dà la chiara sensazione che possiamo accogliere la tesi che già prima della fine del Concilio il papa con la sua personale autorità riconosce il dialogo come mandato per la Chiesa di oggi. Dopo tale constatazione, cioè della separazione della non dipendenza del dialogo dalla missione di evangelizzazione, si pronunziarono in questo stesso senso anche i documenti conciliari Nostra aetate e Gaudium et spes.

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1. Dialogo per scoprire la presenza di Dio

Di questo dialogo scrisse J. Masson nel commento alla dottrina del Concilio choamondolo dialogo in senso nuovo, in quanto non è un dialogo che ha immediatamente l’intenzione di convertire. L’autore ci richiama a distinguere questo dialogo dal dialogo che ha come scopo del suo esistere l’attività puramente missionaria, che ha in se stessa chiara l’intenzione di portare alla fede e al battesimo.

P. Rossano primo segretario del Segretariato per i Noncristiani scrisse nel 1968 che insieme al dialogo come mezzo e base spirituale che deve vivificare l’opera missionaria, esiste anche il dialogo con i non cristiani; che anche se non è missione, che si distingua dalla evangelizzazione, è aperto alla dimensione di Dio, affinché l’umanità viva nella reciproca comprensione, nell’intesa fraterna e nell’unità. Il su ricordato P. Rossano, come unico autore dei primi documenti riguardanti il dialogo, si era già posto la domanda: “È possibile il dialogo senza missione, se non ci sono missioni senza dialogo?” La convinzione di questa possibilità l’autore la dedusse dalla lettura dell’enciclica Ecclesiam suam e i dai documenti conciliari, soprattutto Nostra aetate. Lo scopo del dialogo tra le religioni non cristiane chiaramente definito da questi documenti, quale è la reciproca comprensione, la conoscenza e l’ascolto continuo e crescente in ciò che una religione ha da dire all’altra, fa sì che il dialogo tra le religioni si può considerare indipendente dalla missione. Ciò non è contrario alla convinzione che ciò può nutrire il partner cristiano del dialogo, al punto che un dialogo così concepito serve ai disegni divini e ai piani della sua grazia a noi ignoti e prepara la strada alla missione evangelica. Aggiungiamo subito che nella prima fase del dialogo, come si è creduto immediatamente nel dopo concilio, esso non deve essere portato avanti con i sitemi filosofico-religiosi ma con gente concreta. “Le persone, cioè i figli di Dio si incontrano tra di loro e non le religioni in quanto tali.” Scrisse il primo Presidente del Segretariato per i non cristiani, il Cardinale P. Marella. Per questo motivo, cioè per sottolineare il carattere vivo, personale e concreto del dialogo, facciamo osservare a questo punto che si preferì la dizione “Segretariato per i non cristiani” anziché “Segretariato per le religioni non cristiane”.

2. Attenzione all’altro

Sul dialogo, come valore in se stesso, leggiamo parimenti nel documento del 1967 cioè Suggerimenti. Collegandosi con il Concilio Vaticano II gli

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autori spingono affinché i cristiani nei confronti dei credenti di altre religioni non si accontentassero unicamente di rendere nota la dottrina (il kerigma) e di dare testimonianza (martyrion), ma allacciassero un dialogo reale sul piano umano e “collaborassero (…) nell’annodare un dialogo strettamente religioso”. Appunto questo dialogo strettamente religioso, che non è missione costitutiva, ma è volto alla reciproca comprensione, conduce ad uno scambio più ricco e complesso di auto ed etero interpretazione, nel quale si incontrano:

sguardo dell’altro dal punto di vista della sua religione, sguardo a se stesso, sguardo all’altro dal proprio punto di vista, sguardo della valutazione che l’altro ha della nostra religione, sguardo al contesto storico del dialogo interreligioso, sguardo della valutazione della religione “nel mondo” che a sua

volta deve essere intravista nella sua universalità e diversità, sguardo alle attese “del mondo”, sguardo alle possibilità comuni e della propria religione nei confronti

