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G. Giappichelli editore – torino

Comitato di direzione

Fabrizio amatucci, Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerralorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari

Maria cecilia Fregni, alessandro GiovanniniMaurizio logozzo, Giuseppe MariniSalvatore Muleo, Franco paparella

livia Salvini, loris tosi

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Tax Law Quarterly

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© copyright 2013 - Amici della Rivista Trimestrale di Diritto Tributarioregistrazione presso il tribunale di torino, 5 aprile 2012, n. 22

Direttore responsabile: eugenio della Valle

Direzione e Redazionec/o Giuseppe MariniVia dei Monti parioli n. 48 - 00197 romatel. [email protected]

G. Giappichelli editore - 10124 torinovia po, 21 - tel. 011-81.53.111 - Fax 011-81.25.100http://www.giappichelli.it

iSBn/ean 978-88-348-3977-5iSSn 2280-1332

Stampatore: Stampatre s.r.l., di a. rinaudo, G. rolle, a. Volponi & c., via Bologna 220, 10123 torino

le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volu-me/fascicolo di periodico dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633.

le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da clearedi, centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali, corso di porta romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

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Comitato di direzioneFabrizio amatucci, Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerra, lorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari, Maria cecilia Fregni, alessandro Giovannini, Maurizio logozzo, Giuseppe Marini, Salvatore Muleo, Franco paparel-la, livia Salvini, loris tosi

Comitato scientifico dei revisoriniccolò abriani, Jacques autenne, pietro Boria, andrea carinci, Giuseppe cipolla, Silvia cipollina, Gianluca contaldi, daria coppa, Giacinto della cananea, augu-sto Fantozzi, andrea Fedele, luigi Ferlazzo natoli, alfredo Garcia prats, daniel Gutman, Manlio ingrosso, enrico laghi, Salvatore la rosa, carlos lopez espa-dafor, raffaello lupi, enrico Marello, Gianni Marongiu, enrico Marzaduri, Salvo Muscarà, Mario nussi, carlos palao taboada, leonardo perrone, raffaele perrone capano, Francesco pistolesi, Gianni puoti, claudio Sacchetto, Salvatore Sammar-tino, angelo Scala, roman Seer, Maria teresa Soler roch, paolo Stancati, dario Stevanato, Giuliano tabet, Francesco tesauro, Giuseppe tinelli, antonio Uricchio, Giuseppe Zizzo

Comitato di redazioneantonio Viotto (coordinatore), ernesto Bagarotto, Gianluigi Bizioli, Susanna can-nizzaro, pier luca cardella, anna rita ciarcia, Marco di Siena, Stefano dorigo, antonio Marinello, pietro Mastellone, Michele Mauro, annalisa pace, damiano pe-ruzza, Federico rasi, laura torzi, caterina Verrigni

Tutti i contributi pubblicati nella Rivista sono stati sottoposti alla valutazione colle-giale da parte del Comitato di direzione e alla revisione anonima da parte di due dei componenti del Comitato scientifico dei revisori, in base all’apposito Regolamento (consultabile sul sito www.giappichelli.it/Home/riviste10.aspx?codice=R10)

Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via po 21 – 10124 torino

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INDICE-SOMMARIO

pag.

Gli Autori e i Revisori IX Dottrina F. Amatucci, Il rafforzamento dei principi comuni europei e l’unici-

tà del sistema fiscale nazionale (The strengthening of the european common principles and the unity of the national tax system) 3

S. Dorigo, Doppia imposizione internazionale e diritto dell’Unione Europea (International double taxation and EU law) 23

L. Nicòtina, In tema di agevolazioni fiscali per la mediazione civile e commerciale (Reflections on tax incentives in order to promote me-diation in civil matters) 55

C. Califano, La motivazione degli atti impositivi tra forma e sostan-za, principi europei e valori costituzionali (Motivation of tax acts between form and substance, european principles and constitutional values) 81

B. Peeters-E. Van de Velde, La motivazione degli atti tributari in Belgio (Formal motivation of individual tax acts in Belgium) 93

F. Rasi, La “trasparenza per presunzione” delle società a ristretta base proprietaria: l’attendibilità della presunzione ed il problema della qualificazione del reddito (The “transparency for presumption” of narrow base ownership companies: the reliability of the presumption and the problem of the qualification of income) 119

M. Versiglioni, ‘Unità’ e ‘uni’ del e nel diritto tributario. Riflessioni teo-riche sul litisconsorzio necessario soci-società di persone (‘Units’ and ‘Ones’ of and in tax law. Theoretical thoughts about the compul-sory joinder of partners and partnership) 149

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INDICE-SOMMARIO RTDT - n. 1/2013

VIII

pag.

Giurisprudenza

Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685 – Pres. Cicala, Rel. Chindemi, con nota di L.R. Corrado, Note in tema di incertezza normativa oggettiva e ignoranza inevitabile (Remarks on objective regulatory uncertainty and inevitable ignorance) 191

Corte cost., 17 ottobre 2011, n. 280 – Pres. Quaranta, Red. Gallo, con nota di V. Guido, La Consulta frena i primi entusiasmi fede-ralisti in materia di fiscalità ambientale; spunti per una riflessione in tema di fiscalità locale (Constitutional Court’s brake to the first federalist enthusiasm about environmental taxation; ideas for a re-flection on the theme of local taxation) 215

Cass., sez. trib., 27 aprile 2012, n. 6548 – Pres. Pivetti, Rel. Valitutti, con nota di G. Tinelli, Riflessioni su sponsorizzazione, inerenza e onere della prova nella disciplina del reddito d’impresa (Some re-marks on sponsorship, inherence and burden of proof in the business income discipline) 235

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GLI AUTORI E I REVISORI

Fabrizio Amatucci Professore ordinario di Diritto tributario, Seconda Università degli Studi di Napoli

Christian Califano Ricercatore di Diritto tributario, Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. D’An-nunzio”

Leda Rita Corrado Assegnista di ricerca in Diritto tributario, Università di Roma “Tor Vergata”

Stefano Dorigo Dottore di ricerca in Diritto internazionale e Diritto UE, Università di Pisa

Valeria Guido Assegnista di ricerca in Diritto tributario, Università di Sassari

Ludovico Nicòtina Ricercatore di Diritto tributario, Università di Messina

Bruno Peeters Full Professor at the University of Antwerp

Federico Rasi Dottore di Ricerca in Diritto tributario delle società, Università Luiss Guido Carli

Giuseppe Tinelli Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma Tre

Elly Van de Velde Professor at the University of Hasselt

Marco Versiglioni Professore straordinario di Diritto tributario, Università di Perugia

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GLI AUTORI E I REVISORI RTDT - n. 1/2013

X

La revisione dei contributi pubblicati è stata effettuata da: Pietro Boria (Pro-fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Foggia); Silvia Cipollina (Pro-fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Pavia); Daria Coppa (Profes-sore ordinario di Diritto tributario, Università di Palermo); Augusto Fantozzi (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma La Sapienza); Sal-vatore La Rosa (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Catania); Salvatore Muscarà (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Ca-tania); Giovanni Puoti (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma Unicusano); Leonardo Perrone (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma La Sapienza); Raffaele Perrone Capano (Professore ordina-rio di Diritto tributario, Università di Napoli – Federico II); Salvatore Sammar-tino (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Palermo); Roman Seer (Professor für Steuerrecht, Università di Bochum); Maria Teresa Soler Roch (Catedrática de Derecho financiero y tributario, Università di Alicante); Dario Stevanato (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Trieste); Giu-liano Tabet (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma La Sa-pienza); Francesco Tesauro (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Milano Bicocca); Antonio Felice Uricchio (Professore ordinario di Diritto tri-butario, Università di Bari); Giuseppe Zizzo (Professore ordinario di Diritto tri-butario, Università LIUC – Castellanza).

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DOTTRINA

SOMMARIO: F. Amatucci, Il rafforzamento dei principi comuni europei e l’unicità del si-

stema fiscale nazionale (The strengthening of the european common principles and the unity of the national tax system)

S. Dorigo, Doppia imposizione internazionale e diritto dell’Unione Europea (International double taxation and EU law)

L. Nicòtina, In tema di agevolazioni fiscali per la mediazione civile e commercia-le (Reflections on tax incentives in order to promote mediation in civil matters)

C. Califano, La motivazione degli atti impositivi tra forma e sostanza, principi europei e valori costituzionali (Motivation of tax acts between form and sub-stance, european principles and constitutional values)

B. Peeters-E. Van de Velde, La motivazione degli atti tributari in Belgio (For-mal motivation of individual tax acts in Belgium)

F. Rasi, La “trasparenza per presunzione” delle società a ristretta base proprieta-ria: l’attendibilità della presunzione ed il problema della qualificazione del red-dito (The “transparency for presumption” of narrow base ownership companies: the reliability of the presumption and the problem of the qualification of income)

M. Versiglioni, ‘Unità’ e ‘uni’ del e nel diritto tributario. Riflessioni teoriche sul litisconsorzio necessario soci-società di persone (‘Units’ and ‘Ones’ of and in Tax Law. Theoretical thoughts about the compulsory joinder of partners and partnership)

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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Fabrizio Amatucci

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Fabrizio Amatucci

IL RAFFORZAMENTO DEI PRINCIPI COMUNI EUROPEI E L’UNICITÀ DEL SISTEMA FISCALE NAZIONALE

THE STRENGTHENING OF THE EUROPEAN COMMON PRINCIPLES AND THE UNITY OF THE NATIONAL TAX SYSTEM

Abstract I recenti interventi delle Istituzioni europee sulle finanze pubbliche nazionali e sulle scelte di politica fiscale dei Paesi membri, insieme alla comunitarizzazione dei principi fondamentali previsti dalla CEDU, hanno determinato un rafforza-mento del sistema giuridico europeo e delle fonti di diritto tributario europee. Tale assetto ha reso necessaria una rimeditazione della teoria dualista in base alla quale i due ordinamenti (nazionale e dell’UE) devono essere configurati come au-tonomi, ancorché tra essi coordinati. A ben vedere il ricorso sempre più frequente a principi europei comuni in grado di garantire il contribuente e di operare anche in fase procedimentale, dovrebbe indurre a privilegiare la teoria dell’unitarietà del sistema tributario ed a ricono-scere pari dignità alle fonti ed alle regole interne e comunitarie. Ciò consentireb-be di facilitare il coordinamento, evitando sovrapposizioni di competenze e con-trasti tra organi interni e comunitari. La separazione tra gli ordinamenti statali ed europei determina infatti una ripartizione interna dei primi in sottosistemi ar-monizzati e non armonizzati che, oltre ad essere iniqua, genera una tutela diffe-renziata ed uno sviluppo non armonico dei sistemi a livello europeo. Parole chiave: fonti, politiche fiscali, principi comuni europei, unità del sistema fiscale, tributi armonizzati Some recent measures adopted by the European Institutions, concerning the national public finances and the fiscal policies of Member States, and the europeanization of the fundamental principles of the ECHR, have strenghtened the European system of law and the sources of EU tax law. This outcome requires a reconsideration of the so called dualistic theory, according to which the EU and the national legal systems are autonomous but coordinated.

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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The increasing invocation of common european principles, aiming at guaranteeing the taxpayer even during the admnistrative procedure, should lead to prefer a homogene-ous considerationn of the tax system and recognize equal relevance to national and european sources and rules. This kind of approach could realize a coordination and avoid conflicts between na-tional and supranational institutions. A separate view of EU and national systems, in fact, leads to the fragmentation of the latter in sub-systems (harmonizated and not-harmonizated) which generates a different level of guarantee and does not allow a balanced development of national systems in the European area. Keywords: sources of law, fiscal policies, european common principles, unity of the tax law systems, harmonized taxes

SOMMARIO: 1. Rafforzamento delle fonti UE e limitazione delle politiche fiscali nazionali. – 2. L’impatto dei principi europei sul processo tributario e nei confronti del giudice nazionale. – 3. Il contrasto giurisprudenziale sulla unicità delle fonti (interne ed UE) di diritto tributario. – 4. Il rischio della ripartizione settoriale degli ordinamenti tributari nazionali in sottosistemi.

1. Rafforzamento delle fonti UE e limitazione delle politiche fiscali nazionali

L’esperienza di questi ultimi anni che va manifestandosi in seno all’UE di riconoscimento e consolidamento della normativa e dei principi comunitari negli ordinamenti tributari nazionali ed in particolare in quelli dell’eurozo-na, presenta caratteri di forte peculiarità. Oltre alle normali limitazioni della sovranità fiscale nazionale dettate dalle regole del libero mercato e della concorrenza, si assiste ad una serie di interventi volti ad incidere sulle finan-ze pubbliche statali in particolare sul versante delle spese ed all’imposizione di scelte di politica fiscale e tributaria

1 da parte delle Istituzioni europee

1 V. ESSERS, New Trend on Business Taxation after the Crisis, in SALVINI-MELIS (a cura di), Finacial Crisisi and Single Market, Roma, 2012, p. 70; VANISTENDAEL, The Crisis: a Window of Necessity for EU Taxation, in Mossner Lecture, 2010, in www.eatlp.org. Tale ultimo A. ri-tiene che la difesa dell’euro per essere effettiva implica che i governi degli stati membri do-vranno in tempo di crisi trasferire la loro sovranità fiscale all’UE. Uno dei maggiori pro-blemi del trasferimento del potere fiscale e di spesa dagli Stati dell’eurozona all’UE è indi-viduabile nel deficit democratico.

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Fabrizio Amatucci

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(BCE, Commissione e Consiglio UE). Il meccanismo di sviluppo della sta-bilità europea (ESM) da ultimo ha previsto, tra le diverse misure necessarie che gli Stati membri devono adottare, la lotta all’evasione ed alla frode fisca-le e il coordinamento delle politiche fiscali nazionali.

Ciò determina, dunque l’esigenza di un confronto tra istituzioni dei Paesi membri ed europee ed in particolare tra giudici nazionali e Corte di Giustizia finalizzato a realizzare un bilanciamento tra i rispettivi interessi e ad evitare o prevenire le conseguenze economiche scaturenti dalla violazione di norme e principi giurisprudenziali dell’UE da parte di uno Stato membro. Alcuni re-centi interventi delle Corti costituzionali in materia comunitaria

2 contribui-scono al rafforzamento delle fonti di diritto tributario europeo che sono in grado di prevalere per ragioni economiche su quelle interne con conseguenze considerevoli per il futuro in termini di coordinamento e ravvicinamento del-le politiche fiscali. Tali politiche nazionali, tendono oggi, alla luce delle linee evolutive dell’UE, a mutare il proprio carattere e ad assumere quello di stru-menti indispensabili, sia per uscire dalla fase emergenziale di crisi economica, che per garantire in modo stabile la crescita economica, la sopravvivenza e lo sviluppo del sistema economico-monetario europeo

3.

2 Significativa in tale quadro è la decisione dell’Alta Corte costituzionale tedesca il 12 settembre 2012 che ha detto sì al fiscal compact ed alla nascita del Fondo salva-stati (nuovo meccanismo di stabilità europea o ESM European Stability Mechanism) sancendone la le-gittimità costituzionale ed ha accolto la proposta della Commissione UE di conferire alla Banca Centrale Europea i poteri di supervisore unico delle banche dell’Eurozona. Gli ac-cordi sul fiscal compact e sull’ESM sui quali si è pronunciata la Corte costituzionale tedesca, si aggiungono a quelli del Consiglio UE che il 4 ottobre 2011 ha approvato il Six pack per una redifinizione della disciplina della governance economica europea introducendo con regolamento nuove regole sul versante della spesa pubblica che prevedono il coordina-mento della politica economica europea la sorveglianza della finanza pubblica europea e dei requisiti dei bilanci statali.

Con la sentenza della nostra Corte cost. n. 102/2008 è stata valutata anche la confor-mità ai principi UE di non discriminazione e al divieto di aiuti di Stato di alcuni tributi re-gionali sul turismo, evidenzando la rilevanza e la centralità che i principi costituzionali di eguaglianza e capacità contributiva possono assumere in un contesto di tipo comunitario-internazionale in cui va inserita la fiscalità locale ed in particolare in quello della tassazione regionale sul turismo che può generare disparità di trattamento. Posizione diversa è stata invece assunta con sent. Corte cost. n. 125/2009 riguardante la materia contributiva ove è stata riaffermata l’autonomia tra i due ordinamenti Cost. e UE. Le norme di fonte comuni-taria, pur essendo direttamente applicabili e vincolanti per il giudice nazionale, restano se-condo la Corte estranee al sistema delle fonti interne.

3 DORIGO, Residenza fiscale delle società e libertà di stabilimento nell’UE, Padova, 2012, p. 28.

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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Al rafforzamento del sistema giuridico europeo ha contribuito la comu-nitarizzazione dei principi e delle norme CEDU le quali, anche se incontrano ancora qualche ostacolo nell’ordinamento tributario nazionale

4, appaiono una forma forte di condizionamento dei sistemi interni processuali e proce-durali. Le norme CEDU rafforzate e comunitarizzate a seguito dell’adesione dell’UE alla convenzione diritti umani, ampliano la sfera applicativa di prin-cipi già esistenti come il giusto processo e il diritto di difesa, consentendo di superare limiti interni prima difficilmente contestabili e preclusioni proba-torie che caratterizzano il nostro processo tributario

5. Tali principi comuni europei trovano applicazione secondo dottrina e giurisprudenza, nei con-fronti di tutte le fattispecie che rientrano nella sfera del diritto del’UE (ove vi è competenza esclusiva e concorrente con gli stati membri) e nei confron-ti delle norme procedurali interne volte ad attuarlo

6. È opportuno in ogni caso ritenere che i diritti fondamentali sanciti a livello europeo dalla CEDU allo stesso modo dei principi generali del TFUE, devono essere garantiti e applicati anche in quei settori (come le imposte dirette) che, pur non es-sendo di competenza comunitaria, rientrano oramai di fatto in tale sfera. La giurisprudenza della Corte di Giustizia UE ha ritenuto in proposito che i di-ritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali dei quali la

4 La Cassazione nelle sentt. 10 febbraio 2011, n. 19367/2008 e n. 3270 ha affermato l’esclusione dalla sfera applicativa della convenzione dei diritti umani delle controversie relative ad obbligazioni che risultino dalla legislazione fiscale ad esclusione delle sanzioni tributarie che per la afflittività siano assimilabili a quelle penali.

5 F. AMATUCCI, Le preclusioni probatorie in fase di contraddittorio e il diritto di difesa del contribuente, in Atti del Convegno Pescara, 2011. A livello europeo la CEDU, attraverso l’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e la UE, mediante la Corte di Giu-stizia, oltre a riconoscere la centralità e la necessità del contraddittorio in fase di verifica e di istruttoria fiscale procedimentale, garantiscono una tutela piena ed effettiva del contri-buente e del suo diritto di difesa (vedi in particolare caso Ravon della CEDU e sent. Sopropè, C-349/07 del 2008 della Corte di Giustizia UE).

6 V. ZAGREBELSKI, La prevista adesione della UE alla CEDU, in www.europeanrights.eu, il quale osserva che oggi la Corte UE fa continuo riferimento alla CEDU nella interpretazio-ne e applicazione della convenzione e la Corte CEDU trova continua ispirazione dalla giu-risprudenza della normativa UE. L’adesione della UE alla CEDU potrebbe inoltre favorire lo sviluppo della giurisprudenza della Corte CEDU. V. sul tema GALLO, Ordinamento UE e principi fondamentali, Napoli, 2006, p. 29, secondo il quale vi sarebbe una certa equivalen-za tra protezione dei diritti fondamentali nel sistema UE e principi costituzionali nazionali. La giurisprudenza della Corte di Giustizia propende per l’estensione dell’applicazione dei principi e diritti fondamentali europei alla normativa interna che si colloca nell’ambito del diritto dell’UE. V. sent. Corte di Giustizia, Elleniki Tileorassi, 18 giugno 1991, C-260/89.

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Fabrizio Amatucci

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stessa Corte 7 garantisce l’osservanza ispirandosi alle indicazioni fornite a li-

vello internazionale sulla tutela dei diritti dell’uomo. Una diversa interpretazione determinerebbe una irragionevole disparità

di trattamento prevedendo sistemi di tutela differenziata 8 nei singoli ordi-

namenti tributari dei Paesi UE e dunque una violazione del principio co-munitario dell’equivalenza tra i procedimenti nazionali e di derivazione co-munitaria. Si pensi ad es. alla rilevanza dei principi dell’effettività, della pro-porzionalità, dell’affidamento negli ordinamenti interni che hanno consenti-to la recente introduzione dell’overruling nell’ordinamento processuale

9 ed il superamento di una serie di limiti all’esercizio effettivo del diritto di difesa del contribuente. Tali principi comuni europei non possono operare solo in relazione a controversie tributarie rientranti nella sfera di diritto UE e non riguardare analoghe situazioni di diritto interno.

La comunitarizzazione delle norme CEDU ad opera della Corte di Giu-stizia consente di superare quella differenza che contraddistingue la sfera di interessi posta a livello comunitario prevalentemente di tipo economico e di tutela del mercato, rispetto a quella posta dai diritti umani che integra il pa-rametro costituzionale (come il principio del giusto processo)

10 anche se l’applicazione nel nostro ordinamento di tali ultime norme non è ancora immediata, ma richiede un’attività di verifica di conformità con la costitu-zione in caso di conflitto solitamente ad opera della Corte costituzionale.

Il quadro esaminato determina una notevole evoluzione dei rapporti tra ordinamento europeo e nazionale (tributario). L’efficacia delle norme UE è stata per molti anni oggetto di esame da parte della nostra giurisprudenza

7 V. par. 33, sent. Corte di Giustizia, causa C-349/07 del 2008, Sopropè, ove, quest’ul-tima si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri oltre che alle indica-zioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito (v., in particolare, sentenza Corte di Giustizia, 6 marzo 2001, causa C-274/99, Connolly/Commissione, in Racc., pp. I-1611, punto 37).

8 CALIFANO, Principi comuni e procedimento tributario, in Riv. dir. trib., 2004, p. 1013. 9 Sent. Cass. n. 222832/2011 e Corte di Giustizia, 15 dicembre 2011, causa C-427/10,

caso BAPV, riguardante l’introduzione nel nostro ordinamento del limite dell’overruling che consente, in presenza di questioni di diritto UE, di superare limiti interni della decadenza qualora vi siano cambi repentini di interpretazioni consolidate della giurisprudenza e del-l’A.F. rafforzando il diritto di difesa, la tutela dell’affidamento e quello dell’effettività del rim-borso d’imposta da indebito.

10 RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, p. 585, osserva come le norme CEDU sono norme interposte che intergrano il parametro di costituzionalità la cui valutazione spetta alla Corte costituzionale.

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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costituzionale che ha assunto posizioni diverse, fino al raggiungimento ed al consolidamento della tesi del primato della norma comunitaria rispetto a quella nazionale ed al riconoscimento dell’effetto della disapplicazione della norma nazionale in contrasto con quella comunitaria

11, facendo salvi i prin-cipi inderogabili della Costituzione. Naturalmente, il recente rafforzamento del diritto UE e il riconoscimento dei diritti fondamentali nel sistema euro-peo ha avuto un chiaro effetto sulla teoria dei “controlimiti” che rischia di essere piegata alle superiori esigenze della costruzione comune diventando, in qualche modo, inoperante. Appare significativo, in proposito, quanto di recente affermato dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione la quale, nella sent. n. 8817/2012 depositata il 1° giugno 2012, dovendo pronunciarsi su una controversia concernente il recupero di aiuti di Stato in materia fisca-le dichiarati dalla Commissione con decisione incompatibili con il diritto del-l’Unione in presenza di condono, ha sostenuto che «la stessa teoria dei con-trolimiti, che pure trovava ragionevoli giustificazioni negli anni ’70-’80 del seco-lo scorso, quando il processo di integrazione era nelle fasi iniziali, sembra oggi in aperta contraddizione con il concetto stesso di integrazione quale risulta attual-mente anche in ragione dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giu-stizia – che ha fornito prove sufficienti di tutela dei diritti fondamentali – e del richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, avente valore vincolante anche nei confronti delle istituzioni europee, al punto che il conflitto

11 Con sentenza Corte di Giustizia del 1978, causa 106/7, Simmenthal e Corte cost. n. 179/1984 si è reso in virtù del primato della norma UE, inapplicabile di diritto qualsiasi disposizione contraria della legislazione nazionale preesistente, ma anche quello di impe-dire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali nella misura in cui siano incom-patibili con le norme comunitarie. Nella sent. 28 giugno 2001, C-118/00 la Corte di Giu-stizia ha riaffermato il primato della norma comunitaria che impone a tutte le istanze dello Stato membro di dare pieno effetto alla norma comunitaria, disapplicando, se del caso, di-sposizioni processuali nazionali che attribuiscono forza vincolante ad una decisione giuri-sdizionale. Allo stesso modo la nostra Cassazione ha riconosciuto l’inapplicabilità e la di-sapplicazione della norma interna in caso di conflitto (Cass. n. 249/1995) con contempo-ranea vigenza delle due norme. Nella sentenza 7 gennaio 2004, C-201/02, la stessa Corte di Giustizia, ha inoltre precisato, che, in forza del principio di leale collaborazione previsto dall’art. 10 CE, gli Stati membri hanno l’obbligo di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario. Con sent. Corte cost. n. 102/2008 cit., si è chiarito che ormai il limite posto dai principi comunitari operante nei confronti del legislatore tributa-rio regionale è da considerare alla stregua di quello derivante dalle nostre norme costitu-zionali. La Corte costituzionale ha ritenuto dunque di poter operare come un giudice co-mune di ultima istanza effettuando solo in un caso il rinvio pregiudiziale e pronunciandosi per il resto anche su questioni di diritto comunitario.

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tra diritto comunitario e diritto statale non sembra oggi più concepibile in uno spazio giuridico europeo veramente integrato»

12. Da tale ragionamento ne deriva che, secondo la Suprema Corte, il man-

tenimento della sovranità fiscale nazionale attraverso la sopravvivenza di principi interni da parte degli Stati membri che costituiscono la barriera in-valicabile dei contro-limiti in grado di bilanciare il rafforzamento delle fonti comunitarie, è inversamente proporzionale all’integrazione europea e si con-trappone ad essa. Nonostante il condivisibile ed apprezzabile tentativo della Suprema Corte di riconoscere particolare rilevanza all’integrazione europea in materia fiscale e dunque all’unicità del sistema nazionale e dell’UE, tale affermazione suscita alcune riflessioni e merita qualche precisazione.

La controversia in esame verteva come esaminato sul recupero di una agevolazione fiscale da parte della nostra A.F., concessa in violazione di un divieto di concorrenza tra gli Stati come quello concernente gli aiuti di stato e dunque non coinvolgeva diritti fondamentali che attengono semmai alla sfera delle tutela dei contribuenti. La Cassazione sembra tuttavia ignorare tale distinzione e ritenere in ogni caso l’integrazione europea rafforzata dal rico-noscimento dei diritti fondamentali.

Inoltre, nonostante il TFUE, stabilendo all’art. 2 che l’UE si fonda sui va-lori della libertà dell’eguaglianza, della democrazia, dello stato di diritto e di diritti umani, non fa che recepire i principi fondamentali delle costituzioni interne, il superamento dei contro-limiti in materia tributaria non può pre-scindere completamente da un assetto normativo in cui, come esaminato, la competenza in materia di fiscalità diretta è ancora esclusiva dei Paesi mem-bri

13 ed ove l’applicazione di norme UE dovrebbe essere consentita qualora vi sia una diretta incidenza sul funzionamento del mercato in presenza di di-

12 La vicenda esaminata dalla Cassazione riguardava la legittimità di atti di recupero di aiuti di stato derivante dall’emanazione di decisione da parte della Commissione UE in presenza di condono. Si è ritenuto che in base al Reg. n. 659/1999 il recupero di aiuti va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello stato. La defini-zione automatica prevista dalla L. n. 289/2002 deve essere disapplicata qualora impedisca il recupero di aiuti di stato dichiarati tali dalla Commissione.

13 In alcune precedenti note sentenze della Corte costituzionale (nn. 179/1984, 249/ 1995) ha affermato che conseguenze dell’incompatibilità è la disapplicazione della norma interna e che sono fatti salvi i principi inderogabili della Costituzione. La competenza in materia di imposte dirette spetta agli stati membri ma, come osservato in dottrina (TERRA-WATTEL, European Tax Law, Kluwer, 2012, p. 7) deve essere esercitata in conformità al diritto UE. Ciò significa che gli stati membri devono rispettare le regole del mercato inter-no, la libera circolazione dei diritti del contribuente ed osservare il divieto di aiuti di stato.

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storsioni alla concorrenza e di restrizioni alla libertà di circolazione 14. Non

va infine trascurato che, nonostante il dato incontrovertibile del rafforza-mento delle norme UE e della superiorità del diritto comunitario, vi sono in materia tributaria principi costituzionali come la capacità contributiva, l’e-guaglianza e la riserva di legge

15 che, in mancanza di un sistema fiscale fede-rale europeo e della cessione di competenze e di più incisivi poteri di con-trollo da parte degli stati membri, non possono essere comunitarizzati

16, né soccombere come spesso accade alla presenza di divieti come quello di aiuti di stato.

Tuttavia, all’inevitabile ridimensionamento di tali principi costituzionali e all’espansione dei divieti di restrizione, di discriminazione e di aiuti di sta-to sanciti dal diritto UE, corrisponde il consolidamento di altri principi-diritti fondamentali comuni di origine europea come l’affidamento, la pro-porzionalità e l’effettività che rappresentano dei nuovi contro limiti che in-tegrano ed espandono in materia tributaria la portata di norme costituziona-li come gli artt. 97, 24 e 111 poste a salvaguardia dei diritti del contribuente ed in grado di controbilanciare le regole del mercato europeo.

14 Non risultano infatti definitivamente superati i problemi di limitazione della sovrani-tà fiscale nazionale e del rispetto del principio del dominio riservato di competenza nazio-nale in quanto manca una precisa ripartizione di competenze tra Stati membri e UE. L’esercizio della potestà tributaria degli organi internazionali e le limitazioni che essa de-termina nei confronti degli Stati, trovano la propria giustificazione nella natura stessa dello strumento tributario tipicamente espressivo della sovranità nazionale ed essenziale per ca-ratterizzare la conformazione politica ed economica dei singoli Paesi membri e dal suo ca-rattere di elemento indispensabile per la costituzione di un organo istituzionale, economi-co e politico che si colloca al di fuori degli Stati membri.

15 BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, p. 64 i valori costituzionali della ca-pacità contributiva e dell’interesse fiscale sono da riportare ad un ambito assiologico na-zionale pur di rango primario e idonei a costituire controlimiti al potere esercitato in ambi-to UE. È evidente che i valori fondamentali della collettività delineati nella carta costitu-zionale posano trovare uno spazio di rilevanza assiologica contestualmente ai valori co-munitari attraverso una relazione di combinazione e di complementarietà.

16 GALLO, Ordinamento comunitario, ordinamenti nazionali e principi fondamentali tribu-tari, in Dir. prat. trib., 2006, p. 1137, ritiene l’unico principio in grado di rappresentare un controlimite è l’eguaglianza tributaria sostanziale intesa come giustizia distributiva e parità di trattamento. Il principio di capacità contributiva è importante ma non fondamentale e comunque riassorbito in quello di eguaglianza.

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2. L’impatto dei principi europei sul processo tributario e nei confronti del giudice nazionale

Il rafforzamento delle fonti di diritto comunitario è rilevabile in partico-lare da una serie di conseguenze e di effetti dirompenti che riguardano la sfera processuale tributaria che per tanto tempo era restata immune a tale fenomeno di europeizzazione del diritto. La rilevabilità d’ufficio nel giudizio di legittimità delle questioni di incompatibilità comunitaria ormai ricono-sciuta dalla giurisprudenza di legittimità

17 insieme all’efficacia particolar-mente vincolante delle decisioni della Commissione in materia di aiuti di Stato, hanno determinato il superamento di una serie di limiti invalicabili come decadenze, prescrizioni, giudicato e una forte incidenza sul sistema probatorio e sulla tutela cautelare regolata da apposita normativa (art. 47 bis, D.Lgs. n. 546/1992). I vincoli europei nei confronti del giudice nazionale sono stati definitivamente sanciti a seguito del riconoscimento della respon-sabilità per danni.

La spinta decisiva verso questi cambiamenti è avvenuta ad opera della giu-risprudenza di Cassazione (con sentt. nn. 8319/2004, 8210/2004 e 4769/ 2005, 15980/2010, 19545/2011)

18 la quale ha riconosciuto la portata vinco-lante anche delle decisioni della Commissione UE in materia di aiuti di sta-to nel settore tributario discendente dall’art. 108 del TFUE e la loro effica-cia diretta. Tali atti comunitari se definitivi, incondizionati, chiari e precisi, sono idonei a sopprimere o modificare la norma interna che prevede l’aiuto ed a vincolare il giudice nazionale nell’ambito dei giudizi portati alla sua co-gnizione.

Particolarmente forte è il vincolo delle decisioni della Commissione in materia di aiuti di Stato nei confronti dell’interprete rispetto ad atti come le direttive aventi efficacia diretta in quanto, mentre è sempre contestabile il

17 La rilevabilità d’ufficio di questioni UE in ogni stato e grado del giudizio inizialmente sancita dalla Corte di Giustizia (causa 166/73, 16 gennaio 1974, caso Dussendorf) è stata ri-conosciuta più volte dalla nostra Cassazione in diverse sentenze (Cass. nn. 25374/2008, 1465/2009, 1372/2011). Di recente con sent. 19 ottobre 2012, n. 17949 si è ritenuto che deve essere garantito il diritto di difesa del contribuente concedendogli termini per depo-sitare memorie di replica.

18 La Cassazione italiana, con sent. 10 dicembre 2002, n. 17564 e, successivamente, con sentt. nn. 8319/2004, 8210/2004 e 4769/2005, superando gli orientamenti precedenti (sent. 22 agosto 2002, n. 12395), ha per la prima volta riconosciuto l’efficacia diretta delle decisioni della Commissione negative in materia di aiuti di Stato (relativamente a casi di agevolazione fiscale regionale) se contengono un obbligo chiaro e preciso.

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non corretto recepimento di queste ultime da parte del legislatore nazionale, non è possibile sindacare le decisioni della Commissione, se divenute defini-tive una volta decorsi i termini di impugnazione previsti dall’art. 263 TFUE (ex art. 230), neanche attraverso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Secondo la giurisprudenza comunitaria, la portata obbligatoria delle de-cisioni sarebbe negata se i giudici nazionali non potessero prendere in consi-derazione tali atti della Commissione come norme di diritto comunitario

19. Il giudice tributario nazionale svolge per tale motivo in materia di aiuti di

Stato e con riguardo alle decisioni UE, un ruolo limitato rispetto alle altre situazioni di incompatibilità di norme tributarie interne con il diritto comu-nitario ove ha la possibilità (salvo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giusti-zia UE) di pronunciarsi direttamente ed autonomamente sulla violazione di alcuni divieti come quelli di restrizione e di discriminazione. Il giudice tribu-tario non può infatti pronunciarsi sulla compatibilità di una decisione della Commissione con il diritto comunitario

20 o ritenere applicabile una delle deroghe previste dall’art. 107, nn. 2 e 3, TFUE in materia di aiuti di Stato, in quanto ciò implica manifestazione di potere discrezionale riservato alla Com-missione UE, coinvolgendo interessi comunitari

21. La Commissione euro-

19 Vedi la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, ove è stato precisato che lo Stato membro non può rimettere in discussione la validità di una decisione della quale è destina-tario (art. 88, comma 2) dopo la scadenza del termine di impugnazione previsto dall’art. 230, comma 3 (Corte di Giustizia UE, sent. 9 marzo 1994, C-188/92, TWD). Nella sent. 22 febbraio 2006, C-346/03, Atzeni, si evidenzia inoltre l’impossibilità di eccepire l’illegittimità della decisione della Commissione innanzi ai giudici nazionali nell’ambito di un ricorso avverso un provvedimento dell’autorità nazionale in esecuzione della decisione.

20 F. AMATUCCI, Il ruolo del giudice nazionale in materia di aiuti fiscali, in Rass. trib., n. 5, 2008, p. 128. Come è stato chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza cause riunite C-143/99 e C-92/89 del 21 febbraio 1991, sebbene in linea di principio i giudici nazionali possono trovarsi ad esaminare la validità di un atto comunitario, essi non sono però com-petenti a dichiarare l’invalidità degli atti delle istituzioni comunitarie. Particolare è la situa-zione in cui la questione di incompatibilità con il divieto di aiuti di Stato non viene solleva-ta dalle parti ma derivi da statuizioni spontanee da parte del giudice nazionale basate su una sua interpretazione corretta dal punto di vista del diritto comunitario. Secondo parte della dottrina (FICARI, Agevolazioni fiscali alle fondazioni, in Dir. prat. trib., 2008, p. 233) la effettività della tutela giurisdizionale dei diritti potrebbe indurre a ritenere che ciò sia pos-sibile nei soli gradi di merito.

21 Nella sentenza Corte di Giustizia UE, 5 ottobre 2006, causa C-232/05, è stato afferma-to che, il beneficiario di un aiuto dichiarato incompatibile, che avrebbe potuto impugnare la decisione della Commissione, non può contestare la legittimità della medesima dinanzi ai giudici nazionali nell’ambito di un ricorso proposto avverso i provvedimenti presi dalle au-torità nazionali in esecuzione di questa decisione, né invocare l’effetto sospensivo della ri-scossione. Ammettere infatti che in circostanze del genere l’interessato possa, dinanzi al giu-

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pea svolge invece un ruolo fondamentale e dispone di un’ampia discreziona-lità nella valutazione delle eccezioni ossia dei casi di agevolazioni fiscali che non rientrano nella sfera degli aiuti di Stato

22. Inoltre, a seguito di mancata comunicazione alla Commissione da parte dello Stato membro delle norme che istituiscono o modificano gli aiuti, non è offerta al beneficiario la possi-bilità di attivare autonomamente la procedura volta alla verifica della com-patibilità con il divieto di aiuti di Stato prevista dagli artt. 107 e 108 del Trat-tato

23. Tutto ciò rappresenta una deroga ingiustificata al principio di leale collaborazione dei Paesi membri ed in particolare del giudice nazionale il quale non potrà garantire l’applicazione immediata delle norme in materia di aiuti di Stato compromettendo la tutela diretta effettiva del contribuente (e il suo diritto di difesa) riconosciuta dalle stesse norme comunitarie. Inoltre, anche se il primato della norma comunitaria su quella interna tributaria è oramai acquisito in ogni caso quale espressione di una supremazia gerarchi-ca riconosciuta dagli Stati che hanno stipulato il TUE ed è pari a quella delle norme costituzionali

24, non è da condividere, se non eccezionalmente, la ten-denza emersa più volte nella giurisprudenza della Corte di Giustizia

25 di supe- dice nazionale, opporsi all’esecuzione della decisione comunitaria eccependo l’illegittimità di quest’ultima, equivarrebbe a riconoscergli la possibilità di eludere il carattere definitivo della decisione nei suoi confronti dopo la scadenza del termine di ricorso previsto all’art. 230, comma 5, CE (v., in tale senso, sentt. 9 marzo 1994, causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, in Racc., pp. I-833, punti 17 e 18, e 15 febbraio 2001, causa C-239/99, Nachi Europe, in Racc., pp. I-1197, punto 37).

22 In tal senso sentenze v. Corte di Giustizia UE del 19 agosto 2000, causa C-156/98, del 21 marzo 1991, causa C-303/88, Italia/Commissione e causa C-156/98 del 19 settembre 2000. In diverse sentenze la Corte di Giustizia UE ha ribadito che «il Trattato conferisce alla Commissione un ampio potere discrezionale di dichiarare determinati aiuti compatibili con il mercato comune in deroga al divieto generale». La Corte di Giustizia si è pronunciata sulle limitazioni delle giurisdizioni nazionali in materia e, nella sent. 11 luglio 1996, causa C-39/94 e dell’8 novembre 2001, causa C-143/99, ha stabilito che «i giudici non possono pronun-ciarsi sulla compatibilità delle misure di aiuto con il mercato comune, essendo tale valutazio-ne di esclusiva competenza della Commissione, sotto il controllo della Corte».

23 LUJA, Legal Protection of the Diligent Recipient of Fiscal State Aids, Relazione tenuta al convegno di Cetara-Salerno del 14 giugno 2008.

24 L’art. 2, comma 1, lett. b) della L. 7 aprile 2001, n. 8 nella prima parte, prevede l’ade-guamento delle norme fiscali ai principi dell’ordinamento comunitario. Tra questi assu-mono prevalenza le libertà fondamentali di circolazione.

25 Corte di Giustizia CE, sentt. 1° giugno 1999, causa C-126/97, Eco Swiss (Racc., pp. I-3055); 28 giugno 2001, causa C-118/00, Larsy (Racc., pp. I-5063); 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Wells (Racc., pp. I-723), nonché 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Khne & Heitz (Racc., pp. I-83); 18 luglio 2007, causa C-119/05, Lucchini, causa C-2/09 del 24 marzo 2009, Olimpiclub.

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rare, nel rispetto dell’effettività e al solo scopo di garantire il recupero degli aiuti fiscali incompatibili, limiti fondamentali di diritto interno come quello dei rapporti esauriti ed a relativizzare ad es. il valore del giudicato nazionale.

L’altro aspetto che ha contribuito a fortificare notevolmente le fonti e i principi di natura comunitaria è il riconoscimento della responsabilità del giudice tributario nazionale che viola il diritto UE e non opera il rinvio pre-giudiziale alla Corte di Giustizia.

Il giudice nazionale di ultima istanza è soggetto infatti all’obbligo di ri-messione alla Corte di Giustizia la questione di interpretazione di una nor-ma comunitaria rilevante ai fini della decisione sollevata da una delle parti. Gli unici casi in cui si può decidere di non rinviare la causa al giudice euro-peo si verificano quando la corretta applicazione della stessa norma si impone con evidenza tale da non lasciar spazio a ragionevoli dubbi, e dunque nel caso in cui ritenga di essere in presenza di un acte claire, che, in ragione dell’esi-stenza di precedenti pronunce della Corte, ovvero della “evidenza” dell’in-terpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale

26 e quan-do non ritenga la questione rilevante ai fini della decisione. È ormai comun-que acclarata in tali casi la responsabilità del giudice per violazione dell’ob-bligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE.

Già nella sent. Kobler, C-224/01 del 2003 si è ricordato che la Corte ha ivi statuito il principio in base al quale uno Stato membro (qualunque sia l’orga-no di tale Stato la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione) è obbligato a risarcire i danni arrecati ai singoli in dipendenza della violazione del diritto comunitario e del mancato rinvio alla Corte di Giustizia

27. La mancata osservanza da parte dell’organo giurisdizionale dell’obbligo

di sollevare la questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE (ex art. 234 TUE), porta a considerare presunta la violazione, manifesta del

26 V. Corte di Giustizia UE, 6 ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit, da ult., Cass. n. 22103/2007.

27 La Corte di Giustizia precisa che la responsabilità non può essere limitata ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove tale limitazione ne escluda la sussistenza nel caso in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto comunitario. Anzi, essa può an-che sorgere nel caso in cui la palese violazione del diritto comunitario risulti da un’inter-pretazione delle norme di diritto o da una valutazione dei fatti e delle prove. CENTORE, La responsabilità del giudice nazionale, in GT-Riv. giur. trib., 2006, p. 751, osserva relativamente a tale caso che la posta in giuoco è la (pretesa) “indipendenza” del giudice nazionale il qua-le, secondo la tesi della difesa del Governo nazionale, dovrebbe essere libero di interpreta-re il diritto comunitario, senza alcuna responsabilità ove l’argomentazione sia esaustiva e l’infrazione alla norma comunitaria non sia evidente.

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diritto comunitario quando la decisione interessata intervenga ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di pri-mato del diritto comunitario ed impone a tutte le istanze dello Stato mem-bro, ivi comprese le giurisdizioni superiori (sentt. Kobler e Traghetti del Me-diterraneo, C-173/03 del 2006

28 di dare pieno effetto alla norma comunita-ria, disapplicando, se del caso, disposizioni processuali nazionali.

3. Il contrasto giurisprudenziale sulla unicità delle fonti (interne ed UE) di diritto tributario

Le considerazioni sin ora svolte sulla incompleta integrazione dei sistemi fiscali nazionali, sulla competenza ancora formalmente esclusiva degli Stati membri in materia di imposte dirette e sul ruolo invasivo svolto dalla Com-missione in materia di aiuti di stato, potrebbero indurre a ritenere che è ne-cessario considerare formalmente separati i due ordinamenti (Nazionale e UE). Tuttavia in un sistema tributario in cui si vanno sempre più afferman-do e rafforzando le fonti comunitarie in grado di incidere più di ogni altra regola sulle politiche fiscali nazionali, sarebbe quanto mai opportuno supe-rare definitivamente la tesi della separazione e dell’autonomia tra i due or-dinamenti

29. Di recente non sono mancati infatti tentativi giurisprudenziali volti a non ammettere la possibilità della norma del TUE di rappresentare nell’ordinamento nazionale un parametro unitario e autonomo come sem-brerebbe invece discendere dalla nuova formulazione dell’art. 117 Cost. e ad affermare la estraneità delle norme comunitarie al sistema delle fonti in-

28 Nel caso Traghetti del Mediterraneo è stato chiarito con riguardo al rifiuto opposto dalla Corte di Cassazione alla sua richiesta di sottoporre alla Corte le pertinenti questioni di interpretazione del diritto comunitario che: «osta ad una legislazione nazionale che esclu-da, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ul-timo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale re-sponsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente».

29 Tale tesi è sostenuta dalla dottrina maggioritaria costituzionalista. V. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, p. 195.

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terne, intravedendo nell’unicità un rischio di sovrapponibilità rispetto alle norme costituzionali

30. Se si dovesse trovare una logica posta a base di tale distinzione in materia

tributaria, essa andrebbe unicamente rilevata nella limitazione o ridimen-sionamento che alcuni principi costituzionali come gli artt. 3, 23 e 53, come esaminato, subiscono quando si verificano fattispecie intracomunitarie ove operano principi di diritto europeo.

Tuttavia a ben vedere è proprio tale ritorno alla teoria dualistica 31, alla

separazione tra gli ordinamenti ed all’estraneità delle norme UE al sistema delle fonti, a favorire tale ridimensionamento ed a creare conflitti e sovrap-posizioni di competenze in particolare tra organi interni e comunitari su questioni e casi limite tra diritto interno ed europeo nella regolamentazione

30 Cass. n. 17564/2002. Più di recente con sent. n. 15210/2012 la Cassazione ha rite-nuto che è pacifico che il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna per incom-patibilità comunitaria anche nel caso di conflitto con regole generali di tale ordinamento UE dettate dalla Corte di Giustizia, tuttavia non è affatto sovrapponibile tale vicenda a quella della dichiarazione di incostituzionalità. Nella sent. Corte cost. n. 125/2009 richiamata dalla Cassazione si afferma che i due ordinamenti sono configurati come autonomi e di-stinti, ancorché coordinati. Le norme comunitarie hanno diretta applicazione nell’ordina-mento italiano ma rimangono estranee al sistema delle fonti. GALLO, Ordinamento comuni-tario e principi fondamentali tributari, Napoli, 2006, p. 17 ritiene che l’unico spazio riserva-to agli ordinamenti nazionali attiene ai principi e diritti fondamentali e che la teoria duali-sta acquista nuova forza perché la riserva di giurisdizione della Corte nazionale in tema di controlimiti deriva dalla costrizione teorica secondo cui, i due ordinamenti comunitario e nazionale, sono autonomi ma tra loro coordinati.

31 Secondo DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Mi-lano, 2010, p. 24, i principi generali comuni introdotti nell’ordinamento europeo operano essenzialmente sul piano interpretativo e sono selezionati in funzione della loro com-patibilità con il diritto comunitario. Tali principi assumono rilevanza nell’ambito del dirit-to europeo come vere e proprie norme giuridiche e influenzano gli ordinamenti nazionali degli stati membri ... Al di là delle tendenze evolutive sembra prevalere la tesi dualistica della separazione, rispetto alla tesi monistica dell’integrazione in ragione del fatto che per la materia tributaria non emergono peculiarità di sorta; per cui gli studi tributari debbono basarsi sui risultati raggiunti dalla dottrina e dalla giurisprudenza di naturale e specifica com-petenza. Per un esame sui rapporti tra ordinamento tributario interno e comunitario. V. SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, in Dir. e prat. trib. int., 2001, p. 13 s.; BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari, Padova, 2008, IN-GRAO, Dalle teorie moniste e dualiste all’integrazione dei valori nei rapporti tra diritto interno e comunitario alla luce del Trattato di Lisbona, in Riv. dir. trib., 2010, p. 230. La tesi dualista prevede il rispetto dei vincoli comunitari riconoscendone la superiorità delle norme co-munitarie che restano tuttavia estranee al sistema delle fonti interne ma ipotizza i c.d. con-trolimiti rappresentati dai principi fondamentali e dai diritti inviolabili.

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e nell’interpretazione di singole fattispecie. L’unicità dell’ordinamento e delle fonti (Cost. e UE) rende invece più semplice il loro coordinamento in ambito europeo

32 realizzabile anche a livello interno attraverso una riparti-zione esatta delle competenze tra Stati membri e UE nel rispetto del princi-pio della continenza e della sussidiarietà, evitando che la giurisdizione della Corte di Giustizia diventi illimitata, assorbendo quella delle Corti costitu-zionali o delle Supreme Corti. L’unicità che presuppone certamente un’ar-monia ed un’integrazione tra i principi comuni dei due ordinamenti ed il contemperamento tra i valori e diritti costituzionalmente garantiti a livello nazionale come la capacità contributiva (che non devono più essere conside-rati controlimiti) e gli interessi del mercato e della concorrenza che ispirano il sistema europeo, si giustifica e si regge su un dato di fatto incontestabile rappresentato dalla sfera applicativa delle norme comunitarie operanti in materia fiscale che dovrebbe vedere coinvolti direttamente e indirettamente soggetti non residenti e fattispecie intracomunitarie, ma che sempre più spesso riguarda fattispecie (puramente) interne che non hanno alcun colle-gamento economico tangibile con il mercato europeo

33. Si pensi ad es. al divieto di restrizioni alle libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali, o alle restrizioni interne (home state restrictions) o al divieto abuso del diritto.

È evidente che un sistema unitario garantisce maggiormente il diritto di difesa e la tutela dell’affidamento dei contribuenti attraverso l’applicazione di principi e il riconoscimento di diritti fondamentali riconosciuti a livello europeo, estendendo la loro portata applicativa che è in grado di rendere immuni gli stessi divieti comunitari talvolta eccessivamente penalizzanti per i contribuenti. Indispensabile in tale quadro è una giurisdizione tributaria

32 BORIA, op. cit., p. 22, secondo il quale laddove il principio di competenza non ponga rimedio alla sovrapposizione delle potestà normative dando luogo a zone grigie regola-mentari, la soluzione va ricercata nella dialettica dei valori e degli interessi secondo un modello di coesistenza tipico degli assetti normativi ispirato al pluralismo. La frantuma-zione del sistema tributario produce una destrutturazione ideologica. V. sul tema MELIS, Coordinamento fiscale nell’Unione Europea, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 2011, se-condo il quale «Il coordinamento fiscale europeo viene a delineare la cornice nella quale la potestà tributaria nazionale deve esplicarsi onde perseguire un sistema unitario e coerente».

33 Si riteneva che l’unico limite insuperabile che incontra il diritto dell’UE, in mancanza di una base giuridica comune nei Paesi membri UE, è rappresentato dalle situazioni pura-mente interne e da quelle interne che regolano allo stesso modo sia fattispecie interne che intracomunitarie (Corte di Giustizia CE, 24 novembre 1993, C-267/91, Keck, vendita merci sottocosto). Il rafforzamento e l’espansione dei principi di diritto europeo tuttavia non consentono oggi più di individuare tale confine.

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unica in cui ai contribuenti-ricorrenti sono riconosciuti principi e regole processuali comuni (pienamente applicabili) da eccepire allo stesso modo innanzi al giudice nazionale

34 e nel rispetto della leale collaborazione Stati membri-UE

35.

4. Il rischio della ripartizione settoriale degli ordinamenti tributari nazionali in sottosistemi

L’applicazione di norme comunitarie come quelle del TFUE è partico-larmente frequente in materia tributaria ove maggiori sono le implicazioni di tipo economico e finanziario e ove è evidente l’influenza sulla concorren-za e sul libero mercato, e la loro efficacia nell’ordinamento nazionale e sul sistema gerarchico delle fonti. Il TFUE fissa come è noto principi comuni e consente il riconoscimento di diritti e doveri ai quali si ispira l’ordinamento comunitario che riguardano lo sviluppo coerente ed equilibrato delle attivi-tà economiche nel territorio europeo.

Le norme primarie del TFUE e l’elaborazione di queste ultime compiuta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, attraverso la sua attività inter-pretativa, rafforzano la sfera di diritto posta a garanzia del contribuente in quanto sanciscono principi fondamentali come quello dell’effettività e del-l’equivalenza del procedimento tributario, oltre al principio della tutela del-l’affidamento, della proporzionalità e della neutralità che incidono sul dirit-to sostanziale, procedimentale e processuale tributario e non possono ri-guardare solo una parte di esso. Affianco a tali diritti sorgono anche doveri o obblighi in materia tributaria imposti dalla UE a carico del legislatore e dei

34 Cass. 17 febbraio 2006, n. 3525 e n. 16130/2007. 35 Cass. n. 7915/2002. Per una precisa individuazione della giurisdizione fiscale della

Corte di Giustizia, assume importanza fondamentale il principio della sussidiarietà, non inteso quale limitazione all’applicazione del diritto comunitario nel settore delle impo-ste dirette, ma quale criterio di ripartizione della giurisdizione tra Stato e UE in materia tributaria con priorità delle Corti nazionali, in grado di fornire chiarezza sulla disciplina di quelle situazioni che si pongono al limite tra diritto interno e comunitario. Attraverso la sussidiarietà la giurisdizione tributaria comunitaria spetta oltre alla Corte di Giustizia UE laddove è indispensabile, alle Corti nazionali le quali interpretano le libertà econo-miche del Trattato secondo gli orientamenti di diritto comunitario e, solo in casi ben individuati, rinviano al questione alla Corte di Giustizia, considerato che la finalità del-l’intervento di tale ultimo organo è quella di garantire l’uniforme applicazione del diritto nei Paesi membri.

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contribuenti come il rispetto del divieto di aiuti di stato 36, delle restrizioni

fiscali e più di recente del principio dell’abuso del diritto 37 che sono oramai

radicati nel nostro ordinamento ed hanno ispirato diversi interventi norma-tivi in materia di imposte dirette e indirette

38. Tali diritti e doveri di origine UE contribuiscono alla realizzazione di quel procedimento inarrestabile co-nosciuto come integrazione fiscale negativa dagli Stati ed, attraverso gli artt. 10, 11 e 117 Cost. (che fissa il doppio vincolo Cost. e UE), hanno la stessa efficacia nei confronti del nostro legislatore nazionale, del giudice e dell’A.F. di norme costituzionali.

L’evoluzione interpretativa ad opera della giurisprudenza comunitaria delle norme primarie del Trattato e delle libertà fondamentali, ha determi-nato, se pur in diversa misura, il condizionamento dell’intera sfera dell’ordi-namento tributario nazionale (tributi c.d. armonizzati e non) incluso quella delle imposte dirette che non è di competenza esclusiva, né concorrente dell’UE. Il settore dei tributi armonizzati o comunitarizzati tuttavia, essendo

36 Gli artt. 107 e 108 TFUE (ex artt. 87 e 88), volti ad assicurare l’eliminazione di ogni forma di distorsione alla concorrenza a livello intracomunitario, costituiscono infatti, co-me esaminato, uno dei maggiori vincoli alla potestà tributaria nazionale e locale e riducono notevolmente la discrezionalità dell’A.F. e del giudice tributario.

37 L’espansione del principio comunitario dell’abuso del diritto è rilevabile dalla recente sent. Cass. 12 agosto 2012, n. 14494 ove si afferma che l’esistenza nell’ordinamento tributa-rio del generale divieto di abuso del diritto consente il disconoscimento degli effetti di qua-lunque negozio posto in essere solo per vantaggi fiscali anche se, al tempo della violazione, la norma ad hoc non esisteva. È sufficiente il generale canone antielusivo che impedisce qua-lunque indebito risparmio di imposta. Vige nell’ordinamento italiano un principio generale antielusivo che si radica nella Costituzione e che batte ogni riferimento temporale.

38 Tra i recenti interventi che maggiormente hanno tenuto presente gli orientamenti della giur. interna e UE va annoverato certamente l’art. 3, comma I del disegno di legge dele-ga per la riforma del sistema fiscale, approvato dal Consiglio dei ministri ottobre 2012, n. 394 e non dal Parlamento in materia di abuso del diritto che tende unificare le disposizioni antielusive al principio di abuso del diritto e si estende anche ai tributi non armonizzati.

Nel disegno di legge delega citato, la condotta abusiva viene identificata nell’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione. Detti strumenti sono inopponibili all’amministrazione fiscale alla quale viene riconosciuto il potere di disconoscere il relativo risparmio di imposta. In ordine alla tutela del contribuente sotto il profilo della libertà di scelta si esclude la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali. La valutazione delle ragioni extrafiscali richiesta da tale norma non può tuttavia prescindere da un ampliamento o da una nuova disciplina del siste-ma probatorio (richiesta dalla stessa delega alla lett. d) e possiamo aggiungere, dall’elimi-nazione di preclusioni che secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia, rendono dif-ficile o impossibile il diritto di difesa.

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disciplinato non solo da principi, ma anche da una normativa UE specifica, segue regole particolari che giustificano interventi ancor più rigorosi e vin-colanti per il legislatore nazionale (v. di abuso del diritto, aiuti fiscali, condo-no e transazione fiscale)

39. Ciò ha provocato un fenomeno del tutto partico-lare di ripartizione interna e settoriale degli ordinamenti tributari degli Stati membri UE che deriva e si fonda sulla teoria della separazione tra gli ordi-namenti nazionale e UE e sulla mancanza di unicità dei sistemi fiscali nazio-nali europei. Tale suddivisione interna riguarda più in particolare due sotto sistemi nell’ambito di quelli nazionali:

– un primo comprendente il settore IVA, dei tributi c.d. armonizzati e quello delle agevolazioni fiscali alle imprese vincolate dagli aiuti di stato, la cui disciplina risulta sempre meno espressione della sovranità fiscale nazio-nale e che talvolta sfugge dalla sfera applicativa dei principi costituzionali

40 rientrando unicamente in quella comunitaria;

– un secondo concernente le imposte dirette e dei tributi non armonizza-ti regolato da principi e disposizioni diverse prevalentemente nazionali, che subisce la forte ma non totale influenza dei principi del TFUE come i divieti di restrizione e di discriminazione.

All’interno dei due sottosistemi operano dunque diversi principi che in-vestono anche le regole procedurali e che garantiscono diritti e impongono doveri del contribuente in maniera differente in materia tributaria. Il princi-pio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, il contrasto alla frode, l’in-teresse fiscale e l’effettività sono particolarmente garantiti in materia di IVA e di aiuti di stato al punto che ogni forma di transazione, condono o sanato-

39 DEL FEDERICO, Le controversie sul recupero degli aiuti di Stato nella giustizia tributaria italiana, in questa Rivista, 2012, p. 626, ricorda che oltre ai rigori della Corte di Giustizia in materia di aiuti di stato, si può pensare ai condoni, all’IVA, al divieto di abuso del diritto e alla disapplicazione del giudicato.

40 Vedi una serie di norme interne come quelle in materia di fiscalità locale (di sviluppo) o transazione fiscale, IVA e di tutela cautelare in caso di recupero di aiuti che pongono un solo limite o vincolo quello comunitario.

La lett. mm), comma I, art. 2, L. n. 42/2009 nel prevedere, la possibilità da parte degli enti locali di ricorrere a forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa nelle aree sottoutilizzate, fissa quale unico limite la conformità con il diritto comunitario. Allo stesso modo l’art. 40, L. n. 78/2010 nel prevedere tra le mi-sure di sviluppo la fiscalità di vantaggio per le regione del mezzogiorno, impone il rispetto della normativa UE sugli aiuto di stato e gli orientamenti della Corte di Giustizia. Una com-petenza quasi esclusiva comunitaria in tale settore sembra dunque evincersi dalla lettura di tali norme.

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ria che ostacola comunque il controllo o il recupero di imposte, è considera-ta incompatibile con il diritto dell’UE. Gli stessi principi non trovano appli-cazione sempre nella sfera dei tributi c.d. non armonizzati e possono deter-minare un doppio binario all’interno del sistema fiscale e delle procedure nazionali

41. La principale giustificazione di tale ripartizione viene individuata nella

diretta applicabilità dei principi comunitari sui quali si basano ad es. le diret-tive che prevedono un regime e una disciplina giuridica comune nei Paesi membri come quella IVA. Ciò determina, diversamente dal settore delle im-poste dirette (escluso il sistema agevolativo delle imprese), l’applicazione di regole generali di diritto dell’UE anche di origine giurisprudenziale in assen-za di clausole interne di adattamento o in presenza di norme nazionali dif-formi.

Inoltre, sempre per l’IVA va individuata una giustificazione chiaramente di tipo economico ancor più rilevante che si basa sulla destinazione di una parte del gettito di tale imposta quale risorsa propria UE del bilancio comu-nitario

42. Per tale ragione alla prevenzione di fenomeni di frode, abuso e sot-trazione di tale tributo, è sempre stata dedicata maggiore attenzione in am-bito UE. Secondo la Corte di Giustizia UE «la lotta contro ogni possibile fro-de, evasione ed abuso è un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta di-rettiva». Il sistema antielusivo dell’IVA europeo con l’abuso, diversamente da quanto avviene per le imposte dirette, diventa in tal modo autosufficiente.

Per quanto riguarda l’applicazione del divieto di aiuti di stato sembra or-mai acclarato che secondo il diritto UE, la tutela della concorrenza debba ritenersi un interesse superiore in grado di legittimare interventi penetranti a livello procedimentale e processuale tributario nazionale. I riflessi negativi

41 Il rischio che può verificarsi in materia di abuso del diritto in mancanza di attuazione della delega è quello di un doppio binario: contestazioni in materia di IVA e tributi armo-nizzati basate su criteri comunitari e quelle sulle altre imposte basate sulla disciplina antie-lusiva nazionale. La recente legge delega di riforma fiscale all’art. 3 esaminato nelle note precedenti, è volta a revisionare le attuali disposizioni antielusive per uniformarle all’abuso del diritto. Una disciplina omogenea consente il riconoscimento delle stesse garanzie ai contribuenti.

42 Il comma 1 dell’art. 182 ter fall., R.D. n. 267/1942 che disciplina la transazione fisca-le prevede che non possono rientrare nella proposta di pagamento parziale dei tributi am-ministrati dalle agenzie fiscali i tributi costituenti risorse proprie dell’UE. Con l’art. 32, comma 5, D.L. n. 185/2008 è stato chiarito dal legislatore che il riferimento alle risorse proprie da parte dell’art. 182 ter per le quali non è prevista la transazione fiscale, include anche l’IVA.

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di questa espansione attraverso regole stringenti di diritto UE che coinvol-gono la sfera agevolativa fiscale d’impresa e della mancanza di unicità del si-stema talvolta accettata passivamente dal nostro ordinamento e dalla giuri-sprudenza nazionale, vanno individuati nell’iniquità che genera uno svilup-po non armonico dei singoli ordinamenti tributari nazionali ed un sistema procedimentale differenziato. I procedimenti di accertamento, di riscossio-ne e il contenzioso tributario nazionali non possono differire infatti in rela-zione al solo settore IVA ed a quello agevolativo rivolto alle imprese rientran-te nel regime degli aiuti di Stato, anche se il potenziamento di tali attività di controllo e repressione frodi attraverso principi UE riguarda prevalentemente queste due aree della fiscalità.

La necessità di adottare politiche fiscali uniformi e coordinate a livello eu-ropeo, dettata prevalentemente da motivazioni economiche e finanziarie e dall’assorbimento nel diritto UE dei diritti fondamentali, impone il rispetto da parte del legislatore nazionale di principi europei comuni che dovrebbe-ro essere posti a garanzia dei contribuenti. Ciò richiede tuttavia un nuovo as-setto normativo in grado di revisionare il sistema delle competenze UE, coor-dinandole con quelle costituzionali e riconoscendo ad entrambe pari digni-tà, al fine di garantire l’unicità e il rafforzamento dei diritti sanciti dagli ordi-namenti tributari nazionali, oltre a superare ingiustificate distinzioni setto-riali interne basate su interessi considerati irragionevolmente prevalenti ri-spetto ad altri.

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Stefano Dorigo

DOPPIA IMPOSIZIONE INTERNAZIONALE E DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

INTERNATIONAL DOUBLE TAXATION AND EU LAW

Abstract La doppia imposizione costituisce, senza dubbio, un ostacolo alla circolazione dei fattori produttivi nel contesto dell’UE. Il rischio di subire un duplice prelievo può, infatti, dissuadere un soggetto dall’avvalersi delle libertà fondamentali. No-nostante ciò, la Corte di Giustizia non ha finora affermato l’esistenza di un gene-rale divieto di doppia imposizione siccome contrario a tali libertà. La Commis-sione ha invece più volte richiamato l’attenzione degli Stati membri sulle distor-sioni al sistema comune che l’esercizio non coordinato della potestà impositiva da parte di questi può realizzare. La contrarietà della doppia tassazione al diritto dell’Unione può, peraltro, essere affermato sulla base delle norme del Trattato che tutelano la proprietà, richiamando anche la giurisprudenza della CEDU. Non è detto, infine, che non sia lo stesso diritto internazionale generale ad in-fluenzare il sistema europeo, mediante l’individuazione di una norma consuetu-dinaria in via di formazione. Parole chiave: doppia imposizione, libertà fondamentali, Corte di Giustizia UE, diritto di proprietà, consuetudine internazionale Double taxation represents a clear obstacle to the free circulation of economic factors within the EU. The risk to be subject to a double taxation could dissuade a person to exercise the fundamental freedoms of movement. Until now, the European Court of Justice has not recognized the existence of a general principle prohibiting double taxa-tion. However, the European Commission has frequently highlighted the damages to the functioning of the common system that the uncoordinated taxation by two or more States is able to realize. The conflict between double taxation and EU law could probably be solved through the norms which guarantee the right of property, read in the light of the jurisprudence of the ECHR. Moreover, if one could recognize the pro-

2.

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gressive formation of a customary rule prohibiting double taxation, this should influ-ence the attitude of the EU system. Keywords: double taxation, fundamental freedoms, EU Court of Justice, right of property, international customary law

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Doppia imposizione e ordinamento europeo: la posizione della Commis-sione. – 3. La posizione dei Trattati rispetto alla doppia imposizione. – 4. L’ondivaga interpre-tazione della Corte di Giustizia con riferimento alle libertà fondamentali di circolazione. – 5. La sostanziale contrarietà della doppia imposizione alle libertà fondamentali. – 6. Doppia imposi-zione e tutela della proprietà: verso un nuovo approccio al problema. – 7. Il divieto di doppia imposizione come norma di diritto internazionale generale operante nel sistema dell’UE. – 8. Conclusioni.

1. Introduzione

Il fenomeno della doppia imposizione internazionale deriva dalla con-vergenza delle pretese avanzate da due o più Stati rispetto ad una medesima fattispecie imponibile: un reddito prodotto dal cittadino o dal residente di uno Stato nel territorio di un altro Stato rappresenta, infatti, un fatto indice di capacità contributiva collegato sia all’uno (tramite il criterio della cittadi-nanza o della residenza) che all’altro (tramite il criterio della fonte), onde può sembrare giustificato in linea di principio che entrambi esercitino in via concorrente il proprio potere originario sottoponendo a tassazione, ciascu-no per proprio conto e sulla base dei rispettivi criteri di collegamento, il reddito medesimo

1. Problemi di tal genere, peraltro, sono rimasti a lungo meri esercizi teori-

ci, vista la difficoltà che fino a tempi piuttosto recenti caratterizzava lo spo-stamento degli individui e dei fattori produttivi al di fuori dei confini nazio-nali

2. Soltanto negli ultimi decenni il fenomeno ha attirato la riflessione di

1 Sul punto, per un inquadramento del fenomeno della potestà impositiva nel contesto dei rapporti internazionali, si può rinviare a CORDEIRO GUERRA, Diritto tributario interna-zionale. Istituzioni, Padova, 2012, p. 3 ss. Si vedano anche, per un approccio di tipo generale, FANTOZZI-VOGEL, (voce) Doppia imposizione internazionale, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1996, p. 182 ss.

2 Già nei primi decenni del ’900, tuttavia, si svilupparono alcune riflessioni sul fenome-

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giuristi ed economisti, a causa del grande incremento nella mobilità delle per-sone e dei capitali e, quindi, della conseguente possibilità di produrre redditi in luoghi diversi e distanti dal proprio paese di residenza

3. Questa situazio-ne ha, quindi, comportato un più ampio dibattito intorno ai possibili rimedi esperibili al fine di sottrarre un operatore economico agli oneri, potenzial-mente assai elevati, derivanti dal completo soddisfacimento delle pretese fi-scali avanzate da tutti gli Stati coinvolti.

L’orientamento maggioritario sostiene l’impossibilità di reperire nel di-ritto internazionale generale un divieto alla doppia imposizione internazio-nale

4, dal momento che gli Stati, proprio in quanto enti autonomi e posti su un piano di parità internazionale, sarebbero liberi di sottoporre a tassazione tutti i fatti economici con i quali presentano un certo grado di collegamento, senza che a ciò possa ostare l’esercizio di una concorrente potestà da parte di un diverso Stato

5. Gli interessi patrimoniali dell’individuo sottoposto al duplice prelievo sono dunque soccombenti nei confronti del potere sovrano di ciascuno Stato di stabilire e riscuotere le imposte su determinati fatti in- no e sugli effetti negativi che esso poteva produrre sulla condizione dell’individuo ad esso sottoposto. Non è difficile immaginare, infatti, la situazione in cui il duplice prelievo sul me-desimo reddito attuato dai due Stati coinvolti abbia l’effetto pratico di ridurre fortemente (o addirittura di annullare) il margine residuo di guadagno che il soggetto interessato può ritrarre dalla attività economica svolta.

3 Per un ampio inquadramento delle problematiche derivanti dall’esercizio della pote-stà fiscale su fattispecie collegate con più ordinamenti si veda CORDEIRO GUERRA, I limiti alla potestà impositiva ultraterritoriale, in questa Rivista, n. 1, 2012, p. 31 ss.

4 In tal senso TARIGO, La doppia imposizione giuridica internazionale come fattispecie, Ed. provvisoria, Genova, 2004, p. 103. Manifesta una posizione diversa CORDEIRO GUERRA, Di-ritto tributario internazionale, cit., secondo il quale la prassi ripetuta e costante di conclude-re convenzioni contro le doppie imposizioni «potrebbe (...) evidenziare anche una corri-spondente opinio juris degli Stati in merito alla doverosità della finalità che tramite tali convenzioni si intende realizzare» (p. 105).

5 Come si vede, l’idea da cui muove questa posizione interpretativa è quella, tradizionale, che fa leva sull’autorità originaria ed illimitata propria di ciascuno Stato di stabilire le situa-zioni suscettibili di essere sottoposte al prelievo fiscale, un potere che nessun altro ente sovrano può diminuire o impedire se non con il consenso del primo. V., ex pluribus, ADON-NINO, Doppia imposizione, in Enc. giur. Treccani, XII, Roma, 1989, p. 2 ss.; CHRÈTIEN, A la recherche du droit international fiscal commun, Parigi, 1955; DORN, Diritto finanziario e que-stioni fondamentali sulle doppie imposizioni, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1938, I, p. 120 ss.; NI-BOYET, Les doubles impositions au point de vue juridique, in Recueil des Cours de l’Academie de Droit International, 1930, I, p. 25; NORR, Jurisdiction to Tax and International Income, in Tax Law Review, 1962, p. 431; SACCHETTO, Le fonti del diritto internazionale tributario, in SACCHETTO-ALEMANNO (a cura di), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, p. 6 ss.; VOGEL, Double Taxation Conventions, The Hague-London-Boston, 1997, p. 12.

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dice di capacità contributiva. Ciò con l’unico limite, salva la previsione di misure normative interne, della stipulazione di convenzioni internazionali tra-mite le quali due o più Stati stabiliscono regole uniformi di tassazione di de-terminati fatti economici, proprio al fine di evitare che essi possano andare soggetti ad una doppia imposizione.

Effettivamente, la prassi delle convenzioni bilaterali si va sempre più dif-fondendo, offrendo in tal modo agli operatori economici uno strumento per sottrarsi alle conseguenze negative della doppia tassazione internazionale. Non è detto, peraltro, che la presenza di una convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni invocabile nella fattispecie concreta consenta di risol-vere la questione ed evitare così il duplice prelievo. Può verificarsi infatti un conflitto interpretativo tra i due Stati in merito alla portata ed agli effetti del-la singola norma

6, ciò che rischia di condurre ad una paralisi della procedura concordata, in assenza di regole vincolanti per la soluzione del dissenso

7. Si può fare l’esempio di una disposizione convenzionale che, nel conflitto tra i due Stati, attribuisca l’esclusiva competenza allo Stato di residenza del con-tribuente ed entrambi, sulla base delle rispettive norme interne e dell’art. 4 della Convenzione, ritengano di poter agire alla stregua di Stato di residenza fiscale del contribuente medesimo.

Quale che sia l’approccio corretto da assumere, nel contesto internazio-nale, con riferimento alla questione della liceità della doppia imposizione (e su questo torneremo in chiusura del presente scritto), quel che è certo è che questa manifesta una rilevanza del tutto particolare nel contesto dell’UE

8. Vi è, insomma, un orizzonte europeo che deve essere necessariamente tenu-to presente, in modo da valutare i caratteri – e i possibili esiti – del dibattito

6 Come ricordato di recente dalla Commissione, «gli strumenti vigenti di eliminazione della doppia imposizione non sempre funzionano in modo efficace. In particolare, le di-sposizioni della CDI non sono interpretate e attuate in maniera uniforme dagli Stati mem-bri interessati» (Comunicazione COM(2011)712 definitivo del 11 novembre 2011). Nel-lo stesso senso si esprimono KOFLER-MASON, Double Taxation: A European “Switch in Time”?, in Columbia Journal of European Law, 2007, p. 63 ss., p. 68.

7 Va ricordato che la procedura amichevole, di cui all’art. 25 del Modello OCSE, non è destinata a produrre un obbligo in capo agli Stati coinvolti di raggiungere una soluzione concordata. Le modifiche introdotte a tale disposizione nel 2008, con la previsione di una procedura arbitrale i cui esiti siano vincolanti per gli Stati contraenti, non sono ovviamente ancora state recepite nella gran parte delle convenzioni bilaterali preesistenti.

8 Per una interessante correlazione tra i due ambiti citati, si veda MAISTO, Le interrela-zioni tra “diritto tributario comunitario” e “diritto tributario internazionale”, in Riv. dir. trib., 2006, p. 865 ss.

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Stefano Dorigo

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alla luce dei principi e delle regole valevoli nell’ambito di tale ordinamento. Occorre indagare se, allo stato attuale, un divieto di doppia tassazione faccia già parte dell’ordinamento giuridico europeo e sia, perciò, capace di imporsi sugli ordinamenti degli Stati membri in conseguenza della ben nota supre-mazia del diritto dell’Unione sul diritto nazionale

9. Si potrebbe obiettare che la questione è, nel contesto europeo, di rilevan-

za esclusivamente teorica, attesa l’esistenza di convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni tra Stati membri idonee ad eliminare, nella pratica, i fenomeni di doppia imposizione. Tuttavia, l’utilità di una riflessione in me-rito discende sia dal fatto che la rete di convenzioni tra gli Stati membri è ancora oggi lungi dall’essere completa, essendovi casi nei quali un trattato fi-scale manca; sia, ancor più, dalla considerazione che, come si è accennato, anche le convenzioni bilaterali possono in determinati casi non offrire una via d’uscita a situazioni di duplice tassazione

10. Del resto, come si vedrà, l’in-teresse che in tempi recenti la Commissione ha mostrato per la questione della doppia imposizione, quale ostacolo transfrontaliero alla mobilità degli individui e delle imprese nel contesto europeo

11, conferma le peculiarità che essa manifesta alla luce del diritto dell’Unione e dei suoi principi.

9 La preminenza del diritto dell’Unione sugli ordinamenti degli Stati membri è stata af-fermata in ormai molte occasioni dalla Corte di Giustizia, sin dalla sentenza Costa, causa 6/64, del 15 luglio 1964. Nel Trattato di Lisbona, nonostante le pressioni di alcuni Stati in tal senso, non è stata riprodotta alcuna norma (invece presente nella Costituzione per l’Europa mai entrata in vigore) che sancisca tale principio. Nella dichiarazione n. 17 allega-ta all’atto finale della Conferenza di Lisbona, si ricorda tuttavia che, in forza della costante giurisprudenza della Corte, «i Trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei Trat-tati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza».

10 Si veda la Risoluzione del Parlamento europeo del 2 febbraio 2012 sulla relazione annuale in materia di fiscalità (2011/2271(INI)), dove si riconosce che «le convenzioni bilaterali in materia fiscale stipulate tra gli Stati membri non risolvono tutti i problemi di discriminazione e doppia imposizione per i cittadini e le imprese» (par. 42).

11 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, Doppia imposizione nel mercato unico, 11 novembre 2011, COM(2011)712 definitivo.

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2. Doppia imposizione e ordinamento europeo: la posizione della Commis-sione

Ad un primo approccio, il verificarsi di una doppia imposizione tran-sfrontaliera nel contesto dell’UE pare porsi in radicale contrasto con i prin-cipi che presiedono al funzionamento del mercato comune. L’obiettivo da sempre perseguito dalla Comunità europea e, oggi, dall’Unione è infatti prin-cipalmente quello di garantire la libera circolazione, nello spazio comune, delle persone e in generale dei fattori produttivi. La sottoposizione di una medesima fattispecie imponibile al concorrente prelievo di due o più Stati membri si pone dunque in contrasto con tale finalità e rischia di produrre, di fatto, un ostacolo alla realizzazione dello spazio giuridico europeo

12. Il du-plice prelievo sul medesimo reddito, conseguenza del collegamento della fat-tispecie con più Stati membri, evoca in effetti quegli ostacoli che in passato accompagnavano l’attraversamento delle frontiere nazionali e che, sin dalla sua origine, la costruzione europea ha inteso eliminare: il fenomeno potrebbe senza fatica essere assimilato ad un dazio o analogo prelievo frontaliero, al pari di quelli derivanti dall’esercizio unilaterale e non coordinato delle ri-spettive potestà fiscali ad opera degli Stati interessati

13. Che si tratti, peraltro, di un problema attuale è testimoniato dalle fre-

quenti prese di posizione che la Commissione, nell’esercitare il proprio ruolo istituzionale

14, ha assunto sul punto. Essa – mediante l’adozione di comuni-cazioni non vincolanti ma dotate di elevata autorevolezza

15 – rende eviden-

12 L’art. 3, par. 2, del Trattato UE stabilisce espressamente che «l’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicu-rata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima».

13 Di fatto, è proprio l’esercizio di una delle libertà fondamentali che, con la collocazio-ne di una attività o di un reddito (altrimenti confinati nell’ordinamento di origine) in uno Stato diverso da questo, può dar vita al fenomeno della doppia imposizione sullo stesso.

14 L’art. 17, par. 1, del Trattato UE così recita, al primo paragrafo: «la Commissione promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine. Vigi-la sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati. Vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia del-l’Unione europea (...)».

15 Sulla accresciuta rilevanza degli strumenti di soft law nella materia fiscale in ambito UE si veda PISTONE, Soft Tax Law: Steering Legal Pluralism towards International Tax Coordi-nation, in WEBER (a cura di), Traditional and Alternative Routes to European Tax Integra-tion, Amsterdam, 2010, p. 97 ss.

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te l’incompatibilità ontologica tra mercato comune e doppia imposizione: nel più recente intervento sulla materia, si trova affermato che «la doppia imposizione in un contesto transfrontaliero, in quanto risultato di un’intera-zione inconsistente di regimi fiscali nazionali diversi, costituisce un grave im-pedimento ed una vera e propria sfida per il mercato interno»

16. Una simile consapevolezza, peraltro, non ha sinora condotto la Commis-

sione ad affermare esplicitamente la contrarietà della doppia imposizione con il sistema dei Trattati e, quindi, a riconoscere esistente, già sulla base del dirit-to primario dell’Unione, un divieto di doppia imposizione nel contesto euro-peo. Si tratta di una circostanza che trae verosimilmente origine dall’esigenza della Commissione, istituzione non direttamente rappresentativa degli Stati membri

17, di mediare con le aspirazioni di questi ultimi, destinate a trovare manifestazione nel Consiglio e nel Parlamento europeo e quindi ad influen-zare l’esercizio della funzione normativa. Tuttavia, si rivela contraddittorio so-stenere, ad un tempo, che la doppia imposizione rappresenta un impedimen-to rispetto al funzionamento della organizzazione europea e che, tuttavia, essa non è in contrasto con i fondamenti costituzionali dell’Unione.

Fermo che gli Stati «allo stato attuale della legislazione dell’Unione eu-ropea, non hanno l’obbligo di eliminare la doppia imposizione come norma di carattere generale», è tuttavia nella predisposizione delle procedure ido-nee a rimuovere una simile situazione che torna a manifestare la propria ri-levanza il diritto dell’Unione.

Nella sua comunicazione del dicembre 2006 18, la Commissione aveva

manifestato l’esigenza di «trovare una soluzione più generale per i contri-buenti che sono soggetti a doppia imposizione a causa di conflitti di potestà impositiva»

19. Richiamato come possibile modello la Convenzione di arbi-trato valevole in materia di transfer pricing, il documento avanzava la propo-sta di «esaminare con gli Stati membri la possibilità di introdurre un mec-canismo vincolante di composizione delle controversie efficiente e genera-lizzato, inteso a far fronte più in generale ai problemi di doppia imposizione internazionale nell’ambito dell’UE». Si coglie, nella articolazione della pro-

16 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comi-tato economico e sociale europeo, Doppia imposizione nel mercato unico, cit., par. 1.

17 Occorre ricordare che i membri della Commissione, pur essendo ad oggi proposti da ciascuno Stato membro, non lo rappresentano, dovendo esercitare le proprie funzioni in autonomia ed indipendenza, nell’esclusivo interesse dell’Unione.

18 Comunicazione COM(2006)823 definitivo, 19 dicembre 2006, par. 2.2. 19 COM(2006)823 definitivo, cit., par. 3.

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posta, la possibile valorizzazione dei già esistenti meccanismi di scambio di informazioni previsti dalla normativa europea, reputati evidentemente ca-paci, se resi vincolanti

20, di evitare condotte unilaterali da parte di ciascuno Stato membro e, quindi, di restringere i casi in cui possa verificarsi una doppia imposizione

21. Quest’ultimo aspetto si trova meglio esplicitato nella Comunicazione,

diffusa lo stesso 19 dicembre 2006, su tassazione in uscita e necessità di co-ordinamento delle politiche fiscali degli Stati membri

22. In quella sede, la Commissione ha ribadito che «nel caso in cui due Stati membri scelgano di esercitare i loro diritti di imposizione sullo stesso reddito, essi devono ga-rantire che tale fatto non si traduca in una doppia imposizione»

23. Tale rav-visato obbligo reca con sé l’esigenza di realizzare una stretta cooperazione amministrativa tra le autorità competenti dei due Stati membri interessati, per la quale – esorta la Commissione – questi «devono approfittare piena-mente delle possibilità offerte dalla direttiva sulla reciproca assistenza e da quella sul recupero dei crediti»

24. L’approccio della Commissione al problema manifesta, dunque, aspetti

di vera e propria peculiarità. Non sussisterebbe, allo stato attuale di sviluppo del diritto dell’Unione

25, un divieto per gli Stati di sottoporre a tassazione, in modo non coordinato e quindi plurimo, la medesima fattispecie imponi-

20 È noto che il ricorso allo scambio di informazioni in ambito europeo non è espres-samente qualificato come obbligatorio per lo Stato che debba assumere informazioni rela-tivamente ad una fattispecie con elementi di estraneità. Tuttavia, una recente pronuncia della Corte è parsa configurare un obbligo di tal genere ogni volta in cui l’adozione unilaterale di misure da parte di uno Stato possa tradursi in una violazione di una libertà fondamentale (Hein Persche, C-318/07, sent. 27 gennaio 2009, in relazione alla quale sia consentito rin-viare a DORIGO, La potestà degli Stati in materia di imposte dirette ed i limiti derivanti dal di-ritto comunitario secondo la sentenza Hein Persche della Corte di Giustizia, in Dir. e prat. trib. int., 2009, p. 959 ss.).

21 Valorizza l’esigenza che le questioni attinenti alla residenza siano valutate in modo coordinato dai vari Stati coinvolti, proprio al fine di evitare che approcci unilaterali condu-cano a fenomeni di doppia imposizione, CORDEIRO GUERRA, L’esterovestizione al vaglio dei giudici di merito, in Giust. trib., n. 3, 2008, p. 565 ss.

22 COM(2006)825 definitivo del 19 dicembre 2006. 23 Ibidem, par. 2.2. 24 Ibidem. Pare interessante osservare che il documento non si limita a richiamare la nor-

mativa dell’Unione in tema di scambio di informazioni, ma menzioni anche quella sulla coo-perazione alla riscossione. Evidentemente, in quest’ultimo caso la Commissione aveva di mira i fenomeni di doppia non imposizione, anziché quelli di doppia imposizione.

25 Peraltro, vale la pena di notare che la Commissione parla di “legislazione”, così appa-rentemente riferendo il proprio ragionamento al solo diritto derivato.

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bile. Sarebbe, semmai, una situazione inopportuna 26 in quanto realizza un

ostacolo al funzionamento del mercato comune. Dunque, nessuna misura preventiva sarebbe possibile, bensì solo un intervento successivo, finalizzato ad eliminare o ad attenuare le situazioni di doppia imposizione già verifica-tesi, peraltro mediante il ricorso a strumenti non necessariamente idonei a condurre a risultati univoci

27. Si tratta di una soluzione per più aspetti insoddisfacente. Innanzitutto sul

piano logico e giuridico. Non sembra ragionevole sostenere la radicale con-trarietà di una prassi, quella della doppia imposizione, al funzionamento del mercato comune e poi, allo stesso tempo, negare che sia possibile rintraccia-re, a livello di principi, un divieto di realizzarla. L’ordinamento dell’Unione è, in primis, un ordinamento giuridico, retto da norme che si trovano oggi rac-colte nel TUE e nel TFUE. Ipotizzare che situazioni conseguenti alla con-dotta degli Stati membri e tali da contrastare in radice le finalità che siffatto ordinamento è volto a realizzare non vi trovino alcuna sanzione significa con-traddirne la natura appunto giuridica e, quindi, vincolante. Come se un ordi-namento non ponesse alcun presidio a tutela delle fondamenta della propria costruzione

28.

26 La Commissione ha parlato, più precisamente, di “inappropriatezza”: «anche quan-do le regole fiscali degli Stati membri non confliggono con le regole del Trattato, [è] inap-propriato per un mercato unico che problemi come la doppia imposizione, la incompatibi-lità tra diversi sistemi fiscali e la mancanza di accesso alle informazioni sulle regole fiscali degli Stati membri scoraggino gli individui a svolgere attività transfrontaliere o li penaliz-zino quando le svolgono» (Comunicazione del 20 dicembre 2010, cit., par. 2).

27 Ciò in quanto, come si è già in precedenza rilevato, il ricorso allo scambio di infor-mazioni ed alle altre procedure europee di assistenza fiscale non è obbligatorio. Tanto è vero che, nella più recente comunicazione, la Commissione, resasi conto di una simile dif-ficoltà, ha fatto riferimento alla nuova versione dell’art. 25 Modello OCSE, come modifi-cato nel 2008, ed alla procedura di arbitrato destinata a risolvere anche le controversie di doppia tassazione in modo vincolante (Comunicazione COM (2011) 712 definitivo, cit., par. 5.4). Ha, inoltre, rappresentato l’esigenza di «analizzare i miglioramenti che si posso-no apportare alle procedure per la risoluzione delle controversie in materia di doppia im-posizione all’interno dell’UE» (ibidem).

28 Va osservato, peraltro, che il Comitato economico e sociale europeo, nel formulare un parere sulla Comunicazione della Commissione del 2011, ha espresso una posizione che, sebbene sempre cauta circa l’esistenza di divieti posti dal diritto dell’Unione, esprime con forza l’esigenza di «eliminare la doppia imposizione», per quanto ciò debba essere realizzato per mezzo di misure «rispettose della sovranità fiscale dei singoli Stati membri» (“Parere del Comitato economico e sociale europeo in merito alla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale euro-peo: Doppia imposizione nel mercato unico”, doc. 28 marzo 2012, n. 2012/C 181/08).

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3. La posizione dei Trattati rispetto alla doppia imposizione

Il fenomeno della doppia imposizione trovava invero espressa menzione nel Trattato CE, prima delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona. L’art. 293 stabiliva che «gli Stati avvieranno fra loro, per quanto occorra, negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini (...) l’eliminazione del-la doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità».