“del mondo”, sguardo ai compiti, che in base alla dinamica interna di ogni

religione, sorgono riguardo “al mondo”. Ritornando a Paolo VI, che J. Dupuis chiama “l’avvocato del dialogo”,

bisogna accostarsi al suo modo di intendere il dialogo confrontando un altro documento, cioè l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi dell’8 dicembre 1975, che rappresenta il risultato del Sinodo dei Vescovi sul tema dell’Evangelizzazione. La concezione del papa nei confronti delle altre religioni, per quel che riguarda il dialogo sembra, sotto un certo punto di vista, incoerente. Da una parte il papa va oltre il linguaggio conciliare abbastanza prudente, sottolineando fortemente la presenza di verità e di bene nelle religioni non cristiane, che queste religioni furono per moltissime generazioni scuola di preghiera. Da un altro punto di vista, cioè circa la questione della stessa comprensione del dialogo interreligioso sembra che il papa si allontani dalla concezione presentata dalle Sugestie, e quindi dal documento del Segretariato. Infatti il dialogo è per lui qualcosa “accanto” all’evangelizzazione, ma non è questo il dialogo nel quale si arriva alla suddetta più ricca auto ed etero interpretazione. Una coraggiosa lettura dell’Ecclesiam suam porta, infatti, alla conclusione che per Paolo VI il dialogo deve essere lo strumento principale per distruggere i pregiudizi e la mancanza di comprensione tra i gruppi di persone, deve essere il mezzo che serve per raggiungere buoni traguardi, come la libertà religiosa, la cultura e l’ordine pubblico, ed anche altri beni sociali. È dunque difficile parlare qui di dialogo tra le religioni nel significato stretto della parola, si tratta piuttosto

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del dialogo tra le culture, e precisamente dell’evangelizzazione delle culture. L’evangelizzazione delle culture, come scrisse tra gli altri J. Amstutz, era, in quel tempo, la nuova strada dell’aggiornamento della Chiesa, la nuova prospettiva nel dialogo con le religioni non cristiane. Si può affermare che Paolo VI è arrivato al dialogo tra le persone religiose, ma non ha intravisto il posto per il dialogo tra le religioni. È questo forse un indizio della interpretazione minimalista dei testi conciliari. Questa valutazione deriva soprattutto da come si percepiscono le tradizioni religiose in quanto tali. Purtroppo queste religioni erano solamente eco della voce di coloro che in sincerità cercavano Dio e nonostante fossero espressioni di eccellenti religioni naturali, non erano in grado di stabilire un vero contatto con Dio, “anche se tendevano le braccia verso Dio”. Questa valutazione negativa delle religioni non cristiane nell’Evangelii nuntiandi, che non da la possibilità pratica di stabilire con loro un dialogo strettamente religioso, risulta forse dalla specifica situazione postconciliare, quando appariva un folto gruppo di teologi cattolici, che richiamandosi tra l’altro all’insegnamento del vaticano II, desideravano che le religioni si riconoscessero tutte valide. È probabile che Paolo VI temesse che questa logica interiore portasse ad una relativizzazione del carattere assoluto del cristianesimo.

3. Non strategia, ma valore in sé

Tra molti teologi, soprattutto tra quelli collegati con il Segretariato per i

non cristiani, sempre più si definiva il senso del dialogo, come valore in se stesso, e questo era dovuto alla visione positiva delle religioni non cristiane. La derivante richiesta di una sempre migliore conoscenza e comprensione del loro bagaglio spirituale portò a non accettare il dialogo come sottile forma di strategia missionaria. “Ci inseriamo nel dialogo – scriveva L. Spider – per imparare qualcosa, per poter cambiare e non per imporre il cambio agli altri”. Il dialogo, come anche l’amore, non ha davanti a sé un fine precostituito, e perciò non può essere un mezzo immediato di missioinarietà e non può essere una missionarietà “criptata”. Il dialogo accetta l’altro, la sua diversità, lo lascia libero e gli offre amore e fraternità. In questo senso il dialogo è una parte della missione della Chiesa compresa in senso generale, perchè serve l’unità del genere umano e in noi si presenta come una manifestazione dell’amore di Dio, per questo “(…) mai siamo cristiani per noi ma per gli altri”.

Il successore di Paolo VI, papa Giovanni Paolo II, a ragione merita il titolo del papa del dialogo. La fonte della sua ispirazione al dialogo era la

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dottrina del suo predecessore, come anche l’attività del Segretariato per i non cristiani. Ed appunto papa Giovanni Paolo II cambiò la denominazione del Segretariato in Pontificio Consiglio per gli Affari del Dialogo tra le Religioni (Pontificium Consilium pro Dialogo Inter Religiones). Questo avvenne il 1° marzo 1988, quando il papa promulgò la Costituzione Apostolica sulla Curia Romana Pastor Bonus. Il cambio di denominazione in occasione della riforma non è una questione puramente formale, ma manifesta l’evoluzione della concezione della Chiesa nei confronti delle altre religioni. L’aspetto negativo dominante (pro non Christianis) della precedente denominazione è stato sostituito dall’aspetto positivo (pro Dialogo inter Religiones). Già in precedenza, nella sua prima enciclica, Giovanni Paolo II si è manifestato come un papa aperto al dialogo tra le religioni, che non assumeva una costitutiva attività missionaria. Il motivo per il cristiano per accogliere detto dialogo può essere la seguente originale riflessione: “(…) non è forse vero che non raramente le forti convinzioni in fatto di fede dei credenti nelle religioni non cristiane – che sono parimenti frutto dello Spirito di Verità che sconfina nel suo operare oltre l’ambito visibile del Corpo Mistico di Cristo – hanno messo in confusione i cristiani (…)?” Perciò il papa esorta a tutte quelle attività che hanno lo scopo di avvicinamento dei rappresentanti delle altre religioni, come “(…) il dialogo, gli incontri, la preghiera comune, la scoperta di quei tesori della umana spiritualità, che (…) non mancano ai credenti di queste religioni”. La suddetta riflessione del n. 6 della Redemptor hominis è una originale esortazione alla Chiesa affinché approfondisca la propria identità, perché i cristiani siano molto più zelanti nella loro fede, guardando i tesori di spiritualità presenti nelle altre religioni, la forza di convinzione dei loro aderenti. Non è escluso che già fin d’allora (1979) il papa pensasse all’incontro di preghiera ad Assisi (1986) che fu la concretizzazione visibile della sua visione del dialogo tra le religioni.

4. La visione di Giovanni Paolo II

La visione del dialogo interreligioso di Giovanni Paolo II ha avuto senza dubbio un influsso sul contenuto del documento del Segretariato per i non cristiani pubblicato il giorno di Pentecoste del 1984, in occasione del ventesimo anniversario della costituzione del Segretariato. Si tratta precisamente della Concezione della Chiesa nei confronti dei credenti nelle altre religioni. Riflessioni e orientamenti sul tema del dialogo e della missionarietà. Il papa, parlando alla conclusione della Congregazione Plenaria del Segretariato il 3 marzo, cioè due mesi prima della pubblicazione

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del documento, ha detto tra l’altro che “(…) il dialogo ha per la Chiesa un significato fondamentale, (…) si fonda nella vita interna della Trinità”. Ma poiché il documento doveva toccare il tema del dialogo e della missionarietà, il papa chiarì: “Il dialogo appartiene al compito salvifico della Chiesa e per questo motivo è un dialogo salvante”, aggiungendo nello stesso tempo, che “(…) il dialogo autentico diventa una testimonianza e la verace evangelizzazione si realizza nel rispetto e nell’ascolto dell’altro”. Le citazioni del papa qui inserite attestano di un allargamento di vista nella comprensione del dialogo e similmente si riscontra nel documento di cui parlerò tra poco.