La norma, tacciata da più parti di eccessivo ermetismo non superabile neppure con il riferimento ai lavori preparatori

29, sembrava porre agli Stati membri un obbligo esclusivamente procedurale, consistente nell’avvio di reciproche trattative per l’adozione di strumenti, interni o internazionali, fi-nalizzati all’eliminazione della doppia imposizione in ambito europeo. Nes-sun obbligo, peraltro, sembrava potersi desumere quanto all’effettiva con-clusione di detti accordi

30. La norma seppur implicitamente affermava dunque l’esigenza di eliminare

le situazioni di doppia imposizione, originate dal mantenimento in capo a cia-scuno Stato membro della piena sovranità in ambito fiscale, specie per quel che riguardava l’imposizione diretta sulle persone fisiche e giuridiche. Dun-que, la rimozione degli ostacoli derivanti dalla doppia imposizione si può dire fosse ab origine un obiettivo fondamentale della costruzione giuridica comune.

Peraltro, essa sembrava escludere che le istituzioni europee potessero svolgere un qualche ruolo nella direzione indicata

31, rimanendo nella com-petenza degli Stati ogni scelta in relazione all’an ed al quomodo dell’inter-vento

32.

29 Un autore ha così sintetizzato le difficoltà legate all’esatta collocazione ed interpreta-zione dell’art. 293: «its conceptual relevance had not been beyond doubt, the original intent remained obscure, eye-witnesses have become more than rare, and the European Court of Justice (ECJ) had not drawn any “hard” conclusions from the rule» (REIMER, The Abolition of Article 293 EC: Comments on Hoffmann’s Analysis, in RUST (a cura di), Double Taxation within the European Union, Amsterdam, 2011, p. 87 ss., p. 87).

30 Così L.S. ROSSI, Le convenzioni fra gli Stati membri dell’Unione europea, Milano, 2000, p. 44.

31 Tanto che vi è chi ha sostenuto che, nel vigore della norma, le istituzioni dell’Unione non fossero neppure legittimate ad adottare una convenzione europea contro le doppie imposizioni (REIMER, op. cit., p. 89).

32 Sulla rilevanza delle convenzioni contro le doppie imposizioni nella giurisprudenza della Corte di Giustizia al fine di allocare in modo coordinato le pretese fiscali degli Stati membri coinvolti si veda l’analisi svolta da PISTONE, European direct tax law: quo vadis?, in EATLP Conference Helsinki 2007, Amsterdam, 2007, p. 99 ss.

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Così come era formulata, la norma pareva non escludere la possibilità di un sindacato, da parte degli organi dell’Unione ed in primis della Corte di Giustizia, sulla mancata conclusione delle convenzioni comunitarie ivi pre-scritte ovvero sulle concrete modalità da queste previste per eliminare la doppia imposizione. L’obbligo de contrahendo previsto dall’art. 293 del Trat-tato doveva, infatti, ragionevolmente consentire un intervento della Corte in merito all’adempimento dello stesso da parte degli Stati membri.

La rilevanza dell’art. 293 nella prassi è stata alquanto modesta. La Corte di Giustizia vi ha fatto rare volte riferimento e si è limita a negare che ad esso potesse essere attribuito effetto diretto tale, quindi, da attribuire ai singoli diritti – nella specie quello di non essere tassati due volte sulla medesima fat-tispecie – direttamente azionabili nei confronti degli Stati membri interessa-ti

33. Sono mancate, invece, prese di posizione concernenti l’effettiva possibili-tà di fondare sulla disposizione del Trattato un generale divieto di doppia tas-sazione con riferimento alle fattispecie transfrontaliere nel contesto europeo.

In un quadro del genere, appare comprensibile che l’abrogazione dell’art. 293 ad opera del Trattato di Lisbona sia stata salutata da taluni autori come una sorta di atto dovuto, volto ad eliminare una norma priva di reale efficacia; con la conseguenza che, pur dopo tale modifica, la situazione non risulte-rebbe affatto mutata rispetto al passato

34, confermandosi la sostanziale in-differenza del sistema giuridico europeo rispetto a fenomeni di doppia im-posizione la cui gestione continuerebbe ad essere devoluta alla competenza degli Stati membri.

Si tratta di una posizione che non convince. Appare difficile ritenere che, nel contesto della particolare attenzione che, come si è visto, da alcuni anni la Commissione ha tributato alla questione, gli Stati membri abbiano rite-nuto semplicemente di cancellare, con l’art. 293, ogni competenza del dirit-to dell’Unione rispetto ad essa. D’altra parte, il completo silenzio – anche sub specie di lavori preparatori – che ha accompagnato tale modifica potreb-be agevolmente essere letto, senza che possano essere mosse obiezioni in tal senso, nella direzione opposta, ovvero quella della volontà degli Stati mem-bri di rimuovere una disposizione ambigua, proprio al fine di contrastare le interpretazioni fortemente restrittive che sino ad oggi si erano sviluppate.

33 V. in questo senso la sentenza Gilly, su cui torneremo più diffusamente infra nel pros-simo paragrafo.

34 PISTONE, Double Taxation: Selected Issues of Compatibility with European Law, Multi-lateral Tax Treaties and CCCTB, in RUST (a cura di), op. cit., p. 187 ss., p. 201.

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Si può allora sostenere che il nuovo TFUE ha preso atto dell’impossibili-tà di assegnare in via esclusiva, o anche solo prevalente, agli Stati il delicato compito di assicurare la libertà dell’ordinamento giuridico europeo da feno-meni di doppia imposizione. Di talché, secondo quanto sancisce lo stesso principio di sussidiarietà cardine di tale ordinamento, vi è l’esigenza di un intervento dell’Unione e delle sue istituzioni

35. Tramontata l’originaria solu-zione che affidava agli Stati membri il compito di realizzare l’obiettivo indi-cato dalla norma, il ruolo di vigilare affinché fenomeni di doppia imposizio-ne non costituiscano altrettanti ostacoli al buon funzionamento dell’Unione è ora definitivamente riservato agli organi dell’Unione medesima, tanto quelli politici, in primo luogo la Commissione, quanto ancor più quelli giudiziari

36. Ciò non significa, naturalmente, che gli Stati membri siano privati di ogni potere di intervento in materia: essi continuano, perciò, ad essere chiamati a cooperare con le istituzioni per realizzare l’obiettivo comune, in particolare mediante la stipulazione di convenzioni bilaterali contro le doppie imposi-zioni

37. Viene, peraltro, meno quel divieto, che taluno aveva ritenuto essere implicito nella previsione testuale dell’art. 293, all’adozione di una conven-zione europea contro le doppie imposizioni

38. Naturalmente, una simile constatazione, per quanto non irrilevante nel-

l’ottica della ricostruzione di un principio, lascia ancora irrisolto il nodo del fondamento dell’azione delle istituzioni europee in materia. L’esigenza che

35 Il principio di sussidiarietà si trova espresso nell’art. 5, par. 3, del Trattato UE secondo il quale «in virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione». Come si vede, il cuore del princi-pio riposa nella responsabilizzazione degli Stati membri, laddove non vi sia una competen-za esclusiva dell’Unione, la quale tuttavia è chiamata ad intervenire laddove i primi non appaiano in grado di poter efficacemente soddisfare le finalità comuni.

36 In senso analogo si esprime HOFFMANN, Double Tax Agreements: Between EU Law and Public International Law, in RUST (a cura di), op. cit., p. 75 ss.

37 La Commissione, nella sua Comunicazione del novembre 2011, ha valorizzato, tra le possibili soluzioni al problema della doppia imposizione, l’esigenza di «completare il qua-dro delle CDI tra i 27 Stati membri», in particolare dichiarandosi pronta ad incoraggiare «il dialogo tra gli Stati membri in caso di controversie tali da impedire la conclusione di una CDI» (Comunicazione COM (2011)712 definitivo, cit., par. 5.2).

38 Un autore ha avanzato la teoria che, nell’incertezza circa il fondamento normativo del divieto di doppia imposizione nel contesto dell’UE, lo strumento per evitare il feno-meno sia proprio quello della elaborazione di un modello europeo di convenzione contro le doppie imposizioni (v. PISTONE, op. ult. cit., p. 210).

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siano queste ultime a prendere in carico il problema non spiega infatti se ciò debba tradursi nell’eventuale adozione di fonti secondarie o derivate (rego-lamenti o direttive) ovvero se, ancor prima, sia il diritto primario a dover gui-dare siffatto intervento. Nel primo caso si tratterebbe, evidentemente, di un approccio in alcun modo appagante, nella misura in cui – escludendo che sia possibile affermare un divieto di doppia imposizione già sulla base dei principi fondamentali dell’ordinamento europeo – continua ad affidare agli Stati, mediante l’adozione di atti in seno al Consiglio ed in base alla regola dell’unanimità dei consensi

39, il compito di pervenire all’eliminazione di quel-lo che è riconosciuto quale ostacolo al funzionamento del mercato comune.

Vediamo, quindi, se e su quali basi sia possibile sostenere de jure condito che il divieto di doppia imposizione sia operante già a livello delle fonti co-stituzionali dell’ordinamento giuridico europeo.

4. L’ondivaga interpretazione della Corte di Giustizia con riferimento alle li-bertà fondamentali di circolazione

Un primo, e forse più scontato, ambito di riflessione è quello che riguar-da l’incompatibilità tra fenomeni di doppia tassazione e le libertà di circola-zione previste e tutelate in seno al TFUE. Non v’è dubbio, infatti, e lo si è già in precedenza ricordato, che il duplice prelievo da parte degli Stati membri che manifestano un collegamento con la fattispecie imponibile si traduce in un ostacolo al pieno godimento di siffatte libertà, le quali presuppongono invece per natura l’eliminazione di ogni forma di barriera che si accompagni all’attraversamento delle frontiere tra uno Stato e l’altro.

In un primo tempo, la Corte aveva affrontato la questione con riferimen-to proprio all’art. 293 del Trattato. Nella già citata sentenza Gilly, i giudici del Lussemburgo avevano riconosciuto che tale disposizione «non mira a stabilire una norma giuridica direttamente operante, ma si limita a tracciare il quadro di trattative che gli Stati membri intavoleranno tra loro «per quan-to occorra» (...). Anche se l’eliminazione della doppia imposizione all’inter-no della Comunità figura quindi tra gli obiettivi del Trattato, dalla lettera del suddetto articolo risulta che questo non può di per sé conferire a singoli diritti che possano essere fatti valere dinanzi ai giudici nazionali»

40. Dun-

39 V. art. 115 TFUE (già art. 94 del Trattato CE). 40 Coniugi Gilly c. Directeur des services fiscaux du Bas-Rhin, C-336/96, sent. 12 maggio

1998, parr. 15-16.

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que, la Corte riconosceva la contrarietà, in via di principio, della doppia im-posizione internazionale con gli obiettivi di buon funzionamento dell’Unio-ne, ma ribadiva il ruolo riservato dallo stesso Trattato agli Stati membri e l’im-possibilità per i singoli contribuenti di far valere, nei confronti delle rispetti-ve autorità fiscali, diritti direttamente scaturenti dalla norma. Sebbene, pe-raltro, l’art. 293 non avesse effetto diretto e non consentisse ai singoli di far-ne valere gli obblighi, il ragionamento della Corte non escludeva che gli Stati o le istituzioni dell’Unione potessero sottoporre alla Corte questioni di com-patibilità tra norme interne, realizzanti situazioni di doppia imposizione, e diritto dell’Unione.

Tale ultima conclusione è stata più esplicitamente sancita nella succes-siva sentenza Kerckhaert-Morres

41, ove la Corte ha affermato che le con-venzioni previste dall’art. 293 del Trattato mirano ad «eliminare o ad atte-nuare gli effetti negativi per il funzionamento del mercato interno che de-rivano dalla coesistenza di sistemi fiscali nazionali (...)»

42. Tuttavia, essa ha ribadito che il compito di realizzare un simile rilevante obiettivo spetta agli Stati membri, dal momento che «il diritto comunitario, al suo stato attuale ed in una situazione come quella di cui alla causa principale, non stabilisce criteri generali per la ripartizione delle competenze tra Stati mem-bri con riferimento all’eliminazione della doppia imposizione all’interno della Comunità»

43. L’aspetto di interesse della pronuncia risiede nel fatto che i giudici del

Lussemburgo sono parsi in quel caso negare che gli Stati membri siano del tutto liberi di agire – ovvero, anche, di non agire per nulla – con riferimento ai compiti loro riservati dall’art. 293 del Trattato. Da un lato, infatti, la sen-tenza ha riconosciuto la sussistenza di un vero e proprio obbligo

44 per gli Stati medesimi di «adottare le misure necessarie per prevenire situazioni come quella di cui alla causa principale utilizzando, in particolare, i criteri di ripar-tizione seguiti nella prassi fiscale internazionale». Allo stesso tempo, non ha escluso la competenza della Corte di Giustizia a valutare la conformità con il diritto dell’Unione del contenuto delle convenzioni bilaterali contro le dop-pie imposizioni stipulate dagli Stati membri, negandolo nel caso di specie

41 Mark Kerckhaert e Bernadette Morres c. Belgische Staat, C-513/04, sent. 14 novembre 2006.

42 Par. 21. 43 Par. 22. 44 Obbligo che si desume dall’uso dell’indicativo nel par. 23 (“spetta”).

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solo perché la Convenzione tra Francia e Belgio non costituiva oggetto della domanda pregiudiziale

45. Alcune pronunce più recenti sono parse manifestare un atteggiamento

assai meno liberale da parte della Corte. Nella sentenza Block 46, questa in-

fatti, pur impiegando un linguaggio analogo a quello in precedenza utilizza-to, ha affermato che l’assenza di una competenza diretta dell’Unione in pun-to di eliminazione della doppia imposizione finisce per attribuire agli Stati membri «una certa autonomia in materia», negando in conseguenza di ciò che essi siano vincolati da un «obbligo di adattare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine, in particolare, di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio da parte dei detti Stati membri della loro competenza fiscale»

47. Il passo indietro, rispetto alle apparenti aperture recate dalla sentenza Kerckhaert-Morres, è dunque indubbio. L’interpretazione della Corte, quale emerge dalla pronun-cia sul caso Block, è infatti volta, non solo a deresponsabilizzare l’Unione in punto di strumenti per l’eliminazione della doppia imposizione, ma anche ad attribuire agli Stati membri la libertà di mantenere in vita fenomeni di tal genere, proclamando l’assenza di un dovere di adattare, almeno in parte, il proprio sistema fiscale in modo da evitare conflitti con altri ordinamenti

48. La successiva sentenza Damseaux ha, in parte, chiarito la posizione per

certi aspetti contraddittoria della Corte sul punto 49. Tale pronuncia realizza

il completamento della precedente Kerckhaert-Morres, nella quale, come si è visto, i giudici del Lussemburgo avevano adombrato la possibilità che la convenzione contro le doppie imposizioni tra Francia e Belgio potesse esse-re sindacata con riferimento al diritto dell’Unione, escludendo però nel caso di specie una simile verifica siccome non richiesta dal giudice del rinvio pre-giudiziale. In questo caso, invece, detta convenzione era stata esplicitamente indicata come parte del contesto normativo nazionale oggetto del rinvio alla Corte di Giustizia.

45 Par. 23: «La detta convenzione non costituisce tuttavia oggetto della pronuncia pre-giudiziale in esame».

46 Margarete Block c. Finanzamt Kaufbeuren, C-67/08, sent. 12 febbraio 2009. 47 Par. 31. 48 Si veda in tal senso anche la recente sentenza CIBA, C-542/08, del 15 aprile 2010,

nella quale la Corte di Giustizia ha affermato che «la doppia imposizione asserita dalla CIBA, ammesso che esista, non costituisce di per sé una restrizione vietata dal Trattato» (par. 29).

49 Jacques Damseaux c. Stato Belga, C-128/08, sent. 16 luglio 2009.

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Quest’ultima, pur apparentemente ribadendo le conclusioni esposte in Block, ha inteso affermare il principio secondo il quale, se è pur vero che «il diritto comunitario (...) non stabilisce criteri generali per la ripartizione del-le competenze tra Stati membri per quanto attiene all’eliminazione della dop-pia imposizione all’interno della Comunità»

50, tuttavia gli Stati non sembra-no del tutto liberi di agire in materia: tanto è vero che la sentenza conclude negando che uno dei due Stati coinvolti in una fattispecie di doppia imposi-zione debba “cedere” all’altro in via unilaterale, ma non esclude affatto che una soluzione concordata tra di essi debba essere perseguita.

Con Damseaux, quindi, sembra trovare conferma ciò che era rimasto so-lo implicito nella sentenza Block, ovvero che un conto è imporre ad uno Sta-to di modificare il proprio sistema fiscale per evitare al contribuente le con-seguenze derivanti dall’applicazione, alla medesima fattispecie, di norme fi-scali straniere; altro è, invece, imporre, per preservare il sistema comune, l’adozione di convenzioni bilaterali tali da superare in via concordata siffatte problematiche.

Una più recente, sebbene non del tutto chiara, presa di posizione della Corte di Giustizia sulla contrarietà della doppia imposizione rispetto alle li-bertà fondamentali si coglie, infine, nella pronuncia resa nel caso SGI

51. Nell’esaminare gli effetti della normativa belga sul transfer pricing, la Corte di Giustizia giunge, infatti, alla conclusione che essa costituisce una restri-zione alla libertà di stabilimento: la circostanza che sia possibile concedere benefici straordinari o senza contropartita evitando riprese fiscali solo a so-cietà residenti in Belgio comporta, infatti, per la Corte un effetto di dissua-sione per le società di diritto belga ad acquistare, creare o mantenere una controllata in un altro Stato membro «a causa dell’onere fiscale che, in una situazione transfrontaliera, grava sulla concessione dei benefici previsti dalla normativa di cui trattasi nella causa principale»

52. In particolare, l’attenzione dei giudici del Lussemburgo si è concentrata

sulla situazione di doppia imposizione che il recupero di detti benefici in capo alla società che li concede può realizzare nel caso in cui lo Stato della beneficiaria non provveda ad effettuare gli adeguamenti necessari per tener conto di una simile situazione. La Corte enfatizza, una volta tanto senza in-certezze, la contrarietà della doppia imposizione alle libertà fondamentali,

50 Par. 33. 51 Societé de Gestion Industrielle c. Stato belga, C-311/08, sent. 21 gennaio 2010. 52 Par. 44.

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nel caso di specie al diritto di stabilimento. Proprio la considerazione del-l’effetto consistente nella duplice sottoposizione ad imposizione del mede-simo fatto economico conduce la Corte a rilevare la sussistenza di una re-strizione all’esercizio di tale libertà e, dunque, a censurare la normativa bel-ga in considerazione.

Appare significativo che i giudici del Lussemburgo non abbiano accolto l’argomento avanzato, sul punto, dal Governo belga. Questo sosteneva che il rischio di doppia imposizione, pur in astratto presente, non avrebbe potu-to concretizzarsi, dal momento che avrebbe potuto farsi ricorso alla conven-zione del 23 luglio 1990 relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate. La Corte nega che un simile argomento sia persuasivo, con considerazioni che, pur se calibrate sulla con-venzione arbitrale, possono ritenersi valide con riferimento alle procedure amichevoli previste da buona parte delle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni. Da una parte, infatti, la circostanza di dover ricorrere a un simile strumento rappresenta, agli occhi della Corte un onere, in termini burocratici ed economici, non facilmente giustificabile. Dall’altra, in ogni caso la durata della procedura è tale da esporre comunque il contribuente ad una doppia imposizione per tutto il tempo necessario ad addivenire alla conclusione.

L’idea di fondo che traspare da tali considerazioni è, dunque, quella che la doppia imposizione costituisca comunque in sé un disvalore in seno all’UE, in quanto situazione che ostacola l’esercizio delle libertà fondamentali di circo-lazione e, di fatto, si muove in senso contrario rispetto all’integrazione ed al superamento delle barriere all’interno dello spazio comune

53.

5. La sostanziale contrarietà della doppia imposizione alle libertà fondamen-tali

La posizione sin qui manifestata dalla Corte di Giustizia appare ancora, nonostante le caute (e più prospettiche, che non attuali) aperture della sen-tenza SGI, poco soddisfacente. Essa, infatti, continua a ritenere che la doppia imposizione non si ponga in contrasto con le libertà fondamentali di circola-

53 Sul punto sia consentito rinviare a DORIGO, Transfer princing e obblighi degli Stati al-la luce del diritto dell’Unione: le prime indicazioni della Corte di giustizia, in Dir. e prat. trib. int., 2010, p. 963 ss.

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zione, rappresentando nulla più che la conseguenza del concorrente esercizio di poteri leciti dei due Stati membri coinvolti di determinare i criteri di tassa-zione delle fattispecie aventi con essi una qualche forma di collegamento. Ci muoviamo, in questo modo, nell’ambito della tradizionale concezione della funzione tributaria quale manifestazione di un potere tipicamente sovrano, come tale non automaticamente oggetto di trasferimento alle competenze dell’Unione. Una concezione che la stessa Corte di Giustizia ha in altri conte-sti (pure essi di natura fiscale) sottoposto a critica e che, invece, è parados-salmente mantenuta in vita con riferimento alla doppia imposizione.

Non v’è dubbio, invero, che tale situazione realizza una restrizione al go-dimento delle libertà fondamentali di circolazione. La sussistenza, o anche soltanto il rischio, di un duplice prelievo costituisce fattore dissuasivo rispetto all’esercizio di tali libertà, nel senso che il soggetto, posto di fronte a una simi-le eventualità, sarà indotto a rimanere entro i confini del proprio ordinamento di origine senza avvalersi della facoltà concessagli dal diritto dell’Unione che, nel caso di specie, finirebbe per penalizzarlo. Una circostanza, questa, che si pone in evidente contraddizione con le finalità proprie dell’ordinamento eu-ropeo, proteso com’è alla realizzazione di uno spazio comune

54. In questo senso, giova richiamare l’ormai ampia giurisprudenza della

Corte con riferimento al divieto di restrizioni di matrice fiscale alle libertà fondamentali, inteso con riferimento a quelle misure nazionali che, pur non avendo portata discriminatoria, producono l’effetto di restringere la possibi-lità di godimento di una libertà fondamentale. La rilevanza di tali libertà – oc-corre ricordare che, secondo uniforme interpretazione della Corte di Giu-stizia, le disposizioni del Trattato che la contemplano hanno effetto diretto e, quindi, si impongono non solo agli Stati ma anche a tutte le autorità am-ministrative interne

55 – comporta, dunque, l’obbligo per gli Stati di agire con-formemente ad esse anche in un settore, quale quello dell’imposizione di-retta, che pure ricade ancora nella loro competenza

56.

54 Si vedano le critiche mosse, in questo stesso senso, alla giurisprudenza della Corte di Giustizia da VAN THIEL, Justifications in Community Law for Income Tax Restrictions on Free Movement: Acte Clair Rules that Can Be Readily Applied by National Courts, in European Taxation, 2008, p. 349 ss.

55 La Corte ha più volte riconosciuto che le norme del TFUE che pongono le libertà fondamentali hanno effetto diretto. Per quanto riguarda il diritto di stabilimento, v. tra le altre la sentenza Reyners, causa 2/74, 21 giugno 1974. Per la libera prestazione dei servizi, si veda la sentenza Van Bisbergen, causa 33/74 del 3 dicembre 1974.

56 V. sent. 14 febbraio 1995, causa C-277/93, Schumacker, par. 21, ove si legge che

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Ebbene, se non si vuole contraddire tale indubbio punto di arrivo della elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, non si può negare che il non armonizzato esercizio dei rispettivi poteri tributari da parte di due Stati membri, laddove si traduce in un duplice prelievo, realizzi proprio quel-l’effetto dissuasivo che la giurisprudenza appena rammentata ha ritenuto contrario alle libertà fondamentali

57. D’altra parte, non appare condivisibile l’ulteriore ragionamento della

Corte, secondo il quale la doppia imposizione costituirebbe fenomeno in qualche modo neutro per l’ordinamento dell’Unione, derivando dal con-temporaneo (e lecito) esercizio della propria potestà da parte dei due Stati membri coinvolti e dalla autonoma scelta, da parte di essi, dei criteri di col-legamento reputati rilevanti. Ed invero, nel momento in cui siffatto esercizio produce un effetto contrastante con i principi fondamentali del mercato co-mune non può più essere riguardato come indifferente per l’ordinamento del-l’Unione, ma deve coordinarsi con esso in modo da preservare il primato del diritto dell’Unione sui diritti degli Stati membri

58. Pare, insomma, che non vi sia né vi possa essere alcuna differenza tra le

situazioni che la Corte di Giustizia ha reputato dover essere sottoposte al vaglio delle libertà fondamentali – quelle cioè che hanno origine da una sin-gola normativa nazionale che produca effetti discriminatori o anche solo re-strittivi rispetto ad esse – e quelle che invece riguardano il difettoso coordi-namento tra due ordinamenti interni e che tuttavia producono i medesimi esiti. Nel momento in cui si valorizza, come la Corte ha fatto più volte, l’il-legittimità della restrizione alle libertà fondamentali che l’applicazione di una norma fiscale nazionale può produrre, viene meno la possibilità di di-stinguere i casi nei quali ciò derivi dalle caratteristiche della norma medesi- «anche se la materia delle imposte dirette rientra nella competenza esclusiva degli Stati membri, questi ultimi sono tenuti ad esercitare tale compito nel rispetto del diritto comu-nitario».

57 In questo senso, sebbene in modo non del tutto convinto, pare muoversi RAINGEARD DE LA BLÉTIERE, The Impact of EU Law on the Elimination of Double Taxation of Business Income, in Cahiers de droit fiscal International 2011 Paris Congress, Amsterdam, 2011, p. 59 ss., p. 72.

58 Pare potersi invocare, nel senso indicato nel testo, la frequente affermazione della Corte, secondo la quale la competenza che gli Stati membri mantengono in materia di fi-scalità diretta deve comunque essere esercitata in conformità con il diritto dell’Unione. Ciò vale, evidentemente, non solo con riferimento agli effetti delle normative nazionali riguar-date ex se, ma ancor più laddove il contrasto con il diritto europeo abbia origine dal difet-toso coordinamento tra due o più discipline tributarie domestiche.

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ma da quelli nei quali invece ciò è il risultato del concorso delle due disci-pline interne coinvolte. Del resto, a ben guardare anche nei casi di doppia imposizione l’effetto indesiderato si produce in conseguenza dell’applicazio-ne di una delle due discipline nazionali, quella che interviene a sottoporre a tassazione la stessa fattispecie già oggetto di prelievo da parte di un diverso ordinamento: sicché si può dire di essere di fronte ad un fenomeno identico a quello che, ormai pacificamente, la Corte di Giustizia ha ritenuto essere assoggettato al primato delle libertà fondamentali.

Laddove, dunque, lo Stato membro non si sia adeguatamente attivato per eliminare l’ostacolo alle libertà fondamentali rappresentato dalla doppia imposizione, se del caso stipulando un accordo per evitare le doppie impo-sizioni o interpretandolo coerentemente con quelle, la sua pretesa non po-trà essere considerata legittima alla luce del diritto primario dell’Unione

59. Peraltro, la contraddizione rispetto alle libertà fondamentali potrebbe in questo caso essere predicata anche in via indiretta, ovvero tramite la viola-zione da parte dello Stato del dovere di astenersi dall’adottare misure o condotte in grado di mettere in pericolo il perseguimento degli obiettivi dei Trattati, come era espressamente sancito dall’art. 10, secondo paragrafo, del Trattato CE e come oggi ribadito dall’art. 4, terzo paragrafo, del Trattato UE

60. Nel momento in cui la mancata o non completa adozione di misure idonee ad eliminare la doppia imposizione comporti il verificarsi di una si-mile situazione, si è in presenza di un attentato ad una delle principali finali-tà del sistema comune, ovvero garantire la tutela del mercato unico, e ciò non può che essere ritenuto contrario agli obblighi imposti dalla partecipa-zione all’UE

61.

59 Di fatto, come già poteva ricavarsi dall’art. 293 del Trattato CE, esiste un obbligo di fare in capo agli Stati membri, ovvero di porre in essere quelle misure, unilaterali o pattizie, volte ad eliminare la doppia imposizione all’interno dell’Unione. Il diritto europeo, tuttavia, non è affatto indifferente all’esito di tale attività, che dovrà essere riguardata alla luce delle libertà fondamentali. Laddove il mancato o non completo intervento degli Stati conduca ad una situazione di doppia imposizione, allora ciò non potrà che essere oggetto di censura proprio sulla base di tali libertà. Pare condividere questa interpretazione anche PISTONE, op. ult. cit., p. 192, il quale riconosce che «on the one hand, Member States are competent to conclude tax treaties for the elimination of double taxation, but, on the other hand, such compe-tence must comply with the supremacy of European law».

60 Tale disposizione stabilisce che gli Stati membri «si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato».

61 Appare significativo che la posizione indicata nel testo sia stata adottata dal Parlamento europeo nella Relazione annuale in tema di fiscalità, 13 gennaio 2012, n. doc. 2011/2271(INI).

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6. Doppia imposizione e tutela della proprietà: verso un nuovo approccio al problema

Non è detto, peraltro, che le incertezze che accompagnano la ricondu-zione della doppia imposizione all’ambito di operatività delle libertà fon-damentali siano sufficienti a mettere in dubbio tout cour la contrarietà del fenomeno con il diritto primario dell’UE. Sembra infatti possibile tentare di proporre già de jure condito una soluzione diversa, che dia al problema della doppia imposizione internazionale in ambito europeo un connotato ad un tempo meno economico, sfumando la rilevanza delle libertà di circolazione, e più rispettoso dei diritti del contribuente, visti come una parte del più ge-nerale bagaglio di diritti dell’individuo riconosciuti e tutelati anche dal dirit-to dell’Unione

62. Si può valorizzare, in tal senso, l’esigenza di tutela del dirit-to di proprietà, che rischia di venire compresso – o addirittura posto nel nul-la – nel caso in cui due Stati membri pretendano di esercitare contempora-neamente il prelievo sul medesimo presupposto

63. L’ordinamento dell’Unione da tempo annovera il diritto di proprietà tra i

diritti fondamentali dell’individuo. Peraltro, come accaduto anche per altre posizioni soggettive oggi riconosciute e tutelate in tale contesto, si è assistito nel tempo ad una evoluzione in merito all’ampiezza di tale diritto ed all’effi-cacia della sua tutela specie nei rapporti con l’esercizio di poteri pubblici in-tesi a realizzare interessi di portata generale. Qui, il Parlamento ha sostenuto come «il trattato sull’Unione europea obblighi gli Stati membri a risolvere la doppia imposizione a norma dell’art. 4, paragrafo 3, e dell’art. 26 del TFUE relativo al mercato interno» (par. 41). Dovere di leale cooperazione degli Stati mem-bri e prevalenza delle libertà di circolazione paiono dunque essere gli strumenti attraverso i quali è possibile affermare l’esistenza di un vero e proprio obbligo giuridico degli Stati di eliminare le situazioni di doppia imposizione.

62 Sulla necessaria presa in considerazione dei diritti del contribuente nel contesto dello spazio giuridico europeo si rinvia per tutti a DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed inte-grazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010.

63 Si tratta di un approccio che, finora, non è stato particolarmente esplorato in dottrina. Con riferimento al diritto internazionale, quindi senza una specifica attenzione al contesto dell’UE, si veda comunque CORDEIRO GUERRA, Diritto tributario internazionale, cit., p. 328, secondo il quale «è tuttavia nell’ottica del contribuente la cui ricchezza è colpita due volte da tributi di ordinamenti diversi che deve e può porsi un problema del carattere eventualmente espropriativo di una tassazione siffatta, in difetto di coordinamento delle due pretese». Per una aggiornata panoramica delle problematiche interne concernenti il rapporto tra imposi-zione e proprietà, si veda GIOVANNINI, Capacità contributiva e imposizione patrimoniale: di-scriminazione qualitativa e limite quantitativo, in Rass. trib., 2012, p. 1131 ss.

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Nella sentenza Hauer 64, la Corte di Giustizia ha riconosciuto che il diritto

di proprietà è tutelato, nell’ordinamento giuridico europeo, «in modo con-forme ai principi costituzionali degli Stati membri», dunque costituisce un principio generale del diritto dell’Unione avente, nel sistema delle fonti, un rango subordinato solo al Trattato

65. Di talché, sebbene atti istituzionali della Comunità possano, in linea di principio, imporre restrizioni al godimento della proprietà, pure essi sono legittimi solo qualora «perseguano effettiva-mente scopi di interesse generale propri della Comunità e non costituiscano [...] un intervento sproporzionato ed inaccettabile nelle prerogative del proprietario, tale da ledere la sostanza stessa del diritto di proprietà»

66. Dunque il diritto di proprietà, sebbene possa subire limitazioni al fine di

consentire il perseguimento di obiettivi di interesse generale, non può tutta-via essere sottoposto a misure “tali da ledere la sostanza stessa” del medesimo.

In altra occasione 67, la Corte ha poi ribadito la natura fondamentale del di-

ritto di proprietà in seno all’ordinamento dell’Unione 68, tale quindi da impor-

re il suo rispetto non solo alle istituzioni europee ma anche al legislatore na-zionale. Si tratta di una posizione soggettiva che, nell’ottica dei giudici dell’U-nione, va considerata non come prerogativa assoluta, bensì in relazione alla funzione da essa svolta nella società: ciò che è rilevante agli occhi della Corte è l’esigenza di realizzare un equo bilanciamento tra proprietà e funzione so-ciale della stessa. Tuttavia, la funzione sociale della proprietà, che pure la stes-sa Corte reputa essere un corollario indefettibile di quella, non consente che si realizzi un effetto tale da spogliare il titolare dell’intera ricchezza in cui si so-stanzia il proprio diritto di proprietà o di una parte cospicua di essa.

La ricostruzione giurisprudenziale della portata e dei limiti della proprie-tà trova, oggi, conferma nelle norme dell’Unione che se ne occupano espli-citamente. Così, l’art. 6 del TUE, come riformato dal Trattato di Lisbona,

64 La vicenda aveva ad oggetto la legittimità di un regolamento che aveva introdotto dei limiti quantitativi all’impianto di nuovi vigneti ed era, perciò, stato reputato in contrasto con il diritto di proprietà e di iniziativa economica privata.

65 Sent. 13 dicembre 1979, causa 44/79, par. 4. 66 Ibidem. 67 Booker Aquaculture v. Secretary of States for Scotland, cause riunite C-20/00 e C-

64/00, sent. 10 luglio 2003. 68 Par. 67. Secondo la sentenza, «i diritti fondamentali costituiscono parte integrante

dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza e che, a tal fine, que-sta s’ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo cui gli Stati membri han-no cooperato o aderito» (par. 65).

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contiene il riconoscimento dei diritti sanciti dalla Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione e attribuisce a quest’ultima «lo stesso valore giu-ridico dei Trattati». Quindi, il diritto di proprietà, come proclamato dall’art. 17 della Carta

69, ha oggi rango supremo nella gerarchia delle fonti del diritto dell’Unione. In siffatta veste, tale diritto si impone anche alle autorità na-zionali – il legislatore, ma anche i giudici e la pubblica amministrazione – con riferimento tanto a fattispecie rientranti nell’ambito di operatività del diritto dell’Unione, quanto a situazioni puramente interne

70. Nello stesso senso va interpretata la disposizione, sempre introdotta dal

Trattato di Lisbona, secondo la quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati mem-bri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali»

71. Vi è dunque il riconoscimento che i diritti affermati dalla CEDU sono ormai pa-trimonio dell’Unione, nell’estensione ad essi attribuita dalla giurisprudenza della CEDU: tanto che si proclama l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea

72. Da questo punto di vista, può dunque essere richiamata ed applicata en-

tro l’orizzonte giuridico dell’Unione l’ormai ampia elaborazione giurispru-denziale della Corte europea sul tema del diritto di proprietà

73. Ed appare,

69 Secondo questa disposizione «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessu-no può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale».

70 In tal senso STROZZI, Il sistema normativo, in Trattato di diritto amministrativo euro-peo, a cura di Chiti e Greco, Milano, 2007, p. 64 ss. Naturalmente, il vincolo che il rispetto dei principi generali, come il diritto di proprietà, impone agli operatori interni sarà diver-samente caratterizzato, quanto alla tutela del singolo, a seconda che si versi in una situa-zione rilevante per il diritto dell’Unione (nel quale caso, potrà essere competente la Corte di Giustizia) o nell’ambito di una fattispecie puramente interna (nel qual caso, la tutela potrà essere affidata alle giurisdizioni nazionali, se del caso anche la Corte costituzionale).

71 Art. 6, par. 3, del TUE. 72 Art. 6, par. 2, TUE. Sulle problematiche sottese alla adesione dell’UE alla CEDU ed

alla conseguente tutela dei diritti individuali nei due sistemi si rinvia a TIZZANO, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, in Dir. Un. Eur., 2011, p. 29 ss.

73 Sul tema della tutela del diritto di proprietà alla luce della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo si rinvia a CONDORELLI, La proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., 1970, p. 175 ss.; FROMONT, La garantie de droit de propriété selon

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vieppiù, rilevante quella interpretazione della Corte europea, che ha affer-mato l’esigenza di tutelare il diritto individuale alla proprietà anche nei con-fronti di pretese tributarie troppo invasive

74. Nel sistema della CEDU il diritto di proprietà ha una rilevanza tale da

opporsi a pretese fiscali eccessive da parte dell’autorità pubblica; non pare poter aver cittadinanza, in tale sistema, un meccanismo impositivo (eventual-mente anche rinveniente dalla doppia tassazione attuata da due Stati mem-bri) che si traduca nell’espropriazione di quella ricchezza assunta dal legisla-tore a fondamento dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche. Va ricor-dato, infatti, che la Corte EDU, in una controversia che concerneva la doppia imposizione a cui per effetto di una normativa fiscale retroattiva rischiavano di essere assoggettati taluni redditi di capitale, pur riconoscendo che nel ca-so di specie non vi era stata una violazione del diritto di proprietà, ha co-munque dato atto del fatto che la duplice tassazione sottopone il patrimonio del contribuente ad una situazione di «wrongful expropriation»

75. Dunque, si riconosce l’illegittimità, per contrasto con la Convenzione, di una duplice imposizione che, comportando il superamento di un limite ragionevole, sia tale da vulnerare il diritto individuale.

Alla luce dei molteplici elementi sin qui richiamati, pare perciò ragione-vole sostenere che l’esigenza di tutela del diritto di proprietà, quale diritto fondamentale dell’individuo, costituisca idoneo fondamento per un divieto di doppia imposizione nel contesto dell’Unione. Non è un caso che la Corte di Giustizia, in talune delle pur non sempre coerenti sentenze che si sono poco sopra citate, abbia messo in evidenza la necessità che la libertà di cui la Cour européenne des droits de l’homme, in Revue Trimestrielle de droit comparé, 1980, p. 317 ss.; GERIN (a cura di), Il diritto di proprietà nel quadro della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, Padova, 1989; NUNIN, Osservazioni sulla tutela del diritto di proprietà nella Con-venzione europea sui diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. uomo, 1991, p. 669 ss.; SERMET, La Con-vention européenne des droits de l’homme et le droit de propriété, Strasbourg, 1991; FROWEIN, The Protection of Property, in The European System for the Protection of Human Rights, Dor-drecht, 1993.

74 Si trova più volte sostenuto dagli organi della Convenzione europea che «gli obbli-ghi economici derivanti dall’imposizione di tasse e contributi» possono pregiudicare il di-ritto riconosciuto dall’art. 1 del primo Protocollo qualora essi «impongano un onere ec-cessivo sulla persona o sull’ente coinvolto o interferiscano in modo sostanziale con la sua posizione finanziaria» (Commissione europea, decisione Travers c. Italia, 16 gennaio 1995, ricorso n. 15117/89).

75 National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito del 23 ottobre 1997 (ricorsi riuniti nn. 21319/93, 21449/93 e 21675/93), par. 52.

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gli Stati godono in materia fiscale sia esercitata «fatto salvo il rispetto del diritto comunitario»

76. Un richiamo di tal genere può essere interpretato alla stregua di una clausola volta a far salvi i casi nei quali l’esistenza di una doppia imposizione sia idonea ad influire, restringendolo, su un diritto fon-damentale riconosciuto nel diritto dell’Unione, ivi compreso il diritto di proprietà. Dunque, se non sembra (ancora) possibile ricondurre alla catego-ria dei diritti fondamentali le libertà di circolazione, altro può e deve dirsi con riguardo al diritto di proprietà, attraverso il quale recuperare quella dimen-sione di tutela della posizione soggettiva del singolo contro le doppie imposi-zioni che le mere libertà di circolazione non sono parse sinora in grado di af-fermare pienamente al cospetto del potere riconosciuto agli Stati membri.

7. Il divieto di doppia imposizione come norma di diritto internazionale ge-nerale operante nel sistema dell’UE

Quanto si è sin qui esposto pare sufficiente a dimostrare come l’attitudi-ne del diritto dell’Unione sia, sin nei suoi fondamenti, radicalmente contra-ria a qualsiasi fenomeno di doppia imposizione, tale per definizione da im-pattare negativamente sulla posizione del singolo, sia esso persona fisica o giuridica.

Non è detto, tuttavia, che una conferma di ciò non possa farsi scaturire dal-lo stesso diritto internazionale. È noto, e lo si è ricordato in apertura, come la gran parte degli autori che si sono occupati della questione sia contraria al riconoscimento di un divieto di doppia imposizione nel diritto internazio-nale

77. Vi sono orientamenti interpretativi, nel diritto internazionale, che paiono muoversi in una diversa direzione.

Il rapporto tra norme convenzionali e diritto consuetudinario costituisce una questione lungamente dibattuta nella dottrina internazionalistica. Og-getto di interesse è se, ed in qual misura, una prassi convenzionale ripetuta e diffusa possa essere utilizzata a dimostrazione dell’esistenza di una norma di carattere consuetudinario avente identico contenuto. L’idea che si è gradual-mente fatta strada è che, nel caso in cui gli Stati concludano numerosi tratta-

76 Si veda la già ricordata sentenza Block, C-67/08, par. 31. 77 Si veda, per una posizione recente nel senso indicato, BAGGIO, Il principio di territo-

rialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, p. 69, secondo il quale «quasi nessu-no ormai pone in dubbio l’idea che non esista una norma di diritto internazionale generale che vieti la doppia imposizione».

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ti, bilaterali o multilaterali, allo scopo di dare una disciplina adeguata a si-tuazioni che possono verificarsi nei loro reciproci rapporti, tale comporta-mento ripetuto e costante deve essere tenuto in considerazione, insieme ad altri elementi, al fine di pervenire all’individuazione di un principio di carat-tere più generale, di natura non più convenzionale, bensì consuetudinaria

78. È stato giustamente osservato, in particolare, che la forza persuasiva di

un trattato ai fini dell’individuazione di una regola generale è tanto maggio-re, quanto più elevato è il numero degli Stati che vi partecipano

79: la stessa considerazione può ritenersi valida anche nel caso in cui si sia in presenza di una pluralità di convenzioni, bilaterali o multilaterali, le quali manifestino un orientamento comune nel disciplinare una determinata materia. Non sem-bra esservi dubbio, infatti, sull’analogia esistente tra la situazione in cui una pluralità di Stati concordano su di un medesimo testo e quella, invece, nella quale esistano tanti accordi di contenuto sostanzialmente analogo tra gli Stati interessati.

Da questo punto di vista, dunque, il gran numero di convenzioni bilate-rali contro le doppie imposizioni vigenti potrebbe costituire elemento ido-neo a provare una uniformità di comportamenti da parte degli Stati e, corre-lativamente, una corrispondente opinio juris

80. Tale indagine non è, ovvia-

78 La Corte Internazionale di Giustizia ha talvolta fatto riferimento alla prassi convenzio-nale per accertare l’esistenza di una norma di diritto internazionale generale. Nella sentenza sul caso Nottebohm (in I.C.J. Reports, 1955, p. 4 ss.), ad esempio, la Corte ha ricostruito l’esistenza, nel diritto consuetudinario, del requisito del genuine link per l’invocabilità della protezione diplomatica partendo proprio da alcuni trattati stipulati dagli Stati coinvolti nella controversia posta alla sua attenzione. Nello stesso senso, v. LUKASHUK, Customary Norms in Contemporary International Law, in MAKARCZYK (a cura di), Theory of International Law at the Threshold of the 21st Century. Essays in honour of K. Skubiszewski, The Hague-Boston-Lon-don, 1996, p. 487 ss., p. 499, secondo il quale «the content of multilateral and bilateral treaties represents the most lucid and authoritative evidence specifically of legal practice».

79 V. in tal senso BAXTER, Multilateral Treaties as Evidence of Customary International Law, in British Year Book of International Law, 1965-66, p. 275 ss., p. 278. Riconosce che «una partecipazione quasi universale al trattato tende a rafforzare gli indizi che tale trattato rifletta il diritto consuetudinario» PISILLO MAZZESCHI, Trattati e consuetudine nel diritto in-ternazionale, in La Comunità internazionale, 1994, p. 196 ss., p. 209. Questo autore, tuttavia, rileva come «uno Stato, con la ratifica o l’adesione, di solito esprime soltanto la sua volontà di essere vincolato da obblighi convenzionali, e non da obblighi di diritto consuetudina-rio» (ibidem, p. 210).

80 L’autore da ultimo citato ha osservato come gli elementi cosiddetti interni di un trat-tato (lavori preparatori, riferimenti contenuti nel preambolo, numero di Stati ratificanti ed entrata in vigore del trattato sul piano internazionale) siano idonei a rivelare l’opinio juris degli Stati, ancorché possano rilevare anche come manifestazioni di prassi statale (ibidem,

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mente, di per sé esaustiva 81, tuttavia appare comunque rilevante, specie se si

accompagna ad ulteriori manifestazioni della prassi che confermano la me-desima attitudine da parte degli Stati

82. L’obiezione che viene talvolta mossa nei confronti di una valorizzazione

dei trattati quali strumenti idonei a rivelare l’esistenza di una disciplina con-suetudinaria concerne l’ambiguità della prassi: si insiste spesso nel sottoli-neare che il fatto che gli Stati addivengano alla stipulazione di accordi per re-golare una determinata materia testimonierebbe la consapevolezza dei me-desimi circa l’inesistenza di norme di carattere generale invocabili

83. p. 206). In quest’ultima veste, tuttavia, tali elementi avrebbero «di solito un valore molto li-mitato» (ibidem, p. 217). Non è mancato chi ha sostenuto, al contrario, che la stipulazione di trattati di contenuto analogo rivestirebbe importanza soltanto come elemento di prassi stata-le, dovendosi viceversa ricavare aliunde la sussistenza, necessaria, dell’ulteriore requisito dell’opinio juris (AKEHURST, Custom as a Source of International Law, in British Year Book of International Law, 1974-75, p. 1 ss., p. 44). Si può affermare che gli episodi della prassi rap-presentano indicazione anche dell’opinio juris degli Stati, rivelandosi il più delle volte difficile distinguere i due aspetti (v. in tal senso GAJA, La doctrine et la pratique de droit international: quelques réflexions, in Annoire Français de Droit International, 2005, p. XI ss., p. XIV).

81 Non basta riscontrare un certo orientamento nella prassi pattizia per affermare l’esistenza di una norma di diritto internazionale generale avente il medesimo contenuto, dovendosi viceversa trovare ulteriori conferme in altri elementi della prassi. Come ha os-servato BAXTER, op. cit., p. 298, il rilievo che i trattati possono avere nella ricostruzione di una norma consuetudinaria «is also affected by the amount of consistent or inconsistent evi-dence of the state as customary international law available from other sources, such as judicial decisions or diplomatic correspondence». Va, tuttavia, ricordato che un orientamento dottri-nale valorizza in modo pressoché esclusivo la ripetuta conclusione di trattati di tenore ana-logo, ricavando da ciò l’esistenza di una norma consuetudinaria, indipendentemente dal-l’esistenza di ulteriori elementi di prassi atti a confermarne la tendenza. Si vedano al ri-guardo, in particolare, D’AMATO, The Concept of Custom in International Law, New York, 1971, e TORRIONE, L’influence des conventions de codification sur la coutume en droit interna-tional public, Fribourg, 1989.

82 Nel caso della doppia imposizione internazionale, possono valere come ulteriori e ri-levanti elementi di prassi sia le prese di posizione di organizzazioni internazionali, come l’OCSE e l’ONU, nel senso dell’esigenza di eliminare o circoscrivere il più possibile il fe-nomeno; sia anche la condotta degli Stati che, di frequente, adottano misure interne volte a evitare in modo unilaterale la doppia imposizione. Sulla rilevanza della condotta delle organizzazioni internazionali ai fini della formazione di norme consuetudinarie si rinvia a LACHS, Le rôle des organisations internationales dans la formation du droit international, in Mélanges offerts à H. Rolin, Paris, 1964, p. 157 ss.

83 Si veda in questo senso, tra gli altri, VILLIGER, Customary International Law and Trea-ties, The Hague-Boston-London, 1997, p. 189, il quale sostiene che «even a series of such treaties cannot per se offer conclusive evidence of a customary rule, or the opinio, since States may be ratifying such treaties precisely because they believe that no customary rules exist, or will exist, on the matter».

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Si tratta di una obiezione poco persuasiva. In primo luogo, infatti, la so-stanziale identità di contenuto – qualora sia dimostrabile – degli accordi in-ternazionali in materia di eliminazione della doppia imposizione e l’elevato numero dei medesimi rappresentano elementi di rilievo, salvo che non si ri-esca a dimostrare che gli Stati fossero consapevoli dell’inesistenza di obbli-ghi in tal senso sul piano del diritto internazionale generale: una circostanza difficilmente rinvenibile in relazione al vasto numero di convenzioni esi-stenti in subjecta materia. La norma consuetudinaria potrebbe, comunque, essere venuta in essere successivamente all’accordo.

Non solo. Appare evidente che non esiste alcuna necessaria alternatività tra la previsione di un principio in una disposizione convenzionale e l’esi-stenza di una norma consuetudinaria: le due forme di disciplina possono coesistere e integrarsi reciprocamente. Pur in presenza di una norma di diritto internazionale generale che sancisca un divieto di doppia imposizione, le convenzioni continuano ad assolvere al diverso compito di darvi attuazione, prevedendo in che modo, con riferimento a ciascuna categoria di reddito, la potestà fiscale degli Stati debba ripartirsi.

Da questo punto di vista, il grande numero di convenzioni bilaterali con-tro le doppie imposizioni esistente sembra manifestare una diffusa opinio juris degli Stati nel reputare non giustificate le situazioni di doppia imposi-zione

84. Si potrebbe, dunque, ragionevolmente ritenersi formata – o, quanto meno, in avanzata fase di formazione – una norma di diritto internazionale generale vietante la doppia tassazione e tale, quindi, da imporsi agli Stati a prescindere dall’esistenza di specifici trattati internazionali

85. Qualora ricostruibile – e, nonostante le molte voci contrarie, sembra diffi-

cile non attribuire alcun rilievo alla prassi pattizia, così pervasiva, per quanto ulteriori conferme nella prassi siano comunque indispensabili – una norma internazionale di tal genere avrebbe un impatto senza dubbio rilevante nel contesto dell’UE. A parte il vincolo che, a livello costituzionale, una consue-tudine internazionale può porre a carico del legislatore nazionale

86, anche se-

84 V. CORDEIRO GUERRA, Diritto tributario internazionale, cit., p. 105. 85 Naturalmente, qualora la si ritenga già esistente, una norma di tal genere appare co-

munque vaga (e, quindi, non self-executing) nella misura in cui si limita a negare la legitti-mità di fenomeni di doppia imposizione senza indicare in che modo questi casi possano essere risolti in concreto. Come indicato nel testo, tuttavia, le convenzioni bilaterali in vi-gore (o, comunque, l’autorità dello stesso Modello OCSE) possono contribuire efficace-mente a riempire di contenuto la norma in questione.

86 Si pensi, per quanto riguarda il nostro ordinamento, all’art. 10, comma 1, Cost.

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condo la Corte di Giustizia il diritto internazionale generale deve essere ri-spettato non solo dalle istituzioni

87, ma anche dagli Stati membri nei loro rapporti reciproci, in particolare laddove la norma invocata sia coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione

88. Dunque, le convenzioni contro le doppie imposizioni, anziché essere mero

strumento di realizzazione di un obiettivo, quello dell’eliminazione della doppia tassazione nei rapporti tra Stati membri, altrimenti non coercibile, sono destinate a rappresentare e giustificare la preminenza di esso quale ef-fetto di un principio fondamentale dell’ordinamento dell’Unione.

8. Conclusioni

La doppia imposizione rappresenta un evidente disvalore nel contesto dell’UE. La realizzazione di un plurimo prelievo sul medesimo reddito, a causa del collegamento soggettivo o oggettivo della fattispecie con più Stati membri, si traduce in un ostacolo all’esercizio delle libertà fondamentali e, in ultima analisi, contraddice lo spirito stesso dello spazio comune. Non vi è alcuna differenza ontologica tra un dazio applicato alla frontiera, misura da sempre ritenuta contraria ai Trattati, ed una imposizione che colpisca un fatto economico in ragione del suo prodursi entro uno spazio transfrontalie-ro e del suo manifestarsi sia al di là che al di qua della frontiera medesima.

Quella appena sintetizzata parrebbe una conclusione banale, alla luce del-l’evoluzione e dello stato attuale di sviluppo del diritto dell’Unione. Tutta-via, l’atteggiamento degli Stati e, soprattutto, delle istituzioni rispetto a que-sto fenomeno è stato sino ad oggi oltremodo timido e in qualche modo con-traddittorio. Nessuno degli attori della vicenda nega, invero, che la doppia imposizione sia contraria agli obiettivi dell’Unione. Tuttavia, una simile con-statazione viene posta più in un’ottica di politica generale che in una visione più strettamente di diritto positivo. Ciò si è finora tradotto nella sostanziale deresponsabilizzazione delle istituzioni medesime rispetto al fenomeno, la-sciando invece agli Stati membri il compito di occuparsene. Paradossalmente, per quanto la doppia imposizione sia perniciosa per l’ordinamento comune, la sua eliminazione non dovrebbe essere demandata agli strumenti normati-vi dell’Unione, nell’affermata mancanza di regole primarie che la vietino nel

87 Sent. Racke, C-162/96, 16 giugno 1998. 88 Sent. Van Duyn, causa 41/74, 4 dicembre 1974.

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sistema dei Trattati, ma affidata agli Stati, i quali agiscono con i mezzi e le modalità proprie del diritto internazionale.

La sussidiarietà, talvolta invocata quale fondamento di una simile situa-zione, viene al contrario malintesa, nella misura in cui comunque non con-sente un intervento dell’Unione, sulla base di norme primarie, nel caso – che poi si verifica frequentemente – di intervento assente o inadeguato da parte degli Stati membri.

L’analisi del fenomeno della doppia imposizione alla luce del complessivo sistema giuridico dell’Unione consente, al contrario, come si è visto di ravvi-sare una pluralità di norme fondamentali dell’ordinamento comune sulla cui base è possibile affermare l’esistenza di un vero e proprio divieto già operan-te in seno ad esso. Non più mera ed ipotetica conseguenza dell’azione degli Stati, eventualmente in seno alle istituzioni, il divieto di doppia imposizione è verosimilmente una regola già operante nel sistema dell’Unione e riposan-te su fonti di rango supremo.

Certo, sull’approccio sino ad oggi prevalente ha influito in misura non ir-rilevante la gelosia degli Stati membri che, sebbene con cautele, hanno con-sentito una progressiva limitazione della sovranità fiscale, in particolare trami-te l’azione della Corte di Giustizia, ma preferiscono evitare che a dirimere i casi di doppia imposizione possa essere chiamato un soggetto terzo, in as-senza di regole condivise circa le modalità di ripartizione del potere imposi-tivo tra i due Stati coinvolti.

Non è detto, peraltro, che tale timore sia fondato. Se può essere vero che, posto il principio che vieta la doppia imposizione, esso non fornisce i criteri per evitarla in ciascun caso concreto, è altrettanto vero che potrebbero sov-venire le regole previste dalle convenzioni bilaterali contro le doppie impo-sizioni ovvero, qualora manchino, comunque quelle evidenziate in seno al modello OCSE, trattandosi, come anche la Corte di Giustizia ha più volte affermato, di criteri rilevanti ai fini della ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati in presenza di una fattispecie transfrontaliera. Dunque, anche a non voler immaginare soluzioni ulteriori e diverse

89, il fenomeno potrebbe comunque rimanere confinato nell’ambito di rimedi ampiamente condivisi dagli Stati.

Come peraltro evidenzia la sollecitudine della Commissione ad affronta-re la questione, su di essa si gioca una buona fetta della credibilità del siste-ma comune in ambito fiscale: lasciare che la doppia imposizione possa sus-

89 Si veda l’ampia disamina svolta, sul punto, da KOFLER-MASON, op. cit., p. 81 ss.

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sistere, salva la buona volontà degli Stati agenti singolarmente o nel conte-sto delle istituzioni (ove vige la regola dell’unanimità dei consensi), significa creare un grave vulnus all’ordinamento dell’Unione, non solo con riferimen-to ai meccanismi che presiedono al suo ordinamento nei rapporti tra gli Sta-ti membri e tra questi e le istituzioni (libertà fondamentali), ma anche avuto riguardo alla tutela della posizione soggettiva del contribuente, i cui diritti rischiano in tal modo di essere eccessivamente compressi. In questo senso, è auspicabile che la Corte valuti in modo coerente rispetto a quanto fatto in altri settori della fiscalità nazionale il fenomeno e le sue possibili implicazio-ni, abbandonando una giurisprudenza restrittiva che, alla luce di quanto si è detto, appare assolutamente non attuale.

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Ludovico Nicòtina

IN TEMA DI AGEVOLAZIONI FISCALI PER LA MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE

REFLECTIONS ON TAX INCENTIVES IN ORDER TO PROMOTE MEDIATION IN CIVIL MATTERS

Abstract La legge delega n. 69/2009 ha previsto la concessione di forme di agevolazione fiscale al fine di favorire l’affermazione del nuovo istituto della mediazione, una scelta che, tuttavia, deve restare entro i limiti di una ragionevole e razionale com-pressione delle ragioni erariali. Il quadro normativo di riferimento, riconducibile al D.Lgs. n. 28/2010 e al D.M. n. 180/2010, deve essere posto in relazione alla normativa fiscale riguardante le imposte coinvolte nelle scelte operate. Le agevo-lazioni concesse potrebbero, infatti essere utilizzate impropriamente a scopi elu-sivi, realizzando nuove forme di abuso del diritto fiscale. I temi oggetto di appro-fondimento riguardano, dunque, il corretto inquadramento delle agevolazioni fi-scali, previste dal D.Lgs. n. 28/2010 all’art. 17, commi 2 e 3, riguardo all’imposta di bollo e a quella di registro, e all’art. 20, riguardo al credito d’imposta, cui si ag-giunge l’approfondimento di talune problematiche di contorno, relative agli aspetti fiscali della mediazione civile e commerciale. Parole chiave: mediazione civile e commerciale, agevolazioni fiscali, imposta di bollo e di registro, credito d’imposta, responsabilità fiscale del mediatore Delegation Law No. 69/2009 provides for the possibility to accord forms of tax relief in order to increase the application field of this new legal institution in civil matters. It is worth underlining that also in this case the limits of a reasonable and rational com-pression of tax reasons can not be derogated. The framework is based on both Legisla-tive Decree No. 28/2010 and Ministerial Decree No. 180/2010. This framework has to be related to the tax laws provisions concerning taxes involved in mediation acts. This is due to the possible taxpayer misuse of the tax relief, which could lead to new forms of tax law abuse. The topics examined in this article take into account these tax reductions, provided

3.

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by Art. 17 of Legislative Decree No. 28/2010, paragraphs 2 and 3, relating to stamp duty and registration fees, and by Art. 20, relating to the tax credit. Besides some other problems arising from the tax aspects of civil and commercial mediation are treated. Keywords: civil and commercial mediation, tax reliefs, stamp duty and registration fees, tax credit, fiscal responsibility

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Sul regime dell’esenzione totale per l’imposta di bollo. – 3. L’imposta di registro: l’esenzione parziale e l’abuso della norma. – 4. Il credito d’imposta: con-dizioni e distinzioni.

1. Considerazioni introduttive

Trattando delle agevolazioni fiscali 1, previste dal D.Lgs. n. 28/2010, va

subito premesso che esse non si estendono all’IVA, corrisposta sulle presta-zioni rese dall’Organismo di mediazione oppure dal mediatore designato.

Le “facilitazioni”, infatti, vogliono favorire esclusivamente le parti in lite ed hanno lo scopo precipuo di attrarre i soggetti in contesa, esortandoli a pri-vilegiare la mediazione piuttosto che ricorrere alla soluzione contenziosa giurisdizionale. In altri termini, gli assetti fiscali, predisposti nei confronti del-la mediazione civile, sono determinati dalla palese volontà legislativa di in-centivare il ricorso allo strumento, attuando l’obiettivo della deflazione del contenzioso giudiziale e incoraggiando le parti alla conciliazione

2. Quanto

1 V., in generale, BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, p. 421 ss.

2 In ottemperanza all’art. 60, comma 3, lett. o) della legge delega n. 69/2009, laddove ha previsto espressamente per la mediazione forme di agevolazione di carattere fiscale in favore delle parti. Si tratta di un fenomeno non certo nuovo e inquadrabile tra le disposi-zioni definite “leggi-incentivo”, in quanto volte all’incoraggiamento di determinati com-portamenti e/o a determinate scelte. Si veda al riguardo: PREZIOSI, Il condono fiscale, Mila-no, 1987, p. 56 ss., e per ulteriori esaustivi riferimenti specialmente nota 19). Più in gene-rale, sul tema si veda: BOBBIO, Sulla funzione promozionale del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, p. 1318 ss. Del resto, si tratta di una scelta legislativa non dissimile rispetto a quella alla base di diverse agevolazioni, quali le riduzioni sanzionatorie, concesse ai contri-buenti che finalizzino il ricorso agli istituti di prevenzione del contenzioso quali: l’accerta-mento con adesione (D.Lgs. n. 218/1997), la conciliazione giudiziale (art. 48, D.Lgs.

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Ludovico Nicòtina

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affermato si ricava dall’intero arco delle disposizioni in materia di mediazione, a cominciare dall’art. 4, ult. comma, D.Lgs. n. 28/2010, laddove si dispone l’obbligo dell’avvocato di informare il “cliente”, al momento del conferimento dell’incarico per la proposizione del giudizio, sulle agevolazioni fiscali con-cessegli ove preferisse ricorrere alla mediazione

3. In questa disposizione, pertanto, il legislatore dichiara l’intenzione di “avvantaggiare” i contendenti che preferiscono il procedimento di mediazione rispetto alla risoluzione giudiziale della lite e, a tal fine, si avvale della leva fiscale. I motivi sono mol-teplici, a partire dall’interesse pubblico alla riduzione del carico giudiziale ed al conseguente intento di evitare l’intasamento dell’amministrazione della giustizia

4. Nel D.Lgs. n. 28/2010 vi sono, dunque, disposizioni fiscali che confer-

mano la propensione legislativa per la mediazione e la rilevanza attribuitale anche rispetto all’interesse erariale.

Secondo l’art. 20, comma 1, persino nelle ipotesi d’insuccesso della me-diazione, le parti sono premiate solo per aver tentato questa modalità alterna-tiva di risoluzione della lite, con un credito d’imposta, sia pure in misura ri-dotta rispetto a quello conseguibile in caso di fruttuoso esito della concilia-zione

5. n. 546/1992), la recentemente introdotta mediazione tributaria (art. 17 bis, D.Lgs. n. 546/ 1992) o la semplice acquiescenza con rinuncia ad adire la giustizia tributaria (art. 16, D.Lgs. n. 472/1997).

3 Così dispone, infatti, la norma citata, laddove non si limita a contemplare l’obbligo del-l’avvocato, al momento in cui gli è conferito l’incarico, d’informazione dell’assistito riguar-do alla possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione, ma espressamente dispone che l’informativa in questione concerna, altresì, le «agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20».

4 È opportuno osservare che, dunque, il legislatore assegna un valore rilevante all’obiet-tivo in questione e che detto interesse pubblico è considerato talmente meritevole di tutela da potergli sacrificare, almeno in parte, lo stesso interesse fiscale. Questa circostanza ac-quisisce rilevanza anche nell’esegesi della neo introdotta mediazione tributaria, per effetto dell’art. 17 bis inserito nel corpus del D.Lgs. n. 546/1992 dall’art. 39, comma 9, D.L. n. 98/2011, sulla quale si segnalano rilevanti interventi, a cominciare dall’Agenzia delle En-trate, specie con la “corposa” Circ. 19 marzo 2012, n. 9/E.

5 In merito, infatti, l’art. 20, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010 sancisce, riguardo alle inden-nità che le parti corrispondono ai mediatori, che alle parti sia concesso un credito d’impo-sta corrispondente. Quest’ultimo è commisurato all’intero importo dell’indennità stessa «fi-no a concorrenza di euro cinquecento», nelle ipotesi in cui la mediazione vada a buon fine, ma è, comunque, riconosciuto un credito d’imposta, sebbene in misura ridotta, anche ri-guardo alle ipotesi di insuccesso della mediazione. In particolare, la norma prevede che, in quest’ultimo caso, il credito d’imposta “è ridotto della metà” rispetto alle indennità. Al ri-

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In definitiva, comunque, si individuano tre principali “assetti” agevolativi che vanno esaminati separatamente e rispetto ai quali è opportuno condurre alcune riflessioni e precisazioni. L’uno riguarda l’esenzione da bollo e diritti, l’altro si riferisce all’imposta di registro e, l’ultimo, riguarda il credito d’im-posta corrispondente all’indennità versata ai mediatori. È utile, infine, segna-lare che, nonostante quanto testé premesso in ordine al favor legislativo con-cesso alla mediazione e sotteso alle scelte agevolative in questione, queste ul-time si rivelano non sempre soddisfacenti e, a volte, è necessario rilevare l’op-portunità di un’interpretazione restrittiva riguardo alle stesse, onde evitare che possano configurarsi strumentalizzazioni dell’istituto in funzione elusiva

6.

2. Sul regime dell’esenzione totale per l’imposta di bollo

L’art. 17, D.Lgs. n. 28/2010, comma 2, dispone che «tutti gli atti, docu-menti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e na-tura». Occorre esaminare separatamente quali siano gli atti, i documenti ed i provvedimenti ai quali la norma intende riferirsi e risolvere alcuni dubbi

7. Per quel che concerne gli atti del procedimento di mediazione, essi sono

costituiti: dalla domanda di conciliazione 8; dall’eventuale conferimento del-

guardo ancora nel corso della trattazione a seguire. Tendevano ad incentivare il buon esito della mediazione anche l’art. 8, comma 5, D.Lgs. n. 28/2010 (come modificato dall’art. 2, comma 35 sexies, D.L. n. 138/2011), che, in assenza di “giustificato motivo”, sanzionava la mancata partecipazione al procedimento di mediazione e l’art. 13, D.Lgs. n. 28/2010 che escludeva la ripetizione delle spese sostenute dopo la proposta di mediazione ove la sen-tenza fosse interamente conforme all’accordo rifiutato. Queste due disposizioni, tuttavia, sono state travolte dalla sent. 6 dicembre 2012, n. 272 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità, per eccesso di delega, della mediazione obbligatoria, pur non essendo le due disposizioni in esame necessariamente collegate con l’obbligatorietà della mediazione medesima.

6 Stigmatizza il ridotto impatto delle agevolazioni in questione DEL FEDERICO, La me-diazione nelle controversie civili e commerciali. La registrazione del verbale di conciliazione e dell’accordo tra le parti, in Boll. trib., n. 4, 2012, p. 245. In merito al rischio elusivo, sul quale peraltro si tornerà, si rinvia a MICCOLIS, I procedimenti in materia commerciale, Padova, 2005, p. 838 ss.

7 In generale sull’imposta di bollo si vedano: D’AMATI, L’imposta di bollo, Torino, 1962; CAFIERO, Testo unico della legge sul bollo, Milano, 1983; COCO, (voce) Bollo (imposta di), in Enc. giur. Treccani, vol. V, 1988.

8 Prevista dall’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010, che dispone sia avanzata istanza all’or-ganismo di mediazione.

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l’incarico all’avvocato, qualora, benché non prescritto dalla legge, la parte in-tenda, opportunamente, avvalersi di un tecnico; dall’adesione al procedimen-to di mediazione proposto dalla controparte; dalle eventuali memorie delle parti nel corso del procedimento; dalla proposta formulata dal mediatore, che lo ritenga opportuno o che ne sia stato richiesto concordemente dalle parti

9; dall’accettazione o dal rifiuto della proposta

10; dal verbale di raggiunto accor-do e dal connesso accordo

11 e, in fine, dal verbale di fallita intesa 12.

Per quel che concerne, invece, i documenti, a propria volta esentati da bolli e spese, ai quali si riferisce il legislatore con il disposto di cui all’art. 17, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, questi devono intendersi individuati nelle co-pie del processo verbale di avvenuto oppure di mancato accordo, depositate presso la segreteria dell’organismo di mediazione, ex art. 11, comma 5, D.Lgs. n. 28/2010; come anche nelle copie di attestazioni, dichiarazioni o scritti acquisiti al o nel procedimento di mediazione di cui al comma 1 dell’art. 10

13. Quest’ultima elencazione potrebbe apparire eccessivamente “restrittiva”

9 In tal senso, espressamente l’art. 11, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010, riguardo alle ipote-si in cui l’accordo non sia già stato raggiunto, con la conseguente redazione del processo verbale «al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo». È opportuno rammentare che, ai sensi del medesimo comma 1 della disposizione in esame le parti possono avanzare la “concorde richiesta” di formulazione di una proposta di conciliazione, «in qualunque momento del procedimento». Si noti, infine, che ai sensi del comma 2 dello stesso art. 11, ultimo inciso, ai fini della salvaguardia della peculiare riservatezza, che costituisce un’altra caratteristica della mediazione in esame, la proposta, salvo diverso ed espresso accordo delle parti, non dovrà «contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informa-zioni acquisite nel corso del procedimento». Riguardo a questa caratteristica, nei limiti del presente approfondimento, si tornerà ancora.

10 In conseguenza a quanto già rilevato, lo stesso art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, prevede, infatti, che la proposta di conciliazione, che deve essere portata a conoscenza del-le parti ai fini della loro accettazione, va comunicata, per iscritto, alle parti medesime. Que-ste ultime, a propria volta, devono far pervenire al mediatore, «per iscritto ed entro sette giorni», la loro accettazione oppure il rifiuto, cui ci si riferisce nella trattazione. Si noti, tut-tavia, che tale risposta potrebbe mancare. La norma, infatti, prevede anche l’ipotesi del si-lenzio, poiché se le parti non comunicano, entro il termine, la loro intenzione la proposta si intende rifiutata.

11 V. art. 11, comma 1, già citato e art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010. 12 Il verbale in questione è, anch’esso, previsto dall’art. 11, D.Lgs. n. 28/2010, al com-

ma 4, che ne stabilisce, altresì, il contenuto e la necessaria sottoscrizione delle parti e del mediatore.

13 V. art. 11, comma 5, D.Lgs. n. 28/2010: «Il processo verbale è depositato presso la segreteria dell’organismo e di esso è rilasciata copia alle parti che lo richiedono». Si ram-menta, altresì, che le predette attestazioni, dichiarazioni e scritti acquisiti nel procedimen-

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o riduttiva, ma discende dal dettato normativo dell’art. 17, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, laddove precisa che l’esenzione da imposte, tasse e diritti si rife-risce ai documenti relativi al procedimento di mediazione, cioè a quelli for-matisi nel procedimento. Del resto, non sarebbe corretto consentire, nel procedimento di mediazione, l’uso di documenti fiscalmente irregolari

14. Al-trimenti il procedimento di mediazione si trasformerebbe in un facile espe-diente per l’abusivo utilizzo di documenti formati in frode alle norme fiscali. In altri termini, il testo normativo, in conformità a una corretta interpreta-zione letterale e logica, non consente in alcun modo di ampliare le ipotesi di “vantaggio”, come accadrebbe se si ammettesse l’accesso a documenti pre-gressi fiscalmente irregolari, con esenzioni da imposta e defalco di sanzioni in relazione a questi ultimi. La produzione documentale, non formata nel corso del procedimento, dunque, è soggetta agli ordinari oneri impositivi e al-le ordinarie sanzioni

15. Residua, invero, un dubbio non indifferente, riguar-do alla trasmissione degli atti eventualmente irregolari prodotti nel proce-dimento. Appare evidente, infatti, che nei confronti del mediatore non pos-sa operare l’art. 19, D.P.R. n. 642/1972, essendo ben chiaro che questi non riveste la qualifica di pubblico ufficiale, poiché, come ancora si osserverà, è specificamente previsto l’intervento del pubblico ufficiale nel caso in cui si renda necessaria l’autentica delle sottoscrizioni dell’accordo conciliativo, al fine della sua successiva trascrizione

16. Il che dimostra incontrovertibilmen- to di mediazione, a norma del medesimo comma 1 dell’art. 10, D.Lgs. n. 28/2010, non possono essere utilizzate in giudizio, salvo il consenso della «parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni». Anche in questo caso a garanzia di una riservatezza che mira a lasciare impregiudicate le diverse e, ovviamente, più aggressive tattiche di difesa giudiziale. Circostanza questa che sembra non potersi riscontrare nella mediazione tributaria, si veda al riguardo BASILAVECCHIA, Instaurazione del giudizio con il ricorso/reclamo, in Boll. trib., n. 19, 2012, p. 1454 ss.; PISTOLESI, Il reclamo e la mediazione nel processo tributario, in Rass. trib., n. 1, 2012, p. 65 ss., in cui si esaminano in particolare le differenze tra mediazione ci-vile e tributaria; SEPIO, La proposta di mediazione da parte del contribuente e i limiti del re-clamo, in Corr. trib., n. 11, 2012, p. 770 e nota 7 in specie.

14 V. CHIESA, Profili fiscali del procedimento di mediazione, in BESSO (a cura di), La me-diazione civile e commerciale, Torino, 2010, p. 298 ss.; contra, MENDUTO, Gli aspetti fiscali della mediazione, in SCIANCALEONE-SICA (a cura di), Mediazione e conciliazione. Profili teo-rico pratici, Torino, 2010, p. 63.

15 Occorre osservare che, per quanto riguarda i documenti soggetti a imposta di bollo solo in caso d’uso, quest’ultimo non ricorre nell’ipotesi di deposito nel procedimento di me-diazione. E, dunque, da questo deposito non sorge l’obbligo d’imposta.

16 V. art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010, secondo inciso: «Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice

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te, se pure ce ne fosse stato bisogno, che il mediatore non riveste tale quali-fica

17. Né, tanto meno, svolge funzioni giudiziali o paragiurisdizionali, come avviene per gli arbitri nel caso dell’arbitrato

18 e, comunque, non acquisisce i documenti allo scopo di fondare un proprio provvedimento decisorio, poi-ché il suo ruolo non è finalizzato a questo scopo. Mi sembra, anche, possa escludersi una forma di responsabilità solidale da mandato del mediatore nei confronti delle parti, in quanto non è incaricato da queste ultime ma dal-l’organismo di mediazione

19. Gli organismi di mediazione potrebbero, invece, considerarsi obbligati alla

trasmissione ai fini della regolarizzazione, in quanto tenuti a conservare li-bri, registri o documenti soggetti a bollo

20, nonostante la riservatezza che caratterizza il procedimento

21. Riguardo all’organismo di mediazione, l’ob-bligo della trasmissione per la regolarizzazione ai fini fiscali potrebbe ricavarsi per effetto della disposizione che prevede l’istituzione del “registro degli af-fari di mediazione” che impone all’Organismo, sebbene a scopi diversi, la conservazione degli “atti dei procedimenti trattati”

22. Occorre, infine, indi- civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale de-ve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato».

17 In senso conforme, si veda DEL FEDERICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 248.

18 Vedi, se vuoi in argomento L. NICÒTINA, Contributo allo studio dell’arbitrato in mate-ria tributaria, in Quaderni dir., econ. e fin., n. 14, 2008, par. 3.6.b e 3.7, pp. 124-134 e, in par-ticolare, p. 126 e note 364-365 e pp. 133-134. V. art. 19, D.P.R. n. 642/1972.

19 In questo caso, dunque, a differenza di quanto osservato altrove, allorché si è ritenu-to poter onerare gli arbitri irrituali rispetto agli atti non in regola con l’imposta di bollo prodotti nel corso del procedimento arbitrale, la diversità di ruoli, infatti, si evidenzierebbe anche sotto questo profilo non essendo riconducibile il mediatore alla figura del mandata-rio ad negotia. In riscontro vedi, se vuoi, L. NICÒTINA, op. cit., pp. 133-134.

20 V. art. 35, comma 2, D.P.R. n. 642/1972: «I soggetti indicati nell’art. 19 e tutti coloro che a norma di disposizioni legislative o regolamentari sono obbligati a tenere o a conservare libri, registri, atti o documenti soggetti a bollo sono obbligati ad esibirli ai funzionari ed im-piegati di cui al precedente comma ed agli ufficiali ed agenti della polizia tributaria».

21 In tal senso, si sono già richiamate alcune disposizioni, ma anche l’art. 9, D.Lgs. n. 28/2010 assume rilevanza poiché impone a «chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o comunque nell’ambito del procedimento di mediazione» l’ob-bligo della riservatezza, anche nei confronti delle altre parti dello stesso procedimento, ri-guardo a “dichiarazioni rese” e “informazioni acquisite” nel corso del procedimento di me-diazione.

22 V. art. 12, decreto n. 180/2010: «A norma dell’articolo 2961, co. 1, del codice civile, è fatto obbligo all’organismo di conservare copia degli atti dei procedimenti trattati per al-meno un triennio dalla data della loro conclusione».

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viduare quali siano i provvedimenti del procedimento di mediazione esenti da imposta. A tal fine occorre riferirsi: al provvedimento con il quale l’orga-nismo, investito dalla domanda di mediazione, designa il mediatore per la risoluzione della controversia

23; al provvedimento con il quale è conferito incarico ad un mediatore, diverso da quello nominato per la risoluzione del contrasto, perché formuli la proposta di mediazione

24 o, infine, al provvedi-mento di sostituzione del mediatore, precedentemente nominato, predispo-sto dall’organismo di mediazione su richiesta della parte

25. Non mi sembra, invece, che possa includersi tra i provvedimenti esenti

da bolli e spese, a norma del comma 2 dell’art. 17 in esame, il provvedimen-to giudiziale di omologazione, al quale si riferisce il comma 1 dell’art. 12 del medesimo D.Lgs. n. 28/2010

26. Tale conclusione si fonda, a mio avviso, sul rilievo che il provvedimento di omologa costituisce adempimento separato, distinto e successivo rispetto al procedimento di mediazione e, dunque, que-sto provvedimento giudiziale si pone al di fuori dello svolgimento della me-diazione e non può essere considerato ai fini dell’agevolazione fiscale de quo. In tal senso, mi sembra, conduca anche la semplice osservazione del termi-ne, concesso dalla legge, al fine di pervenire alla definizione della mediazio-ne – la quale, infatti, va conclusa, in quattro mesi

27 – termine che, tuttavia, non include, né potrebbe, anche l’omologazione.

Serve rilevare, altresì, come il provvedimento di omologa potrebbe esse-re dato dal giudice davanti al quale penda il processo di merito concernente la contesa oggetto di mediazione. In questa eventualità, l’esecutività dell’ac-cordo, sussistendone le condizioni, deve essere concessa dal giudice del giudizio, il solo in grado di determinare la connessa estinzione del processo

28. Se questo è vero e corretto, come in effetti appare, sembra impossibile com-

23 In forza dell’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010. 24 V. art. 7, comma 2, lett. b), decreto 18 ottobre 2010, n. 180. 25 V. art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010. 26 In senso avverso TISCINI, La mediazione civile e commerciale, Torino, 2011, p. 308.

Esprime dubbio al riguardo, invece, MARUCCI, Commento all’art. 17, in BOVE (a cura di), La mediazione per la composizione delle controversie civili e commerciali, Padova, 2011, p. 353.

27 V. art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010. 28 Una differente soluzione comporterebbe il rischio di alimentare incertezza nel dirit-

to, con grave nocumento per le parti. Potrebbe accadere, infatti, che, in sede di omologa, questa venga definitivamente negata, nonostante sia, invece, intervenuta l’estinzione del processo in considerazione dell’avvenuta mediazione. Ne discenderebbe l’inaccettabile con-seguenza in base alla quale sarebbe impossibile ottenere, successivamente, l’esecuzione for-zata dell’accordo, eventualmente non rispettato (art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010).

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prendere tra i provvedimenti del procedimento di mediazione, esenti per legge dall’imposta di bollo, il provvedimento giudiziale, con il quale il giudi-ce di merito, dispone l’omologazione dell’accordo conciliativo.

In ultimo, è appena il caso di ricordare come gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalità

29, caratteristica, certamente, non riferibile al decreto giudiziale di omologazione, il quale deve attribuire al-l’accordo la forza di titolo esecutivo, idoneo per tutte le forme di esecuzione e, pertanto, deve rispettare necessariamente alcuni requisiti di forma. A con-ferma della conclusione secondo la quale l’esenzione dall’imposta di bollo si riferisce alla conciliazione, e non al successivo provvedimento giudiziale di omologazione, va osservato come, in forza del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642, la conciliazione, anche stragiudiziale, è, invece, soggetta all’imposta di bollo quando non è prevista una specifica esenzione

30. L’art. 17, comma 2 del decreto legislativo in commento, dunque, escludendo il pagamento del-l’imposta di bollo, per il solo procedimento di mediazione, deve riferirsi al-l’accordo conciliativo, attuato nel procedimento di mediazione, ma non può essere riferito, per tutte le suesposte ragioni, al successivo provvedimento giudiziale. Infatti, le norme fiscali non consentono interpretazioni estensive delle tassative ipotesi di esclusione previste, poiché è noto che le norme di esenzione dal versamento di tributi, sia questa integrale o parziale, rappre-sentano deroghe alla disciplina tributaria generale stabilita dalla legge ordi-naria. Hanno, dunque, carattere speciale e, di conseguenza, non possono es-sere utilizzate che nei limiti specifici entro i quali il legislatore medesimo le ha concesse

31.

29 V. art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010. 30 V. DONATI, (voce) Bollo (imposta di), in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. II, 1987, p. 254 ss. 31 V. art. 14 disp. prel. c.c. Si tratterebbe, peraltro, di forme di applicazione analogica

più che di semplice interpretazione estensiva che, per principio generale, non è applicabile alle disposizioni tributarie che interessino aspetti sostanziali del tributo. Al riguardo, anche recentemente, Suprema Corte di Cassazione, 19 marzo 2009, n. 6627, in banca dati fiscon-line. In generale sull’interpretazione si vedano: MELIS, L’interpretazione del diritto tributa-rio, Padova, 2003; FERLAZZO NATOLI, La teoria dell’interpretazione nel diritto tributario: spunti introduttivi, in Dir. prat. trib., n. 2, 1996; GIANNINI, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, in Riv. dir. fin., 1941, I, p. 106 ss.; VANONI, Natura e interpretazione del-le leggi tributarie, in Opere Giuridiche, Milano, 1961, I. In senso parzialmente difforme a quanto sostenuto nel testo LA ROSA, Esenzioni e agevolazioni tributarie, in Enc. giur. Treccani, vol. XIII, 1989, sostiene che le norme di esenzione potrebbero, anch’esse, essere fatte og-getto di interpretazioni estensive, comprendendo ipotesi non tassativamente previste, in for-za dell’analogia del principio. Quest’aspetto, comunque, non pare potersi riscontare nella fattispecie in esame.

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La disposizione dell’art. 17, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, comprende, al-tresì, nell’esenzione del pagamento, qualsiasi tassa per il rilascio di copie dei documenti del procedimento di mediazione. Precisa, inoltre, come il rila-scio dei predetti documenti sia esente da ogni spesa o corresponsione di di-ritti. Anche in questo caso è opportuno specificare che l’esclusione dal pa-gamento delle spese

32 deve intendersi riferita soltanto: alle spese affrontate, dalla segreteria dell’organismo di mediazione, per il rilascio di copie del ver-bale di conciliazione o di mancata conciliazione

33; alle spese per il rilascio delle copie ai fini dell’omologazione

34. Invece, a mio avviso, non rientra nell’esenzione il diritto che compete al

pubblico ufficiale nel caso in cui questi debba autenticare le sottoscrizioni dell’accordo conciliativo, per procedere alla trascrizione dello stesso, così come dispone l’art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010. Ciò in quanto, questo adempimento, necessario per legge in determinati casi, non può essere compreso tra gli atti tipici del procedimento di mediazione. Esso resta, in-fatti, un onere da osservare solo nel caso in cui si desideri trascrivere l’accor-do ormai perfezionato.

In conclusione, occorre ritenere che le agevolazioni fiscali, concesse alla mediazione, debbano essere mantenute entro i limiti di una logica e coeren-te interpretazione e non sia possibile estenderle ad atti, documenti o prov-vedimenti non specificamente rientranti nel procedimento di mediazione.

3. L’imposta di registro: l’esenzione parziale e l’abuso della norma

Con riferimento alle agevolazioni fiscali riguardo all’imposta di registro, l’art. 17, comma 3, del decreto legislativo in commento, dispone l’esenzione riguardo al verbale di accordo e fino al valore di 50.000 euro, specificando l’obbligo del pagamento solo per la parte eventualmente eccedente.

32 Anzi, in questo caso, considerata la genericità del termine “spesa”, la delimitazione dei “confini” entro i quali è razionale applicare l’esenzione si rivela, forse, ancor più neces-saria. In vero, dal complesso delle enunciazioni che formano la disposizione in commento questa demarcazione appare, a mio avviso, sufficientemente comprensibile, sebbene resti poco apprezzabile la totale imprecisione aggravata dalla locuzione di chiusura, riferita a quel “di qualsiasi specie e natura” che davvero risulta troppo vago, laddove si sarebbe potuto specificare meglio il necessario nesso con il procedimento di mediazione.

33 V. art. 11, comma 5, D.Lgs. n. 28/2010, cit. 34 V. art. 8, comma 2, Reg. n. 180/2010.

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Anche questa particolare forma di esenzione è stata già concessa, in pas-sato, dal legislatore, con altre disposizioni di legge, sempre con funzione in-centivante, ovvero nel comune intento di indurre i litiganti a prediligere ri-soluzioni veloci del contenzioso

35. Nella fattispecie, tuttavia, la precisazione dei limiti dell’esenzione, fino a cinquantamila euro e al pagamento soltanto per la parte eccedente dell’accordo, costituisce un’apprezzabile e opportuna chiarificazione rispetto all’incertezza lasciata da altra, precedente, disposizio-ne similare

36, anche se non risolve ogni dubbio e residuano alcuni rilevanti problemi che è opportuno affrontare.

Considerato che, in generale, l’imposta di registro è dovuta per tutti gli atti scritti di contenuto economico

37 e che, come rilevato, la norma dispo-ne un’esenzione solo entro un determinato limite di valore, è necessario, in primo luogo, stabilire se, superata tale soglia, il versamento d’imposta sia dovuto in termine fisso o solo in caso d’uso. Stando alla lettera della legge, che riferisce l’esenzione al verbale di mediazione, si potrebbe ritene-re che sia sempre dovuta la registrazione in termine fisso. Questo perché sembra corretto considerare la forma scritta del verbale di mediazione, previsto ai sensi dell’art. 11, D.Lgs. n. 28/2010, richiesta ad substantiam, il che costituisce una premessa, appunto, per l’obbligo di registrazione del-

35 V. art. 13 della L. 22 luglio 1997, n. 276 in materia di controversie devolute alle se-zioni stralcio, laddove all’ultimo comma era stabilita l’esenzione dall’imposta di registro del verbale di conciliazione entro il limite del valore di cinquanta milioni di lire; all’art. 696 bis c.p.c., comma 4, per la conciliazione ottenuta nell’ambito della consulenza tecni-ca preventiva.

36 Si pensi al testo, ormai abrogato per effetto dell’art. 54, comma 5, L. 18 giugno 2009, n. 69 che disponeva l’agevolazione in materia societaria, vale a dire all’art. 39, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003. In questa fattispecie, infatti, si era verificata una dannosa incertezza in me-rito all’esenzione concessa, non essendo sufficientemente chiaro, al contrario di quel che accade per effetto della disposizione in commento, se l’abbattimento dell’importo fosse con-cesso fino al valore considerato, in questo caso pari a 25.000 euro, oppure se l’applicazione dell’esenzione si riferisse soltanto agli accordi conciliativi di valore non superiore a 25.000 euro. Al riguardo PREZIOSI, sub art. 39, in Commentario dei processi societari, a cura di Arie-ta e De Santis, Milano, 2007, pp. 1013-1014.

37 In generale sull’imposta di registro si vedano: ARNAO, Manuale dell’imposta di registro, Milano, 1999; D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989; ID., In-troduzione all’imposta del registro, in Dir. prat. trib., 1987, I, p. 15 ss.; UCKMAR-DOMINICI, (voce) Registro (imposta di), in Noviss. Dig. it., App., 1986; SANTAMARIA, (voce) Registro (imposta di), in Enc. dir., vol. XXXIX, 1988; GAFFURI, Il presupposto del tributo di registro e la capacità contributiva, in Giur. it., 1968, c. 987 ss.; BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1960; SANTORO PASSARELLI, (voce) Atto giuridico, in Enc. dir., vol. IV, 1959; UCKMAR, La legge del registro, Padova, 1958, I, p. 3 ss.

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l’atto medesimo in termine fisso 38. Si perverrebbe, per tal via, ad un’agevo-

le e univoca soluzione del dubbio prospettato che consentirebbe anche di fissare un dies a quo certo.