Nella “Concezione” abbiamo parimenti la definizione del dialogo che non ha una valenza missionaria di evangelizzazione. Gli autori, richiamandosi a Ecclesiam suam e al Concilio Vaticano, scrivono che il concetto “indica (…) non soltanto il parlare, ma anche il complesso dei rapporti positivi e costruttivi tra le religioni con le persone e con le comunità di altre fedi, che hanno come scopo la reciproca conoscenza e l’arricchimento da tutte e due le parti”. Nell’ambito del discorso di realtà complesse e definite dei legami, come è la missione, il documento, al quarto punto, dice che una delle manifestazioni è “(…) il dialogo, nel quale i cristiani si incontrano con i credenti delle altre tradizioni religiose, per giungere insieme a loro alla verità e collaborare per il bene comune”. Nonostante che il dialogo sia stato inserito nell’attività generale della Chiesa, possiamo forse intravedere in questo documento il dialogo posto accanto all’impegno dell’evangelizzazione. A questa conclusione, che appare non contrastante, ci induce la lettura soprattutto dei numeri 20-35, dove è presentata un’analisi vicinissima dello stesso dialogo e delle sue forme. Le funzioni proprie del dialogo, in questa parte del documento, manifestano il suo valore in quanto tale, per esempio quando leggiamo che “(…) permette ai dialoganti di conoscere e apprezzare i valori spirituali reciproci e le categorie culturali” e “(…) condividere l’esperienze di preghiera, di contemplazione della fede e della partecipazione (…)”, questo “conduce ad un reciproco arricchimento e fruttuosa collaborazione nel sostenere e difendere quei valori e ideali spirituali, che sono nell’uomo i più importanti”.

5. L’attenzione degli ultimi documenti

Dobbiamo anche riflettere per vedere se nei due ultimi nuovi documenti,

cioè l’enciclica Redemptoris missio e Dialogo e profezia, possiamo incontrare la tesi che il dialogo è un valore in se stesso. Sembra che questi

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due documenti continuino la dottrina che è contenuta in “Concezione”. In Redemptoris missio incontriamo queste frasi: “Il dialogo interreligioso appartiene alla missione evangelizzatrice della Chiesa (…) è con essa in modo speciale collegato e ne costituisce una tipica manifestazione”, e “Il dialogo non sorge per tattica o per tornaconto, ma è una attività che possiede una sua giustificazione, esigenze e dignità: sgorga dal profondo rispetto per tutto ciò che in ogni uomo produce lo Spirito”.

Secondo il parere di H. Wladenfels, in un simile modo di concepire il dialogo, si nota una certa incongruenza, che deriva dal fatto che questo concetto il papa lo ha motivato meno da un punto di vista antropologico, come anche teologico-ecclesiologico, ma soprattutto pragmatico, avendo sotto attenzione la nuova situazione nella comunicazione fra gli uomini. Le parole determinanti per noi appartengono proprio al papa, che chiarisce la relazione tra il dialogo e la profezia nel modo seguente: “È necessario tuttavia che questi due elementi conservino la loro reciproca e stretta relazione e nello stesso tempo la loro indipendenza perciò non è lecito mescolarli o manipolarli, o considerarli alla pari, come se fossero interscambiabili”. L’espressione che il dialogo “non si deve manipolare” significa, nel linguaggio del papa, che non si deve ridurre al solo mezzo per annunciare il Signore Gesù. Il dialogo di cui parla il papa come “(…) metodo e mezzo per la reciproca conoscenza e arricchimento (…)”, differenzia e distingue il dialogo dalla missione. Infine quando si parla del fine e dei frutti del dialogo notiamo che Giovanni Paolo II si schiera a favore del dialogo interreligioso in quanto tale. La Chiesa, infatti, per mezzo del dialogo, intende scoprire “i semi della Parola” e “i riflessi di quella Verità, che illuminò tutte le genti”. Le altre religioni sollecitano la Chiesa “(…) parimenti a scoprire e riconoscere le impronte della presenza di Cristo e dell’opera dello Spirito, come anche all’approfondimento della propria identità e a dare testimonianza della intregalità della Rivelazione, che è una sentinella per il bene di tutti”. Praticamente si tratta non della conversione degli altri al cristianesimo, ma della conversione dei partners del dialogo a Dio. Non dimentica, naturalmente, il papa, che “(…) il dialogo non dispensa dalla evangelizzazione”.