Il valore al quale si riferisce l’eventuale obbligo d’imposta deve essere quel-lo dell’accordo, il quale non è neppure indirettamente rappresentato dal verbale, ma solo allegato allo stesso, ai sensi del comma 1 del medesimo art. 11, D.Lgs. n. 28/2010. In altri termini, il comma 3 dell’art. 17 in esame, di-sponendo l’esenzione riguardo al valore espresso dal verbale di accordo, ri-sulta impreciso e, anzi, denuncia un primo difetto dal quale, come in prece-denza rilevato, potrebbe conseguire una certa confusione. Più correttamen-te, infatti, il valore avrebbe dovuto riferirsi all’accordo, al quale la dottrina di gran lunga maggioritaria ha riconosciuto autonomia rispetto al verbale di mediazione, in base ad un’esegesi normativa che sembra corretta e condivi-sibile

39. Se, infatti, l’art. 11 in commento dispone l’allegazione del testo del-l’accordo al processo verbale è palese che si tratta di atti distinti, poiché non avrebbe senso allegare se, invece, si avesse identità o incorporazione del-l’accordo nel verbale. A distinguere i due atti sarebbe anche la circostanza in base alla quale, mentre l’accordo negoziale risulta dalla volontà delle parti, è atto loro riferibile e non riguarda, invece, il mediatore, al contrario, il verba-le, al quale l’accordo stesso è allegato, è, invece, atto riferibile al procedi-mento di mediazione a prescindere dall’accordo

40. Quanto osservato sembra destinato a rendere poco rilevante la forma

scritta del verbale, giacché più correttamente il legislatore avrebbe dovuto riferirsi all’accordo delle parti e non al verbale cui, pure, l’accordo è allegato. Tuttavia, considerato l’onere di allegazione in questione si potrebbe ritene-re che anche l’accordo tra le parti debba assumere la forma scritta, nel qual

38 A tal riguardo si veda G. NICOTINA, Riflessioni minime su alcuni aspetti della procedura di mediazione regolata dal d.lgs. n. 28/2010, in Nuova giur. civ. comm., n. 5, 2012, p. 321 ss., specie par. 3.

39 In tal senso, anche LAURINI, Accordo di conciliazione: regole operative per il notaio au-tenticante, nota del Presidente del Consiglio nazionale del notariato, 11 ottobre 2011. Per alcuni riferimenti dottrinari si veda DEL FEDERICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 247, nota 23.

40 Annota, in tal senso DEL FEDERICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 247, che non incide su tale separazione necessaria l’eventualità, prevista dall’art. 11, D.Lgs. n. 28/2010, che l’accordo sia stato raggiunto sulla base della proposta di concilia-zione avanzata dal mediatore, poiché, anche in questi casi, l’accordo “resta negozio impu-tabile alle parti”.

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caso la soluzione già suggerita potrebbe ritenersi comunque valida e la regi-strazione, in ogni caso, soggetta a termine fisso

41. Al fine di dirimere la questione in merito all’imposta di registro è stata

prospettata una soluzione, anch’essa potenzialmente univoca e “semplifica-trice”, che non costringerebbe a considerare il contenuto specifico di ogni singolo accordo e, al contrario della precedente già esaminata, lascerebbe sorgere, in sostanza, l’obbligo d’imposta solo in un momento successivo, sia rispetto alla formazione dell’accordo che alla sua verbalizzazione. Anche in questo caso, peraltro, si ricorre al testo normativo in esame, prendendo, questa volta, abbrivio dall’art. 12, D.Lgs. n. 28/2010. Questa norma, infatti, dispone che il verbale d’accordo il cui «contenuto non è contrario all’ordine pubblico o a norme imperative» può essere omologato, «su istanza di parte e previo accertamento anche della regolarità formale», dal Presidente del Tri-bunale, costituendo, in forza dell’omologa, titolo esecutivo per espropria-zione forzata, esecuzione in forma specifica e iscrizione di ipoteca giudiziale. Orbene, in merito alle ipotesi di atti soggetti ad omologazione, l’art. 14, D.P.R. n. 131/1986 prevede che questi ultimi siano registrati soltanto quan-do l’omologazione sia intervenuta, più in particolare che il termine concesso ai fini della registrazione, ex art. 13 T.U. di registro, decorra solo dal giorno in cui i soggetti tenuti a richiedere la registrazione hanno avuto notizia del provvedimento di omologazione o dal giorno in cui l’atto è divenuto altri-menti eseguibile

42. Anche questa soluzione, condivisa da parte della dottri-na

43, consentirebbe, peraltro, di risolvere con certezza il problema, altrimenti di non agevole soluzione, del termine iniziale dal quale calcolare la decor-renza ai fini dell’accertamento della tempestività del pagamento dell’impo-sta di registro in questione. L’art. 14 T.U. di registro, infatti, obbliga funzio-nari e cancellieri, preposti all’ufficio che provvede all’omologazione, a co-municare, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, l’avve-

41 In vero, il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. n. 28/2010, parla di “testo dell’accordo” che viene allegato al verbale e il comma 2, della medesima disposizione, prevede che le parti, in caso di proposta avanzata dal mediatore, gli facciano pervenire l’accettazione o il rifiuto “per iscritto”.

42 Di fatto, dunque, si avrebbe una registrazione in termine fisso che, tuttavia, corri-sponde, in genere, ad un peculiare caso d’uso dell’atto, conseguente alla sua presentazione ai fini dell’omologazione. Si rammenta, infatti, che ai sensi dell’art. 6, D.P.R. n. 131/1986, si ha il caso in questione allorché un atto è depositato nelle cancellerie giudiziarie o presso amministrazioni dello Stato, enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo.

43 V. RICCI, La mediazione civile e le agevolazioni fiscali, in AA.VV., Materiali e commenti sulla mediazione civile e commerciale, a cura di Martino, Bari, 2011, p. 77 ss.

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nuta emanazione del provvedimento, entro cinque giorni. Costituisce, quin-di, un dies a quo certo dal quale far scattare il termine di venti giorni concessi ai fini del pagamento dell’imposta, decorrente dalla ricezione della racco-mandata certificata nella ricevuta di ritorno

44. Occorre, tuttavia, notare che l’articolo in questione presenta due rilevanti problemi. In primo luogo, con-templa un’alternativa, vale a dire che la “notizia” possa essere data alle parti oppure ai «notai e funzionari che hanno rogato l’atto», presupponendo che, come di norma avviene, gravi su questi ultimi una conseguente responsabili-tà solidale con le parti per il pagamento dell’imposta in esame

45. Inoltre, di norma, si tratta di atti che devono essere omologati per poter esplicare la lo-ro efficacia, di modo che si realizzi, un semplice rinvio della registrazione in termine fisso, ma quest’ultima resti tale e non divenga solo eventuale. Nel caso della mediazione in questione, invece, come già osservato riguardo al-l’imposta di bollo, sembra doversi, senza dubbio, escludere una responsabi-lità solidale del mediatore, cui è espressamente negata, peraltro, proprio la qualifica di pubblico ufficiale

46 e che, come già accennato, non riveste nep-pure il ruolo di mandatario delle parti

47, poiché riceve “investitura” dall’or-ganismo di mediazione

48. Allo stesso modo, non può concludersi che la mediazione necessiti dell’omologazione ai fini dell’efficacia, poiché l’accor-do avrebbe, comunque, effetto tra le parti e, pur non possedendo la forza del titolo esecutivo, resterebbe spontaneamente eseguibile

49. In questo modo,

44 In questo senso, infatti, CHIESA, op. cit., p. 300; SARTORI, Risorse, regime tributario e indennità, in CASTAGNOLA-DELFINI (a cura di), La mediazione nelle controversie civili e commerciali. Commentario al decreto legislativo 4 marzo 2010, Padova, n. 28, 2010, p. 259.

45 V. art. 57, comma 1, T.U. n. 131/1986, laddove dispone, appunto che sono solidal-mente responsabili: i pubblici ufficiali che hanno redatto, ricevuto o autenticato l’atto; i soggetti nel cui interesse è richiesta la registrazione; le parti contraenti; «coloro che hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere le denunce di cui agli articoli 12 e 19 e coloro che hanno richiesto i provvedimenti di cui agli articoli 633, 796, 800 e 825 del codice di procedura civile».

46 Ex art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010, come già rilevato. In senso conforme DI ROC-CO, Il procedimento di mediazione. La fase conclusiva, in CASTAGNOLA-DELFINI (a cura di), op. cit., p. 465, nota 8.

47 Da sempre considerati dalla Cassazione responsabili in solido con le parti in relazio-ne all’imposta in esame. In tal senso si veda SACCHETTO, Profili Fiscali dell’arbitrato, in Dir. prat. trib., 2000, p. 53; Cass., 7 maggio 1975, n. 1671; Cass., 24 gennaio 1981, n. 544.

48 V. art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010: «All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore».

49 In questo senso DEL FEDERICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 248.

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tuttavia, l’imposta dovuta in termine fisso, conseguente al contenuto dell’ac-cordo, diverrebbe impropriamente un’imposta dovuta soltanto in caso d’uso. Trasformazione quantomeno azzardata riguardo a norme impositive.

Resta, ancora, la possibilità di risolvere il dubbio in oggetto, valorizzando l’aspetto dell’accordo intervenuto tra le parti che, peraltro, rimane essenzia-le ai fini della quantificazione dell’imposta dovuta. Questa soluzione, tutta-via, se utilizzata anche allo scopo di stabilire la debenza in termine fisso op-pure no, non consentirebbe una soluzione univoca, perché ci si dovrebbe ri-ferire alla natura giuridica dell’accordo, in base al suo effettivo contenuto.

Riguardo alla natura giuridica degli accordi, si osserva come sia opinione comune ritenere che essi si sostanzino in transazioni nella maggioranza dei casi. Di conseguenza, si renderebbe applicabile alla mediazione l’art. 29, D.P.R. n. 131/1986, che dispone anche in ordine alla commisurazione del-l’imposta, ove dovuta, cioè per la parte di valore eccedente il limite legislati-vamente fissato

50. Dalla rammentata disposizione, infatti, si possono trarre, opportunamente trasposte, le seguenti indicazioni: se la mediazione com-porta trasferimenti di proprietà o altri diritti reali oppure la costituzione di questi ultimi, l’imposta si applica in proporzione alla Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986

51; se, invece, la mediazione non importa trasferimento o costi-tuzione dei suddetti diritti, l’imposta si applica in relazione agli obblighi di pagamento che derivano dagli accordi medesimi, con esclusione di eventua-li obblighi di restituzione e degli obblighi estinti attraverso la mediazione

52; se, infine, dalla mediazione non scaturiscono neppure obblighi di pagamen-to, allora l’imposta è dovuta in misura fissa. Dal che si evince, quale primo utile dato, che per le conciliazioni in cui l’accordo non modifica, innovando-li, i rapporti in contesa, né sorgono obblighi di pagamento, l’imposta dovuta non è proporzionale ma, appunto, fissa

53.

50 Sul tema D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, cit., pp. 213-214. Riguar-do all’asserzione di cui nel testo è opportuno osservare che, come precisa meglio DEL FEDE-RICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., pp. 246-247, in realtà non è det-to che la mediazione possa identificarsi solo in una transazione, poiché ad essa potrebbe as-segnarsi, in determinate circostanze, la natura giuridica di un negozio di accertamento oppu-re di rinuncia, come «di altre fattispecie negoziali, che in tal caso dovranno essere sottoposte al regime tributario di volta in volta specificamente previsto dal D.P.R. n. 131/1986».

51 V. esaustive considerazioni in DEL FEDERICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., pp. 246-247.

52 Dovrebbe applicarsi, pertanto, in proporzione all’obbligo di pagamento e, al 3%, ex art. 9, parte I, della Tariffa.

53 DEL FEDERICO, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 246, appro-

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Quanto testé osservato sembra condurre, quantomeno, ad una conclu-sione e cioè che, in generale, l’accordo di mediazione, allegato al verbale, sia soggetto a obbligo di registrazione in termine fisso, perché anche le ipotesi tra le quali appare possibile inquadrare gli accordi di mediazione, come os-servato, sono, in massima parte riconducibili alla parte I della Tariffa, quella che riguarda, appunto, gli atti soggetti a registrazione in termine fisso. Alla stessa conclusione si perviene in base all’art. 11, comma 3, che, richiamando l’art. 2643 c.c., dispone in merito agli atti soggetti a trascrizione, per i quali, ovviamente, l’imposta è dovuta in termine fisso, essendo addirittura previsto l’intervento necessario del pubblico ufficiale

54. In base all’art. 13, D.P.R. n. 131/1986 la registrazione sembrerebbe, dunque, dover avvenire entro venti giorni dalla stipulazione dell’accordo, con la conseguenza che, in mancanza, si dovrebbe prevedere la registrazione coattiva d’ufficio e l’applicazione del-le sanzioni, ex artt. 15 e 69, D.P.R. n. 131/1986.

Residuano, ancora, alcuni dubbi di non poco momento riguardo al calco-lo del valore dell’accordo, in base al quale è necessario considerare l’esen-zione e calcolare l’imposta sul resto, e in merito all’ufficio dell’Agenzia delle entrate territorialmente competente a riscuotere l’imposta.

Il primo quesito è riferito al criterio da utilizzare ai fini della determinazio-ne del valore dell’accordo. Ictu oculi, la soluzione potrebbe apparire sin troppo agevole, poiché ai sensi del comma 7 dell’art. 16 del Reg. n. 180/2010 «il va-lore della lite è indicato nella domanda di mediazione ...» e, dunque, po-trebbe sembrare facile risolvere ogni dubbio riferendosi, appunto, a questo valore, anche ai fini dell’esenzione dall’obbligo del pagamento dell’imposta di registro e del calcolo dell’imposta medesima, sull’eccedenza di valore ri-spetto al limite legislativamente disposto. In altri termini, sarebbe sufficien-te riferirsi al contenuto della domanda di mediazione, regolato dall’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010. Questa soluzione, tuttavia, non può essere considerata valida. Occorre, infatti, osservare che il valore della lite rispetto alla domanda iniziale può essere modificato dall’organismo di mediazione, sulla base di difformità di valutazione delle parti o di rilievi da parte del me-diatore stesso

55. E comunque, in realtà, il valore in questione, emergente fondisce con estrema chiarezza questa circostanza ed estende il proprio esame anche in merito alla possibile distinzione tra queste forme di mediazione e quelle che identifica in “negozi di accertamento”, alle quali suggerisce, invece, l’applicazione dell’imposta propor-zionale, con aliquota dell’1%, ai sensi dell’art. 3, parte I, della Tariffa.

54 V. art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010. 55 Si osservi, infatti, che in caso di istanza non congiunta la parte che è chiamata alla me-

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dall’istanza di conciliazione, non corrisponde necessariamente al valore del-l’accordo, al quale, come osservato, deve, invece, essere riferito il calcolo ai fini dell’imposta di registro. Il valore dell’accordo può, infatti, essere modifi-cato, rispetto al valore espresso inizialmente nella domanda, nel corso del procedimento, a seguito della volontà manifestata dalle parti e anche in con-siderazione della circostanza che l’accordo conciliativo importi, come po-trebbe, prestazioni future

56. Si rivela, pertanto, la necessità di riferirsi al va-lore dell’accordo all’atto della sua realizzazione al quale occorre connettere il calcolo e l’obbligo d’imposta, così come ex art. 16, comma 8, D.M. n. 180/ 2010, è necessario fare in relazione alla determinazione delle indennità di mediazione

57. Il secondo quesito che ci si è posti, in merito al pagamento dell’imposta

di registro in esito alla mediazione in esame, riguarda l’individuazione del-l’ufficio dell’Agenzia delle entrate territorialmente competente alla riscos-sione dell’imposta medesima.

Anche in questo caso, per la soluzione, apparentemente assai semplice, può giovare qualche precisazione. Al fine di risolvere ogni dubbio sul punto in questione, è necessario individuare i soggetti obbligati ad eseguire il ri-chiesto pagamento dell’imposta di registro. Non è dubbio che le parti siano solidalmente tenute al versamento

58 e, di conseguenza, sembrerebbe possi-bile concludere che la registrazione possa essere richiesta, indifferentemente, presso qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle entrate

59. Il problema è che si po-trebbero prospettare, come osservato ai fini dell’imposta di bollo, dubbi di

diazione può, aderendo alla stessa, acconsentire alla determinazione di valore oppure con-testarla. In quest’ultimo caso, sarà comunque, l’organismo di mediazione a determinare il valore della lite (non necessariamente corrispondente a quello dell’accordo) verificandolo in proprio e in base alle difformi estimazioni delle parti, ex art. 16, comma 8, D.M. n. 180/2010, nel testo in vigore dal 26 agosto 2011, modificato per effetto del decreto 6 luglio 2011, n. 145.

56 V. TISCINI, op. cit., p. 311; CHIESA, op. cit., p. 299. 57 V. art. 16, comma 8, D.M. n. 180/2010, come modificato dal decreto n. 145/2011:

«In ogni caso, se all’esito del procedimento di mediazione il valore risulta diverso, l’impor-to dell’indennità è dovuto secondo il corrispondente scaglione di riferimento». A tal fine MENDUTO, Gli aspetti fiscali della mediazione, cit., p. 64, suggerisce l’opportunità che le par-ti indichino espressamente il valore dell’accordo nel momento in cui lo realizzano.

58 V. art. 16, comma 11, D.M. n. 180/2010. 59 Non assumendo alcun rilievo – ex art. 9, comma 2, D.P.R. n. 131/1986 – né la resi-

denza delle parti, né il luogo in cui si è svolta la mediazione, né l’eventuale ubicazione dei beni oggetto della stessa cui si riferisce l’accordo.

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responsabilità solidale se non del mediatore 60 dell’organismo di mediazione

e, comunque, perplessità in ordine alle ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010, sia richiesta l’autenticazione del pubblico uffi-ciale. Consideriamo, preliminarmente, proprio quest’ultima fattispecie. Nel caso in cui l’accordo conciliativo richieda la sottoscrizione del pubblico uffi-ciale, sorge il legittimo sospetto che, poiché il pubblico ufficiale è certamen-te obbligato a richiedere la registrazione, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate competente in questi casi debba essere determinato in base alla sede del pub-blico ufficiale autenticante, ai sensi del comma 1 dell’art. 9 T.U. di registro

61. Se, invece, si assegnasse una responsabilità, anche in ordine all’imposta di re-gistro, gravante sull’organismo di mediazione

62, non sembra, comunque, che potrebbe da questa eventualità farsi discendere una individuazione ob-bligata della competenza territoriale dell’Agenzia

63, in quanto, comunque, non si tratterebbe di pubblici ufficiali obbligati alla registrazione, né gli ac-cordi sarebbero identificabili, tranne che nel caso già esaminato di cui al comma 3 dell’art. 11, in atti pubblici o scritture private autenticate e, di con-

60 Al quale, come si è già detto, non appare riferibile alcuna responsabilità. V. SARTORI, op. loc. ult. cit., p. 259.

61 Il quale richiede, infatti, che atti pubblici e scritture private autenticate siano registra-ti presso l’Agenzia dell’Entrate nella cui circoscrizione risiede il pubblico ufficiale obbliga-to a provvedere alla registrazione medesima.

62 In virtù delle osservazioni già effettuate in merito all’imposta di bollo e, dunque, fon-date sulla circostanza che gli organismi sono tenuti alla collazione degli atti del procedimento e, di conseguenza, un’eventuale controllo della loro regolarità fiscale, può farsi solo presso l’organismo medesimo e, comunque, potrebbero essere considerati mandatari delle parti. Si veda quanto rilevato poc’anzi al par. 2. È opportuno, tuttavia, osservare che, allo stato attuale della normativa, tale forma di responsabilità appare opinabile, poiché, così come osservato riguardo al mediatore, anche l’organismo di mediazione non risulta inquadrabile nelle fattispecie normativamente previste dagli artt. 65 e 66 del T.U. di registro. Osserva in tal senso DEL FEDERICO, In tema di mediazione nelle controversie civili e commerciali: la re-sponsabilità del mediatore e dell’organismo rispetto ai divieti relativi ad atti non registrati, in AA.VV., La mediazione nelle controversie civili e commerciali. Contributo allo studio dei profili civilistici e tributari, a cura di Carota e Verrigni, Padova, 2011, che la normativa in questio-ne «fa riferimento ai soli pubblici ufficiali o impiegati, senza mai coinvolgere in responsa-bilità di sorta le strutture amministrative e gestionali di riferimento».

63 Per esempio, riferibile alla circoscrizione in cui ricade la sede dell’organismo di me-diazione oppure in cui si è svolto il procedimento, che potrebbe, in vero, svolgersi anche in luogo diverso, rispetto alla sede dell’organismo, per accordo tra parti, mediatore e respon-sabile dell’organismo stesso. In tal senso, infatti, il combinato disposto degli artt. 8, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, che individua la sede del procedimento in quella dell’organismo, e 7, comma 1, D.M. n. 180/2010, che consente la deroga, per accordo del luogo medesimo. Al riguardo si veda MARUCCI, op. cit., p. 356.

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seguenza, non sarebbe, comunque, applicabile la disciplina di cui al comma 1 dell’art. 9 T.U. di registro.

Residua, ancora, l’esame in un’ultima prospettiva, derivante dall’eventua-le adesione alla teoria che vorrebbe riferire il sorgere dell’obbligo d’imposta al momento della successiva omologazione dell’accordo. In questo caso, in-vece, potrebbe rilevare il comma 2 dell’art. 9 T.U. di registro in quanto in-terviene l’autorità giudiziaria tramite, appunto, l’omologa. Di conseguenza, potrebbe individuarsi competente l’ufficio dell’Agenzia nella cui circoscri-zione «risiedono i cancellieri ed i segretari che, nelle loro funzioni, hanno partecipato alla formazione» del decreto di omologa.

Sempre con riferimento all’imposta di registro sulla mediazione, il Consi-glio Superiore della Magistratura, nel parere allo schema di decreto legisla-tivo finalizzato all’attuazione dell’art. 60 della L. n. 69/2009, ha espressa-mente considerato l’esenzione fiscale in esame evidenziandone un possibile profilo critico che merita di essere vagliato

64. L’Organo di autogoverno della magistratura ha paventato un’ipotesi di

“abuso” che potrebbe verificarsi avvalendosi dell’agevolazione fiscale consi-derata al fine di realizzare trasferimenti immobiliari in esenzione d’imposta. Si potrebbe, cioè, simulare l’esistenza di un preliminare di compravendita immobiliare non rispettato, per inscenare una lite e, in sede di mediazione, fingere una conciliazione, lucrando l’esenzione totale o parziale dall’imposta di registro

65. In verità, sembra che tale possibilità di abuso in chiave elusiva dello

strumento della mediazione sarebbe destinata ad avere scarse probabilità di riuscita. Come osservato, specie nel caso di trasferimento di diritti reali im-mobiliari, il procedimento e l’accordo successivo sono sottoposti a verifiche tali da rendere remota la possibilità di riuscita e, dunque, di beneficiare ille-citamente della detrazione dall’obbligo del pagamento dell’imposta di regi-stro. I contraenti, in primo luogo, dovrebbero riuscire ad ingannare o avere la collusione dell’organismo di mediazione e del mediatore incaricato di ri-solvere l’apparente contrasto

66. Questo perché, nel corso del procedimento di mediazione è presumibile che il mediatore riesca a percepire l’intento

64 CSM, Delibera del 4 febbraio 2010, punto 11, p. 17. 65 Totale se, ovviamente, il valore dell’accordo risolutivo della fittizia controversia e, dun-

que, del trasferimento immobiliare fosse inferiore ai 50.000 euro legislativamente previsti. 66 In senso conforme CARADONNA-RUSCETTA-GIORGETTI, sub art. 17, in Codice com-

mentato della mediazione, Milano, 2012, p. 302.

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fraudolento perseguito dalle parti e, di conseguenza, si rifiuti di svolgere la richiesta mediazione

67. Nel caso di trasferimenti di diritti reali immobiliari, inoltre, è prevista

l’autentica del pubblico ufficiale, ex art. 11, comma 3, D.Lgs. n. 28/2010, che, tra l’altro, come rilevato, potrebbe essere gravato dell’obbligo di regi-strazione e, dunque, si deve ritenere che l’accordo debba superare anche il suo vaglio, previsto ai fini della trascrizione

68. Infine, se si ricorresse anche all’omologazione, ai sensi dell’art. 12, D.Lgs.

n. 28/2010, vi sarebbe l’ulteriore controllo del Presidente del Tribunale, che non si limita al solo «accertamento della regolarità formale», poiché la norma dispone che sia esperito “anche” questo e non “solo” questo. In con-clusione, dunque, l’ipotesi di un abusivo utilizzo dello strumento della me-diazione, allo scopo di attuare con successo una frode fiscale, appare piutto-sto improbabile

69. È da escludere, poi, anche la possibilità di abuso della mediazione in mo-

do indiretto, cioè attraverso l’utilizzo o il riferimento ad altri contratti o atti fiscalmente irregolari, sotto l’aspetto dell’imposta di registro in esame. Si noti, al riguardo, che l’art. 22, comma 1, D.P.R. n. 131/1986 impone la regolarità fiscale di tutti i documenti esterni al procedimento di mediazione e utilizzati nel corso dello stesso e, in caso d’irregolarità, prevede in relazione agli stessi l’applicazione delle sanzioni

70. Nessun dubbio, inoltre, può sussistere a pro-posito dei limiti entro i quali opera l’esenzione in esame, poiché dal comma 3 dell’art. 17, D.Lgs. n. 28/2010 si evince, con chiarezza, che essa è riferita

67 Ex art. 9, comma 2, decreto n. 180/2010, che consente all’organismo e al mediatore di rifiutarsi di svolgere la mediazione per giustificato motivo. Si ricordi, tra l’altro, che l’or-ganismo di mediazione “disattento” rischia la cancellazione dall’elenco, prevista dall’art. 19, D.M. n. 180/2010.

68 In senso pienamente conforme v. IANNACCONE, I profili tecnici del processo verbale: artt. 11 e 12 del D.lgvo 4 marzo 2010 n. 28, in Federnotizia, settembre, 2011, in cui si precisa che «il notaio è chiamato ad intervenire in veste di pubblico ufficiale; quindi il suo inter-vento sarà pieno, nel senso che dovrà rispettare la normativa notarile, civilistica e tutte le norme che regolano in specie il contratto o l’atto che emerge dall’accordo ... sarà tenuto a fare tutti i preventivi controlli di legge relativi alla identità delle parti, alla loro capacità di agire e di disporre. Dovrà controllare la legalità dell’accordo nella sua totalità ... (e) ... la volontà delle parti».

69 V. RUVOLO, Le prime applicazioni giurisprudenziali in tema di mediazione, in Corr. giur., n. 3, 2012, p. 344, il quale richiama la sentenza del Tribunale di Modica del 9 dicem-bre 2011.

70 V. art. 22, comma 1, D.P.R. n. 131/1986.

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esclusivamente all’accordo realizzato in sede di mediazione. Risulta, pertan-to, confermato l’assoggettamento all’imposta degli altri contratti, ai quali il verbale di accordo dovesse fare riferimento. Di conseguenza, ferma restando, ovviamente, la responsabilità del pubblico ufficiale o della cancelleria del tribunale, nelle ipotesi in cui questi intervengano nel procedimento ai fini dell’autentica o dell’omologazione, in ordine alla responsabilità per l’e-ventuale denuncia delle irregolarità, si pone, nuovamente, il problema dell’e-ventuale coinvolgimento anche del mediatore o dell’organismo di media-zione. In base a quanto rilevato, in merito agli atti non in regola con l’impo-sta di bollo, sembrerebbe possibile prospettare, al più, una responsabilità in tal senso dell’organismo di mediazione, responsabilità che semplificherebbe il compito dell’Agenzia e si coordinerebbe al meglio con la tesi che impone l’obbligo di registrazione fin dall’accordo, a prescindere dalla sua eventuale omologazione. Occorre rilevare, tuttavia, che non è agevole attribuire tale forma di responsabilità nei confronti dell’organismo di mediazione, poiché la normativa vigente al riguardo non contempla, in atto, né il mediatore né l’organismo tra i soggetti gravati da quest’obbligo

71.

4. Il credito d’imposta: condizioni e distinzioni

L’art. 20, D.Lgs. n. 28/2010 attribuisce un credito d’imposta alle parti del procedimento di mediazione, commisurato all’indennità da queste versata all’organismo di mediazione, a compensazione dell’opera prestata nel pro-cedimento. Si tratta, dunque, di un altro strumento agevolativo tendente ad incentivare il ricorso alla mediazione, anche a prescindere dall’effettiva con-ciliazione tra le parti. Nondimeno, occorre rilevare che l’agevolazione in questione si atteggia diversamente in caso di conciliazione raggiunta rispet-to alle ipotesi in cui quest’ultima fallisca. Il legislatore, pertanto, ha voluto

71 V. DEL FEDERICO, In tema di mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit. Cui si rinvia per l’esaustiva e chiara analisi dello specifico tema in questione. In particolare, ri-guardo all’eventuale responsabilità del mediatore e dell’organismo, in questa sede è oppor-tuno osservare che anche l’autorevole dottrina richiamata osserva: «Comunque non è da escludere che prima o poi sopraggiungano interventi legislativi volti ad ampliare la sfera soggettiva degli artt. 10 e 57 e l’ambito applicativo degli artt. 65 e 66, ricomprendendo il mediatore e/o gli organismi di mediazione. Ma, anche de iure condito, ritenere che il me-diatore e l’organismo siano estranei all’ambito applicativo degli artt. 10, 57, 65 e 66 del T.U. n. 131/1986 non vuol dire che la mediazione nelle controversie civili e commerciali sia del tutto avulsa dai vincoli pubblicistici in questione».

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favorire, sostanzialmente, il buon esito della procedura rispetto al mero ten-tativo, dunque la reale conciliazione rispetto alla mediazione non finalizzata.

In particolare, l’agevolazione è disposta in relazione all’indennità, corri-sposta dalle parti «ai soggetti abilitati a svolgere il procedimento di media-zione ...», rectius all’organismo di mediazione

72 e consiste nell’attribuzione alle parti di un credito d’imposta, riconosciuto a determinate condizioni e, co-munque, non oltre la concorrenza di 500 euro, se la mediazione si sia con-clusa con la conciliazione, oppure non oltre 250 euro se, invece, la tentata mediazione non abbia fruttato la conciliazione della lite.

Le condizioni necessarie, affinché le parti del procedimento di media-zione possano beneficiare del credito d’imposta, sono le seguenti: la corre-sponsione di un’indennità all’organismo di mediazione; l’esistenza di un ob-bligo d’imposta, nei confronti dell’Erario, gravante sulle stesse parti della me-diazione; il riferimento del credito d’imposta e dell’obbligo d’imposta al me-desimo anno solare; l’individuazione, da parte del Ministero della Giustizia, di un importo stanziato al fine di corrispondere la predetta indennità; la co-municazione agli interessati, da parte del Ministero, riguardo al credito loro spettante ed infine, l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi del soggetto avente diritto, del credito riconosciutogli. Analizzando singolarmente le sud-dette condizioni sono possibili alcune osservazioni.

Il riconoscimento di un credito d’imposta fino a 500 euro può condurre al compimento gratuito del procedimento di mediazione nelle controversie di modico valore. I contendenti nelle contese di modico valore, infatti, se at-tuano la mediazione con successo, dovrebbero avere ottime probabilità di poter beneficiare di un credito d’imposta tale da consentire loro il totale ri-storo delle spese di mediazione corrisposte all’organismo

73. Per questo ver-so, dunque, sembra che si possano indurre le parti a ricorrere all’istituto del-

72 Art. 17, comma 4, D.Lgs. n. 28/2010. Appare evidente, infatti, che il legislatore abbia inteso istituire e “agevolare” il ricorso alla procedura di conciliazione, così come regolata dal D.Lgs. n. 28/2010, vale a dire “amministrata” dagli organismi di mediazione apposita-mente istituiti. Le agevolazioni fiscali in esame, pertanto, potranno essere godute, è oppor-tuno rilevarlo, solo riguardo a procedure di mediazione regolarmente introdotte di fronte agli organismi di conciliazione iscritti nel registro ministeriale di cui all’art. 16, D.Lgs. n. 28/2010, formato e gestito dal Ministero della giustizia, di concerto, con il Ministero dello sviluppo economico.

73 GIANNONE, Agevolazioni fiscali, in PERA-RICCIO (a cura di), Mediazione e conciliazione. Diritto interno, comparato e internazionale, Padova, 2011, p. 178; vedi anche MENDUTO, La lente tributaria ed economica dell’istituto della mediazione. Aspetti fiscali del procedimento, in www.mcmconciliare.com, 2010.

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la mediazione, specie nell’ipotesi di c.d. “mediazioni facilitative” 74. L’argo-

mento, inoltre, allontana il paventato rischio di compressione delle norme costituzionali, riguardo all’ostacolo alla giustizia che potrebbe essere rap-presentato dall’aumento del costo derivante dall’esperimento del prelimina-re tentativo di mediazione

75. L’agevolazione in commento, infatti, dovrebbe consentire di neutralizzare o, comunque, minimizzare il costo aggiuntivo del-la mediazione, rispetto a quanto dovuto per far valere giudizialmente il pro-prio diritto

76. L’aspetto negativo della disposizione, in merito alla condizione in commento, riguarda, invece, l’aumento, fino ad un quinto, dell’indennità dovuta all’organismo di mediazione, in caso di successo del procedimento

77. Previsione che attribuisce un beneficio di poco rilievo all’organismo, ma può costituire un disincentivo per le parti, che potrebbero esserne scoraggiate dal conciliare nel corso della mediazione. Si potrebbe, neutralizzare questo ri-schio se i regolamenti degli organismi di mediazione provvedessero

78, a sta-bilire un aumento del tutto simbolico dell’indennità loro dovuta.

74 V. Relazione illustrativa di accompagnamento al D.Lgs. n. 28/2010, laddove si speci-fica che la mediazione, appunto, può essere “facilitativa” o “aggiudicativa” e si evidenzia un favor legislativo per la prima rispetto alla seconda. La mediazione facilitativa è quella in cui al mediatore si assegna, appunto il ruolo «di facilitatore di un accordo amichevole tra le parti». In altri termini, in questa forma di mediazione il mediatore resta in secondo piano stimolando, semplicemente, le parti a trovare l’accordo che risulterà, dunque, fondato sul-l’assetto degli interessi dato dalle parti a prescindere da schemi normativi di valutazione o, appunto, di aggiudicazione. Viceversa, nella c.d. mediazione aggiudicativa o valutativa il mediatore assume un ruolo propositivo nel formulare la proposta di mediazione, mante-nendo la propria imparzialità e neutralità. La base di partenza, pertanto, sarà, in questo ca-so, necessariamente, uno schema di valutazione che fonda su inquadramento normativo. V. MENCHINI, La mediazione civilistica come modello di sistema, in Mediazione tributaria e mediazione civilistica, Convegno Pisa, 15 giugno 2012, con il patrocinio dell’AIPDT e di questa Rivista. L’eventuale ruolo “aggiudicativo” del mediatore è stato vagliato criticamen-te dal CSM nella Delibera del 4 febbraio 2010, punto 6, p. 13.

75 In senso conforme riguardo all’utilità, nel senso di cui nella trattazione, del credito d’imposta v. CALIFANO, Sulla pretesa illegittimità costituzionale della c.d. mediazione onerosa obbligatoria, in Quaderni della mediazione, a cura di Vivis, vol. I, 2011, al quale si rinvia ai fini dell’approfondimento del tema specifico. In argomento anche CAPONI, La mediazione obbligatoria a pagamento: profili di costituzionalità, in www.judicium.it, p. 5 ss.

76 Il rischio, comunque, non sussisterebbe per il modico valore della mediazione e sa-rebbe minimizzato anche per la possibilità di avvalersi del gratuito patrocinio nel procedi-mento, ex art. 17, comma 5, D.Lgs. n. 28/2010.

77 Disposto dall’art. 16, comma 4, lett. b), D.M. n. 180/2010. 78 V. COVATA-DI ROCCO-MARUCCI-MINELLI-SANTI-TARRICONE, La mediazione per la com-

posizione delle controversie civili e commerciali, a cura di Bove, Padova, 2011, pp. 358-359.

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La seconda condizione necessaria, affinché le parti possano godere del previsto credito d’imposta, è rappresentata dalla stretta relazione temporale che deve sussistere tra credito d’imposta e tributi dovuti all’Erario

79. La nor-ma, infatti, esclude la possibilità di un credito verso lo Stato se le parti della mediazione non dovessero nulla al Fisco

80. Sembra chiara, tuttavia, anche la necessità che il credito d’imposta sia maturato nel corso del medesimo anno solare per il quale il contribuente deve l’imposta. Soltanto a questa condizio-ne l’indennità corrisposta all’organismo di mediazione, per i servizi da que-sti resi alle parti, consente a queste ultime di vantare un credito d’imposta, da portare, dunque, in compensazione rispetto ai tributi dovuti nel medesi-mo periodo d’imposta, coincidente con l’anno solare.

Una terza condizione, per poter beneficiare del credito d’imposta, consi-ste nella necessità che il Ministero della Giustizia individui, entro il 30 aprile di ogni anno, le somme destinate a “coprire” le deduzioni d’imposta dovute ai contribuenti per l’anno precedente

81. La disposizione discende dalla ne-cessità di garantire l’invarianza del gettito fiscale, come previsto sin dalla legge delega n. 69/2009

82, ma comporta la possibilità di una divergenza tra il credito d’imposta, astrattamente riconoscibile e quanto, invece, concre-tamente, concesso ai contribuenti

83. Sembra, pertanto, che l’attribuzione per intero del credito d’imposta previsto, a causa dell’attuale congiuntura eco-nomica, rimanga piuttosto utopistica. Le risorse stanziate dal Ministero del-la giustizia potrebbero, infatti, dilatare la forbice tra somma astrattamente spettante e credito d’imposta effettivamente concesso, ovviamente conse-guente, in misura proporzionale alle risorse in concreto stanziate.

79 V. art. 20, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010. 80 V. art. 20, comma 4, D.Lgs. n. 28/2010. 81 La norma in esame, infatti, prevede che dal 2011, entro il 30 aprile di ciascun anno,

un decreto del Ministro della Giustizia, determini l’ammontare delle risorse, da far valere sul “Fondo unico della giustizia”, destinate alla copertura delle minori entrate fiscali, a cau-sa della concessione dei crediti d’imposta che si riferiscono alle mediazioni tentate o con-cluse nell’arco dell’anno solare precedente. Si noti, peraltro, che gravano sul medesimo Fon-do anche le altre agevolazioni di cui si è detto, come si evince dai commi 8 e 9 dell’art. 17, D.Lgs. n. 28/2010.

82 V. art. 60, comma 3, lett. o). Discende da quanto rilevato che la copertura finanziaria delle minori entrate, derivanti dall’attribuzione dei crediti d’imposta, è eseguita dal Ministero della giustizia, annualmente, attraverso il versamento, all’Agenzia delle entrate, dell’importo complessivo dei crediti riconosciuti.

83 CHIESA, op. cit., p. 300.

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Il comma 3 dell’art. 20, D.Lgs. n. 28/2010, dispone la comunicazione del Ministero della giustizia, entro il 30 maggio di ogni anno, agli interessati e all’Agenzia delle entrate

84. Entro detto termine, pertanto, le parti del proce-dimento di mediazione, conclusosi nel corso dell’anno solare precedente, riceveranno una comunicazione dal Ministero riguardante il credito d’im-posta loro concesso. Il credito sarebbe, inoltre, utilizzabile proprio a decor-rere dalla data di ricevimento, da parte dei contribuenti, della comunicazio-ne proveniente dal Ministero. La comunicazione dell’entità del credito spet-tante ad ogni singolo contribuente è rivolta, altresì, all’Agenzia delle entrate. Riguardo a quest’ultima, in vero, potrebbe sorgere il dubbio con riferimento alla determinazione dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate competente per territorio a ricevere la predetta comunicazione. Infatti, presumendo un nu-mero milionario di risoluzioni tramite mediazione

85, non sembra praticabile la tesi di un elenco unico di tutti i soggetti, beneficiari del credito d’imposta, comunicato senza individuazione della sede territoriale dell’Agenzia inte-ressata a conoscere del credito stesso e del suo ammontare. Neppure, in ar-gomento, può soccorrere l’individuazione della sede dell’Agenzia legittima-ta a riscuotere il pagamento dell’imposta di registro, perché si è visto che questa potrebbe essere indifferente e, comunque, non univocamente deter-minabile in astratto. In conclusione, dunque, l’unica soluzione plausibile sem-bra essere quella di riferirsi alla sede fiscale dei singoli contribuenti. L’elenco nominativo dei beneficiari del credito, con l’indicazione dell’ammontare del medesimo, dovrebbe, di conseguenza, essere inviato dal Ministero presso le diverse sedi territoriali dell’Agenzia, in base al criterio della sede fiscale dei contribuenti.

Per concludere, l’art. 20, comma 4, D.Lgs. n. 28/2010, dispone l’obbligo del contribuente di indicare, a pena di decadenza, l’ammontare del credito d’imposta riconosciutogli nella propria dichiarazione dei redditi. La norma in questione precisa, altresì, come le persone fisiche che non siano impren-ditori o esercenti arti e professioni, possano portare il credito in “diminu-zione” rispetto all’ammontare dell’imposta sui redditi; viceversa, i soggetti passivi IVA possano effettuare la compensazione direttamente. Il credito in

84 Vale a dire entro 30 giorni, dal termine del 30 aprile, previsto dal comma 3 dell’art. 20, D.Lgs. n. 28/2010.

85 I dati disponibili, alla fine di marzo del 2012, riferivano di 91.690 casi di controversie per i quali si è tentata la mediazione, solo riguardo alle fattispecie obbligatorie oggi non più in vigore.

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commento, dunque, non può dar luogo a rimborsi, né può essere riportato in un diverso periodo d’imposta, e, pertanto, come osservato, ne deve essere effettuata la compensazione con un debito d’imposta dovuto nell’arco dello stesso anno solare

86. In caso contrario, il credito si perde, annullandosi, di con-seguenza, l’agevolazione concessa. Con un’ultima, ovvia precisazione, que-sta disposizione chiarisce anche riguardo all’impossibilità di valutare il cre-dito d’imposta ai fini della determinazione del reddito del soggetto benefi-ciario, non essendo il credito una effettiva componente attiva del reddito stesso ed avendo il preciso fine di neutralizzare, almeno in parte, le spese di mediazione, incentivando, per tal verso, il ricorso a quest’istituto

87.

86 V. art. 17, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241. Il credito d’imposta, inoltre, non concorre nep-pure alla determinazione del valore della produzione netta ai fini IRAP e non assume rilie-vo in rapporto agli artt. 61 e 109, comma 5, TUIR, cioè in merito alla determinazione del reddito d’impresa, ai fini della determinazione della quota deducibile di spese generali. V. al riguardo, Circ. n. 2268/2011 del Ministero delle Finanze, in www.fisconline.it.

87 Già nel Modello Unico 2011 – Persone Fisiche, a proposito dei redditi 2010, è stata inserita al rigo RN 24, colonna 4, la casella “mediazioni”, da utilizzare, appunto, per indica-re l’importo del credito di imposta riconosciuto al contribuente dal Ministero della Giusti-zia. I soggetti tenuti alla compilazione del Modello Unico Società di Capitali o del Modello Unico Società di Persone, invece, non dovranno indicare il credito in dichiarazione, poi-ché, come osservato, potranno servirsene, utilizzandolo direttamente in compensazione sul Modello F24.

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Christian Califano

LA MOTIVAZIONE DEGLI ATTI IMPOSITIVI TRA FORMA E SOSTANZA, PRINCIPI EUROPEI

E VALORI COSTITUZIONALI

MOTIVATION OF TAX ACTS BETWEEN FORM AND SUBSTANCE, EUROPEAN PRINCIPLES AND CONSTITUTIONAL VALUES

Abstract Il saggio, prendendo spunto anche da alcuni recenti scritti di Autori europei, contiene un commento, in chiave critica e ricostruttiva, sull’istituto della motiva-zione. Il tema viene sviluppato attraverso una riflessione che inquadra la motiva-zione come elemento idoneo a consentire sia un vaglio sulla legittimità e la tra-sparenza del procedimento, anche a fini di controllo interno all’amministrazione, sia un controllo sul piano giurisdizionale. In tale prospettiva emerge il carattere di polidimensionalità della motivazione e lo stretto collegamento che intercorre tra istruttoria, contenuto motivo dell’atto e prova nel processo. Sul tema emer-gono importanti punti di contatto nei sistemi tributari di alcuni Stati membri dell’UE. Parole chiave: motivazione, atti impositivi, procedimento, funzione ammini-strativa, norme di garanzia This paper, inspired by some recent essays, even international, analyzes critically the motivation of tax acts. The theme focuses motivation as evidence to allow both a screen on the legality and transparency of proceedings, in order to guarantee an inter-nal audit of administration, and a judicial review. In this perspective, both the nature of “multidimensionality” of motivation and the closed link between investigation, the content of the act and therefore evidence in the case, have come to light. On the subject come out important points of contact in tax systems of some Member States of EU. Keywords: motivation, fiscal acts, fiscal proceding, administrative function, taxpayer protection

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SOMMARIO: 1. Il ruolo della motivazione nell’esperienza europea. – 2. L’approccio della Corte di Cassazio-ne. – 3. Il rapporto tra motivazione e prova. – 4. Il vizio di motivazione.– 5. Brevi osservazioni conclusive.

1. Il ruolo della motivazione nell’esperienza europea

Alcuni recenti scritti di Autori europei 1, hanno nuovamente acceso il di-

battito, peraltro mai sopito, circa il ruolo della motivazione quale espressio-ne del modo di intendere l’attività amministrativa.

Nelle dinamiche impositive, ciò è avvenuto, nel tempo e nelle diverse esperienze degli altri ordinamenti, attraverso ricostruzioni differenti e con risultati alterni.

Per quanto riguarda l’esperienza belga, è indicativo osservare che in tale ordinamento (come in quello italiano) negli anni novanta Legislatore ha sentito l’esigenza di recepire, in una legge sul procedimento amministrativo, i principi generali di buona amministrazione, in modo tale da indurre l’Am-ministrazione finanziaria ad un processo decisionale più attento che consen-tisse, allo stesso tempo, un controllo più efficace sull’azione amministrativa sia da parte dei contribuenti, sia in sede giurisdizionale

2. Non meno impor-tante, l’esplicita previsione secondo cui laddove una disposizione espressa prevede un obbligo di motivazione più rigoroso rispetto a quanto previsto dalla legge generale sugli atti amministrativi, essa deve trovare applicazione imponendo all’amministrazione obblighi più stingenti

3. Anche nell’ordinamento spagnolo, l’obbligo di motivazione degli atti di

natura fiscale ha avuto un riconoscimento espresso all’interno del “codice

1 PEETERS-VAN DE VELDE, Formal Motivation of Individual Tax Acts in Belgium, in questa Rivista, supra; il riferimento qui è anche a ALVAREZ MARTINEZ, La motivacion de los actos tri-butarios en la nueva ley de gestion tributaria, Madrid, 2004, p. 19 ss., p. 75 ss.; nell’ordina-mento interno, si v. BOTTA, Motivazione dell’atto impositivo e valori costituzionali, in Riv. dir. trib., n. 10, 2012, p. 919 ss.; sia qui consentito il rinvio a CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, passim, anche per tutti i riferimenti bibliografici e giurisprudenziali.

2 Così PEETERS-VAN DE VELDE, op. cit., par. 1, secondo cui «the purpose of this legislation is to incite the administration – the tax administration included – to a more careful decision-making process, to inform citizens better about the decision-making process and to facilitate the administrative and jurisdictional supervision of these decisions».

3 PEETERS-VAN DE VELDE, op. cit., par. 1: «In case another law than the Law on the Moti-vation of Administrative Acts enforces a more stringent motivation obligation (for instance an-swer to all arguments), this more stringent law is to apply to the administration acts».

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Christian Califano

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fiscale”, ove ha trovato una collocazione stabile in ragione dell’esigenza, per il contribuente, di individuare e comprendere le ragioni ed i fondamenti che hanno condotto l’amministrazione ad agire; l’istituto della motivazione, nella dilettica tra forma e contenuto, ha trovato una qualificazione in Spagna co-me “condizione essenziale” della funzione amministrativa

4. In ambito europeo, le garanzie in tema di procedimento

5 sono oggi con-tenute nell’art. 296, comma 2, TFUE

6 e dall’art. 41, n. 2, lett. C), della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea

7; in entrambe tali disposizioni, è previsto l’obbligo di motivazione degli atti, che rientra tra i principi che han-no avuto specifico rilievo ed ampio riconoscimento nella giurisprudenza comunitaria.

La Corte di Giustizia ha chiarito che la motivazione è necessaria non solo per consentire agli interessati di conoscere la giustificazione della misura a-dottata al fine di tutelare i loro diritti, ma anche per consentire al giudice di esercitare il suo controllo

8. È comunque indicativo notare come la giurisprudenza comunitaria abbia

graduato nelle sue sentenze il contenuto della motivazione a seconda del-l’ampiezza del potere discrezionale utilizzato dall’amministrazione ed alle

4 Su tali profili v. ALVAREZ MARTINEZ, op. cit., p. 143 ss., p. 167 ss. ove l’A. ricostruisce il ruolo di tale istituto nell’attività amministrativa e fiscale, analizzando il fondamento su cui si regge l’obbligo di motivazione ed evidenziando, anche sotto il profilo applicativo, gli aspet-ti problematici e le criticità.

5 In generale, sull’influenza dei principi comuni del diritto europeo sulle discipline proce-dimentali, si v. CHITI, L’incidenza del diritto europeo su sulla ricostruzione funzionale del proce-dimento amministrativo, in AA.VV., “Il procedimento amministrativo nei diritti europei e nel di-ritto comunitario. Ricerche e tesi in discussione”, a cura di Falcon, Padova, 2008, p. 235 ss.; v. anche SCHWARZE, Administrative law under european influence, Baden-Baden, 1996, p. 501 ss.

6 TFUE, in G.U.C.E., C-115/49 ss. del 9 maggio 2008, il cui art. 296, coma 2, dispone che «[...] Gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, alle iniziative, raccomandazioni, richieste o poteri previsti dai trattati».

7 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in G.U.C.E., C-364/01 ss. del 18 dicembre 2000, il cui art. 41, n. 2, lett. C), dispone che «[...] Gli atti giuridici sono motiva-ti e fanno riferimento alle proposte, alle iniziative, raccomandazioni, richieste o poteri pre-visti dai trattati».

8 A tali fini la motivazione deve, pertanto, esplicitare in modo chiaro e coerente i tratti essenziali del ragionamento seguito dall’amministrazione sulla base degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto ai quali fa riferimento l’atto: tra le sentenze più significative, si se-gnalano Corte di Giustizia UE, 7 febbraio 1990, causa C-213/87, Comune di Amsterdam, in Racc., 1990, I, p. 221; 1° aprile 1993, cause riunite C-260/91 e C-261/91, Diversitis SA, in Racc., 1993, I, p. 1885.

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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risultanze dell’attività procedimentale 9. Alla luce dell’indirizzo stabilmente

espresso, si è generato un orientamento condiviso secondo cui il principio di diritto europeo che contempla l’obbligo generale di motivazione degli at-ti comunitari costituisce un fondamento diretto ed immediato anche per l’ordinamento interno, tant’è che tale principio è stato invocato anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale

10. Nell’esperienza italiana, la sensibilità sul tema che si è, anche da ultimo,

evidenziata, fa emergere che la motivazione dell’atto impositivo deve incen-trarsi, oltre che nell’ottica tradizionale di un corretto equilibrio tra doverosi-tà dell’azione impositiva e diritto di difesa del contribuente, anche sull’esi-genza di evitare interpretazioni puramente formalistiche, nella prospettiva di ricostruzione in chiave funzionale

11 delle norme di garanzia. Nel suddet-to corretto equilibrio, dunque, non può che essere privilegiata la funzione che la motivazione è chiamata ad assolvere nel sistema dell’atto.

L’inquadramento della motivazione nell’ambito generale dell’azione im-positiva sembra offrire una prospettiva più proficua rispetto a quella tradi-zionale, di consueto incentrata sull’atto di accertamento, contribuendo a va-lorizzare gli studi di diritto amministrativo e consentendo di collocare la motivazione come istituto principalmente collegato all’esercizio del potere pubblico, soprattutto riguardo agli atti restrittivi della sfera giuridica del contribuente, valicando la tradizionale collazione della motivazione come elemento (o requisito) dell’atto nella sua “costruzione” in senso formale o sostanziale.

Sul punto, pare indicativo evidenziare che anche nell’ordinamento belga, sebbene si faccia riferimento ad una “formal motivation of administrative

9 Oltre che al grado di discrezionalità, la Corte ha operato dei distinguo anche in rela-zione ad altri aspetti, come all’innovatività dell’atto rispetto alla pregressa prassi o a deci-sioni già assunte nei confronti dello stesso destinatario, ovvero a seconda che l’interessato abbia partecipato al procedimento che ha poi condotto all’atto (rispettivamente, Corte di Giustizia UE, 26 febbraio 1981, causa 25/80, Alan Briey, in Racc., 1981, p. 637; 13 marzo 1985, cause riunite 296/82 e 318/82, Leeuwarder Papierwaren, in Racc., 1985, p. 809; 14 febbraio 1990, causa C-350/88, Delacre, in Racc., 1990, I, p. 395; 4 giugno 1992, causa C-181/90, Consorgan, in Racc., 1992, I, p. 3557).

10 Da ultimo COCCONI, Il giusto procedimento come banco di prova di un’integrazione delle garanzie procedurali a livello europeo, in Riv. dir. pubbl. com., 2010, p. 1127 ss., con riferi-mento a Corte cost., 6 dicembre 2004, n. 379, ivi; v. anche ZUCCARO, L’obbligo di motiva-zione tra ordinamento europeo ed ordinamento nazionale: brevi considerazioni a margine di un rinvio pregiudiziale alternativo, in Foro amm. TAR, n. 9, 2011, p. 2912 ss.

11 V. BOTTA, op. cit., p. 924.

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acts”, la dottrina ritiene che la motivazione rappresenti sia un requisito for-male, sia sostanziale dell’atto, la cui carenza può condurre alla nullità dell’at-to emesso

12. Nell’ordinamento interno, l’opportunità di ispirarsi alle dinamiche im-

positive attraverso una concezione dell’azione secondo i fondamentali cano-ni di imparzialità e buon andamento, ha trovato un punto di sintesi succes-sivamente all’entrata in vigore della legge sull’azione amministrativa, 7 ago-sto 1990, n. 241: da quella fase storica in avanti, infatti, è emerso il paralleli-smo tra procedimento amministrativo e procedimento tributario, in un dif-ficoltoso rapporto da genus a species, tra necessità di ordine sistematico ed opportunità di particolarismo; l’ampio dibattito che ne è scaturito in dottri-na si è, tuttavia, caratterizzato da interpretazioni talvolta restrittive che han-no limitato l’applicazione dell’obbligo di motivazione.

L’ostacolo principale ad una piena riconduzione della motivazione ai principi del diritto amministrativo è stato di ordine procedimentale: il con-fronto tra il procedimento tributario, considerato espressione di una potestà quasi esclusivamente vincolata dalla legge, ed il procedimento amministra-tivo, ricondotto per lo più, invece, all’esercizio di poteri discrezionali, hanno determinato una progressiva distanza tra i due modelli.

La difficoltà verso un’evoluzione in senso garantista della disciplina della motivazione nei procedimenti tributari sono state, quindi, generate della mar-ginalizzazione della discrezionalità rispetto all’esercizio della funzione di controllo e di verifica dei contribuenti; l’accentuazione della funzione impo-sitiva nella determinazione dell’an e del quantum del tributo hanno consoli-dato la teorizzazione circa la natura vincolata dell’azione impositiva, anche se l’attuale fase dell’elaborazione dottrinale pone in evidenza come, in alcune peculiari fasi di attuazione del tributo, è fondato riconoscere margini di di-screzionalità

13. In questa prospettiva, deve essere riconosciuta alla motivazione la fun-

zione di consentire, prima di tutto, un vaglio sulla legittimità e la trasparenza del procedimento, anche a fini di controllo interno all’amministrazione, ol-tre che un controllo sul piano giurisdizionale; in tal senso, affiora il carattere di polidimensionalità della motivazione e lo stretto collegamento che inter-corre tra istruttoria, contenuto motivo dell’atto e prova nel processo.

12 PEETERS-VAN DE VELDE, op. cit., par. 3: «It is held as a general rule that the formal mo-tivation is a substantial formal requirement».

13 Anche qui, per tutti i riferimenti, v. CALIFANO, op. cit., p. 43 ss., p. 142 ss.

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Anche sotto tale profilo, si può cogliere un parallelismo con l’ordinamen-to belga che impone, ai fini dell’istruttoria, di soddisfare l’esigenza di creare, attraverso la motivazione, un raccordo tra contenuto degli atti prodromici e decisione finale

14. La motivazione, infatti, non costituisce solo una componente dell’ester-

nazione del provvedimento, ma anche la sintesi dell’istruttoria attraverso la quale l’amministrazione dimostra di avere seguito le norme procedimentali, giustificando, prima di tutto a sé stessa, le scelte compiute nel corso del pro-cedimento; l’esternazione del percorso logico e giuridico seguito dall’ammi-nistrazione, poi, deve essere attuata in misura da consentire di soddisfare le esigenze di valutazione sulla correttezza del quantum preteso in modo da consentire, anche, il sindacato in sede giurisdizionale.

2. L’approccio della Corte di Cassazione

La giurisprudenza tributaria, tuttavia, ha mostrato, nel tempo, approcci diversi sui contenuti dell’obbligo di motivazione: i continui ripensamenti in ordine all’abbandono della concezione dell’atto impositivo come provocatio ad opponendum, nell’alveo della sua ricostruzione come atto a contenuto prov-vedimentale, ha contribuito a rendere difficoltosa una sistematizzazione del-le problematiche concernenti schemi teorici di attuazione del prelievo tri-butario. Nel tempo, infatti, si sono registrati indirizzi oscillanti in tema di struttura dell’atto impositivo e di motivazione, che hanno, talvolta, mitigato la portata garantista dello Statuto in favore della “ragione fiscale”.

Dalla lettura che, da ultimo, è stata data circa l’evoluzione della giuri-sprudenza di legittimità in tema di motivazione, si può certamente cogliere che essa gioca un ruolo tutt’altro che secondario nella sindacabilità della le-gittimità della pretesa tributaria rivendicata dall’Amministrazione finanzia-ria; tale ruolo deve trovare, pertanto, più precisi connotati in ambito giuri-

14 PEETERS-VAN DE VELDE, op. cit., par. 2: «It is required that the motivation be propor-tional to the importance of the decision and to the scope of the policy freedom of the administra-tion (bound competence or otherwise). Nevertheless, the motivation is also considered to be ade-quate, when the decision itself refers to other documents (generally preparatory documents). Four conditions have to be fulfilled to this effect: the content of the document to which is referred has to be known to the administrator or be brought to his knowledge, the document to which is referred has to be adequately motivated, the proposals or advices have to be agreed with in the final decision, and there may not be any contradictory advices».

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sprudenziale che le consentano, nel concreto, di entrare nella dinamica del conflitto tra doverosità dell’azione impositiva e tutela dei diritti di garanzia

15. In questi termini si può certamente affermare che il luogo normativa-

mente preposto per manifestare pretesa impositiva è il procedimento (at-traverso l’atto) e non il processo (attraverso la sentenza); diversamente opi-nando si finirebbe per conferire al giudice una funzione sostanzialmente sup-pletiva rispetto ai compiti istituzionali dell’autorità amministrativa.

3. Il rapporto tra motivazione e prova

Lo stretto collegamento che esiste tra motivazione e prova ed il rilievo che essa acquisisce nella delimitazione del thema decidendum della fase pro-cessuale, deriva dalla struttura impugnatoria del giudizio tributario e dalla centralità dell’atto impositivo nel processo. I motivi puntualizzati nell’avviso di accertamento sono gli unici idonei a delimitare l’ambito delle ragioni ad-ducibili nella successiva fase contenziosa a sostegno della pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria.

La motivazione delimita, dunque, l’oggetto del giudizio, impedendo agli uffici o, al giudice, di modificare, integrare o sostituire nel corso del giudizio i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base dell’accertamento. Qualunque sia, infatti, l’opzione dogmatica prescelta in ordine al quadro teo-rico di riferimento sull’oggetto del processo tributario, rimane assoluta la pre-minenza della motivazione dell’atto ai fini della delimitazione del thema de-cidendum.

L’azione impositiva, infatti, trova il suo elemento caratterizzante nell’e-sercizio di poteri entro termini decadenziali e nell’emanazione di provvedi-menti suscettibili di acquisire definitiva stabilità, a fronte dei quali i contri-buenti vantano interessi oppositivi che si articolano mediante azioni impu-gnatorie: in questi termini, l’accesso al rapporto è precluso al giudice tribu-tario in quanto è l’Amministrazione finanziaria a dover emanare un atto mo-tivato idoneo ad evitare la decadenza. La separazione tra giurisdizione ed

15 Come osservato da BOTTA, op. cit., p. 922, spec. nota 2, il limitarsi, da parte dell’am-ministrazione, a porre il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l’an ed il quantum debeatur, «ri-schia di offrire una visione riduttiva del ruolo della motivazione ...». Sul rapporto tra oggetto della domanda e motivazione della pretesa impositiva, si v. per tutti TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, p. 142 ss.

4.

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amministrazione, si incentra, infatti, sul sindacato della funzione ammini-strativa e non sulla sua sostituzione da parte del giudice.

La motivazione costituisce, in questa prospettiva, un requisito per la vali-dità degli atti: la sua carenza o la sua assenza rilevano come vizio invalidante.

In Belgio, la carenza di motivazione può condurre alla nullità dell’atto e-messo; la violazione della norma che impone la motivazione degli atti del-l’amministrazione, pertanto, porta a desumere che il requisito motivaziona-le dell’atto non possa essere inteso quale elemento meramente “formale”

16.

4. Il vizio di motivazione

Nell’ordinamento interno, il tema dell’invalidità dell’atto impositivo, a se-guito della codificazione dei vizi degli atti amministrativi, operata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, ha posto il problema delle ricadute, nel diritto tributa-rio, del depotenziamento dei vizi non idonei ad alterare il contenuto dispo-sitivo degli atti.

Nell’azione impositiva, in cui si rinviene una delle massime espressioni dell’autoritatività, il favor per gli interessi pubblici e collettivi può giustifica-re il depotenziamento dei vizi formali e l’affievolimento della tutela degli in-teressi oppositivi dei contribuenti solo ove ciò non conduca all’elisione della tutela nei confronti dell’azione impositiva

17. Il problema del vizio di motivazione assume prospettive diverse a secon-

da dei casi in cui siano richiesti, o meno, giudizi accertativi e/o valutativi di qualche tipo; ciò rileva proprio laddove l’art. 21 octies, comma 2, circoscrive la non annullabilità dell’atto viziato alle sole ipotesi in cui, data la natura vin-colata del provvedimento, sia palese che il contenuto dispositivo dell’atto stesso non avrebbe potuto essere diverso. Sul punto, occorre interrogarsi co-me possa mai apparire “palese” ed inequivocabile al giudice o al destinatario dell’atto, che la parte dispositiva dello stesso non avrebbe potuto essere di-

16 PEETERS-VAN DE VELDE, op. cit., par. 3: «It is held as a general rule that the formal mo-tivation is a substantial formal requirement which, in case of violation, can lead to the nullity of the administrative decision».

17 DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, p. 240 ss.; ID., La rilevanza della legge generale sul procedimento amministrativo e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., n. 6, 2010, p. 729 ss.; sul punto, v. BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi: considerazioni sul principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., n. 2, 2006, p. 357 ss.

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versa se, in difetto di motivazione, si priva l’atto di quell’elemento che ha pro-prio la funzione di rendere “palese” il contenuto dell’atto ed il modo in cui esso si è formato.

L’art. 21 octies, comma 2, ha distinto chiaramente la sanatoria dei vizi formali dei profili vincolati dell’attività amministrativa rispetto ai profili di-screzionali della stessa: la medesima norma, infatti, non è stata considerata applicabile laddove il vizio di motivazione sia stato rilevato nell’ambito di un procedimento riconducibile all’attività discrezionale. In altri termini, gli atti viziati da difetto di motivazione sarebbero annullabili solo nel caso in cui l’atto abbia natura discrezionale; ciò vorrebbe dire, nel diritto tributario, che il vizio di motivazione non comporterebbe invalidità ove si ritenesse che l’atto impositivo sia vincolato e non possa essere considerato, in alcun modo, come un atto discrezionale.

Nell’azione impositiva pare potersi affermare che l’atto è sicuramente vincolato nella determinazione dell’imposta ma non nella ricostruzione del-la fattispecie imponibile, in quanto sono consentite all’Amministrazione fi-nanziaria scelte istruttorie; non si è, quindi, in presenza di un’attività il cui presupposto è qualificabile in termini di mera constatazione, ove, cioè, l’ap-prezzamento da parte dell’Amministrazione è fortemente limitata o, addirit-tura, inesistente.

Ciò che pare significativo, indipendentemente dalla problematica atti vincolati – atti discrezionali, è che considerare il vizio di motivazione sana-bile in tutti i casi in cui lo stesso non influisce sul risultato dell’azione ammi-nistrativa, condurrebbe ad una inaccettabile svalutazione della fase di istru-zione primaria ed impedisce alla motivazione di fungere da collegamento tra istruttoria e provvedimento finale. Ove la motivazione fonda l’imposizione, non potrà mai essere palese che il contenuto dispositivo dell’atto non avreb-be potuto essere diverso da quello in concreto adottato e, quindi, l’art. 21 octies, comma 2, L. n. 241/1990 non potrà mai rendere irrilevante il vizio di motivazione degli atti impositivi.

La motivazione inerisce, nella prospettiva suddetta, aspetti sostanziali che non ammettono la sanabilità prevista dall’art. 21 octies, comma 2, previ-sta per i diversi casi che attengono ai vizi formali. Il vizio di motivazione va ascritto alla categoria invalidante della nullità voluta dal legislatore tributa-rio: l’art. 21 septies, infatti, qualifica le ipotesi di nullità senza predetermi-narne gli effetti invalidanti, ben potendo, dunque, le specifiche norme tribu-tarie richiamarsi alla categoria della nullità, con la finalità di evitare che il re-lativo vizio possa essere sanabile, limitandone, però, parallelamente, gli effetti.

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L’atto viziato da difetto di motivazione, pertanto, sarà nullo, ma gli effetti saranno quelli più “mitigati” voluti dal Legislatore tributario: la nullità sarà, dunque, eccepibile (e non rilevabile d’ufficio) solo entro il primo grado di giu-dizio con un regime che, sotto tali profili, sarà più vicino a quello dell’annul-labilità, soprattutto per quanto concerne l’idoneità dell’atto impositivo a pro-durre effetti giuridici, potendosi affermare, in questo senso, che le norme tri-butarie hanno previsto un regime di “nullità temperata”.

Il depotenziamento dei vizi formali rileva solo quando non è sintomo ri-velatore di vizi sostanziali della funzione; il vizio è di tipo formale allorquan-do attiene ad ambiti che non influiscono sull’assetto di tali interessi sostan-ziali, implicando, invece, violazioni di aspetti procedimentali.

Nella prospettiva anzidetta, risulta peraltro controversa una recente pro-nuncia della Corte di Giustizia che, in un caso riguardante proprio l’Italia ed al fine di motivare la sua incompetenza a risolvere una questione pregiudi-ziale posta dalla Corte dei Conti, ha stabilito che l’art. 1, L. n. 241/1990, ri-mandando ai principi generali dell’Ordinamento comunitario, non opera uno specifico rinvio agli art. 296, comma 2, TFUE e all’art. 41, n. 2, lett. C), Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; tali disposizioni, se-condo la Corte di Giustizia, sono dirette unicamente alle istituzioni ed agli organi dell’UE

18. Secondo la Corte, pertanto, la L. n. 241/1990 non apporterebbe indica-

zioni sufficientemente precise in ordine alle quali si possa dedurre che, con il richiamo di cui all’art. 1 della stessa legge ai principi dell’Unione, il Legisla-tore nazionale abbia inteso, con riferimento all’obbligo di motivazione, rea-lizzare un rinvio al contenuto dell’art. 296 o dell’art. 41 o altre disposizioni comunitarie inerenti l’obbligo di motivazione dei provvedimenti, al fine di

18 Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2011, C-482/10, Regione Sicilia, in G.U.C.E., C-49, del 18 febbraio 2012, p. 11 ss. e in Giur. it., 2012, p. 1677 ss. con nota di CIVITARESE MAT-TEUCCI, Attività amministrativa e principi dell’ordinamento comunitario. Il punto 28 della sentenza così dispone: «[...] A tal proposito, occorre rilevare che la Corte dei Conti, Se-zione Giurisdizionale per la Regione Sicilia, non ha affatto affermato che tale rinvio com-porti la conseguenza di escludere l’applicazione delle norme nazionali relative all’obbligo di motivazione, in favore degli articoli 296, comma 2, TFUE e 41, n. 2, lett. C, della Carta, i quali sono diretti, peraltro, alla luce della loro formulazione, non già agli Stati membri, bensì unicamente alle istituzioni e agli Organi dell’Unione, o ancora di altre disposizioni del Diritto dell’Unione relative all’obbligo di motivazione, anche allorquando venga in con-siderazione una situazione puramente interna, sì da trattare in modo identico le situazioni puramente interne e quelle disciplinate dal diritto dell’Unione ...».

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applicare un trattamento identico alle situazioni interne ed a quelle discipli-nate dal diritto dell’UE

19. La sentenza nell’affermare che, nel caso di specie, gli artt. 296 TUFE e

l’art. 41 della Carta dei Diritti non sono rivolti agli Stati membri ma solo agli organi ed alle istituzioni dell’UE, sembra limitare la portata espansiva che l’obbligo di motivazione ha avuto nella sua stessa giurisprudenza. Vero è, tuttavia, che la Corte di Giustizia utilizza le argomentazioni suddette non al fine di decidere la vicenda nel merito, ma con lo scopo di escludere la sua competenza nello statuire, preliminarmente, il riconoscimento della qualifi-ca di “organo giurisdizionale” alla Corte dei Conti, ai fini del rinvio pregiu-diziale ai sensi dell’art. 267 TFUE. Indicativamente, infatti, la Corte di Giu-stizia, nel motivare i suoi assunti, ha testualmente affermato con formula dubitativa che «né la decisione di rinvio, né la l. 241/1990, apportano indi-cazioni sufficientemente precise dalle quali potrebbe dedursi che, richia-mandosi all’art. 1 della l. 241/1990, ai principi dell’Unione, il Legislatore na-zionale abbia inteso, con riferimento all’obbligo di motivazione, realizzare un rinvio al contenuto delle disposizioni degli artt. 296, comma 2, TFUE e 41, n. 2, lett. C, della Carta o ancora di altre disposizioni del Diritto dell’U-nione ...» (punto 29).

Sul punto è opportuno rammentare ancora una volta che, invece, la Corte costituzionale fa riferimento all’obbligo di motivazione invocando proprio il principio generale del diritto europeo dell’art. 235 TCE (ora 296 TFUE), quale fondamento diretto anche per l’ordinamento interno

20. La sentenza della Corte di Giustizia, in questa prospettiva, pur nel suo limitarsi ad una decisione che non entra nel merito della vicenda e pur con le formule dubi-tative già segnalate, non pare dunque tenere nella debita considerazione i risultati interpretativi conseguiti nel nostro ordinamento attraverso il raccor-

19 Corte di Giustizia, 21 dicembre 2011, C-482/10, cit., 14, il cui punto 29 così dispone: «[...] Di conseguenza, né la decisione di rinvio, né la legge n. 241/1990 apportano indica-zioni sufficientemente precise dalle quali potrebbe dedursi che, richiamandosi all’art. 1 della legge n. 241/1990, ai principi del diritto dell’Unione, il legislatore nazionale abbia inteso, con riferimento all’obbligo di motivazione, realizzare un rinvio al contenuto delle disposizioni degli artt. 296, comma 2, TFUE e 41, n. 2, lett. C, della Carta o ancora di altre disposizioni del Diritto dell’Unione relative all’obbligo di motivazione dei provvedimenti, al fine di applicare un trattamento identico alle situazioni interne e a quelle disciplinate dal diritto dell’Unione. Non si può dunque concludere che nel caso di specie sussista un interes-se certo dell’Unione a che sia preservata uniformità di interpretazione di dette disposizioni».

20 COCCONI, op. cit., p. 1127.

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do tra obbligo di motivazione e riferimento ai principi comunitari espressi dall’art. 1, L. n. 241/1990

21.

5. Brevi osservazioni conclusive

Le considerazioni che precedono hanno un riflesso sulle differenti tipo-logie degli atti tributari e sulle diverse “gradazioni” che la motivazione in es-si assume; ciò richiede di individuare le ipotesi in cui essa costituisce un elemento che attiene alla giustificazione sostanziale della pretesa, dalle ipotesi in cui la stessa riguarda, invece, la corretta applicazione delle norme proce-dimentali.

In tutti gli atti che costituiscono espressione di una funzione di accerta-mento, la motivazione costituisce elemento giustificativo e dimostrativo della pretesa sostanziale; essa riflette la tipologia dell’imposta accertata, graduan-do la sua articolazione e la sua intensità in funzione degli elementi di fatto da accertare e della conseguente qualificazione giuridica finalizzata ad applica-re la norma al caso concreto, dovendo, altresì, contenere gli elementi proba-tori a sostegno della pretesa.

21 Sulla riconducibilità degli obblighi procedimentali contenuti nella L. n. 241/1990 ai principi generali sull’azione amministrativa di rango costituzionale, nazionale ed europeo, si v. MATTARELLA, I procedimenti di regioni ed enti locali, in Giornale dir. amm., n. 11, 2009, p. 1137.

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Bruno Peeters-Elly Van de Velde

LA MOTIVAZIONE DEGLI ATTI TRIBUTARI IN BELGIO

FORMAL MOTIVATION OF INDIVIDUAL TAX ACTS IN BELGIUM

Abstract Il saggio si incentra sulla legge belga che disciplina la motivazione degli atti am-ministrativi del 29 luglio 1991 e, in particolare, sulle possibilità della sua applica-zione nei procedimenti tributari. In questo contesto, il tema si sviluppa attraver-so l’applicazione della motivazione ratione personae e ratione materiae. La moti-vazione deve essere esplicita ed adeguata al fine di soddisfare i requisiti imposti della legge sulla motivazione degli atti amministrativi; l’atto deve dunque conte-nere tutte le valutazioni giuridiche e fattuali poste alla base della decisione am-ministrativa. Giurisprudenza e dottrina evidenziano l’importanza della motiva-zione, in quanto un atto non motivato può anche condurre alla nullità della deci-sione amministrativa. Parole chiave: motivazione, procedimenti tributari, adeguatezza, requisito so-stanziale, requisito formale The article focuses on the Belgian Law on the Formal Motivation of Administrative Acts of 29 July 1991, and in particular on the various application possibilities in tax cases. Against this backdrop, the topic is developed through the application ratione personae and ratione materiae. The motivation must be explicit and adequate in order to fulfil the requirements of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts; this means that the act con-tains the legal and actual considerations which are at the basis of the decision. Both the jurisprudence and the doctrine underline the importance of the motivation, even if an unmotivated act could lead to the nullity of the administrative decision. Keywords: motivation, tax cases, adequacy, substantial requirement, formal require-ment

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SOMMARIO: 1. The Law on the Formal Motivation of Administrative Acts: Generalities. – 1.1. Introduction. – 1.2. Significance of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts. – 2. Application domain of the formal motivation obligation in tax cases. – 2.1. Introduction. – 2.2. Application domain ratione personae: the tax ‘administration’. – 2.3. Application ratione materiae: the ‘ad-ministrative act’. – 2.3.1. Direct taxes. – 2.3.1.1. Establishment of the income taxes. – 2.3.1.2. Collection of the income taxes. – 2.3.2. Indirect taxes. – 2.3.2.1. Distress warrant. – 2.3.2.2. No-tification upon a request for control estimate. – 2.3.2.3. Consignment. – 2.3.2.4. Decision of re-fusal to grant payment facilities. – 2.3.2.5. Flemish vacancy charge. – 2.4. Exceptions. – 3. Sco-pe of the formal obligation of motivation. – 3.1. Bound or discretionary competence. – 3.1.1. De-cisions at the request of the taxpayer. – 3.1.2. Decision at the initiative of the administration. – 3.2. Motivation by reference: satisfactory or not? – 4. Sanction as a result of the violation of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts. – 5. Conclusion.

1. The Law on the Formal Motivation of Administrative Acts: Generalities

1.1. Introduction

In the 1990s the Belgian legislator has realised that in the relationship citi-zen – administration, falling back to the unwritten and general principles of proper administration was not sufficient to protect citizens adequately against the possible arbitrary action of the administration. In the context of preven-tive legal protection, laws on the formal motivation of administrative acts

1, the public nature of the administration

2, and the Ombudsman 3 have been in-

troduced. The purpose of this legislation is to incite the administration – the tax administration included – to a more careful decision-making process, to inform citizens better about the decision-making process and to facilitate the administrative and jurisdictional supervision of these decisions

4. The present article focuses on the Law on the Formal Motivation of Ad-

ministrative Acts of 29 July 1991, and in particular on the various applica-

1 Law of 29 July 1991 on the explicit motivation of administration acts, Belgian Official Gazette, 12 September 1991.

2 Law of 11 April 1994 on the public nature of the administration, Belgian Official Ga-zette ,30 June 1994.

3 Law of 22 March 1995 for the establishment of federal ombudsmen, Belgian Official Gazette, 7 April 1995.

4 PEETERS, Preventieve rechtsbescherming tegen het fiscaal bestuur, in Algemeen Fiscaal Tijdschrift (AFT), 1998, pp. 189-227. OPDEBEEK-COOLSAET, Formele motivering van bestu-urshandelingen, in Administratieve Rechtsbibliotheek, Bruges, die Keure, 1999, pp. 6-9, no. 5-8.

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Bruno Peeters-Elly Van de Velde

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tion possibilities in tax cases. Before we go into the fiscal state of affairs, we describe the general significance of this law.

1.2. Significance of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

All (positive or negative) unilateral individual written legal acts by an ad-ministration that aim at legal consequences, must, since the coming into force of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts in 1991, be motivated explicitly. Purely preparatory acts, such as non-binding advices or proposals, but also implementation measures are, as a consequence, not subject to same.

Independent of how broad the application domain seems to be, the legi-slator has foreseen four exceptions to the explicit motivation obligation. There is no explicit motivation obligation in case this motivation can endan-ger the external security of the State, can disturb public order, can detract from the respect for private life and can detract from the stipulations on the oath of secrecy. Urgent necessity does not release the administration from its obligation of explicitly motivating its acts. In case another law than the Law on the Motivation of Administrative Acts enforces a more stringent motivation obligation (for instance answer to all arguments), this more strin-gent law is to apply to the administration acts.

The motivation has to mention in the act itself the legal and factual con-siderations, which are at the basis of the decision. The law requires the mo-tivation to be adequate. This is a vague norm, which is assessed in concreto. It is required that the motivation be proportional to the importance of the decision and to the scope of the policy freedom of the administration (bound competence or otherwise). Nevertheless, the motivation is also con-sidered to be adequate, when the decision itself refers to other documents (generally preparatory documents). Four conditions have to be fulfilled to this effect: the content of the document to which is referred has to be known to the administrator or be brought to his knowledge, the document to which is referred has to be adequately motivated, the proposals or advices have to be agreed with in the final decision, and there may not be any contradictory advices

5.

5 OPDEBEEK-COOLSAET, De formele motivering van bestuurshandelingen. Een beknopte gids, Bruges, die Keure, 1999, p. 16.

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2. Application domain of the formal motivation obligation in tax cases

2.1. Introduction

The Law on the Formal Motivation of Administrative Acts is applicable to the individual administrative acts of the tax administration. The application possibilities of the law are very numerous in tax matters. The doctrine points out that, perchance, the legislator did not aim at such a large application do-main, as was apparent from the parliamentary preparation, in which the ap-plication of the law on tax decisions, with the exception of an accidental refe-rence (namely the assessment of a municipal tax) is not discussed

6. The application of the Law on the Formal Motivation of Administrative

Acts to the tax decisions has been concretised by the Belgian Minister of Fi-nance in two Circulars (on the assessment and collection of direct taxes)

7. The control on the respect of the formal obligation of motivation on tax

decisions is exercised by the ordinary courts and tribunals 8. Meanwhile, the

greater part of the jurisprudence is convinced of the relevance of the Law on the Fomal Motivation of Administrative Acts on tax acts.

In a number of specific fiscal provisions, the legislator also has given ad-ditional clarification on the motivation of specific tax acts

9.

2.2. Application domain ratione personae: the tax ‘administration’

Both tax circulars specify on the basis of the jurisprudence of the Belgian Council of State that the administration is each organ of the federal, regional, provincial or municipal administration, insofar it intervenes as an admini-stration and not as a jurisdictional bodyor in a legislative function

10.

6 JUSTE, La motivation formelle des actes administratifs et ses implications en droit fiscal (loi du 29 juillet 1991), in Revue Générale de Fiscalité, 1994, p. 236; VAN ORSHOVEN, De uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshandelingen, in Fiscale Koerier, 1991, p. 508. Cf. Parl. St. Senaat 1988-1992 (B.Z. 1988), p. 14, no. 215/3.

7 Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 on the explicit motivation of administrative acts in the collection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, pp. 1136-1145; Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July 1992 on the explicit motivation of administrative acts in the sphere of the assessment of the taxes, Bulletin der Belastingen, 1992, pp. 2187-2193.

8 In accordance with article 569, paragraph 1, 32° Jud.C., the fiscal sections of the Courts of First Instance are competent for disputes with regard to the application of tax law.

9 E.g. art. 346 in fine and 352 bis ITC92 (Law dated 30 June 2000) and art. 92 C.VAT. 10 Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law

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In Belgium, the administrative function is exercised by the regional di-rector. He also has to be considered as an administration in the meaning of the Law on the Motivation of Administrative Acts

11. His decision will, the-refore, not only have to be motivated explicitly in fact and in law, but also adequately

12. The question arises whether the decision of the regional di-rector has to be motivated on the basis of the Law on the Motivation of Ad-ministrative Acts or rather on the basis of the specific article 375 of the Bel-gian Income Tax Code, which determines that his decision must be moti-vated. The doctrine maintains that this specific tax law imposes a less strin-gent obligation of motivation than the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts, as a result of which the latter is applicable

13. Similarly, the general director of the Customs and Excise Administration

also acts as an administration 14. Furthermore, the procedure on local taxes

nowadays also runs administratively through the bench of mayor and alder-men (municipal) and the governor/executive (provincial)

15.

dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the col-lection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, p. 1137, no. 2; Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the ex-plicit motivation of administrative acts in the sphere of the assessment of the taxes, Bulletin der Belastingen, 1992, p. 2188, no. 2.

11 Art. 375 § 1 ITC92, as modified by art. 32 of the Law dated 15 March 1999. 12 BEHAEGHE, De nieuwe fiscale procedure, in Fiscale Koerier, 1999, p. 373; X., Bezwaar-

procedure: administratief karakter ook voor verleden, in Fiscoloog, 2000, p. 5, no. 778. 13 STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, La motivation formelle en matière fiscale: des actes

préparatoires à l’établissement de l’impôt au recouvrement de l’impôt, in Revue générale de fisca-lité , 2005/1, p. 26, no. 47.

14 Art. 219 AWDA, VAN BELLE, De hervorming van de fiscale procedure inzake douane en accijnzen, in Algemeen Fiscaal Tijdschrift, 2000, p. 425.

15 BEHAEGHE, op. cit., p. 371; X., Procedure lokale belastingen: toch geen uitstel, in Fiscoloog, 1999, p. 1, no. 706. The matter is regulated by Law dated 24 December 1996 and the RD dated 12 April 1999 for the definition of the procedure for the governor or for the bench of Mayor and Aldermen with respect to notices of objection against a provincial or local tax. For the Flemish Region, this regulation has been modified by Decree dated 30 May 2008, BS 4 July 2008 (cf. also circular letter BB 2008/07 dated 18 July 2008, BS 22 August 2008) which regulates the assessment, collection and dispute procedure for taxes establi-shed by the provinces and the local authorities in the Flemish Region. Art. 9 of this Decree regulates the objection procedure to the deputation (instead of the governor (Royal De-cree 12 April 1999) for the province taxes and to the bench of Mayor and Aldermen for the local taxes. For the Walloon Region, the appeal procedure is regulated by art. L3321-9 Code of the local democracy and the decentralisation, Belgian Official Gazette, 12 August 2004 and Belgian Official Gazette, 22 March 2005.

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The direct tax collector can decide whether or not he will grant payment facilities to the taxpayer. The question has been asked to the Minister of Fi-nance whether the positive or negative decision, which the tax collector takes in this context, falls within the application framework of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts.

As the collector here, according to the Minister and the tax administra-tion, takes action in his own name and therefore not as an administrative au-thority, his decision should not have to be motivated as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

16. Also the jurispru-dence understands that the decision to grant or refuse payment facilities is not an administrative act subject to the obligation of motivation as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

17. This juris-prudence seems to be in line with the judgment of the Belgian Court of Cassation of 24 April 2008

18 in which the Court poses that the payment fa-cilities «are only tolerated by the accountant, from which the taxpayer cannot derive any right». This judgement would then endorse the position that the possibility for the collector to grant payment facilities is only a certain “tole-rance”, to which the Treasury turns a blind eye.

In the doctrine, however, criticisms have been formulated about this po-sition

19. The above mentioned judgement indeed shows that the Court of Cassation appears to consider the qualification of the payment facilities as a mere tolerance as a logical consequence of the fact that the collector cannot detract from the legal payment terms anyhow. The granting of payment fa-cilities does not mean that legal payment terms can simply be ignored. The debt remains collectable. Only its implementation has been adjourned. The payment facilities can, in other words, not exclude that the implementation

16 Question no. 684 (Daerden) dated 15 March 1994, Vr. en Antw. Kamer, Bulletin der Belastingen, p. 2791, no. 742; Question no. 126 (de Clippele) dated 15 June 1992, Vr. en Antw. Kamer, G.Z. 1993-1994, p. 11727, no. 112. Also see Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the ex-plicit motivation of administrative acts in the collection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, p. 1139; X., Moet weigering betalingsfaciliteiten, enz., niet uitdrukkelijk worden gemotiveerd?, in Fiskoloog, 1992, p. 4, no. 374.

17 Court Leuven 2 April 2004, www.monkey.be. 18 Cass, 24 April 2008, Fiscale Koerier, 2008, p. 672, no. 16, note X, www.cass.be, RABG,

2008, p. 1193, no. 18, note VANDEN BRANDEN, Revue générale du contentieux fiscal, 2008, p. 307, no. 4, note VAN BRUSTEM and Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2008, p. 924, no. 349, note LOYENS.

19 DELANOTE, Schuld en executie, Bruges, Die Keure, 2010, pp. 324-325.

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will be resumed as soon as the financial possibilities of the taxpayer take a turn to the better, or that certain implementing measures are being taken, such as a (simplified) garnishment. This brings the doctrine to the conclu-sion that granting payment facilities is indeed more than a pure and simple tolerance of the collector

20. A derived consequence of the assertion that granting payment facilities is

more than a simple informal tolerance from the collector is that this grant-ing should also be subjected to the formal obligation of motivation

21.

2.3. Application ratione materiae: the ‘administrative act’

Even though both fiscal circulars 22 and the majority of the jurisprudence

declare the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts in princi-ple applicable to each individual unilateral legal tax act with legal conse-quences, the Courts of Appeal of Brussels and Liège have decided – (com-pletely) erroneously – that the aforementioned Law is only applicable to administrative acts, which are susceptible of nullification by the Belgian Council of State

23. The broad interpretation is, according to the doctrine, the wish of the legislator: the only fiscal example in the parliamentary prepa-ration on a local taxation could at the time not be brought to the Council of State but had to be brought to the permanent deputation

24.

20 DELANOTE, ibidem. 21 The these that the granting of payment facilities must indeed be motivated, has al-

ready earlier been defended by: GHYSELS, La motivation formelle des actes de l’administra-tion des contributions directes et de la loi 29 juillet 1991, in Revue Générale de Fiscalité, 1993, p. 21; JUSTE, op. cit., pp. 237-238; PEETERS, op. cit., pp. 218-219; STEVENART MEEÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 43, no. 78; VAN ORSHOVEN, De uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshandelingen, cit., p. 508.

22 Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the col-lection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, pp. 1136-1145; Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the ex-plicit motivation of administratieve acts in the sphere of the assessment of taxes, Bulletin der Belastingen, 1992, pp. 2187-2193.

23 Brussels 7 November 1996, FJF, 1996, p. 515; Liège 4 March 1998, Fiscale Koerier, 1998, p. 244 with critical note DEFOOR; Liège 9 October 1998, FJF, 99/1; Liège 11 Sep-tember 1998, FJF, 98/297; Liège 20 June 2001, FJF, no. 2002/1.

24 VAN ORSHOVEN, Uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshandelingen, cit., p. 508. Cf. also PEETERS, op. cit., p. 213, no. 62.

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In the meantime, the requirement of susceptibility for appeal to the Coun-cil of State on fiscal disputes can be questioned from another point of view. Indeed, since the new fiscal procedure rules of 1999, it is not the Council of State in first instance anymore but the fiscal section of the Court of First In-stance that is competent on disputes about the application of a tax law

25. As a consequence, the ordinary Courts and tribunals control whether the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts has been respected by the tax administration when posing an individual unilateral legal tax act

26. The Law on the Formal Motivation of Administrative Acts is of course not

applicable to measures of prosecution and implementation. The notification of the intention of the collector (in case the rights of the Treasury are not en-dangered) to claim a legal mortgage and the notification thereof as garnish-ment in the hands of the notary public

27 can be quoted as an example. This is however not valid insofar the notification also affects taxes which are not due yet. In this case, legal consequences are indeed created: the exigibility of the tax is advanced by the notification, so that in the present hypothesis, we are indeed looking at an administrative act that has to be motivated formally

28. Furthermore, the Court of Cassation has decided that the indirect col-

lection by garnishment on direct taxes is an act of execution resulting direct-ly from the law and, furthermore, given that it is only the consequence of a decision taken earlier, it is not an administrative act as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

29. The injunction only gives instructions to the bailiff to proceed with the execution of an enforcea-ble assessment note.

25 Art. 569, paragraph 1, 32° Jud.C. 26 Cf. infra, no. 41. 27 Art. 435, par. 3 ITC92 and art. 434 ITC92; Circular no. Ci. R. 14/438.580, 14 Fe-

bruary 1992, Bull. Bel., pp. 1142-1143, no. 715, no. 16 and 21. Contra: VAN HAEGENBORGH, De invordering van de inkomstenbelastingen en de Wet motivering bestuurshandelingen, in DIRIX-TAELMAN (eds.), Fiscaal executierecht, Antwerp, Intersentia, 2003, p. 371, no. 38.

28 Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the col-lection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, pp. 1143-44; PEETERS, op. cit., p. 219; X., Moet weigering betalingsfaciliteiten, cit., p. 5.

29 Cass., 25 April 1997, FJF, no. 97/242; Ghent 17 April 1996, TGR, 1996, p. 161; Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the collection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, p. 1144; PEETERS, op. cit., p. 219; X., Moet weigering betalings-faciliteiten, cit., p. 5.

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A non-exhaustive list of legal tax acts that can be considered within the scope of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts follows. Only a specific fiscal law as stringent as or more stringent than the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts can supersede the latter. It should be remarked that the Law on the Formal Motivation of Administra-tion Acts is widely applied in the Belgian tax legislation.

The tax administration has concretized this Law in the relevant circulars. These circulars concern, however, solely the establishment and collection of the direct taxes, which is why we shall also consider the indirect taxes.

2.3.1. Direct taxes 2.3.1.1. Establishment of the income taxes

1. Tax assessment 30

It is generally accepted that a tax assessment is «a unilateral legal act, ma-terialized by an authentic act through which a competent public authority esta-blished the existence of a certain fiscal debt at the expense of a certain debtor and establishes an enforceable title to collect the taxes due»

31. In the doctrine, one infers from the above that the (material) obligation of motivation adheres to the assessment itself, the formalisation of which takes place as a rule in the assessment note, the notice of change or in the notification of assess-ment ex officio. It is the inseparable whole which, as a consequence, is sub-ject to the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

32. In the jurisprudence, there is a strict distinction between the assessment (the taxa-tion: an administrative act, therefore, formal motivation) and the assessment notice (a mere notification: no formal motivation)

33 as well.

30 Art. 353 ss. ITC92. 31 See the definition of CLAEYS BOUUART cited in PEETERS, op. cit., p. 216, no. 76;

PLETS, De vernietiging door het Arbitragehof van de geschillenprocedure inzake provincie en gemeentebelastingen, in T.Gem., 1998, p. 216; VAN ORSHOVEN, De uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshandelingen, cit., p. 508.

32 DUBOIS, De verboden substitutie van motieven. Over de invloed van de wet Motivering Bestuurshandelingen op de geschillenprocedure inzake inkomstenbelastingen, in X., Recht zon-der omwegen. Fiscale opstellen aangeboden aan Prof. Dr. J. J. Couturier ter gelegenheid van zijn 75ste verjaardag, De Boeck & Larcier, Brussels, 1999, p. 317, no. 17.

33 Perm. Dep. Antwerp 21 December 1995, RW, 1996-1997, p. 236. About the distinc-tion between assessment register and assessment notice, see also/cf.: DELANOTE, op. cit., pp. 290-292, no. 306-307.

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Conversely, the Court of Appeal of Liège decided erroneously that the assessment notice is not an administrative act which is susceptible to nullifi-cation by the Council of State, on which, as a consequence, the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts is not applicable

34.

2. Notice of change 35 and notification of assessment ex officio

36 After some ten years of discussion in the jurisprudence and the doctrine

about the question whether or not these both acts are legal 37 and in the af-

firmative, whether they satisfy the conditions to fall under the Law on the Motivation of Administrative Acts, the Court of Cassation has passed a jud-gement.

In principle, the Court of Cassation assumes that the notice of change (resp. the notification of assessment ex officio) is an administrative act as in-tended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts. The Court decided however that not the latter Law but the at least as stringent specific article 346 (resp. art. 351) ITC 92 is applicable

38. In the past, the question has arisen whether the tax administration has to

reply to the remarks formulated by the taxpayers after a notice of change or an assessment ex officio. In the absence of a law text, the jurisprudence as-

34 Liège 20 June 2001, FJF 2002/1. Cf. supra, no. 7. 35 Art. 346 ITC92. 36 Art. 351 ITC92. 37 According to the tax administration, the Finance minister, and some jurisprudence,

both administrative acts are only a starting point of the discussions with the taxpayer and by no means aim at legal consequences: ComIT92 346/28-38 and Circ. Nr. Ci. RH. 81/439.496 dated 27 July 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with re-gard to the explicit motivation of administrative acts in the sphere of the assessment of taxes, Bull. Bel., p. 2191, no. 719, no. 12; Question no. 144 dated 3 December 1999 (Le-terme), Vr. en Antw. Kamer, 1999-2000, p. 3633; Cass., 26 October 1965, Pas., 1966, I, p. 276; Brussels, 7 November 1996, FJF, 1996, p. 515; Liège, 4 March 1998, Fiscale Koerier, 1998, p. 244 with critical note DEFOOR; Antwerp 16 June 1998, FJF, no. 98/286; Antwerp 22 September 1999, EJ, 1999, p. 27.

Contra: DASSESSE-MINNE, Droit fiscal – Principes généraux et impôts sur les revenu, Brus-sels, Bruylant, 2001, p. 203; GHYSELS, op. cit., pp. 18-20; JUSTE, op. cit., p. 236; PEETERS, op. cit., pp. 214-215; VAN ORSHOVEN, De uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshande-lingen, cit., p. 508; X., Worden alle bestuurshandelingen nu uitdrukkelijk gemotiveerd op fiscaal vlak?, in Algemeen Fiscaal Tijdschrift, 1994, 29/6.

38 Cass., 10 November 2000, FJF, no. 2001/4, Fiscale Koerier, 2000, p. 539 with note DEFOOR; Cass., 2 February 2001, FJF, no. 2001/184. For an overview of which notifications of change and assessments ex officio were considered as (in)adequately motivated by the ju-risprudence: STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 18 ss., no. 33 and 22 ss., no. 41.

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sumed that no motivation was required for taking or not into account the remarks of the taxpayer

39. With the Law dated 30 June 2000, the legislator introduced a specific obligation of motivation

40. From that date onwards, the tax administration has to inform the taxpayer about the reasons which justify its decision. In our opinion, the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts also has to yield to this special fiscal legislation.

3. Request for information Answering a parliamentary question, the Minister of Finance clarified

that the document with a request for information is not an administrative act as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts, whereby the motivation does not have to comply with that Law

41. In our opinion, a request for information does not create any legal consequences.

4. Issuance and waving of an administrative fine 42

The issuance of an administrative fine also constitutes an administrative act as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts. The article 109 of the Law dated 4 August 1986 on fiscal regulations (the so-called charter of the taxpayer) stipulates that, in case the tax admini-stration wants to issue an administrative fine, it has to inform the taxpayer beforehand about the facts that constitute the violation of the applied legal regulations and of the motives that are taken into consideration to establish the amount of the fine.

39 Antwerp 18 June 1996, FJF, no. 96/183; Antwerp 19 January 1999, FJF, no. 99/166; VAN STEENWINCKEL, Les avancées en matière de protection des droits des contribuables à la lumière de la jurisprudence récente, in Bulletin fiscal du Guide Fiscal Permanent, Brussels, Kluwer, 2000/09, p. 34.

40 Art. 346 in fine and art. 352 bis ITC92, brought into force by the Law dated 30 June 2000 amending the general law in respect of customs and excise duties and the Income Tax Code 1992, Belgian Official Gazette, 12 August 2000. See also Circular no. AFZ/2000-1026 dated 21 September 2000 on the application of the general law with respect to cu-stoms and excise duties and the Income Tax Code 1992, Bulletin der Belastingen, no. 809, p. 2716. VAN HAEGENBORGH, op. cit., p. 357, n. 13.

41 Question no. 188 (Devlies) dated 18 December 2003, Vr. en Antw. Kamer, 2003-2004, pp. 4620-4622, no. 30; Question no. 905 (Hendrickx) dated 6 February 2002, Vr. en Antw. Kamer, 2002-2003, pp. 18118-18120, no. 143; Question no. 144 (Leterme) dated 3 December 1999, Vr. en Antw. Kamer, 1999-2000, p. 3633.

42 Art. 445 ITC92.

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Taking this specific obligation of motivation, formulated more stringently than by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts into con-sideration, it is accepted that an administrative fine has to be motivated on the basis of this specific legal ground

43. The same applies to the decision to reject waving or reducing an administrative fine

44.

5. Tax increase 45

After a period of vagueness about the formal motivation of a tax increase (with at the head the mainly French-speaking jurisprudence, which did not consider the establishment of an assessment (ex officio) or a notification of change pertaining a tax increase as being subject to the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts)

46, the circular on the establishment of the income tax clarified that from now onwards the taxpayer has to be infor-med, in case of the application of tax increases, on the applicable legal regu-lations and, the motivation on the applicable tax increases (mentioning the nature, the gravity and the class of the violation). This information has to be provided in the notification of change or the notification of assessment ex officio, or, failing that, by letter

47. The majority of the jurisprudence followed this administrative directive

and also considered the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts to be applicable to the decision on a tax increase

48. Article 109 of the Law dated 4 August 1986 has only been considered as applicable to admini-strative fines.

43 Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the sphere of the assessment of taxes, Bulletin der Belastingen, 1992, p. 2192; Antwerp, 25 February 1997, Fiscale Koerier, 1997, p. 284 with note DEFOOR; GHYSELS, op. cit., p. 21; JUSTE, op. cit., p. 238; PEETERS, op. cit., pp. 217-218 and 221; VAN ORSHOVEN, De uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshandelingen, cit., pp. 508-509.

44 Trib. Hasselt, 18 January 2006, Fiscale Koerier, 2006, p. 584. 45 Art. 444 ITC92. 46 Liège 11 September 1998, FJF, 98/297; Liège 9 October 1998, FJF, no. 99/1. 47 Circ. Nr. Ci. RH. 81/439.496 dated 27 July 1992, Bulletin der Belastingen, p. 2192,

no. 719, no. 16. 48 Antwerp 21 November 2000, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2001, p. 83; Trib. Namur,

10 November 2000, FJF, 2001/57; Antwerp 25 February 1997, FJF, no. 97/113 (a notifi-cation of change must carry the motivation of a tax increase); Antwerp 3 March 1998, FJF, no. 98/123; Ghent 8 December 1998, FJF, no. 99/152.

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The Court of Cassation ultimately asked the (then) Court of Arbitration a preliminary question, namely whether or not article 109 of the Law dated 4 August 1986 – interpreted in the sense that only the administrative fines fore-seen in article 445 ITC92 have to be motivated and not the tax increases – vi-olates the articles 10 and 11 of the Constitution

49. The Court of Arbitration concluded that there was a violation

50. In a circular, the fiscal administration submitted to this judgement

51. The same goes for the jurisprudence 52. This

means that the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts is not applicable any longer, but that a specific fiscal legal ground is applicable to a tax increase.

6. Several decisions at the request of the taxpayer

The decisions below have been taken at the request of the taxpayer. Al-most all of them are included in the fiscal circulars

53 and have been con-firmed (as a rule) by the doctrine as administrative acts on which the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts is applicable

54:

a) decision whether or not to grant extensions of the declaration 55;

b) decision about the departure from the obligation to keep books and records at the legally prescribed place

56; c) decision whether or not to extend the answer deadline of a request for

information, a notification of change or an assessment ex officio; d) decision not to respect the waiting periods

57;

49 Cass., 31 January 2000, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2001, p. 79. See also QUINET, De motivering van de belastingverhoging: toepassing van de Wet van 29 juli 1991, in Tijdsch-rift voor Fiscaal Recht, 2001, p. 51.

50 Court of Arbitration 18 April 2001, no. 48/2001. See also STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 24, no. 44.

51 Circ. Nr. Ci. RH. 81/548.628 dated 29 July 2002. See also Question no. 511 (Eerde-kens) dated 21 November 2000, Vr. en Antw. Kamer, 2002-2003, pp. 19262-19263, no. 151.

52 Trib. Liège, 2 October 2003, RGCF, 2003/4, p. 44 with note VERELST. 53 Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the applicatin of the Law dated

29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the collection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992; Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July 1992 on the applicatin of the Law dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administra-tive acts in the sphere of the assessment of taxes, Bulletin der Belastingen, 1992.

54 See among others STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 15 ss. 55 Art. 311 ITC92. 56 Art. 315, par. 3, ITC92. 57 Art. 346, par. 3 and art. 351, par. 3, ITC92.

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e) refusal of exemption ex officio 58;

f) advance decision in tax matters 59.

The Service Advance Decisions in tax matters (the so-called Advance Tax Ruling Service) gives an advance tax ruling at the request of the taxpayer about how the tax law will be applied to a special situation or operation – which has not had consequences yet at the fiscal level. Insofar this decision qualifies as an individual unilateral administrative legal act that aims at legal consequences, a so-called advance tax ruling is an administrative act as in-tended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

60. In all respect, the decision of refusing to deliver an advance tax ruling has

to be motivated as individual unilateral legal act as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts. The so-called advices of the Advance Tax Ruling Service, which have no individual import, do not fall under the application of the Law on the Formal Motivation of Administra-tive Acts

61.

2.3.1.2. Collection of the income taxes Earlier in this text, we discussed the case where the collector grants pay-

ment facilities, on which the Law on the Formal Motivation of Administra-tive Acts is not considered to be applicable

62. The following legal tax acts are generally accepted as being subject to the

application domain of the aforementioned Law 63:

58 Art. 376 ITC92. 59 Art. 20 Law 24 December 2002, Belgian Official Gazette, 31 December 2002. 60 About the correct qualification of a preliminary decision of the SPD, however, opi-

nions diverge. According to some, it constitues a unilateral administrative legal act, accord-ing to others, it forms a unilateral (competence) convention, and according to yet others, it is a “hybride convention” (for further details, see VAN DE VELDE, Afspraken met de fiscus: grenzen, de juridische kwalificatie en rechtsgevolgen, Brussels, Larcier, 2009, pp. 436-437, no. 610; WARSON, Invulling en precedentswaarde van rulings, Brussels, Larcier, 2011, pp. 113-116, no. 210-215). Only when the first qualification is followed, the the applicability of the Law on the Motivation of Administrative Acts ensues.

61 Cf. WARSON, op. cit., pp. 17-18, no. 17 who takes a comparable point of view with re-gard to the “points of view” published by the SPD on its website, but which have been requalified as “advices”. The aforementioned advices are, according to the SPD, intended as general policies or directives (VAN DE VELDE, Afspraken met de fiscus, cit., p. 397, no. 549).

62 Supra, no. 6. 63 Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law

dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative actis in the col-lection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992; Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July

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1. the decision of the tax administration director whether or not to post-pone the collection in “special cases”

64; 2. the decision of the collector to declare the assessed taxes immediately

collectable whenever the rights of the Treasury are endangered 65;

3. the decision of the tax administration director whether or not to grant an unlimited postponement of collection

66; 4. the decision of the tax administration director whether or not to grant

the exoneration of late payment interests 67;

5. the decision of the Collection Director to grant moratorium interests 68;

6. the decision of the regional director by which he demands a business security or a personal guarantee

69; 7. the establishment of the legal mortgage by the collector (when the

rights of the Treasury are endangered); as well as his decision about the re-quest to lift a mortgage

70; 8. the decision of the collector to use the sums which have to be reimbur-

sed to him in favour of the taxpayer 71;

9. the decision of the collector whether or not to authorize payment facili-ties. 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regards to the explicit motivation of administrative acts in the sphere of the assessment of taxes, Bulletin der Belastingen, 1992; GHYSELS, op. cit., p. 21; JUSTE, op. cit., p. 238; PEETERS, op. cit., p. 219; X., Moet weigering be-talingsfaciliteiten, cit., p. 4; STEVENART MEEÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 31 e.v.; VAN HAEGEN-BORGH, op. cit., pp. 361-377, no. 20-46; VAN ORSHOVEN, De uitdrukkelijke motivering van (fiscale) bestuurshandelingen, cit., p. 508; X., Moet weigering betalingsfaciliteiten, cit., p. 5.

64 Art. 410, par. 3, ITC92. 65 Art. 413 ITC92. 66 Art. 413 bis ss. ITC92 and art. 413 quinquies ITC92. See also infra, no. 30. 67 Art. 417 ITC92; Liège 27 January 2010, FJF, no. 2011/171, ComIT 417/25; STE-

VENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 38 ss. 68 Art. 418-419 ITC92; Trib. Ghent, 20 June 2002, Algemeen Fiscaal Tijdschrift, 2002,

331; Request for explanation no. 5-902 (Winckel) dated 8 June 2011, Vr. en Antw. Senaat, 5-77COM.

69 Art. 420 ITC92. 70 Art. 425 ITC92. 71 Art. 166 RD/ITC92. In the circular, is erroneously mentioned that art. 166 RD/

ITC92 determines that the appropriation of this money can happen “without formalities”. This regulation included in a RD is however not of a nature to be able to depart from the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts: Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the ex-plicit motivation of administrative acts in the collection sphere, Bulletin der Belastingen, 1992, p. 1144.

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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2.3.2. Indirect taxes The indirect taxes cover, among other things, the VAT, the registration

and inheritance taxes, and the customs and excise duties. Furthermore, there are indirect taxes at the regional level, such as the vacancy charge in the Flan-ders. As far as the indirect taxes are concerned, the individual unilateral ad-ministrative legal acts, which entail legal consequences, have to be motivated as prescribed by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts or by a specific rule.

Beside, among other things, the regional director’s decision of refusal to grant the exoneration of late payment interests

72 and his decision whether or not to grant the remission of late payment interests

73, other examples of decisions of the tax administration, which should be motivated formally, strike the eye.

2.3.2.1. Distress warrant In the course of the last ten years, a lot of ink has been spilled on the mo-

tivation of a distress warrant in the indirect taxes. The discussion was very lively with regard to the scope of the obligation of motivation. We discuss this in greater detail in section 2

74. Similar jurisprudence can be found on VAT, registration and inheritance

taxes, and customs and excise duties. A distress warrant with regard to indirect taxes is the first act of prosecu-

tion for the collection of the tax, the interests, the fines, and accessories 75. It

closes the informal administrative procedure 76. But the distress warrant is

also the first act of establishment of the tax debt 77. For the Court of Cassa-

tion, the motivation of the distress warrant – which entails legal consequen-ces through the establishment of the tax debt – is one of the validity re-quirements

78. The doctrine and the jurisprudence generally agree that a dis-

72 Art. 84 bis C.VAT; Antwerp 29 November 2005; ComIT no. 84 bis/36. 73 Art. 141 bis C.Inh. 74 Infra, no. 28. 75 Art. 85 C.VAT, art. 47 C.Inh. On the notion of distress warrant and its double func-

tion (establishment of the tax and act which counts as an executable title in view of the col-lection of these taxes): see DELANOTE, op. cit., no. 298-301, pp. 282-286.

76 X., Verzet tegen dwangbevel: dagvaarding of verzoekschrift?, in Fiscoloog, 2001, p. 3, no. 786. 77 Ghent 15 March 1999, FJF, no. 99/146. 78 Cass., 17 September 1998, FJF, no. 2001/28.

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109

tress warrant falls within the scope of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

79.

2.3.2.2. Notification upon a request for control estimate According to the Court of Cassation, the request for control estimate

with regard to registration duties 80 brings about legal consequences (the

purpose is to establish the tax). As a consequence, the notification repre-sents a legal act that has to be motivated within the meaning of Law on the Motivation of Administrative Acts

81. The Court of Appeal of Liège adds however that it is not in the best in-

terest of the taxpayer to invoke a formal violation of the obligation of moti-

79 Cass., 1° December 2005, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2006, p. 717 with note KIE-KENS; Cass., 17 November 2006, www.cass.be; Cass., 20 March 2008, www.cass.be; Cass., 22 May 2008, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2009, p. 125 with note BRABANTS, Nieuwsbrief Registratierechten, 2008, with note STROBBE; Cass., 10 February 2012, published in FJF, 2012/181; Ghent 4 March 2003, Fiscale Koerier, 2003, p. 397 (on customs and excise du-ties); Brussels 21 April 2005, Fiscale Koerier, 2005, p. 448; Ghent 20 September 2005, no. FJF, 2006/86, TFR, 2006, p. 811 with note DE MEYERE; Ghent 4 October 2005, Jurispru-dence Vandewinckele, G 05/14; Trib. Bruges, 7 November 2005, FJF, 2006/295; Ghent 12 September 2006, Newsletter Inheritance taxes 2006-2007, 7 with note GOOSSENS-VAN LAERE; Trib. Bruges, 4 February 2008, Jurisprudence Vandewinckele, BR1 08/0155; Trib. Ghent, 18 November 2008, Jurisprudence Vandewinckele, G1 08/1305; Trib. Bruges, 8 April 2009, Jurisprudence Vandewinckele, BR1 09/0588; Trib. Bruges, 26 May 2009, www. monkey.be; Antwerp 6 October 2009, Jurisprudence Vandewinckele, A 09/1345; Trib. Ghent, 19 January 2010, Jurisprudence Vandewinckele, G1 10/0118; Trib. Ghent, 26 January 2010, Jurisprudence Vandewinckele, G1 10/0123; CARDOEN, Bezint eer ge begint: over het belang van de afdoende motivering van het dwangbevel, in TEP, 2006/2, p. 120; DE MEYERE, Motivering dwangbevel in indirecte belastingen, note under Ghent 9 January 2002, in Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2002, p. 727; GHYSELEN, Dwangbevel moet uitdrukkelijk worden gemotiveerd, in Nieuwsbrief Registratierechten, 2006-2007, p. 19; VERMEULEN, Het dwangschrift als gevolg van artikel 47 W. Succ. en de uitdrukkelijke motiveringsplicht, in Nieu-wsbrief Successierechten, 2009, p. 1; VANDENBERGH, De motivering van het dwangbevel inzake BTW, note under Trib. Antwerp, 8 June 1999, in Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 1999, p. 970 and p. 973; VAN BRUSTEM, Que reste-t-il de l’obligation de motivation formelle de la contrainte en matière d’impôts indirects après les arrêts de la Cour de cassation des 20 mars et 22 mai 2008?, in Revue générale du contentieux fiscal, 2009/1; p. 5 ss.; BELLENS, De motiveringsve-reiste betreffende het dwangbevel in de BTW, (note under Antwerp 5 December 2006 and Antwerp 19 December 2006), in Rechtspraak Antwerpen, Brussel, Gent, 2007/8, p. 553 ss.; VAN STEENWINCKEL, op. cit., p. 42.

80 Art. 189 ss. C.Reg. See also art. 111 C.Inh. and art. 59 § 2 C.VAT. 81 Cass., 14 December 2001, FJF, no. 2003/25, Trib. Huy, 14 June 2000, FJF, no.

2000/234. VAN HAEGENBORGH, op. cit., pp. 354-355, no. 12.

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110

vation of the individual legal act, when he has been informed by another way of the motives in the administrative act

82.

2.3.2.3. Consignment The VAT-collector has the possibility, in case the taxpayer appeals against

a judgement that has rejected his claim, to request the latter to give the amounts due totally or partially in consignment

83. The Court of Appeal of Antwerp judged that an administrative act is concerned here as intended by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

84. It will have to be motivated that a case of fraud is concerned, that it constitutes a dilatory appeal, and that the financial situation of the taxpayer makes the consign-ment possible.

On the basis of the specific law article, the collector has to take into ac-count the real data of the case, he has to consider the financial situation of the debtor and inform him about the request for consignment

85.

2.3.2.4. Decision of refusal to grant payment facilities The Court of First Instance of Namur decided that the right of the ad-

ministration – in the person of the minister of Finance – to conclude settle-ment agreements with the taxpayers

86 equally entails the right to conclude with the taxpayers an agreement about payment terms. The decision which rejects a proposal from the taxpayer for the payment of a VAT debt has to be motivated formally. This obligation rests on each administrative act as intended by the Law on the Motivation of Administrative Acts

87.

82 Liège 22 June 2007, FJF, 2009, no. 2009/113. See also VAN BRUSTEM, La motivations formelle de la notification d’expertise de controle ne peut aboutir à imposer au receveur de pro-céder lui-même à l’expertise du bien, in Recueil général de l’enregistrement et du notariat, p. 332, no. 26.115; CULOT, Propos dur la motivation de la notification de l’expertise de controle en matière de droits d’enregistrement et de droits de succession, in Recueil général de l’enregistre-ment et du notariat, p. 189, no. 26.058.

83 Art. 92, par. 1 C.VAT. De wet is een bekrachtiging van de visie van het Grondwet-telijk Hof (Arbitragehof 18 November 1992, no. 73/92). See also art. 314 § 4 AWDA.

84 Antwerp 17 April 2007, FJF, 2007/292; VANDEN BRANDEN, Enkel een solvabele bela-stingplichtige die een dilatoir beroep instelt, kan voorwerp uitmaken van verzoek tot consignatie, in Algemeen Fiscaal Tijdschrift, 2008, p. 24; VAN ORSHOVEN, Consignatie of geen consignatie? That’s the question. Oefeningen in administratief (proces)recht bij BTW-geschillen, in Tijdsch-rift voor Fiscaal Recht, 1994, p. 54, no. 8.

85 BEHAEGHE, op. cit., p. 440. 86 Art. 84, par. 2, C.VAT. 87 Trib. Namur, 10 October 2007, FJF, 2008/236.

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2.3.2.5. Flemish vacancy charge On the basis of the Decree dated 22 December 1995, the administration

establishes the vacancy in a motivated administrative act. The motivation of the decision to include a building/house in the inventory aims at legal con-sequences according to the Court of Cassation, because it is the cause of the material tax

88. Hence, the decision is an administrative act as intended by the Law on the Motivation of Administrative Acts. According to the Court of Appeal of Brussels, the motivation has to make it possible to verify which indications have been applied to the building, whether the correct indica-tions (in accordance with the qualification building or house) have been used and, in the affirmative, to deliver evidence to the contrary thereof

89. The assessment notice for the vacancy charge has to be motivated as well.

On the basis of article 39, § 1, fourth paragraph of the decree dated 22 De-cember 1995, the assessment notice must – under penalty of invalidity – mention the assessment year, the tax base, the amount to be paid, the calcula-tion method, the date of payment, and the formalities that have to be respect-ed. According to the Court of Cassation, the mandatory mention of the calcu-lation method is meant to inform the taxpayer completely and to give him the possibility to defend his rights by disputing the assessment notice concretely and directly

90. We believe that this motivation is at least as stringent as the one on the basis of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts, as a result of which the specific disposition can be considered as the basis.

2.4. Exceptions

In the context of the motivation of fiscal decisions, the exceptions to the formal obligation of motivation can sometimes be applied, in particular the respect of the private life and the oath of secrecy

91. Indeed, tension exists bet-ween the professional confidentiality of the administration

92 and its formal obligation of motivation, as can be demonstrated by the application of “taxa-tion by comparison”

93.

88 Cass., 10 June 2010, FJF, no. 2011/4. 89 Brussels 4 April 2009, FJF, no. 2010/59. 90 Cass., 19 January 2007, www.cass.be. 91 Supra, no. 2. 92 Art. 337 ITC92. 93 Art. 342 ITC92; BRONSELAER, Knelpunten inzake taxatie bij vergelijking, in Algemeen

Fiscaal Tijdschrift, 2006, pp. 11-13, no. 26-27. See also art. 471 ITC92 for the establish-

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In the absence of probative data, the profit or the earnings of a taxpayer can be determined according to the normal profit or earnings of at least three similar taxpayers

94. The identity of the points of comparison does not have to be mentioned, but it has to be motivated on which basis the declared data are replaced by others

95, why the comparison method is applied, why all conditions to that end have been fulfilled, and finally, the description of the profit or earnings of the comparison points and their normal respectively similar character

96. When the taxation procedure fits in an assessment ex of-ficio, it should also be motivated in this way

97.

3. Scope of the formal obligation of motivation

3.1. Bound or discretionary competence

In tax matters, the administration exercises often a purely bound compe-tence. Seeing that the formal obligation of motivation is lighter in case of bound competences

98, it can be sufficient, then, to mention the legal basis and the actual situation, which elicits the application of the tax rule. When exercising a discretionary competence, the formal obligation of motivation will require a more detailed motivation.

3.1.1. Decisions at the request of the taxpayer When the taxpayer uses the possibility offered by the regulations to ob-

tain a certain departure from the normal procedure, the rejection of his re-quest will have to contain the legally acceptable motives why his request cannot be acted upon. E.g., this is the case with the aforementioned deci-sions such as the rejection of the request for the extension of the declaration deadline, for departure from the obligation of keeping books and records, ment of a CI by comparison, as well as the communication ex officio of the sales prices which served as point of comparison for a control valuation with respect to indirect taxes. Ques-tion no. 1058 (Ghesquière) dated 29 April 1994, Vr. en Antw. Kamer G.Z. 1993-1994, pp. 12269-12270.

94 Art. 346, par. 2, ITC92. 95 Art. 346, par. 1, ITC92. 96 Liège 29 April 1998, FJF, no. 98/173. 97 Antwerp 12 April 1999, FJF, no. 99/235. 98 Supra, no. 2.

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Bruno Peeters-Elly Van de Velde

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for the removal of a legal mortgage, and to obtain payment facilities. The same is valid, among other things, for the refusal to extend a preliminary de-cision in tax matters.

In case of the rejection of a request for extension on account of legiti-mate reasons of the deadline to reply to a request for information, a notice of change or an assessment ex officio, it must be motivated why the reasons quoted by the taxpayer are not legitimate. Generally accepted as legitimate reasons are the fact that a longer period is necessary to provide the requested information or certain supporting documents, the serious illness or prolon-ged absence of the taxpayer, or other cases of force majeure

99. In special cases, the tax administration director can postpone the collec-

tion of the taxes, when an objection has been filed. The notion “in special cases” is not further defined and provides a very large marge of appreciation. The appreciation of a “special case” must be motivated in detail and has to take the actual data of the case into account. The notion “special case” may however not be limited to circumstances that influence the collection of the taxes such as a lesser degree of wealth or a lack of prosperity

100. In this respect, the unlimited postponement of the collection of direct

taxes deserves to be mentioned as well, in which case the tax director per-manently renounces to the collection of the taxes established at the taxpayer’s expense in the measure and under the conditions defined by the tax direc-tor, as an extraordinary beneficial treatment

101. According to the phrasing of art. 413 quinquies IRC92, the director passes judgement about the taxpayer’s request by means of a motivated decision, to be delivered within 6 months after receipt of the request. As remarked earlier, this decision falls within the scope of the Law on the Motivation of Administrative Acts

102. Within one month following the notification, the director’s decision can be subjected to an appeal to an ad hoc commission, which passes judgement within three

99 Circ. Nr. Ci.RH.81/439.496 dated 27 July 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with regard to the explicit motivation of administrative acts in the sphere of the assessment of taxes, Bulletin der Belastingen, 1992, pp. 2190-2191; GHYSELS, op. cit., p. 22; PEETERS, op. cit., p. 214.

100 C.of St., N.V. Jacques Maniet S.I.D., no. 28.857, 18 November 1987; Circ. Nr. Ci. R.14/438.580 dated 14 February 1992 on the application of the Law dated 29 July 1991 with respect to the explicit motivation of administrative acts in the collection sphere, Bulle-tin der Belastingen, 1992, pp. 1140-1141; PEETERS, op. cit., p. 220.

101 Art. 413 bis up to 413 octies ITC92. 102 See supra, no. 19.

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months after receipt of the appeal. By virtue of article 413 quinquies, final paragraph ITC92, the latter decision is not open to appeal. It is accepted, however, that the motivations of the director as well as that of the commis-sion can be subjected to a nullification appeal to the department administra-tive jurisprudence of the Council of State. According to some, the control by the Council of State is currently limited to the examination of the obliga-tion of motivation

103. We believe, however, that the disputes about the appli-cation of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts to indi-vidual unilateral fiscal legal acts fall under the competence of the fiscal sec-tion of the Courts of First Instance

104.

3.1.2. Decision at the initiative of the administration In other cases, the administration uses certain possibilities offered by the

law at its own initiative. The administration has to motivate satisfactorily why the conditions for the application of this legal rule are met or why this particular decision is taken.

Consequently, measures can be taken when the rights of the Treasury are endangered, such as declaring as immediately payable the assessed taxes or the registration of a legal mortgage. In each instance, it will be necessary to motivate in concreto why the rights of the Treasury are endangered.

The motivation of a notice of change in the sense of art. 346 ITC92 or an assessment ex officio must provide the taxpayer with sufficient clarity about the figures, the facts and the circumstances upon which the assessment is based. The motivation has to mention three elements in particular, namely the reasons why the procedure is used, the amount of the income and the other information upon which the assessment will rest, as well as the way in which these income and data have been established. A notice of change that only mentions a figure, such as the amount of the benefits that have to be added to the income of the director of a company, does not meet the requi-rements of the formal obligation of motivation, because there is no motiva-tion for the addition of this amount to the taxable basis, nor for the establi-shment of the amount

105. Tax increases and administrative fines are administrative sanctions which

in certain cases can be inflicted. The motivation of the decision should not

103 STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 34. 104 Art. 569, par. 1, 32° Jud. C. See infra, no. 41. 105 Antwerp 13 January 1994, Algemeen Fiscaal Tijdschrift, 1994, p. 4, no. 13.

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only refer to the legal rule according to which an administrative sanction is inflicted, but also mention clearly which is the nature, the gravity, and the class of the violation. A tax increase which is not formally motivated violates the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts and more specifi-cally art. 9 of the Law dated 4 August 1986.

When the regional director decides about the establishment of a business security or demands a personal guarantee from the taxpayer, when the mar-ket value of his properties in Belgium is not sufficient to cover the income taxes expected to be due for one year, the formal obligation of motivation implies among other things that the decision should explicitly mention the amount that the taxpayer will be expected to owe.

3.2. Motivation by reference: satisfactory or not?

As discussed in the generalities, the motivation must be explicit and ade-quate in order to fulfil the requirements of the Law on the Formal Motiva-tion of Administrative Acts This means that the act contains the legal and actual considerations which are at the basis of the decision. As already poin-ted out above

106, the jurisprudence is extensive mainly with respect to the distress warrant in the indirect taxes about the scope of the formal obliga-tion of motivation.

The tax administration must adequately motivate the distress warrant with regard to indirect taxes in fact and in law in the distress warrant. The primary question in the jurisprudence is to which extent the motivation for the distress warrant should be included in the distress warrant itself. Is it suf-ficient that the motivation is included in the minutes that are signified with the distress warrant? Is it possible to include the motivation in minutes that are not signified with the distress warrant? Or even in documents or letters previously communicated or kept at the administration’s disposal?

According to the Court of Cassation, an adequate motivation of the de-cision implies that the decision is sufficiently supported by the motivation and that this motivation is in proportion to the importance of the decision taken and the nature of the competence of the administration

107. A motiva-tion is adequate when it allows to understand the reasons of the decision which concerns the taxpayer. The adequate motivation will depend on the

106 See footnote 81 and the references there. 107 Cass., 22 May 2008, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2009, p. 119 with note BRABANTS.

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circumstances of the case, especially on the previous actual knowledge which the addressee has about the case.

A motivation by reference in a distress warrant is thus possible, even to the administrative file which the taxpayer has consulted before the significa-tion of the distress warrant. The purpose of the formal motivation is attai-ned, so that, in this case, the non-respect of the obligation of formal motiva-tion cannot lead to disregarding of the administrative act

108. It is not in the interest of the taxpayer to invoke a violation of the formal obligation of mo-tivation (there is no detriment of interests). The notification of the taxable fact, the scope and the cause of the fiscal debt are sufficient

109. This jurisprudence has been greeted negatively by most authors

110. They suppose that a detailed description of the means of giving or obtaining evi-dence that the administration has at its disposal is required for a proper ade-quate motivation. Furthermore, the scope of the claim requires a detailed motivation. However, in one case the Court of Cassation considered a very slight motivation for the distress warrant adequate: «As it appeared from an administrative investigation, husband and wife were holders of a KB-Lux account, with a balance amounting to 889, 233, 133.50 BEF on 2 October 1989».

Furthermore, according to the Court of Cassation the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts does not prevent that after the formula-tion of the distress warrant by the administration more new Legal arguments and actual data be produced. These can only serve as a support of what has already been established and mentioned in the distress warrant

111, however.

108 Cass., 17 November 2006, www.cass.be: «In case it appears that the administrator has knowledge of the motives in another manner than through the formal motivation and this information has occcured in circumstances which have not endangered his right to defend himself against this act, the purpose of the formal motivation has be attained, so that, in that case, the non respect of the obligation of formal motivation can not lead to the non application of the admistrative act».

109 Cass., 22 May 2008, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2009, p. 125 with note BRABANTS. 110 CARDOEN, op. cit., p. 120; DE MEYERE, op. cit., p. 727; VAN BRUSTEM, op. cit. Contra:

BRABANTS, De motivering van een dwangbevel inzake successierechten, in Tijdschrift voor Fis-caal Recht, 2009, p. 125 ss.

111 Cass., 10 February 2012, published in FJF, no. 2012/181; Cass., 1° December 2005, Tijdschrift voor Fiscaal Recht, 2006, p. 811 with note DE MEYERE.

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4. Sanction as a result of the violation of the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts

It is held as a general rule that the formal motivation is a substantial formal requirement which, in case of violation, can lead to the nullity of the administrative decision. However, the jurisprudence accepts that the nullity of an unmotivated administrative act does not follow automatically. The Council of State as well as the regular courts and tribunals consider that there can be no question of nullity when the interest of the person concerned are not prejudiced, either because he was informed about the motives of the administration through other sources, or when the lack of motivation concerns superfluous motives

112. In case the taxpayer suspects that the tax administration has ignored the Law dated 29 July 1991 when posing an administrative act, he can oppose to this administrative act. In the present contribution we do not examine the redress which can be ob-tained in case of non-respect of the obligation of motivation any further, the form of which can vary in function of the individual fiscal administra-tive act that is contested

113. The protest against an administrative fiscal decision which is not ade-

quately motivated as intended by the Law on the Formal Motivation of Ad-ministrative Acts must, according to certain jurisprudence, be considered as a dispute with regard to the application of the Law dated 29 July 1991 about the formal motivation of administrative acts

114. In this case, a procedure with the Council of State is appropriate.

According to the Council of State, the legislator’s purpose at the time of the introduction of the new procedure rules of 1999 was to make the Council of State competent for normative legal tax acts only, while all other disputes should be brought under the competence of the judiciary. As a consequence, this particularly exclusive competence of the Court of First Instance with re-spect to disputes about individual fiscal Legal acts excludes the general residual competence of the Council of State

115. As a result, the Council of State refers to the Courts of First Instance

116 for the judgement of all individual legal tax acts.

112 See general part; MAUS, De fiscale controle, Bruges, Die Keure, 2005, p. 776, no. 1394, with reference in footnote 3412 and 3413 to the jurisprudence mentioned.

113 See about same a.o. STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 34, no. 1. 114 MAUS, op. cit., p. 781, no. 1406; STEVENART MEUÙS-VAN BRUSTEM, op. cit., p. 34. 115 C.of St. (De Jaeck), no. 84.317, 84.318 and 84.319 dated 22 December 1999, ref. 2.4. 116 The Court of First Instance is not competent with regard to a dispute on the appli-

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We think that the protest against an administrative fiscal decision which is not adequately motivated as prescribed by the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts, is to be regarded as a dispute on the application of tax law, as referred to in article 569, first paragraph, 32° Jud.C. juncto art. 632 Jud.C.

117. In our view, as soon as a dispute relates to a fiscal disposition, which is an individual unilateral legal tax act, it constitutes a dispute about the appli-cation of tax law. To judge otherwise would mean that the competent judicial authority (the Council of State resp. the Court of First Instance) would be determined on the basis of the invoked legal ground (the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts or the ITC92). It is the legislator’s inten-tion to give the new fiscal procedure rules a large application range, and, as a consequence, to make the fiscal Judge competent whenever the nullification of a disposition of the tax administration is claimed.

5. Conclusion

Before the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts of 1991, no general rule for the tax administration on the basis of which it had to formally motivate its decisions existed in Belgium. The motives in the in-dividual fiscal legal acts had to be mentioned only exceptionally.

Since the legal introduction of the formal obligation of motivation, the number of applications in tax matters has been enormous. The jurisprudence and the doctrine even confirm the importance of the formal motivation of in-dividual fiscal legal acts on a daily basis. It can be stated that the Law on the Formal Motivation of Administrative Acts contributes to a more careful de-cision making process by the Belgian tax administration. The well-informed taxpayer can only benefit from it.

cation of a tax law, only in case the law refers explicitly to the judicial power of the Council of State (art. 8 Law 11 April 1994 on the public character of the administration, which es-tablished that against a refusal of perusal in a case, an appeal has to been introduted with the Council of State). See also C.of St. (SA Semalu) no. 126.678, 19 December 2003.

117 VAN DE VELDE, De ‘geschillen betreffende de toepassing van een belastingwet’ in de zin van artikel 569, eerste lid, 32° Ger.W. Een analyse van achtergrond en betekenis, in Algemeen Fiscaal Tijdschrift, 2005, p. 26, no. 46 ss.

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Federico Rasi

LA “TRASPARENZA PER PRESUNZIONE” DELLE SOCIETÀ A RISTRETTA BASE PROPRIETARIA:

L’ATTENDIBILITÀ DELLA PRESUNZIONE ED IL PROBLEMA DELLA QUALIFICAZIONE DEL REDDITO

THE “TRANSPARENCY FOR PRESUMPTION” OF NARROW BASE OWNERSHIP COMPANIES:

THE RELIABILITY OF THE PRESUMPTION AND THE PROBLEM OF THE QUALIFICATION OF INCOME

Abstract Un consolidato orientamento giurisprudenziale imputa per trasparenza ai soci delle società di capitali a ristretta base proprietaria (ovverosia quelle società composte da un numero ridotto di partecipanti tipicamente, ma non necessa-riamente, legati tra loro da vincoli di tipo familiare) eventuali maggiori redditi ac-certati in capo alla società stessa. In questo modo l’Agenzia delle Entrate, muo-vendo da una “presunzione di distribuzione” di utili non contabilizzati e accertati in capo alla società (ma non rinvenuti nei suoi conti) applica in via presuntiva lo schema della trasparenza. Questa prassi pone una serie di problemi di ordine so-stanziale e di ordine processuale. Ad avviso di chi scrive il metodo applicato dall’Agenzia delle Entrate solleva non poche criticità. Anziché applicare per presunzione la trasparenza sarebbe meglio tornare ad applicare una presunzione di distribuzione dei maggiori redditi accertati in capo alla società da tassare presso di questa. Processualmente ne deriverebbe la possibilità di ricorrere all’istituto della sospensione di cui all’art. 295 c.p.c. Parole chiave: trasparenza, società a ristretta base proprietaria, dividendi, liti-sconsorzio, sospensione According to a well-established case law the higher income assessed against a compa-ny with restricted stock (i.e. companies with a low number of participants usually, but not necessarily, linked by family connections) shall be attributed to the shareholders.

5.

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In this manner the Italian Tax Authorities, by relying on a “presumption of distribu-tion” of profits not recorded in the accounting books and assessed at the company level (but not found in its accounts), applies presumptively the look-through approach. This method raises several substantive and procedural issues. The author is very critical towards such assessment method applied by the Italian Tax Authorities. Instead of applying the transparency for presumption, it is preferable going back to apply a presumption of distribution of higher profits assessed against the company and taxable in the hands of the latter. From a procedural perspective, this scenario would allow the taxpayer to benefit from the suspension regime accord-ing to Art. 295 of the civil procedure code. Keywords: transparency, company with restricted stock, dividends, joinder of parties, suspension

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. La “trasparenza per presunzione”. – 2.1. Critiche alle posi-zioni della Cassazione. – 2.2. Imputazione per trasparenza dei maggiori utili extrabilancio o loro distribuzione? – 3. Il litisconsorzio necessario nell’accertamento del reddito delle società trasparenti. – 3.1. La sospensione necessaria. – 3.2. Litisconsorzio necessario o sospensione necessaria? – 4. Considerazioni conclusive: dalla “trasparenza per presunzione” alla “presun-zione di distribuzione”.

1. Considerazioni introduttive

Sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale 1, con l’espres-

sione “trasparenza per presunzione” si suole designare l’applicazione del-

1 Cass., sez. un., 24 ottobre 1985, n. 5250; Cass., sez. trib., 26 novembre 1994, n. 10059; Cass., sez. trib., 12 giugno 2002, n. 8351; Cass., sez. trib., 30 luglio 2002, n. 11239; Cass., sez. trib., 3 ottobre 2002, n. 4695; Cass., sez. trib., 1° febbraio 2002, n. 7174; Cass., sez. trib., 3 maggio 2002, n. 10951; Cass., sez. trib., 8 luglio 2008, n. 18640 (che si segnala in quanto pre-cisa che è del tutto irrilevante la circostanza che la società sia in perdita; somme non transita-te attraverso la contabilità possono comunque essere state attribuite ai soci); Cass., sez. trib., 11 novembre 2003, n. 16885; Cass., sez. trib., 29 gennaio 2008. n. 1906; Cass., sez. trib., 24 luglio 2009, n. 17358; Cass., sez. trib., 19 febbraio 2010, n. 4016; Cass., sez. trib., 23 luglio 2010, n. 17387; Cass., sez. trib., 23 luglio 2010, n. 17387; Cass., sez. trib., ord. 13 settembre 2010, n. 19493; Cass., sez. trib., 6 ottobre 2010, n. 20721; Cass., sez. trib., 8 ottobre 2010, n. 20862; Cass., sez. trib., 1° ottobre 2010, n. 20529; Cass., sez. trib., 6 ottobre 2010, n. 20722; Cass., sez. trib., 8 ottobre 2010, n. 20870; Cass., sez. trib., ord. 10 maggio 2011, n. 10270; Cass., sez. trib., 25 novembre 2011, n. 24938; Cass., sez. trib., 29 dicembre 2011, n. 29605; Cass., sez. trib., 10 gennaio 2013, n. 441.

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Federico Rasi

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l’istituto della c.d. “trasparenza fiscale” ai soci delle società di capitali a ri-stretta base proprietaria (composte da un numero ridotto di partecipanti tipicamente, ma non necessariamente, legati tra loro da vincoli di tipo fami-liare) per la quota del maggior reddito accertato in capo alla società

2. Di norma accade che l’Amministrazione Finanziaria accerti nei confronti

di una società a responsabilità limitata, partecipata da un ristretto numero di soci, un maggior reddito il cui controvalore monetario, però, non viene rin-venuto presso la società stessa. L’Amministrazione Finanziaria presume al-lora che tale maggior reddito, pur in assenza di una formale delibera in tale senso, sia stato distribuito ai suddetti soci, in capo ai quali provvede a tassar-lo integralmente per trasparenza. Operativamente essa notifica un avviso di accertamento in capo alla società con il quale determina il maggior imponi-bile. Tale maggior imponibile è, poi, imputato pro quota ai singoli soci me-diante la notifica agli stessi di un avviso di accertamento; in tale avviso ai soci viene riferito un maggior reddito qualificato quale reddito di partecipazione (nonostante essi siano soci di società di capitali non trasparenti) e viene li-quidata la maggior imposta da essi dovuta

3.

2 Su tale giurisprudenza, in dottrina si rinvia a SALVINI, La tassazione per trasparenza, in Rass. trib., 2003, p. 1505; TINELLI-PARISI, (voce) Società nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., XIV, Torino, 1997, p. 323, FALSITTA, Accertamento di utili extrabilancio a carico di società familiari e loro tassazione in complementare nei confronti dei soci, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1962, p. 185; ADONNINO, Sulla tassabilità in complementare in testa all’azionista del maggior reddito di R.M. di società accertato extra-bilancio, in Rass. trib., 1958, p. 118; FI-CARI, Presunzione di assegnazione di utili extrabilancio ai soci e imputazione di costi fittizi, in Corr. trib., 2008, p. 1054; MULEO, Alcune perplessità in ordine a recenti orientamenti in tema di imputazione ai soci dei maggiori utili accertati in capo a società a ristretta base sociale, in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 712; CICOGNANI, Reddito di R.M. accertato induttivamente a ca-rico di società di capitali e imposta complementare, in Dir. prat. trib., 1959, p. 6; UCKMAR, Il regime impositivo delle società: la società a ristretta base proprietaria, Padova, 1966, p. 223; MARELLO, Note minime in tema di accertamento effettuato nei confronti di una società di per-sone in base ad indagini bancarie a carico dei soci (nota a Cass. sez. tribut. 3 ottobre 2000, n. 13090), in Rass. trib., 2001, p. 884; CERIANA, Società a ristretta base azionaria e presunzione di distribuzione degli utili (nota a Cass. sez. tribut. 11 novembre 2003, n. 16885), in Dir. prat. trib., 2004, p. 1451; BOLETTO, Definizione per condono del maggior reddito sociale e presun-zione di distribuzione occulta di utili (nota a Cass. sez. tribut. 30 luglio 2002, n. 11239), in Rass. trib, 2002, p. 2096.

3 Si registra quale tratto costante dell’operatività dell’Amministrazione Finanziaria la circostanza che essa ascriva ai soci un reddito qualificato quale reddito di partecipazione ed è sull’erroneità di tale qualificazione che si appuntano le presenti note. Si segnala che non vi è, invece, prassi uniforme dell’Agenzia delle Entrate circa il fatto di imputare ai soci l’intero maggior reddito accertato in capo alla società al lordo delle imposte che sarebbero

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In questo modo l’Agenzia delle Entrate, muovendo da una “presunzione di distribuzione” di utili non contabilizzati e accertati in capo alla società (ma non rinvenuti nei suoi conti), applica in via presuntiva lo schema della trasparenza (c.d. “trasparenza per presunzione”).

In sede contenziosa, dal fatto che sia la società, sia i soci (così come di regola avviene nelle società di persone) sono destinatari di autonomi avvisi di accertamento deriva che ciascuno impugnerà i rispettivi avvisi di accerta-mento, instaurando separati procedimenti che potrebbero eventualmente avere esiti tra loro differenti.

La legittimità di questo modus operandi risulta costantemente riconosciu-ta dalla Corte di Cassazione

4; tuttavia, esso non va esente da critiche e lascia aperte alcune questioni non solo sotto il profilo sostanziale, ma anche sotto quello procedurale.

Da quest’ultimo punto di vista si sta profilando nella giurisprudenza della Cassazione un contrasto. Per alcune sentenze

5, lo strumento più opportuno per evitare un possibile contrasto di giudicati è la sospensione processuale, ex art. 295 c.p.c., del procedimento avente ad oggetto il maggior reddito dei soci, in attesa della definizione del procedimento avente ad oggetto il mag-gior reddito della società; per altre sentenze

6, invece, ricorre in questa ipo-tesi un caso di litisconsorzio necessario

7.

da questa dovute (e che, invece, non sono liquidate) o il maggior reddito accertato in capo alla società al netto delle imposte da questa dovute (e che sono effettivamente a questa richie-ste). In ambedue le ipotesi resta fermo che il maggior reddito viene tassato in capo ai soci per trasparenza e, quindi, facendolo, concorrere alla determinazione del reddito complessivo.

4 Si precisa che gran parte di tale giurisprudenza si è formata nella vigenza dell’imposta complementare sui soci di società. In proposito: BERLIRI, La tassazione in complementare dei soci delle c.d. società familiari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 685; COCIVERA, Brevi consi-derazioni sull’acquisizione ad imposta complementare di redditi percepiti a titolo di partecipa-zione in società a tipo familiare o di comodo prima della chiusura dell’esercizio sociale, in Dir. prat. trib., 1963, p. 354; FADDA, Imposta complementare e reddito di società familiare, in Foro it., 1960, p. 119; FALSITTA, op. ult. cit., p. 185; LOVISOLO, Limiti alla presunzione di distribu-zione di utili nelle società a ristretta base azionaria, in Dir. prat. trib., 1971, p. 550; MARON-GIU, Presunzione di integrale distribuzione del reddito delle società di persone e prova contraria, in Boll. trib., 1965, p. 34; MICHELI, Imposta complementare sui dividendi e società familiari, in Riv. dir. comm., 1965, p. 22.

5 V. Cass., sez. trib., 31 gennaio 2011, n. 2214; Cass., sez. trib., ord. 8 febbraio 2012, n. 1867.

6 Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4688. 7 Sembra iniziare a farsi strada una terza (criticabile) opzione che si rinviene in Cass.,

sez. trib., 10 gennaio 2013, n. 441. Qui i giudici di legittimità hanno escluso che ricorra

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Federico Rasi

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Per impostare correttamente la questione si devono, quindi, analizzare nell’ordine le due questioni giuridiche sottese al caso in esame:

1. la legittimità della qualificazione del maggior reddito imputato ai soci quale reddito di partecipazione. Si tratta di un principio che, benché conso-lidato nella giurisprudenza della Cassazione, non risulta fondato sistemati-camente ed è in contrasto, come si avrà modo di chiarire, con la più recente evoluzione dell’ordinamento nazionale;

2. l’individuazione dello strumento processuale più idoneo a risolvere il rischio di contrasto di giudicati: in questa analisi si dovrà tenere conto di quella giurisprudenza della Cassazione (inaugurata dalla sentenza a sez. un. 4 giugno 2008, n. 14815) secondo cui nella “trasparenza per legge” delle so-cietà di persone si configura un rapporto tributario sostanzialmente unico, ma con una pluralità di soggetti passivi, che trova la sua corretta collocazione processuale nell’ambito dell’istituto del litisconsorzio necessario originario.

2. La “trasparenza per presunzione”

Si è detto che la Cassazione è assolutamente ferma nel ribadire il proprio consolidato orientamento secondo cui nelle società di capitali caratterizzate da una ristretta base proprietaria è legittimo imputare ai soci gli eventuali maggiori redditi accertati nonché tassarli presso gli stessi per trasparenza.

Come noto, in questo modo gli Uffici cercano di contrastare il fenomeno della distribuzione di utili c.d. “occulti”, ovverosia di utili reali che non sono evidenziati in bilancio e sono, invece, attribuiti ai soci in difetto di una for-male delibera

8. Si tratta di casi in cui sussiste la prova di maggiori utili pro-dotti da una società, ma tali utili non si rinvengono presso la stessa, né si

un’ipotesi di litisconsorzio necessario, senza poi proporre alcuna soluzione per evitare il po-tenziale contrasto di giudicati tra l’accertamento in capo alla società e quello in capo al socio (nel caso di specie vi era un unico socio). Per la Cassazione, addirittura, «il provvedimento di accertamento e rettifica del reddito sociale di una società di capitali va notificato solo alla società e non anche ai soci, i quali, in quanto tali, sono privi di legittimazione processuale nel distinto giudizio relativo alla determinazione del reddito sociale; correttamente, pertanto, nella fattispecie in esame, l’avviso di accertamento del reddito della … srl è stato notificato solo al l.r. pro tempore della detta società (e, precisamente, al curatore fallimentare della stes-sa) e non anche al socio, sicché quest’ultimo nulla può eccepire al riguardo».

8 FALSITTA, (voce) Utili e dividendi (imposizione su), in Enc. giur. Treccani, XXXVII, 1993, p. 1.

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trova traccia di una loro formale distribuzione ai soci. In questa ipotesi si ve-rificherebbe un’evasione fiscale: tali utili non sarebbero tassati né in capo alla società, né in capo ai soci. Per ovviare a queste conseguenze, gli Uffici emettono, trovando come anticipato l’avallo della Cassazione, un accerta-mento recante un maggior reddito di partecipazione in capo ai soci. In altri termini operano come se la rettifica del reddito imponibile riguardasse una società di persone, non tenendo in considerazione il fatto che la società og-getto di accertamento sia una società di capitali. Per l’Amministrazione Fi-nanziaria, come nelle società di persone ove, in forza dell’art. 5 TUIR, i soci non devono attendere una formale delibera di distribuzione dell’utile per possederlo fiscalmente, altrettanto accade nelle società di capitali a ristretta base proprietaria ove l’assunzione di tale delibera può essere presunta. Ciò consente agli Uffici di ribaltare tale maggior reddito in capo ai soci

9, senza dimostrare un passaggio di utili dalla società ai soci. Le prove offerte dal-l’Amministrazione Finanziaria si limitano alla prova del maggior reddito e della sua assenza presso i conti della società

10. Viene in queste ipotesi superata l’operatività dell’art. 2433 c.c. sulla base

del fatto che, in presenza di compagini societarie ristrette, i soci possono apprendere gli utili prodotti dalla società cui partecipano al di fuori dei tra-dizionali meccanismi civilistici (proprio come accade nelle società di perso-ne), con l’effetto che, per procedere alla tassazione di tali utili, non occorre verificare l’esistenza di una formale delibera di distribuzione, ma è sufficien-te che la prova della distribuzione di utili sia raggiunta in via presuntiva. Il meccanismo di tassazione per trasparenza viene così applicato anche al di fuori dei casi in cui è previsto dal legislatore.

Condizione imprescindibile per la validità di tale ragionamento è la cir-costanza che le società coinvolte siano a ristretta base proprietaria. Si inten-

9 La Cassazione ha, in particolare, confermato questa impostazione con la sent. 11 ot-tobre 2007, n. 21415. Rispetto ad altri precedenti giurisprudenziali la sent. n. 21415/2007 si segnala per il fatto che la Cassazione giunge a più compiuta maturazione del proprio iter logico (v. BENAZZI, La ristrettezza della base sociale legittima l’accertamento basato su criteri presuntivi (nota a Cass., sez. trib., sent. 11 ottobre 2007, n. 21415), in Corr. trib., 2008, p. 212). La nozione di “complicità” tra i soci viene approfondita e intesa quale necessità di proce-dere alla verifica delle dinamiche che regolano l’attività sociale. Ove la ristrettezza della base sociale permetta la partecipazione collettiva dei soci alla gestione sociale, allora si può legittimamente presumere la distribuzione tra i soci degli utili extracontabili.

10 Talora gli Uffici riescono addirittura a dimostrare di aver rinvenuto maggiori som-me di denaro nei conti di soci della società. V. ex multis Cass., sez. trib., 13 ottobre 2011, n. 14785.

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dono tali quelle compagini sociali composte da un numero ridotto di soci, tra loro generalmente legati da vincoli personali e familiari, nelle quali sussi-sterebbe una situazione di “complicità” che consentirebbe di superare la man-canza di una formale deliberazione di distribuzione degli utili. Questa situa-zione di fatto rende la presunzione di distribuzione grave, precisa e concor-dante poiché, in questi casi, diviene ragionevole ipotizzare la sussistenza di un accordo occulto per la ripartizione dei maggiori utili prodotti. La partico-lare composizione della società è tale da provare, in mancanza di elementi contrari offerti dal contribuente, l’avvenuta percezione degli utili extrabilan-cio da parte dei soci

11. In sintesi, la presunzione di “complicità” che avvince i soci di società di

capitali a ristretta base proprietaria 12, consente di presumere il trasferimen-

to ai soci degli utili non evidenziati nei bilanci della società e di tassare que-sti ultimi per trasparenza, qualificando i maggiori redditi derivanti dalla par-tecipazione in società di capitali quali redditi di partecipazione. Viene così individuato un caso in cui la trasparenza trova applicazione “per presunzio-ne” giurisprudenziale.

Ne deriva, poi, che sono i soci 13 coloro sui quali incombe l’onere di pro-

vare che, nonostante le contrarie risultanze dei bilanci, si è avuta la perma-nenza, nel patrimonio della società di capitali, di utili da essa non evidenzia-ti, anziché il passaggio degli stessi nei rispettivi patrimoni personali

14.

11 Ex multis, Cass., sez. trib., 17 febbraio 1986, n. 941, relativa all’imposta sulla ricchez-za mobile; Cass., sez. trib., 20 giugno 1994, n. 10059; Cass., sez. trib., 17 ottobre 2005, n. 20078, con nota di BATISTONI FERRARA, Presunzione di distribuzione ai soci del maggior red-dito accertato nei confronti di una società familiare a ristretta base azionaria: una pronuncia non convincente, in Riv. dir. trib., 2005, p. 726; MUFFATO, La presunzione di distribuzione di utili occulti nel caso di rettifiche a società di capitali a base ristretta o familiare, in Riv. dir. trib., 1999, p. 342; PICCARDO, Ancora in tema di presunzione di distribuzione ai soci di maggiori utili accertati a carico di una società di capitali a ristretta base azionaria, in Dir. prat. trib., 1998, p. 26; PINO, L’accertamento societario legittima la presunzione di distribuzione ai soci?, in Giur. trib., 1994, p. 1207.

12 V. Cass., sez. trib., 2 giugno 1995, n. 6225; Cass., sez. trib., 25 maggio 1995, n. 5729. 13 Non, invece, l’Amministrazione Finanziaria, per la quale è sufficiente dimostrare la

ristrettezza della base proprietaria della società accertata. 14 Cass., sez. trib., 3 marzo 2000, n. 2390; Cass., sez. trib., 20 marzo 2000, n. 3254.

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2.1. Critiche alle posizioni della Cassazione

Questa giurisprudenza solleva non poche perplessità che attengono i pre-supposti soggettivi ed oggettivi del ragionamento della Cassazione.

Dal punto di vista soggettivo, ovverosia muovendo dall’analisi dei sog-getti coinvolti, tali criticità riguardano il fondamento stesso della presunzio-ne in esame in quanto non può ritenersi sussistere una corrispondenza biu-nivoca tra il ristretto numero dei soci e la possibilità di superare la soggetti-vità di una società di capitali.

Tale verifica deve, invece, essere svolta caso per caso e con particolare cau-tela; infatti, fondare un avviso di accertamento sulla circostanza che una so-cietà sia formata da una ristretta base azionaria a carattere familiare equivale a disconoscere la stessa esistenza giuridica della società di capitali

15. Per im-putare un maggior reddito ai soci di società di capitali non è sufficiente la mera constatazione che trattasi di società a ristretta base proprietaria costi-tuita da componenti di uno stesso nucleo familiare. Sono, al contrario, ne-cessari ulteriori ed attendibili elementi di prova, in mancanza dei quali l’af-fermazione che i maggiori utili accertati a carico della società sono stati ri-partiti fra i soci non può essere considerata se non alla stregua di una mera illazione

16 priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Il semplice riferimento alla particolare composizione della compagine

societaria non è null’altro che una supposizione, una congettura, qualora non concorrano altri elementi in grado di radicarne la gravità, precisione e con-cordanza

17. Anche nelle società a ristretta base familiare o azionaria può man-care, con eguale grado di probabilità, quella “complicità” aprioristicamente attribuita dalla Cassazione. La pretesa complicità della compagine sociale de-ve pertanto essere dimostrata in concreto e caso per caso; la Cassazione, in-vece, non richiede tale prova.

Inoltre, l’asserita comunione di intenti e di azioni fra i soci delle società a ristretta base proprietaria o familiare può anche non verificarsi nel caso con-creto, essendo ben frequente l’inverso: spesso in queste società i soci si tro-

15 Così CTP Bari, dec. 16 febbraio 1994, n. 6354, che si oppone a tale giurisprudenza. 16 CTC, dec. 11 giugno 1990, n. 7027. 17 DELLA VALLE, Presunzione di riparto di utili occulti nelle società a ristretta base aziona-

ria, in Le Società, 1991, p. 826; ROSSI, Società a ristretta base azionaria e presunzione di di-stribuzione di utili ai soci, in relazione al problema dell’elusione fiscale, in Dir. prat. trib., 1991, p. 546; MARINO, Le società di capitali a base azionaria ristretta o familiare e la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori ricavi accertati (Nota a Comm. Prov. Reggio Emilia sez. VII 1 dicembre 1997, n. 284), in Boll trib., 1998, p. 623.

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vano divisi da rivalità finalizzate al controllo dell’impresa. Ancora, per non ritenere la presunzione su cui si fonda la Cassazione assistita dai requisiti di gravità, precisione e concordanza è poi sufficiente ipotizzare che degli utili in questione si siano appropriati i soli amministratori o financo soggetti estra-nei alla compagine sociale. In definitiva, la particolare composizione della compagine sociale non è un elemento da solo sufficiente per giustificare la ricostruzione proposta dalla Cassazione. Piuttosto, il fatto ignoto costituito dalla percezione di utili da parte dei soci deve, invece, dedursi in modo uni-voco da fatti noti attraverso un procedimento logico basato sul criterio del-l’id quod plerumque accidit. Se il fatto noto può giustificare, in base alle rego-le della comune esperienza, l’alternativa inferenza di più fatti ignoti (come ad esempio, sia la distribuzione degli utili occultati ai soci, sia la formazione di riserve occulte), nessuno di questi può essere presunto a preferenza degli altri, poiché ciascuno di essi è ugualmente accettabile o ugualmente contesta-bile

18. Poiché, partendo dalle medesima situazione di fatto, è possibile ipotizza-

re, con uguale grado di probabilità, un’ampia serie di diverse conclusioni, si deve concludere che la presunzione in esame non può ritenersi grave, preci-sa e concordante e non può fondare un accertamento dell’Amministrazione Finanziaria

19.

18 In tema di presunzioni v. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 49.

19 Si esprime così la giurisprudenza di merito. In particolare v. CTR Puglia, 27 dicembre 2006, n. 116, secondo cui l’esistenza di una ristretta base azionaria costituisce elemento «in-vero troppo generico e scarsamente garantista per poter essere esteso a qualunque caso, in quanto ogni realtà può avere una specificità tale da rendere applicabile o meno la presunzio-ne legale di distribuzione di utili occulti ai soci». Di recente v. CTR Puglia, 17 aprile 2012, n. 19/5/12 la quale procede ad una serrata e puntuale critica degli argomenti utilizzati dalla Cassazione. Per la CTR Puglia, «qualora sia accertata a carico di una società di capitali, l’esi-stenza di utili occulti, non si può automaticamente desumere la riscossione degli stessi ad opera dei soci, essendo ipotizzabili con ugual grado di probabilità, conclusioni diverse come, ad esempio, la creazione di riserve occulte da destinare agli usi più diversi, l’appropriazione indebita degli utili da parte di amministratori o/e soci disonesti, all’insaputa degli altri soci, o la loro destinazione alla creazione di fondi occulti per il pagamento di poste passive non con-tabilizzate, ecc. L’argomento della ristrettezza della base societaria, quale esclusivo fatto noto, non riveste, quindi, di per sé alcuna valenza probatoria perché non sempre può assurgere a spia dell’avvenuta distribuzione reale a tutti i soci, in proporzione alle loro quote di parteci-pazione, dei maggiori utili non contabilizzati, accertati a carico di società di capitali. Come pure, il vincolo familiare fra i soci della società di capitali, giammai potrebbe istituzionalizzare la esistenza della complicità fra di loro, sulla cui base ritenere, poi, non illogica la presunzione di distribuzione degli utili occulti ai soci».

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La giurisprudenza in tema di società a ristretta base proprietaria risulta criticabile anche nel momento in cui si procede ad analizzarne i presupposti oggettivi, ovverosia la misura del reddito oggetto di imputazione.

La Cassazione presume che oggetto di ripartizione sia stato un ammon-tare perfettamente uguale agli utili extrabilancio. In base alle regole di co-mune esperienza, invece, non sarebbe irragionevole ipotizzare che gli utili oc-culti siano stati ripartiti in percentuali almeno in parte diverse da quelle atti-nenti alla semplice ripartizione del capitale sociale, al fine di tenere conto di altri fattori ugualmente rilevanti, quali l’apporto dato dai singoli soci nella realizzazione e nella gestione degli utili in questione, i vincoli, le responsabi-lità e/o le gerarchie familiari od aziendali esistenti all’interno del gruppo

20 o, ancora, che solo taluni soci ne abbiano beneficiato. Gli utili non contabiliz-zati dalla società potrebbero, insomma, non essere percepiti dai soci in per-fetta proporzione alle rispettive quote di partecipazione. Occorre a tal fine il conforto di ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti idonei a fondare la presunzione in parola; una simile circostanza non rappresenta la sola conse-guenza logica del fatto noto secondo criteri di “normalità”, ben potendosi ipotizzare, con uguale grado di probabilità, anche altri scenari.

Può, infine, essere mossa un’ultima critica 21, ancora di tipo oggettivo, ad-

20 CTC, dec. 12 giugno 1995, n. 2403. 21 Se ne può poi muovere una ulteriore per il fatto che la Cassazione incorre in un erro-

re di tipo procedurale. Essa, infatti, in maniera assolutamente non condivisibile, ritiene che il difetto di prove addotte dai soci stessi in senso contrario alla presunzione invocata dal-l’Ufficio finanziario costituisca di per sé un elemento grave, preciso e concordante da solo idoneo a fondare detta presunzione di distribuzione. In altri termini per la Cassazione, la legittimità del ragionamento dell’Ufficio può desumersi dal fatto che, nel caso concreto, i soci stessi non siano stati in grado di provare una diversa ricostruzione dei rapporti tra loro. L’inadeguatezza della controprova offerta dai soci, come correttamente ritenuto da parte della giurisprudenza di merito (così CTC, dec. 12 giugno 1995, n. 2403; CTR Milano, 18 settembre 1995, n. 477/17 con nota di VOGLINO, Appunti critici sulla presunzione di distri-buzione ai soci dei maggiori utili accertati a carico delle società a ristretta base familiare o azio-naria (Nota a Cass. sez. I civ. 25 maggio 1995, n. 5729; Cass. sez. I civ. 2 giugno 1995, n. 6225; Comm. Trib. Centr. sez. XIII 12 giugno 1995, n. 2403; Comm. II grado Milano sez. XVII 18 settembre 1995, n. 477/17), in Boll. trib., 1996, p. 476) è una circostanza non su-scettibile di fondare o comunque avvalorare una presunzione quale quella utilizzata dalla Cassazione. Quella della Cassazione è, invece, una conclusione assurda: una presunzione usata dall’Amministrazione Finanziaria non può divenire legittima per effetto del mancato assolvimento della prova contraria da parte del contribuente. Il semplice fatto che il con-tribuente non abbia fornito prove contrarie a quelle che, in difetto di una pluralità di ele-menti gravi, precisi e concordanti, non sono altro che mere illazioni, non significa nulla e non può comunque concorrere a costituire il fondamento di quella presunzione invocata

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dirittura logicamente antecedente alla precedente, che riguarda lo stesso reddito oggetto di imputazione e la sua quantificazione. La giurisprudenza, con una certa frequenza, legittima l’applicazione della trasparenza per presun-zione in casi nei quali è già il preteso “fatto noto” di partenza ad essere sprov-visto dell’indispensabile requisito della certezza. Accade spesso che l’esistenza stessa dei maggiori utili societari non contabilizzati sia provata ricorrendo a metodi presuntivi o che tali utili derivino da fattispecie inidonee a concreta-re utili realmente distribuibili ai soci. La Cassazione pretende, infatti, di ri-tenere che ogni tipo di utile extrabilancio possa essere oggetto di distribu-zione. Invece potrebbe dimostrarsi che i maggiori utili siano stati destinati alla creazione di fondi da utilizzare per il pagamento di poste passive non con-tabilizzabili, o che essi si trovino ancora nelle casse sociali pur non risultan-do in bilancio.

Questa critica differisce dalle precedenti in quanto si pone ora un pro-blema di determinazione dello stesso reddito distribuibile, mentre nelle ipo-tesi precedenti, dato il reddito distribuibile, si pone un problema di corretta individuazione dei soggetti cui distribuirlo ed in che misura.

Non tutti gli aumenti di imponibile di una società, pur se provati, posso-no, infatti, effettivamente determinare un maggior utile da distribuire ai so-ci

22. L’accertamento di un maggior reddito in capo alla società può derivare da una eterogenea serie di motivi

23:

a) da rettifiche, quali quelle derivanti dal riscontro di ricavi non contabi-lizzati (o contabilizzati in misura inferiore al reale) o di costi fittizi, corri-spondenti ad operazioni finalizzate a creare disponibilità monetarie presso la società;

b) da rettifiche aventi mera natura fiscale quali il disconoscimento di co-

dall’Ufficio finanziario che è logicamente antecedente e che deve basarsi su elementi com-pletamente autonomi (v. anche VOGLINO, Brevi notazioni a margine di un condivisibile orien-tamento giurisprudenziale in tema di presunzione di distribuzione di utili occulti ai soci delle società a ristretta base azionaria o famigliare, (nota a Comm. I grado Bari, sent. 16 febbraio 1994, n. 6354), in Boll. trib., 1994, p. 808).

22 STEVANATO, La presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito societario (nota a Cass., sez. trib., 29 dicembre 2003, n. 19803), in Corr. trib., 2004, p. 1009; BEGHIN, L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a “ristretta base” tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni (nota a Cass., sez. trib., 29 dicembre 2003, n. 19803), in GT-Riv. giur. trib., 2004, p. 431.

23 Così ROMANO, Ricavi neri, costi inesistenti e presunzione di distribuzione di utili nelle so-cietà di capitali a ristretta base azionaria, in Il Fisco, 1991, p. 2054; MARINO, op. cit., p. 625.

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sti effettivamente sostenuti per difetto di inerenza o per indeducibilità totale o parziale, in base a specifiche norme di legge;

c) da rettifiche di componenti negativi di reddito esposti in bilancio in misura superiore al consentito, al fine di ridurre l’imponibile fiscale, ai quali, però, non corrisponda la creazione di disponibilità monetarie (ammortamen-ti, accantonamenti per rischi o passività future, ecc.);

d) da rettifiche delle valutazioni di poste dell’attivo patrimoniale, conta-bilizzate in bilancio per valori inferiori a quelli minimi previsti dalle norme fiscali (ad esempio la svalutazione delle immobilizzazioni materiali o finan-ziarie ovvero la svalutazione del magazzino).

Sia che sia assunta una formale delibera di distribuzione dell’utile, sia che si voglia prescindere da questo elemento, in ogni caso solo le rettifiche rela-tive ad operazioni che abbiano creato una effettiva disponibilità monetaria possono produrre utili distribuibili ai soci. Da tale circostanza, pertanto, con-segue l’illegittimità della presunzione di distribuzione nei casi in cui i fatti contestati alla società riguardino riprese a tassazione relative a valutazioni di beni che permangono nel patrimonio aziendale, oppure recuperi di costi real-mente sostenuti, ma non di competenza, ovvero non inerenti. Tali costi, in-fatti, non modificano la disponibilità di redditi da distribuire ai singoli soci, anche se aumentano il reddito imponibile della società. Deve pertanto esclu-dersi la possibilità di presumere una distribuzione di utili sulla base di ripre-se fiscali conseguenti a fatti di carattere valutativo relativamente a beni che permangono nel patrimonio aziendale o a recuperi di materia imponibile che trovino fondamento nell’applicazione di principi di competenza o di inerenza per spese e oneri realmente sostenuti.

Volendo, invece, ritenere legittima la percezione di utili extrabilancio con-seguente all’accertamento emesso nei confronti di una società di capitali a ri-stretta base azionaria, non può disconoscersi che una distribuzione di utili dalla società ai soci può presumersi soltanto in presenza di fatti che abbiano determinato un effettivo maggiore afflusso di ricchezza in capo alla società, cioè, in sostanza, solo in presenza di ricavi occultati o di costi inesistenti.

Mentre per la dottrina 24 appare evidente il rischio di incorrere in una vio-

24 SCANU, La presunzione di distribuzione degli utili nelle “piccole” società di capitali tra ra-gione fiscale e difesa del contribuente, in questa Rivista, 2012, p. 452; VOGLINO, La presunzio-ne di distribuzione degli utili non contabilizzati accertati a carico delle società di capitali a ri-stretta base familiare od azionaria (Nota a Cass. sez. I civ. 11 dicembre 1990, n. 11785), in Boll. trib., 1991, p. 468; ID., Ancora sulla presunzione di distribuzione degli utili non contabiliz-

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lazione del divieto di presunzioni di secondo grado, non è dello stesso avvi-so la Cassazione. Con la sent. 11 ottobre 2007, n. 21415, espressione di un orientamento consolidato, i giudici di legittimità dimostrano di ritenere che non si pone il problema del divieto di presunzione di secondo grado poiché il fatto noto non sarebbe costituito dalla sussistenza di maggiori redditi ac-certati, ma piuttosto dalla ristrettezza della base sociale, dal vincolo di soli-darietà e dal reciproco controllo dei soci che in casi del genere caratterizza la gestione sociale. Per la Cassazione non si tratterrebbe di un problema di “presunzione di secondo grado”, ma di una “doppia presunzione” (ovvero-sia del ricorso a più presunzioni per provare fatti diversi tra loro). La solu-zione offerta dalla Cassazione non appare del tutto convincente. Il ricorso alla trasparenza, come si è dimostrato, consente una naturale discrasia tra reddito imputato e reddito distribuito che, se contenuta entro i limiti che si sono illustrati, è costituzionalmente corretta. La delicatezza del tema impo-ne, invece, un particolare rigore nell’accertamento di un maggior reddito in capo ad un ente tutte le volte in cui si vuole poi far ricadere tale reddito su un altro soggetto.

La Cassazione dimostra così di dispensare del tutto gli Uffici dall’eserci-tare i poteri istruttori (ampi e penetranti soprattutto con riferimento alle movimentazioni finanziarie) loro attribuiti per provare il trasferimento di denaro dalla società ai soci. La giurisprudenza in questione non si pone in alcun modo il problema di verificare se gli uffici abbiano raccolto alcuni, seppur minimi, indizi circa un possibile trasferimento di somme dalla socie-tà ai soci; la mancanza di tali elementi non risulta influire in alcun modo nel giudizio circa la gravità, precisione e concordanza della presunzione da cui muove la Cassazione. Anzi, la prova della ristrettezza della base sociale su-pera di per sé la necessità di accertare, in ossequio al principio di capacità contributiva, un effettivo trasferimento di somme dalla società ai soci. In de-finitiva il ragionamento per cui il rinvenimento di utili occulti presso una società

25 e la ristretta base sociale di tale società sono di per sé circostanze zati nelle società a ristretta base familiare od azionaria (Nota a Comm. Trib. Centr. sez. VII 27 ottobre 1990, n. 7027), in Boll. trib., 1991, p. 1035.

25 In proposito, può peraltro segnalarsi anche quella ulteriore consolidata giurispru-denza della Cassazione (v., ex multis, Cass., sez. trib., ord. 26 settembre 2012, n. 16338; Cass., sez. trib., 6 ottobre 2011, n. 20449; Cass., sez. trib., ord. 13 settembre 2010, n. 19493; Cass., sez. trib., 12 gennaio 2009, n. 374) che prova maggiori redditi in capo ad una società sulla base del fatto di rinvenire somme presso i conti degli amministratori e dei soci. Tali orientamenti, talora anche operando congiuntamente, portano a conseguenze non accet-

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idonee per presumere la distribuzione di tali maggiori utili ai soci non può che lasciare perplessi. Esso finisce per esonerare l’Agenzia delle Entrate dal-lo svolgimento di un’effettiva attività di accertamento.

Tale disamina evidenzia, quindi, come siano molteplici e di vario ordine le critiche che possono essere mosse alla giurisprudenza della Cassazione, che sarebbe opportuno ripensasse il proprio orientamento.

2.2. Imputazione per trasparenza dei maggiori utili extrabilancio o loro distri-buzione?

Non vi sono solo argomentazioni di fatto valide a confutare la giurispru-denza della Cassazione, ma se ne possono individuare anche alcune di diritto.

È sufficiente porre attenzione ad un ulteriore effetto di tale giurispruden-za: essa qualifica il maggior reddito ascritto ai soci quale reddito di parteci-pazione imputato per trasparenza e non, invece, quale reddito di capitale, come è normalmente qualificato il reddito che un soggetto ritrae dalla par-tecipazione in società di capitali.

Benché il ricorso in via diretta alla trasparenza abbia l’effetto pratico di definire in via immediata la posizione tributaria del socio, il suo utilizzo non convince e, ad avviso di chi scrive, per contrastare i fenomeni evasivi con-nessi agli utili extracontabili sarebbe preferibile qualificare il reddito in esa-me quale reddito di capitale

26. Si giunge a queste conclusioni tenendo conto delle funzioni della trasparenza e del fatto che essa, nel precedente sistema fosse un meccanismo perfettamente interscambiabile

27 con il credito di im- tabili: la verifica di un maggior reddito in capo ad un soggetto esplica effetti presso un altro senza il raggiungimento della piena prova del trasferimento dall’uno all’altro di tale reddito.

26 Vi procede una corrente del tutto minoritaria all’interno della giurisprudenza in esa-me (Cass., sez. trib., 14 maggio 2007, n. 10982; Cass., sez. trib., 5 maggio 2003, n. 6780) se-condo cui non si può ricorrere allo schema della trasparenza. Gli utili presuntivamente di-stribuiti devono, invece, essere prima tassati in capo alla società secondo le regole ordinarie e, quindi, devono essere assoggettati ad imposta (sostitutiva od ordinaria) in capo ai soci in funzione della natura qualificata o meno della partecipazione posseduta dagli stessi. Sul tema v. PAGANI, Accertamenti su società di capitali a ristretta base societaria. Quali conseguenze per i soci?, in Il Fisco, 2010, p. 4286.

27 COSCIANI, Scienza delle finanze, Torino, 1991, p. 327; ID., Considerazioni sulla riforma dell’imposta sulle persone giuridiche con riferimento al credito di imposta, in Bancaria, 1978, p. 22; FALSITTA, Problemi, vicende e prospettive della tassazione del reddito d’impresa nell’ordi-namento italiano, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Atti del Convegno di S. Remo, Padova, 1981, p. 111; CICOGNANI, (voce) Società (Diritto tributario), in Enc. giur. Treccani, XXIX, Roma, 1993, p. 2; FEDELE, Profilo fiscale delle società di persone, in Riv. not.,

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posta per evitare il realizzarsi di fenomeni di doppia imposizione e collocare la tassazione degli utili societari a livello dell’aliquota personale del socio

28. In questo contesto, in caso di accertamento di utili occulti presso le so-

cietà, il ricorso alla trasparenza era possibile e, quasi addirittura, preferibile in quanto si sarebbe evitato un “doppio passaggio” che avrebbe potuto cau-sare una parziale doppia imposizione. Se, infatti, si fosse prima recuperato il maggior reddito in capo alla società e poi ai soci, questi ultimi, ai sensi del-l’art. 14, comma 5, TUIR nella formulazione previgente, non avrebbero po-tuto godere del credito di imposta

29. La trasparenza consentiva di evitare tale effetto appuntando direttamente l’obbligazione tributaria in capo ai so-ci, senza alcun aggravio per loro.

Tale “doppio passaggio”, vietato fino al 2004 in quanto avrebbe compor-tato conseguenze sistematiche (un aggravio nella misura della tassazione do-vuta sui soci ed il realizzarsi di un fenomeno di doppia imposizione) deve, invece, ora ritenersi obbligato per le stesse ragioni, ovverosia proprio per evi-tare conseguenze asistematiche.

Nel sistema IRES, infatti, si osserva una sostanziale tollerabilità di casi di parziale doppia imposizione sui dividendi

30 e, ai fini che qui interessano, si registra soprattutto che il legislatore ha proceduto a fissare la misura della 1988, p. 552, nonché in AA.VV., Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi ed al-tri scritti, Roma-Milano, 1990, p. 19.

28 In proposito SCHIAVOLIN, Natura del tributo: funzioni e caratteri generali, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – Imposta sul reddito delle persone giuridiche e Imposta locale sui redditi, Torino, 1996, p. 3; BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2008, p. 101 e p. 532; PORCARO, Il divieto di doppia imposizione nel diritto interno, Padova, 2001, p. 412.

29 Detta disposizione prevedeva, infatti, che «la detrazione del credito di imposta … non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione degli utili nella dichiarazione presentata».

30 Il divieto di doppia imposizione risulta svalutato dalla giurisprudenza (ne riferisce STE-VANATO, Divieto di doppia imposizione e capacità contributiva, in PERRONE-BERLIRI (a cura di), Diritto Tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, p. 70) che riconosce ad esso il rango di principio generale dell’ordinamento tributario (in quanto espressione di equità e giusti-zia sostanziale), ma non di regola inderogabile. Esso può, infatti, essere superato da una norma ad hoc che introduca un’ipotesi di doppia imposizione. Secondo questa imposta-zione (sorta prevalentemente per risolvere i problemi che la fase dell’accertamento può sollevare) il legislatore non sarebbe tenuto ad evitare la reiterata applicazione della stessa imposta in dipendenza dello stesso presupposto; egli sarebbe tenuto solo a determinare correttamente il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria. Il problema dell’eliminazio-ne della doppia imposizione viene così ricondotto al più generale problema dell’individua-zione del soggetto passivo di imposta.

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tassazione complessiva dei redditi societari tendenzialmente al livello dell’a-liquota marginale massima prevista in sede IRPEF

31 e non più al livello dell’aliquota marginale massima “del singolo socio”

32. La trasparenza (anche quella applicata dall’Amministrazione Finanziaria

trasformando gli utili presuntivamente distribuiti ai soci in reddito di parte-cipazione presuntivamente imputato) supera tutte queste criticità: essa eli-mina qualunque doppia imposizione in quanto il reddito societario viene tassato una sola volta in capo al socio andando del tutto esente in capo alla società e sconta una tassazione pari all’aliquota marginale massima del so-cio, non necessariamente pari all’aliquota marginale massima prevista in se-de IRPEF.

Dall’applicazione della trasparenza deriva, quindi, non solo un supera-mento dell’impostazione sistematica della riforma IRES che prevede una tas-sazione definitiva in capo alla società, ma anche il fatto che la tassazione com-plessiva in capo al socio ed alla società possa collocarsi ad un livello inferiore a quello dell’aliquota marginale massima prevista in sede IRPEF (vale, infatti, l’aliquota marginale massima del socio). Ma allora, se è vero che l’accerta-mento di utili extrabilancio in capo ad una società, correttamente, non deve comportare un peggioramento della posizione dei contribuenti (la reazione dell’ordinamento a questi comportamenti illegittimi dei contribuenti è affi-data, infatti, non all’accertamento in sé, ma alle sanzioni amministrative e penali tassativamente previste), appare alquanto strano che lo stesso possa avere conseguenze migliorative della posizione del contribuente. È, quindi, più corretto applicare anche a questa ipotesi patologica gli schemi fisiologici che regolano le vicende dei soci di una società di capitali.

31 È indice di tale approccio anche l’art. 1, comma 38, L. 24 dicembre 2007, n. 244, se-condo cui «al fine di garantire l’invarianza del livello di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze, in relazione alla riduzione dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle società disposta dal comma 1 del presente articolo, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze sono proporzionalmente rideterminate le percentuali di cui agli articoli 47, comma 1, 58, comma 2, 59 e 68, comma 3, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917». Esso testimonia la scelta del legislatore di individuare un livello predeterminato a cui fissare la tassazione in capo alle società ed in capo ai soci con l’effetto che un cambiamento sul livello di tassazione di uno dei soggetti (nel caso in esame sulle società a seguito dell’abbassamento dell’aliquota IRES dal 33% al 27,5%) impone un intervento sull’altro soggetto coinvolto.

32 Attualmente il prelievo complessivo sui redditi societari si situa fra il 35,8% e il 43% nel caso di partecipazioni qualificate ed è pari al 42% nel caso di partecipazioni non quali-ficate.

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Il ricorso alla trasparenza per risolvere il problema degli utili extraconta-bili non rinvenuti presso una società di capitali non appare più sistematica-mente corretto. Salva una più generale ipotesi di riforma degli schemi impo-sitivi delle società a ristretta base proprietaria che, ad avviso di chi scrive, sa-rebbe auspicabile

33, allo stato attuale la prassi dell’Amministrazione Finan-ziaria, avallata dalla Corte di Cassazione, supera l’impostazione del TUIR e pertanto non appare corretta. Gli Uffici dovrebbero procedere prelevando prima le maggiori imposte in capo alla società che li ha prodotti, poi, pre-sumendo la loro distribuzione ai soci, tassarli in capo a questi secondo le re-gole ordinarie dei dividendi. Troverebbe applicazione in questo caso l’art. 47 TUIR secondo cui, salva l’applicazione di imposte sostitutive, «gli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società o dagli enti indicati nell’articolo 73» TUIR sono parzialmente esenti. Già da tale disposizione risulta come il legislatore abbia accolto una nozione di uti-le a fini fiscali particolarmente ampia e, soprattutto, abbia escluso che, ai fini della qualificazione di una somma, quale utile, possa rilevare la forma in cui è avvenuta la distribuzione

34. In conclusione, per tutelare al meglio e non snaturare le scelte effettua-

te dal legislatore e, soprattutto, al fine di tassare i soci di società di capitali a ristretta base proprietaria in misura non diversa da quella prevista dalla legge, non si ravvisano ostacoli a procedere secondo un “doppio passag-gio” e non secondo un “passaggio unico”

35 qualificando i redditi presunti-

33 Gli artt. 115 e 116 TUIR, la cui analisi approfondita esula dalla presente trattazione, si muovono in questa direzione.

34 FALSITTA, (voce) Utili e dividendi (imposizione su), cit., p. 1; PADOVANI, Art. 47 (Utili da partecipazione), in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di Falsitta, Fantozzi, Ma-rongiu, Moschetti, Tomo III-TUIR e leggi complementari, a cura di Fantozzi, Padova, 2010, p. 239; PIRI, Art. 47 (Utili da partecipazione), in Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cura di Tinelli, Padova, 2009, p. 367.