Il più recente dei documenti, Dialogo e profezia, si collega parimenti a “Concezione” del 1984, in cui l’indizio è la stessa definizione del dialogo. Gli autori citano letteralmente la definizione presa da “Concezione”che il dialogo indica “(…) il complesso dei rapporti positivi e costruttivi interreligiosi con le persone e le comunità delle altre religioni che hanno come scopo la reciproca conoscenza e l’arricchimento da tutte e due le parti”. Nonostante gli autori aggiungano subito che il dialogo è uno “ (…) dei componenti indivisibili della missione di evangelizzazione della Chiesa”,

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si dichiarano a favore anche del dialogo come valore in se stesso. Evidentemente questo è almeno come dichiarazione nel tema del dialogo: esso infatti pone la sua attenzione “(…) a una più profonda attenzione di tutti a Dio”, mentre nell’annuncio si invitano gli altri perchè diventino discepoli di Gesù Cristo nella comunità della Chiesa. Un’altra manifestazione del dialogo in se stesso è anche la motivazione che non si tratta solo della reciproca comprensione e dello stabilire rapporti amichevoli, ma anche dello scambio e della comunicazione che consistono (…) nella comune esperienza, di ciò in cui ciascuno crede, e nel rispetto delle comuni convinzioni religiose”. Le “relazioni positive e costruttive” ricordate nel numero 9, che hanno come scopo “la conoscenza reciproca e l’arricchimento di tutte e due le parti”, hanno un senso particolare soprattutto là dove la profezia attualmente è praticamente impossibile. Simili situazioni sorgono non solo rispetto all’islamismo che è sempre più integralista e sospettoso, anche fuori dei paesi nei quali domina ma anche riguardo all’induismo, che rappresenta una grande forza, religiosa, culturale e tradizionale che influisce su oltre seicento milioni di persone, ed ancora riguardo al buddismo, soprattutto giapponese, che con efficacia blocca il diffondersi del cristianesimo monoteista. Appunto in queste situazioni soprattutto la parola “dialogo” acquista senso come valore in se stesso. Tale dialogo è fondamentale per la Chiesa, “che è chiamata alla collaborazione secondo il piano di Dio per mezzo della presenza, del rispetto e dell’amore per tutti”. Anzi “la Chiesa invita e sollecita il dialogo interreligioso con diverse tradizioni ma parimenti tra le tradizioni religiose (…)”.

6. Legame tra dialogo e missione

La comprensione del dialogo interreligioso come valore in se stesso ha la sua sorgente nell’enciclica Ecclesiam suam e nel Concilio Vaticano II. Il primo Presidente del Segretariato per i Non Cristiani, nel 1969 scrisse semplicemente: “La Chiesa desidera in modo indivisibile congiungere il dialogo e la missione per adempire al mandato dell’evangelizzazione e della missione, vuole accogliere lo spirito e lo stile del dialogo (…). Questi legami della missione con il dialogo li ritroviamo soprattutto nel decreto Ad gentes e Nostra aetate. Il Decreto missionario consacrato soprattutto alla evangelizzazione e alla missione, accentua la necessità del dialogo, mentre la Dichiarazione sulle religioni non cristiane trattando del dialogo sottolinea la necessità e la sollecitudine della missione. Ultimamente per molti missionologi del concilio e del dopo concilio è chiaro che il dialogo ha

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smesso di essere un’alternativa selettiva metodologica della missione ma è diventato la parte fondamentale e basilare. Non si deve identificare naturalmente il dialogo con la missione, ma secondo l’insegnamento di Paolo VI nell’Ecclesiam suam, deve rappresentare una tappa iniziale dell’attività missionaria. Il dialogo vero è collegato con l’attività missionaria, ha scritto W. Kasper, commentando l’insegnamento del Concilio, infatti “(…) il cristiano ha il desiderio di condividere con l’altro ciò che per lui è la cosa più preziosa – l’amore divino in Gesù Cristo (…) abbiamo ottenuto la fede non come possesso personale, ma come dono che dobbiamo condividere”.

Prima di passare all’esame dei documenti postconciliari, è il caso di accennare che l’Ecclesiam suam di Paolo VI in alcuni punti considera il dialogo come un elemento della missione evangelizzatrice della Chiesa. Il papa aveva capito che perché l’annunzio del Vangelo fosse fruttuoso, doveva seguire il metodo del dialogo. Grazie a questa enciclica, il tema del dialogo è affluito nella teologia e nella Chiesa, oltrepassando, a giudizio di P. Neuner, ciò che il papa immaginava. In quei tempi non si aveva il concetto del dialogo in senso classico, cioè che nel dialogo bisogna anche ascoltare. A volte la Chiesa incominciò a presentarsi come ascoltatrice e referente. Sul carattere missionario e salvifico del dialogo nell’Ecclesiam suam testimoniano le parole: “Il dialogo (…) bisogna considerarlo come un certo modo di adempiere il mandato apostolico (…)”, e la convinzione che nel dialogo si possono scorgere diverse strade, si può accettare alla luce della fede. In questa enciclica abbiamo anche la risposta alla domanda: perché dobbiamo portare avanti questo dialogo sebbene salvifico? Quale ne è la sorgente? Per Paolo VI è chiaro che essa è il dialogo di Dio con l’uomo. Infatti “Dio per primo iniziò il dialogo salvifico, Lui e Lui solo (1 Gv 4,10)”.

Sul dialogo come componente della missione parla chiaramente il Sinodo del 1974 nell’argomento della evangelizzazione del mondo contemporaneo. Come si sa, non ci fu un documento finale di questo sinodo, tuttavia nello schema preparatorio si leggono parole interessanti per noi: “Il dialogo interreligioso non può essere inteso come un elemento esterno rispetto alla missione evangelizzatrice della Chiesa (…). Esso è già una manifestazione concreta della missione della Chiesa. Particolare riassunto del Sinodo, mancando il documento finale fu l’esortazione Evangelii nuntiandi del 1975. Per la questione che ci interessa, solo nel numero 63 parla delle religioni non cristiane, però lì non si trova la parola “dialogo”. Come è possibile – si domandarono alcuni teologi – che il “papa del dialogo” abbia taciuto su un tema che era stato accolto positivamente nell’assemblea sinodale? Il problema si può chiarire vedendo che c’è una valutazione teologica molto negativa delle religioni non cristiane come lo costatiamo nel citato numero

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53. Queste religioni sono solo una ricerca e un approdo dell’uomo a Dio. Anche quando si tratta di “religioni naturali (…) ed eminentissime”, non sono in grado di condurre a “relazioni vere e vive” con Dio, sebbene “tendono le braccia verso di Lui”. Di fronte a questa valutazione teologica negativa delle religioni non cristiane, non stupisce la mancanza della parola “dialogo”, rimane solo di evangelizzare i non cristiani. Solo la religione di Gesù Cristo è in grado di unire l’uomo con Dio mentre le religioni non cristiane operano unicamente nell’area naturale e soggettiva.

7. Lo sviluppo del dialogo come attenzione missionaria

Durante il pontificato di Giovanni Paolo II ci troviamo di fronte, senza dubbio ad uno sviluppo del concetto di dialogo, anche sotto l’aspetto di missione evangelizzatrice. Con questa comprensione del dialogo ci incontriamo chiaramente nel documento del Segretariato per i non Cristiani “Concezione della Chiesa verso gli aderenti alle altre religioni” del 10 giugno 1984. Vi si legge che la missione ”è un compito unico nel suo genere; si adempie questo compito in molti modi, secondo le situazioni con le quali è collegato”; “tale monolitica e piena realtà di rapporti” contiene cinque “elementi principali”. Fra di essi c’è il dialogo, “nel quale i cristiani si incontrano con i credenti di altre tradizioni religiose perché si possa insieme raggiungere la verità e collaborare al bene comune”. Il documento con queste affermazioni sembra chiudere la discussione intorno al problema che durava dal 1964, cioè dalla pubblicazione dell’enciclica Ecclesiam suam: il dialogo è una componente della missione o si differenzia da essa? Il Segretariato accettò la prima posizione, ciò non significa che il dialogo era un mezzo ordinario di azione a servizio della missione evangelizzatrice; in questo senso sarebbe un ridurlo a strumento per annunziare Gesù Cristo, mentre è una attività preparatoria che precede le altre il cui scopo finale è la conversione al cristianesimo. La Chiesa infatti può adempiere la sua missione in molti modi, il dialogo è uno di essi, accanto alla presenza, alla testimonianza al servizio dell’altro, alla vita liturgica e all’annunzio e alla catechesi. Ognuna di queste attività appena enunciate ha nella missione della Chiesa un suo proprio posto e un suo proprio significato. L’annuncio cherigmatico del Vangelo raggiunge in essa il suo punto culminante e la sua pienezza; tuttavia ognuna delle sopra elencate attività e anche lo stesso annunzio cherigmatico devono avere le caratteristiche dell’atteggiamento al dialogo. Con H. Wandenfels possiamo ripetere che: “(…) le missioni, senza il fondamentale atteggiamento al dialogo, non rispondono alla