35 Tale ricostruzione, tuttavia, deve essere coordinata con la presunzione assoluta stabi-lita con finalità antielusive dallo stesso art. 47, comma 1, TUIR, secondo cui «indipenden-temente dalla delibera assembleare, si presumono prioritariamente distribuiti l’utile dell’eserci-zio e le riserve diverse da quelle [costituite con sopraprezzi di emissione delle azioni o quote, con interessi di conguaglio versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale e con saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta] per la quota di esse non accantonata in sospensione di imposta». L’intento della norma è quello di evitare arbitraggi tra la disciplina delle distribuzioni di utili, sottoposti ai regimi di imposizione, sia pur attenuata, e quella delle distribuzioni di riserve di capitale, che non conducono, in linea di principio, all’emersione di redditi imponibili. Per effetto di tale disposizione ne deriva che, anche in presenza di delibere assembleari che stabiliscono

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vamente distribuiti ai soci quali redditi di capitale e non quali redditi di par-tecipazione.

3. Il litisconsorzio necessario nell’accertamento del reddito delle società tra-sparenti

Muovendo da tale possibile proposta di soluzione dei profili di ordine sostanziale che la giurisprudenza della Cassazione in tema di “trasparenza per presunzione” solleva, si può procedere all’analisi di quelli processuali.

Sotto questo punto di vista, come già anticipato, si sta registrando un con-trasto nella giurisprudenza della Cassazione: talora si ritiene che l’accerta-mento del reddito delle società a ristretta base proprietaria debba svolgersi nel litisconsorzio della società e dei soci

36, altre volte si ritiene che l’accerta-mento del maggior reddito dei soci debba essere sospeso, ex art. 295 c.p.c., fino all’accertamento del maggior reddito della società

37. I due orientamenti giurisprudenziali muovono da una diversa interpreta-

zione della sent. n. 14815/2008 38 con cui la Cassazione aveva risolto la que-

espressamente l’attribuzione ai soci di somme costituenti capitali sociali o riserve di capita-le, devono considerarsi prioritariamente distribuiti gli eventuali utili esistenti anche se ac-cantonati a riserva. Ne deriva un doppio binario fiscale e civile relativamente alle poste del patrimonio netto (LEO, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, I, Milano, 2010, p. 797) del quale, vista la tassatività di tale disposizione, non se ne può escludere l’operatività.

36 Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4688. 37 V. Cass., sez. trib., 31 gennaio 2011, n. 2214; Cass., sez. trib., ord. 8 febbraio 2012, n.

1867. 38 Sulla quale v. GLENDI, Le SS.UU. della Suprema Corte si immergono ancora nel gorgo

del litisconsorzio necessario, in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 993; NUSSI, A proposito di accer-tamento del reddito delle società di persone e litisconsorzio necessario (verso un processo tribu-tario sulle questioni?), in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 771; MUSCARÀ, L’eterogenea vicenda del litisconsorzio necessario: urgenze organizzative delle Commissioni tributarie e primi “ravvedi-menti operosi” della Cassazione ai fini della decongestione dello scaturente contenzioso, in Riv. dir. trib., 2011, p. 19; COPPA, Accertamento dei redditi prodotti in forma associata e litisconsorzio necessario, in Rass. trib., 2008, p. 978; BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un as-setto stabile (nota a Cass., sez. trib., SS.UU., 4 giugno 2008, n. 14815), in Corr. trib., 2008, p. 2270; ID., Effettività e relatività del giudizio unitario, in Dialoghi trib., 2008, p. 41; LUPI, Ret-tifiche del reddito di società di persone e unitarietà del giudizio, in Dialoghi trib., 2008, p. 36; FICARI, Litisconsorzio necessario tra società e soci professionisti, in GT-Riv. giur. trib., 2009, p. 972; BACCAGLINI, Si allargano i confini del litisconsorzio necessario nel processo tributario. L’unitarietà dell’accertamento nelle dichiarazioni dei redditi ai fini Ilor e Irpef è imposta anche sul piano processuale, in Corr. giur., 2008, p. 1719; RAGUCCI, Il litisconsorzio necessario nelle

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stione con riferimento alla “trasparenza per legge” di cui all’art. 5 TUIR. Come noto, in questa sentenza viene ricostruita la disciplina relativa

all’accertamento del reddito delle società di persone sottolineandone il ca-rattere unitario

39 sia a livello sostanziale (art. 5 TUIR), sia a livello proce-dimentale (art. 40, D.P.R. n. 600/1973). Dal particolare atteggiarsi del pre-supposto impositivo che si verifica in queste situazioni, deriva, sul piano procedimentale, che l’accertamento del reddito sociale e l’accertamento del reddito dei singoli soci sono in evidente rapporto di reciproca implicazione, in quanto non si può accertare il secondo se non accertando il primo

40. Argomenti a sostegno di tale conclusione vengono rinvenuti in un’inter-

pretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14, D.Lgs. n. 546/1992. per effetto della quale risulta che tale norma debba configurarsi come fatti-specie autonoma rispetto alla corrispondente del processo civile

41. Ciò posto, dal momento che, secondo la sent. n. 14815/2008, il processo

tributario ha ad oggetto la corretta individuazione della capacità contributi-va tassata, ne deriva che per verificare la configurabilità di un caso di liti-sconsorzio si deve guardare alla situazione sostanziale dedotta nel processo. Sussiste, così, un’ipotesi di litisconsorzio necessario in tutti i casi in cui la fattispecie costitutiva dell’obbligazione presenti elementi comuni ad una pluralità di soggetti e l’impugnazione proposta da uno o più degli obbligati investa direttamente tali elementi.

impugnazioni degli accertamenti dei redditi prodotti in forma associata, in Giur. it., 2008, p. 2350; CAPOLUPO, Cass., sez. trib., n. 14815 del 4 giugno 2008. Accertamento per le società di persone: i paletti della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2008, p. 4658; PROCOPIO, Indivi-duazione della qualità di socio di società di fatto e litisconsorzio necessario, in Dir. prat. trib., 2009, p. 629; ZANETTI, L’unicità dell’accertamento del reddito (e del rapporto tributario so-stanziale) nelle società di persone, in Dir. prat. trib., 2009, p. 24; CASTALDI, L’ansia del con-flitto logico di giudicati nel prisma dell’equo riparto dei carichi fiscali tra i consociati, in que-sta Rivista, 2012, p. 871.

39 Per la Cassazione, infatti, «l’attività di accertamento svolta nei confronti della socie-tà non può essere disgiunta da quella relativa ai soci:

a) unica è la materia imponibile, seppure soggetta a diversa disciplina, in ragione del carattere reale dell’imposta locale, rispetto al carattere personale dell’imposta statale;

b) unico è il risultato dell’accertamento, sia che lo si consideri nel suo complesso in ca-po alla società, sia che lo si consideri come la somma dei redditi imputati ai singoli soci in conseguenza dell’accertamento societario».

40 Per la Cassazione «sono due facce della stessa medaglia». 41 La Cassazione si pone nel solco di quanto dalla stessa già affermato nella sent. n.

1052/2007.

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Per la Cassazione, nella “trasparenza per legge” la soluzione è positiva in quanto, alla luce della disciplina civilistica di riferimento

42, si è di fronte all’ipotesi di un ente collettivo che, pur interponendosi realmente nel flusso di ricchezza dalla fonte al percettore finale, in quanto privo di autonomia,

42 Nella “trasparenza per legge”, ovverosia quella delle società di persone ex art. 5 TUIR, sono, infatti, proprio le regole civilistiche a legittimare il ricorso a tale meccanismo. L’art. 2262 c.c., in particolare, riconosce il diritto dei soci alla divisione periodica degli utili a se-guito della sola approvazione del rendiconto annuale. Per effetto di tale disposizione cia-scun socio ha diritto di pretendere quanto gli spetta non appena la presenza di un utile ri-sulti accertata attraverso il rendiconto annuale. Questa disposizione configura, infatti, a fa-vore dei soci una posizione giuridicamente tutelata (BORIA, Il principio di trasparenza nel-l’imposizione delle società di persone, Milano, 1996, p. 190): essi sono titolari di un diritto di credito su tali utili. Il risultato dell’attività svolta dalla società risulta in maniera pressoché immediata e diretta riferibile ai soci, pur non essendo essi titolari di un diritto reale sulla parte del patrimonio societario corrispondente alla quota di utili da distribuire. Non sussi-ste, infatti, a differenza delle società di capitali, un organo cui è attribuito il compito di de-cidere in ordine alla destinazione del risultato di esercizio. Attraverso la delibera di appro-vazione del rendiconto viene, infatti, esclusivamente analizzato il risultato della gestione; in tale sede non viene necessariamente assunta una formale decisione circa la distribuzione dell’utile conseguito. Si giunge a tale conclusione argomentando dalla differenza di tenore lessicale degli artt. 2262 e 2433 c.c. Il secondo di tali articoli colloca espressamente la deli-bera di distribuzione degli utili in un momento logicamente e necessariamente successivo all’approvazione del bilancio (analizza criticamente tali norme NUSSI, Spunti per una rime-ditazione della disciplina impositiva reddituale delle società di persone, in Riv. dir. trib., 1994, p. 732). Tale situazione, pur se non autorizza a ritenere che si verifichi una presunzione di distribuzione, fa in modo che il patrimonio della società risponda, fino a concorrenza dell’importo degli utili in questione, dell’obbligazione tributaria di cui i soci sono soggetti passivi. Infatti, pur rimanendo la società estranea alle vicende tributarie dei soci, l’Erario, per eseguire il proprio credito, ha la facoltà di agire contro la società stessa nelle forme del pignoramento presso terzi. In definitiva, i soci, con il diritto agli utili, maturano un corri-spondente diritto di credito perfetto azionabile, in sede processuale, nei confronti della società, dai soci stessi e dai loro creditori personali, ivi compresa l’Amministrazione Finan-ziaria (LAROMA JEZZI, Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, p. 232). Tali considerazioni consentono di suffragare ulteriormente la conclusione secondo cui i soci “possiedono”, nel senso tributario del termine, i redditi delle società di persone (FRANSONI, Art. 1 (Presupposto dell’imposta), in Commentario breve alle leggi tributarie, cit., p. 16; TINELLI, Art. 1 (Presupposto dell’imposta), in Commentario al Testo Unico delle Impo-ste sui Redditi, cit., p. 19; ID., Art. 72 (Presupposto dell’imposta), in Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, cit., p. 615; CIPOLLA, Art. 72 (Presupposto dell’imposta), in Com-mentario breve alle leggi tributarie, cit., p. 377; SCHIAVOLIN, Il collegamento soggettivo, in MOSCHETTI (a cura di), La capacità contributiva, Padova, 1993, p. 94; MAGNANI, Il presup-posto dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., 1973, p. 1133; MEN-CARELLI, Diritto civile e diritto tributario nella disciplina del presupposto dell’imposta comunale sugli immobili, in Riv. dir. trib., 2007, p. 418; MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel falli-mento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, p. 93).

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non è in grado di imprimere a tale reddito una differente destinazione. Sul piano processuale ciò offre quella “normativa unitarietà” richiesta dalla Cas-sazione per l’applicazione del litisconsorzio necessario

43. Il ricorso proposto avverso l’avviso di rettifica della dichiarazione dei redditi della società o av-verso quello del socio a seguito della modifica del reddito societario deter-mina un’ipotesi di litisconsorzio necessario originario tra la società e i soci purché il ricorso abbia ad oggetto il reddito prodotto dall’ente trasparente. Diversamente, ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario solamente tra i soci quando il ricorso ha ad oggetto la ripartizione del reddito o la qualità di socio

44. Il perimetro del litisconsorzio sarà, quindi, individuato di volta in volta sulla base delle tipologie di contestazioni avanzate dai contribuenti.

Tale soluzione si ritiene possa essere estesa anche alla “trasparenza per opzione”. Anche nelle società di capitali, come individuate dal legislatore agli artt. 115 e 116 TUIR, si può registrare quella immedesimazione tra soci e società che connota le società personali. Il numero necessariamente ridot-to dei soci che compone le società cui è consentito l’esercizio dell’opzione consente di presumere che essi siano in grado di esercitare un effettivo do-minio sulle scelte di gestione e, quindi, di apprendere in maniera diretta i ri-sultati reddituali della società stessa. In queste situazioni, come osservato in dottrina

45, si può derogare alla regola generale per la quale il socio di una società di capitali rileva essenzialmente come titolare di un capitale impiega-to e remunerato con una partecipazione agli utili, in quanto gode, in via di fatto, di poteri maggiori di quelli di cui comunemente dispone.

Consente questa conclusione il fatto che il legislatore abbia condizionato l’accesso al regime in esame al consenso unanime dei soci con l’effetto che il

43 COPPA, op. cit., p. 982 lo riconduce ad un caso di “litisconsorzio propter opportuni-tatem”.

44 Per la Cassazione non si applica il litisconsorzio necessario alle questioni prospettate dai soci e strettamente relative al loro reddito e a quelle relative alle sanzioni eventualmen-te irrogate agli stessi (v. Cass., sez. trib., 18 maggio 2009, n. 11469 e, più in generale, Cass., sez. trib., 13 maggio 2011, n. 10542). La giurisprudenza considera altresì strettamente per-sonali le cause di impugnazione della cartella di pagamento e comunque quelle relative agli atti della procedura di riscossione coattiva che trovano il loro fondamento nell’intervenuta definitività degli accertamenti (v. Cass., sez. trib., 11 marzo 2011, n. 5847). La dottrina (AC-CORDINO, Il rapporto tributario plurisoggettivo: riflessi processuali, Torino, 2011, p. 127) ri-tiene doversi aggiungere a questo catalogo l’ipotesi in cui il socio contesti l’intempestiva notifica dell’avviso di accertamento.

45 FEDELE, La nuova disciplina IRES: i rapporti fra soci e società, in Riv. dir. trib., 2004, p. 465, nonché in RUSSO (a cura di), La riforma dell’imposta sulle società, Torino, 2005, p. 143.

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disaccordo di taluna delle parti preclude l’accesso alla tassazione per traspa-renza. Questa impostazione assegna un vero e proprio diritto di veto a tutti i soci e rende quindi ragionevole supporre che l’adesione dei soci sarà definita in base a preventive pattuizioni negoziali o in sede di costituzione della socie-tà o di aumento del capitale o in sede di circolazione della partecipazione

46. Dovendo l’opzione trovare l’accordo di tutti i soci, ne deriva che anche

quelli la cui partecipazione alla gestione risulta minima eserciteranno un vo-to determinante e condizioneranno il loro parere favorevole alla stipula di patti parasociali che regolino la distribuzione di utili. La regola dell’unanimi-tà nell’esercizio dell’opzione si pone, quindi, quale necessario “rinforzo vo-lontaristico”. Essa consente di presumere l’esistenza di un accordo tra i soci (o, comunque, l’adozione da parte dei soci di minoranza di adeguate caute-le) e configura un’autonoma espressione della volontà del contribuente di accedere ad un diverso regime e, quindi, di accettarne le possibili distorsio-ni. Si ovvia così all’insufficienza della sola ristrettezza della compagine socia-le quale criterio per imputare i maggiori redditi ai soci. Questo “rinforzo vo-lontaristico”, perché sia costituzionalmente legittimo, non può essere pre-sunto (come erroneamente, invece, fa la Cassazione), ma deve trovare un espresso riconoscimento legislativo (approccio adottato appunto dal legisla-tore negli artt. 115 e 116 TUIR).

Da tale assetto sostanziale si devono allora trarre le necessarie conseguen-ze. Dal punto di vista procedimentale il legislatore ha correttamente esteso a tali società il modulo operativo dell’art. 40, comma 2, D.P.R. n. 600/1973 e, sul piano processuale, pare allora logico e doveroso invocare il litisconsorzio necessario. Anche in tale ipotesi, l’oggetto dell’accertamento processuale (il reddito societario) è un elemento “normativamente” comune agli accerta-menti emessi nei confronti della società e dei soci; pertanto, l’eventuale con-troversia che venisse proposta per contestare il reddito della società o le mo-dalità del suo accertamento dovrebbe svolgersi nel contradditorio della socie-tà e dei soci.

46 Dette pattuizioni avranno ad oggetto le regole concernenti la distribuzione degli utili; potranno, in tale sede, essere previsti meccanismi che garantiscano ai soci la provvista ne-cessaria per provvedere al pagamento degli oneri tributari, evitandosi così la conseguente discrasia tra reddito imputato e reddito distribuito che ne può derivare. In dottrina v. RUSSO, I soggetti passivi dell’IRES e la determinazione dell’imponibile, in Riv. dir. trib., 2004, p. 331, nonché in RUSSO (a cura di), op. cit., p. 61.

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3.1. La sospensione necessaria

Prima di verificare se il litisconsorzio necessario sia applicabile alla tra-sparenza per presunzione è necessario analizzare l’altro istituto teoricamente applicabile: la sospensione necessaria

47 e, segnatamente, la sospensione c.d. propria la cui applicazione al processo tributario è mediata dall’art. 39, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Tale disposizione impone la sospensione del processo tributario nei soli casi di presentazione di querela di falso o quando deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio. Questa elencazione, alla luce delle precisazioni offerte dalla Corte costituzionale nella sent. 26 febbraio 1998, n. 31

48, dovrebbe ritenersi tassativa, sicché al giudice tributario risulterebbe riconosciuto il potere di decidere, incidenter tantum, tutte le questioni pregiu-diziali diverse da quelle contemplate dall’art. 39 menzionato, salvo il diritto delle parti di svolgere le proprie difese anche in merito a tali questioni

49. La giurisprudenza di legittimità, invece, ha superato quella costituzionale

ritenendo applicabili al processo tributario le regole del processo civile ove non espressamente derogate. La Cassazione ritiene che tra l’art. 39, D.Lgs. n. 546/1992 e l’art. 295 c.p.c. non vi sia incompatibilità logica

50 e, quindi, il processo tributario possa essere sospeso anche in casi diversi da quelli men-zionati. Esso può essere sospeso allorquando pendano, di fronte a giudici

47 Sul ruolo della sospensione nel processo civile v. LUISO, Diritto processuale civile – Il processo di cognizione, vol. II, Milano, 2007, p. 223.

48 In questo senso si esprime Corte cost., 26 febbraio 1998, n. 31 secondo cui non è fondata, con riferimento agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost., la questione di legittimità costi-tuzionale dell’art. 39, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui non prevede la sospensione del processo tributario ove altro giudice debba procedere alla definizione di una controversia dalla quale dipende la decisione del ricorso.

49 Così GLENDI, L’influenza delle recenti modifiche al codice di procedura civile sulla discipli-na del processo tributario (anche in vista di una sua progettata riforma), in Dir. prat. trib., 1992, p. 144. V. anche DELLA VALLE, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in TESAURO (dir. da), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – Il processo tributario, Torino, 1998, p. 608; BATISTONI FERRARA, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995, p. 30; TABET, Luci ed ombre nel nuovo processo tributario, in Riv. dir. trib., 1996, p. 619; BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2009, passim.

50 V. Cass., sez. trib., 31 gennaio 2011, n. 2214; Cass., sez. trib., 10 marzo 2006, n. 5366; Cass., sez. trib., 14 maggio 2007, n. 10952; Cass., sez. trib., 10 marzo 2006, n. 5366; Cass., sez. trib., 6 settembre 2004, n. 17937. In dottrina GLENDI, Sulla travagliata esperienza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione in tema di pregiudizialità fra (e di sospensione necessaria dei) processi tributari, in GT-Riv. giur. trib., 2001, p. 1229.

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diversi, due diverse situazioni sostanziali, dalla definizione di una delle quali dipende la decisione dell’altra. Sinteticamente, perché operi la sospensione occorre:

i) che vi sia un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due situazioni sostanziali;

ii) che queste due situazioni sostanziali siano oggetto di separati proce-dimenti.

Ove ricorrano queste condizioni nel processo tributario può operare l’art. 295 c.p.c.

Con riferimento all’accertamento del reddito dei soggetti trasparenti (per legge, gli unici cui in passato ha prestato attenzione la Cassazione), la possi-bilità di configurare l’accertamento del reddito societario quale questione pregiudiziale all’accertamento del reddito dei singoli soci è stata prima deci-samente negata dal Consiglio di Stato

51, poi risolta in modo oscillante dalla Cassazione

52 fino ad essere negata nella menzionata sent. n. 14815/2008.

3.2. Litisconsorzio necessario o sospensione necessaria?

Si è detto che la questione è stata risolta in modo oscillante dalla Cassa-zione.

Se si condivide l’orientamento giurisprudenziale che ritiene applicabile alle società a ristretta base proprietaria l’istituto della trasparenza e, quindi, qualifica il reddito imputato ai soci quale reddito di partecipazione, si deve allora condividere anche quell’orientamento che ritiene applicabile al caso

51 Il Consiglio di Stato, nel parere 17 gennaio 1984, n. 68, ha ritenuto non praticabile questo rimedio in quanto la decisione resa nei confronti di altri soggetti (la società) non potrebbe, in forza dei principi sui limiti soggettivi del giudicato e soprattutto di quelli co-stituzionali in tema di tutela giurisdizionale, svolgere efficacia nei confronti di soggetti (i so-ci) che non hanno partecipato al giudizio o che, comunque, non siano stati messi in grado di parteciparvi.

52 Sintomatiche dell’atteggiamento della Cassazione sono le seguenti sentenze deposi-tate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. Nega l’ammissibilità del rimedio in esame Cass., sez. trib., 3 marzo 2006, n. 9446, la ammette Cass., sez. trib., 10 marzo 2006, n. 5366. In dottrina BASILAVECCHIA, Ancora incertezze sugli accertamenti relativi a società e soci, in Corr. trib., 2002, p. 28; ID., Il principio di trasparenza nell’accertamento unitario e nei giudizi autonomi, in Corr. trib., 2001, p. 1168; MERCATALI, Accertamento di maggiori redditi in capo a società di persone: efficacia ed effetti processuali e sostanziali nei confronti del reddito da par-tecipazione dei soci, in Boll. trib., 2004, p. 1295; ACCORDINO, Considerazioni in tema di esten-sione del giudicato favorevole in presenza di obbligazione solidale, in Rass. trib., 2006, p. 857.

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in esame l’istituto del litisconsorzio necessario. Ritenuto applicabile l’istitu-to della trasparenza per risolvere il problema della tassazione degli utili ex-trabilancio prodotti dalle società a responsabilità limitata, devono farsi deri-vare da tale scelta tutte le relative conseguenze. Appare ben strano che il medesimo meccanismo impositivo abbia diverse conseguenze processuali a seconda dei soggetti cui esso si applica. Dal momento che la trasparenza, sia essa “per legge”, “per opzione” o “per presunzione”, sottende la dimostra-zione che il presupposto di imposta sia direttamente riferibile ai soci che compongono la società trasparente, ne deriva che in tutte e tre le ipotesi ri-sulta integrato l’elemento che legittima il ricorso al litisconsorzio necessario.

Il fatto che la trasparenza sia applicata alle società a responsabilità limita-ta a ristretta base proprietaria per risolvere il problema della tassazione di eventuali utili “in nero” non giustifica un diverso atteggiamento processuale. Anche in questa ipotesi si riscontrano quelle esigenze di “giusta imposizio-ne” che per la Cassazione impongono di ricorrere all’istituto del litisconsor-zio necessario.

Se si risolve la logica della tassazione del reddito secondo il modulo del “singolo passaggio”, deve conseguire anche un “singolo passaggio” procedi-mentale e processuale.

Se, invece, si accede alla diversa ricostruzione qui proposta, ovverosia se si risolve il problema degli utili extrabilancio delle società a ristretta base proprietaria secondo la logica del “doppio passaggio”, in questa prospettiva non si verifica quella “normativa unitarietà” della fattispecie che richiede la Cassazione. Le vicende fiscali della società e dei soci restano vicende separa-te i cui presupposti impositivi sono due differenti: il primo è l’attività econo-mica svolta dalla società; il secondo è l’investimento di capitale effettuato dai soci. La misura dell’ammontare dei dividendi presuntivamente distribui-ti ai soci è condizionata dalla verifica dell’ammontare del reddito della socie-tà. Solo dopo aver definitivamente accertato questo valore potrà essere cor-rettamente accertato il maggior reddito dei soci

53. Se il presupposto della fattispecie è differente, allora è corretto escludere

la sussistenza di un caso di litisconsorzio necessario relativamente alle con-troversie aventi ad oggetto l’accertamento dei redditi prodotti da società a ristretta base proprietaria nonché di quelli dei relativi soci.

Dal momento che il maggior reddito dei soci dipende effettivamente, nei termini di cui all’art. 295 c.p.c., dall’accertamento del maggior reddito della

53 Così Cass., sez. trib., 8 ottobre 20120, n. 20870.

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società, il processo instaurato dai soci potrà essere sospeso. Il maggior red-dito dei soci, infatti, sussiste se e nella misura in cui si accerta un maggior reddito in capo alla società e se e nella misura in cui se ne accerta la distribu-zione (al di fuori degli schemi dell’art. 2433 c.c.). Sussiste, quindi, quel rap-porto di pregiudizialità-dipendenza che avvince le due posizioni, differenti tra loro, con l’effetto che solo una volta decisa la prima può essere decisa la seconda.

Se si risolve la logica della tassazione del reddito secondo il modulo del “doppio passaggio”, deve conseguire anche un “doppio passaggio” proce-dimentale e processuale.

La soluzione alla questione procedurale è strettamente condizionata alla soluzione della questione sostanziale; ovverosia quella relativa alla correttezza della qualificazione del maggior reddito in capo ai soci quale reddito di par-tecipazione: il litisconsorzio necessario appare il corretto modulo proces-suale con cui evitare il contrasto di giudicati, a condizione che il maggior red-dito imputato ai soci sia qualificato quale reddito di partecipazione; la so-spensione necessaria è, invece, il corretto modulo processuale solo qualora si acceda ad una diversa qualificazione del reddito attribuito ai soci, in detta-glio a quella di reddito di capitale.

4. Considerazioni conclusive: dalla “trasparenza per presunzione” alla “pre-sunzione di distribuzione”

La prassi dell’Amministrazione Finanziaria di tassare per trasparenza le so-cietà a ristretta base proprietaria cerca di risolvere un problema frequente e lo fa muovendo dall’osservazione dell’assenza di una perfetta separazione tra vi-cende della società e vicende dei soci

54. In queste società si osserva empirica-mente che esse sono enti nei quali “forma giuridica” e “sostanza dei rapporti sociali” non corrispondono. L’estrema astrazione del rapporto associativo che le dovrebbe connotare è superata a favore di una estrema personalizzazione (la stessa che si verifica di diritto nelle società di persone)

55. In questi enti ri-sulta assolutamente centrale la figura dei soci che si qualificano come soci-

54 UCKMAR, op. cit., p. 170. 55 Costituiscono indici tipici di questa perfetta immedesimazione tra soci e società le cir-

costanze che in esse si sovrappongano le figure di soci ed amministratori e che questi ulti-mi siano dotati dei più ampi poteri decisionali e siano di fatto sottratti al controllo degli altri soci ai quali, come già citato, possono essere legati da vincoli familiari o personali.

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imprenditori (ovverosia soci interessati all’attività ed alla gestione della socie-tà), piuttosto che come soci – finanziatori o soci – risparmiatori (ovverosia soci interessati solo alla remunerazione del loro investimento)

56. Lo svuotamento dei connotati giuridici e formali tipici di queste società

trova un unico limite: le regole di apprensione degli utili da parte dei soci 57.

Deve essere, infatti, mantenuta ferma l’operatività dell’art. 2433 c.c. Occorre una deroga esplicita all’applicazione di tale norma perché sia riconosciuta l’avvenuta apprensione da parte dei soci degli utili della società

58. Non basta una mera presunzione. È sotto questo punto di vista che risulta criticabile la giurisprudenza in tema di società a ristretta base proprietaria: essa non indi-vidua alcun fondamento giuridico che surroghi l’operatività dell’art. 2433 c.c., individua solo circostanze di fatto che non consentono di giungere univo-camente a tale conclusione.

Tuttavia, come detto, la giurisprudenza citata è criticabile anche e soprat-tutto per ragioni sistematiche. Non è tanto (e comunque non solo) l’intro-duzione degli artt. 115 e 116 TUIR (che hanno elaborato un modello di so-cietà a ristretta base proprietaria) a determinare il superamento di dette pro-nunce

59, quanto piuttosto la scelta del legislatore di introdurre il meccani-

56 FEDELE, I rapporti fra società e soci, in PAPARELLA (a cura di), La riforma del regime fi-scale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete, Milano, 2006, p. 51.

57 SPADA, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla “nuova” società a responsabilità limitata), in Riv. dir. civ., 2003, p. 489; ID., Classi e tipi di società dopo la ri-forma organica, in CIAN (a cura di), Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, Padova, 2004, p. 29.

58 Nel sistema degli artt. 115 e 116 TUIR assolve questa funzione il consenso dei soci. L’art. 2433 c.c. è qui derogato da una legge che consente ai soci di esercitare, purché una-nimemente, l’opzione per la trasparenza fiscale. Tale opzione è legittima proprio in quanto le società descritte da tali articoli sono a ristretta base proprietaria e, quindi, diviene lecito presumere che tutti i soci abbiano la possibilità di apprendere gli utili sociali.

59 Le differenze esistenti tra le posizioni della giurisprudenza e le scelte del legislatore sono state utilizzate dalla dottrina (MARELLO, Il regime di trasparenza, in Imposta sul reddito delle società (IRES), opera diretta da Tesauro, Bologna, 2007, p. 550) per ipotizzare che dall’introduzione dell’art. 116 TUIR derivi un rafforzamento della menzionata giurispru-denza. Avendo l’art. 116 TUIR fissato il numero massimo dei soci ad un livello elevato, la novella legislativa potrebbe essere interpretata nel senso di ampliare la nozione di società a ristretta base azionaria da cui muove la giurisprudenza (MENTI, Il regime della trasparenza fiscale esteso alle società a responsabilità limitata a ristretta base proprietaria, in Dir. prat. trib., 2004, p. 422). Potrebbe, però, anche offrirsi una preferibile interpretazione di segno con-trario. Si potrebbe e si dovrebbe, infatti, sostenere che il legislatore abbia voluto riconosce-re che l’imputazione per trasparenza in caso di società di capitali sia possibile solo in pre-senza dell’esercizio di un’apposita opzione da parte dei soci, di modo che, in assenza di essa,

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smo dell’esenzione e di individuare a priori il livello di tassazione “aggrega-ta” sulle società e sui soci. La riforma IRES si connota per essere ispirata alla formula “dalle persone alle cose”

60; il sistema tributario di tassazione dei redditi avrebbe dovuto attenuare i caratteri di progressività del sistema per accentuare quelli di realità, accentrando la tassazione non più sul socio, ma sul soggetto che svolge l’attività commerciale da cui deriva il reddito. La tra-sparenza è, invece, un istituto che opera correttamente in un sistema pro-gressivo.

La trasparenza (e la qualificazione del reddito quale reddito di partecipa-zione) non rappresenta più il meccanismo corretto con cui risolvere il pro-blema degli utili extracontabili delle società a ristretta base proprietaria. In luogo dell’applicazione della “trasparenza per presunzione”, si dovrebbe, in-fatti, adottare rigidamente una “presunzione di distribuzione” degli utili ex-tracontabili di queste società

61. Tali utili, come detto, dovrebbero essere ac-certati e tassati in capo alla società che li produce, poi se ne dovrebbe presu-mere la distribuzione e, solo allora, potrebbero essere tassati in capo ai soci quali reddito di capitale. Questo approccio sarebbe coerente con l’imposta-zione sistematica della riforma IRES che individua nelle società autonomi soggetti di imposta.

Come dimostrato, tale approccio dovrebbe essere risolto processualmente ricorrendo all’istituto della sospensione necessaria. Si è detto, infatti, che il

non appare superabile lo schermo societario. L’approccio delle Corti di legittimità e di me-rito, che invece omettono di verificare tale requisito, diverrebbe quindi opinabile.

Dall’analisi della giurisprudenza successiva alla riforma IRES si trae l’impressione che le Corti di legittimità e merito, per ora, non stiano modificando il loro orientamento in tema di società a ristretta base proprietaria alla luce degli artt. 115 e 116 TUIR. Quale pre-cedente si segnala esclusivamente Cass., sez. trib., ord., 9 novembre 2010, n. 22797, da cui risulta che i difensori del contribuente avevano prospettato «la questione che le limitazio-ni previste dal novellato D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 116 (TUIR) alla presunzio-ne di distribuzione ai soci degli utili non dichiarati dalle società a ristretta base azionaria si applichino in via interpretativa anche anteriormente alla entrata in vigore della nuova norma nel 2004». La Cassazione non si è però pronunciata nel merito di tale motivo in quanto lo ha dovuto ritenere inammissibile nel rito (i giudici di legittimità hanno rilevato che esso non era stato sollevato nei gradi precedenti e lo hanno dovuto pertanto ritenere nuovo e quindi inammissibile in Cassazione).

60 FANTOZZI, Ipotesi di riforma: se non ora, quando?, Relazione al convegno “Contributi alla riforma dell’IRES”, in Riv. dir. trib., 2007, p. 348.

61 Si esprimono così già alcune sentenze. V. in particolare Cass., sez. trib., 11 novembre 2003, n. 16885, con nota di CERIANA, op. cit., p. 1451 e Cass., sez. trib., 29 dicembre 2003, n. 19803.

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Federico Rasi

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litisconsorzio è il modulo processuale che assicura il principio della “giusta imposizione” in situazioni in cui si verifica una “normativa unitarietà” della fattispecie, circostanza che, per quanto qui di interesse, non si riscontra al di fuori dei casi di cui agli artt. 5, 115 e 116 TUIR. Ragionando in termini di “presunzione di distribuzione”, tale requisito non si verifica. Si potrebbe, co-munque, evitare il realizzarsi di contrasti di giudicati grazie all’applicazione della sospensione necessaria (salvo un auspicabile intervento del legislatore a meglio chiarire la portata di questo istituto nel processo tributario).

Sarebbe così definitivamente chiarita la collocazione sostanziale e pro-cessuale delle società a ristretta base proprietaria che, rappresentando un modello operativo frequente nella prassi, meritano scelte puntuali e certe da parte del legislatore, sia per quanto concerne i profili sostanziali che quelli processuali.

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Marco Versiglioni

‘UNITÀ’ E ‘UNI’ DEL E NEL DIRITTO TRIBUTARIO. RIFLESSIONI TEORICHE SUL LITISCONSORZIO

NECESSARIO SOCI-SOCIETÀ DI PERSONE

‘UNITS’ AND ‘ONES’ OF AND IN TAX LAW. THEORETICAL THOUGHTS

ABOUT THE COMPULSORY JOINDER OF PARTNERS AND PARTNERSHIP

Abstract Per l’accertamento in sede processuale dei redditi dei soci di società di persone, la Suprema Corte ha esaminato le possibili soluzioni teoriche e ha preferito quella del litisconsorzio necessario soci-società. Riscontrata l’unitarietà e la non divisi-bilità, la Corte ha qualificato la fattispecie de quo quale esempio naturale di “con-titolarità della capacità contributiva” o di “fattispecie soggettivamente complessa”. D’altro canto, la Corte ha ritenuto che il litisconsorzio necessario consentirebbe di rendere effettivi sia il principio della “utilità della sentenza”, sia il principio del-la “giusta imposizione”. Infatti, la sentenza farebbe giustizia per tutti (perciò, sa-rebbe sempre utile) e, soprattutto, farebbe giustizia in base alla stessa entità di reddito (ossia, senza contrasto tra più giudicati – in linea con il principio di “uni-vocità dei giudicati” –). La ricerca non pone in luce i pro e i contra del litisconsorzio necessario (perché già ampiamente evidenziati dalla dottrina). Affronta e confronta, invece, le pre-messe logiche e normative del problema al fine di proporre un’ipotesi ricostrutti-va che possa coordinare i numerosi concetti coinvolti (Soggetto passivo del tri-buto/Verità/Giustizia/Effettività) sia sul piano genetico-sostanziale, sia sul pia-no attuativo. Parole chiave: litisconsorzio, accertamento, società di persone, soggetto passivo, capacità contributiva

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2013

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The Supreme Court, in order to assess the partnership income in the hands of the partners during the trial, examined the possible theoretical solutions, opted for the compulsory joinder of partners and partnership. This solution was motivated by the unity and non-divisibility of the case in question. The Court qualified it as a natural example of “co-ownership of ability to pay” or “subjectively complex typology”. Be-sides the Court considerd that the compulsory joinder is the right way to make effec-tive both “utility of the judgment” principle and “just taxation” one. In fact, the judg-ment would do justice for all (thus, it would be always useful) and, above all, it would do justice according to the same amount of income (i.e. without conflict between se-veral final judgments – as stated by the principle of “univocity of final judgments”). This article does not shed light on the pros and cons of the compulsory joinder of par-ties (because they have already been pointed out widely in literature). Instead, it faces and compares both the logical and the legal premises of the problem in order to pro-pose a reconstructive hypothesis that could co-ordinate the many concepts involved (Taxable person/Truth/Justice/Effectiveness) on both genetic/substantial and ap-plication plans. Keywords: compulsory joinder of the parties, assessment of the tax base, partnerships, taxable subject, ability to pay

SOMMARIO: 1. Programma della ricerca e motivi d’interesse. – 2. Incertezza del trend giurisprudenziale sul liti-sconsorzio necessario soci-società di persone e ... – 3. Segue: ... problematicità delle interpretazioni dottrinali. – 4. Analisi critica e ipotesi ricostruttiva. – 4.1. Piano genetico-sostanziale. – 4.1.1. ‘Ra-gione di divisibilità’ del “tutti” e concetto di contribuente (‘uno tributario’) nella parte ‘scientifica’ dell’art. 53 Cost. – 4.1.2. Segue: divisione, ‘unità’ e ‘uni’ nella disciplina delle imposte sui redditi. – 4.1.3. Segue: assenza sul piano genetico-sostanziale dei presupposti del litisconsorzio necessario soci-società di persone. – 4.2. Piano attuativo (procedimentale o processuale, accertativo o com-positivo). – 4.2.1. ‘Ragione di divisibilità’ e ‘uni tributari’ negli artt. 97, 24 e 111 Cost. – 4.2.1.1. Se-gue: irrilevanza della ‘ragione di utilità del giudicato’. – 4.2.1.2. Segue: rilevanza relativa della ‘ragione di scambiabilità del giudicato’. – 4.2.2. Segue: divisione, ‘unità’ e ‘uni’ nella disciplina tributaria, dell’accertamento e della composizione. – 4.2.3 Segue: tendenziale assenza sul piano dell’attua-zione (procedimentale o processuale, accertativa o compositiva) dei presupposti del litisconsor-zio necessario. – 5. Sintesi e conclusioni.

1. Programma della ricerca e motivi d’interesse

Programma della ricerca è partire dal particolare indirizzo giurispruden-ziale sorto sul caso del concordato di massa delle società di persone e risalire

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Marco Versiglioni

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al tema generale del litisconsorzio necessario nel diritto tributario, sperando di formulare un’ipotesi, meramente teorica, concernente sia i profili statici, sia i profili dinamici della c.d. “trasparenza fiscale”.

Ciò, anche in considerazione del fatto che le sentenze e i contributi dot-trinali concernenti le fattispecie di cui all’art. 5 TUIR tendono solitamente a richiamare (a volte positivamente, a volte negativamente) importanti pre-cedenti che si sono fatti carico di ricostruire (in modo pressoché definitivo) il concetto del litisconsorzio necessario in materia tributaria.

In effetti, selezionato uno qualunque dei casi, si nota immediatamente che esso invita dapprima a verificare se sul tema della rilevanza ultra societa-tem del concordato di massa proposto dalle società di persone (o dagli enti disciplinati dall’art. 5 TUIR) sia o no riscontrabile un nuovo indirizzo erme-neutico, opposto a quello che appariva consolidato, e poi, laddove, come sembra intuitivamente, un tale indirizzo sia davvero riscontrabile, induce a valutarne gli effetti sull’adesione a regime e sugli altri strumenti deflattivi tributari (‘EDR’)

1. In senso ancor più ampio, ciascuno dei casi apparentemente analoghi

impone di testare la duplice coerenza (logica e normativa) del principio del litisconsorzio necessario sia nella sede (propria) dell’accertamento autorita-tivo, nella quale è stato riedificato alcuni anni fa, sia nella sede (apparente-mente aliena) della definizione consensuale, nella quale esso viene oggi pro-gressivamente esteso.

Così, nell’analizzare persino un caso particolarissimo 2, si scopre che qua-

lunque opinione, come qualunque tentativo d’ipotesi ricostruttiva, non può prescindere dal confrontarsi continuamente (implicandola e rimanendone implicata) con la prospettiva generale del soggetto passivo (l’‘uno tributario’)

1 Per la elaborazione del concetto degli ‘EDR’, eventualmente può vedersi VERSIGLIONI, Diritto tributario e ‘Equivalent Dispute Resolution’, in Riv. dir. trib., 2012, p. 223 ss.

2 Il caso dal quale può muovere la ricerca è, tra i tanti, quello oggetto della sentenza della Cass., 16 dicembre 2011, n. 27145. Nel 1995 una società in nome collettivo scelse di defi-nire il reddito 1991 aderendo al c.d. “concordato di massa”. I due soci della stessa società scelsero, invece, di non definire i redditi personali e, perciò, ai fini IRPEF, non prestarono alcuna adesione. In seguito, l’Ufficio accertò nei confronti dei due soci maggiori redditi di partecipazione corrispondenti alle rispettive quote del maggior reddito definito dalla so-cietà. I soci, deducendo di non aver prestato adesione al concordato di massa e, dunque, affermando l’irrilevanza nei loro confronti della scelta della (sola) società, impugnarono gli atti di accertamento; ma il ricorso fu rigettato. Il loro appello, invece, fu accolto. La Su-prema Corte ribalta nuovamente l’esito del processo, cassando la sentenza d’appello e, nel merito, rigettando il ricorso introduttivo proposto inizialmente dai soci.

6.

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osservato sia dal punto di vista costituzionale, sia dal punto di vista legislativo, rispetto ai distinti piani della genesi (sostanziale) e dell’attuazione (procedi-mentale o processuale, accertativa o compositiva) del tributo.

Com’è noto, la disciplina del concordato di massa prevedeva che la defi-nizione (a carattere straordinario)

3 si attuasse mediante la (totale e automa-tica) accettazione degli importi proposti dagli uffici, anche in base ad elabo-razioni di tipo statistico

4. Tanto che lo strumento in discorso era frequen-temente considerato quasi un condono. Per i redditi di cui all’art. 5 TUIR, la scelta adesiva doveva essere attuata dalle società di persone (o dagli enti ad esse equiparati), ma era dubbio (stante la lacunosità delle disposizioni del tempo) quali fossero gli effetti di tale scelta nei confronti dei soci (o associa-ti), laddove costoro, con riferimento ai redditi di partecipazione, non aves-sero prestato adesione

5. D’altro canto, il legislatore intervenne sulla materia solo alcuni anni dopo, quando dispose (con il comma 18 dell’art. 9 bis, D.L. n. 79/1997) che la definizione attuata dalla società di persone costituisse tito-lo per l’accertamento delle persone fisiche che non hanno definito i redditi pro-dotti in forma associata

6. Tuttavia, secondo la Suprema Corte questa dispo-sizione non avrebbe contenuto innovativo, costituendo, essa, mera esplica-zione del principio stabilito dall’art. 5 TUIR. Più analiticamente, anche per gli anni precedenti l’entrata in vigore del citato art. 9 bis l’adesione attuata dalla società consentirebbe, ex art. 5 TUIR, l’accertamento in capo ai singoli soci della rispettiva quota del reddito concordato dalla società. Questo per-ché si dovrebbe applicare il principio del litisconsorzio necessario ricostrui-to dalle Sezioni Unite nel 2008 con la sent. n. 14815 e nel 2007 con la sent. n. 1052.

3 La definizione in discorso aveva ad oggetto l’esistenza, la stima, l’inerenza e l’imputa-zione a periodo dei componenti positivi e negativi del reddito d’impresa o di lavoro auto-nomo ed aveva effetto anche per l’imposta sul valore aggiunto.

4 Si trattava di elaborazioni operate dall’anagrafe tributaria tenendo conto, per ciascuna categoria economica, della distribuzione dei contribuenti per fasce di ricavi o di compensi e di redditività.

5 Probabilmente fu questa la ragione principale per la quale i soci della società in nome collettivo attivarono il processo che si è concluso con la sentenza della Cass. n. 27145/2011.

6 Nel caso di cui alla predetta sent. n. 27145/2011, forse, i soci eccepirono altresì che questa disposizione non potesse essere applicata perché innovativa (e non retroattiva). Ma la Suprema Corte, richiamando e ripetendo testualmente quanto affermato nella prece-dente sent. n. 19137/2010, ha ritenuto il motivo non fondato.

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2. Incertezza del trend giurisprudenziale sul litisconsorzio necessario soci-società di persone e ...

Questo recente trend giurisprudenziale contrasta con l’indirizzo tradi-zionale.

In passato era, infatti, prevalente la tesi che escludeva l’applicabilità del li-tisconsorzio necessario ai casi nei quali il concordato di massa era stato po-sto in essere dalla società (ma non dai soci)

7. La Suprema Corte motivava la tesi con la mancanza, in quei casi, dell’unitarietà dell’accertamento. Si osser-vava che i soci, avendo deciso di non avvalersi del concordato di massa, ave-vano implicitamente rinunciato alla possibilità di opporre ragioni diverse da quelle di natura personale. Del resto, l’autonomia delle situazioni soggettive (soci e società) non appariva incompatibile con la rilevanza nei confronti dei soci della definizione agevolata attuata dalla sola società. Si riteneva, infatti, che questa definizione avesse come effetto la sua non contestabilità nei con-fronti di tutti (società e soci). Insomma, la giurisprudenza prevalente tende-va a valorizzare la differenza esistente tra la disciplina, necessariamente uni-taria, dell’accertamento “autoritativo” dei redditi delle società di persone e la disciplina, non necessariamente unitaria, delle “definizioni consensuali” di tali redditi e, in questo modo, preservava l’autonomia processuale delle posizioni dei singoli soci. Ed è interessante osservare che questa tesi, contra-ria al litisconsorzio necessario

8, è sopravvissuta anche all’opposta decisione delle Sezioni Unite del 2008.

D’altro canto, negli ultimi anni, le sentenze favorevoli al litisconsorzio necessario sono divenute sempre più frequenti

9. La logica ricorrente in que-ste ultime pronunce

10 appare traslata da quella elaborata dalle Sezioni Unite nel 2008 e nel 2007

11.

7 V. Cass., 6 luglio 2011, n. 14926; Cass., 17 dicembre 2010, n. 25617; Cass., 30 luglio 2009, n. 17716; Cass., 17 dicembre 2008, n. 29448.

8 Oltre alle sentenze già citate, si veda, ad esempio, Cass., 9 febbraio 2010, n. 2827 (avente ad oggetto il caso della definizione agevolata del reddito societario ai sensi dell’art. 9 bis del D.L. n. 79/1997) e Cass., 4 agosto 2011, n. 16982 (avente ad oggetto il caso di definizione agevolata del reddito societario ai sensi dell’art. 16 della L. n. 289/1992).

9 V. Cass., 16 febbraio 2010, n. 3576; Cass., 30 luglio 2009, n. 17716. 10 Il riferimento è alla nota sentenza Cass., sez. un., 18 gennaio 2007, n. 1052 che, pur

avendo ad oggetto il diverso tema della coobbligazione solidale paritaria, può considerarsi in ogni caso precedente della sentenza Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815.

11 Infatti, con esse, la Suprema Corte, nell’affermare la necessaria presenza del litiscon-

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In definitiva, valorizzando decisivamente l’art. 5 TUIR, la Suprema Corte ha trovato la via per individuare una soluzione di natura sostanziale e, dun-que, unitaria, vale a dire utilizzabile sia per la sede procedimentale, unilate-rale o consensuale, sia per la sede processuale. Ed è sufficiente ampliare i confini dell’osservazione oltre lo specifico caso del concordato di massa con-cluso dalla società di persone, ma non dai soci, per scorgere chiaramente che la Suprema Corte va completando il quadro ove, nel 2008, essa aveva dipinto come soggetto principale il connubio tra il principio di trasparenza e il litisconsorzio necessario. Infatti, allo sfondo, già delineato, dell’accerta-mento autoritativo unilaterale nei confronti delle società di persone o delle associazioni professionali

12, viene aggiunto lo sfondo compositivo e consen-suale del concordato di massa; lo sfondo, cioè, che era prima comunemente considerato incompatibile con il litisconsorzio necessario e che, dunque, ve-niva valorizzato, in senso opposto, proprio da tutti coloro i quali hanno mo- sorzio soci-società nel processo sorto dall’impugnazione dell’accertamento autoritativo ed unilaterale dell’Amministrazione finanziaria, delinea una logica argomentativa che, mentre valorizza come premessa decisiva la (natura della) questione sostanziale che alimenta la controversia, prescinde invece completamente dai profili procedimentali e processuali di questa. Così, ad esempio, nella sentenza Cass., 7 settembre 2010, n. 19137, in toto recepita dalla sentenza selezionata, si era già affermato che eventuali differenze riscontrabili nelle norme “procedimentali” dell’accertamento unilaterale o della definizione consensuale non fossero rilevanti ai fini della decisione. Ciò, perché il carattere necessario del litisconsorzio processuale soci/società non deriverebbe dalle norme procedimentali, bensì, sic et simpliciter, dalle norme “sostanziali” dettate dall’art. 5 TUIR. In effetti, questa disposizione imporreb-be che qualunque reddito societario (dichiarato o accertato o definito consensualmente ...) sia in ogni caso imputato ai soci, indipendentemente dalla percezione e proporzionalmen-te alle loro rispettive quote. D’altro canto, il predetto art. 5 proietterebbe sulla fattispecie controversa tutti i caratteri (inscindibilità e comunanza) astrattamente identificati dalle Sezioni Unite nel 2008 (e nel 2007) quali premesse logiche della necessarietà del litiscon-sorzio soci/società di persone. Alla stregua di ciò, la Suprema Corte aveva applicato al caso prescelto il principio da se medesima ricostruito nel 2008 e aveva rigettato le eccezioni dei soci non-aderenti (eccezioni, queste, fondate sia sull’inesistenza, nella versione originaria del concordato di massa, di una disposizione che ne prevedesse l’efficacia ultra societatem, sia sull’innovatività, ossia sulla non retroattività, della disposizione – l’art. 9 bis, comma 18 del D.L. n. 79/1997 – introdotta dal legislatore soltanto dopo l’avvenuta adesione della società al concordato di massa).

12 La Suprema Corte ha più volte applicato il principio ricostruito dalle Sezioni Unite del 2008 alle associazioni professionali (sentt. n. 11466/2009 e n. 12747/2009; ord. n. 24767/2010) e alle associazioni sportive (sent. n. 21190/2010). Non può essere sottaciu-to che questa progressiva espansione del litisconsorzio necessario nelle fattispecie di accer-tamento unilaterale autoritativo ha ormai raggiunto anche l’IRAP (Cass., sez. un., 20 giu-gno 2012, n. 10145).

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strato da sempre avversione concettuale nei confronti dell’applicabilità di tale istituto processuale nelle ipotesi di cui all’art. 5 TUIR

13.

3. Segue: ... problematicità delle interpretazioni dottrinali

Così, ovviamente, quest’orientamento unificante e progressivamente e-spansivo adottato dalla Suprema Corte suscita nella dottrina numerose per-plessità.

Alcune di esse, dirette e particolari, sono rivolte alla recente e innovativa estensione del principio del litisconsorzio necessario ai casi nei quali la so-cietà di persone abbia aderito alla definizione consensuale del proprio red-dito e i soci siano, invece, rimasti inerti. Altre perplessità, indirette e genera-li, concernono invece la premessa dalla quale quest’estensione è ricavata, ossia l’implicazione giurisprudenziale tra l’art. 5 TUIR e il litisconsorzio ne-cessario

14. Dal primo punto di vista si osserva che questa implicazione potrebbe

non essere ammissibile nei casi nei quali una parte dei soci avesse aderito alla definizione agevolata. Si fa notare, infatti, che i soci aderenti, avendo definito la propria posizione personale, non avrebbero alcun interesse a partecipare a un ipotetico processo attivato dai soci non-aderenti; tanto più che (sotto l’egida della pronuncia Sezioni Unite del 2008) quel pro-cesso, già (ex lege) superato, non potrebbe mai restituire loro quanto essi

13 Nella giurisprudenza rimane, invece, fermamente espunto da quel quadro di cui è detto nel testo l’accertamento della società di capitale a ristretta base azionaria non tassata per trasparenza. In quel caso, la Suprema Corte attribuisce ai soci (da tassare, ex lege, “per cassa”) i maggiori redditi accertati nei confronti della società (“per competenza”) sulla base di una presunzione semplice che dimostrerebbe l’avvenuto incasso pro-quota di tali maggiori redditi (Cass. n. 24441/2008). In queste fattispecie, l’orientamento prevalente della Su-prema Corte valorizza il carattere (supposto come) pregiudiziale dell’accertamento nei con-fronti della società e afferma la necessarietà della sospensione del processo riguardante la persona fisica (socia) sino al passaggio in giudicato dell’accertamento eseguito nei confronti della società (tra le altre, possono consultarsi: ord. n. 1867/2012; sentt. nn. 10270/2011 e 20721/2010).

14 Del resto, le sentenze sul concordato di massa delle società di persone hanno espres-samente accolto la pronuncia delle Sezioni Unite del 2008. Anzi, si è notato, l’estensione del litisconsorzio necessario al concordato di massa delle società di persone sembra un “espediente processuale” motivato soltanto da un’esigenza di coerenza metodologica con la pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 (A. RUSSO, Accertamento con adesione: riflessi sul litisconsorzio necessario, in Il Fisco, 2012, pp. 2-285).

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avessero già pagato perfezionando la definizione agevolata. D’altro canto, concentrando l’attenzione sulla disciplina procedurale del concordato di massa, e (a fortiori) dell’adesione a regime, si osserva

15 che – a differenza di quanto avviene per l’accertamento unilaterale – non è dato ravvisare di-sposizioni che pongano come condizione l’unitarietà della definizione

16. Dunque, proprio dall’art. 4, comma 2 del D.Lgs. n. 218/1997 la dottrina prevalente

17 ha tratto importanti argomenti a sostegno della tesi che (da

15 RAGUCCI, La società che ha aderito all’accertamento è litisconsorte necessario del socio dissenziente?, in Corr. trib., 2012, p. 797 ss.

16 Anzi, il rapporto tra la definizione consensuale raggiunta dalla società e la posizione fiscale del socio non aderente sarebbe posta dalla legge in termine di pregiudizialità-dipen-denza; perciò, non potrebbe esservi spazio per il litisconsorzio necessario. Le ipotesi for-mulate appaiono tutte riconducibili ad un medesimo indirizzo di fondo: quello che qualifi-ca l’adesione come “fatto di accertamento”, ritenendo tale qualificazione indispensabile per realizzare, anche nel concreto, i principi costituzionali della parità di trattamento e del-la capacità contributiva. Muovendo da tale premessa le impostazioni più decise (RANDAZ-ZO, L’accertamento con adesione dei redditi prodotti in forma associata, in Riv. dir. trib., 1998, I, p. 1161 ss.) deducono sia un vincolo (interno) a carico dell’Amministrazione finanziaria, la quale, rivolgendosi ad altri soci, non potrebbe più prescindere da una precedente ade-sione raggiunta con la (sola) società, sia un vincolo (esterno) a carico del giudice, il quale dovrebbe giudicare sulla base della prova che sarebbe costituita dalla precedente adesione. D’altro canto, si osserva (CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società: responsabilità, garanzie e tutele per la società e per i soci, in Rass. trib., 2006, p. 181 ss.) che esisterebbero vincoli (interni) a carico dell’Amministrazione finanziaria (la quale sarebbe tenuta al rispetto di criteri di razionalità e non contraddizione), mentre sarebbe più sfuma-to l’effetto nei confronti del giudice, il quale, tuttavia, non potrebbe prescindere dai conte-nuti dell’accordo, ai fini del proprio convincimento, in punto di razionalità e consequen-zialità logica. Altri (BASILAVECCHIA, Effetti dell’accertamento societario sulle rettifiche ai soci, nota critica a Cass., 29 settembre 2005, n. 19110, in Corr. trib., 2006, p. 203 ss.) negano che la definizione del reddito per adesione possa avere valore logico-probatorio, ma ne ammettono il valore logico del precedente. Nello stesso alveo ricostruttivo, si ritiene ille-gittimo (perché irrazionale e contraddittorio) un accertamento con adesione concluso su basi qualitative e/o quantitative differenti rispetto a quelle caratterizzanti un precedente accertamento con adesione concluso con altro soggetto interessato alla medesima fattispe-cie sostanziale. Con l’unica eccezione espressa da chi ha ritenuto ammissibile una seconda adesione non vincolata ad una adesione precedente laddove siano sopravvenuti nuovi elementi di conoscenza (MICCINESI, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, p. 16).

17 Si vedano, fra gli altri, FRANSONI, Giudicato tributario e attività dell’Amministrazione finanziaria, Milano, 2001, p. 345 ss.; CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società, cit., p. 171 ss.; BELLÉ, Il processo tributario con pluralità di parti, Torino, 2002; COPPA, L’accertamento dei redditi prodotti in forma associata tra principio di trasparenza e garanzia del diritto di difesa, in Rass. trib., n. 2, 2008, p. 413 ss., e quelli degli Autori ivi citati.

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tempo) esclude il litisconsorzio necessario tra soci e società “trasparen-te”

18. Ma l’apparente chiarezza del testo normativo non ha evitato che studiosi e operatori del diritto venissero a trovarsi di fronte a numerose questioni teoriche e pratiche tuttora aperte

19. Le maggiori perplessità sono quelle mosse dal secondo punto di vista:

quello della premessa logica, ossia la sentenza delle Sezioni Unite del 2008. L’economia di questa ricerca non consente un approfondimento propor-zionato all’importanza dei temi esaminati da tale pronuncia

20 e alla dimen-sione del dibattito dottrinale che essi tradizionalmente suscitano. Tuttavia, è palese che la riedificazione operata dalle Sezioni Unite non appare condi-zionata dal dibattito dogmatico relativo alla natura e all’oggetto del proces-so tributario

21. Tanto che, apparentemente, nessuna delle due storiche ma-cro concettualizzazioni (costitutiva o dichiarativa) risulta nettamente prefe-rita all’altra e si perpetua la nota dialettica dottrinale (tra favorevoli e con-

18 V., per tutti, TESAURO, Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, p. 100 ss.; ID., L’Accertamento “unitario” dei redditi delle società di persone, in Boll. trib., 1979, p. 437 ss.; BASILAVECCHIA, Il principio di trasparenza nell’accertamento unitario nei giudizi autonomi, in Corr. trib., 2001, p. 1165; ID., Effetti dell’accertamento societario sulle rettifiche ai soci, cit., p. 203 ss.

19 Così, gli studiosi, replicando discorsi elaborati per l’obbligazione solidale, s’interro-gano sulla coerenza costituzionale del citato art. 4, laddove questa norma sembrerebbe le-gittimare (ingiustamente) che il soggetto non convocato possa subire la perdita della chan-ce di conseguire l’effetto premiale dell’adesione. Tanto che, da ultimo, parte della dottrina, sensibilizzata dal recente orientamento delineato dalla Suprema Corte, è giunta a conside-rare la disposizione in esame non idonea a porre in discussione il dogma del litisconsorzio necessario. In tal senso, FICARI, L’evoluzione delle vicende processuali dei rapporti tra soci e società trasparenti, in Rass. trib., n. 4, 2007, p. 1132 ss. e FRASCA, Intorno al litisconsorzio ne-cessario nel processo tributario (riflessioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite n. 1052/2007 con riguardo alle controversie sulla imputazione al socio di società di persone del reddito della società), in Riv. dir. trib., 2008, p. 113 ss. In senso contrario, si ribadisce che proprio l’eccessiva valorizzazione del dogma dell’accertamento unitario dei redditi prodotti in forma associata “avrebbe fatto velo alla Corte”, che non avrebbe tenuto in considerazio-ne gli effetti estintivi dell’obbligazione già conseguiti dai soci aderenti (RAGUCCI, op. cit., p. 797 ss.) e/o non avrebbe pienamente valutato la tendenziale intangibilità delle definizioni consensuali correttamente perfezionate (A. RUSSO, Cass., 27145 del 16 dicembre 2011 – Ac-certamento con adesione: riflessi sul litisconsorzio necessario, in Il Fisco, 2012, p. 285 ss.).

20 Riguardo all’importanza della sentenza, che sarebbe frutto di uno sforzo immane, v. BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un assetto stabile, in Corr. trib., 2008, p. 2270; ID., La tendenza al processo unico per i redditi prodotti in forma associata, in Dialoghi trib., 2008, p. 36; LUPI, Rettifiche del reddito delle società di persone ed unitarietà del giudizio, ivi, p. 30.

21 Da questo punto di vista, com’è stato osservato, essa sembra concentrarsi piuttosto sul diritto positivo (BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un assetto stabile, cit.).

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trari al litisconsorzio necessario) condotta da punti di vista diversi nei nu-merosi contributi

22. Frequenti, e molto ampi, appaiono gli approfondimenti nei quali si se-

gnalano sia le coerenze o le incoerenze dei medi interpretativi, sia le loro conseguenze (vuoi nella prospettiva sostanziale, vuoi nella prospettiva pro-cedimentale e/o processuale)

23.

22 Non di meno, la sentenza de qua rimane fermamente ancorata ad altre (dibattute) concezioni dogmatiche. Quali, ad esempio, quelle attinenti la “giustizia dell’imposizione”, l’uniformità delle sentenze, l’unitarietà e/o l’inscindibilità dell’elemento sostanziale impo-nibile e/o del ricorso tributario ... Infatti, la Suprema Corte, descrivendo la logica interpre-tativa sottesa al suo argomentare (evitare il contrasto di giudicati e, così, conseguire pro-cessualmente la “giustizia dell’imposizione” in situazioni ritenute unitariamente plurisog-gettive e/o inscindibili) dimostra di aver inteso riferirsi maggiormente ad uno dei due orien-tamenti dottrinali: quello che, per le ipotesi in discorso, aveva auspicato da tempo l’appli-cazione del litisconsorzio necessario, considerandolo la soluzione preferibile, anzi, l’unica soluzione coerente con i principi di cui agli artt. 3 e 53 (per la tesi che ritiene imprescindi-bile il litisconsorzio necessario sia nella fase di accertamento, sia nella successiva fase pro-cessuale, si veda P. RUSSO, (voce) Processo tributario, in Enc. dir., XXXVI, 1987; P. RUSSO-FRANSONI, Accertamento dei redditi di società di persone e riflessi processuali. Non ancora sopi-ta la vexata quaestio, in Il Fisco, 2002, p. 5420. In particolare, con riferimento, alla fattispe-cie della trasparenza fiscale, oltre agli Autori appena citati, si vedano BORIA, Il principio di trasparenza nell’imposizione delle società di persone, Milano, 1996, p. 305; CASTALDI, Art. 14, in AA.VV., Il nuovo processo tributario. Commentario, a cura di Baglione-Menchini-Mic-cinesi, Milano, 1997; ALTIERI, Accertamento nei confronti di società di persone e soci nel pro-cesso tributario: litisconsorzio necessario?, in Il Fisco, 2003, p. 642; FICARI, L’evoluzione delle vicende processuali, cit., p. 1139 ss.). D’altro canto, la numerosità e il rilievo delle perplessità manifestate nei confronti della sentenza del 2008 dai sostenitori dell’orientamento oppo-sto lascia pensare ad un dibattito ben difficilmente riconducibile ad unità (molto interes-sante è il quadro completo della problematica elaborato da MUSCARÀ, L’eterogenea vicenda del litisconsorzio necessario: urgenze organizzative delle Commissioni tributarie e primi “ravve-dimenti operosi” della Cassazione ai fini della decongestione dello scaturente contenzioso, in Riv. dir. trib., 2011, p. 3 ss.). Particolarmente intense, tra le molte altre, appaiono le osser-vazioni critiche di GLENDI, Le SS.UU. della Suprema Corte s’immergono ancora nel gorgo del litisconsorzio necessario, in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 993 e di NUSSI, A proposito di accerta-mento unitario del reddito delle società di persone e litisconsorzio necessario (verso un processo tributario sulle questioni?), in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 758 ss.

23 Da questo punto di vista, in senso favorevole alla pronuncia, si evidenzia che, finalmen-te, si sarebbe pervenuti a riconoscere che l’unitarietà della base imponibile, o la pregiudiziali-tà dell’elemento unitario, concernente più soggetti, almeno uno dei quali coinvolto in una lite tributaria attuale o potenziale, implichino il litisconsorzio necessario come strumento lo-gicamente indispensabile o, almeno, opportuno (rectius: “lo” strumento più opportuno) per-ché preferibile ad ogni altro, stante anche la sua coerenza ermeneutica con le norme sostan-ziali (art. 5 TUIR) e procedimentali (art. 40 D.P.R. n. 600/1973). In tal senso, FICARI, Liti-sconsorzio necessario tra novità giurisprudenziali e fattispecie tributarie, in Giust. trib., 2008, ad

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Più rare, e meno estese, appaiono, invece, le analisi e le repliche svolte sui presupposti logici e normativi sia sul piano, astratto, della soggettività tribu- avviso del quale detta soluzione troverebbe fondamento innanzitutto sull’identificazione di «quale sia il vero titolare della capacità contributiva che si manifesta attraverso l’esercizio di un’impresa commerciale adottando il modello societario trasparente» e anche, tra l’altro, sulla considerazione per cui «se non si ammettesse un litisconsorzio necessario del socio nel giudizio relativo all’accertamento in capo alla società, si dovrebbe, allora, ritenere che il socio, sebbene destinatario di una procedura di accertamento unitaria, tale per cui lo stesso do-vrebbe ricevere l’avviso di rettifica sia del reddito complessivo che di quello dallo stesso di-chiarato a seguito dell’imputazione per trasparenza, debba essere protagonista di un proces-so con esiti processuali potenzialmente diversi da quello relativo al maggior reddito della so-cietà». Sarebbe, insomma, la quasi «contitolarità della capacità contributiva», o meglio «la pluralità di centri di imputazione di effetti sia sostanziali che formali» a rendere «la situazio-ne giuridica del socio dipendente da quella della società trasparente»... e perciò «bisognosa di essere resa nel pieno rispetto della regola audita altera parte» (tenuto anche conto del fat-to, precisa l’Autore, che sarebbe la società l’unico soggetto in possesso dei mezzi di prova utili alla difesa). Nel senso che, stante l’inammissibilità della c.d. motivazione per relationem (in argomento, ad es., Cass., 4 giugno 2007, n. 12997 e Cass., 15 giugno 2007, n. 14011 entram-be in Corr. trib., 2007, con nota di COPPA), il litisconsorzio necessario sarebbe preferibile sia rispetto alla sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., sia rispetto alla riunione ex art. 29, D.Lgs. n. 546/1992, si riscontra anche autorevole parte della dottrina che per altri versi deli-nea perplessità sulla sentenza del 2008. Tra costoro, in particolare, si veda BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un assetto stabile, cit.

Dallo stesso punto di vista, ma in senso contrario alla sentenza del 2008, si osserva, tra l’altro, che si tratterebbe comunque di un litisconsorzio necessario propter opportunitatem (in questi termini, già in precedenza, con ampi riferimenti ed argomenti, v. COPPA, op. cit., p. 982, la quale considerava il litisconsorzio soci-società di persone non necessario, ma facolta-tivo). Tale tipo di litisconsorzio necessario sarebbe statuito in ragione di un interesse astrat-tamente condivisibile (evitare giudicati contrastanti) ma implicante, in concreto, svantaggi superiori ai vantaggi (MUSCARÀ, op. cit., p. 30 ss., in part. 31 ss.; RAGUCCI, op. cit.; GLENDI, Le SS.UU. della Suprema Corte s’immergono ancora nel gorgo del litisconsorzio necessario, cit.; RASI, La tassazione per trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria. Profili rico-struttivi di un modello impositivo, Padova, 2012, p. 290 ss.; ZANETTI, L’unicità dell’accertamen-to e del reddito (e del rapporto tributario sostanziale) nelle società di persone, in Dir. prat. trib., 2009). A fortiori, se esaminato alla luce delle deroghe normativamente ammesse dalle stesse Sezioni Unite oltre i casi logicamente giustificabili in funzione del medesimo interesse. La Suprema Corte ritiene ovviamente giustificabili, alla luce di quell’interesse, le deroghe al liti-sconsorzio necessario correlabili a situazioni nelle quali sono sollevate eccezioni formali o eccezioni personali e/o legate alla misura della quota di partecipazione. Neppure sussiste-rebbe l’ex adverso valorizzata coerenza ermeneutica con le norme sostanziali dell’art. 5 TUIR, e con quelle procedimentali dell’art. 40, D.P.R. n. 600/1973 (così, NUSSI, op. cit.). Anzi, il liti-sconsorzio necessario rischierebbe di tradursi in un vantaggio indebito per l’Amministrazio-ne finanziaria che, pur essendo interessata, non sarebbe tuttavia onerata (ex lege) a realizzare una piena integrazione del contraddittorio (così, CARINCI, L’accertamento del reddito delle società tassate per trasparenza, tra litisconsorzio necessario ed efficacia ultra partes del giudicato, nota a Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815, in Giur. imp., n. 4, 2008).

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taria e/o dell’inscindibilità tra più soggetti del fatto-indice di capacità con-tributiva, sia sul piano, concreto, dell’accertamento o della composizione – in sede procedimentale o in sede processuale – dell’esistenza e/o della dimen-sione di tale fatto)

24.

4. Analisi critica e ipotesi ricostruttiva

4.1. Piano genetico-sostanziale

4.1.1. ‘Ragione di divisibilità’ del “tutti” e concetto di contribuente (‘uno tribu-tario’) nella parte ‘scientifica’ dell’art. 53 Cost. Una delle ipotesi propedeutiche allo sviluppo di un’analisi sul recente

indirizzo giurisprudenziale che collega il litisconsorzio necessario all’art. 5 TUIR concerne il concetto di soggetto passivo d’imposta

25 e, in particolare, quello di soggetto passivo nella disciplina delle imposte sui redditi

26. Occorre, dunque, affrontare il “problema del Soggetto”, e occorre farlo

nella prospettiva, esclusivamente tributaria, nella quale ci s’interroga riguar-

24 Da questo differente punto di vista, si segnala che, rispetto alle imposte sui redditi, non esisterebbero né il nesso inscindibile, né la situazione comune ai quali si fa riferimento nel-la nota sentenza del 2008 e si ribadisce rigorosamente che, tanto meno, esisterebbe pre-giudizialità-dipendenza tra il reddito della società di persone e quello dei soci (così, NUSSI, op. cit.; GLENDI, Le SS.UU. della Suprema Corte s’immergono ancora nel gorgo del litisconsor-zio necessario, cit.).

25 Nozione, questa, qui intesa, in considerazione dello specifico oggetto della ricerca, come prestazione patrimoniale imposta (ex art. 23 Cost.) sicuramente sindacabile ex art. 53 Cost. Ove, invece, si fosse analizzato anche l’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte diverse dalle imposte, l’analisi avrebbe richiesto altri approfondimenti e ulteriori specificazioni.

26 In effetti, se all’imposta in genere (e, in particolare, alle imposte sui redditi) inerisce non il diritto reale (esercitabile immediatamente nei confronti di tutti), ma il diritto di credi-to (realizzabile per il tramite del comportamento del debitore), qualunque discorso sul liti-sconsorzio necessario (sulla c.d. “contitolarità della capacità contributiva”, sul “presupposto unitario plurisoggettivo”, ecc.) implica, in ambito tributario, la previa fissazione del concetto di soggetto passivo in senso stretto (ossia del concetto di “contribuente”). Senza il tramite di un altro soggetto il credito tributario non può sorgere in alcun modo, neppure nei casi limite in cui resti determinato dalla cosa o inerisca ad una cosa. Da un lato perché, in queste ipotesi, dell’adempimento risponde non soltanto quella particolare cosa da cui il credito dipende, ma l’insieme delle cose che compongono il patrimonio dell’obbligato. Da un altro lato, soprat-tutto, perché, venuta meno la concezione arcaica del tributo come “quota” del reale apparte-nente a un’entità sovraordinata, la costituzionalità di qualunque imposta (e, a fortiori, di quel-la sui redditi) non può prescindere da un’idoneità astratta (la capacità contributiva) che è qualità del soggetto e non della cosa (o non solo della cosa).

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do al ‘chi?’ (“soggetto passivo di imposta in senso stretto” o “contribuente”) giustifichi la ‘corrispondenza’ costituzionale della legge che disciplina il tri-buto

27. Così, si scorge immediatamente che proprio la ‘corrispondenza’ (rec-tius: la “verità = corrispondenza”) costituisce la ratio della ‘norma d’uso’ che l’art. 53 consegna, innanzi tutto, all’interprete di essa

28. Più in particolare, la logica del collegamento esistente tra i due termini soggettivi (“tutti” e “loro”) presenti nell’espressione che identifica la funzione dell’art. 53 è quella della ‘corrispondenza’. L’algoritmo è la bidirezionale univocità del legame che in una (giuridicamente giusta) legge d’imposta deve intercorrere tra ciascun ele-mento dell’insieme ‘tutti i contribuenti’ e ciascun elemento dell’insieme ‘loro capacità contributive’.

Ecco allora, forse, la ratio 29 alla quale deve costituzionalmente informarsi

la legge d’imposta: ‘... da ciascuno il suo ...’ 30.

Questa costituzionale ‘ragione di divisibilità’ di “tutti” (... in ragione della loro capacità contributiva ...) in ‘uni’, qualificati o qualificabili, sembra pro-prio ciò che assicura anche il rispetto degli artt. 2 e 3 Cost. e, al tempo stesso, giustifica l’ampiezza del concetto di “contribuente”

31: la Costituzione inca-

27 Prospettiva, questa, da tener distinta da quella, di diritto comune (e quindi anche fi-scale), nella quale ci s’interroga riguardo al ‘chi?’ (soggetto passivo di imposta in senso lato: contribuente o sostituto o responsabile o accollante ...) debba rispondere dell’adempimento legale o convenzionale del tributo.

28 In effetti, mentre altre parti di questa disposizione (ad es.: il concetto di capacità contributiva), imponendo canoni ermeneutici di ‘coerenza’ o di ‘consenso’ (rectius: “verità = coerenza” o “verità = consenso”), svelano il carattere di ragionevolezza che ne identifica l’‘eticità’, la parte specificamente dedicata al parametro soggettivo (che è parametro di giu-stizia delle leggi tributarie determinative dell’an e del quantum del concorso di ognuno alle pubbliche spese) svela il carattere di razionalità che ne identifica la ‘scientificità’.

29 Ossia, scegliere o predeterminare i criteri in base ai quali scegliere tra “tutti” non una categoria di ‘uni’ qualsiasi, perché semplicemente esistenti (come tali appartenenti a “tutti”), ma solo ed esclusivamente gli ‘uni’ collegati (o collegabili) biunivocamente, in ogni fatti-specie astratta, ai rispettivi ed unitari fatti-indice ritenuti, sempre in astratto, espressivi di capacità contributiva.

30 Ottenibile, mutatis mutandis, traslando e rovesciando il processuale «... suum cuique tribuere», o trasponendo in quest’ambito il sanzionatorio «... peccata suos tenenat auctores ...». La formula costruita nel testo (‘... da ciascuno il suo ...’) è volutamente imprecisa perché es-sa, pur forzando quella che sarebbe qui più pertinente (‘... da ciascuno in ragione del suo ...’), appare tuttavia più conveniente ed efficace dal punto di visto ermeneutico. Infatti, inten-dendosi proporre nelle pagine che seguono il raffronto di essa con la formula tradizionale che esprime una situazione giuridica simile ma rovesciata («... a ciascuno il suo ...»), si sa-rebbe altrimenti complicato il discorso, dovendosi rivisitare anche quest’ultima formula nel-l’altra, teoricamente corretta, ‘... a ciascuno in ragione del suo ...’).

31 In effetti, è proprio la peculiare, ulteriore, attitudine a dipendere, geneticamente e mor-

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rica la legge di rendere concreto il ‘tutti i contribuenti’, astrattamente delinea-to dall’art. 53

32, tramite l’inserimento in quell’insieme di ‘uni’ determinati (o determinabili) univocamente in dipendenza di entità (‘unità’) previamente attribuite, dallo stesso legislatore, alla variabile (indipendente) delle ‘loro ca-pacità contributive’

33. A prescindere, dunque, dal fatto che, di volta in volta, si determinino o no ‘uni’ eguali a quelli civilistici o ‘uni’ solo in parte eguali a quelli civilistici.

In sintesi, la ‘scientificità’ della parte soggettiva dell’art. 53 non lascia al le-gislatore spazi discrezionali, rendendo ad esso indisponibile la facoltà di in-trodurre un tributo la cui obbligazione possa sorgere in capo ad un ‘uno’ di-verso da quell’‘uno’ al quale è univocamente riferibile una unità dell’indice di capacità contributiva che giustifica l’imposta (‘unità dell’indice di capacità contributiva’). Tra ciascun ‘uno’ appartenente all’insieme ‘tutti i contribuenti’ e ‘ciascuna unità dell’indice di capacità contributiva’ appartenente all’insieme ‘loro capacità contributive’ deve sussistere un nesso univoco. E viceversa

34. È questo il solo nesso idoneo a consentire che si realizzi la logica ‘... da ciascuno il suo ...’ (= pari trattamento sostanziale) che caratterizza l’intero fenomeno dell’imposta

35. fologicamente, dal se e dal modo con il quale certi fatti predeterminati dalla legge possano rea-lizzarsi e si realizzino effettivamente, a rendere possibile, in base alla predetta funzione costitu-zionale, l’entrata nel concetto “tutti” di alcuni ‘uni’ o l’uscita da quel concetto di altri ‘uni’, così come le modificazioni tipologiche, talvolta unenti, talvolta scindenti, di ulteriori ‘uni’.

32 Che è sempre legislativamente astratto. 33 In ciò ed esclusivamente in ciò (ossia nella mera antecedenza logica – e, si badi, solo re-

lativa, parziale e complementare – dell’oggetto, rispetto al soggetto), sembrerebbe appunta-bile (diversamente da quanto, invece, ritiene autorevolissima dottrina in materia) una possi-bile (ma appunto, soltanto relativa, parziale e complementare) descrizione (giammai eleva-bile a caratterizzazione autosufficiente) in termini oggettivi della capacità contributiva.

34 Si tratta dell’ipotesi ricostruttiva già delineata, in via parziale ed embrionale, nel cor-so della ricerca condotta sulla soggettività del consolidato fiscale nazionale (VERSIGLIONI, Indeterminazione e determinabilità della soggettività passiva del consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2005).

35 L’univoca riferibilità a ciascuno del ‘suo’ indice è, infatti, la premessa qualitativa (lo-gica e normativa) necessaria della scindibilità (= misurabilità) della quantità del concorso di ciascuno (variabile dipendente) in ragione della scindibilità (= misurabilità) della sua idoneità al concorso (variabile indipendente). Ma i due piani, quello qualitativo e quello quantitativo, sono logicamente e normativamente distinti (e tali il legislatore dovrebbe mantenerli) poiché differenti sono le ‘ragioni di divisibilità’ che li caratterizzano. Mentre il profilo soggettivo del ‘suo’ (il soggetto) può essere relativamente inscindibile (la persona fisica) o scindibile (l’ente giuridico), il profilo oggettivo del ‘suo’ (la capacità) è scindibile, tanto che l’unitarietà (inscindibilità) dell’oggetto è solo normativa, ossia è mera conseguenza

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4.1.2. Segue: divisione, ‘unità’ e ‘uni’ nella disciplina delle imposte sui redditi Scendendo al piano della legislazione, e in particolare, a quello della di-

sciplina delle imposte sui redditi, può dunque ritenersi che i canoni costitu-zionali sono rispettati se le fattispecie impositive astratte siano caratterizzate dall’attitudine ad innescare la genesi del tributo solo al verificarsi di situa-zioni nelle quali sia univoco il collegamento tra un ‘uno’ appartenente al “tutti” ed il ‘suo’ reddito unitario (rectius: e la ‘sua unità’ di reddito).

In alcuni casi, la giuridica giustizia della legge è verificabile semplicemen-te poiché questa si limita ad esplicitare il canone di univoca riferibilità e si astiene dal predeterminare i singoli collegamenti biunivoci

36. In molti altri casi, tuttavia, l’esigenza di certezza spinge il legislatore ad applicare concre-tamente il canone costituzionale e, dunque, a predeterminare (in tutto o in parte) il profilo soggettivo delle fattispecie d’imposta

37. Esaminando, dunque, l’art. 5 TUIR, che è esempio di questa seconda ca-

tegoria di casi, si dovrebbe preliminarmente verificare se tale disposizione sia ‘vera’; se, cioè, l’apparente scissione operata in concreto dal legislatore (dall’ente collettivo civilisticamente inteso ai singoli partecipanti) corri-sponda al (o sia almeno coerente con il) predetto canone costituzionale.

Pur essendo necessario limitare il discorso, si può in ogni caso ricordare che la Corte costituzionale ha implicitamente ritenuto l’art. 5 TUIR coeren-te con l’art. 53; a patto, però, che la disposizione sia interpretata conforme- di una decisione legislativa di sospendere la logica divisibilità, bloccando volutamente, in un punto ritenuto opportuno, il processo della divisione e, così, predeterminando le ‘unità’ dell’oggetto singolarmente riferibili agli ‘uni’. Perciò, quello che più (rectius: quello che unicamente) rileva sul piano costituzionale è l’univocità del collegamento tra l’unitarietà dell’oggetto e l’unitarietà del soggetto cui quell’oggetto unitario è riferibile (ossia la ‘ragio-ne di divisibilità’ che li deve unire: ‘ ... da ciascuno il suo ...’).

36 In questi casi, la legge prefigura un insieme aperto, ma contenuto nel “tutti”, nel qua-le la soggettività passiva, sia che rimanga inalterata, sia che venga alterata, per fusione o per scissione, dipende dal se e dal modo, entrambi predeterminati, con cui certi fatti giuridici, anch’essi predeterminati, abbiano a verificarsi nel concreto (in uno: quando la soggettività passiva di imposta non è determinata, ma è determinabile). In questi casi, dei quali è emble-ma la disposizione “residuale” contenuta nell’art. 73 TUIR, il canone di giustizia (= verità) della legge è costituito dalla sussumibilità (o dalla riconducibilità) del criterio di determi-nabilità positivizzato dal legislatore in quello costituzionale (‘ragione di divisibilità’).

37 In questi casi, dei quali è esempio l’art. 5 TUIR, la legge tributaria recepisce le tipo-logie civilistiche e, laddove le ritiene per certi versi inadeguate, le modifica al fine di rispet-tare l’art. 53; qui, il canone di ‘giustizia’ della legge (= verità) è costituito dalla ‘corrispon-denza’ (o dalla ‘coerenza’) della concretizzazione positivizzata dal legislatore con il canone costituzionale della soggettività passiva d’imposta (‘ragione di divisibilità’).

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mente al principio secondo il quale all’attribuzione di responsabilità ad un soggetto dell’ordinamento (in questo il caso, il socio) si accompagni, come suo “diritto inviolabile”, il diritto di avvalersi della tutela prevista dall’art. 24 Cost. In definitiva, la Corte costituzionale ha subordinato il proprio positivo giudizio sull’art. 5 TUIR al riconoscimento del pieno diritto di difesa del so-cio; ciò, in considerazione della (ritenuta) natura presuntiva dell’asserto le-gislativo che considera logica (ossia ‘vera’) l’univocità del collegamento tra il socio e la ‘sua’ quota unitaria del reddito prodotto da una società di persone e, invece, non logica (ossia ‘non-vera’) l’univocità del collegamento tra la so-cietà di persone e il suo reddito unitario

38. Discutibile o no

39, la posizione della Corte costituzionale sulla disciplina tributaria della società di persone

40 sembra confermare l’ipotesi ricostrutti-va sin qui esposta

41. Messi per ora in disparte i pur paventabili dubbi di le-

38 La Corte, infatti, sembra riscontrare nell’imperfezione dell’autonomia patrimoniale delle società di persone l’elemento fondante la verità (almeno ‘etica’) della tesi affermata dal legislatore, ad avviso del quale, da un lato, non esisterebbe un’effettiva capacità unitaria della società di persone di possedere, dominare, gestire o trattenere il reddito da sé mede-sima prodotto (che perciò non sarebbe ‘suo’) e, dall’altro, esisterebbe un’effettiva capacità unitaria dei singoli soci di possedere, dominare, gestire o trattenere le quote unitarie di reddito da partecipazione nella società (che, perciò, sarebbero ‘loro’).

39 In effetti, appare almeno opinabile la ‘descrizione fatta norma’ dall’art. 5 TUIR perché è controvertibile da molteplici punti di vista la corrispondenza al vero della convinzione legislativa che esclude l’esistenza dell’univoca riferibilità alla (sola) società di persone (re-sidente!) dell’unitario indice di capacità contributiva costituito dal reddito d’impresa. In altri termini, pur non potendo qui nemmeno sfiorare il tema (‘controvertibile eticamente’), forse le difficoltà ermeneutiche che dottrina e giurisprudenza incontrano da decenni nella ricostruzione della fase dinamica della trasparenza rispetto al fine di verità (la c.d. “giusta imposizione”) potrebbero derivare, in realtà, anche, se non soprattutto, proprio dalla pos-sibile falsità (‘etica’) originale presente sul piano sostanziale. Falsità che, laddove esistesse, e laddove fosse accertata, implicherebbe un revirement legislativo, ma che, sino allora, non dovrebbe influenzare (come, invece, talvolta sembra accadere) la ricerca, sulla premessa della verità di quella ‘descrizione fatta norma’, della ‘giusta attuazione’ di essa al concreto.

40 Del resto coerente con quella, precedente, del Consiglio di Stato che, con il Parere 17 gennaio 1984, n. 68, affermava la necessità di un procedimento contenzioso per ciascuno dei soci o di un procedimento in cui sia intervenuto ciascun singolo socio (in caso di impugna-zione) o la necessità dell’avvenuto inutile decorso del termine di decadenza (in caso di non impugnazione) e, dunque, implicitamente escludeva qualunque effetto automatico di tipo liquidatorio derivante dal c.d. “atto di accertamento unitario” (ILOR e IRPEF).

41 Così, ai fini IVA o ai fini IRAP, la società di persone è un ‘uno’ appartenente al “tutti” perché, secondo il legislatore, esisterebbe, ai fini di quelle imposte, un ‘suo’ unitario, ad es-so univocamente riferibile. Nelle imposte sui redditi, invece, la società di persone residente non è un ‘uno’ compreso nel “tutti” perché, sempre ad avviso del legislatore, non esistereb-be, ai fini di queste imposte, un ‘suo’ unitario, ad essa univocamente riferibile.

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gittimità costituzionale 42, l’art. 5 TUIR sembra però dimostrare: che il legi-

slatore ha ritenuto reale la situazione nella quale una ‘unità dell’indice di ca-pacità contributiva’ collegabile univocamente ad un ‘uno’ sussisterebbe sol-tanto rispetto al reddito posseduto da ciascun socio (quale unico risultato esatto della ‘ragione di divisibilità’ e, dunque, l’unica divisione possibile); che, dunque, il legislatore ha posto tale ‘unità’ (variabile indipendente) nella fun-zione data dall’art. 53, e, conseguentemente, ha compreso nel “tutti” (variabi-le dipendente) solo chi effettivamente poteva esservi compreso, ossia ciascun socio della società di persone residente, quale solo soggetto cui, alla luce di tale valutazione presuntiva (rectius: descrittiva), sarebbe univocamente rife-ribile il ‘suo’ unitario reddito di partecipazione.

Da tali dimostrazioni si può ricavare che l’art. 5 TUIR avrebbe tolto irre-versibilmente rilevanza giuridica al risultato, complessivo, ottenibile somman-do (ex post) i redditi unitariamente imputabili (e sol per questo riferibili) a ciascun socio

43. Quel risultato complessivo sarebbe stato, infatti, confinato (ex lege) in un piano ininfluente ai fini della genesi dell’effetto giuridico (sia in astratto, sia in concreto).

4.1.3. Segue: assenza sul piano genetico-sostanziale dei presupposti del litiscon-sorzio necessario soci-società di persone Alla luce di queste premesse emergono molteplici dubbi riguardo a uno

dei due principali argomenti sui quali si basa la citata sent. n. 14815/2008, vale a dire, l’affermata sussistenza e rilevanza, a livello pre-processuale, di profili di comunanza o d’inscindibilità tali da legittimare (per via logica o na-turale) il litisconsorzio necessario.

42 Se quella logica fosse vera, allora, tra l’altro, potrebbe apparire inspiegabile perché non dovrebbe esserlo più, laddove la società di persone è fiscalmente non residente in Ita-lia. Com’è noto, in quest’ultimo caso, il legislatore considera la società di persone un ‘uno tributario’.

43 In altre parole, il legislatore ha posto nell’irrilevanza assoluta, sia al livello dei pre-supposti, sia a quello delle basi imponibili, la prospettiva di un risultato unitario (eppur possibile perché ottenibile a posteriori tramite somma delle singole unità riferibili a ciascun socio). Mutatis mutandis il legislatore pare aver conferito a tale risultato (micro economico), ideale, un’irrilevanza giuridica analoga a quella che, sempre il legislatore, attribuisce al ri-sultato di altra somma, anch’essa ideale, qual è quella, a carattere nazionale, di tutte le ‘unità’ di capacità contributiva univocamente riferite o riferibili ai singoli ‘uni’ compresi nel “tutti”; risultato (macro economico) eppur possibile ma, anch’esso, assolutamente irrilevante sul piano giuridico.

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Esaminando come l’indirizzo giurisprudenziale pro litisconsorzio si sia sviluppato, si nota che l’origine di quest’impostazione sembra doversi cogliere nella sent. n. 1052/2007 dove analoga conclusione – favorevole al litiscon-sorzio necessario – era stata tratta dalle Sezioni Unite rispetto al caso della coobbligazione solidale paritetica

44. Persino un’osservazione superficiale della sent. n. 1052/2007

45 lascia ritenere che, in punto di metodo, il predet-to condizionamento, per così dire “analogico”, non avrebbe avuto ragione di porsi

46 e che, soprattutto, quanto al merito (almeno nella traslazione fattane

44 In effetti, questa sentenza, avendo condizionato quella del 2008, ha indirettamente contribuito alla formazione della decisione dalla quale si è partiti (Cass. n. 27145/2010). Sicché, non è possibile prescindere dall’esaminare quel precedente iniziale; tanto più che esso ha continuato ad influenzare i successivi pronunciamenti della Suprema Corte.

45 Per un approfondimento dei temi trattati nella sentenza, svolto in senso critico rispetto alla soluzione indicata dalle Sezioni Unite, si vedano GLENDI, Le SS. UU. della Suprema Corte officiano i “funerali” della solidarietà tributaria, in Giust. trib., 2007, p. 189 ss.; RANDAZZO, Liti-sconsorzio necessario tra condebitori d’imposta sugli atti di divisione, in Corr. trib., 2007, p. 1003. Invece, in senso adesivo e fortemente valorizzante il litisconsorzio necessario ritenuto, così come descritto dalla Suprema Corte, “strumento sapiente”... «forgiato appositamente al fine di risolvere lo specifico problema (fiscale) di equo riparto provocato dal presupposto unita-rio plurisoggettivo», FALSITTA, Presupposto unitario plurisoggettivo, giusto riparto e litisconsor-zio necessario nella solidarietà passiva tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, II, p. 174 ss. Pur non potendo dedicare al commento di tale pronuncia uno spazio proporzionato alla sua impor-tanza, val solo la pena osservare che essa appare confortare l’ipotesi sviluppata in questo lavo-ro almeno nella parte nella quale essa condiziona l’applicabilità dell’art. 14, D.Lgs. n. 546/ 1992 non già alla natura della situazione giuridica desumibile dalle norme sostanziali ma alla natura del tema controverso, per come esso risulta in atti costruito dalle parti (mediante divi-sione o mediante unione-fusione) di ragionamenti giuridici. Insomma, a prescindere dall’o-pinabilità della soluzione, stante la non condivisibile ricostruzione del concetto di “contri-buente” operata nella sentenza, interessa evidenziare la condivisibilità di tale metodo e del ri-sultato di merito ottenuto dall’attuazione di tale metodo, in punto di accertata sussistenza, in tal caso, d’inscindibilità (dovuta a fusione, ossia a ragionamento sintetico-compositivo inclu-sivo dei ‘resti’ implicati dal tipo di ragionamento utilizzato dall’Amministrazione per eseguire l’accertamento, anche alla stregua del fatto-divisorio costruito negozialmente dalle parti).

46 Essendo evidente l’assenza di omogeneità tra fattispecie sostanziale a quo (coobbli-gazione solidale paritetica ai fini dell’imposta di registro) e fattispecie sostanziale ad quem (trasparenza societaria ai fini delle imposte sul reddito): ad es., mentre la prima è caratte-rizzata, al fine dell’adempimento, da inscindibilità normativa (reversibile), la seconda, in-vece, è caratterizzata, a qualunque fine, dall’assenza d’inscindibilità (logica e normativa); mentre la prima ha ad oggetto un’imposta la cui disciplina della soggettività rimette alla disposizione privata la riferibilità (come norma negoziale) dell’unità dell’indice di capacità contributiva (all’‘uno’ o all’‘altro’ dei contraenti solidalmente obbligati), la seconda con-serva nella disposizione di legge la riferibilità dell’unità dell’indice di capacità contributiva al solo ‘uno tributario’ predeterminato (o predeterminabile) in base alla legge costruita sul-la ‘ragione di divisibilità’ ‘... da ciascuno il suo ...’.

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impropriamente ai fini delle imposte sui redditi) non sembrano condivisibili i concetti di “contitolarità della capacità contributiva” o di “fattispecie unita-ria soggettivamente complessa” che fanno da sfondo alla sentenza de qua

47. In effetti, se si condivide l’ipotizzata ‘ragione di divisibilità’ (del “tutti”),

ossia se si ammette che la funzione indicata dall’art. 53 consiste nell’univoci-tà del collegamento tra una ‘unità dell’indice di capacità contributiva’ ed un ‘uno’ del “tutti” e se si condivide il corollario di tale ipotesi, ossia la ‘divisibili-tà all’infinito’

48 della capacità contributiva (rectius: della base imponibile) in base a tale ratio, allora non risultano logicamente ammissibili né la “contito-larità della capacità contributiva”, né la “fattispecie unitaria soggettivamente complessa”. Per essere rilevante nell’ambito di una disciplina giuridicamen-te giusta, una qualunque fattispecie d’imposta deve essere invece caratteriz-zata, sul piano genetico, da ‘uni titolarità’ (rectius: da ‘uni riferibilità’) o da ‘soggettività semplice’ (rectius: da ‘uni soggettività’), essa logicamente impli-cando la previa divisione da parte del legislatore (in attuazione concreta del-la Costituzione) della capacità contributiva in parti unitarie, semplici, uni-vocamente riferibili ad ‘uni’ del “tutti” e singolarmente individuate o indivi-duabili (‘unità tributarie’)

49. Concludendo, se l’atomo è stato diviso e se le parole possono arrivare

anche là dove i numeri non riescono a giungere, ciò significa che, per quanto concerne il diritto, ben poche cose o ben pochi concetti giuridici non posso-no essere divisi o uniti sino al punto di costituire un’unità idonea a divenire riferibile univocamente ad un soggetto unitario. Tanto più se, sul piano sta-

47 In effetti, come si è osservato, la ‘logica scientifica’ che spiega il profilo soggettivo del-l’art. 53 Cost. è, coerentemente con quanto esiste in rerum natura, del tipo ‘... o è esatto o non è possibile ...’. La soggettività (rectius: la divisibilità legislativa in ‘uni tributari’) non ammette ‘resti’, a meno che, nel concreto, non sorga controversia proprio sulla determina-zione del ‘chi?’ [quale variabile dipendente nella funzione che vedesse controverso il fatto unitario (= variabile indipendente) da cui quella determinazione dipende].

48 Posti in disparte gli arrotondamenti ai millesimi di euro. 49 Se, ad esempio, s’ipotizzasse una legge che correlasse l’imposta ad una ‘unità’ di ca-

pacità contributiva plasmata (ossia divisa o unita) dal legislatore in modo tale che la stessa ‘unità’ non possa essere univocamente riferibile a ciascuno di più contitolari di essa (in ra-gione delle loro rispettive quote di titolarità civilistica), ebbene, tale legge sarebbe costitu-zionalmente legittima solo se comprendesse la comunione (nuovo soggetto tributario e-sclusivamente collegabile in modo univoco alla parte così plasmata dal legislatore) nel “tutti” astratto e al contempo escludesse dal “tutti” astratto, per quella stessa ‘unità’ di ca-pacità contributiva, i singoli contitolari di essa (con la conseguenza che, sul piano geneti-co-sostanziale, la contitolarità, civilisticamente intesa, non avrebbe alcun rilievo giuridico in ambito tributario).

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tico, ci si occupa, come fa il diritto tributario, di entità economico-patrimo-niali misurabili monetariamente. D’altro canto, è ovvio che esistono cose, cespiti o concetti indivisibili rispetto ad un certo elemento o ad una data de-stinazione ... e/o rispetto ad una certa ‘ragione di divisibilità’. Ma ciò non implica che quelle cose, quei cespiti, quei concetti non possano essere divisi rispetto ad un altro elemento o rispetto ad un’altra destinazione ... o rispetto ad un’altra ‘ragione di divisibilità’. E in ambito tributario c’è sempre (e deve esservi sempre) una ratio legislativa concreta (che attui la ratio astratta data dalla Costituzione) idonea a consentire il collegamento univoco e semplice tra un ‘uno’ e la ‘sua’ ‘unità tributaria’

50. Perciò, non convince, né in punto di metodo, né in punto di merito, la base logica cui ha fatto (indiretto e acces-sorio) affidamento la Corte di Cassazione nel 2008

51. D’altro canto, osser-vando l’art. 5 TUIR, appare evidente che la disciplina sostanziale è irrilevan-te ai fini della verifica della sussistenza dei presupposti del litisconsorzio ne-cessario

52. Sul piano genetico-sostanziale, il reddito della società di persone,

50 Esemplificando, la contitolarità tra più soggetti, civilisticamente intesi, di un cespite, persino laddove si tratti di un cespite indivisibile per destinazione (come, ad es., la famosa “cava di inerti”), non consente l’ammissibilità del concetto di “contitolarità della capacità contributiva” o del concetto di “fattispecie unitaria soggettivamente complessa” perché, ai fini del sorgere del debito tributario, l’inscindibilità relativa alla destinazione non è giuridi-camente rilevante ai fini del sorgere del tributo sul reddito. Il diritto tributario che la Costi-tuzione ci fa consegnare ammette, infatti, logicamente e normativamente due sole possibi-lità, alternative tra loro, entrambe incompatibili con la c.d. “contitolarità della capacità contributiva” o con la c.d. “complessità della fattispecie pluri-soggettiva”. Se alla contitola-rità civilistica il legislatore tributario associa una ‘ragione di divisibilità’ della capacità con-tributiva che dà per quoziente (rectius: per ‘quoto’) una parte esatta univocamente riferibi-le, pro-quota, a ciascuno dei soggetti contitolari (‘unità tributaria’), allora ciascuno di essi sarà soggetto passivo in senso stretto. Se, invece, alla contitolarità civilistica il legislatore tributario associa una ‘ragione di divisibilità’ della capacità contributiva che non dà (o non può dare) alcun quoziente esatto (‘quoto’) e, dunque, l’intera parte mantiene la sua unita-rietà inscindibile, allora è solo la comunione (come nuovo ente) a ricevere lo status di sog-getto passivo in senso stretto. La ‘scientificità’ di questa parte dell’art. 53 sembra implicare univocamente che: tertium non datur.

51 Non sembra, in definitiva, che dalla disciplina sostanziale della coobbligazione solidale paritetica possano desumersi argomenti a favore del litisconsorzio necessario né per le liti che possano sorgere tra il fisco ed uno o più contitolari di un cespite solidalmente coobbligati al pagamento dell’imposta di registro né, a fortiori, per quelle che possano sorgere tra il fisco e i soci e/o la società di persone con riferimento ai redditi di cui all’art. 5. TUIR.

52 In effetti, come si è visto, l’art. 5 TUIR sembra, sotto le condizioni anzidette, una norma ‘vera’ perché il socio di società di persone è entità della variabile contribuente che rende vera l’equazione posta dall’art. 53 Cost. (contribuente = ‘uno’ dei “tutti” tenuti a concorrere alle pubbliche spese “in ragione della loro capacità contributiva”). Ciò si ri-

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unitariamente inteso, non è una ‘unità tributaria’ 53 perché la legge, ai fini

delle imposte sui redditi, l’ha diviso irreversibilmente prima che potesse es-serlo

54. ‘Unità tributarie’ (= unità inscindibili univocamente riferibili ad ‘uni’) sono esclusivamente i singoli redditi di partecipazione dei soci.

In sintesi, sul piano genetico-sostanziale (ossia, pre-accertativo o pre-com-positivo) non sembrano reperibili i presupposti di applicabilità del litiscon-sorzio necessario alle liti sorte sulle fattispecie della trasparenza fiscale

55.

4.2. Piano attuativo (procedimentale o processuale, accertativo o compositivo)

4.2.1. ‘Ragione di divisibilità’ e ‘uni tributari’ negli artt. 97, 24 e 111 Cost. Sin qui si è cercato di esporre che sia in generale, sia in particolare (nella

fattispecie del reddito di partecipazione riferibile al socio di società di per- scontra sia sul piano normativo, essendo la disposizione in discorso coerente applicazione della ‘ragione di divisibilità’ che fa dell’indice unitario di capacità contributiva univocamente riferibile ad un ‘uno’ qualsiasi la variabile indipendente della funzione che regola l’accesso al “tutti”, sia sul piano logico, avendo il legislatore qualificato unitario, e univocamente ri-feribile ad un ‘uno’, soltanto ciò che così sarebbe se fosse vera la convinzione del legislatore (ossia che corrisponda ad una condivisa esperienza la ‘descrizione fatta norma’ o la presun-zione fatta norma – come affermano le Sezioni Unite –) secondo la quale sono i soci e non la società di persone a disporre, effettivamente, dei redditi sociali.

53 Questa disposta irrilevanza normativa del c.d. “contenente” trova logico riscontro nella circostanza che nella trasparenza di cui all’art. 5 TUIR, a differenza di quanto avviene in altre fattispecie (ad es. quella del consolidato nazionale), non sono previsti elementi che possano dar vita ad una fusione giuridica idonea a rompere in modo irreversibile il colle-gamento univoco tra il socio e il suo reddito di partecipazione. In effetti, poiché la deter-minazione della base imponibile di ciascun socio non tiene conto promiscuamente di pecu-liarità riferibili esclusivamente ad altri soci o di altri elementi giuridicamente eterogenei, non si realizza mai quella situazione irreversibile (l’inscindibilità) che, non rendendo più possibile la divisione a ritroso, ossia l’individuazione univoca dei contribuenti preesistenti, determina la creazione per unione (rectius: per fusione) di un nuovo soggetto (solo) tributario.

54 Perciò, non sembrano condivisibili quelle impostazioni che, invece, frequentemente lo reputano rilevante considerandolo “elemento comune” o “pregiudiziale” o “contenente” ..., ecc. In effetti, esso potrebbe avere un rilievo ipotetico in sede attuativa (accertativa o compositiva) ma solo ed esclusivamente quale elemento logico (autonomamente non de-cisivo) utilizzabile ad adiuvandum.

55 D’altro canto, quanto sopra osservato con riferimento alla coobbligazione solidale lascia ritenere che alla stessa conclusione si perviene dal punto di vista dell’adempimento e/o dell’estinzione e/o della sanzionabilità di eventuali antigiuridicità, posto che in questo caso non sembra normalmente sussistere alcuna inscindibilità (logica o normativa, rever-sibile o irreversibile) che dia luogo a forme di coobbligazione, essendo ciascun socio tenu-to all’adempimento o all’estinzione del tributo o della sanzione sempre ed esclusivamente per “fatto proprio” (ossia, in ragione della ‘sua’ ‘unità’).

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sone) mancherebbe, vuoi sul piano genetico-sostanziale, vuoi sul piano del-l’adempimento, l’inscindibilità (= la non divisibilità) tra più ‘uni tributari’ del fatto unitario fiscalmente rilevante (‘unità tributaria’).

Se, perciò, si condividesse la tesi prevalente che, ai fini dell’ammissibilità del litisconsorzio necessario, ritiene in ogni caso indispensabile l’inscindibi-lità logica (naturale o sostanziale) del tema tra più soggetti (più ‘uni’), la ri-cerca potrebbe terminare qui

56. Tuttavia, se si vuol seguire sino in fondo la logica che conduce dottrina e

giurisprudenza alla soluzione del litisconsorzio necessario, è necessaria an-che l’analisi, sia pure sintetica, della seconda parte del ragionamento ispirato da quella logica. Si tratta della parte dell’argomentazione sviluppata dai pun-ti di vista procedimentale e/o processuale e protesa a valorizzare le oppor-tunità ordinamentali che il litisconsorzio necessario consentirebbe di realiz-zare perché, altrimenti, si potrebbe arrivare ad una “decisione inutile” o, peggio, ad una “non-corrispondenza” (o ad una “non univocità”) di giudica-ti (implicante una “ingiusta imposizione”)

57. Occorre allora verificare se, quando e come la Costituzione, in ragione del-

l’“utilità” e/o in ragione della “non-contraddittorietà” (o “univocità”) che dovrebbero caratterizzare i giudizi, induca il legislatore tributario ad intro-durre fattispecie di litisconsorzio necessario (propter opportunitatem)

58.

56 Infatti, l’appena ipotizzata inammissibilità di quest’ultimo elemento nel diritto tribu-tario, sia in generale, sia in particolare, non consentirebbe da sé di condividere il trend giu-risprudenziale odierno (al quale fa precipuo riferimento, ad esempio, la citata Cass. n. 27145/2011).

57 Questa tesi, tradizionalmente prospettata da autorevole dottrina e recentemente fat-ta propria dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, è stata elaborata con riferimento all’at-tuazione giurisdizionale; ora, tuttavia, come dimostra il trend giurisprudenziale recente, è estesa anche agli strumenti attuativi equivalenti alla sentenza (‘EDR’). Del resto è naturale che, in specie se si considera il diritto tributario un ‘diritto con verità’ (ossia un diritto vali-do, un diritto giuridicamente giusto solo se le sue soluzioni – disposizioni – normative rendono vere le equazioni poste dagli artt. 97, 24 e 111 Cost.), allora si sviluppi intuitiva-mente anche l’ipotesi del litisconsorzio necessario come strumento di verità. Infatti, se la sentenza o l’accordo (ad essa equivalente) debbono servire la funzione ordinamentale ad essi demandata (ossia, essere utili all’accertamento o alla composizione) e, al contempo, debbono essere giusti (ossia, essere eguali in situazioni eguali), allora, a fortiori in un ‘dirit-to con verità’, il litisconsorzio necessario tende ad apparire lo strumento più opportuno per risolvere liti (ritenute) soggettivamente inscindibili. La stessa Suprema Corte lo preferisce rispetto allo strumento della sospensione dei giudizi per pregiudizialità-dipendenza (dal reddito della società alle quote di reddito dei soci) e a quello della riunione dei giudizi per connessione (oggettiva, soggettiva, continenza e pregiudizialità).

58 Ciò, anche al fine di completare il discorso sugli ‘uni tributari’ prima elaborato sui piani della genesi e dell’adempimento.

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4.2.1.1. Segue: irrilevanza della ‘ragione di utilità del giudicato’ Esaminando il tema dalla prospettiva della ‘ragione di utilità’ ricavabile

dagli artt. 97, 24 e 111, pur nell’economia di questa ricerca, non sembra che nel diritto tributario essa costituisca ‘ragione di divisibilità’ incompatibile con la ‘ragione di divisibilità’ data dall’art. 53.

In effetti, in quest’ambito dell’ordinamento appare difficilmente teorizza-bile l’inutilità del procedimento o del processo dovuta alla mancata partecipa-zione (ab origine o no) di un ‘uno’ ulteriore e diverso dal (solo) ‘uno tributario’ determinato (o determinabile) ai sensi di una legge conforme a detto ultimo articolo della Costituzione

59. Nel diritto tributario, se c’è controversia sull’an e sul quantum dell’‘unità dell’indice di capacità contributiva’ univocamente rife-ribile ad un ‘uno tributario’, allora l’idoneità all’utilità (del procedimento o del processo, dell’accertamento o della composizione) c’è sempre.

In generale, ponendo in disparte il caso concernente il ‘chi?’ 60, l’esistenza

stessa della controversia tributaria prova intrinsecamente l’idoneità del giu-dizio o dell’accordo (procedimentale o processuale) ad essere ‘utile’ e l’inop-portunità del litisconsorzio necessario (originario o non originario).

4.2.1.2. Segue: rilevanza relativa della ‘ragione di scambiabilità del giudicato’ Osservando, poi, il tema dalla prospettiva della “giusta imposizione”, ap-

pare evidente che, nell’accezione comune fatta propria dalla giurisprudenza e dalla dottrina, quella prospettiva significa giudicare al fine di tassare iden-ticamente tutti i soci in base alla stessa (‘vera’) entità del reddito della socie-tà di persone cui essi partecipano. Perciò, occorre porre dapprima alcune premesse e poi analizzare il rapporto tra la natura del giudizio o dell’accordo e la natura del contraddittorio litisconsortile (supposto) necessario.

59 Infatti, la tutela della situazione giuridica soggettiva che si origina quando si manifesta l’indice unitario di capacità contributiva riferibile in modo univoco ad un ‘uno’ del “tutti” non è analoga a quella delle (pur marginali) situazioni giuridiche soggettive rispetto alle quali (non senza perplessità) dottrina e giurisprudenza prevalente elencano (quasi tassati-vamente) i casi nei quali, senza litisconsorzio, il risultato del procedimento o del processo sarebbe inutile. Per una tanto sintetica quanto chiara ed indicativa rassegna di tali casi “ci-vilistici”, si vedano LUISO, Diritto processuale civile, I, Profili generali, Milano, 2011, p. 291 ss.; ZANUTTIGH, Litisconsorzio, in Dig. disc. priv., sez. civ., XI, p. 41 ss.; BOVE, Lineamenti di diritto processuale tributario, Torino, 2012, p. 294 ss.

60 La controversia che abbia ad oggetto proprio l’individuazione di ‘chi?’, in concreto, sia l’‘uno tributario’, è eccezionale (vertendo essa, specificamente, sul se o sul come si sia verificato, unitariamente o non unitariamente, il fatto-indice di capacità contributiva).

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Le premesse dalle quali il discorso ipotetico dipende involgono, dunque, il “problema della Giustizia”

61; perciò, occorre estrarre da esso un’ipotesi sul concetto di giustizia (verità)

62 alla luce della quale elaborare l’ipotesi sul concetto di ‘scambiabilità del giudicato’ («... a ciascuno il suo ...» o parità di trattamento rispetto all’attuazione della legge) propedeutico allo sviluppo dell’ipotesi.

Nell’attuare la norma tributaria, il contribuente, il fisco e il giudice, singo-larmente considerati, hanno come parametro di giustizia solo la verità

63. Quindi, le norme tributarie obbligano il contribuente, il fisco e il giudice a in-terrogarsi sul “problema della Verità” (rectius: de ‘le verità’, ora ‘puntuali’, ora ‘intervallari’, ora ‘extra intervallari’

64 dei ragionamenti giuridici necessari alla loro attuazione (procedimentale o processuale, accertativa o compositiva, uni-laterale o consensuale). Ma questo problema è il portato speculare del “pro-blema dell’Effettività” del diritto tributario. L’ipotesi è che l’‘effettività’ sia un carattere ontologico (mutevole e individuabile) di ogni norma tributaria

65.

61 Per un recente approfondimento di tale problema nella prospettiva dell’ammissibilità nel diritto tributario degli strumenti ‘equivalenti’ (e non solo alternativi) alla sentenza o al provvedimento dell’autorità, e per riferimenti sul tema, se si vuole, VERSIGLIONI, Diritto tri-butario, cit., p. 223 ss.

62 Come si vedrà, il “problema della Giustizia” (verità) costituisce il cuore del dibattito al quale partecipano, senza pervenire a soluzioni condivise, dottrina, prassi e giurisprudenza, sia quando tentano di costruire teoricamente il “quadro” dei vari istituti deflattivi, sia quan-do, per applicarli concretamente, ne definiscono la natura giuridica.

63 Si muove dal presupposto che il ragionamento giuridico sui temi (di fatto e di diritto) scelti dalle norme è giusto se è vero, è ingiusto se è falso. Ma le norme fiscali – com’è noto – spesso non scelgono ‘temi puntuali’ (ad es., la superficie di un terreno, la differenza algebri-ca tra dati contabili ...); per varie ragioni, esse optano frequentemente per ‘temi intervallari’ (ad es., la qualità agraria del terreno, l’incongruenza statistica di dati contabili ...) suscetti-bili di più soluzioni tutte vere, anche se diverse tra loro e, ancor più frequentemente per ‘temi extra-intervallari’ (ad es. l’abitualità o l’inerenza, il totale sintetico dei ricavi di un im-presa in un intero periodo di imposta).

64 Per l’esame analitico de ‘le verità puntuali’ (“verità = corrispondenza”; “verità = iden-tità”) e de ‘le verità intervallari’ (“verità = coerenza”; “verità = correttezza procedurale”) e ‘le verità extra-intervallari’ (“verità = consenso”) rilevanti nel diritto tributario e per la loro ricostruzione tipologica, eventualmente, VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007, passim; ID., ‘Logiche’, ‘regole’ e ‘principi’ del ‘ragionamento giuridico tributario’, tra «autorità» e «consenso», in LA ROSA (a cura di), Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, p. 117 ss.

65 Si fa riferimento alla nozione così ricostruita e definita in VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, cit., passim (per una sintesi, può vedersi in particolare p. XIV della Premessa). Si tratterebbe di un codice genetico, che esprime la tipologia e la misura dell’attitudine onto-

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Corrispondentemente al tipo di norma e al tipo di fatto attorno al quale la norma è costruita, i temi controversi (e, in dipendenza di essi, anche i re-lativi giudizi o le relative deliberazioni) possono essere sistemati in quadro ‘tri-tipologico’

66 ordinato da rigide ‘norme d’uso’ volte a garantire che ciascuno strumento (procedimentale o processuale, accertativo o compositivo) con-servi l’idoneità a trasferire nel concreto il tipo e la dimensione dell’‘effettività’ che ciascun tema presenta in astratto

67. logica della norma a tradursi in una soluzione concreta ‘giusta’, cioè ‘vera’; quindi, l’effetti-vità della quale si parlerà nel prosieguo è ‘scientifica e puntuale’ se il tema attorno al quale la norma è costruita è scientifico e puntuale, è ‘etica e intervallare’ se quel tema è etico e inter-vallare. Insomma, l’effettività si assume come la qualità e la misura del tipo e del grado di giustizia (verità) che ciascuna norma è geneticamente idonea a realizzare nelle sue concre-tizzazioni. Se il tema è ‘puntuale’, ossia se la legge è determinata e quindi ammette in astrat-to una sola soluzione, la soluzione concreta è giusta se “corrisponde” a (o si “identifica” con) essa (soluzione); se invece il tema è ‘intervallare’, ossia se la legge è indeterminata e quindi ammette in astratto una, più o infinite soluzioni comprese in un dato intervallo normativo, la soluzione concreta è giusta se è “coerente” o è “proceduralmente corretta” (a seconda che, rispettivamente, l’intervallo sia confinato da criteri normativi di coerenza o di correttezza procedurale). Quello che accomuna queste verità è che esse possono essere “trovate” mediante un ragionamento unilaterale. Contribuente, fisco o giudice, “esaminati tutti i dati del problema”, possono svolgere quel ragionamento interiormente (a prescinde-re dal fatto che esso sia poi ‘veicolato’ all’esterno dalla dichiarazione, dall’atto di accerta-mento o dalla sentenza ...). In altre parole, non è indispensabile un ragionamento dialettico esteriore. Tuttavia, frequentemente, il legislatore tributario introduce norme – materiali – che contengono equazioni unilateralmente impossibili (ossia che sono prive di soluzioni “trovabili” unilateralmente), predisponendo norme – strumentali – indirizzanti alla defini-zione di una soluzione compositiva (consensuale o autoritativa) che, se ottenuta tramite la “logica della controversia” (dialettica, corretta e di buona fede), è, nei suoi inderogabili ambiti di operatività ‘extra-intervallare’, essa stessa forma di verità (“verità = consenso”). Per un approfondimento del concetto, sia consentito di rinviare a VERSIGLIONI, ‘Logiche’, ‘regole’ e ‘principi’ del ‘ragionamento giuridico tributario’, cit., p. 117 ss.

66 A) ‘Non controvertibile’, ossia ‘accertabile in modo puntuale’. B) ‘Controvertibile entro certi limiti’, ossia ‘accertabile in modo intervallare’. C) ‘Controvertibile all’infinito’, ossia ‘non accertabile’.

67 Se il tema fosse ‘non controvertibile’ (= ‘accertabile in modo puntuale’), come, ad es., in fatto, il numero di cavalli fiscali di un’autovettura e, in diritto, il grado di parentela, allora lo strumento (rectius: il ragionamento accertativo caratterizzato da ‘indisponibilità tributaria’) dovrebbe trovare l’unica soluzione giusta (perché l’unica possibile). Se il tema fosse ‘con-trovertibile entro certi limiti’ (= ‘accertabile in modo intervallare’), come ad es., in fatto, la fis-sazione di un valore compreso tra limiti dati e, in diritto, la perdita della qualificazione dell’ente commerciale, allora lo strumento (rectius: il ragionamento accertativo caratteriz-zato da ‘discrezionalità tributaria’) dovrebbe trovare ‘la’ soluzione tra le infinite soluzioni predeterminate, tutte giuste, anche se diverse tra loro (perché comprese nello spazio con-finato da limiti normativi). Se, poi, il tema fosse ‘controvertibile all’infinito’ (= ‘non accerta-

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Fissate, dunque, le ipotesi tipologiche su ‘le verità’ e su ‘le effettività’ del diritto tributario (dei suoi giudizi e delle sue deliberazioni), occorre ora in-dicare l’altra premessa da porre al discorso. In effetti, altra ipotesi preliminare è che nel nostro settore la certezza del diritto non sia né ‘principio scientifico’, né ‘principio etico’, e probabilmente neppure “principio” in senso costituzio-nale. In effetti, da un lato, non è dato ravvisare sentenze del Giudice delle leggi che abbiano dichiarato incostituzionali norme oggettivamente incerte e, dall’altro, anzi, è dato osservare che il legislatore, occupandosi espressa-mente di esse, implicitamente ne prova la legittima esistenza

68. Tutto ciò premesso, se sono giuridicamente giuste anche norme tributa-

rie di tipo ‘etico’, ossia norme ontologicamente caratterizzate da incertezza obiettiva (eliminabile soltanto mediante accertamento intervallare o me-diante deliberazione compositiva), allora non è pensabile che la situazione di giudicati difformi o discordi sia sempre un problema ordinamentale; al-meno se esso è posto (come sembra posto dalla giurisprudenza e dalla dot-trina favorevoli al litisconsorzio necessario soci-società di persone) in ter-mini di “univocità dei giudicati” (cioè, come corrispondenza ideale o come identità ideale)

69. Infatti, se la lite sorgesse su temi ‘etici’ che, a causa dell’i-nevitabile “umana debolezza”, sono, per facere dell’uomo-legislatore o per facere dell’uomo-operatore del diritto, ‘controvertibili entro certi limiti’ o ‘con-trovertibili all’infinito’, allora la non univocità (= ‘scambiabilità etica’) dei giu-dicati sarebbe fisiologica (‘giusta’) perché, secondo le ‘norme d’uso’, corri-spondente alla non univocità (= ‘scambiabilità etica’) dei temi controversi. In tali circostanze, l’ideale univocità dei giudicati (= ‘scambiabilità scientifica’) sarebbe patologica (‘ingiusta’) perché, secondo le ‘norme d’uso’, non corri-spondente alla non univocità (= ‘scambiabilità etica’) dei temi controversi

70. bile’), come ad es., in fatto, la fissazione di un valore in assenza di soluzioni predeterminate e, in diritto, la qualificazione nel concreto della grave incongruenza allora lo strumento (rec-tius: il ragionamento deliberativo caratterizzato da ‘indisponibilità tributaria rovesciata’) do-vrebbe volere (e non dovrebbe neppure tentare di trovare) una soluzione (perché non pre-esistente, ossia non predeterminata normativamente).

68 Ben differente potrebbe essere il discorso se, invece, nel nostro ordinamento il prin-cipio di certezza del diritto costituisse parametro vincolante del giudizio di legittimità co-stituzionale della norma.

69 In effetti, alla luce di quanto sopra ipotizzato, almeno nella maggior parte dei casi, quel problema appare più virtuale che reale; come tale, certamente non idoneo a condi-zionare la ricerca sul tema del litisconsorzio necessario. Anzi, una “drammatizzazione” ge-neralizzata, ossia estesa anche ai casi nei quali quel problema appare irreale, potrebbe con-durre chiunque ad una conclusione forse logicamente (ex ante) inammissibile.

70 Esattamente inverse sarebbero le conclusioni alle quali si perverrebbe al cospetto di

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Dunque, rispetto al rapporto tra la natura del giudizio (in specie se con-siderata dipendente dalla natura del tema controverso) e la natura del con-traddittorio litisconsortile, la ‘ragione di scambiabilità’ parrebbe non poter giustificare costituzionalmente leggi che introducessero casi di litisconsor-zio necessario propter opportunitatem laddove il tema controverso fosse ‘con-trovertibile entro certi limiti’ o ‘controvertibile all’infinito’. In tali casi, nei quali la ‘giusta imposta’ sarebbe ‘effettivamente’ assicurata dal razionale rispetto delle ‘norme d’uso’ (e non da una quasi irrazionale fedeltà al dogma, invero meramente ideale, dell’“univocità dei giudicati”), la legge dovrebbe, invece, mantenere intatto il diritto di ciascun ‘uno tributario’ di comportarsi come egli ritenga preferibile e, nel caso egli ritenga di contestare la pretesa altrui, di contraddire singolarmente e liberamente durante lo scoprimento dialet-tico de ‘la’ soluzione accertativa (tra le infinite soluzioni accertative) o nel farsi della deliberazione dialettica de ‘la’ definizione compositiva (tra le in-finite soluzioni compositive, non accertative). Unica possibile eccezione lo-gica apparendo quella ricorrente nei casi nei quali la controversia avesse ad oggetto un tema ‘non controvertibile’, laddove, appunto, la ‘ragione di scambia-bilità dei giudicati’ potrebbe esplicare efficacia logica in termini ‘scientifici’

71. In conclusione, la verifica condotta sul se, sul quando e sul come, la Co-

stituzione inviti il legislatore tributario a introdurre fattispecie di litisconsor-zio necessario propter opportunitatem, evidenzia che, in questo settore, men-tre la ‘ragione di utilità dei giudicati’ sarebbe sempre irrilevante, la ‘ragione di scambiabilità dei giudicati’ (se intesa nell’accezione datane da giurispruden-za e dottrina) sarebbe, secondo il tipo del tema controverso realizzatosi nel una norma tributaria di tipo ‘scientifico’, ossia alla presenza di una norma ontologicamente suscettibile di produrre solo incertezza soggettiva. Infatti, se, ferme le altre premesse, la lite (potenziale o attuale) sorgesse invece su un tema ‘non controvertibile’, allora sarebbe fisio-logica la presenza di giudicati eguali e sarebbe patologica la presenza di giudicati difformi o discordi.

71 Pur non potendosi qui affrontare le complesse tematiche collegate alla ‘ragione di ef-ficienza’ (per riferimenti e ipotesi ricostruttive, si permetta il rinvio a VERSIGLIONI, Diritto tributario, cit.), sembra opportuno segnalare che, anche nei casi ‘non controvertibili’, la pos-sibilità astratta dell’introduzione del litisconsorzio necessario sarebbe forse destinata a ri-manere tale perché la ‘ragione di scambiabilità dei giudicati’ dovrebbe comunque confron-tarsi con la ‘ragione di efficienza’, ossia con una ragione costituzionale che, proprio nei casi di ‘non controvertibilità’, potrebbe risultare espansiva e, come tale, destinata a prevalere sul-l’altra, probabilmente recessiva. Infatti, in quei casi, con tutta probabilità, il contraddittorio preventivo in sé (individuale, prima che litisconsortile) perderebbe rilevanza logica; al punto che, costituzionalmente parlando, in tali specifiche ipotesi, esso potrebbe concreta-mente rivelarsi inutile anche là dove esso è previsto, in astratto, come norma generale.

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concreto, talvolta rilevante e talvolta irrilevante 72. Questa potrebbe, infatti,

giustificare la previsione del litisconsorzio necessario propter opportunitatem solo laddove la controversia avesse a oggetto ‘temi non controvertibili’, ossia ‘accertabili puntualmente’

73.

4.2.2. Segue: divisione, ‘unità’ e ‘uni’ nella disciplina tributaria dell’accertamento e della composizione Passando al piano della disciplina dell’accertamento e della composizio-

ne, sebbene non sia possibile svolgere un profondo esame sulla coerenza co-stituzionale delle leggi tributarie che regolano la materia, occorre in ogni caso analizzare in tale ottica almeno le norme positive poste a fondamento dell’at-tuale giurisprudenza pro litisconsorzio necessario

74. Le fonti alle quali le Sezioni Unite fanno riferimento, per quanto concer-

ne l’accertamento, sono principalmente due: una, procedimentale, l’art. 40 del D.P.R. n. 600/1973 ed una processuale, l’art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992. Per quanto concerne la composizione, invece, le sentenze appartenenti al trend attuale richiamano il predetto art. 9 bis, comma 18. Tuttavia, più in ge-nerale, occorre tener conto anche di quanto è previsto nell’art. 4 del D.Lgs. n. 218/1997 e negli artt. 17 bis e 48 del D.Lgs. n. 546/1992.

Ponendo per ora in disparte l’art. 14 75 e osservando le altre disposizioni,

sembra subito constatabile che esse non prevedano la necessarietà del liti-sconsorzio degli ‘uni tributari’; tanto che mai è posto all’Amministrazione finanziaria l’obbligo di contestuale notifica dell’atto di accertamento autori-tativo a tutti gli ‘uni’ potenzialmente interessati all’accertamento.

72 Per un verso, infatti, il diritto tributario, disciplinando fenomeni sempre misurabili monetariamente, non sembra presentare quel rischio d’inutilità (della sentenza individuale su le c.d. “fattispecie plurisoggettive inscindibili”) che, invece, altri settori del diritto mo-strano come motivo dell’opportunità del litisconsorzio necessario. In ciò sarebbe, dunque, l’irrilevanza a fini fiscali della ‘ragione d’utilità del giudicato’. Per altro verso, nel diritto tri-butario, come in ogni altro ramo del diritto, la natura della scambiabilità dei giudicati è mutevole, dipendendo essa logicamente dalla natura mutevole delle leggi di cui essi costi-tuiscono applicazione.

73 In ciò, sarebbe, dunque, la natura non assoluta, bensì semplicemente relativa, della ‘ragione di scambiabilità’.

74 Ciò, sia per valutare la loro verità, sia per valutare la verità delle loro applicazioni ai casi de quibus.

75 In effetti, l’art. 14, D.Lgs. n. 546/1992 non individua casi tassativi di litisconsorzio necessario ma si limita a specificare la ‘ragione di divisibilità’ degli ‘uni tributari’ identifican-done il presupposto con l’inscindibilità dell’oggetto del ricorso.

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Infatti, l’art. 40 del D.P.R. n. 600/1973, anche nella lettura datane dalla Corte costituzionale, dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio di Stato, pur disciplinando un atto di accertamento unitario, non dispone tuttavia un con-traddittorio litisconsortile soci-società, né lo implica, perché, appunto, non fissa alcun obbligo di notifica contestuale di tale atto a ogni ‘uno tributario’

76. La logica della norma appare facilmente spiegabile perché, rispetto alla pre-vedibile eterogeneità delle situazioni riferibili a ciascun ‘uno’

77, la legge non poteva non lasciare alla discrezionalità del funzionario

78 la scelta su l’oppor-tunità dell’agere accertativo nel concreto, sia rispetto al quando e al quomodo, sia, soprattutto, rispetto al quis. Insomma, l’art. 40 del D.P.R. n. 600/1973 sembra rendere coerente sul piano procedimentale-autoritativo-accertativo l’ipotesi degli ‘uni tributari’ poc’anzi proposta sul piano genetico-sostanziale

79.

76 Questa soluzione normativa, in specie se contestualizzata, pare logica perché se due imposte si applicano sulla “stessa” base imponibile (come sostanzialmente avveniva per l’ILOR della società e per l’IRPEF dei soci), allora l’agere dell’Amministrazione finanziaria (cui la norma è esclusivamente rivolta), che doveva essere informato al principio del buon andamento, non poteva essere altro che esercizio unitario del potere autoritativo di accer-tamento.

77 Si pensi, ad esempio, quanto (rispetto alla ricerca de ‘la verità’ nelle fattispecie della trasparenza) possa essere ‘non-scambiabile’ la situazione dell’‘uno’ titolare di una partecipa-zione nella società di persone pari al 99% e privo di altri redditi da quella dell’‘uno’ titolare di una partecipazione nella società pari all’1% e possessore di redditi classificabili in altre categorie reddituali.

78 Ossia al rispetto delle regole di efficienza, efficacia ed economicità dettate dalla L. n. 241/1990.

79 Pur non essendo possibile affrontare l’esame della disciplina contenuta nell’art. 40 bis del D.P.R. n. 600/1973 (che, del resto, si occupa di materia diversa dalla trasparenza), tuttavia, anche in considerazione dell’ipotesi proposta sull’indeterminazione (ex ante) e sulla determinabilità (ex post) della soggettività passiva del consolidato nazionale (VERSI-GLIONI, Indeterminazione e determinabilità, cit.), sembra che la recente previsione espressa del litisconsorzio necessario consolidante-consolidata, disposta dall’art. 40 bis, non ostaco-li, ed anzi corrobori (almeno per grande parte), l’ipotesi ricostruttiva sin qui esposta. In effetti, il legislatore tributario, nel prevedere per quella fattispecie il litisconsorzio necessa-rio, sembra aver mediato tra l’ipotesi, meno frequente, nella quale la soggettività passiva rimane in capo a ciascun ‘uno’ aderente e l’ipotesi, più frequente, nella quale le distinte unicità (di ciascun ‘uno’) si perdono; e sembra averlo fatto in modo proporzionato a quan-to accade normalmente, ossia l’emersione di un nuovo ‘uno tributario’ quale risultato dell’univoco verificarsi in capo ad esso di un reddito unitario (‘unità tributaria’) perché frutto di una fusione irreversibile – come quella che si realizza in un altoforno o in uno shaker! – di plurime peculiarità soggettive e/o di plurime situazioni giuridiche soggettive oggettivamente eterogenee –. Fusione che, una volta realizzata, implica l’avvenuta genesi di una ‘unità tributaria’ che non consente più la scissione di se stessa, a ritroso, tra gli ‘uni’ preesistenti (almeno nei canoni giuridicamente rilevanti di riferibilità, non privatistica, dati

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Passando, ora, al piano procedimentale – consensuale – compositivo, la norma che occupa una posizione ermeneutica centrale è senza dubbio quella che si ricava dall’art. 4 del D.Lgs. n. 218/1997

80. Questa disposizione ‘sollecita ed auspica, ma non impone’

81 un atto unitario alla cui formazione (e al cui pre-vio contraddittorio) debbano intervenire la società e tutti i soci

82. Del resto, pochi mesi prima che il citato art. 4 entrasse in vigore, il legislatore aveva pre-visto analoga disciplina per il concordato di massa per gli anni pregressi

83. In definitiva, sia nella disciplina della composizione ordinaria (adesione), sia in quella della pseudo composizione straordinaria (concordato di massa), la re-gola data dal legislatore tributario all’attuazione procedimentale della norma sembra chiaramente escludere il litisconsorzio necessario.

Sul piano logico, in virtù dell’ipotesi sopra formulata (ossia, che la com-posizione possa realizzarsi soltanto su ‘temi controvertibili all’infinito’), non possono ovviamente condividersi né le tesi più estreme, le quali considera-no la composizione raggiunta da un ‘uno’ la base imponibile (= presuppo-sto) di un’automatica, dipendente, indiscutibile, vincolante (per il giudice) “liquidazione delle imposte” in capo agli altri ‘uni’ coinvolti dall’art. 4 o dall’art. 9 bis, né le tesi prevalenti che, ai fini dell’accertamento in capo a questi altri ‘uni’, considerano la composizione raggiunta da un ‘uno’ prova del fatto o presupposto di inversione dell’onere probatorio o antecedente

‘scientificamente’ dall’art. 53 – rectius: almeno nei canoni di riferibilità dati dalla ragione di divi-sibilità ... ‘da ciascuno il suo’ –). In ciò sarebbe, dunque, l’origine di un nuovo ‘uno tributario’.

80 L’art. 4 del D.Lgs. n. 218/1997 prevede che l’ufficio competente all’accertamento nei confronti della società trasparente definisca l’accertamento anche nei confronti dei soci con unico atto e in loro contraddittorio. Tuttavia, la stessa disposizione ammette espressamente che l’accertamento con adesione possa essere perfezionato anche quan-do alcuni ‘uni’ (soci o società) non abbiano aderito o quando taluni ‘uni’, seppure ritual-mente convocati, non abbiano poi partecipato al contraddittorio. Nei confronti di questi ‘uni’ rimasti estranei all’adesione l’ufficio procederà all’accertamento “sulla base” della definizione conclusa con altri, fermo restando che, in questo caso, non si produrrà alcun effetto premiale. Inoltre, la norma odierna (che capovolge quella precedente, volta al c.d. litisconsorzio necessario) non prevede che la mancata convocazione di tutti i sog-getti (soci e società) costituisca motivo di invalidità dell’adesione raggiunta con uno o più dei soggetti convocati.

81 VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, p. 297 ss. 82 L’assenza di un ‘uno’ non impedisce il contraddittorio tra un altro ‘uno’ o altri ‘uni’ e

l’Amministrazione finanziaria. 83 In effetti, l’art. 9 bis del D.L. n. 79/1997 dispone che la definizione della società tra-

sparente costituisce «titolo per l’accertamento ...» nei confronti delle persone fisiche che non hanno definito i redditi prodotti in forma associata.

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logico congetturale o, ancora, riferimento pregiudiziale 84. Per le stesse ra-

gioni, neppure sembra ammissibile l’ipotesi ermeneutica del litisconsorzio necessario, dovendo in tali casi la legge mantenere intatto il diritto inviolabile di ciascun ‘uno’ (ex artt. 97, 24 e 111) di poter contraddire autonomamente e di poter concorrere a ‘modo suo’ e a ‘tempo suo’ nella definizione dell’unica verità qui logicamente possibile: la “verità = consenso”

85.

84 In effetti, quando sono controversi ‘temi controvertibili all’infinito’, se l’“umana debo-lezza” pone tutti “nella stessa barca” dell’‘incertezza obiettiva non accertabile’, al ragiona-mento umano fatto per un ‘uno’ (poiché necessariamente deliberativo) non può logica-mente attribuirsi né il carattere della prova (o dell’elemento idoneo ad invertirne l’onere o dell’antecedente congetturale o del riferimento pregiudiziale) né, a fortiori, il carattere del-la norma vincolante (il ragionamento e) la deliberazione giudiziale. L’ipotesi ricostruttiva è che l’adesione conclusa da uno o da alcuni soci sia inefficace rispetto agli altri soggetti (soci e/o alla società) che non abbiano aderito. Insomma, sembra che un accertamento con adesione concluso, rebus sic stantibus, su basi quali-quantitative diverse da quelle di altro (precedente) accertamento con adesione concluso con altri soci, non debba sol per questo considerarsi illegittimo (ingiusto). Tale fattispecie, diversamente da quella in cui fossero sopravvenuti nuovi elementi di conoscenza idonei a condurre l’accertamento oltre la ‘zona d’intangibilità limitata’, potrebbe rilevare sul piano dell’illiceità del comportamen-to (vale a dire della responsabilità) del funzionario dell’Amministrazione finanziaria, e giammai su quello dell’invalidità. In altri termini, sembra che il funzionario dell’Ammini-strazione finanziaria non sia vincolato da definizioni precedentemente raggiunte dal fisco con altri soggetti (soci o società). Infatti, il funzionario, nel definire mediante adesione o conciliazione il reddito del soggetto che non abbia partecipato al procedimento propedeu-tico all’adesione o che, pur avendovi partecipato, non abbia prestato adesione, è tenuto solamente ad adottare il corretto metodo di ragionamento giuridico. Ma una volta che ab-bia adottato, sul piano del metodo, la forma (‘etica’) di ragionamento giuridico imposta dalla natura (‘etica’) del tema e del veicolo, il funzionario, tenuto ex lege a cercare dialetti-camente la composizione (‘eticamente extra intervallare’), non potrà pregiudicare la scelta vincolandosi (puntualmente) alla definizione già posta in essere con altro soggetto (socio o società). Un simile atteggiamento – di indole burocratica – svelerebbe in questo caso un difetto del metodo, quindi una patologia da comportamento inefficiente, a prescindere dal fatto che poi l’accordo si sia concluso o no. Da ultimo, non sembra che le dichiarazioni re-se nel contradditorio pre-adesione possano esplicare alcuna efficacia probante rispetto ai soggetti (soci o società) che non abbiano partecipato al contraddittorio.

85 La situazione (‘etica’) che si realizza nella composizione appare esattamente rovesciata rispetto a quella (‘scientifica’) che si realizza nell’‘accertamento puntuale’ (tipico, ad esempio, dell’autotutela puntuale) laddove, essendo controverso un ‘tema non controvertibile’, ossia un tema caratterizzato da “verità = corrispondenza” (quaestio facti) o da “verità = identità” (quaestio iuris), l’ipotesi ermeneutica consegna risultati opposti a quelli ottenibili per le ipo-tesi di composizione (‘non accertabilità’). Nell’‘accertamento puntuale’, può sussistere, infatti, antecedenza o pregiudizialità logica (per univocità) o, infine, opportunità del litisconsorzio necessario (per scambiabilità di giudicati). Per un approfondimento di questo aspetto, se si vuole, si veda VERSIGLIONI, Accertamento con adesione, Padova, 2011, p. 43 ss.

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Sul piano normativo, appare immediatamente evidente che la disciplina data dal legislatore (tramite i predetti artt. 4 e 9 bis) sia interpretabile pro-prio nel senso individuato sul piano logico; tanto che, da questo stretto an-golo visuale, essa (solo se interpretata in quel senso – contrario al litiscon-sorzio necessario –) pare coerente con gli artt. 97, 24 e 111.

Rimane infine da volgere un veloce sguardo alla disciplina processuale. Posto che, con riferimento alla composizione, gli artt. 17 bis e 48 del D.Lgs. n. 546/1992 nulla prevedono rispetto all’ipotesi del socio di società di per-sone e che, dunque, quanto ipotizzato per il piano procedimentale sembra poter essere esteso anche a quello processuale

86, occorre invece soffermarsi sulla norma ricavabile dall’art. 14 dello stesso decreto, qualificabile, da que-sto punto di vista, norma generale.

Va subito preso atto che quanto sopra ipotizzato sul piano genetico-so-stanziale trova riscontro nella specificazione del principio comune attuata dall’art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992. Infatti, l’aver indentificato il presuppo-sto del litisconsorzio necessario con l’inscindibilità dell’oggetto del ricorso, vale a dire, con il nesso (artificiale, non naturale)

87 che unisce sia i veicoli (atto impugnato e ricorso), sia i loro contenuti (ragionamento posto a fon-damento e limite della pretesa e ragionamento posto a fondamento e limite della contestazione) dà forza all’ipotesi (sopra proposta) della non concepi-bilità di una naturale situazione soggettivamente complessa indivisibile rispet-to ad una ‘ragione di divisibilità’ giuridicamente rilevante su tale piano

88. Se,

86 Così, ad esempio, sembra che una “innovativa conciliazione” della lite (che è cosa ben diversa da una “conciliazione novativa”) sorta sull’atto di accertamento basato sulle adesioni concluse con altri soggetti (soci o società), non possa trarre da ciò alcun motivo di invalidità. Invece, anche in questo caso, una soluzione opposta appare preferibile pen-sando all’autotutela puntuale disposta nel corso dell’iter processuale, visto che l’atto di rie-same (idoneo ad imporsi sino al giudicato sostanziale) dovrebbe, a pena di invalidità e connessa responsabilità dell’agente, tener seguito al contenuto di precedenti atti di riesa-me puntuali disposti a favore di altri soggetti (soci o società). Non va poi sottaciuto che nella importante Circ. n. 9/E emanata a commento del neo art. 17 bis è espressamente so-stenuta la tesi interpretativa per la quale «nella fase di mediazione, i rapporti [soci-società di persone] vanno considerati autonomi e indipendenti» e viene espressamente richiama-ta la coerente sentenza Cass., 11 aprile 2011, n. 8168.

87 È il nesso, qui riplasmato al fine di renderlo coerente con il resto del discorso, al quale fanno riferimento, se non si erra, le Sezioni Unite della Suprema Corte (dalla sent. n. 1052/ 2007 in poi) per individuare l’elemento inscindibile (rectius: la fonte dell’elemento inscindibi-le) da identificare, nel caso, come presupposto di ammissibilità del litisconsorzio necessario.

88 In effetti, potrebbe osservarsi che la legge non ha previsto un criterio d’inscindibilità genetico-sostanziale semplicemente perché, come si è poc’anzi cercato di dimostrare, in

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dunque, l’inscindibilità selezionata dal legislatore potrebbe trovare giustifi-cazione (attuativa) soltanto nell’opportunità di evitare un contrasto di giu-dicati su ‘temi controversi scambiabili’

89, allora sembra sussistere coincidenza tra la ‘ragione di divisibilità’ degli ‘uni tributari’ presente nelle norme costitu-zionali e la ‘ragione di divisibilità’ posta dal legislatore a base dell’art. 14; tan-to che appaiono automaticamente trasferibili a questo livello le conclusioni ipotetiche sopra elaborate con riferimento al piano costituzionale. In effetti, fermo il merito, sembra mutare semplicemente il destinatario di quelle ipo-tesi, che, ora, sarebbe il giudice e non più il legislatore. In sintesi, il litiscon-sorzio necessario sarebbe in concreto almeno improbabile

90.

4.2.3. Segue: tendenziale assenza sul piano dell’attuazione (procedimentale o processuale, accertativa o compositiva) dei presupposti del litisconsorzio ne-cessario Sul piano dell’attuazione (procedimentale o processuale, accertativa o com-

positiva), persino l’esame superficiale degli artt. 97, 24 e 111 sembra indicare che essi non contrastano, ed anzi confermano, l’ipotesi ricostruttiva degli ‘uni tributari’ elaborata osservando, sul piano genetico-sostanziale, l’art. 53.

In effetti, anche nel procedimento o nel processo, vuoi accertativo, vuoi compositivo, spetta alla legge (per essere giuridicamente giusta) dare ad ogni ‘uno tributario’ strumenti che rendano effettivo il ‘suo’ “diritto inviolabile” di difendersi autonomamente e di disporre liberamente rispetto al ‘suo contro-verso’, ossia rispetto all’unitario tema controverso univocamente a se riferi-bile, secondo le prospettazioni in atti (‘unità tematica controversa’). Tutto, insomma, induce a pensare che la ‘ragione di divisibilità’ con la quale le leggi devono individuare gli ‘uni tributari’ ai fini della contribuzione sia funzio- questo settore del diritto un tale criterio non avrebbe potuto trovare logica attuazione (aven-do dato vita, altrimenti, ad una norma processuale non vera).

89 Forse è opportuno ricordare che si tratta di scambiabilità da valutare alla stregua dei ragionamenti contenuti nei ‘veicoli processuali’ proposti da ‘uni tributari’ divenuti parti nel processo.

90 Infatti, rilevata l’assenza dell’inscindibilità sul piano genetico sostanziale, anche lad-dove si ammettesse che il giudice possa comunque disporre il litisconsorzio necessario mo-tivandone l’opportunità (ex art. 14) tramite la ‘ragione di scambiabilità dei giudicati’, egli, po-trebbe ammetterlo soltanto nei casi nei quali la controversia (per come questa si presenti identificata dalle costruzioni, dalle divisioni o dalle unioni, reversibili o irreversibili, dei ra-gionamenti giuridici delle parti) avesse a oggetto ‘temi accertabili puntualmente’ (ossia on-tologicamente suscettibili di dar luogo a ‘giudicati scambiabili scientificamente’) e, soprattut-to, solo quando quella ragione non risulti superabile o superata (come invece appare supera-ta proprio in quei casi) dalla ‘ragione di efficienza’. Insomma, quasi mai, se non mai.

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nalmente corrispondente a quella con la quale le leggi devono individuare gli ‘uni’ legittimati ad agire e a difendersi sia nelle controversie su ‘le verità delle leggi’ che li individuano (o che fissano i criteri per individuarli), sia nelle controversie su ‘le verità delle singole attuazioni’ di quelle leggi nel concreto. Le peculiari ragioni sottese a tali norme costituzionali, ossia la ‘ragione di uti-lità’ e la ‘ragione di scambiabilità’ dei giudicati non sembrano intaccare quel-la ‘ragione di divisibilità’, se non nell’ipotesi di controversie su ‘temi non con-trovertibili’, ove appunto, l’esigenza del contraddittorio (in genere) tende o-biettivamente a scemare. Tanto che il legislatore sembrerebbe trovarsi quasi nell’impossibilità di prevedere casi tassativi nei quali dovrebbe essere appli-cato il litisconsorzio necessario. Del resto, l’esame condotto sulle leggi pro-cedimentali o processuali pare confermare tale interpretazione.

5. Sintesi e conclusioni

Nel tentativo di realizzare il programma iniziale, si è osservato innanzi tut-to che sul tema della rilevanza ultra societatem del concordato di massa pro-posto dalla (sola) società di persone è riscontrabile un nuovo indirizzo giu-risprudenziale che, applicando in sede consensuale-compositiva (mediante richiami diretti ed indiretti) il principio del litisconsorzio necessario rico-struito dalle Sezioni Unite in sede autoritativa-accertativa, tende a conferire a tale principio, pur nello specifico ambito della trasparenza fiscale, una por-tata sistemica. A prescindere dall’opinabilità del merito della soluzione che la Suprema Corte ha preferito alle altre (sospensione o riunione), risalta la particolarità del metodo ermeneutico che ha condotto ad attribuire al liti-sconsorzio necessario siffatto rilievo generale. In effetti, la Suprema Corte, valorizzando decisivamente l’art. 5 TUIR, ha trovato la via per raggiungere una soluzione di natura sostanziale e, dunque, in quanto comune, utilizzabi-le ovunque (nel procedimento, come nel processo, nell’accertamento, come nella composizione). La dottrina, d’altro canto, ha ampiamente segnalato co-erenze e incoerenze applicative dei medi interpretativi adottati dalla Suprema Corte.

Perciò, la ricerca ha evitato aspetti già approfonditi e si è dedicata (in via meramente teorica) alle sole premesse logiche e normative del problema

91.

91 L’indagine è stata svolta sia sul piano, astratto, della soggettività tributaria e/o della supposta inscindibilità tra più soggetti del fatto – indice di capacità contributiva, sia sul

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L’ipotesi maggiore che ne è derivata è che la Costituzione consegni al legi-slatore un concetto ‘scientifico’ del contribuente (= ‘uno tributario’) che rende coerenti logica e norma: se, sul piano logico, la soggettività s’identifica con l’unicità (l’‘uno’), ossia con l’inscindibilità o, ancora, con la non-divisibilità in altri ‘uni’, quasi fosse un numero primo, un contenente pieno, un tutto o niente ..., corrispondentemente, sul piano normativo costituzionale, il con-cetto di contribuente o di soggetto passivo in senso stretto (‘uno tributario’) s’identifica con l’univoca riferibilità ad un ‘uno’ (inscindibile = non divisibile in altri) di una (inscindibile = non divisibile con altri) ‘unità’ dell’indice di capaci-tà contributiva, laddove tale ‘unità’ è riferita (o è riferibile) all’‘uno’ (variabile di-pendente) da una funzione univoca che la vede come variabile indipendente.’

Tale funzione univoca, ossia la ‘ragione di divisibilità’ del “tutti” negli ‘uni’ (tassabili) e negli ‘altri’ (non tassabili), sarebbe: ‘... da ciascuno il suo ...’.

La ‘divisibilità all’infinito’ delle ‘unità’ e degli ‘uni’ (salvo il limite relativo costituito dall’“homo”) è segno della necessaria presenza di una ratio legisla-tiva concreta (che attui la ratio astratta data dalla Costituzione) idonea a consentire il collegamento univoco e semplice tra un ‘uno’ e la ‘sua’ ‘unità’, tanto che, mentre nel diritto comune la ‘ragione di divisibilità’ consente l’am-missibilità (pur discussa) della contitolarità tra più ‘uni civilistici’ di una fatti-specie unitaria inscindibile (soggettivamente complessa), nel settore imposi-tivo, invece, i concetti di “contitolarità della capacità contributiva” o di “con-titolarità di una fattispecie imponibile unitaria soggettivamente complessa” non sembrano ammissibili

92. Dunque, sul piano genetico-sostanziale non pare sussistere alcuno spazio

ermeneutico in cui si possa dare rilevanza giuridica o rilevanza logica all’inte- piano, concreto, dell’accertamento o della composizione – in sede procedimentale o in sede processuale – dell’esistenza e/o della dimensione di tale fatto.

92 Infatti, è forse utile ribadire che la Costituzione sembra consegnare al legislatore due sole possibilità, alternative tra loro, entrambe incompatibili con detti concetti (contitolari-tà o complessità). Se alla contitolarità o alla complessità civilistica il legislatore tributario associa una ‘ragione di divisibilità’ della capacità contributiva che dà per risultato un quo-ziente esatto (‘quoto’) che determina parti unitarie univocamente riferibili a ciascun ‘uno civilistico’, allora ciascuno di questi sarà soggetto passivo in senso stretto (‘uno tributario’). Se, invece, alla contitolarità o alla complessità civilistica il legislatore tributario associa una ‘ragione di divisibilità’ della capacità contributiva che non dà (o non può dare) un quozien-te esatto e, dunque, l’intero non-dividendo mantiene la sua unitarietà inscindibile, allora è solo la comunione o, meglio, ciò che è frutto di una fusione irreversibile, il nuovo soggetto (‘uno’) idoneo a ricevere lo status di soggetto passivo in senso stretto (= ‘uno tributario’). Del resto, sembra, «tertium non datur».

7.

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ro reddito della società di persone che è ‘non-unità’ 93. Perciò, sul piano stret-

tamente genetico del tributo, non sembrano dotati di alcuna rilevanza giuri-dica concetti (ad es.: “elemento comune” o “pregiudiziale” o “contenente” ..., ecc.) o nessi logici (ad es.: somma dei redditi dei soci = reddito della società) frequentemente utilizzati per individuare la soluzione del problema

94. In sintesi, nessuna disposizione presente sul piano genetico-sostanziale

delle imposte sui redditi sembra far pensare che nelle liti sulle fattispecie della trasparenza fiscale sussistano i presupposti del litisconsorzio necessa-rio soci e/o società. Identiche conclusioni sarebbero ottenibili, applicando lo stesso metodo ad analoghe premesse, sia sul piano dell’adempimento, sia su quello dell’inadempimento (o dell’illecito).

Quanto, poi, al piano attuativo (procedimentale o processuale, accertati-vo o compositivo), la ricerca, seguendo il programma, ha indagato il duplice rischio (paventato dalla dottrina e dalla giurisprudenza) che le sentenze pos-sano pervenire a risultati “inutili” o a risultati “contraddittori” (ossia “non-univoci”). Rispetto al primo tipo di rischio (l’“inutilità”), la ricerca ha eviden-ziato che la ‘ragione di utilità del giudicato’, ricavabile dagli artt. 97, 24 e 111, salvo il caso in cui la lite abbia ad oggetto il ‘chi?’, appare generalmente irri-levante rispetto al diritto tributario, perché le sue controversie, avendo nor-malmente ad oggetto l’an e il quantum del tributo, ed essendo perciò misu-rabili rispetto a (ossia riferibili a) ciascun ‘uno tributario’, sono, parimenti, normalmente utili. Rispetto al secondo tipo di rischio (la “non-univocità”), la ‘ragione di scambiabilità del giudicato’, anch’essa ricavabile dagli artt. 97,

93 Del resto, vero o no, se la realtà fosse la non-autonomia della società di persone de-scritta dal legislatore tributario, soltanto i soci, in quanto unici ‘uni’ cui sarebbero univo-camente riferibili quelle ‘unità’, potrebbero costituire, logicamente e normativamente, ‘uni tributari’.

94 La disposta irrilevanza normativa trova logico riscontro nella circostanza che nella trasparenza di cui al’art. 5 TUIR, a differenza di quanto avviene in altri casi (ad es. nella disciplina del consolidato fiscale nazionale), non è prevista una fusione giuridica idonea a rompere in modo irreversibile il collegamento univoco tra l’‘uno tributario’ ed il ‘suo’ natu-rale indice unitario di capacità contributiva (ossia tra il socio e il suo reddito di partecipa-zione). In effetti, qui la determinazione della base imponibile di ciascun socio è autonoma, ossia insensibile a peculiarità soggettive riferibili esclusivamente ad altri soci e non è una (ex) parte poi inclusa in un processo di fusione giuridica irreversibile di elementi eteroge-nei tra loro (come può avvenire, invece, nel consolidato fiscale nazionale); perciò, non si raggiunge mai quel “punto di non ritorno” (l’inscindibilità irreversibile) che, impedendo la scindibilità a ritroso, ossia l’individuabilità univoca degli ‘uni tributari’ preesistenti, deter-minerebbe, altrimenti, la creazione, appunto per fusione, di un nuovo soggetto (solo) tri-butario.

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24 e 111, rende necessario confrontarsi con ‘le verità’ e ‘le effettività’ (‘scienti-fiche’ ed ‘etiche’) del diritto tributario (dei suoi giudizi, delle sue deliberazioni, dei suoi accertamenti e delle sue composizioni). La convinzione tratta dall’e-same della Costituzione è che, al fine di dare «... a ciascuno il suo ...» e di porre ciascun ‘uno’ nella stessa posizione di altri ‘uni’ di fronte alla legge, la ‘ragione di scambiabilità’, ovviamente da interpretare alla luce delle ‘norme d’uso’ degli strumenti attuativi, imponga l’applicazione ‘scientifica’ (univoca) di una legge ‘scientifica’ (univoca) e l’applicazione ‘etica’ (non univoca) di una legge ‘etica’ (non univoca). Sicché, quella ratio costituzionale, anche laddo-ve, non condivisibilmente, si avesse riguardo al dogma ideale dell’univocità del giudicato cui fanno riferimento dottrina e giurisprudenza, non potrebbe invitare il legislatore a prevedere il litisconsorzio necessario propter opportu-nitatem nei casi nei quali quello controverso fosse un ‘tema accertabile entro certi limiti’ o un ‘tema non accertabile’, ossia un tema ontologicamente su-scettibile di dar vita a giudicati non univoci; in tali casi, il legislatore dovrebbe logicamente astenersi dal prevederlo

95. Semmai, se proprio si volesse seguire la concezione dell’univocità dei giudicati fatta propria da dottrina e giurispru-denza, il legislatore potrebbe prevedere il litisconsorzio necessario nei casi nei quali la controversia avesse a oggetto ‘temi accertabili puntualmente’ (vale a di-re, ontologicamente suscettibili di dar luogo a giudicati univoci)

96. D’altro canto, pure l’esame condotto sulle leggi dedicate al tema in oggetto

pare confermare l’ipotesi costruita sull’esame delle norme costituzionali. In effetti, rispetto alle norme procedimentali, sia l’art. 40 del D.P.R. n.

600/1973 (accertamento), sia gli artt. 9 bis del D.L. n. 79/1997 e 4 del D.Lgs. n. 218/1997 (composizione) non prevedono la necessità di attivare il liti-

95 Così implicitamente riconoscendo ad ogni ‘uno’ il pieno ed inviolabile diritto di agire individualmente, in modo che ogni ‘uno’ possa contraddire ‘a modo suo’ e ‘a tempo suo’, senza indebite influenze altrui, nel (necessario) percorso dialettico idoneo a condurre, ri-spettivamente, alla soluzione accertativa (non predeterminata ma resa predeterminabile dalla legge, e ‘trovabile’ tra le infinite soluzioni tutte giuste, anche se diverse tra loro) o alla soluzione compositiva (non predeterminata, né resa predeterminabile dalla legge, perciò ‘non trovabile’, ma solo ‘deliberabile’ consensualmente o, in extremis, autoritativamente).

96 Ma, a ben vedere, si nota che, anche in tale ipotesi, logicamente possibile alla luce di quella pur non condivisibile concezione, la ‘ragione di scambiabilità’, nel suo necessario in-teragire con altra ragione costituzionale, la ‘ragione di efficienza’, potrebbe giustificare l’op-portunità del litisconsorzio necessario in casi assai limitati. In effetti, se il tema controverso è un tema ‘non controvertibile’, è il contraddittorio in sé (individuale o litisconsortile) a per-dere rilevanza logica; al punto che esso può mancare, come avviene nel procedimento, o può divenire nel concreto improbabile, come avviene nel processo, ossia là dove, per altre ra-gioni costituzionali, esso, in astratto, non può invece in genere mancare.

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sconsorzio soci-società di persone. Quanto, infine, alle norme processuali, è d’immediata evidenza che esse confermino ulteriormente l’ipotesi sin qui esposta. In questo senso sembrano interpretabili sia il silenzio letterale degli artt. 17 bis e 48 del D.Lgs. n. 546/1992, sia la formula espressa contenuta nell’art. 14 del medesimo decreto. Infatti, nel primo caso, la conferma pare nell’evidente ratio compositiva della mediazione e della conciliazione, nel secondo caso, la conferma sembra nel tipo di inscindibilità che la norma pone a base della necessarietà del litisconsorzio, la quale, essendo riferita all’attua-zione (rectius: al ricorso), è funzione del tipo di tema controverso nel con-creto, per come costruito dai ragionamenti giuridici contenuti nei veicoli processuali di parte (‘unità tematica controversa’). Così, ferma l’ipotesi che la giustificazione del litisconsorzio necessario potrebbe sussistere rispetto alla ‘ragione di scambiabilità del giudicato’ soltanto nel caso in cui il tema contro-verso fosse un ‘tema accertabile puntualmente’ (= ‘non controvertibile’ o ‘non componibile’, ossia ontologicamente suscettibile di dar luogo a ‘giudicati scam-biabili scientificamente’), varrebbe per il giudice quanto già ipotizzato per il le-gislatore

97. Quindi, sia sul piano genetico sostanziale, sia sul piano dell’adempimento,

sia su quello sanzionatorio, sia su quello attuativo (procedimentale o proces-suale, accertativo o compositivo) logica e norme (costituzionali o legislati-ve) inducono a ritenere tendenzialmente inammissibile il litisconsorzio ne-cessario soci-società di persone.

In generale, poi, tutto lascia pensare che la ‘ragione di divisibilità’ data dalla Costituzione per individuare gli ‘uni tributari’ appartenenti all’insieme “tutti” rilevante in sede attuativa sia funzionalmente corrispondente

98 alla ‘ragione di divisibilità’ data dalla Costituzione per individuare gli ‘uni tributari’ appar-tenenti all’insieme “tutti” rilevante in sede genetico-sostanziale.

97 In effetti, il giudice dovrebbe disporlo solo se ed in quanto quella ragione non fosse superata dalla ‘ragione di efficienza’; situazione, questa, affatto improbabile, stante la logica probabilità, se non la certezza, dell’inutilità del litisconsorzio necessario deducibile dalla ‘indisponibilità tributaria’ (= ‘norma d’uso’) che, in quel caso, dovrebbe caratterizzare il giu-dizio È forse utile ribadire che a fortiori, in tutti gli altri casi, costituiti da ‘temi accertabili entro certi limiti’ o da ‘temi non accertabili’, il giudice, in specie rispetto a questi ultimi, nei quali è indispensabile la deliberazione, dovrebbe semplicemente constatare la logica inam-missibilità (per inopportunità) del litisconsorzio necessario e, conseguentemente, dovreb-be astenersi dal disporlo.

98 Anche in considerazione della constatata irrilevanza della ‘ragione di utilità del giudi-cato’ e della superabile e generalmente superata rilevanza della ‘ragione di scambiabilità del giudicato’ da parte della ‘ragione di efficienza’.

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Pur avendo due ‘logiche’ differenti, una «... a ciascuno il suo ...», l’altra, ‘... da ciascuno il suo ...’, e, pur avendo due variabili indipendenti differenti, una l’‘unità tematica controversa’, l’altra l’‘unità dell’indice di capacità contributiva’, le due ‘ragioni di divisibilità’, nella concretizzazione che di esse ha fatto il le-gislatore tributario, sembrano pervenire alla medesima determinazione/de-terminabilità e, dunque, al medesimo ‘uno tributario’.

D’altro canto, quelle ‘logiche’ presentano una dinamica (dall’‘unità’ al-l’‘uno’) che, se osservata alla luce delle ‘norme d’uso’ della materia (indisponi-bilità tributaria, discrezionalità tributaria e indisponibilità tributaria rovesciata), svela un senso di complementarietà circolare facendo intuire, forse, il segno espansivo della possibilità e quello recessivo della impossibilità dell’uomo giu-ridico posto al cospetto dell’eterna spirale ermeneutica (fatto-soggetto, astrat-to-concreto, generale-particolare, analitico-sintetico, ecc.) con la quale deve confrontarsi anche l’‘uomo giuridico tributario’

99, legislatore od operatore del diritto.

Alternativamente si potrebbe pensare, ponendo a medio del pensiero il famoso nesso logico sistemato da Luca Pacioli

100, che le due distinte ragioni (‘... da ciascuno il suo ...’ e «... a ciascuno il suo ...») possano, invece, bilanciar-si perfettamente (‘da-a’) in una contemporaneità logica infinita, senza un prima, senza un dopo.

99 Per un’ipotesi ricostruttiva del concetto, eventualmente, può vedersi VERSIGLIONI, Sull’uomo giuridico tributario, in AA.VV., Economia e concezioni dell’uomo, a cura di Grasselli, Milano, 2007, p. 351 ss.

100 PACIOLI, Trattato di partita doppia, Venezia, 1494, edizione critica a cura di Conterio, introduzione e commento di B. Yamey, nota filologica di G. Belloni, Venezia, 1994.

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GIURISPRUDENZA

SOMMARIO: Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685 – Pres. Cicala, Rel. Chindemi, con nota

di L.R. Corrado, Note in tema di incertezza normativa oggettiva e ignoran-za inevitabile (Remarks on objective regulatory uncertainty and inevitable igno-rance)

Corte cost., 17 ottobre 2011, n. 280 – Pres. Quaranta, Red. Gallo, con nota di V. Guido, La Consulta frena i primi entusiasmi federalisti in materia di fiscalità ambientale; spunti per una riflessione in tema di fiscalità locale (Constitu-tional Court’s brake to the first federalist enthusiasm about environmental taxa-tion; ideas for a reflection on the theme of local taxation)

Cass., sez. trib., 27 aprile 2012, n. 6548 – Pres. Pivetti, Rel. Valitutti, con nota di G. Tinelli, Riflessioni su sponsorizzazione, inerenza e onere della prova nel-la disciplina del reddito d’impresa (Some remarks on sponsorship, inherence and burden of proof in the business income discipline)

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Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685

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Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685 – Pres. Cicala, Rel. Chindemi Tributi – Violazioni – Sanzioni amministrative tributarie – Incertezza normativa obiettiva – Nozione – Accertamento – IVA – Ambito di applicazione – Terreno edificabile.

In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, per «incer-tezza normativa oggettiva tributaria», quale causa di esclusione del contribuente da responsabilità, deve intendersi la situazione giuridica oggettiva che si crea nella norma-zione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra i quali, in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.

FATTO

Con sentenza n. 53/19/2009 depositata il 21/9/2009, la Commissione Tributaria

Regionale dell’Emilia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che, sul ricorso della società agricola eredi M.E., C.M.C., C.M.C. e C.P., aveva confermato la legittimità del recupero dell’Iva, per l’anno 1997, relativa alla vendita di un terreno ritenuto di natura edificabile, rilevando come la so-cietà contribuente non avesse svolto, nell’anno in questione, alcuna attività agricola, dichiarando non dovute le sanzioni, stante l’incertezza in relazione alla applicazione della normativa di riferimento.

L’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regio-nale deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 34, commi 3 e 4, D.P.R. n. 633/1972, all’epoca vigente, dell’art. 8, D.Lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando il capo della sen-tenza che aveva dichiarato non dovute le sanzioni in mancanza di una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributa-ria. I contribuenti presentavano controricorso proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi: (omissis).

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 14 marzo 2012, in cui il P.G. ha concluso come in epigrafe.

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MOTIVI DELLA DECISIONE (Omissis) Va disatteso anche l’unico motivo del ricorso principale. La norma che

prevede l’errore sulla «portata ed ambito applicativo» della norma tributaria quale causa di non punibilità, è riprodotta anche nell’art. 6, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (recante «Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni delle norme tributarie a norma dell’art, 3, comma 133, L. 23 dicembre 1996, n. 662») e nell’art. 10, comma 3, L. n. 212/2000.

Questa Corte (cfr. Cass., 28 novembre 2007, n. 24670; Id., 21 marzo 2008, n. 7765; Id., 11 settembre 2009, n. 19638) è ripetutamente intervenuta a definire l’ambi-to di applicazione delle norme richiamate enunciando i seguenti principi di diritto:

– per «incertezza normativa oggettiva tributaria» deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i for-manti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione norma-tiva, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpre-tativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussun-zione di un caso di specie;

– l’incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto come emerge dall’art. 6, D.Lgs. 18 dicem-bre 1997, n. 472, che distingue in modo netto le due figure dell’incertezza normativa oggettiva e dell’ignoranza (pur ricollegandovi i medesimi effetti) e perciò l’accerta-mento di essa è esclusivamente demandata al giudice e non può essere operato dalla Amministrazione;

– l’incertezza normativa oggettiva non ha il suo fondamento nell’ignoranza giusti-ficata, ma nell’impossibilità, abbandonato lo stato d’ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria. L’essenza del fenome-no «incertezza normativa oggettiva» si può rilevare attraverso una serie di fatti-indice, che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo, e che sono stati in-dividuati a titolo di esempio e, quindi, non esaustivamente: 1) nella difficoltà d’indivi-duazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; 2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuri-dica; 3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa in-dividuata; 4) nella mancanza di informazioni amministrative o nella loro contradditto-rietà; 5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell’adozione di prassi ammini-strative contrastanti; 6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) nella for-mazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sol-lecitazione, da parte dei Giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte co-stituzionale; 8) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurispruden-ziale; 9) nel contrasto tra opinioni dottrinali; 10) nell’adozione di norme di interpre-tazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente. Tali fatti-

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indice devono essere accertati ed esaminati ed inseriti in procedimenti interpretativi della formazione [recte normazione – N.d.A.] che siano metodicamente corretti e che portino inevitabilmente a risultati tra loro contrastanti ed incompatibili. Nella fatti-specie in esame sussiste, come affermato dalla Commissione Tributaria, una difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative applicabili, ratione temporis, che giustifi-ca la non applicazione delle sanzioni. (Omissis)

Note in tema di incertezza normativa oggettiva e ignoranza inevitabile

Remarks on objective regulatory uncertainty and inevitable ignorance

Abstract La Corte di Cassazione, risolvendo una controversia concernente l’inapplicabilità delle sanzioni amministrative per incertezza normativa oggettiva, chiarisce i con-fini dell’istituto e ne individua alcuni indici rivelatori. L’arresto si muove nel sol-co già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità: nonostante ciò, il tema tratta-to rimane di stretta attualità e riveste un notevole rilievo pratico, come dimo-strano le più recenti prese di posizione della Suprema Corte in materia di san-zionabilità delle condotte elusive. Illustrato il contenuto della pronuncia, si cer-cherà di approfondirne due specifici profili, riguardanti, da un lato, il riconosci-mento del potere di disapplicazione delle sanzioni amministrative in capo al solo giudice tributario e, dall’altro, la contrapposizione dell’incertezza normativa og-gettiva all’ignoranza incolpevole del diritto, analizzando le due figure alla luce dei principi di diritto punitivo e ipotizzandone la riconduzione alla categoria concet-tuale unitaria dell’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto. Parole chiave: sanzioni, disapplicazione, potere, incertezza, ignoranza The Italian Supreme Court (ISC), resolving a dispute concerning the inapplicability of administrative penalties for objective regulatory uncertainty, clarifies the bounda-ries of the institute and identifies some of its revealing factors. The decision moves along the line already traced by the case law: however, the subject matter is very cur-rent and plays a considerable practical importance, as evidenced by the most recent

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positions taken by the Supreme Court with regard to the applicability of penalties in cases of tax avoidance. After a review of the content of the decision, the note will try to deepen two specific issues: first, the exclusive role of tax courts to disapply administra-tive penalties; second, the contrast between objective regulatory uncertainty and not culpable ignorance of law. The two figures will be analyzed in the light of the princi-ples of punitive law and reconciled under the conceptual category of error of law in-duced by the impossibility to have knowledge of the rule Keywords: penalties, disapplication, power, uncertainty, ignorance

SOMMARIO: 1. La sentenza in rassegna. – 2. Il potere di disapplicazione delle sanzioni amministrative nel-l’ordinamento tributario. – 2.1. La disciplina vigente. – 3. Il potere di disapplicazione spetta anche all’Amministrazione finanziaria. – 4. Incertezza normativa oggettiva e soggettiva igno-ranza incolpevole del diritto. – 4.1. Le due scusanti producono i medesimi effetti, ma ricevono separata disciplina. – 4.2. Il rapporto tra le due scusanti secondo prassi e dottrina. – 4.3. L’in-quadramento delle due scusanti nella figura penalistica dell’errore di diritto per oggettiva im-possibilità di conoscenza del precetto. – 4.3.1. L’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto quale causa di esclusione della colpevolezza. – 4.4. Una possibile chia-ve di lettura. – 4.4.1. Incertezza e ignoranza. – 4.4.2. La buona fede oggettiva quale criterio di valutazione della condotta dell’agente. – 5. Conclusioni.

1. La sentenza in rassegna

Nella pregevole pronuncia che qui si glossa, la Corte di Cassazione respinge il ricorso con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva contestato la dichiarazione di non debenza delle sanzioni amministrative lamentando la mancanza di una con-dizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria.

La descrizione della fattispecie dalla quale la controversia scaturisce è invero assai ellittica. A quanto è dato comprendere, una società agricola impugnava un avviso di accertamento concernente il periodo d’imposta 1997, con il quale, a se-guito del disconoscimento del regime speciale per i produttori agricoli ex art. 34, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, era stata recuperata l’IVA relativa alla vendita di un terreno ritenuto di natura edificabile. I giudici di merito confermavano la rettifica e dichiaravano non dovute le sanzioni amministrative per incertezza normativa, ve-rosimilmente originata dalle numerose modifiche apportate al citato articolo.

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Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685

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La Suprema Corte si limita ad affermare che, nella fattispecie de qua, «sussiste [...] una difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative applicabili, ratione temporis, che giustifica la non applicazione delle sanzioni»: null’altro si aggiunge sul caso specifico, obliterando ogni argomentazione sui procedimenti d’interpreta-zione adottati e sulle norme contrastanti che ne abbiano costituito i risultati. La mancata esplicitazione dell’iter argomentativo sulla sussistenza in concreto dell’in-certezza normativa è supplita dall’enunciazione di alcuni principi di diritto enu-cleati dalla giurisprudenza di legittimità sul tema 1.

In primo luogo, la cosiddetta “incertezza normativa oggettiva tributaria” è defi-nita come «la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effet-to dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusi-vamente, la produzione normativa, [...] caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé e accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al ter-mine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuri-dica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie».

In secondo luogo, l’incertezza normativa oggettiva è distinta dalla “soggettiva ignoranza incolpevole del diritto”, figure che, pur caratterizzate dai medesimi effetti, sono separate nella disciplina positiva 2: l’incertezza normativa oggettiva «non ha il suo fondamento nell’ignoranza giustificata, ma nell’impossibilità, abbandonato lo stato d’ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della nor-ma giuridica tributaria».

In terzo luogo, l’accertamento dell’incertezza normativa oggettiva è sottratto al-l’Amministrazione finanziaria, essendo esclusivamente demandato al giudice. L’es-senza del fenomeno può essere rilevata attraverso la valutazione di una serie di fi-gure sintomatiche 3, da inserire «in procedimenti interpretativi [...] che siano me-

1 La Corte di Cassazione richiama le seguenti sentenze: Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, commentata da BATISTONI FERRARA, L’incertezza obiettiva quale causa di non punibilità ed i poteri del Fisco, in Corr. trib., 2008, p. 203 ss.; COLLI VIGNARELLI, La Suprema Corte interviene in tema di «obiettive condizioni di incertezza» della normativa tributaria, in Rass. trib., 2008, p. 470 ss.; GIO-VANNINI, Potere punitivo e incertezza della legge, in Giur. it., 2008, p. 2081 ss.; PELAGATTI, Incertezza normativa oggettiva e disapplicazione delle sanzioni amministrative tributarie, ibidem, p. 1547 ss.; Cass., sez. trib., 21 marzo 2008, n. 7765, annotata da GIOVANNINI, op. ult. cit., p. 2081 ss., e PELAGATTI, op. ult. cit., p. 1547 ss.; Cass., sez. trib., 11 settembre 2009, n. 19638, in CED Cassazione, Rv. 609769.

Sostanzialmente dello stesso tenore testuale sono gli altri arresti di quest’anno (Cass., sez. trib., 16 febbraio 2012, n. 2192, in CED Cassazione, Rv. 621810; Cass., sez. trib., 14 marzo 2012, n. 4031, ibidem, Rv. 622002; Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4683, ibidem, Rv. 621817; Cass., sez. trib., 1° giugno 2012, n. 8825, in bancadati DeJure; Cass., sez. trib., 26 ottobre 2012, n. 18434, in CED Cas-sazione, Rv. 624156; Cass., sez. VI-T, ord. 11 febbraio 2013, n. 3245; ibidem, Rv. 625020; Cass., sez. VI-T, ord. 12 marzo 2013, n. 6189, in bancadati DeJure).

2 Art. 6, commi 2 e 4, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. 3 Si omette di elencare le figure sintomatiche, identificate dalla giurisprudenza di legittimità a ti-

tolo meramente esemplificativo (Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, cit.), rinviando al-

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todicamente corretti e che portino inevitabilmente a risultati tra loro contrastanti ed incompatibili».

2. Il potere di disapplicazione delle sanzioni amministrative nell’ordinamento tributario

Prima di entrare in medias res, pare opportuno ricostruire concisamente il qua-dro normativo di riferimento.

Con le disposizioni concernenti il potere di disapplicazione delle sanzioni am-ministrative per incertezza normativa tributaria, è lo stesso Legislatore a dare atto della difficoltà di porre norme intelligibili e chiaramente formulate in un ordina-mento in perenne mutamento.

Questo correttivo di sistema 4 rappresenta una costante nel settore tributario 5: la disciplina de qua affonda le proprie radici nell’art. 5, D.M. 1° settembre 1931, ove si contemplava la possibilità di abbandonare l’applicazione delle pene pecunia-rie 6 previste per le violazioni concernenti alcuni tributi indiretti, qualora si riferis-

l’attento approfondimento già pubblicato sul n. 2-2012 di questa Rivista a firma di LOGOZZO, La scu-sante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, p. 405 ss.

4 LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, in AA. VV., Il processo tributario – Giuri-sprudenza sistematica di diritto tributario, collana diretta da Tesauro, Torino, 1998, p. 158 e p. 164 ss.

5 V. BATISTONI FERRARA, Principio di personalità, elemento soggettivo responsabilità del contribuente, in Dir. prat. trib., 1999, I, p. 1515; BERLIRI, Sulle cause dell’incertezza nell’individuazione ed interpreta-zione della norma tributaria, in Dir. prat. trib., 1979, I, p. 3 ss.; ID., Ancora sulle cause della mancanza di certezza nel diritto tributario, in Giur. imp., 1984, p. 417 ss.; COPPA-SAMMARTINO, (voce) Sanzioni tributarie, in Enc. dir., XLI, 1989, p. 448; DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributa-rio, Milano, 1993, p. 494; DUS, Teoria generale dell’illecito fiscale, Milano, 1957, p. 187; FALSITTA, Ri-levanza delle circolari interpretative e tutela giurisdizionale del contribuente, in Rass. trib., 1988, I, p. 17; GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, p. 247 ss.; MAGNANI, La tutela giurisdizionale contro i provvedimenti sanzionatori dell’Amministrazione finanziaria, in AA.VV., Le sanzioni in materia tributaria, atti del Convegno di studio svoltosi a Sanremo, 21-22 ottobre 1978, Milano, 1979, pp. 171 ss. L’evoluzione storico-legislativa è stata ricostruita da LOGOZZO, Dichiarazione di non applica-bilità delle sanzioni, cit., p. 154, nonché, in modo particolareggiato, ID., L’ignoranza della legge tribu-taria, Milano, 2002, p. 93 ss. e p. 113 ss., e, più di recente, ID., La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, cit., p. 388 ss.

6 Nel vigore della L. 7 gennaio 1929, n. 4, si riteneva che questa disciplina riguardasse anche la soprattassa (in dottrina, DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., p. 507, e GLENDI, L’errore sulla norma tributaria, in Corr. trib., 1997, p. 1613, mentre sembra implicitamente aderire all’opposto indirizzo LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 118, il quale cita a sua volta COPPA-SAMMARTINO, op. cit., p. 239; sulla questione si veda anche la Circ. 23 aprile 1996, n. 98; sul carattere sanzionatorio della soprattassa, si veda Cass., sez. un., 6 maggio 1993, n. 5246, in Riv. dir. sc. fin., 1993, II, p. 79 ss., con nota di GIOVANNINI, La Cassazione supera l’equivoco sulla natura della soprattassa. Ipotesi di riforma, e in Boll. trib., 1993, p. 1078 ss., con nota di TESAURO, Il privilegio per le imposte sui redditi non si applica alle soprattasse (e non si applica neppure all’indennità di mora)).

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Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685

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sero «a casi dubbi di applicazione di tributi, come tali riconosciuti dall’ammini-strazione centrale». La medesima ratio caratterizzava l’art. 248, D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 7, il quale escludeva l’applicabilità delle sanzioni previste per l’omissio-ne, la tardività o l’incompletezza della dichiarazione «se l’obbligo di dichiarazione era fondatamente contestabile per obiettiva incertezza sull’esistenza dei presuppo-sti dell’obbligazione tributaria».