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autoconsapevolezza cristiana”. In tale senso possiamo affermare che missione e dialogo si congiungono e si incrociano a vicenda, anche se non sono identici. Il dialogo, infatti, è contemporaneamente una delle forme di attività missionaria, ma nello stesso tempo una nota di comportamento della Chiesa, il cui mandato “(…) abbraccia anche il lavoro della diffusione della Chiesa e i suoi valori fra tutti gli uomini”. In questa attività “nessuno può deviare dalla strada dell’amore e del rispetto verso gli altri”. Perciò “il dialogo occupa nell’attività missionaria un suo proprio posto”.

Analogamente, in un certo senso, la comprensione del dialogo come elemento costitutivo della missione evangelizzatrice, la troviamo nei due più nuovi documenti e precisamente in Redemptoris missio e Dialogo e profezia. Questi documenti si possono esaminare non solo perchè sono usciti lo stesso anno (1991), ma soprattutto perchè Dialogo e profezia “(…) spiega nei particolari l’insegnamento dell’enciclica circa il dialogo e le sue relazioni con la profezia. Dovrebbe perciò essere citato alla luce di questa enciclica”. In un frammento dell’enciclica riguardante il dialogo interreligioso (numeri 55-57), concordato probabilmente tra il papa e gli autori di Dialogo e profezia, leggiamo: “Il dialogo è parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. (…) Non si oppone alla missione ad gentes, anzi al contrario è in modo speciale collegato con essa e ne costituisce una sua manifestazione”. Nonostante la somiglianza con “Concezione” del 1984, notiamo qui chiare diversità. In “Concezione” l’annuncio del Vangelo era all’ultimo posto, come punto culminante della evangelizzazione, qui è al primo posto come “permanente priorità”; lì dialogo e liberazione erano integrati in un processo di missione. Ciò non significa che si tratta di una cosa non essenziale, infatti quel “in modo particolare collegato con la missione il dialogo è anche una delle strade per il Regno” e delle volte può essere “l’unico modo di dare sincera testimonianza di Cristo”. Queste affermazioni dimostrano una concezione larga della evangelizzazione, nella quale il dialogo e l’annunzio costituiscono “due elementi” o due realtà separate, tra le quali non c’è tuttavia opposizione, ma sorge contemporaneamente sia un legame stretto sia una indipendenza, e quindi non si deve mescolarli, né manipolarli o considerarli alla pari come se fossero tra loro interscambiabili”. Queste parole, come quelle del numero (55) in cui il papa cita la sua lettera ai vescovi asiatici, dove si sottolinea l’obbligo dell’annunzio del Vangelo da parte della Chiesa, alcuni teologi le recepirono come una particolare “frenata” del dialogo interreligioso da parte del Magisterium Ecclesiae. Il papa ci ricorda solo la tradizionale dottrina della Chiesa, cioè il fatto che le altre religioni possono essere per i credenti via a Dio (in questo si basa la convinzione del dialogo con i non cristiani), non diminuisce la necessità della Chiesa, della evangelizzazione. La Chiesa, soprattutto nella

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Redemptoris missio e in Dialogo e profezia, si chiarisce come quella che accoglie la qualità dialogante – con grande rispetto per i non cristiani, scoprendo nel loro cuore lo Spirito Santo che opera attraverso l’annuncio a loro di Cristo, da loro una nuova possibilità per giungere a Dio.

Lo scopo di Dialogo e profezia parimenti fu un’indicazione, secondo la dottrina contenuta in “Concezione” del 1984, che il dialogo interreligioso costituisce una parte costitutiva della missione di evangelizzazione della Chiesa. Incontriamo, nel numero 9, la definizione di dialogo ripresa da “Concezione” a cui subito gli autori aggiungono che il termine “dialogo” si recepisce come “uno degli indivisibili componenti della missione evangelizzatrice della Chiesa”. Già prima del resto, il documento cita un frammento del discorso del papa che “(…) come il dialogo interreligioso è una componente della missione della Chiesa, anche l’annuncio dell’opera della salvezza di Dio nel nostro Signore Gesù Cristo, è un altro di questi elementi (…). Non se ne può scegliere uno ed ignorare o rifiutare il secondo”. Da ciò chiaramente si deduce che il dialogo e la missione non costituiscono tra di essi una alternativa, al punto che bisogna o si possa scegliere tra i due, ma che la missione contiene in sé gli elementi della reciproca relazione tra gli annunciatori del Vangelo e i rappresentanti delle altre religioni. Il dialogo e la profezia sono realtà separate, sebbene tutte e due si prefiggono come scopo la testimonianza: mentre il dialogo ha come fine una più profonda conversione di tutti a Dio, la profezia tende all’invito di altri perché diventino discepoli di Gesù Cristo.

8. La Chiesa dialoga per fedeltà

Per poter meglio comprendere il posto del dialogo interreligioso nella missione della Chiesa, Dialogo e profezia si richiama ad alcuni punti della ecclesiologia sacramentale del Concilio Vaticano II, circa la relazione tra la Chiesa come sacramento e il Regno di Dio presente nel mondo e circa il carattere della Chiesa pellegrinante nella storia, che continuamente ha bisogno di riformarsi e rinnovarsi, costantemente tendente alla pienezza della verità. In un tale contesto è facile intendere come il documento comprende il senso del dialogo interreligioso nella missione evangelizzatrice della Chiesa. “La ragione fondamentale per inpegnare la Chiesa nel dialogo non è di natura antropologica, ma innanzitutto teologica”. La Chiesa deve entrare nel “dialogo di salvezza” con ogni uomo, per fedeltà a Dio che iniziò con l’umanità un dialogo di salvezza che dura nei secoli”. Anzi “in questo dialogo di salvezza tutti, cristiani e non cristiani, sono chiamati alla

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collaborazione nello Spirito del Signore Risorto. Nello Spirito, che è presente universalmente ed opera”.

Le relazioni tra il dialogo interreligioso e la profezia, le esamina dettagliatamente anche la terza parte di Dialogo e profezia (n. 77-86). Ancora una volta leggiamo che “parimenti il dialogo interreligioso come la profezia, sebbene non sono sullo stesso piano, costituiscono elementi autentici della missione evangelizzatrice della Chiesa. Tutte e due sono legittimi e necessari. Sono strettamente legati, però non intercambiabili: il vero dialogo interreligioso presume da parte dei cristiani il desiderio di far conoscere Gesù Cristo”.

Per il cristiano dunque il dialogo ha una dimensione salvifica, si realizza in altre parole in un contesto missionario ed è una parte “(…) del dialogo di salvezza, la cui iniziativa Dio riservò a se stesso”. I cristiani che partecipano ad un tale dialogo”(…) come non possono sentire la speranza e il desiderio di comunicare agli altri la gioia della conoscenza di Gesù Cristo, Signore e Salvatore (…)?. Tuttavia non costituisce esso “la completa missione della Chiesa, non può sostituire la profezia, ma rimane indirizzato alla profezia (…)”. Appunto questa enunciazione del numero 82, che “il dialogo non costituisce la completa missione della Chiesa”, ci può far distinguere il concetto di dialogo in Dialogo e profezia dal concetto di dialogo nei documenti del Concilio ed anche dell’Ecclesiam suam .

Riassumendo la presente analisi, aggiungiamo con gli autori di Dialogo e profezia, che i cristiani realizzano la profezia e il dialogo con le altre religioni “in un vero spirito evangelico”, credendo in Gesù stesso, che è per loro “esempio e guida in questo compito, sia nella profezia come nel dialogo”. In questo modo il dialogo interreligioso, che è un elemento della missione evangelizzatrice della Chiesa ci si presenta come avente la sua sorgente in Dio stesso e perciò si può dire che appartiene alla natura della vocazione cristiana.