In seguito alla riforma degli anni ’70, per le imposte sui redditi l’art. 46, comma 5 8 prima e, in seconda battuta, l’art. 55, ult. comma, D.P.R. n. 600/1973 9 statuiva-no quanto segue: «gli organi del contenzioso tributario possono dichiarare non dovute le pene pecuniarie quando la violazione è giustificata da obiettive condi-zioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce». In materia di imposta sul valore aggiunto, era di identico tenore testuale l’art. 48, ult. comma, D.P.R. n. 633/1972 10.

Nell’ambito della disciplina del contenzioso tributario, l’art. 39 bis, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 11, rubricato “Errore sulla norma tributaria”, prevedeva quan-to segue: «la Commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non pe-nali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposi-zioni alle quali si riferisce». Rispetto ai precedenti citati, l’articolo si caratterizzava sotto un duplice profilo, vale a dire a) per la sostituzione del riferimento agli “or-gani del contenzioso tributario” con quello alla “Commissione tributaria”, nonché b) per l’applicabilità alle “sanzioni non penali” e non più alle sole “pene pecuniarie”. Per quanto concerne il rapporto con le disposizioni relative ai singoli tributi, secondo un primo orientamento 12 l’articolo in materia di contenzioso ne avrebbe integrato il contenuto, operando solo in via sussidiaria, mentre, in base ad un secondo indi-rizzo 13, la disciplina de qua, in quanto sopravvenuta e inserita in un testo di genera-le applicazione, contenente la revisione di tutta la disciplina nel contenzioso tribu-tario, avrebbe abrogato ex art. 15 disp. prel. c.c. la precedente normativa, avendo

7 Abrogato dall’art. 76, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. 8 Soppresso dall’art. 2, D.P.R. 24 dicembre 1976, n. 920, con effetto dal 20 gennaio 1977. 9 Introdotto dall’art. 2, D.P.R. n. 920/1976, con effetto dal 1° gennaio 1974, e soppresso dall’art.

16, comma 2, n. 3, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. 10 Aggiunto dall’art. 1, D.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24, con effetto dal 1° aprile 1979, e soppresso

dall’art. 16, comma 2, n. 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. 11 Inserito dall’art. 26, D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739, con effetto dal 1° gennaio 1982. 12 COPPA-SAMMARTINO, op. cit., p. 448. 13 In dottrina, DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., p. 504; GIO-

VANNINI, Errore e sanzioni amministrative tributarie: la buona fede oggettiva esclude la pena, nota a CTR Lazio, sez. I, 21 dicembre 1998, n. 531 e CTP Roma, sez. XVII, 4 marzo 1998, n. 49, in GT-Riv. giur. trib., 1999, p. 618; LOGOZZO, L’obiettiva incertezza della legge nella violazione degli obblighi tribu-tari, in Rass. trib., 1998, p. 978. In giurisprudenza, Cass., sez. I, 10 aprile 1990, n. 2979, in CED Cas-sazione, Rv. 466534; Cass., sez. un., 23 giugno 1993, n. 6951, ibidem, Rv. 482887.

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disciplinato l’intera materia – con riferimento alla applicazione di tutte le sanzioni non penali – già regolata dalla legge anteriore con esclusivo riferimento all’applica-zione delle pene pecuniarie previste per la violazione delle sole norme relative alle imposte sui redditi e all’imposta sul valore aggiunto.

2.1. La disciplina vigente Tre sono le disposizioni – di carattere sia processuale, sia sostanziale – che at-

tualmente regolano il potere di disapplicazione delle sanzioni amministrative per incertezza normativa tributaria 14.

Tra le disposizioni generali sul processo tributario concernenti i poteri del giu-dice, l’art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha il medesimo tenore testuale del previgente art. 39 bis, D.P.R. n. 636/1972 e ne ripropone una simmetrica questio-ne di successione delle leggi nel tempo 15, strettamente intrecciata a quella riguar-dante la sua applicabilità ex officio: secondo alcuni autori 16, l’art. 8, D.Lgs. n. 546/ 1992 è ancora in vigore, in quanto solo esso legittima il giudice a disapplicare la sanzione indipendentemente dalla domanda, mentre, a parere di altri, con l’im-pugnazione del provvedimento, la domanda si può considerare virtualmente espres-sa in ragione del rapporto di necessaria connessione con l’oggetto della lite – per così dire – principale, senza che la decisione possa essere considerata affetta da vi-zio di ultrapetizione 17 qualora sia dichiarata la non debenza delle sanzioni. Si tratta di problematiche oggetto di ampie riflessioni della dottrina 18, la cui trattazione ri-chiederebbe approfondimenti incompatibili con l’economia del presente lavoro.

14 Nell’ambito di applicazione della scusante si ritiene ricadano le sanzioni accessorie, mentre sono esclusi gli interessi di mora e le misure di garanzia, come ipoteca e sequestro (DELLA VALLE, L’esimente dell’obiettiva incertezza, in TABET (a cura di), La riforma delle sanzioni amministrative e tributarie, Torino, 2000, p. 124; GIOVANNINI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 «Errore sul-la norma tributaria», in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Glendi e Conso-lo, Padova, 2008, p. 98; LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 174 ss.).

Per quanto concerne i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, opera l’art. 15, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (amplius FLORA, Errore, tentativo, concorso di persone e di reati nella nuo-va disciplina dei reati tributari, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 697 ss.).

15 Sul rapporto tra l’art. 8, D.Lgs. n. 546/1992 e le disposizioni ad esso preesistenti, si veda GIO-VANNINI, Disapplicazione delle sanzioni e processo tributario, in Giur. it., 1997, p. 48 ss. Secondo l’Am-ministrazione finanziaria, l’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 «esprime [...] una disciplina genera-le ed organica della materia capace di sostituirsi a tutte le disposizioni previgenti» (Circ. 10 luglio 1998, n. 180; in dottrina, v. BATISTONI FERRARA, Principio di personalità, elemento soggettivo responsa-bilità del contribuente, cit., p. 1509 ss., nonché TRIVELLIN, Commento all’art. 10, L. 27 luglio 2000, n. 212, in Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo I, Diritto costituzionale tributario e Statuto del contribuente, a cura di Falsitta-Fantozzi-Marongiu-Moschetti, Padova, 2011, p. 564).

16 Ad esempio LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 176 ss. 17 GIOVANNINI, Errore e sanzioni amministrative tributarie, cit., p. 617. 18 Da ultimo è intervenuto LOGOZZO, La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza del-

la legge, cit., p. 411 ss.

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Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685

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Nella disciplina generale delle sanzioni amministrative, l’art. 6, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 esclude la punibilità dell’autore della violazione «quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono [...]».

In consonanza con il principio di tutela dell’affidamento e della buona fede 19, l’art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (il cosiddetto “Statuto dei diritti del contribuente”) prescrive che «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria [...]; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria» 20.

Gli articoli richiamati si caratterizzano per una diversa littera legis: la formula-zione dell’art. 10, comma 3, L. n. 212/2000, ove il riferimento alle “disposizioni” è stato sostituito con quello alla “norma”, appare più appropriata 21. “Disposizione” è «ogni enunciato normativo contenuto in una fonte del diritto», mentre il termine “norma” denota «non l’enunciato stesso, ma il suo contenuto di significato» 22. “Interpretazione” è l’operazione di identificazione del significato, vale a dire «l’o-perazione intellettuale che conduce dall’enunciato al significato» 23: la disposizio-ne è dunque l’oggetto dell’interpretazione, mentre la norma è il suo risultato.

3. Il potere di disapplicazione spetta anche all’Amministrazione finanziaria

Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione asserisce che l’accerta-mento dell’incertezza normativa oggettiva tributaria «è esclusivamente demanda-to al giudice e non può essere operato dall’Amministrazione».

Tale affermazione si pone in linea di continuità rispetto ad altre pronunce di le-gittimità, nelle quali è stato escluso che l’incertezza normativa sia da rapportare

19 La disciplina richiamata si ispira al principio dell’affidamento e della buona fede oggettiva, es-sendo apparso ripugnante punire chi ha commesso violazioni a causa di proposizioni normative dif-ficilmente intelligibili per inettitudine del Legislatore (GIOVANNINI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, cit., p. 97).

20 L’ultimo periodo riportato nel testo è stato introdotto dall’art. 1, comma 1, D.L. 17 giugno 2005, n. 106, conv., con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2005, n. 156.

21 Così MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, p. 142, nonché Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, cit., nella quale la Corte di Cassazione è intervenuta «con un adeguato lavoro di riscrittura» della nozione di “incertezza normativa oggettiva tributaria”, per ov-viare alle “impurità lessicali” delle norme che la prevedono quale causa di disapplicazione delle san-zioni amministrative.

22 GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, p. 99 ss. 23 GUASTINI, op. ult. cit., p. 99 ss.

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all’ufficio tributario, «perché il titolare del potere d’imposizione tributaria deve svolgere continuamente un’attività d’interpretazione normativa, del cui risultato si deve dichiarare certo a prescindere dalle difficoltà incontrate, con la conseguenza che l’ufficio tributario non disapplicherà mai, di sua iniziativa, le sanzioni ammini-strative tributarie; esso, infatti, al pari del Giudice, ma in ragione di un dovere di-verso – il dovere d’ufficio amministrativo – non può avere incertezze, perché è te-nuto a dare attuazione alla norma giuridica tributaria, dopo averla previamente in-dividuata [...]» 24.

In dottrina pare consolidato un diverso indirizzo. In passato c’era il dubbio se gli uffici potessero disapplicare le sanzioni amministrative di propria iniziativa: tut-tavia, già con riferimento all’abrogato art. 55, ult. comma, D.P.R. n. 600/1973, si sosteneva che questo potere, pur in mancanza di un’espressa disposizione in tal senso, spettasse comunque anche all’Amministrazione finanziaria 25. Alla luce della disciplina vigente, la questione è considerata ormai superata 26: mentre l’art. 8, D.Lgs. n. 546/1992 si rivolge specificamente al giudice, attribuendogli un potere-dovere da esercitare a sanzione irrogata 27, gli artt. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 e 10, comma 3, L. n. 212/2000 si riferiscono indistintamente all’Amministrazione fi-nanziaria e al giudice tributario 28, obbligando la prima a non irrogare la sanzione

24 Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, cit. 25 DELLA VALLE, op. cit., p. 120. 26 In tal senso si sono espresse sia la COMMISSIONE PARLAMENTARE CONSUNTIVA IN MATERIA DI RI-

FORMA FISCALE (Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo recante principi generali in ma-teria di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, reperibile all’indirizzo http:// www.camera.it/_bicamerali/fiscale/relazgov/472.htm), sia l’Amministrazione finanziaria (Circ. 10 lu-glio 1998, n. 180).

27 DELLA VALLE, op. cit., p. 120; LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 156. 28 MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, cit., p. 143, rileva che, «il giudizio circa “le in-

certezze” non deve ritenersi di esclusiva pertinenza delle Commissioni tributarie. E infatti, se si con-sidera che il precetto non è più contenuto (solo) nel decreto sul processo tributario ma nello Statu-to e si riflette sulla sua letterale formulazione (l’art. 10 statuisce che «... le sanzioni non sono co-munque irrogate ...») emerge, con evidenza, la possibilità di riconoscere siffatto potere (che a me pare un potere-dovere) anche all’Amministrazione». Questo argomento è stato valorizzato anche da COLLI VIGNARELLI, La Suprema Corte interviene in tema di «obiettive condizioni di incertezza», cit., p. 482, testo e nota 18; DEL FEDERICO, Le garanzie dello Statuto in tema di illecito tributario, in MA-RONGIU (a cura di), Lo Statuto dei diritti del contribuente, cit., p. 35, il quale osserva inoltre che, anche prima dell’introduzione dello Statuto dei diritti del contribuente, la collocazione dell’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 nella legge generale sulle sanzioni amministrative tributarie permetteva all’Am-ministrazione finanziaria di applicare la scusante, anteriormente concepita come potere del solo giudice; GIOVANNINI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, cit., p. 98; LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 156; ID., La ragionevolezza dell’interpretazione erronea quale presupposto dell’obiettiva incertezza della legge tributaria, nota a Cass., sez. trib., 25 giugno 2009, n. 14987, in GT-Riv. giur. trib., 2009, p. 1068; ID., La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, cit., p. 405, ove si richiamano anche i lavori preparatori; LUPI, Manuale giuridico professio-nale di diritto tributario3, Milano, 2001, p. 716.

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Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4685

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amministrativa e demandando al secondo il compito di sindacare il mancato rico-noscimento dell’obiettiva incertezza 29.

4. Incertezza normativa oggettiva e soggettiva ignoranza incolpevole del diritto

Con la sentenza che qui si glossa, la Corte di Cassazione, pur riconoscendone l’identità di effetti, distingue l’incertezza normativa oggettiva dalla “soggettiva igno-ranza incolpevole del diritto”.

Anche sotto questo profilo, la pronuncia in commento si allinea ai precedenti del Giudice di legittimità, ove l’incertezza, definita come «conoscenza insufficiente e insicura, od equivoca» ovvero come «stato intellettivo del soggetto rispetto ad un dato oggetto – la norma tributaria [...] – che strutturalmente si caratterizza, sotto il profilo quantitativo, per la sua insufficienza e, sotto il profilo qualitativo, per la sua insicurezza o per la sua equivocità», è collocata in posizione mediana tra “cono-scenza piena e sicura” e “ignoranza” o “assenza totale di conoscenza” 30.

La dottrina sembra condividere questa impostazione quando riconosce che l’in-certezza deve essere distinta dall’ignoranza: all’interno delle diverse graduazioni di conoscenza giuridicamente rilevanti, l’incertezza sussiste quando non vi è un «ele-vato grado di chiarezza normativa» o, comunque, una «inequivoca interpretazio-ne della norma tributaria» 31, mentre l’ignoranza attiene «alla assoluta non cono-scenza della disposizione di legge» 32.

4.1. Le due scusanti producono i medesimi effetti, ma ricevono separata disciplina Come ribadito anche nell’arresto in rassegna, nell’ambito tributario le due figu-

re ricevono separata disciplina, pur nella medesima sedes materiae 33: l’incertezza

29 BATISTONI FERRARA, L’incertezza obiettiva quale causa di non punibilità ed i poteri del Fisco, cit., p. 203 ss.; DEL FEDERICO, Cause di non punibilità in tema di illecito amministrativo tributario, in Corr. trib., 2002, p. 2749 ss.; DELLA VALLE, op. cit., p. 120; FICARI, La disapplicazione delle sanzioni amministrative nei procedimenti tributari, in Rass. trib., 2002, p. 499; GIOVANNINI, Potere punitivo e incertezza della legge, cit., p. 2081 ss.; LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 176; ID., L’ignoranza della legge tributaria, cit., 123; LUPI, Diritto tributario – Parte generale8, Milano, 2005, p. 286.

30 Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, cit. Nella stessa sentenza, l’incertezza è distinta dalla “conoscibilità” o “conoscenza potenziale”: in caso di incertezza, il soggetto «non è in grado di addivenire ad una conoscenza effettiva, piena e sicura», mentre, nella seconda situazione, «impe-gnandosi nello sforzo di associarsi alla conoscenza di altri ed adottando un idoneo comportamento, può acquisire la conoscenza resagli possibile e transitare dall’ignoranza alla conoscenza effettiva» (amplius LOGOZZO, La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, cit., p. 400).

31 LOGOZZO, La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, cit., p. 405. 32 LOGOZZO, op. ult. cit., p. 400. 33 TESAURO, Istituzioni di diritto tributario – Parte generale9, Torino, 2006, p. 329.

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normativa è regolata – ed anteposta – nel comma 2 dell’art. 6, D.Lgs. n. 472/1997, mentre l’ignoranza incolpevole ha ricevuto esplicita consacrazione nel comma 4 del medesimo articolo, in base al quale «l’ignoranza delle leggi tributarie non rile-va se non si tratti di ignoranza inevitabile».

Mentre la prima disposizione ha raccolto il testimone dai precedenti legislativi in materia tributaria, con la seconda il Legislatore ha espressamente esteso all’ille-cito amministrativo tributario la scusante dell’errore di diritto per oggettiva impos-sibilità di conoscenza del precetto ex art. 5 c.p. 34: la disciplina delle cause di esclu-sione della responsabilità è stata così uniformata ai principi dettati dal codice pena-le 35, come imposto con la delega contenuta nell’art. 3, comma 133, lett. d), L. 23 dicembre 1996, n. 662 36.

34 V. COMMISSIONE PARLAMENTARE CONSUNTIVA IN MATERIA DI RIFORMA FISCALE, op. cit.; Circ. 10 luglio 1998, n. 180; in dottrina, per tutti si vedano BATISTONI FERRARA, Principio di personalità, elemento soggettivo responsabilità del contribuente, cit., p. 1509 ss., e LOGOZZO, La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, cit., p. 395.

35 DEL FEDERICO, Il principio di personalità, in La riforma delle sanzioni amministrative e tributarie, a cura di Tabet, Torino, 2000, pp. 19-20; DELLA VALLE, op. cit., p. 117, nonché pp. 112-113; LOGOZ-ZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 157 e p. 159 ss.; ID., L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 101 e p. 121, ove l’Autore riconosce nella scusabilità dell’ignoranza di diritto incol-pevole un «principio immanente a qualsiasi settore del diritto punitivo (penale e amministrativo)».

36 La riforma del sistema sanzionatorio tributario è stata attuata mediante un intervento legislativo organico, ritenuto ormai improcrastinabile in ragione della necessità di riordinare la produzione legi-slativa in materia (MARONGIU, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, in Riv. dir. trib., 2004, I, p. 373 ss.), superando «la logica atomistica e parcellizzata, contraddistinta da una plu-ralità di micro-sistemi, che aveva connotato il nostro ordinamento fin dall’unificazione nazionale, per identificare un corpus unitario di principi generali valevoli per tutte le fattispecie sanzionatorie ammini-strative» (BORIA, Il sistema dei tributi, in RUSSO, Manuale di diritto tributario – Parte speciale2, Milano, 2009, p. 32). Con il D.Lgs. n. 472/1997 si è tentato di razionalizzare la disciplina generale dell’illecito amministrativo tributario, già profondamente mutata rispetto all’assetto originario della L. 7 gennaio 1929, n. 4 per effetto di una pluralità di elementi, come, ad esempio, l’introduzione degli interessi di mora quale forma generalizzata di risarcimento del danno derivante da ritardo nell’adempimento degli obblighi tributari, l’impiego della soprattassa quale misura sanzionatoria principale al pari della pena pecuniaria (v. Circ. 10 luglio 1998, n. 180; per una puntuale analisi del quadro anteriore alla riforma del 1997, si vedano BATISTONI FERRARA, Progetto di riforma del sistema sanzionatorio tributario non penale, in Rass. trib., 1994, p. 1210 ss.; ID., Pene pecuniarie e soprattasse: prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., 1996, I, p. 49 ss.; ID., Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di sanzioni amministrative e penali tributarie (rassegna di giurisprudenza), in Dir. prat. trib., 1996, II, p. 351 ss.; CORDEIRO GUERRA, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, passim).

Dall’assetto della L. n. 4/1929, ove prevaleva l’idea che la sanzione tributaria fosse sostanzial-mente risarcitoria (v. SPINELLI, Le preleggi penali finanziarie, Padova, 1933, p. 81 ss.; ZANOBINI, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, p. 87 ss.; più di recente, MISCALI, Contributo alla teoria genera-le delle sanzioni tributarie: la pena pecuniaria, in Dir. prat. trib., 1985, I, p. 349 ss., e PERRONE, Le san-zioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. fin., 1978, I, p. 640) o quantomeno solo par-zialmente con funzione preventivo-repressiva (v. MEGALE, La responsabilità civile dell’erede del tra-sgressore delle leggi finanziarie, in Riv. it. dir. fin., 1940, I, p. 278 ss.; A.D. GIANNINI, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1968, p. 301 ss.), si è passati ad un sistema imperniato sulla funzione affittiva

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Le disposizioni richiamate possono apparire ridondanti 37. Se in passato la scusante dell’incertezza normativa oggettiva bilanciava la man-

cata previsione del principio di colpevolezza 38, oggi «nel nostro ordinamento v’è ormai una abbondanza di disposizioni che si riferiscono all’ignoranza incolpevole della legge nelle sue varie manifestazioni [...]. Ne risulta un sistema disarticolato, se non disorganico, trattandosi di disposizioni che non solo sono contenute in più leggi fondamentali (e talvolta presentano lo stesso tenore letterale), ma che rap-presentano “specificazioni” o “esemplificazioni”, sia pur importanti, del principio ge-

(amplius D’AYALA VALVA, Aspetti problematici dell’imputazione soggettiva della sanzione amministrati-va tributaria, in Riv. dir. trib., 2003, p. 205 ss.).

Era avvertita l’esigenza di allineare il sistema dell’illecito amministrativo tributario a quello del-l’illecito amministrativo, regolato dalla L. n. 689/1981, con l’adozione di principi generali di matrice penalistica (v. BATISTONI FERRARA, Le sanzioni tributarie nell’esperienza italiana, in Rass. trib., 1996, p. 1159 ss.; CORDEIRO GUERRA, Prime osservazioni sul disegno di legge delega per la riforma del sistema delle sanzioni tributarie non penali, in Rass. trib., 1996, p. 1168 ss.; GIOVANNINI, Sui principi del nuovo sistema sanzionatorio non penale in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 1997, I, p. 1188 ss.; LUPI, Pri-me osservazioni sul nuovo sistema delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. trib., 1998, p. 328 ss.; MARONGIU, La nuova disciplina delle sanzioni amministrative tributarie, in Dir. prat. trib., 1998, I, p. 264 ss.), divenuta pressante specie dopo che la Corte di Cassazione sottrasse le pene pecuniarie tri-butarie alle disposizioni dettate da tale legge (con riguardo alla questione della intrasmissibilità agli eredi delle pene pecuniarie, Cass., sez. I, 11 febbraio 1988, n. 1468, in CED Cassazione, Rv. 457555; in tema di elemento soggettivo, Cass., sez. un., 8 gennaio 1997, n. 125, ibidem, Rv. 480187): sul pia-no sistematico, la logica ispiratrice dell’intero impianto sanzionatorio era quindi caratterizzata da «un comune sottofondo assiologico, risultando tutte le norme sanzionatorie contraddistinte dai principi propri del diritto penale, e dunque orientate verso una prospettiva di deterrenza e di prevenzione gene-rale» (BORIA, op. cit., p. 32). Le sanzioni tributarie rivestono oggi il compito comune a tutte le sanzioni (LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 95), assolvendo una funzione intimidatoria e re-pressiva di comportamenti che l’ordinamento considera riprovevoli in quanto volti a ledere o a porre in pericolo beni ed interessi considerati meritevoli di tutela (Circ. 10 luglio 1998, n. 180).

La scelta legislativa di superare i condizionamenti paracivilistici e di adottare il modello punitivo – anche se adattato attraverso istituti e meccanismi originali (DEL FEDERICO, Violazioni e sanzioni am-ministrative nel diritto tributario, reperibile all’indirizzo http://www.corsomagistratitributari.unimi.it/ STRUTTURA/DOTTRINA%20E%20RELAZIONI/RISCOSSIONE/Approfondimenti/A-20%20Del %20 Federico.pdf) – ha inoltre fatto venir meno il tormentato dibattito concernente la natura delle san-zioni tributarie, che divideva la dottrina nella vigenza della L. n. 4/1929: mentre alcuni autori sostene-vano la tesi della responsabilità oggettiva (COPPA-SAMMARTINO, op. cit., p. 448 ss.), altri studiosi inqua-dravano l’illecito amministrativo tributario nell’ambito del diritto punitivo (DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., p. 41 ss.), tratteggiando un sistema sanzionatorio satellite.

37 Secondo LANZI-ALDROVANDI, L’illecito tributario, Padova, 1999, p. 31, «non sembra avere molto senso l’autonoma previsione [...] in tema di ignoranza della legge tributaria» di cui al comma 4 dell’art. 6, D.Lgs. n. 472/1997, giacché tale disciplina «è già contemplata nella tematica dell’errore di diritto, anche tributario, essendo l’ignoranza una delle cause che determina l’errore (di diritto). Ed anche l’autonoma e distinta previsione di cui al comma 2 dell’art. 6 (sulle obiettive condizioni di incertezza della normativa) pare essere null’altro che una esemplificazione del più generale princi-pio del rilievo esimente dell’errore incolpevole ancorché di diritto». Condivide queste considera-zioni DEL FEDERICO, Cause di non punibilità in tema di illecito amministrativo tributario, cit., p. 2749 ss.

38 DELLA VALLE, op. cit., p. 119.

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nerale di scusabilità dell’ignoranza di diritto incolpevole. Cosicché, senza ironia, si potrebbe dire che alla cronica incertezza della legge tributaria si aggiunge l’incer-tezza sulla portata delle diverse scusanti» 39.

Tali considerazioni paiono rafforzate dal confronto con le soluzioni esegetiche raggiunte in altri sistemi sanzionatori a livello sia interno che internazionale.

Nell’ordinamento interno, l’efficacia scusante dell’errore sul precetto è stata estesa per via di interpretazione a settori del sistema punitivo che affiancano il diritto penale in senso stretto: pur in assenza di una previsione espressa, in tal senso si è consolidata la giurisprudenza di legittimità per l’illecito amministrativo, disciplinato, nei suoi profili generali, dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 40.

Sempre per via esegetica, la CEDU ha individuato, quali corollari del principio di legalità dei reati e delle pene ex art. 7 CEDU, le condizioni qualitative di accessi-bilità e prevedibilità. Nella sentenza Sud Fondi S.r.l. ed altri c. Italia 41, il Giudice di Strasburgo ha ricordato che la legge «deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono»: questa condizione è soddisfatta «quando la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, e se necessa-rio con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali, quali atti e omis-sioni implicano la sua responsabilità penale». La portata della nozione di prevedi-bilità «dipende in gran parte dal contenuto del testo in questione, dall’ambito che esso ricopre nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari». La prevedibi-lità di una legge «non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della cau-

39 LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., pp. 121-122; conformemente si sono espressi DELLA VALLE, op. cit., p. 116, e TRIVELLIN, op. cit., p. 565.

40 Anche nella materia dell’illecito amministrativo disciplinato dalla L. n. 689/1981 deve ritener-si applicabile l’art. 5 del c.p., quale risulta a seguito della sentenza della Corte cost. n. 364/1988: così è massimata Cass., sez. I, 4 luglio 1992, n. 8180, in CED Cassazione, Rv. 478026 (in senso conforme, si vedano Cass., sez. I, 15 aprile 1998, n. 3797, ibidem, Rv. 514485; Cass., sez. I, 10 settembre 1999, n. 9642, ibidem, Rv. 529821; Cass., sez. I, 26 ottobre 2004, n. 20776, ibidem, Rv. 577844; Cass., sez. II, 22 novembre 2006, n. 24803, ibidem, Rv. 593362; Cass., sez. II, 3 maggio 2010, n. 10621, ibidem, Rv. 613100; nonché Cass., sez. trib., 9 aprile 2003, n. 5615, ibidem, Rv. 562052, e Cass., sez. trib., 30 ottobre 2009, n. 23017, ibidem, Rv. 610701).

41 CEDU, 20 gennaio 2009, ricorso n. 75909/01, causa Sud Fondi S.r.l. ed altri c. Italia. Nella controversia concernente la lottizzazione di Punta Perotti, la Corte di Cassazione, pur riconoscendo che gli imputati erano incorsi in errore scusabile ex art. 5 c.p. nell’interpretazione delle norme urba-nistiche, ha applicato la confisca ex art. 19, L. n. 47/1985, in linea con quella giurisprudenza di legit-timità che, attribuendo natura amministrativa allo strumento, ne ammetteva l’operatività anche in caso di assoluzione degli imputati, ove integrata oggettivamente la fattispecie di lottizzazione abusi-va. La Corte di Strasburgo ritiene che, nel caso di specie, fosse impossibile prevedere che sarebbe stata inflitta una sanzione poiché la base giuridica del reato non rispondeva ai criteri di chiarezza, accessibilità e prevedibilità (parr. 106-110 e 114): secondo la CEDU, l’applicazione di una sanzione nei confronti dei ricorrenti si è risolta nella violazione dell’art. 7 CEDU, in quanto le leggi interne che la contemplavano risultavano oscure e non permettevano di prevederla.

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sa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto». Questo vale in particolare per i professionisti, «abituati a dover dimostrare una grande prudenza nell’esercizio del loro mestiere»: da tali soggetti «ci si può pertanto aspettare che valutino con particolare attenzione i rischi che quest’ultimo comporta».

4.2. Il rapporto tra le due scusanti secondo prassi e dottrina Prassi e dottrina concordano nel negare che le due scusanti siano sovrapponibili. Secondo l’Amministrazione finanziaria 42, come l’incertezza normativa, anche

l’ignoranza inevitabile si risolve in errore di diritto: l’art. 6, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997 «esprime l’ipotesi estrema nella quale – al di fuori dei casi considerati nel comma 2 [...] – siffatto errore rileva ai fini delle sanzioni tributarie». Presuppo-sto dell’ignoranza inevitabile è che «nessun rimprovero, neppur di leggerezza, possa esser mosso all’autore della violazione per aver egli fatto tutto il possibile per uni-formarsi alla legge».

In dottrina, si è osservato che, nell’ambito tributario, l’ignorantia legis incolpe-vole «si ha quando la mancata o inesatta conoscenza della legge non sia rimprove-rabile al soggetto perché determinata da una delle cause prese in considerazioni dalle “scusanti” previste dall’ordinamento», tra le quali sono annoverate l’incertez-za normativa («che si traduce in un’impossibilità oggettiva, generale ed invincibile [...], di conoscenza dell’esatto significato e dell’esatta portata della regola juris») e l’ignoranza “assoluta” inevitabile («dovuta ad impossibilità oggettiva di conoscere l’esistenza della legge») 43. Secondo tale impostazione scientifica, le due scusanti differiscono sotto due profili: a) la ratio, posto che, per l’obiettiva incertezza, essa troverebbe fondamento «nella mancanza di chiarezza e sistematicità dell’ordina-mento tributario», mentre, per l’ignoranza inevitabile, essa risiederebbe «nel bi-lanciamento dell’esercizio del potere punitivo dello Stato e dell’interesse indivi-duale dell’agente a non essere sanzionato per comportamenti non implicanti una consapevole ribellione e trascuratezza nei confronti dell’ordinamento» 44; b) la di-versa colorazione delle due scusanti, oggettiva una e soggettiva l’altra 45.

4.3. L’inquadramento delle due scusanti nella figura penalistica dell’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto Illustrando la disciplina di cui all’art. 6, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 472/1997, si è

osservato che le disposizioni che regolano le varie manifestazioni dell’ignorantia legis nell’ambito tributario possono apparire pleonastiche.

42 Circ. 10 luglio 1998, n. 180; tale posizione è fatta propria anche da BATISTONI FERRARA, Princi-pio di personalità, elemento soggettivo responsabilità del contribuente, cit., p. 1559 ss.

43 LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 143. 44 LOGOZZO, op. ult. cit., p. 161. 45 TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit., p. 329.

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La prima ragione di tale rilievo è già stata anticipata supra. Il comma 4 riprodu-ce quanto prescritto dall’art. 5 c.p. in tema di ignoranza, mentre il comma 2 racco-glie una consuetudine legislativa tipica della materia tributaria, riconoscendo sepa-rata rilevanza all’incertezza: si sarebbe potuto raggiungere il medesimo risultato per via esegetica, come è avvenuto ad opera della Corte di Cassazione, con riferi-mento all’illecito amministrativo di cui alla L. n. 689/1981 e, più di recente, della Corte di Strasburgo, per l’art. 7 CEDU.

La seconda ragione nasce da considerazioni di carattere sistematico. Le due scusanti tributarie dell’incertezza normativa oggettiva e della soggettiva ignoranza incolpevole «rappresentano “specificazioni” o “esemplificazioni”, sia pur impor-tanti, del principio generale di scusabilità dell’ignoranza di diritto incolpevole» 46 di matrice penalistica: in buona sostanza, sia la cosiddetta «incertezza normativa oggettiva tributaria», sia la «soggettiva ignoranza incolpevole del diritto» vanno ri-condotte alla categoria concettuale unitaria dell’errore di diritto per oggettiva im-possibilità di conoscenza del precetto, così come elaborata dalla dottrina penalistica e recepita dalla Corte costituzionale con riferimento all’art. 5 c.p. 47. Questa con-clusione è confortata anche dalla casistica elaborata da dottrina e giurisprudenza, ove le figure sintomatiche delle scusanti tributarie sostanzialmente coincidono con quelle elaborate con riferimento all’illecito penale e amministrativo 48.

4.3.1. L’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto quale causa di esclusione della colpevolezza Nell’ambito della concezione normativa della colpevolezza 49, la coscienza del-

l’illiceità è concepita come elemento costitutivo autonomo costituzionalmente richie-

46 LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., pp. 121-122; conformemente si sono espressi DELLA VALLE, op. cit., p. 116, e TRIVELLIN, op. cit., p. 565. Di diverso avviso sembra essere la Corte di Cassazione, secondo cui «non convince la riconduzione dell’istituto nell’ambito di operatività del principio generale della scusabilità dell’ignoranza di diritto incolpevole» (Cass., sez. trib., 28 no-vembre 2007, n. 24670, cit.).

47 Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, commentata, per il settore tributario, da BETTIOL, L’errore su legge extrapenale e legge tributaria, in Rass. trib., 1988, p. 316 ss.; LOVISOLO, Disciplina fiscale e «ignoranza inevitabile della legge penale»: prime considerazioni, in Dir. prat. trib., 1988, II, p. 743 ss.; PUOTI, L’incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p.: considerazioni sulla sentenza n. 364 del 1988 nell’ot-tica del diritto tributario, in Giur. cost., 1988, I, p. 1504 ss., nonché LOGOZZO, L’ignoranza della legge tri-butaria, cit., p. 99 ss.

48 Per più ampi approfondimenti, si rinvia a LOGOZZO, La scusante dell’illecito tributario per obiet-tiva incertezza della legge, cit., p. 406, testo e nota 26, nonché a DEL TORCHIO, Incertezza sull’interpre-tazione normativa: inapplicabilità delle sanzioni, commento all’art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in TESAURO (a cura di), Codice commentato al processo tributario, Torino, 2011, p. 145 ss.

49 Secondo la concezione normativa della colpevolezza, è colpevole un soggetto imputabile che abbia realizzato con dolo o colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da rendere necessitata l’azione illecita (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale – Parte generale5, Bologna, 2007, p. 321). I presupposti del concetto complesso della colpevolezza sono a) imputabilità; b) conoscibi-lità del divieto; c) dolo o colpa; d) assenza di scusanti.

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sto 50: il rimprovero per il fatto commesso sarà tanto più giustificato quanto più il reo sia consapevole di aver realizzato una condotta contrastante con l’ordinamen-to giuridico. Ecco allora che «il grado di appartenenza psicologica del fatto crimi-noso all’autore cresce, nella misura in cui il soggetto si rende conto del disvalore del comportamento realizzato» 51. Se la colpevolezza presuppone la conoscenza degli elementi costitutivi del fatto criminoso, la mancata o falsa rappresentazione di uno o più requisiti dell’illecito esclude la punibilità, per il venir meno della rim-proverabilità dell’agente: sia la mancanza di conoscenza (ignoranza) sia l’erronea conoscenza (errore) della norma incriminatrice 52 impediscono che l’agente si ren-da conto di commettere un fatto integralmente sussumibile nella fattispecie illecita.

Le finalità dell’intervento sanzionatorio possono essere intellegibili all’indivi-duo soltanto a condizione che egli sia cosciente dell’illegalità della condotta realiz-zata. Sono così soddisfatte le esigenze di prevenzione generale: le norme possono operare come strumento di orientamento culturale solo se i consociati le assumono a criterio-guida del proprio comportamento, essendo stati preventivamente messi in condizione di conoscerle. A ciò si aggiunga che la sanzione opera come stru-mento di controllo sociale in maniera più coercitiva se l’ordinamento rende cono-scibile ciò che è vietato. Vengono altresì accolte le istanze di retribuzione e rieduca-zione, perché soltanto chi sa di aver commesso un fatto contrario all’ordinamento giuridico è in grado di riconoscere nella pena sia una giusta retribuzione per il male arrecato, sia uno strumento di correzione. La risposta punitiva può operare in mo-do efficace unicamente nei confronti di un soggetto che si trovi in condizione di avvertire il disvalore del fatto realizzato perché il precetto risulta conoscibile: diver-samente opinando, si altererebbe «quel rapporto di fiducia tra il cittadino e l’auto-rità che fa, tra l’altro, da premessa alla stessa disponibilità del reo a sottoporsi al procedimento rieducativo» e sarebbe compromesso il carattere personale della re-sponsabilità (art. 27, commi 1 e 3, Cost.) 53. L’intento di bilanciare la necessità ge-neral-preventiva di non indebolire la tenuta dell’ordinamento con i principi di col-pevolezza e responsabilità personale sta alla base dell’irrilevanza dell’errore sul pre-cetto, a meno che si tratti di errore scusabile perché inevitabile: l’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto si atteggia quindi come causa di esclusione della colpevolezza, perché fa venir meno la possibilità di muovere un

50 Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, par. 15, cit. 51 FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 391. 52 Per giurisprudenza costante (v. Cass., sez. IV pen., 23 gennaio 1976, n. 1184, in CED Cassa-

zione, Rv. 132027), il principio della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale si riferisce tanto al caso di mancata conoscenza quanto a quello di erronea conoscenza della medesima.

Per la dottrina tributaria, si vedano gli approfondimenti di LOGOZZO, L’ignoranza della legge tri-butaria, cit., p. 132.

53 FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 393.

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rimprovero all’autore, lasciando integra l’antigiuridicità obiettiva del fatto 54. La dottrina contrappone due coppie concettuali tra loro simmetriche: a) la co-

noscibilità del carattere illecito del fatto rende evitabile e, per tale motivo, inescusa-bile l’ignoranza o l’errore in cui il soggetto sia caduto, con conseguente riconosci-mento della sua colpevolezza; b) dalla inevitabilità-scusabilità discende invece l’as-senza di colpevolezza e l’esclusione della punibilità. L’esigenza di una maggiore com-penetrazione psicologica tra fatto e autore 55, mediata dalla coscienza della carica antigiuridica del fatto commesso, è soddisfatta dalla mera possibilità di conoscenza (o conoscibilità) del carattere illecito del fatto 56: il rimprovero di colpevolezza può essere rivolto all’autore del fatto soltanto a condizione che, prima di agire, egli sia stato posto in grado di percepirne il carattere antigiuridico, mentre non gli si può muovere alcun addebito se, nella situazione in cui si è trovato ad agire, non aveva alcuna possibilità di comprendere la portata illecita del fatto commesso.

Questa impostazione ha ricevuto il crisma della Corte costituzionale nella sent. n. 364/1988 57, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 5 c.p., nella par-te in cui non escludeva le ipotesi di ignoranza inevitabile dal principio della inescu-sabilità dell’ignoranza della legge penale.

4.4. Una possibile chiave di lettura Alla luce di quanto sopra esposto, sembra ragionevole rilevare che, in materia

tributaria, l’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto, sia pur declinato nelle separate discipline su incertezza normativa oggettiva e sog-gettiva ignoranza incolpevole, si atteggia armonicamente rispetto al sistema puniti-

54 FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 408. 55 Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit. 56 Richiedere l’effettiva conoscenza da parte dell’agente renderebbe la prova più difficoltosa e

indurrebbe il reo ad addurre false giustificazioni (FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 394). 57 Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit. Poste alcune premesse ideologiche, metodologiche, storiche e dogmatiche, le argomentazioni

della Consulta sono cadenzate dalla valorizzazione del collegamento sistematico tra il comma 1 ed il 3 dell’art. 27 Cost., nei termini sopra esposti. Ma vi è di più, perché il Giudice delle leggi costruisce la propria esegesi nel quadro di un rapporto per così dire sinallagmatico tra Stato e destinatari delle norme sanzionatorie: intanto i cittadini hanno l’obbligo di osservare le norme, in quanto il Legisla-tore adempia preventivamente il suo obbligo di favorire, al massimo, la riconoscibilità sociale del loro effettivo contenuto precettivo. Il principio di legalità ex 25, comma 2, Cost., come pure le garanzie formali di cui all’art. 73, comma 3, Cost. impongono allo Stato l’adempimento di doveri costituzionali attinenti a formulazione, struttura e contenuti delle norme sanzionatorie: se lo Stato non garantisce una sufficiente determinatezza della fattispecie, i consociati non possono essere chiamati a risponde-re, non essendo possibile osservare un precetto privo di un contenuto riconoscibile. Secondo questa visione contrattualistica, anche ai singoli è richiesto l’adempimento di doveri strumentali di informa-zione e conoscenza, che costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale ex art. 2 Cost.: «l’assunzione da parte dello Stato dell’obbligo di non punire senza preventivamente informa-re i cittadini su che cosa sia vietato o comandato» corrisponde alla «richiesta, in contropartita, che i singoli s’informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima d’agire».

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vo nel suo complesso, impedendo che i consociati siano sanzionati qualora il pre-cetto sia privo di un contenuto riconoscibile 58.

Trattando delle circostanze di ordine oggettivo rilevanti ex art. 5 c.p., è la stessa Corte costituzionale ad annoverare, tra i casi d’impossibilità di conoscenza della leg-ge, «la (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo)» oppure il «caotico [...] atteggiamento inter-pretativo degli organi giudiziari» 59. Nelle parole della Consulta si riconoscono i ca-ratteri propri dell’incertezza normativa oggettiva tributaria e delle sue figure sinto-matiche 60: nella giurisprudenza di legittimità, ricorre infatti il riferimento alla equi-vocità del risultato dell’interpretazione, definita come la «situazione in cui si viene a trovare un soggetto, quando egli, dopo aver percorso tutte le fasi proprie del proce-dimento d’interpretazione normativa, giunge a confezionare più norme, cui si con-nettono necessariamente più significati, o a confezionare una norma alla cui formula linguistica sia possibile attribuire più significati, senza avere, in entrambi i casi, la si-curezza che il risultato conseguito sia l’unico tecnicamente possibile» 61. Ciò che ri-leva è che «la disposizione violata presenti incertezze tali da ammettere interpreta-zioni diverse o da ostacolare l’individuazione certa di un significato sufficientemente definito» 62. Si tratta quindi di una ambiguità normativa: un’unica disposizione espri-me più norme disgiuntamente, a seconda delle diverse interpretazioni 63.

58 GIOVANNINI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, cit., p. 98, nonché, in termini analo-ghi, ID., Errore e sanzioni amministrative tributarie, cit., p. 618; v. altresì MANTOVANI, Lingua e diritto. Prospettive di ricerca fra sociolinguistica e pragmatica, in GARZONE-SANTULLI (a cura di), Il linguaggio giuridico, Milano, 2008, p. 17 ss. e, in particolare, p. 45 ss., ove l’Autore sviluppa il parallelismo tra lingua e diritto quali strumenti di scambio intersoggettivo alla luce del Principio di Cooperazione di H.P. Grice e delle massime che ne costituiscono specificazione (quantità, qualità, relazione, modo).

59 Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit. La dottrina penalistica ha individuato ulteriori circo-stanze esterne al soggetto agente, idonee a precludergli la comprensione della regola di condotta da seguire in concreto, quali, ad esempio, indicazioni fuorvianti fornite dalle competenti autorità, auto-rizzazioni amministrative o prassi di abituale tolleranza da parte della Pubblica Amministrazione (FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 398).

60 V. DELLA VALLE, op. cit., p. 118; LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 124 e p. 160; PERINI, Il nuovo sistema sanzionatorio tributario amministrativo: considerazioni di un penalista, in Dir. prat. trib., 1998, I, p. 2013.

61 Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, cit. In senso conforme, Cass., sez. trib., 14 marzo 2012, n. 4013, in CED Cassazione, Rv. 622002; Cass., sez. trib., 20 aprile 2012, n. 6259, in bancadati DeJure.

62 Così GIOVANNINI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, cit., p. 98. Secondo LOGOZZO, La scusante dell’illecito tributario per obiettiva incertezza della legge, cit., p. 398, «è la situazione oggettiva di mancanza di chiarezza e sistematicità dell’ordinamento tributario, che, determinando l’inintelligibilità della norma, rende scusabile la violazione: l’equivocità della previsione normativa, comportando interpre-tazioni diverse, in un determinato momento, preclude l’individuazione del «certo» significato della legge». Altra dottrina ritiene la violazione giustificata soltanto quando sussista un rapporto di causalità tra obiettive condizioni di incertezza e errata interpretazione (COPPA-SAMMARTINO, op. cit., p. 450).

63 Le disposizioni sono “ambigue” quando possono essere interpretate in modi diversi: ad ogni in-

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4.4.1. Incertezza e ignoranza Si è detto dell’identità di effetti riconosciuta a incertezza e ignoranza da parte del

Legislatore tributario e confermata dalla giurisprudenza di legittimità, come testi-monia la pronuncia in rassegna: analoga dicotomia caratterizza l’illecito penale e amministrativo, con riferimento ai quali sono equiparati errore e ignoranza 64.

Incertezza ed errore sono intesi come interpretazione non corretta della norma o delle norme riferibili al caso concreto 65: elementi significativi e caratterizzanti di entrambi sono «il valore incerto del riferimento semantico, il contenuto ambiguo e polisenso, suscettibile di variare in dipendenza del modo interpretativo accolto, la coerenza soltanto parziale con altri dati normativi» 66. Ambedue le figure pre-suppongono la rappresentazione – in forma quantomeno problematica 67 – dell’e-sistenza e dell’applicabilità di una disposizione alla fattispecie concreta: «a cagione della difficoltà di cogliere l’esatto significato e l’esatta portata del dato normativo, l’agente conclude (erroneamente) per l’inesistenza del precetto, o per la sua inap-plicabilità al caso, con la conseguenza che non ritiene di dover conformare la pro-pria condotta a quella regola» 68.

Simmetricamente, per le varie forme di illecito l’ignoranza è definita quale totale mancanza di conoscenza esatta della norma e del suo ambito applicativo: in questo caso, «il deficit informativo è tanto grande da non far neppur lontanamente imma-ginare l’esistenza di un precetto o di un divieto, ai quali deve essere conformata la condotta dell’agente» 69.

Incertezza ed errore producono lo stesso effetto dell’ignoranza 70: a causa non di terpretazione corrisponde un diverso significato e una diversa norma (GUASTINI, op. cit., pp. 40-41). Ad esempio, si può incontrare una ambiguità di tipo sintattico analoga a quella che si rinviene menzio-nata nei manuali di logica: «tutti i ragazzi amano una ragazza» può essere inteso nel senso che cia-scun ragazzo ama una qualche ragazza oppure nel senso che vi è un’unica ragazza che è amata da tutti i ragazzi. Ad interpretazione ormai avvenuta, può presentarsi una “antinomia”: due norme sta-tuiscono per la medesima fattispecie – astratta (se l’antinomia è generata dalla struttura concettuale del discorso legislativo) o concreta (se l’antinomia è determinata dall’accidentale configurarsi della struttura del mondo) – conseguenze giuridiche tra loro incompatibili (GUASTINI, op. cit., p. 243 ss.; TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 143 ss.).

64 PALAZZO, (voce) Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, 1992, p. 122. 65 Secondo MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale 364/1988, in

Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, par. 5.1.2, nota 100, «soltanto a partire da una situazione di incertezza è infatti congetturabile un errore di interpretazione: esso infatti presuppone che il soggetto si sia rap-presentata, seppur in modo impreciso, l’eventualità che la situazione sia regolata da una norma».

66 Così MUCCIARELLI, op. cit., par. 5.1.2, il quale definisce questa situazione “oscurità relativa” del dato normativo.

67 PALAZZO, op. cit., p. 144. 68 MUCCIARELLI, op. cit., par. 5.1.2. 69 MUCCIARELLI, op. ult. cit., par. 5.1.2. 70 «L’incertezza della conoscenza non era diversa dalla sicurezza dell’ignoranza» (BUKOWSKI,

Notes of a Dirty Old Man, 1969).

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un deficit informativo assoluto, ma dell’oscurità del dato normativo, incertezza ed errore determinano «un grado di conoscenza (esatta) della norma e del suo ambi-to applicativo corrispondente a zero, posto che, al pari di colui che versa in stato d’ignoranza, anche chi si trova in stato d’errore ritiene di non dover adeguare la propria condotta ad una determinata regola sanzionata penalmente» 71. Se il sog-getto ha diligentemente adempiuto i doveri strumentali di informazione giuridica 72 e, ciononostante, è rimasto nel dubbio circa la liceità penale della sua condotta, que-sta situazione dipende dall’incapacità del Legislatore di trasmettere in modo cor-retto il contenuto precettivo della norma e non da una riprovevole trascuratezza dell’agente o da una sua ribellione alle regole dell’ordinamento 73.

4.4.2. La buona fede oggettiva quale criterio di valutazione della condotta dell’agente L’attenzione si sposta sulla valutazione della condotta dell’agente sotto il profilo

degli accertamenti che egli ha svolto per individuare l’esatta portata e il significato della legge 74. Se questa verifica conferma che il soggetto ha compiuto quanto ragio-nevolmente necessario, egli mostra un atteggiamento particolarmente attento nei confronti degli interessi di cui è portatore l’ordinamento: la condotta assunta non può essere considerata come segno di ostilità nei confronti dell’ordinamento o an-che solo come manifestazione di una riprovevole indifferenza 75.

Sorge l’esigenza di misurare la diligenza esigibile dal soggetto agente per l’adem-pimento del dovere strumentale di informazione giuridica, la cui inosservanza esclude l’inevitabilità dell’ignoranza 76: in ossequio al principio di buona fede ogget-tiva 77, il rimprovero non può essere mosso nei confronti di chi abbia fatto tutto quanto poteva per osservare la legge 78. Si richiede che la difficoltà interpretativa non dipenda da mere deficienze personali dell’interprete 79, pena il rischio di esiti

71 MUCCIARELLI, op. cit., par. 5.1.2. 72 V. MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, cit., p. 143. 73 PALAZZO, op. cit., p. 132. 74 PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, nota a Corte cost., 24

marzo 1988, n. 364, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p. 729. 75 PALAZZO, op. cit., p. 132; queste considerazioni sono riprese anche da MUCCIARELLI, op. cit., par. 5.1. 76 PALAZZO, op. cit., p. 141. 77 V. GIOVANNINI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, cit., pp. 98-99; ID., Potere punitivo e

incertezza della legge, cit., p. 2081 ss.; DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., p. 500; GLENDI, L’errore sulla norma tributaria, cit., p. 1613; LOGOZZO, Dichiarazione di non ap-plicabilità delle sanzioni, cit., p. 163 e p. 171; ID., L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 99, nonché pp. 139-140; LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario3, cit., p. 719; ID., Diritto tributa-rio, cit., p. 286, testo e nota 18; MICCINESI, Sub art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 «Errore sulla norma tributaria», in BAGLIONE-MENCHINI-MICCINESI (a cura di), Il nuovo processo tributario. Com-mentario, Milano, 1997, p. 95.

78 Cass., sez. un. pen., 24 febbraio 1964, n. 4, in CED Cassazione, Rv. 099064. 79 COLLI VIGNARELLI, Errore scusabile ed abbandono delle sanzioni tributarie, nota a Comm. Trib.

II grado Palermo, 5 febbraio 1987, n. 48, in Rass. trib., 1987, II, p. 1141 ss., secondo il quale «nessun

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manipolati per eccesso di indulgenza o rigore: la diligenza esigibile deve essere va-lutata secondo criteri oggettivi, modulando il giudizio in rapporto al livello di com-petenze professionali che caratterizza in concreto il soggetto agente 80.

Si tratta di un elemento costante che affiora anche nella disciplina tributaria più risalente: le locuzioni legislative succedutesi negli anni, sia pur diverse dal punto di vista letterale, hanno fatto uso di un metro di valutazione squisitamente oggettivo, esprimendo un’identica ratio. Operando una ricognizione storico-legislativa sul tema, a questo proposito è stato rilevato che la differenza tra le locuzioni «casi dubbi di applicazione di tributi» (art. 5, D.M. 1° settembre 1931) e «obiettiva incertezza sul-l’esistenza dei presupposti dell’obbligazione tributaria» (art. 248, D.P.R. n. 645/1958) non poteva essere valorizzata per attribuire rilevanza giuridica a uno stato psicolo-gico del contribuente di disorientamento circa il significato della disposizione, tale conclusione essendo smentita dall’oggettivazione dell’esimente mediante il ri-conoscimento del “dubbio interpretativo” da parte dell’Amministrazione finan-ziaria 81.

In conclusione, bisogna registrare una differenziazione nel giudizio sull’ignoran-tia legis.

Per quanto riguarda l’illecito amministrativo tributario, la Corte di Cassazione ha escluso che «l’ambiente fattuale di incertezza creato dai fatti produttivi delle norme sia da rapportare, non di fatto, ma giuridicamente, non solo al generico con-tribuente, ma anche a quei contribuenti che pure, per la loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale)» 82: secondo tale impostazione, le scusanti tributarie non sono rapportabili «a nessuna classe di soggetti, a nessuna categoria», ma devono essere ricollegate «solo allo stesso ordinamento giuridico cui appartiene la normazione da interpretare» 83.

Per l’illecito penale e amministrativo, il giudizio è modulato in ragione delle com-petenze professionali del soggetto agente. Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione 84, il comune cittadino deve effettuare qualunque ricerca utile per ac- rilievo hanno in proposito le personali incertezze del contribuente, quelle incertezze cioè che a lui derivano da una per così dire “naturale” impreparazione in materia tributaria». V. GLENDI, L’oggetto del processo tributario, cit., p. 297; LOGOZZO, Dichiarazione di non applicabilità delle sanzioni, cit., p. 158 e p. 172; ID., L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 129 ss.; MARONGIU, Lo Statuto e la tutela del-l’affidamento e della buona fede, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 166 ss.; TESAURO, Istituzioni di diritto tribu-tario, cit., p. 329. In giurisprudenza, CTC, sez. IX, 20 novembre 1990, n. 7520, in bancadati DeJure.

80 Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, cit., nonché CEDU, 20 gennaio 2009, ricorso n. 75909/ 01, causa Sud Fondi S.r.l. ed altri c. Italia, cit.

81 LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, cit., p. 118 ss. 82 Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, cit. 83 Cass., sez. trib., 21 marzo 2008, n. 7765, cit. 84 Cass., sez. un. pen., 18 luglio 1994, n. 8154, in CED Cassazione, Rv. 197885.

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certare in modo esatto la legge vigente, con il solo limite del conseguimento della conoscenza del dato normativo, mentre chi svolge professionalmente l’attività di-sciplinata dalla legge in questione deve essere sanzionato quando l’errore/ignoran-za sia cagionato da culpa levis nella ricerca «per conseguire la conoscenza della le-gislazione vigente in materia» 85. Proponendo una soluzione diversa e forse più equi-librata, la dottrina penalistica esorta a non appiattire la diligenza doverosa sull’ef-fettuazione di “qualsiasi utile accertamento” per l’individuazione dell’interpreta-zione corretta 86, poiché, diversamente opinando, l’effettiva e concreta portata del principio di colpevolezza resterebbe irrimediabilmente compromessa, essendo sem-pre possibile ipotizzare, almeno in linea astratta, una ricerca e un approfondimento informativo ulteriori, fino al raggiungimento della comprensione dell’esatta porta-ta e significato della norma 87. È quindi applicabile il criterio dell’homo eiusdem con-dicionis ac professionis, originariamente elaborato sul terreno della colpa: il conte-nuto e la misura dei doveri di conoscenza devono essere determinati in rapporto al campo di esperienza e al livello di socializzazione e cultura corrispondenti ai diversi tipi di agente-modello cui il soggetto è di volta in volta riconducibile 88. Tale parame-tro, «pur contenendo elementi di flessibilità, rende possibile un giudizio tendenzial-mente oggettivo e, nel contempo, consente all’agente di individuare un riferimento tendenzialmente preciso con riguardo al limite da raggiungere per poter considerare legittimamente osservato il dovere di informarsi esattamente prima di agire» 89.

5. Conclusioni

La pronuncia annotata presenta un duplice profilo di interesse, riconoscendo, da un lato, la configurabilità del potere di disapplicazione delle sanzioni ammini-strative in capo al solo giudice tributario, e, dall’altro, contrapponendo l’incertezza normativa all’ignoranza incolpevole del diritto.

Nonostante siano conformi alla consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di inapplicabilità delle sanzioni amministrative per incertezza normativa oggettiva tributaria, queste soluzioni esegetiche non paiono condivisibili.

Se la prima posizione può dirsi ormai superata in forza del vigente dettato legi-slativo 90, la seconda necessita di una confutazione maggiormente argomentata.

85 MUCCIARELLI, op. cit., par. 8. 86 MUCCIARELLI, op. ult. cit., par. 5.1.2. 87 PALAZZO, op. cit., p. 141. 88 FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 398. 89 MUCCIARELLI, op. cit., par. 5.1.2. 90 V. artt. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 e 10, comma 3, L. n. 212/2000.

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Anziché limitare la disamina alla mera valorizzazione dell’argomento topografi-co, le due figure devono essere analizzate alla luce dei principi del diritto punitivo, seguendo un approccio che può rivelarsi fecondo di risultati anche nella pratica professionale, come dimostrano le più recenti prese di posizione giurisprudenziali in materia di sanzionabilità delle condotte elusive 91: così facendo, le due scusanti tributarie non possono che essere ricondotte alla categoria concettuale unitaria del-l’errore di diritto per oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto.

Leda Rita Corrado

91 V. Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12042, in Dir. prat. trib., 2010, II, p. 621 ss., con nota di L.R. CORRADO, La questione dell’applicabilità delle sanzioni amministrative ai comportamenti elusivi, e Cass., sez. II pen., 28 febbraio 2012, n. 7739, in DFA-Diritto e fiscalità dell’assicurazione, 2012, p. 361 ss., con nota di L.R. CORRADO, La rilevanza penale delle condotte elusive.

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Corte cost., 17 ottobre 2011, n. 280 – Pres. Quaranta, Red. Gallo Eliminazione stoccaggio rifiuti – Contributo regionale – Natura tributaria – Po-testà normativa – Illegittimità costituzionale – Attuale assetto – Compatibilità.

Il contributo di innocuizzazione, eliminazione e stoccaggio provvisorio dei rifiuti, istituito dall’art. 16 della legge n. 18/1986 della Regione Piemonte, ha natura tributa-ria, per sussistenza dei requisiti di doverosità della prestazione, collegamento con una pubblica spesa e con un presupposto economicamente rilevante.

Conseguentemente il menzionato art. 16 è costituzionalmente illegittimo, per viola-zione degli artt. 23 e 119 Cost. nella versione ante riforma costituzionale.

Ritenuto in fatto La Corte suprema di Cassazione, con ordinanza pronunciata il 14 aprile 2010 e

depositata il successivo 20 maggio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 23 e 119 della Costituzione – quest’ultimo, nel testo anteriore alla sostituzione operata dall’art. 5 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte se-conda della Costituzione) – questione di legittimità dell’art. 16 della legge della Re-gione Piemonte 2 maggio 1986, n. 18 (Omissis), il quale, Omissis, stabiliva che: «I sog-getti gestori di impianti di innocuizzazione e di eliminazione e di discariche di rifiuti urbani, assimilabili agli urbani, speciali fatta esclusione per gli inerti tossici e nocivi, nonché i soggetti gestori di impianti di stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossici e nocivi per conto terzi, sono tenuti a corrispondere dal momento dell’attivazione, se nuova attività, e a partire dal 31 luglio 1986 se attività esistente, al Comune sede di impianto di innocuizzazione e di eliminazione o di discarica, un contributo annuo pari a lire 2 e al Comune sede di impianto di stoccaggio provvisorio un contributo annuo pari a lire 1 per ogni chilogrammo di rifiuti rispettivamente innocuizzati, eliminati, collocati in discarica o stoccati nell’anno precedente». Omissis.

Il medesimo giudice rimettente, in punto di diritto, dopo aver escluso alcune quali-ficazioni del contributo di cui al denunciato art. 16 – in particolare, che esso sia una tassa sulle concessioni regionali disciplinata dall’art. 3 della legge n. 281 del 1970 (Omissis), oppure una forma di finanziamento dell’attività di trattamento, ammasso, deposito e discarica dei rifiuti (Omissis), o, ancora, che possa essere assimilato ai con-tributi di urbanizzazione di cui all’art. 3 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, Omissis, o ad un canone di concessione (Omissis), afferma che esso a) è diretto a compensare i costi sociali e ambientali che derivano, per il Comune, dalla localizzazione nel proprio

8*.

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territorio dell’attività di trattamento dei rifiuti, definita di pubblico interesse dall’art. 1 del d.P.R. n. 915 del 1982, Omissis; b) «qualora non sia pure un tributo», non è confi-gurabile come un corrispettivo giustificato da una specifica attività della pubblica am-ministrazione a favore del privato, ma dovrebbe essere considerato «in ogni caso, una prestazione patrimoniale imposta a norma dell’art. 23 Cost.».

Il giudice a quo afferma poi, sempre in diritto, che dagli artt. 117 e 119 Cost., nel teso anteriore alla legge costituzionale n. 3 del 2001, Omissis, si ricava che la potestà normativa tributaria spettante alle regioni a statuto ordinario costituisce un aspetto dell’autonomia finanziaria riconosciuta a tali enti dall’art. 119 Cost. e deve, perciò, es-sere esercitata «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». Omissis. Da ciò consegue ulteriormente – sempre secondo il rimettente – che la potestà normativa tributaria delle Regioni a statuto ordinario, Omissis, si configura pertanto non come una potestà legislativa di tipo concorrente, ma come una potestà soltanto attuativa del-la legislazione statale, analoga a quella di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost.

Omissis. È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il presidente della Giunta della Re-

gione Piemonte, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in via sub-ordinata, non fondata.

Omissis. L’infondatezza deriverebbe, in via principale, dalla «natura non tributaria ma “cor-

rispettiva/commutativa” del “contributo”» dovuto ai Comuni dai gestori degli im-pianti di trattamento dei rifiuti, natura che emergerebbe dalla stessa lettera della di-sposizione denunciata (Omissis), oltre che dal quadro normativo nel quale essa si inse-riva (Omissis). Da tali elementi letterali e sistematici si evincerebbe infatti che il con-tributo in considerazione si caratterizza come il corrispettivo assicurato al Comune – e alla stessa collettività locale della quale esso è ente esponenziale – nel cui territorio è localizzato un impianto di trattamento dei rifiuti posto al servizio di esigenze generali (anche e soprattutto extracomunali), sia dell’uso di beni pubblici di qual Comune, quali il territorio e l’ambiente, che l’insediamento di un impianto siffatto comporta, sia dei servizi garantiti dall’ente locale per la funzionalità dell’impianto medesimo; corri-spettivo che è dalla legge posto a carico del gestore dell’impianto, che di quei beni pub-blici e di quei servizi fruisce. Tale «prestazione sinallagmatica» è, d’altro canto, idonea a rappresentare anche uno strumento di promozione, presso la collettività locale, dell’insediamento di un impianto di trattamento dei rifiuti nel territorio comunale. Ad avviso della difesa regionale, la natura «corrispettiva/commutativa» del contributo previsto dalla disposizione censurata risulta anche dai seguenti ulteriori elementi: a) il vantaggio rappresentato per il gestore dall’individuazione, da parte del Consiglio re-gionale, dei siti idonei alla realizzazione dell’impianto, Omissis; b) la coincidenza tra i destinatari del gettito derivante dalla corresponsione del contributo e gli «enti espo-nenziali della collettività che hanno accettato la richiesta del gestore di insediamento dell’impianto e che garantiscono le prestazioni e i servizi necessari per il suo corretto

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inserimento nella realtà comunale»; c) la commisurazione del contributo alla quantità di rifiuti effettivamente trattati e, quindi, alla «fruizione dell’effettiva utilità garantita dal Comune». Omissis.

Considerato in diritto

Omissis. La difesa della Regione Piemonte ha sollevato, in via preliminare, tre eccezioni di

inammissibilità della questione: Omissis. Le eccezioni non possono essere accolte. Omissis. Questa Corte, pertanto, deve procedere allo scrutinio nel merito della sollevata que-

stione di costituzionalità, accertando, innanzitutto, se il contributo debba qualificarsi come tributo e, in caso affermativo, se la disposizione che lo prevede rispetti gli evocati parametri.

Con riferimento al primo accertamento, va osservato che l’interpretazione da cui muove la Corte di Cassazione circa la natura tributaria del contributo è corretta, perché non contrasta con i criteri elaborati dal questa Corte al fine di qualificare un’entrata co-me tributaria; criteri che consistono: a) nella doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti; b) nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (Omissis).

Il criterio sub a) di cui al punto precedente è rispettato, perché l’obbligo del paga-mento del contributo è stabilito direttamente ed esclusivamente dalla legge regionale e non trova la sua fonte in un rapporto sinallagmatico tra le parti (contratto, conven-zioni o simili).

Riguardo a quest’ultimo aspetto, deve osservarsi che il contributo – diversamente da quanto sostenuto dalla Regione – non costituisce remunerazione né dell’uso in ge-nerale di beni collettivi, come il territorio e l’ambiente, né di servizi necessari per la ge-stione o la funzionalità dell’impianto forniti dal Comune. Quanto all’uso del territorio e dell’ambiente, esso non può costituire una controprestazione del contributo, perché il Comune ha il potere di disporre non dei suddetti beni collettivi nel loro complesso (Omissis) ma solo dei singoli beni che fanno parte del suo demanio o patrimonio (Omissis). Quanto alla fornitura di servizi, essa non può integrare, nella specie, una controprestazione del contributo, perché il pagamento di questo non è correlato alla fruizione di alcuno specifico servizio da parte del gestore dell’impianto. Omissis.

Anche il criterio sub b) di cui al secondo punto – riguardante il necessario collega-mento del prelievo alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamen-te rilevante – è rispettato. La disposizione censurata stabilisce infatti, come appena visto, che il contributo sia destinato al finanziamento di spese pubbliche ambientali. Questa connotazione funzionale e il fatto che il prelievo abbia per oggetto l’attività economica di gestione degli impianti consentono di ritenere il contributo uno strumento di ripar-

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to, ai sensi dell’art. 53 Cost., del carico della spesa pubblica in ragione della capacità contributiva economica manifestata dai soggetti gestori degli impianti.

Da quanto sopra deriva che la prestazione “contributiva” in esame, rispondendo al-le indicate caratteristiche essenziali del tributo, ha la natura fiscale ad essa riconosciuta dalla Corte rimettente. Omissis.

Con riguardo all’altro punto da esaminare – concernente la legittimità costituzio-nale della censurata disposizione, Omissis.

La censura è fondata. Infatti, detto parametro è stato sempre interpretato da questa Corte (Omissis) nel senso che la potestà legislativa tributaria regionale – Omissis – non può essere legittimamente esercitata in mancanza di una previa disposizione di legge statale che definisca, quanto meno, gli elementi essenziali del tributo. In base a tale di-sposizione la potestà normativa regionale si configura, perciò, come meramente attua-tiva delle leggi statali. Nella specie, non è rinvenibile alcuna disposizione di legge stata-le che abbia attribuito alla Regione Piemonte la suddetta potestà normativa di attua-zione con riferimento al denunciato prelievo tributario.

Omissis.

La Consulta frena i primi entusiasmi federalisti in materia di fiscalità ambientale;

spunti per una riflessione in tema di fiscalità locale *

Constitutional Court’s brake to the first federalist enthusiasm about environmental taxation;

ideas for a reflection on the theme of local taxation

Abstract La presente ricerca, seguendo il percorso interpretativo tracciato dalla Corte co-stituzionale, attraverso la preliminare attribuzione della natura tributaria (per la sussistenza dei requisiti di doverosità della prestazione, collegamento con una

* Lavoro svolto nell’ambito del progetto di ricerca di base finanziato dalla L.R. Sardegna n. 7/2007.

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pubblica spesa e con un presupposto economicamente rilevante) al contributo di innocuizzazione, eliminazione e stoccaggio provvisorio dei rifiuti, istituito dal-la Regione Piemonte con l’art. 16 della L. n. 18/1986, e la constatazione che la potestà tributaria delle Regioni a Statuto ordinario, nell’assetto previgente alla ri-forma introdotta con L. cost. n. 3/2001, era meramente attuativa, perviene alla conclusione che il citato art. 16 è costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 23 e 119 Cost. La ricerca esplora poi i possibili profili di compatibilità con la Costituzione, nel-l’attuale assetto di distribuzione delle competenze delineato dalla riforma costi-tuzionale del 2001, dalle elaborazioni giurisprudenziali della Corte costituzionale e dalla legge delega n. 42/2009, per pervenire alla conclusione che la ricostruzio-ne del prelievo sarebbe pienamente in armonia con la Costituzione, anche sotto il profilo della duplicazione d’imposta rispetto ad altri presupposti similari. Parole chiave: contributo regionale rifiuti, natura tributaria, potestà normativa, il-legittimità costituzionale, attuale compatibilità This research follows the interpretative path traced by the Constitutional Court in order to comprehend if the contribution of harmlessness, elimination and temporary storage of waste, established by the Piedmont Region with Art. 16 of Law No. 18/1986 is compa-tible or not with the Constitution. The starting-point is the preliminary allocation of the tax nature to this contribution, justified by the existance of the requirements of a due performance, connection both with a public expenditure and with an economically relevant prerequisite. Moreover it should be underlined that the taxing power of the Regions with ordinary statute, before the constitutional reform introduced by Consti-tutional Law No. 3/2001, was merely implemental. These two considerations lead to the conclusion that Article 16 is unconstitutional for violation of Articles 23 and 119 of the Constitution. This contribution analyses the possible issues of compatibility with the Constitution, in the actual distribution of powers as outlined by the 2001 constitutional reform, by the Constitutional Court case law and by Delegation Law No. 42/2009, and it reaches the conclusion that the the levy is perfectly in harmony with the Constitution, even in terms of double taxation in comparison with other similar prerequisites. Keywords: eliminating waste storage, regional contribution, tax nature, regulatory powers, unconstitutional, present structure, compatibility

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La natura tributaria del contributo di innocuizzazione ed eliminazione dei rifiuti urbani, nonché di stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossici e nocivi. – 2.1. Il contributo di inno-cuizzazione, eliminazione e stoccaggio come tributo ambientale proprio. – 2.2. Il presupposto ambientale e la capacità contributiva. – 3. L’incompatibilità costituzionale del contributo di

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innocuizzazione, eliminazione e stoccaggio. – 4. I possibili profili di illegittimità del contri-buto studiato nell’attuale assetto costituzionale. – 4.1. Segue: ... in particolare, nelle Regioni a Statuto ordinario. – 4.2. Segue: ... e nelle Regioni a Statuto speciale.

1. Premessa

Con ordinanza pronunciata il 14 aprile 2010 e depositata il successivo 20 mag-gio 2010, la Suprema Corte di Cassazione sollevava questione di legittimità costi-tuzionale, in riferimento agli artt. 23 e 119 Cost. (quest’ultimo, nel testo anteriore alla sostituzione operata dall’art. 5 della L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3), dell’art. 16 della L.R. Piemonte 2 maggio 1986, n. 18, il quale, prima della sua abrogazione (ad opera dell’art. 45, comma 5, della L.R. Piemonte 13 aprile 1995, n. 59), aveva pre-visto che i soggetti gestori di impianti di innocuizzazione ed eliminazione e di di-scariche di rifiuti urbani, assimilabili agli urbani e speciali, nonché i soggetti gestori di impianti di stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossici e nocivi per conto terzi, fos-sero tenuti a corrispondere al comune sede di impianto di innocuizzazione e di eliminazione e discarica, un contributo annuo pari a lire 2, e, al comune sede di impianto di stoccaggio provvisorio, un contributo annuo pari a lire 1, per ogni chi-logrammo di rifiuti rispettivamente innocuizzati, eliminati, collocati in discarica o stoccati nell’anno precedente. Le somme introitate erano destinate ad interventi finalizzati alla conservazione e valorizzazione della natura e dell’ambiente.

Il giudice rimettente, dopo aver affermato che il prelievo doveva essere annove-rato fra le entrate di tipo tributario, rilevava che, in base agli artt. 117 e 119 Cost., nel testo anteriore alla L. cost. n. 3/2001, la relativa istituzione non rientrava nella potestà normativa tributaria delle regioni a statuto ordinario, la quale si configura-va come una potestà meramente attuativa della legislazione statale.

Il Presidente della Giunta regionale si difendeva in giudizio eccependo la natu-ra sostanzialmente non tributaria, ma corrispettivo-commutativa del contributo.

La Corte adita doveva pertanto procedere allo scrutinio della sollevata questio-ne di costituzionalità, accertando, innanzitutto, se il contributo dovesse qualificarsi come tributo e, in caso affermativo, se se la disposizione che lo aveva istituito aves-se rispettato gli evocati parametri di costituzionalità.

Nella sentenza in commento (n. 280/2011), con riferimento alla preliminare questione, la Corte costituzionale, conformemente al suo più recente orientamen-to 1, osservava che la presenza di diversi elementi quali la doverosità della prestazione

1 Sintomatica di tale orientamento appare la sent. 16 luglio 2009, n. 238 con cui la Corte, ponendo fine ad un’annosa questione che aveva provocato negli anni precedenti contrasti giurisprudenziali ed incertezze interpretative, aveva finalmente attribuito qualificazione tributaria alla tariffa di igiene am-bientale. A onor del vero, tale orientamento era parso decisamente innovativo rispetto a quello prece-

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(e la contestuale assenza di un rapporto sinallagmatico) ed il collegamento della pre-stazione imposta con una pubblica spesa in relazione ad un presupposto economi-camente rilevante, ne segnalavano incontestabilmente la natura tributaria 2.

Sulla legittimità costituzionale della disposizione censurata, in riferimento in particolare all’art. 119 Cost., il Giudice delle leggi, osservando che la potestà legi-slativa tributaria delle regioni a statuto ordinario non poteva essere legittimamente esercitata in assenza di una disposizione di legge che ne definisse, quanto meno, gli elementi essenziali della fattispecie tributaria, configurandosi dunque come una potestà meramente attuativa di quella statale, riteneva la censura fondata. Dunque, dal momento che la legge della Regione Piemonte non risultava attuativa di alcuna disposizione nazionale, doveva essere dichiarata illegittima, per violazione dell’art. 119 Cost.

2. La natura tributaria del contributo di innocuizzazione ed eliminazione dei rifiuti urbani, nonché di stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossici e nocivi

Lo studio della sent. n. 280/2011 della Corte costituzionale e dell’asserita in-compatibilità costituzionale della norma esaminata (per supposta violazione dell’art. 119 Cost.) deve dunque essere necessariamente condotto attraverso la preventiva analisi della natura giuridica del contributo in oggetto.

Occorre dunque preliminarmente soffermarsi sulla nozione di tributo e sugli elementi caratterizzanti la stessa per verificare se essi sino ravvisabili nella fattispe-cie studiata e se la posizione della Corte costituzionale sia condivisibile.

Sebbene una parte della più recente dottrina tenda a sminuirne l’importanza, concentrandosi maggiormente sulla mera classificazione dei tributi fra tasse ed imposte 3 o propendendo per una sostanziale equiparazione del tributo all’impo- dentemente palesato dai Giudici delle leggi. In diverse occasioni, infatti, la Consulta, aveva mostrato di voler comprimere la nozione di tributo, escludendo diverse fattispecie “di confine” dall’alveo della giu-risdizione delle Commissioni tributarie. Ci si riferisce in particolare alle pronunce in tema di diritti ae-roportuali (sent. n. 51/2008, su cui sia consentito rinviare a GUIDO, La natura dei diritti aeroportuali tra orientamento giurisprudenziale e legislazione sopravvenuta, in Riv. dir. trib., n. 6, 2008, I, p. 535 ss.) e ca-none per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche (sent. n. 64/2008, in cui la Corte costituzionale aveva sancito l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 102 Cost., dell’art. 2, D.Lgs. n. 546/ 1992, come modificato dall’art 3 bis, comma 1, D.Lgs. n. 203/2005, nella parte in cui esplicitamente lo includeva nella giurisdizione tributaria).

2 In particolare, secondo i Giudici delle leggi, il contributo si configurava come un tributo di scopo, avente come soggetti passivi, i gestori degli impianti di innocuizzazione, eliminazione e stoc-caggio provvisorio; come soggetti attivi, i comuni sede dei suddetti impianti; come presupposto eco-nomicamente rilevante, la gestione di detti impianti e come base imponibile, l’entità in chilogrammi dei rifiuti innocuizzati, eliminati e stoccati.

3 RUSSO, Manuale di diritto tributario2, Milano, 1996, p. 17 ss.

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sta 4, tuttavia, la precisa individuazione di una nozione unitaria di tributo ha sem-pre rilevato sotto diversi profili pratici 5.

Parte della dottrina ha perciò tentato di elaborare una precisa definizione dell’i-stituto, ricavando la nozione di “tributo” dalla combinazione dei principi contenuti negli artt. 23 e 53 Cost. 6.

L’insufficienza della qualificazione del tributo come prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost. (su cui, peraltro, la dottrina è sempre stata unani-me 7 ha indotto a superare il tradizionale assioma della coattività, dando maggiore risalto alla funzione della partecipazione alle pubbliche spese ex art. 53 Cost 8.

Pertanto, sarebbero escluse dal novero dei tributi tutte le prestazioni patrimo-niali imposte non finalizzate a realizzare il concorso alla spesa pubblica di cui al-l’art. 53 Cost. (come le sanzioni oppure i prezzi pubblici legalmente statuiti per servizi pubblici non essenziali 9; mentre sarebbero riconducibili nell’alveo dei pre-

4 In tal senso, FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale5, Padova, 2005, pp. 37-38; DE MITA, Principi di diritto tributario4, Milano, 2004.

5 Secondo FANTOZZI (Il diritto tributario3, Torino, 2003, p. 55), oltre all’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 (in tema di giurisdizione tributaria), come recentemente modificato con L. n. 488/2001, il nostro ordinamento conosce svariate disposizioni che espressamente rimandano alla nozione giuridica di “tributo”, (si pensi anche agli artt. 81 e 75 Cost.).

6 Sebbene autorevole dottrina abbia negato che le norme costituzionali contengano elementi defi-nitori della fattispecie tributaria e siano idonee a delineare i contorni della nozione di tributo, (si fa rife-rimento a FALSITTA, op. cit., p. 18, secondo cui confondere i requisiti di legittimità di un istituto con quelli di esistenza dello stesso potrebbe di fatto impedirne la censura da parte della Corte costituziona-le, giacché, qualora si ravvisasse disarmonia con i principi della Carta costituzionale, ciò ne compor-terebbe la semplice esclusione dalla categoria dei tributi ma non la sua illegittimità), tuttavia, a questa osservazione si è correttamente obiettato che l’art. 53 Cost. enuncia non solo il criterio di capacità contributiva come metro di costituzionalità ma anche e soprattutto l’obbligatorietà del concorso alla spesa pubblica come equo criterio di riparto dei carichi pubblici tra i consociati (secondo FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., p. 54, nota n. 122, «... è proprio la regola del concorso e non il principio di capacità contributiva a basare la nozione di tributo»). Sull’argomento, si veda anche AMATUCCI, Il con-cetto di tributo, Parte I, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 2001, p. 621 ss.

7 In particolare, FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., p. 53, osserva che la relazione fra i due principi costituzionali può essere efficacemente descritta come il rapporto fra due sfere concentriche, in cui la più ampia ed esterna rappresenta la grande categoria delle prestazioni patrimoniali imposte, nelle quali sarebbero comprese anche numerose prestazioni coattive a carattere non tributario. Per una chiara, sintetica ed esaustiva classificazione delle prestazioni patrimoniali imposte, si veda anche FALSITTA, op. cit., pp. 13-17.

8 Per approfondimenti, si veda FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2003, p. 13 ss.

9 A questo proposito, giova rammentare un autorevole orientamento dottrinale (FEDELE, Corri-spettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, p. 23 ss.) che ritiene il principio di capacità contributiva applicabile a tutte le forme di finanziamento dei servizi pubblici essenziali, indipendentemente dalla particolare denominazione o qualificazione, come tassa, corri-spettivo, prezzo, ecc. Dello stesso avviso, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale9, Tori-no, 2008, pp. 77-78, nota 39, rileva che, per i servizi pubblici essenziali, il legislatore deve sempre

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lievi tributari le prestazioni che, pur essendo riscosse in occasione dell’erogazione di determinati e specifici servizi pubblici, risultino comunque costruite secondo as-setti di tipo autoritativo-sanzionatori, in modo che l’elemento della coattività sia rinvenibile non solo nella fonte genetico-funzionale dell’istituto ma in tutta la di-sciplina del rapporto fra “utente”/contribuente ed ente erogatore del servizio 10.

Dunque, fatta questa doverosa premessa sull’importante e non sempre agevole individuazione della nozione di “tributo”, possiamo asserire, a ragion veduta, che molti degli elementi caratterizzanti la nozione di tributo, sono rinvenibili nella di-sciplina del contributo di innocuizzazione ed eliminazione dei rifiuti urbani, non-ché di stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossici e nocivi.

Infatti, in primo luogo, il prelievo studiato si configura come una prestazione pa-trimoniale imposta, interamente regolata dalla legge, che prescinde da qualsiasi ac-cordo negoziale fra le parti. Il suo schema applicativo realizza un modello pubblici-stico-tributario, in cui l’autoritatività è funzionale alla realizzazione del dovere di concorrere alla spesa pubblica insito nella partecipazione alla comunità; tale schema sembra dunque assolutamente inconciliabile con i principi civilistici che soggiac-ciono ai rapporti privatistico-sinallagmatici (su cui si fondano anche le categorie dell’inadempimento e del risarcimento del danno), nei quali, a fronte di un’obbli-gazione pecuniaria a carico del soggetto passivo, vi è anche un diritto soggettivo al-la prestazione del servizio alle condizioni pattuite.

In secondo luogo, il contributo risulta immediatamente collegabile con una pubblica spesa a connotazione ambientale, che realizza pertanto un servizio essen-ziale indistintamente riferibile alla collettività, fruibile dalla generalità dei consocia-ti, che, secondo la tradizionale distinzione in servizi divisibili ed indivisibili, dovrebbe trovare finanziamento nella fiscalità generale, e che conferisce al prelievo in que-stione il carattere di strumento di riparto (ex art. 53 Cost.) in ragione della capaci-tà contributiva dei soggetti passivi.

2.1. Il contributo di innocuizzazione, eliminazione e stoccaggio come tributo ambien-tale proprio Pur se non del tutto rilevante al fine della valutazione di compatibilità costitu-

zionale della norma censurata, interessante appare l’osservazione della Corte costi- tener conto della possibilità del singolo di far fronte all’onere economico e che, pertanto, né la tassa né il prezzo pubblico, sono fuori dalla previsione di cui all’art. 53 Cost.

10 Su tale presupposto, la dottrina maggioritaria è approdata alla distinzione fra le tasse ed i cor-rispettivi pubblici, includendo solo le prime nell’ambito delle prestazioni tributarie. Infatti, nono-stante la struttura commutativa della tassa, in essa non sarebbe possibile rinvenire “sinallagmaticità” in senso privatistico, cioè reciproca interdipendenza genetica e funzionale delle contrapposte pre-stazioni (nel senso che ciascuna trovi nell’altra la sua ragion d’essere specifica ed esclusiva), né reci-proca onerosità. Essa risulterebbe dovuta per il solo fatto che venga realizzato il presupposto, a pre-scindere dall’effettivo utilizzo del servizio fornito dallo Stato o dall’ente pubblico.

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tuzionale circa il collegamento del prelievo studiato con una pubblica spesa e la fi-nalizzazione dello stesso alla realizzazione di un servizio ambientale percepito co-me essenziale per la comunità dei consociati.

Tale considerazione, infatti, ci induce a qualificare il contributo in oggetto come un “tributo ambientale” 11.

La Commissione Europea, con la Comunicazione 97/C/CE in materia di “Tasse ed imposte ambientali nel mercato unico”, ha stabilito che un tributo per potersi qualificare come “tributo ambientale” deve avere funzione preventiva di un danno ambientale ragionevolmente certo ma reversibile; tale principio consente di diffe-renziare i tributi ambientali in senso proprio da diversi strumenti di politica am-bientale aventi struttura tariffaria o finalità sanzionatoria 12.

Invece, la cura o la prevenzione di un danno ambientale certo e scientificamente misurabile, ancorché non assoluto, viene attribuita al tributo ambientale avente co-me presupposto l’unità fisica di determinazione dello stesso danno. Dal testo della Comunicazione, si ricava infatti anche l’esigenza che il tributo ambientale sia carat-terizzato da «un presupposto che abbia manifesti effetti negativi sull’ambiente».

Da tale indicazione comunitaria, deriva altresì la distinzione concettuale, ope-rata anche dalla dottrina italiana, fra tributi ambientali in senso stretto (caratteriz-zati da una relazione causale diretta con il danno, misurabile con l’unità fisica che assurge a presupposto del prelievo) e tributi con funzione ambientale (caratteriz-zati dalla finalità di perseguire obbiettivi di tutela ambientale, solo per via mediata e indiretta). In base a tale distinzione, autorevole dottrina 13 ha riconosciuto natura di “tributo ambientale” conforme al principio comunitario “chi inquina paga”, solo ai primi, anche se non è mancato chi ha rilevato 14 l’importanza di valorizzare anche le mere funzioni ambientali e la necessità, laddove tale funzione emerga in modo giuridicamente apprezzabile nella fattispecie imponibile, di conferire la natura “lato sensu” ambientale del tributo 15.

Orbene, il contributo studiato, ad avviso di chi scrive presenta maggiormente le sembianze del tributo ambientale in senso proprio, in ragione della stretta correla-zione fra l’importo del prelievo ed il quantitativo di rifiuti innocuizzati, eliminati,

11 Sull’argomento, si veda VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. trib., n. 5, 2003, p. 1614.

12 La mera precauzione rispetto ad un pericolo di danno solo eventuale viene affidata a prelievi tariffari diversi dalle tasse (tributi), mentre il deterioramento ambientale assoluto ed irreversibile viene colpito con sanzioni.

13 Si veda GALLO-MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., n. 1, 1999, pp. 115-148.

14 VERRIGNI, op. cit. 15 Si veda PERRONE CAPANO, L’imposizione e l’ambiente, in Trattato di diritto tributario, diretto da

Amatucci, Padova, 1994, p. 121 ss.; PICCIAREDDA-SELICATO, I tributi e l’ambiente, profili ricostruttivi, Mi-lano, 1996, p. 2 ss.

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collocati in discarica o stoccati nell’anno precedente, anche se, in effetti, la misura-zione dei kilogrammi degli inerti non esaurisce le problematiche connesse con la valorizzazione del deterioramento ambientale.

Il prelievo presenta certamente una qualche relazione causale fra il suo presup-posto e l’entità del danno ambientale prodotto dai rifiuti, come richiesto dalla Co-municazione 97/C/CE. Infatti, è innegabile che, fra il danno ed il presupposto/ unità di determinazione del prelievo (kg. di inerti), vi sia un nesso di causalità, co-me richiesto dalla Commissione europea, secondo la quale «Una tassa rientra nella categoria delle tasse ambientali se l’imponibile (la parola “imponibile” potrebbe esse-re sostituita dalla più tecnica parola di uso comune nel linguaggio giuridico italiano “presupposto”) è una unità fisica (o un suo sostituto o derivato) di qualcosa di cui si abbia prova scientifica di effetti negativi sull’ambiente quando è usato o rilasciato»; nel nostro caso, l’unità fisica/presupposto (quantitativo di rifiuti), pur non esprimen-do alcuna informazione sui profili qualitativi delle sostanze inquinanti, appare for-temente e direttamente indicativa dell’entità del prodotto dannoso.

Dunque, non vi è dubbio sul fatto che i presupposti perché tale prelievo si con-figuri come un “tributo ambientale” in senso stretto (reversibilità del danno am-bientale e relazione causale diretta con il presupposto-unità di misura) sono en-trambi realizzati. La tesi dell’attribuzione della natura di tributo ambientale al pre-lievo studiato prende dunque vigore, ben attagliandosi ad esso lo schema comuni-tario che richiede reversibilità del danno e correlazione causale fra unità di misura del deterioramento e presupposto del tributo.

2.2. Il presupposto ambientale e la capacità contributiva

La considerazione della Corte costituzionale appare estremamente interessante anche sotto il profilo dell’evidente superamento, compiuto dalla stessa nel qualifi-care il prelievo in oggetto come un tributo ambientale, della problematica concilia-zione del presupposto tributario (individuato appunto nell’unità fisica di misura-zione del danno) con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

L’annosa questione, più volte sollevata sul piano teorico, ha portato una parte della dottrina, specialmente quella più sensibile all’interpretazione in chiave solida-ristica dell’art 53 Cost., a contestare la compatibilità dei “tributi ambientali” con il principio di capacità contributiva.

Non appariva chiaro infatti come si potessero giustificare, sul piano costituzio-nale, prelievi che colpivano fatti che, pur essendo di preminente interesse pubbli-co, non costituivano indice di ricchezza.

Inoltre, la necessaria sussistenza, secondo le indicazioni comunitarie, di un nesso causale diretto ed immediato fra il prelievo e unità di misura del pregiudizio am-bientale e di una probabile e conseguente struttura imponibile improntata secondo

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il principio del beneficio, appariva (secondo tale orientamento) difficilmente com-patibile con il principio della capacità contributiva.

Il problema, comune a tutti i tributi ambientali e a tutte la fattispecie non diret-tamente collegabili con indici di capacità economia (come le tasse o l’IRAP) è sta-to risolto da un’altra parte della dottrina aderendo alla tesi che, nell’interpretazione dell’art. 53 Cost., comprimendo la componente solidaristica, privilegia la funzione di riparto dei carichi pubblici fra i consociati 16.

La nozione di capacità contributiva come semplice criterio di riparto dei carichi pubblici consente infatti di superare quelle impostazioni che inducono a qualificare come presupposto di imposizione tributaria solo situazioni, beni e rapporti aventi uno specifico valore economico-patrimoniale e di assumere come presupposto fisca-le anche situazioni, fatti, atti o comportamenti che, pur non avendo una specifica-mente individuabile connotazione economico-patrimoniale, siano comunque in-dicativi dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese 17.

Per i tributi ambientali, la giustificazione costituzionale, cioè l’equo e ragionevole criterio di riparto, viene dunque ravvisato nella posizione di vantaggio assunta dal soggetto che ponga in essere un comportamento dannoso e pregiudizievole per la collettività e che richieda o provochi un intervento dello Stato. Il tributo ambienta-le determina dunque la ripartizione del costo di risanamento fra i soggetti inquina-tori mediante valutazione della relativa posizione di dominio sull’ambiente attra-verso la misurazione del deterioramento provocato 18.

16 Secondo FEDELE, Prime osservazioni in tema di Irap, in Riv. dir. trib., 1998, p. 472, «... il riparto richiede l’individuazioni di posizioni differenziate dei singoli contribuenti, cui collegare nell’an e nel quantum, il concorso alle pubbliche spese».

17 In tale senso, GALLO-MARCHETTI, op. cit. 18 Inoltre, la dottrina da ultimo citata (FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 19)

ha correttamente e criticamente osservato che la frequente ed esclusiva riferibilità del criterio del beneficio a tributi commutativi e di scopo e l’esclusione di questi ultimi dal novero dei tributi si fon-derebbe sull’erroneo presupposto che il “beneficio” risponda solo ad istanze particolaristiche (e la soli-darietà economica e sociale sia solo “altruistica”). Il rovesciamento di prospettiva, cioè l’accettazio-ne, in linea teorica, che la soddisfazione di un bisogno individuale essenziale possa rispondere anche ad un’esigenza collettiva (e che la realizzazione di un servizio indistintamente riferibile alla generali-tà dei consociati realizzi in realtà anche bisogni egoistici) consentirebbe invece di ricondurre tutti i prelievi tributari nell’ambito di una categoria unitaria, che, al di là della provenienza della specifica istanza, risponde all’interesse generale di realizzare il concorso alle pubbliche spese per il finanzia-mento di servizi percepiti secondo il senso comune ed il diritto vivente come essenziali per la collet-tività. Nello stesso senso, FEDELE, Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, cit. Di diverso avviso MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, p. 82, che ritiene non applicabile il principio di cui all’art. 53 Cost. ai tributi commutativi.

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3. L’incompatibilità costituzionale del contributo di innocuizzazione, elimina-zione e stoccaggio

Da quanto detto sopra, è del tutto evidente che le conclusioni della Corte costi-tuzionale sull’asserita natura tributaria del contributo studiato appaiono pienamente condivisibili.

Appurata dunque la natura marcatamente tributaria del prelievo istituito con legge regionale della Regione Piemonte, occorre ora stabilire se la legge istitutiva sia, come asserito dalla Corte, censurabile sotto il profilo della compatibilità con l’art. 119 Cost.

È chiaro che l’analisi della costituzionalità della norma censurata va condotta con esclusivo riferimento alla disciplina in vigore prima dell’entrata in vigore della L. cost. n. 3/2001 19.

Nella previgente formulazione dell’art. 117 Cost., alle regioni a statuto ordina-rio era attribuita una potestà meramente attuativa di quella statale, nelle materie specificamente e tassativamente elencate (fra le quali peraltro non era inclusa quella tributaria); per quelle non espressamente individuate, chiaramente la potestà nor-mativa era esclusiva prerogativa statale.

Inoltre, nel lungo e difficoltoso lavoro di interpretazione dell’art. 119 Cost. (che, dopo aver proclamato al comma 1 l’autonomia finanziaria delle regioni, sia pure nel-le forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica che provvedono a coordinar-la con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni, prevedeva, al comma 2, che a tali enti fossero attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali) era emerso un orientamento restrittivo, in base al quale spettava al Legislatore statale di prede-terminare i tributi che gli enti subordinati erano legittimati ad istituire e di decide-re a suo arbitrio lo spazio (che poteva essere ridotto anche ai minimi termini) ri-servato al Legislatore regionale in sede di (eventuale) integrazione della disciplina di tali tributi.

Dunque, la potestà tributaria regionale (che costituiva un aspetto dell’autono-mia finanziaria loro garantita) non rientrando fra quelle concorrenti o comple-mentari, si risolveva in una legislazione meramente attuativa, non potendo neppu-re configurarsi come legislazione liberamente delegata o demandata dal legislatore statale e dovendo dunque essere esercitata a mezzo di una previa disposizione di legge statale che definisse per lo meno gli elementi essenziali del tributo.

Non essendo pertanto rinvenibile alcuna legge nazionale che avesse attribuito alla Regione Piemonte l’attuazione del contributo esaminato, la censura di violazio-ne dell’art. 119 Cost. da parte dell’art. 16 della L.R. Piemonte 2 maggio 1986, n. 18 doveva chiaramente essere accolta.

19 ALFANO, L’applicazione di tributi ambientali nel nuovo contesto della finanza regionale, in Tribu-tImpresa (rivista telematica), n. 3, 2005.

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4. I possibili profili di illegittimità del contributo studiato nell’attuale assetto co-stituzionale

Resta da vedere, a questo punto, se la censurata legge della Regione Piemonte, evidentemente illegittima rispetto al sistema costituzionale di distribuzione delle po-testà tributarie in vigore prima della riforma introdotta con L. cost. n. 3/2001, sa-rebbe invece compatibile con l’attuale assetto di attribuzione di competenze nor-mative in materia fiscale.

Il nuovo quadro delineato con la riforma costituzionale del 2001, attribuisce allo Stato una competenza esclusiva in materia di “Sistema tributario e contabile dello Stato e perequazione delle risorse finanziarie” ed alle regioni una competenza nor-mativa concorrente che comporta prevalentemente un ruolo di «armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tribu-tario», ed una competenza esclusiva residuale in relazione a tributi “propri”, cioè relativi ad aree e materie fortemente caratterizzate da una strettissima connotazio-ne territoriale, che non siano già state disciplinate con legge statale 20.

Nel ridisegnato art. 117 Cost., legge statale e legge regionale sono state dunque pienamente equiparate, costituendo entrambe, a pieno titolo, modalità di esercizio della funzione legislativa 21.

Il rovesciamento operato con la riformulazione dell’art. 117 Cost. ha inizialmente destato presso gli interpreti grande confusione 22 ed ha portato la Corte costituziona-le a sopperire alla carenza di precisi parametri normativi venutasi a creare 23.

La Corte costituzionale ha infatti il merito di aver tracciato con una certa preci-sione ed esaustività il quadro dell’effettiva autonomia normativa delle Regioni, a statuto ordinario e speciale, in materia tributaria, derivante dal nuovo assetto costi-tuzionale disegnato dalla menzionata riforma.

Dopo aver precisato la distinzione fra “tributi propri derivati” (istituiti con leg-ge statale, pur se denominati regionali, riscossi nel territorio dell’ente, cui resta de-stinato il relativo gettito) e “tributi propri” (istituiti dalle regioni, pur in assenza di una legge quadro di coordinamento), la Corte ha stabilito che le regioni a statuto

20 Sull’argomento, FALSITTA, op. cit., p. 52 ss. 21 Per approfondimenti di carattere generale sulla riforma del Titolo V della Costituzione, si ve-

da CARAVITA DI TORITTO, Il problema dell’attuazione della riforma del titolo V della Costituzione, in AA.VV., Il nuovo titolo V della parte II° della Costituzione, Milano, 2002.

22 Si veda FALSITTA, op. cit., pp. 52-57. 23 Sull’importanza del compito svolto dalla Corte costituzionale in questi anni, vi è in dottrina so-

stanziale unanimità. Per limitarci ai contributi più recenti, si veda, per esempio, FICARI, Conclusioni: il cammino dei tributi propri verso i decreti legislativi delegati, in Riv. dir. trib., n. 1, 2010, I, p. 89; GIO-VANARDI, Il riparto delle competenze tributarie tra giurisprudenza costituzionale e legge delega in materia di federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., n. 1, 2010, I, p. 29; RIVOSECCHI, Il federalismo fiscale tra giuri-sprudenza costituzionale e legge delega n. 42/2009, ovvero: del mancato coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, in Riv. dir. trib., n. 1, 2010, I, p. 49.

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ordinario debbano attenersi agli specifici principi di coordinamento della finanza pubblica statuiti con legge nazionale, nell’emanazione di leggi modificative dei pri-mi, e solo ai generali principi del sistema tributario statale 24, nell’istituzione o mo-dificazione dei secondi.

La recente legge delega n. 42/2009 per l’attuazione dell’art. 119 Cost. ha poi so-stanzialmente ricalcato il percorso tracciato dalla Corte costituzionale fin dal 2003, confermando la scelta di impedire qualsiasi potere di intervento delle regioni sui tributi propri derivati al di fuori degli spazi consentiti dalla legge statale, stempe-rando tale scelta con l’attribuzione alle regioni del potere (peraltro già pacifica-mente attribuito dall’art. 117 e 119 Cost.), di istituire, nel rispetto dei principi fon-damentali incardinati nel sistema dell’ordinamento tributario nazionale, tributi pro-pri aventi ad oggetto presupposti non “occupati” dal Legislatore statale e caratte-rizzati dalla tendenziale corrispondenza fra prelievo e beneficio arrecato.

Fatta questa doverosa premessa, occorre adesso valutare se, in tale quadro, il con-tributo studiato potrebbe legittimamente trovare attuazione.

Nell’attuale assetto di distribuzione di potestà tributarie, il contributo di inno-cuizzazione, eliminazione e stoccaggio (istituito per la prima volta dalla Regione Piemonte, in piena autonomia e totale assenza di una legge quadro nazionale) si configurerebbe verosimilmente come un “tributo proprio non derivato”, che, per essere legittimo e rispettoso dei principi incardinati nel sistema statale, dovrebbe avere ad oggetto un presupposto fortemente radicato nel contesto locale di riferi-mento e tendenzialmente correlato alle funzioni esercitate dall’ente sul territorio ma soprattutto non già “occupato” dal Legislatore nazionale ed essere.

Sotto quest’ultimo profilo, si osserva che il presupposto oggettivo del contributo studiato, consistente nell’esercizio dell’attività di smaltimento, recupero, stoccaggio di rifiuti urbani presenta diversi elementi di similitudine con quello già oggetto della disciplina Tarsu/Tia di cui ai D.Lgs. n. 507/1993, n. 22/1997 e n. 152/2006, pur essendo i relativi soggetti passivi del tutto differenti.

Se, nella comparazione dei due prelievi, si pone l’attenzione sul “presupposto soggettivo” e, in particolare, sulla difformità dei rispettivi soggetti colpiti e dei rela-tivi comportamenti che ne costituiscono la giustificazione costituzionale (nel con-tributo “piemontese”, la capacità contributiva economicamente misurabile che il gestore del servizio ritragga dall’esercizio dell’attività, nella fattispecie Tarsu/Tia, la maggiore attitudine alla contribuzione del produttore di rifiuti, derivante da una posizione di vantaggio rispetto agli altri consociati), individuare profili di duplica-zione del presupposto appare arduo.

24 A ben vedere, dall’esame delle vicende processuali affrontate dalla Corte costituzionale, si evince peraltro che i principi generali incardinati nel sistema tributario (cui peraltro soggiacerebbero le re-gioni a statuto speciale) sono, a ben vedere, non meno stringenti e vincolanti di quelli che si desi-gnano come principi di coordinamento della finanza pubblica. Così FALSITTA, op. cit., p. 56.

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Se invece, al di là del profilo soggettivo, si concepiscono i due prelievi come tri-buti variamente ma prioritariamente finalizzati a colpire il deterioramento derivan-te dalla produzione dei rifiuti, in quanto lesivo di un interesse essenziale per la col-lettività, meritevole di trovare tutela e supporto finanziario nella fiscalità genera-le 25, allora sarà facile ravvisare forti affinità fra i due tributi ed incorrere facilmente nel divieto di doppia imposizione.

Per risolvere la questione occorre dunque fare una più approfondita riflessione sul divieto in oggetto e su come esso impatta rispetto alle diverse configurazioni che può assumere il presupposto nelle varie fattispecie d’imposta.

4.1. Segue: ... in particolare, nelle Regioni a Statuto ordinario La legge delega n. 42/2009 utilizza il sintagma “doppia imposizione” 26 nell’art. 2,

comma 2, lett. o), al fine di escludere qualsiasi sovrapposizione “sul medesimo presupposto” di tributi disciplinati da enti impositori diversi, e nel successivo art. 7, comma 1, lett. b), n. 3, che, riferendosi alla potestà legislativa regionale, ne deli-mita l’estensione ai soli «presupposti non già assoggettati ad imposizione eraria-le», senza riferirsi espressamente al concetto di doppia imposizione. Nonostante la differente formulazione delle disposizioni, dovuta alle differenti relative finalità (di esprimere uno dei più importanti principi di coordinamento, nel primo caso, e di delimitare la potestà legislativa regionale, nel secondo), l’oggetto del divieto è sostanzialmente coincidente e riferibile alla sovrapposizione di diversi tributi sul medesimo presupposto.

Il presupposto è comunemente definito, negli studi di diritto tributario, come il fatto, l’evento o la circostanza al cui verificarsi la legge ricollega il tributo 27.

Nell’analisi delle legge delega e del significato che tale locuzione ivi assume ri-spetto al postulato della “doppia imposizione”, occorre chiarire preliminarmente la relazione intercorrente fra la manifestazione pregiuridica del fatto fiscalmente rile-vante e la relativa e successiva trasposizione nella costruzione normativa dello sche-

25 Come pare corretto e conforme alla ratio della disciplina comunitaria di cui i decreti Tia/Tarsu sono attuazione (Direttive n. 91/156/CEE sui rifiuti, n. 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e n. 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio) e come sembra emergere dall’interpretazione della Corte costituzionale del contributo di innocuizzazione e stoccaggio che, proprio secondo la Consulta, rispondeva ad un preciso interesse pubblico ed era «... destinato al finanziamento di spese pubbliche ambientali».

26 Sulla questione si veda BIZIOLI, Il divieto di doppia imposizione nella legge delega, in A. LA SCALA (a cura di), Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, Torino, 2010, p. 187 ss.; FRANSONI, Il presupposto dei tributi regionali e locali. Dal precetto costituzionale alla legge delega, in Riv. dir. trib., n. 3, 2011, pp. 267-285; si veda anche DI PIETRO, Il consenso all’imposizione e la sua legge, in Rass. trib., n. 1, 2012, p. 11 ss.; AMATUCCI, I tributi di scopo e le politiche tariffarie degli enti locali, in Rass. trib., n. 5, 2011, p. 1261 ss.

27 Così FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., p. 176; TESAURO, op. cit., p. 101.

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ma tributario. È abbastanza chiaro in dottrina che il presupposto del tributo può essere circoscritto al solo elemento materiale o fatto generatore del tributo 28, essen-do considerato l’elemento soggettivo del tutto estraneo al presupposto. Così de-purato dell’elemento soggettivo, il presupposto diventa dunque la traduzione giu-ridica di quel fatto materiale assunto come oggetto o ratio dello stesso.

Dunque, è possibile scorgere fra l’oggetto ed il presupposto così individuato uno stretto rapporto di strumentalità, per cui l’oggetto rappresenta la base o giustifica-zione costituzionale del prelievo ed il terreno di misurazione della legittimità dello stesso ed il presupposto la qualificazione o specificazione giuridica del precedente.

Ciò posto, è chiaro che il Legislatore ha una certa discrezionalità nella scelta della specifica qualificazione giuridica dell’oggetto da assumere ad indice di attitudine alla contribuzione e da assoggettare a tassazione, non essendo obbligato a qualificare qua-le presupposto tutti gli eventi relativi a quella specifica manifestazione.

Ed è proprio nell’esercizio di tale discrezionalità che è possibile individuare de-gli spazi di azione delle regioni nell’elaborazione di istituti tributari che colpiscano diverse ed ulteriori qualificazioni o specificazioni dell’oggetto o della manifestazio-ne pregiuridica che non siano ancora state scelte dal Legislatore nazionale.

Orbene, posto che l’elemento soggettivo è del tutto estraneo al processo di in-dividuazione del presupposto e che, quindi, tornando alla fattispecie specificamen-te analizzata in questo lavoro, la difformità dei soggetti colpiti dai due tributi non è un elemento idoneo a trarre considerazioni conclusive e risolutive della questione, occorre osservare gli elementi oggettivi dei due prelievi per valutare se essi rappre-sentino la medesima oppure differenti qualificazioni giuridiche del medesimo pre-supposto.

Dunque, pur ammettendo che l’oggetto di legittimazione, cioè la giustificazione costituzionale ultima dei due prelievi sia in realtà coincidente, sostanziandosi nel-l’interesse pubblico e generalizzato di trovare una congrua compensazione del di-sagio provocato alla collettività e di procacciare risorse finanziarie per l’espletamento delle essenziali funzioni di ripristino delle condizioni ambientali violate, è tuttavia evidente che le due qualificazioni giuridiche scelte dai Legislatori (nazionale per la Tia/Tarsu e della Regione Piemonte per il contributo di innocuizzazione) siano del tutto differenti, essendo, nel primo caso, la maggiore attitudine alla contribu-zione di chi provochi personalmente e direttamente il deterioramento ambientale producendo rifiuti e, nel secondo, la maggiore capacità economica di chi eserciti professionalmente l’attività imprenditoriale di gestione del servizio pubblico e tragga indirettamente beneficio economico dall’attività inquinante.

28 FANTOZZI, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, p. 6 ss.; FERLAZZO NATOLI, Il fatto rilevante nel diritto tributario. Contributo allo studio del “presupposto di fatto del tributo”, in Riv. dir. trib., n. 5, 1994, I, pp. 439-469; PORCARO, Il divieto di doppia imposizione nel diritto interno. Profili costituzionali, interpretativi e procedimentali, Padova, 2001, p. 21 ss.

9*.

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Per tale ragione, si può ragionevolmente affermare che se il contributo studiato fosse istituito oggi, nell’attuale assetto delineato dai diversi e numerosi interventi in materia di federalismo fiscale, esso non dovrebbe determinare duplicazione del presupposto rispetto alla normativa nazionale Tarsu/Tia, potendo passare, con tutta probabilità, indenne al vaglio della Corte costituzionale.

4.2. Segue: ... e nelle Regioni a Statuto speciale L’analisi sopra fatta, chiaramente, non vale per le Regioni a Statuto speciale, che

non soggiacciono alle limitazioni poste alle regioni a Statuto ordinario dai principi di coordinamento della finanza pubblica, essendo unicamente subordinate al ri-spetto dei principi incardinati nel sistema costituzionale e comunitario.

Dunque, l’esame di compatibilità costituzionale di un prelievo istituito da una Regione a Statuto speciale, sotto il profilo della doppia imposizione, va necessaria-mente condotta, attraverso l’analisi del principio costituzionale di capacità contribu-tiva, che ne rappresenta certamente il primario ed originario fondamento giuridico.

Infatti, il “divieto di doppia imposizione”, che trova i propri referenti normativi negli artt. 67 del D.P.R. n. 600/1973 e 127 del D.P.R. n. 917/1986 (a mente dei quali «La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi ...»), è un principio fondamentale dell’ordinamento tributario, di sicura derivazione dell’art. 53 Cost., che, pur essendo sancito con legge ordinaria e non potendosi pertanto riferire di-rettamente all’operato del Legislatore 29, ha certamente una portata applicativa ge-nerale 30 ed efficacia “condizionante” l’attività normativa in materia fiscale 31.

Orbene, anche sotto questa ulteriore prospettiva, non può certo negarsi che la compresenza, nell’ordinamento giuridico italiano, del contributo studiato con altri prelievi aventi elementi strutturali analoghi o simili, come la Tia/Tarsu, in realtà, a bene vedere, possa essere serenamente compatibile con il divieto di doppia impo-sizione.

29 Così FALSITTA, op. cit., p. 233. 30 Sebbene la prima norma citata abbia una valenza espressamente procedurale e la seconda sia ri-

feribile alle sole imposte sui redditi, è opinione diffusa che il principio del divieto di doppia imposizione abbia un ambito applicativo estensibile a tutte le aree del diritto tributario ed una portata sostanziale. Sulla differenza fra divieto di doppia imposizione e duplicazione dell’attività impositiva, si veda per esempio DONATELLI, Sulla duplicazione dell’attività impositiva nel caso di mancato esercizio della autotute-la sostitutiva, in Rass. trib., 2002, commento a sent. Cass. n. 10650/1997 e n. 3951/2002, su banca dati Fisconline.

31 Secondo MARELLO (Il divieto di doppia imposizione come principio generale del sistema tributa-rio, in Giur. cost., 1997, p. 4127 ss.), la doppia imposizione non è solo questione di rapporti tra atti ma anche e soprattutto di rapporti tra norme. Tale principio, coperto costituzionalmente dall’art. 53 Cost. potrebbe infatti assurgere a principio generale dell’ordinamento tributario che permetterebbe di valutare in termini di coerenza la coesistenza di più tributi sullo stesso fatto economico.

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Tornando alla comparazione sopra fatta, la differente imputazione soggettiva e la differente qualificazione fatta nella trasposizione giuridica dell’oggetto della fat-tispecie, mostrano con evidenza che, anche sotto il profilo della capacità contribu-tiva, i presupposti assunti ad indice di attitudine alla contribuzione divergono enor-memente.

Anzi, possiamo ragionevolmente affermare che la circostanza che i due prelievi colpiscano diverse modalità di attitudine al concorso in relazione al medesimo og-getto e differenti soggetti diversamente interessati dalla medesima realtà fenome-nologica pregiuridica, garantisce, a ben vedere, una più equa ed imparziale realiz-zazione della funzione essenzialmente perseguita dal sistema tributario.

Valeria Guido

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Cass., sez. trib., 27 aprile 2012, n. 6548 – Pres. Pivetti, Rel. Valitutti Imposta sul reddito delle persone giuridiche – Redditi d’impresa – Determinazio-ne del reddito d’impresa – Principio d’inerenza – Deducibilità delle spese di spon-sorizzazione – Titolarità del marchio oggetto di sponsorizzazione – Irrilevanza ai fini della verifica dell’inerenza – Onere della prova del vantaggio derivante dalla sponsorizzazione a carico del contribuente – Onere della prova del beneficio della sponsorizzazione a favore del terzo a carico dell’amministrazione finanziaria.

La disciplina del TUIR consente la deducibilità delle spese relative ad un contratto di sponsorizzazione, anche se sia stato stipulato a favore di un terzo, laddove il contri-buente alleghi e dimostri le potenziali utilità per la propria attività commerciale, o i futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa in favore del terzo.

(Omissis)

IN FATTO 1. Con sentenza n. 110/50/09, depositata il 21.9.09 e notificata il 10.11.09, la Com-

missione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano (OMISSIS), avverso la sentenza di primo grado con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla Epson Italia s.p.a. nei confronti dell’avvi-so di accertamento, relativo ad IVA, IRPEG ed IRAP per l’anno 2004.

2. La CTR – confermando le valutazioni del giudice di prime cure – riteneva, invero, che ricadesse sull’Ufficio l’onere di dimostrare l’inerenza dei costi di sponsorizzazione, recuperati a tassazione, all’attività della casa madre giapponese, Seiko Epson Corpora-tion, titolare del marchio e produttrice delle apparecchiature informatiche oggetto di sponsorizzazione, piuttosto che a quella della contribuente italiana, mera distributrice del prodotto ed utilizzatrice del marchio, che aveva operato la contestata deduzione.

3. Avverso la sentenza n. 110/50/09 ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, affidato a tre motivi, ai quali l’intimata ha replicato con controricorso e con memoria ex art. 378 c.p.c.

IN DIRITTO

1. La vicenda oggetto del presente giudizio trae origine da un processo verbale di

constatazione, redatto al termine di una verifica effettuata dalla Guardia di Finanza di Milano presso la Epson Italia s.p.a., con il quale veniva contestata alla contribuente la contabilizzazione di costi di sponsorizzazione del marchio “Epson”, attraverso il servi-

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zio meteo offerto dalle reti Mediaset, nonché attraverso manifestazioni sportive e so-cietà terze.

1.1. I verbalizzanti, infatti, muovevano dal rilievo secondo cui la Epson Italia s.p.a. non era titolare del predetto marchio, in relazione al quale vantava, infatti, il solo diritto all’utilizzazione, nonché quello di distribuzione del prodotto in Italia, al pari di altre so-cietà operanti in altri Paesi Europei e facenti parte del gruppo Epson Europa. Sicché essi pervenivano alla conclusione – di poi fatta propria dall’amministrazione finanzia-ria – che i costi in questione, in quanto finalizzati alla promozione globale dell’impresa Epson e delle apparecchiature informatiche prodotte dalla casa madre giapponese, Seiko Epson Corporation, non fossero costi inerenti all’attività di impresa della con-tribuente, e pertanto dalla stessa non deducibili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5.

1.2. In forza del suindicato processo verbale di constatazione, l’Ufficio emetteva, quindi, avviso di accertamento, con il quale – condividendo in pieno le risultanze della verifica operata dalla Guardia di Finanza – escludeva la deducibilità dei costi concer-nenti l’attività di sponsorizzazione effettuata dalla contribuente, poiché non inerenti all’attività di impresa, pervenendo, in tal modo, alla quantificazione di una maggiore pretesa fiscale, a titolo di IVA, IRPEG ed IRAP. Nei confronti di tale atto impositivo, proponeva ricorso in sede giurisdizionale la Epson Italia s.p.a., ottenendo due pronun-ce a sé favorevoli nel primo e nel secondo grado del giudizio.

2. Avverso la decisione di appello, emessa dalla CTR della Lombardia, ha propo-sto, quindi, ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, articolando tre motivi che si passa ad esporre.

2.1. Con il primo motivo di ricorso, l’amministrazione ricorrente deduce la viola-zione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

2.2. Con il secondo motivo, la medesima denuncia, poi, la contraddittoria motiva-zione circa un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

2.3. Con la terza censura, infine, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazio-ne del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, in re-lazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. 2.4. Con i tre motivi suesposti, l’Agenzia delle Entrate si duole, anzitutto, del fatto che il giudice di appello abbia erroneamente posto a suo carico l’onere della prova “dell’origine e/o genesi del maggior reddito accertato”, laddove – trattandosi di elementi reddituali negativi (costi di sponsorizzazione) – l’onere della prova in ordine alla loro deducibilità sarebbe dovuto gravare sulla società contribuente.

L’amministrazione finanziaria censura, inoltre, l’erronea ricostruzione in fatto ed in diritto della vicenda, da parte del giudice di seconde cure, il quale avrebbe – a suo avvi-so – del tutto erroneamente individuato nella società utilizzatrice del marchio (ma non titolare dello stesso) e distributrice del prodotto, il solo soggetto concretamente av-vantaggiato, sul piano commerciale, dalla pubblicità conseguente alla sponsorizzazione del marchio “Epson”.

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Sarebbe, di contro, del tutto evidente – a parere dell’amministrazione finanziaria – che la promozione del marchio da parte della Epson Italia avrebbe avuto, come prima e prioritaria conseguenza, quella di giovare – in termini di aumento della redditività – alla casa madre giapponese, Seiko Epson Corporation, titolare del marchio e produt-trice delle apparecchiature sponsorizzate.

3. I tre motivi – che per la loro evidente connessione vanno esaminati congiunta-mente – si palesano, ad avviso della Corte, palesemente infondati e vanno, pertanto, disattesi.

3.1. Il nucleo essenziale dell’intera vicenda in esame si incentra, invero, sulla que-stione della deducibilità, o meno, da parte della società Epson Italia s.p.a. dei costi di sponsorizzazione del marchio “Epson”, deducibilità che dipende, in buona sostanza, dalla loro inerenza, o meno, all’attività di impresa esercitata dalla contribuente, a teno-re del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5.

Orbene, va osservato, al riguardo, che quella di inerenza è una nozione pre-giuridi-ca, di origine economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calco-lata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione. Sotto tale profilo, pertanto, ine-rente è tutto ciò che – sul piano dei costi e delle spese – appartiene alla sfera dell’im-presa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che si può ri-condurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore, ovvero del socio o del terzo.

3.2. Se dal piano economico si passa, poi, a quello fiscale, da quanto suesposto di-scende che l’inerenza di un onere o di un costo all’impresa, in quanto si concreta in una componente negativa del reddito, si traduce – attraverso il meccanismo delle de-duzioni – in un risparmio di imposta, giacché esso viene ad abbattere il reddito impo-nibile netto, in misura corrispondente all’entità della spesa o del costo deducibili.

Alla luce di tali rilievi, pertanto, può spiegarsi agevolmente perché – in applicazione del principio desumibile dalla norma di cui all’art. 2697 c.c. – l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno vita ad oneri e/o a costi deducibili, nonché in ordine al requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o d’impresa svolta, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109, comma 5, ceda in via di principio, secondo il costante inse-gnamento di questa Corte, a carico del contribuente che intenda avvalersene (cfr. Cass. 11205/07, 1709/07, 3305/09, 26851/09, 18930/11).

Per converso, sempre in tema di imposte sui redditi, è del pari incontrovertibile che incomba sull’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare, qualora la pretesa tributaria dedotta in giudizio derivi dall’attribuzione al contribuente di maggiori entrate, gli elementi o le circostanze, a suo avviso rivelatori dell’esistenza di un maggiore im-ponibile (Cass. 11205/07).

3.2.1. E tuttavia, siffatto riparto dell’onere della prova si attaglia, com’è del tutto evi-dente, a soli casi di dubbio collegamento della componente reddituale negativa con l’im-presa, nei quali l’onere della prova – secondo quando detto – non può che fare carico al contribuente. Viceversa, laddove si tratti delle spese strettamente necessarie alla produ-

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zione del reddito, o comunque fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale (ad esempio, i costi per l’acquisto di materie prime, o di macchinari o strumenti indispen-sabili a produrre certi beni, o di manufatti necessari per la loro custodia) che, in quanto tali, possano ritenersi intrinsecamente inerenti all’attività di impresa, sarà l’amministra-zione a dover provare l’inesistenza, nel caso specifico, del predetto nesso di inerenza.

In siffatta ipotesi, invero, a fronte della palese riconducibilità della spesa o del costo all’impresa, dovrà l’amministrazione – che intenda disconoscerne l’inerenza all’attività di impresa, al fine di inferirne la sussistenza di un maggior reddito tassabile in capo al contribuente – fornire la relativa dimostrazione in giudizio.

3.2.2. Nel medesimo ordine di concetti, questa Corte ha avuto modo più volte di operare un distinguo, ai fini del riparto dell’onere della prova, tra beni “normalmente necessari e strumentali” e beni “non necessari e strumentali”, ponendosi a carico del contribuente l’onere della prova dell’inerenza solo in questa seconda evenienza (cfr. Cass. 9265/95, 13478/01).

Ed invero, il requisito dell’inerenza, indispensabile ai fini della deducibilità dell’o-nere o del costo, si determina in relazione alla “funzione dei beni e dei servizi acquistati” dal contribuente (Cass. 10257/08), ossia della “ragione” della spesa riconosciuta e contabilizzata dall’imprenditore (Cass. 6650/06), in relazione alle quali è calibrato l’o-nere della prova, da porsi, cioè, a carico del contribuente, solo laddove la strumentalità della spesa all’attività di impresa non risulti di chiara evidenza in considerazione della sua stessa natura.

3.2.3. Allo stesso modo, in materia di IVA, in base alla disciplina desumibile dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 2, e art. 19, comma 1, le cessioni di beni da parte di società commerciali sono da considerarsi in ogni caso – ovverosia senza eccezioni – effettuate nell’esercizio dell’impresa; sicché alcun onere di dimostrazione è configura-bile, al riguardo, a carico del contribuente a fini fiscali.

Per converso, per gli acquisti di beni da parte delle stesse società, il requisito del-l’inerenza, ai fini della detraibilità dell’imposta, non può presumersi sulla base della sola qualità di imprenditore dell’acquirente, essendo onere di quest’ultimo comprovare che tali operazioni sono state, per la natura e la funzione dei beni acquisiti, effettiva-mente compiute nell’esercizio dell’impresa (cfr. Cass. 5599/03, 3706/10, 23626/11).

4. Ebbene, alla stregua di tutte le osservazioni che precedono, ritiene la Corte che il requisito dell’inerenza dei costi per le sponsorizzazioni, affrontati nel caso concreto dalla Epson Italia s.p.a., debba ritenersi certamente sussistente in relazione all’attività imprenditoriale, di utilizzazione del marchio “Epson” e di distribuzione dei relativi prodotti, svolta dalla società contribuente. Né, in difetto di elementi di prova di segno contrario addotti dall’Agenzia delle Entrate, potrebbe in alcun modo ritenersi – per le ragioni che si passa ad esporre – che tali costi siano imputabili, in qualche misura, alla casa madre giapponese, Seiko Epson Corporation.

4.1. A tal riguardo va, per vero, osservato che il c.d. contratto di sponsorizzazione – fattispecie non specificamente disciplinata dalla legge – ricomprende tutte quelle

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Cass., sez. trib., 27 aprile 2012, n. 6548

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ipotesi nelle quali un soggetto – detto “sponsorizzato” o, con terminologia anglosasso-ne, “sponsee” – si obbliga, dietro corrispettivo, a consentire ad altri l’uso della propria immagine pubblica e del proprio nome, per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marchiato, o anche a tenere determinati comportamenti di testimo-nianza in favore del marchio o del prodotto oggetto della veicolazione commerciale.

Da tali caratteristiche del rapporto, si evince, pertanto, che la sponsorizzazione – che, sotto il profilo concernente lo sponsorizzato, si concreta nella commercializzazione del nome e dell’immagine personale del soggetto – si traduce, al contempo, per lo spon-sor, in una forma di pubblicità indiretta, consistente nella promozione del marchio o del prodotto che si intende lanciare sul mercato. E, sotto tale profilo, – non a caso si suoi dire, nel linguaggio corrente, che “la pubblicità è l’anima del commercio” – l’inerenza, ai fini fiscali, dei costi della sponsorizzazione all’attività di impresa, qualora lo sponsor sia lo stesso titolare del marchio o il produttore del bene da promuovere, non pare se-riamente dubitabile.

In siffatta ipotesi, è, invero, di chiara evidenza che la pubblicizzazione del marchio o del prodotto si traducono innegabilmente in un potenziale vantaggio economico di-retto per l’impresa sponsorizzante, potendone derivare, in conseguenza, un incremento della propria attività commerciale. E, in tale prospettiva, va tenuto conto altresì, ai fini tributari, del fatto che la deducibilità di un costo dal reddito di impresa non postula che esso sia stato necessariamente sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, essendo sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa in quanto tale, ossia che tale costo sia stato sostenuto al fine di svol-gere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (Cass. 16826/07).

4.2. Maggiori perplessità al riguardo possono, tuttavia, porsi nel caso – ricorrente nella specie – in cui lo sponsor non sia il titolare del marchio o il produttore del bene, ai quali l’attività pubblicitaria fa riferimento, ben potendo porsi – con riferimento a sif-fatta ipotesi – il dubbio circa la possibilità che l’attività di sponsorizzazione venga, in definitiva, a giovare al diverso soggetto produttore, o titolare del marchio che si inten-de promuovere con la sponsorizzazione. Sicché – sul piano civilistico – lo sponsor ver-rebbe, in buona sostanza, a porsi come un contraente per conto altrui, con le conse-guenti ricadute – sul piano fiscale – in ordine alla indeducibilità dei relativi costi.

Ebbene, va osservato, in proposito, che dal complesso delle caratteristiche concer-nenti il contratto di sponsorizzazione non può desumersi che tale contratto debba in-defettibilmente essere concluso da uno sponsor che sia egli stesso il produttore indu-striale di una determinata merce, ovvero il titolare dei diritto di marchio da veicolare. Ed invero, ben può – sul piano civilistico – riconoscersi la sussistenza di un rapporto patrimonialmente rilevante (art. 1174 c.c.), ancorché non riconducibile ad un contrat-to tipico, anche in presenza di un contratto nel quale lo sponsor sia altro soggetto, cha tragga comunque un’utilità dallo sfruttamento dell’immagine altrui, sebbene diverso risulti l’organizzatore della relativa produzione.

Ne discende che, nel caso in cui lo sponsor sia il distributore esclusivo, per l’Italia,

10.

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di un determinato prodotto, dalla sua relazione d’affari con il produttore, e dal fatto che anche quest’ultimo tragga vantaggio dalla maggiore diffusione del suo marchio presso i consumatori, non può trarsi – in via automatica – la conclusione per cui egli sia un contraente per conto altrui, e non nel proprio interesse, dovendo – per contro – tale eventualità essere accertata in fatto, nelle singole fattispecie concrete (cfr. Cass. 9880/97, 12801/06).

4.3. Correlativamente, questa Corte ha di recente osservato – sul piano più stret-tamente tributario, ma in adesione alla suesposta esigenza di una valutazione fattuale dell’interesse economico sotteso al contratto di sponsorizzazione – che la disposizione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74, comma 2 (ora art. 109, comma 5), consente la de-ducibilità delle spese relative ad un contratto di sponsorizzazione, perfino qualora esso stato stipulato a favore di un terzo, laddove il contribuente alleghi e dimostri le poten-ziali utilità per la propria attività commerciale, o i futuri vantaggi conseguibili attraver-so la pubblicità svolta dall’impresa in favore del terzo (Cass. 24065/11).

4.4. Orbene, nel caso concreto, il giudice di appello ha accertato che, con contratto dell’1.4.91, la casa madre Seiko Epson Corporation ha conferito all’odierna resistente l’incarico di “distributore esclusivo” in Italia, per l’attività di importazione, vendita e distribuzione dei prodotti contrassegnati con il marchio Epson. E del resto, la qualità di utilizzatore del marchio in parola e di distributore dei prodotti Epson, in capo alla società contribuente, appare del tutto incontroversa tra le parti.

Ne discende – in forza dei principi suesposti – che a fronte della connaturale ine-renza che l’attività di pubblicizzazione, sia pure indiretta, dei prodotti Epson da parte della Epson Italia presenta rispetto all’attività commerciale svolta dalla medesima, in quanto distributore in via esclusiva sul territorio nazionale, e – di conseguenza – alla legittimità della deduzione dei relativi costi, sia ai fini delle imposte sui redditi, che del-l’IVA, sarebbe stato onere dell’amministrazione, attenendo la prova ai fatti costitutivi della maggiore pretesa azionata, comprovare che tali costi venivano ad incidere, in tutto o in parte, sull’attività della casa madre Seiko Epson Corporation. In difetto di tale prova, pertanto, il ricorso dalla medesima proposto, avverso la decisione di seconde cure, non può che essere rigettato con conseguente condanna dell’amministrazione ricorrente alle spese del presente giudizio, nella misura di cui in dispositivo.

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Riflessioni su sponsorizzazione, inerenza e onere della prova nella disciplina del reddito d’impresa

Some remarks on sponsorship, inherence and burden of proof in the business income discipline

Abstract Ai fini della determinazione del reddito d’impresa deve ammettersi in deduzione la spesa sostenuta da una società per la sponsorizzazione di un marchio di cui sia utilizzatrice, ponendosi tale spesa in un rapporto d’inerenza con l’attività im-prenditoriale, e non rilevando a tal fine la titolarità del marchio. Il contribuente è onerato della dimostrazione del vantaggio economico derivante all’impresa dalla spesa di sponsorizzazione del marchio di cui sia titolare un ter-zo, allegando e dimostrando le potenziali utilità per la propria attività commer-ciale o i futuri vantaggi conseguibili attraverso tale forma di pubblicità. Spetta all’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare che la spesa sostenu-ta dall’impresa per la sponsorizzazione del marchio di proprietà di un altro sog-getto, anche facente parte dello stesso gruppo societario, sia riferibile all’attività di questi. Parole chiave: reddito d’impresa, sponsorizzazione, marchio, inerenza, deduci-bilità The expenses suffered by a company for the sponsorship of a trademark not in its property, shall be deductible in the determination of business income since they are inherent with the entrepreneurial activity and being irrelevant the ownership of the trademark itself. The taxpayer shall prove the economic advantage of the company deriving from the sponsorship expenses aimed at promoting a trademark owned by a third party, by at-taching and demonstrating the potential benefits for its business or future advantages linked to such form of advertising. On the other side, the Italian Tax Authorities shall prove that the expenses suffered by the company for sponsoring a trademark owned by a third party, which may also be part of the same company group, is attributable to the business activity of the latter. Keywords: business income, sponsorship, trademark, inherence, deductibility

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SOMMARIO: 1. La sentenza. – 2. Alla ricerca della “fonte” del principio dell’inerenza. – 3. L’inerenza come principio generale della determinazione del reddito d’impresa. – 4. La predeterminazione giu-risprudenziale dell’inerenza. – 5. Prova dell’inerenza e accertamento contabile.

1. La sentenza

La sentenza che si annota 1 vede la Suprema Corte affrontare il tema della ripar-tizione dell’onere della prova dell’inerenza di una spesa di sponsorizzazione soste-nuta da un’impresa per sostenere un marchio, di proprietà della propria casa-madre estera, di cui l’impresa italiana era utilizzatrice esclusiva in Italia in forza di un contratto di distribuzione dei prodotti. La Cassazione, confermando un suo con-solidato orientamento 2, afferma che l’onere della dimostrazione del vantaggio eco-nomico derivante dalla sponsorizzazione del marchio del terzo deve ritenersi a ca-rico dell’impresa contribuente, che può assolverlo allegando e dimostrando le po-tenziali utilità che possono derivare da tale spesa alla propria attività commerciale, non rilevando, a tal fine, il fatto che il marchio appartenga ad un terzo, il quale po-trebbe trarre un ipotetico vantaggio dalla pubblicità realizzata attraverso la sponso-rizzazione. La riferibilità al terzo della spesa può condizionare il giudizio circa l’ine-renza della stessa spesa, ma tale evenienza deve formare oggetto di prova da parte dell’amministrazione finanziaria, che sarà onerata, quindi, della dimostrazione di tale vantaggio derivante dalla spesa sostenuta dall’impresa contribuente.

A tali conclusioni la Corte giunge dopo avere ricostruito la nozione di inerenza, ritenendola una nozione pre giuridica di origine economica, che identifica tutto ciò che appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di forni-re un’utilità, anche in modo indiretto, all’attività economica svolta, dovendosi, in-vece, ritenere non inerente ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familia-re dell’imprenditore, del socio o del terzo. Dal punto di vista fiscale, rileva la Corte, l’inerenza di un costo si traduce in un risparmio d’imposta, quindi l’onere della prova dei fatti che danno vita ad oneri o costi deducibili e all’inerenza degli stessi all’attività d’impresa è a carico del contribuente che intenda avvalersene. Mentre è a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare maggiori entrate o gli elementi o circostanze rivelatori dell’esistenza di un maggior imponibile.

1 Già pubblicata in Riv. dir. trib., 2012, II, p. 408, con nota di BEGHIN, Note critiche a proposito del-l’asserita, doppia declinazione della regola dell’inerenza (“inerenza intrinseca” versus “inerenza estrinseca”).

2 Cass., sez. trib., 16 maggio 2007, n. 11205; Cass., sez. trib., 26 gennaio 2007, n. 1709; Cass., sez. trib., 11 febbraio 2009, n. 3305; Cass., sez. trib., 21 dicembre 2009, n. 26851; Cass., sez. trib., 21 di-cembre 2011, n. 18930, tutte in Banca dati Leggi d’Italia.

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Tuttavia, tale criterio di riparto dell’onere della prova si attaglia ai soli casi di dubbio collegamento della componente reddituale negativa con l’impresa, in quanto in presenza di spese strettamente necessarie alla produzione del reddito o fisiolo-gicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale, che sono intrinsecamente ine-renti all’attività d’impresa, l’onere della prova è a carico dell’amministrazione finan-ziaria. A tal fine, la Cassazione ricorda la propria giurisprudenza circa la necessità di distinguere, ai fini del riscontro dell’inerenza tra beni normalmente necessari e strumentali, che danno luogo ad una sorta di presunzione di inerenza, gravando sulla p.a. l’onere della dimostrazione del difetto di inerenza e beni non necessari e strumentali, in relazione ai quali la prova del collegamento con l’attività dell’impre-sa è a carico del contribuente 3. In particolare, Il requisito dell’inerenza si determi-na in relazione alla funzione dei beni o dei servizi acquistati o della ragione della spesa riconosciuta e contabilizzata dall’imprenditore, per cui la prova è a carico del contribuente solo ove la strumentalità della spesa all’attività di impresa non risulti di chiara evidenza in considerazione della sua stessa natura 4.

Tali rilievi, propri del sistema dell’imposizione sul reddito, trovano conferma nella giurisprudenza di legittimità in materia di IVA, che afferma che le cessioni di beni si presumono inerenti, mentre gli acquisti vanno ammessi in detrazione solo se il contribuente prova che tali operazioni, per la natura e la funzione dei beni ac-quisiti, sono state effettivamente compiute nell’esercizio dell’impresa 5.

Nel caso di specie, rileva la Suprema Corte, i costi di sponsorizzazione sono inerenti all’attività imprenditoriale di utilizzazione del marchio e di distribuzione dei relativi prodotti, né l’amministrazione finanziaria ha provato che tali costi sono im-putabili, in qualche misura, alla casa madre.

A tale conclusione la Cassazione giunge dopo avere ricostruito il contenuto del contratto di sponsorizzazione, che presenta l’obbligo, dietro corrispettivo, a consen-tire ad altri l’uso della propria immagine pubblica e del proprio nome per promuo-vere un marchio o un prodotto specificamente marchiato, o a tenere determinati comportamenti di testimonianza in favore del marchio o del prodotto oggetto del-la veicolazione commerciale. Pertanto la sponsorizzazione si traduce per lo spon-sor in una forma di pubblicità indiretta, consistente nella promozione del marchio o del prodotto che si intende lanciare sul mercato. Se lo sponsor è titolare del mar-chio o produttore del bene i costi di sponsorizzazione sono inerenti, in conseguenza

3 Cass., sez. I, 2 settembre 1995, n. 9265, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., sez. trib., 30 ottobre 2001, n. 13478, in Banca dati fisconline.

4 Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., sez. trib., 24 marzo 2006, n. 6650, in Banca dati fisconline.

5 Cass., sez. trib., 9 aprile 2003, n. 5599, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., sez. trib., 17 febbraio 2010, n. 3706, in Banca dati Leggi d’Italia; Cass., sez. trib., 11 novembre 2011, n. 23626, in Banca dati fisconline.

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del potenziale vantaggio economico diretto per l’impresa sponsorizzante, potendo derivare un incremento dell’attività commerciale, fermo restando che non esiste un collegamento specifico tra costo e componente attiva, in quanto è sufficiente che esista una correlazione in senso ampio all’impresa in quanto tale. Il costo, in defini-tiva, deve essere stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente ido-nea a produrre utili.

Tuttavia, se lo sponsor non è il titolare del marchio al quale l’attività fa riferimen-to, si può porre il dubbio circa la possibilità che l’attività di sponsorizzazione venga a giovare a diverso soggetto produttore o titolare del marchio. Sul piano civilistico lo sponsor sarebbe, quindi, un contraente per conto altrui. Peraltro, il contratto di sponsorizzazione non presuppone necessariamente che lo sponsor sia il produtto-re o il titolare del marchio, in quanto può sussistere un rapporto patrimonialmente rilevante, anche in presenza di un contratto nel quale lo sponsor sia altro soggetto che tragga comunque un’utilità dallo sfruttamento dell’immagine altrui.

Per cui nel caso in cui il distributore esclusivo per l’Italia di un determinato pro-dotto sia lo sponsor, non necessariamente si è in presenza di un contraente per conto altrui, in quanto tale eventualità deve accertarsi in fatto. Da ciò, ad avviso della Corte, l’esigenza di una valutazione fattuale dell’interesse economico sotteso al contratto di sponsorizzazione, che porta a ritenere il costo fiscalmente deducibile se il contribuen-te allega e dimostra le potenziali utilità per la propria attività commerciale o i futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa a favore di un terzo.

Nel caso concreto si è accertata l’esistenza di un contratto di distribuzione esclusiva dei prodotti in Italia e la qualità di utilizzatore del marchio e di distribu-zione del prodotto è incontroversa tra le parti. A fronte della connaturale inerenza che l’attività di pubblicizzazione, sia pure indiretta, presenta rispetto all’attività svol-ta, sarebbe stato onere dell’amministrazione finanziaria comprovare che tali costi venivano ad incidere, in tutto o in parte, sull’attività della casa madre.

2. Alla ricerca della “fonte” del principio dell’inerenza

Il percorso logico seguito dalla Cassazione nella soluzione della controversia si pre-senta condivisibile nelle sue linee di fondo, tuttavia impone alcune riflessioni di carat-tere sistematico che non sembrano trasparire dalla motivazione e che, forse, avrebbero consentito ai giudici di legittimità di cogliere l’occasione per fissare alcuni punti inter-pretativi in materia di ricostruzione della portata del principio dell’inerenza nella de-terminazione del reddito d’impresa ai fini dell’imposizione sul reddito 6. A tal fine,

6 La letteratura sul principio di inerenza è ampia, per cui si rinvia alla bibliografia richiamata in TINELLI, Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 446,

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sembra opportuno tenere distinti i temi che attengono alla base giuridica ed alla porta-ta del principio di inerenza, rispetto a quelli che riguardano la ripartizione degli oneri dimostrativi dell’inerenza nella dialettica processuale finalizzata all’attuazione giurisdi-zionale della norma tributaria.

Partendo dall’esame delle questioni di ordine sostanziale, dalla lettura della sentenza emerge un primo aspetto su cui la Suprema Corte sembra esitare, rappre-sentato dal problema dell’individuazione della “fonte” normativa del principio di inerenza, quale clausola generale della determinazione del reddito d’impresa nel sistema dell’imposizione diretta. Il tema è infatti sfiorato nella proposta ricostru-zione pre giuridica dell’inerenza, ma viene incanalato, a nostro avviso non corret-tamente, nell’esegesi dell’art. 109, comma 5, TUIR, da cui si fanno derivare le rela-tive conseguenze in termini di ripartizione dell’onere della prova.

Per affrontare in modo coerente il tema della prova dell’inerenza, sembra op-portuno, come già segnalato in altri lavori 7, procedere attraverso la ricostruzione della base giuridica del principio dell’inerenza e l’attribuzione all’art. 109, comma 5, nella sistematica dell’imposizione sul reddito d’impresa, di una funzione ben di-versa rispetto a quella propria dell’inerenza. Infatti, l’analisi fattuale dei componen-ti economici che hanno interessato la gestione dell’impresa, diretta alla trasforma-zione del risultato civilistico in imponibile fiscale, deve dirigersi preliminarmente al-l’accertamento della riferibilità dei componenti economici all’esercizio dell’impre-sa, in modo da consentire la corretta ricostruzione del reddito imponibile ed evita-re che componenti economici riferibili ad altre categorie reddituali o fiscalmente non rilevanti vengano ad essere indebitamente computati nella determinazione del reddito d’impresa. Da ciò la necessità di individuare i singoli fatti gestionali che si pongano in una relazione causale con l’attività economica svolta dall’imprenditore, mediante un accertamento in fatto delle caratteristiche dell’operazione da cui de-rivino i componenti economici e della relazione tra essi e l’esercizio dell’attività imprenditoriale.

Tale rapporto causale tra i componenti economici e l’attività economica del-

e in TINELLI, Commento all’art. 109, in AA.VV., Commentario al testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cura di Tinelli, Padova, 2010, p. 995 ss., cui adde TUNDO, La deducibilità delle cosidette management fee nella determinazione del reddito dei gruppi d’imprese: spunti per i rapporti tra soggetti residenti (nota a Cass., sez. trib., 18 marzo 2009, n. 6532), in Rass. trib., 2009, p. 1811; INTERDONATO, Giudizio di razionalità economica e connesse problematiche di effettività ed inerenza del costo (nota a Comm. trib. prov. di Vicenza, Sez. IV, n. 115/2008), in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 301; BURELLI, Spunti di riflessione su erronea imputazione dei costi ed accertamento del reddito nel consolidato nazionale tra principio di ine-renza, divieto di doppia imposizione ed effettività della capacità contributiva (nota a Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, Sez. IV, n. 45/2010), in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 158; GIOVANNINI, Principi costituzio-nali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, p. 609.

7 TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, p. 247 ss.; ID., Il principio di ine-renza nella determinazione del reddito d’impresa, cit., p. 446, ID., Commento all’art. 109, cit., p. 995.

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l’impresa suole denominarsi di inerenza o afferenza, nel senso che i fatti economici che hanno interessato la gestione dell’impresa devono inerire all’esercizio dell’atti-vità d’impresa e non si devono porre in un semplice rapporto di occasionale riferi-bilità soggettiva all’impresa stessa, oppure costituire una mera erogazione di reddito. Può accadere, infatti, che un componente reddituale, pur formalmente attribuibile all’impresa, si presenti estraneo rispetto all’esercizio dell’attività dell’impresa ed affe-risca invece alla sfera privata dell’imprenditore o di altri soggetti estranei alla ge-stione imprenditoriale. La norma tributaria, per definizione, disciplina con rigoro-sità maggiore rispetto a quella civilistica i criteri per la specificazione oggettiva della fonte reddituale, cercando di eliminare ogni possibile ambito di discrezionalità sia dell’amministrazione finanziaria che del contribuente 8.

La costruzione giuridica del principio di inerenza non può quindi fondarsi su criteri di carattere soggettivo, in quanto, un accadimento economicamente rilevante, in determinate ipotesi, pur potendosi attribuire al titolare dell’impresa, sotto l’a-spetto oggettivo può non attenere all’esercizio dell’impresa, risultando invece col-legato al perseguimento di altri interessi economici del contribuente, idonei a rile-vare ai fini della determinazione di altre categorie di reddito, oppure attenere ad interessi personali fiscalmente non significativi. Ciò riguarda sia componenti eco-nomici positivi, quali redditi classificabili in categorie diverse da quella dei redditi d’impresa o entrate prive di rilevanza fiscale, che componenti negativi, quali spese attribuibili ad altre fonti di reddito o fiscalmente non significative. Queste ultime, in particolare, possono manifestarsi mediante l’insidiosa imputazione nella deter-minazione del reddito d’impresa di costi riferibili ad interessi od attività personali dell’imprenditore comportando una determinazione del reddito d’impresa in mi-sura diversa da quella corrispondente all’effettiva capacità contributiva espressa da tale fonte imprenditoriale, che viene alterata dalla impropria deduzione dando luo-go ad un illegittimo risparmio d’imposta. Un simile comportamento nel sistema civi-listico risulta, sostanzialmente, privo di sanzione, non soltanto nell’impresa indivi-duale, in cui si assiste ad una immedesimazione del patrimonio imprenditoriale

8 È d’altronde evidente, in mancanza di una direttiva oggettiva sull’imputabilità dei componenti di reddito, la vanificazione di tutte le altre norme sull’imposizione del reddito d’impresa, ben poten-dosi ottenere una compressione del prelievo fiscale escludendo dall’imponibile componenti positivi di reddito, pur rientranti nell’esercizio dell’impresa, per attribuirli ad altre categorie reddituali pur facenti capo allo stesso soggetto passivo, ma beneficianti di criteri forfetari di determinazione, oppure facendo concorrere in deduzione componenti negativi afferenti la sfera personale dell’imprenditore o comunque non legati da alcun vincolo causale con l’esercizio dell’impresa. Come pure, lo sposta-mento di componenti reddituali nell’ambito di soggetti facenti parte di gruppi di imprese, seppur civilmente non sanzionabile, agli effetti tributari comporterebbe la misurazione della capacità con-tributiva di soggetti giuridicamente autonomi in maniera diversa da quella effettiva, dando luogo ad una tassazione sperequata, suscettibile di turbare il mercato in cui opera l’impresa o comunque di influenzare negativamente il principio della tendenziale neutralità dell’imposizione fiscale (su cui v. Cass., sez. trib., 21 dicembre 2009, n. 26851, in Banca dati Leggi d’Italia).

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con quello personale, ma anche nelle società a ristretta base partecipativa, nelle quali l’utilizzo delle risorse sociali per finanziare consumi personali dei soci rientra nella prassi e diventa difficilmente accertabile, pur in presenza di una formale distinzio-ne tra il patrimonio destinato all’attività economica e quello dei soci. E anche nelle società di capitali di rilevanti dimensioni, come pure di quelle che, per effetto del-l’attività esercitata, sono soggette a particolari forme di controllo contabile, non può escludersi la possibilità di un utilizzo per fini non imprenditoriali della gestione del-l’impresa, specialmente con riferimento a quelle tipologie di spesa astrattamente suscettibili di interessare sia la gestione dell’impresa che la soddisfazione di interessi personali.

Da ciò la tradizionale attenzione riservata dalla normativa tributaria sulla de-terminazione del reddito d’impresa ad una clausola generale diretta a prevenire l’a-buso della disciplina sulla determinazione del reddito d’impresa, attuabile median-te l’imputazione di spese personali o comunque espressive di una finalità non im-prenditoriale nella determinazione del reddito imponibile, che provocherebbe una sottrazione indebita di gettito fiscale e un concorso alle pubbliche spese in misura diversa rispetto a quella prevista dalla legge. Tale clausola generale, come si è già avuto modo di illustrare, è stata vista, sin dalle origini del nostro sistema dell’impo-sizione diretta, nel principio dell’inerenza, che ha trovato, inizialmente una espres-sione normativa in una precisa disposizione normativa, di cui la dottrina, la giuri-sprudenza e la prassi amministrativa hanno concorso ad individuare la concreta portata, fino a giungere all’attuale soluzione normativa proposta dal TUIR, che ha optato per una impostazione giuridica alternativa e maggiormente rispondente al-l’impianto proposto dalla riforma tributaria dei primi anni ’70 del secolo scorso. In-fatti, nell’attuale disciplina, contrariamente a quanto avveniva nel sistema dell’im-posta di ricchezza mobile, non esiste una norma che faccia espresso riferimento all’inerenza quale principio generale sulla determinazione del reddito d’impresa, tuttavia la centralità di tale principio si desume dalla nozione stessa di reddito d’im-presa, che, ai sensi dell’art. 55, è quello che “deriva dall’esercizio dell’attività d’im-presa” 9. La portata del principio di inerenza va ricercata, come si esaminerà suc-cessivamente, in combinazione con le norme speciali, che integrano e dettagliano i principi generali alla base della disciplina del reddito d’impresa, restando comun-que applicabile, nel silenzio della normativa speciale, a tutti i componenti econo-mici che concorrono alla formazione del reddito d’impresa.

Con il principio di inerenza, che trova la sua base normativa nella stessa norma definitoria del reddito d’impresa, non può confondersi il principio dell’irrilevanza fiscale dei componenti negativi relativi ad attività che non concorrono a formare il

9 Per una rassegna delle posizioni dottrinali sulla fonte normativa del principio dell’inerenza, v., PEVERINI, Giudizio di fatto e giudizio di diritto in materia di costi non inerenti all’attività d’impresa, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 894, spec. nota 31.

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reddito d’impresa imponibile, la cui disciplina è contenuta nel comma 5 dell’art. 109 TUIR ed a cui sembra fare riferimento la sentenza annotata quale “fonte” del principio dell’inerenza. L’istituto disciplinato dall’art. 109, comma 5, in realtà, non ha nulla a che vedere con l’inerenza, in quanto trova la propria giustificazione logi-ca nell’intenzione legislativa di evitare che un’impresa, fruente di agevolazioni par-ziali nella tassazione del reddito, possa godere dell’ulteriore vantaggio consistente nella possibilità di dedurre dalla parte imponibile del reddito complessivo i com-ponenti negativi di reddito concorrenti alla formazione del reddito fruente di age-volazione 10. In tale modo, infatti, si otterrebbe un effetto di dilatazione dell’esen-zione anche sulla parte di reddito che non forma oggetto del trattamento agevolato, comprimendo così il prelievo fiscale sulla parte tassabile, in conseguenza della de-duzione di componenti di reddito riferibili specificamente o pro quota all’attività non tassabile, con il risultato della distorsione delle finalità politico-economiche sot-tostanti alla parzialità dell’esenzione o del trattamento sostitutivo. Tale principio è espresso anche dall’art. 83 TUIR, come modificato dall’art. 1, comma 33, lett. F), L. 24 dicembre 2007, n. 244, nella parte in cui prevede la rilevanza delle perdite derivanti da attività che fruiscono di regimi di parziale o totale detassazione nella misura corrispondente a quella dei risultati positivi.

Nell’interpretazione dell’art. 109, comma 5, tuttavia, tale finalità non sempre è stata adeguatamente individuata, essendosi individuata spesso in tale disposizione la fonte normativa del principio di inerenza 11. In realtà, come si è visto, la fonte della regola dell’inerenza è individuabile nel sistema stesso dell’imposizione sul reddito d’impresa, il quale richiede una regola di collegamento tra i suoi componenti, attivi e passivi, e l’attività legalmente tipizzata, individuabile in una relazione di causa ad effetto dei singoli componenti economici all’attività, senza porre alcun collegamento tra il componente negativo e l’applicabilità al componente positivo cui può riferirsi di un trattamento agevolativo. D’altronde, l’individuazione nell’art. 109, comma 5, della base del principio dell’inerenza condurrebbe all’assurdo di escludere la ne-cessaria ricorrenza di tale condizione per ammettere la deducibilità degli interessi passivi, degli oneri fiscali, contribuitivi e di utilità sociale, che risultano espressa-mente esclusi dall’ambito applicativo della norma in commento 12. Da ciò derivereb-

10 TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., p. 262; ID., Il principio di inerenza nella de-terminazione del reddito d’impresa, cit., p. 449; ID., Commento all’art. 109, cit., p. 995. Tali rilievi sono condivisi da BEGHIN, op. cit., p. 410.

11 V. in proposito gli autori richiamati da PEVERINI, op. cit., p. 894, nella prima parte della nota 31. 12 Per ricostruire correttamente la portata ed il significato dell’art. 109, comma 5, è utile un esame

delle norme da cui trae origine. Infatti, il TUIR ha unificato nel comma 5 dell’art. 109 (ex art. 75) le norme già contenute nel comma 2 dell’art. 74 e nel comma 2 dell’art. 52, D.P.R. n. 597/1973, propo-nendo così una disciplina generale suscettibile di essere applicata a tutti i componenti reddituali, salvo quelli espressamente esclusi, risolvendo normativamente una questione sorta nell’applicazione della disciplina previgente. Il principio espresso dalla norma appare in linea con quello trasparente dalle

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bero conclusioni inaccettabili nella determinazione del reddito d’impresa, doven-dosi ammettere la deducibilità di spese personali sostenute dall’imprenditore, quali, ad esempio, gli interessi passivi sostenuti per l’acquisto di beni di lusso o gli oneri contributivi per il personale di servizio dell’abitazione privata 13.

In definitiva l’istituto disciplinato dall’art. 109, comma 5 non può essere confu-so con il principio dell’inerenza, che rappresenta un principio generale e non limi-tato, come quello contenuto in tale norma, ai soli componenti negativi 14. norme del D.P.R. n. 597/1973, come risulta d’altronde dalla relazione ministeriale illustrativa dell’ori-ginario schema di Testo Unico, tuttavia la portata della disposizione risulta sensibilmente diversa da quella emergente dal combinato disposto degli artt. 52 e 74 del precedente testo normativo ed impone quindi un’analisi dettagliata. Occorre preliminarmente precisare come il riferimento alle “spese” e agli “altri componenti negativi” abbia consentito il superamento delle difficoltà ermeneutiche derivanti dalla formulazione “costi ed oneri” contenuta nell’art. 74, D.P.R. n. 597/1973, formulazione suscettibile di esser letta con limitato riferimento ad alcuni soltanto dei componenti negativi di reddito, cioè a quelli qualificabili quali costi od oneri. Il TUIR ha perciò adottato una descrizione di carattere generale, estrapolando poi da tale elencazione alcuni componenti reddituali in relazione ai quali il principio risul-ta inapplicabile. L’esclusione di alcuni componenti negativi dall’ambito applicativo del principio deriva sia da ragioni di carattere sistematico, che da considerazioni di tipo equitativo. Sotto il primo profilo trova giustificazione l’esclusione degli interessi passivi, per i quali l’art. 96 dello stesso TUIR detta una disciplina speciale, fondata sulla regola della deducibilità rapportata all’importo degli interessi attivi. Ad un diverso ordine di considerazioni sono invece ispirate le esclusioni degli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale dall’ambito di applicazione del principio di limitazione della deducibilità in esame. Si trat-ta di valutazioni di carattere equitativo, connesse non alla presenza di una disciplina speciale, bensì alla opportunità di prevenire un ulteriore aggravio sulla gestione dell’impresa di quote di costi connessi alla cura di pubblici interessi e quindi già di per sé gravanti sull’iniziativa economica.

La lettura del comma 5 dell’art. 109, una volta accertata la sua portata generale, deve essere con-dotta distintamente in relazione alla sua prima parte ed alla sua seconda parte, in quanto i principi espressi nei due corpi normativi risultano, seppur legati da un vincolo di dipendenza logica, sostan-zialmente differenti. Nella prima parte della norma si richiede, quale presupposto di deducibilità dei componenti negativi, il riferimento di tali componenti ad attività o beni da cui derivano ricavi o pro-venti che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. La seconda parte invece ammette la deducibilità proporzionale dei componenti negativi in relazione ai quali tale riferi-mento risulti indistinto e quindi sia impossibile stabilire un collegamento tra la spesa e il provento.

13 Non si ritiene, quindi, di condividere la giurisprudenza di legittimità che esclude la verifica della sussistenza del requisito dell’inerenza per gli interessi passivi (su cui, da ultima, v. Cass., sez. trib., 4 giugno 2007, n. 12990, in Banca dati fisconline), in quanto il difetto di inerenza degli interessi passivi consentirebbe all’imprenditore di poter dedurre il costo del finanziamento di beni utilizzati a fini personali o comunque estranei all’esercizio dell’impresa. In una precedente pronuncia, invece, la Corte di Cassazione (Cass., sez. trib., 29 marzo 2006, n. 7292, in Banca dati fisconline) aveva ben messo in evidenza la necessità della dimostrazione di un collegamento tra reddito imprenditoriale e interessi passivi, non potendosi ammettere la deducibilità di componenti estranee all’attività d’im-presa. Su tale problematica, in dottrina, v. DEL FEDERICO, Gli interessi passivi nel reddito d’impresa, la deducibilità pro rata e l’irrilevanza dell’inerenza, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2005, II, p. 26 ss.

14 Per cui non potranno valere le regole già viste in relazione al principio dell’inerenza ai fini del-la ricostruzione del contenuto del principio dell’irrilevanza fiscale dei componenti negativi relativi ad attività esenti, i quali, anzi, dovranno aver già superato il giudizio di inerenza, che, nella specie, risul-ta pregiudiziale. Il componente negativo deve “riferirsi” all’attività o al bene da cui derivano i com-

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In tal modo si previene il dubbio interpretativo che si manifesterebbe in pre-senza di attività imponibili che, in un periodo d’imposta, non diano luogo a rica-vi o proventi, ma soltanto a spese. La valutazione circa l’effettiva tassabilità del componente reddituale deve quindi essere effettuata ex ante, quale idoneità del-l’attività o del bene a dar luogo a ricavi o proventi potenzialmente tassati o po-tenzialmente esenti, indipendentemente dalla concreta misura degli stessi, che rileverà, eventualmente, ai soli fini della determinazione della concreta esenzione o tassazione.

3. L’inerenza come principio generale della determinazione del reddito d’impresa

Chiarita la fonte normativa del principio di inerenza, vediamo ora il contenuto di tale principio. L’inerenza rappresenta, infatti, un requisito oggettivo dei componenti economici, che consente di affermare la riferibilità degli stessi all’esercizio dell’im-presa, per effetto di un rapporto di causa ad effetto. Un componente positivo o ne-gativo di reddito potrà considerarsi inerente all’esercizio dell’impresa soltanto quando, esaminato oggettivamente, si presenti quale elemento derivante dall’eser-cizio dell’impresa e quindi come effetto economico, positivo o negativo, della gestio-ne dell’impresa 15.

L’esercizio di una delle attività d’impresa fiscalmente codificate nel citato art. 55 costituisce in definitiva la causa di una serie di fatti economici, i quali soltanto ven-gono considerati rilevanti ai fini della determinazione del relativo reddito, con esclu-sione quindi di tutti quei fatti economici non derivanti oggettivamente dall’esercizio ponenti positivi che concorrono a formare il reddito o che risultano esclusi, per cui la norma sembra richiedere qualcosa di più rispetto ad un semplice collegamento giuridico-economico del compo-nente reddituale all’attività imprenditoriale, imponendo un giudizio circa l’esistenza di un collega-mento non generico, bensì specifico del componente negativo a quello positivo. Tale nesso deve essere tale da “distinguere” il componente negativo, determinandone un collegamento di carattere economico con il componente positivo o, meglio ancora, con la sua fonte genetica. In mancanza di una simile caratteristica del componente reddituale, lo stesso dovrà ritenersi indistintamente riferi-bile sia ad attività esenti che ad attività tassabili e potrà dedursi in misura proporzionale. La dedu-zione, in particolare, è ammessa per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. Le plusvalenze esenti, di cui all’art. 87, non con-corrono alla formazione né del numeratore né del denominatore di tale rapporto proporzionale.

15 Sotto questo aspetto non deve confondersi la relazione del componente economico con l’atti-vità d’impresa con la sua documentazione contabile, ben potendosi ravvisare l’ipotesi in cui nono-stante il documento (fattura) sia emesso da un soggetto diverso da quello che ha reso la prestazione, l’operazione documentata ed il corrispondente esborso siano reali ed inerenti all’esercizio dell’im-presa, non derivando dalla irregolarità della fattura il venir meno dei presupposti della deducibilità del costo (in tal senso Cass., sez. trib., 8 settembre 2006, n. 19353, in Banca dati fisconline).

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dell’impresa, pur risultando soggettivamente attribuibili all’imprenditore 16. Rispetto al sistema previgente 17, nella disciplina impositiva nata con la riforma tributaria dei primi anni ’70 del secolo scorso l’inerenza diventa una condizione di rilevanza fi-scale non soltanto dei componenti negativi di reddito (costi, spese, perdite, ecc.), ma anche dei componenti positivi che civilmente vengono imputati al conto eco-nomico (ricavi, plusvalenze, sopravvenienze, ecc.). Sia i componenti positivi che quelli negativi devono inerire all’esercizio dell’impresa, nel senso che, per acquistare rilevanza agli effetti impositivi, devono porsi in un rapporto causale con l’esercizio dell’attività imprenditoriale individuata ai sensi dell’art. 55 18.

L’inerenza, dunque, pur se non espressamente prevista rappresenta uno dei prin-cipi generali della determinazione del reddito d’impresa, anzi è il concetto che anima l’imputazione di tutti i componenti economici alla formazione del reddito imponibi-le, assumendo come tali non tutti i componenti positivi o negativi che hanno interes-sato la gestione dell’impresa sotto l’aspetto civilistico, bensì soltanto quei fatti eco-nomici che si pongono in una relazione causale con l’attività dell’impresa 19.

Tuttavia tale collegamento del componente reddituale all’attività dell’impresa non può ritenersi soltanto di carattere economico, inteso cioè quale riferibilità del fatto di gestione al tipo di attività svolta dall’impresa 20, ma dovrà anche presentare carattere giuridico. Pertanto il componente reddituale potrà ritenersi rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa allorquando il suo collegamento

16 TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., p. 247, ID., Il principio di inerenza nella de-terminazione del reddito d’impresa, cit., p. 446.

17 Sull’evoluzione normativa del principio di inerenza v. TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., p. 246 ss.; ID., Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, cit., p. 440 ss.; PANIZZOLO, Inerenza e atti erogativi nel sistema di determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 676.

18 Vi possono, infatti, essere componenti positivi di reddito che, pur risultando attribuibili soggetti-vamente al titolare dell’impresa, non derivino dall’attività esercitata, ma, ad esempio, da una diversa fonte reddituale. Si pensi, a tal proposito, ad un premio percepito dall’imprenditore per meriti non connessi alla sua attività imprenditoriale, il cui importo sia stato imputato tra i ricavi d’esercizio per esi-genze di carattere civilistico. In tal caso l’importo corrispondente al premio dovrà essere scorporato dal reddito d’impresa, in quanto non inerente all’attività di impresa, ed incluso, eventualmente, tra i redditi diversi ex art. 67, comma 1, lett. d), TUIR. Sul punto v. TINELLI, Il principio di inerenza nella determina-zione del reddito d’impresa, cit., p. 448.

19 Sull’applicazione del principio di inerenza ai componenti positivi di reddito (indennizzo conse-guito in esito alla cessione o rinunzia agli effetti di un contratto di locazione immobiliare), v. Cass., sez. trib., 17 marzo 2006, n. 5979, in Banca dati fisconline.

20 La scelta economica dell’imprenditore non è tuttavia censurabile in sede amministrativa, sem-pre che non sfoci nell’irragionevolezza, in quanto può essere motivata anche dalla necessità di evita-re futuri aggravi dell’attività d’impresa, come rilevato dalla Cassazione in materia di verifica della deducibilità di una minusvalenza derivante dalla cessione a terzi a prezzo simbolico di una parteci-pazione societaria passiva per ottenere la liberazione delle garanzie (Cass., sez. trib., 6 giugno 2007, n. 13224, in Banca dati fisconline).

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con l’attività dell’impresa presenti, al tempo stesso, un fondamento economico e un fondamento giuridico, risulti cioè economicamente in relazione all’attività dell’im-presa e dia luogo ad una variazione giuridicamente significativa del patrimonio imprenditoriale 21. Ove manchi uno di tali aspetti e il componente di reddito risulti solo economicamente connesso all’attività dell’impresa, ma non sussista un fonda-mento giuridico dello stesso, oppure, al contrario, risulti un fondamento giuridico, ma manchi un collegamento economico, non potrà affermarsi la riferibilità del fatto di gestione all’esercizio dell’attività di impresa 22.

Un ulteriore problema è rappresentato dalla individuazione dei criteri per sta-bilire l’attività dell’impresa rispetto alla quale debba valutarsi il collegamento dei componenti reddituali. In particolare il problema si pone per le imprese societarie, con riferimento ad un eventuale oggetto statutario che preveda un determinato tipo di attività sociale, non coerente, in ipotesi, con l’effettiva attività esercitata dalla so-cietà 23. A nostro avviso, al fine di determinare l’inerenza dei componenti reddituali alla gestione dell’impresa, il dato statutario rappresenta un mero indizio, ma non certo la regola assoluta per stabilire l’attività dell’impresa, per cui l’individuazione del nesso di inerenza risulterà necessariamente preceduta da un giudizio circa l’atti-vità effettivamente svolta dall’impresa, indipendentemente da dati formali non corrispondenti all’attività di fatto posta in essere 24.

Il richiamo all’esercizio dell’impresa dimostra il superamento delle tesi giuri-sprudenziali in ordine al significato del concetto di cui all’art. 91 dell’abrogato T.U.

21 In altri termini il componente economico deve derivare da un rapporto obbligatorio di fonte negoziale o legale cui corrisponde, per i componenti negativi, la responsabilità patrimoniale dell’im-presa e, per quelli positivi, un incremento del patrimonio destinato all’esercizio dell’attività impren-ditoriale. Tuttavia la fonte obbligatoria può, in alcuni casi, derivare da un atto, isolatamente conside-rato, di tipo liberale, che, però, considerato in un più ampio contesto può mutuare la sua obbligato-rietà dalla connessione con scelte imprenditoriali di fidelizzazione della clientela (ad es., omaggi) o di concreta determinazione dei corrispettivi di vendita (ad es. sconti).

22 Si pensi, ad esempio, alle spesa sostenuta per sostenere il lancio di un marchio di fabbrica di proprietà di un terzo, senza che tale spesa risulti trasferita economicamente al titolare del bene im-materiale. In tal caso, pur ravvisandosi un collegamento giuridico della spesa, mancherebbe il colle-gamento economico. Al contrario, per l’impresa che si avvantaggia della spesa, che si porrebbe inve-ce in relazione economica con la propria attività, mancherebbe il collegamento giuridico della spesa con una modificazione del proprio patrimonio destinato all’esercizio dell’impresa.

23 Su tale problematica, v. TASSANI, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2007, p. 173 ss.

24 Nel caso di divergenza tra attività statutaria e attività effettivamente esercitata si pone il pro-blema circa la ripartizione dell’onere della prova di quest’ultima. Secondo i principi generali tale onere dovrebbe incombere sul soggetto che fa valere un diritto, per cui ove si discuta della deduzio-ne di costi, tale onere incomberà al contribuente, mentre ove sia l’ufficio a recuperare componenti positivi affermandone la riferibilità all’attività effettivamente esercitata dal contribuente, tale onere incomberà al fisco. Va da sé che tale prova potrà presentare natura presuntiva, sia ove il relativo one-re sia a carico dell’ufficio, che del contribuente.

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n. 645/1958. L’inerenza cioè non può intendersi come vincolo di connessione spe-cifica con l’attività reddituale, bensì va individuata nell’esistenza di un rapporto cau-sale, anche generico, con l’esercizio dell’impresa, nel senso che i componenti posi-tivi e negativi derivino dall’esercizio dell’impresa, costituiscano cioè componenti tipici dell’attività lucrativa dell’impresa. Non rileva più, quindi, l’attribuibilità dei costi a redditi imponibili 25, come precisato, incidentalmente, dalla sentenza anno-tata; come sopra esaminato, il legislatore ha ritenuto di modificare tale posizione originaria, introducendo una nuova regola generale di determinazione del reddito, diretta a limitare la deducibilità dei componenti negativi riferibili ad attività esenti.

Il requisito dell’inerenza, in alcuni casi, trova una specifica disciplina nell’ambi-to dei singoli componenti reddituali 26, oppure un limite quantitativo entro il quale il componente, pur inerente, è ammesso in deduzione, e tale disciplina prevale, per il principio di specialità, su quella generale 27. In altri casi, invece, il legislatore esclude espressamente la deducibilità di costi inerenti, in connessione ad una scel-ta di politica repressiva 28 o di prevenzione di comportamenti elusivi 29 o di indebita localizzazione all’estero di componenti economici 30.

Spesso il legislatore àncora l’inerenza di componenti di reddito alla destinazio-ne imprenditoriale dei beni patrimoniali da cui gli stessi derivano, facendo così coincidere l’inerenza con la destinazione all’impresa dei beni, evitando in tal modo

25 In tal senso Cass., sez. trib., 26 gennaio 2007, n. 1709, Cass., sez. trib., 30 luglio 2007, n. 16826, Cass., sez. trib., 30 luglio 2007, n. 16824 (tutte, in Banca dati fisconline), secondo cui: «L’inerenza è una relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività “potenzialmente” idonea a produrre utili».

26 Si pensi, ad esempio, alla predeterminazione normativa degli accantonamenti ammessi in de-duzione, risultante dall’ultimo comma dell’art. 107.

27 V., ad esempio, i limiti alla deducibilità delle spese ed altri componenti negativi relativi a taluni mezzi di trasporti a motore utilizzati nell’esercizio di imprese, previsti dall’art. 164 e la deducibilità delle spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore ad euro 50, di cui all’art. 108, comma 2, ultima parte.

28 Emblematica è la previsione dell’indeducibilità dei costi e delle spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti, con-tenuta nell’art. 14, comma 4 bis, L. 24 dicembre 1993, n. 537, che presuppone, evidentemente, l’ine-renza degli stessi e, quindi, l’astratta deducibilità.

29 V., ad es., l’art. 60, che, nella disciplina della determinazione del reddito d’impresa ai fini IRPEF, esclude la deducibilità delle spese sostenute dall’impresa a titolo di compenso del lavoro prestato o dell’opera svolta dall’imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati o affiliati minori di età o permanen-temente inabili al lavoro e dagli ascendenti, nonché dai familiari partecipanti all’impresa, pur in pre-senza di una ipotetica inerenza di tali spese all’esercizio dell’attività.

30 V., ad esempio, l’indeducibilità prevista dall’art. 110, comma 10, per le spese e gli altri compo-nenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori diversi da quelli previsti nella c.d. white list.

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un giudizio sulla natura del componente di reddito 31. Il legislatore cioè presume la riferibilità all’esercizio dell’impresa dei componenti positivi e negativi connessi a beni patrimoniali comunque destinati all’attività d’impresa, esimendo così l’inter-prete da un giudizio sull’inerenza del risultato economico connesso alla valutazio-ne o allo smobilizzo del cespite relativo all’impresa. In altre ipotesi il legislatore in-terviene per riconoscere rilevanza reddituale, entro certi limiti forfetari, a compo-nenti economici non inerenti all’esercizio dell’impresa, derogando così alla regola generale dell’inerenza, al fine di realizzare, tramite lo strumento fiscale, esigenze di politica economica o di incentivo alla destinazione di utili d’impresa ad iniziative so-cialmente meritevoli 32.

Al di fuori delle previsioni particolari, la portata generale del principio di inerenza domina sulla disciplina della determinazione del reddito d’impresa, comportando la necessità di verificare, caso per caso, l’esistenza di un rapporto di causalità, anche ge-nerica, dei componenti positivi e negativi rispetto all’esercizio dell’impresa. In con-creto, l’accertamento dell’inerenza di un componente reddituale si riduce ad un pro-blema di prova, dovendosi valutare in concreto non soltanto l’esistenza del compo-nente negativo 33, ma anche la riferibilità dello stesso all’esercizio dell’impresa 34.

La sentenza che si annota sembra fare proprie tali conclusioni, anche se si av-ventura in una lettura del principio, che, in alcuni passi, sembra svincolarsi dalla sistematica dell’imposizione sul reddito d’impresa, in cui invece deve collocarsi. Tali impressioni trovano poi conferma nella particolare angolazione dell’approccio alla fissazione degli oneri probatori sottesi alla concreta ricostruzione dell’inerenza della spesa sostenuta dall’impresa per la sponsorizzazione di un marchio utilizzato nell’ambito della propria attività commerciale.

Il richiamo alla nozione pre-giuridica dell’inerenza deve certamente condivi-dersi, ma tale nozione deve declinarsi con riferimento alla specificità dei redditi d’impresa, nel cui contesto intervengono anche esigenze di disciplina ispirate alla

31 V., ad esempio, la deducibilità delle spese ed altri componenti negativi relativi ai beni immobili che viene collegata alla natura strumentale di tali beni dall’art. 90.

32 V. in tal senso le ipotesi contenute nel comma 2 dell’art. 100, in cui alcune erogazioni liberali, come tali prive di collegamento con la finalità lucrativa dell’impresa, vengono ammesse in deduzio-ne in misura percentuale al reddito d’impresa dichiarato.

33 Sulla distinzione tra prova dell’esistenza e prova dell’inerenza del costo, v. Cass. 24 marzo 2006, n. 6650, in Banca dati fisconline.

34 Come correttamente rilevato da Cass., sez. trib., 18 dicembre 2006, n. 27095 (in Banca dati fi-sconline), in materia di verifica della deducibilità di spese di viaggio all’estero sostenute da una socie-tà sia per alcuni dipendenti che per persone estranee alla struttura societaria, la prova dell’inerenza può derivare non soltanto dall’esame globale della contabilità, ma anche da ulteriore documentazio-ne dalla quale risulti che da tali spese siano derivati rapporti commerciali con ditte dello Stato estero. In tal caso, tuttavia, l’onere della prova dell’inerenza incombe sul contribuente (Cass., sez. trib., 13 ot-tobre 2006, n. 22034, in Banca dati fisconline) e non può assolversi in sede di legittimità (Cass., sez. trib., 13 febbraio 2006, n. 3109, in Banca dati fisconline).

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cura non soltanto di interessi fiscali, ma anche alla finalizzazione della norma al raf-forzamento dell’apparato produttivo ed allo stimolo di investimenti mediante la modulazione del carico fiscale. Per cui vedere l’inerenza in tutto ciò che appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire un’utilità, anche in modo indiretto, seppur accettabile nella visione del buon padre di famiglia, fini-sce per non considerare l’angolo di osservazione che deve adottarsi nella più com-plessa visione propria della regolamentazione legale della tassazione del reddito d’impresa. Infatti, nella dinamica delle scelte imprenditoriali non sempre si può stabilire un collegamento della spesa con un’utilità, specie in fase di avviamento o in presenza di attività che presentano un elevato rischio d’impresa.

Come pure, ritenere non inerente ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore, del socio o del terzo, appare corretto in linea di prin-cipio, ma una simile situazione deve accertarsi non in linea teorica, bensì pratica, potendo rilevare, in concreto, anche un atto a favore del terzo, ma nell’interesse dell’impresa. Si pensi, ad esempio, al sostegno da parte delle grandi società statuni-tensi alle candidature presidenziali, dal cui esito si prevede possano derivare politi-che economiche favorevoli all’impresa sostenitrice, pur mancando, come è ovvio, qualsiasi forma di sinallagma contrattuale.

Venendo al piano propriamente fiscale, appare riduttivo l’approccio tendente a evidenziare il risparmio d’imposta derivante dalla deduzione di un costo in ragione della sua accertata inerenza, profilo questo che porta la Cassazione a riaffermare l’onere probatorio incombente sul soggetto beneficiario di tale effetto vantaggioso. In realtà, come si è cercato di dimostrare, l’inerenza costituisce una qualità giuridi-ca di un componente economico, sia positivo che negativo, che deriva dal suo collo-camento teleologico nell’esercizio dell’attività imprenditoriale e il risparmio d’im-posta, che può derivare dalla deduzione di un componente negativo, altro non è che un effetto legale, e che non deriva da una scelta volontaria del contribuente, ma dalla legge, che ha imposto la determinazione del reddito d’impresa quale risultan-te dalla contrapposizione di elementi positivi e negativi della gestione. Tale effetto legale, peraltro, può non sussistere in presenza di società in perdita o in presenza di redditi esenti o tassati in via sostitutiva, per cui non può porsi quale elemento ca-ratterizzante la disciplina, ma piuttosto quale eventualità connessa alla scelta nor-mativa di tassare al netto il risultato della gestione imprenditoriale.

4. La predeterminazione giurisprudenziale dell’inerenza

Con riferimento al caso di specie, la Corte di Cassazione ammette la deducibili-tà dei costi di sponsorizzazione, ritenendoli inerenti all’attività imprenditoriale di utilizzazione del marchio e di distribuzione dei relativi prodotti, tenendo anche con-to che l’amministrazione finanziaria non aveva provato che tali costi fossero impu-

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tabili, in qualche misura, alla casa madre. Tali aspetti che introducono il tema della prova dell’inerenza, sono però messi temporaneamente da parte dalla sentenza annotata, che dedica ampio spazio alla ricostruzione del contenuto del contratto di sponsorizzazione, da cui derivava il costo della cui deduzione si discuteva in sede di legittimità.

In particolare, la rilevata specificità del contratto di sponsorizzazione porta ad affermare la funzione pubblicitaria cui assolve e l’interesse dello sponsor alla pro-mozione del marchio o del prodotto che intende lanciare sul mercato, per cui se lo sponsor è titolare del marchio o produttore del bene i costi di sponsorizzazione sono inerenti, in conseguenza del potenziale vantaggio economico diretto per l’impresa sponsorizzante, potendo derivare un incremento dell’attività commerciale. Se, in-vece, lo sponsor non è il titolare del marchio al quale l’attività fa riferimento, si può porre il dubbio circa la possibilità che l’attività di sponsorizzazione venga a giovare a diverso soggetto produttore o titolare del marchio, derivando l’esigenza di una va-lutazione fattuale dell’interesse economico sotteso al contratto di sponsorizzazio-ne. In definitiva, conclude la Corte, il costo è deducibile ove il contribuente alleghi e dimostri le potenziali utilità per la propria attività commerciale o i futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa a favore di un terzo.

Tale aspetto si interseca con quello relativo alla ripartizione degli oneri dimostra-tivi dell’inerenza, che sarà trattato nel paragrafo che segue, ma consente comunque di esprimere alcune considerazioni circa la portata del principio dell’inerenza nella lettura della Cassazione.

Punto centrale del ragionamento seguito dalla sentenza è la differenziazione della visione fiscale delle spese di sponsorizzazione a secondo che il marchio sponsorizza-to sia o meno di proprietà del soggetto che sostiene il costo della sponsorizzazione. Ove il soggetto che sostiene il costo della sponsorizzazione sia anche proprietario del marchio, si presume l’utilità della spesa, che si inserisce naturalmente nel program-ma imprenditoriale, comportando una sorta di presunzione di inerenza, suscettibile di essere disconosciuta a seguito di una positiva dimostrazione di segno contrario da parte della p.a., che alleghi e dimostri una diversa finalizzazione della spesa. Diver-samente, nel caso di sponsor non titolare del marchio sarà questi a dover provare, positivamente, la relazione tra la spesa sostenuta e la propria attività d’impresa, di-mostrando l’utilità della spesa stessa rispetto alla propria attività imprenditoriale.

Tuttavia tale differenziazione di disciplina probatoria non convince, in quanto mediante essa si finisce per introdurre nella nozione di inerenza un collegamento allo schema negoziale sottostante la spesa, che la legge non prevede, collegandosi l’utilità della spesa al rapporto sinallagmatico proprio del contratto di sponsorizza-zione. Eppure la Corte, in una sentenza richiamata nella motivazione della sentenza annotata 35, aveva rilevato come nella disciplina dell’imposizione sul reddito d’im-

35 Cass., sez. trib., 30 luglio 2007, n. 16826, in Banca dati fisconline.

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presa non esiste un collegamento specifico tra costo e componente attiva, in quan-to è sufficiente che esista una correlazione in senso ampio all’impresa in quanto tale, per cui il costo, per risultare deducibile, deve essere stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili.

In altri termini, anche secondo la giurisprudenza di legittimità, il collegamento della spesa deve riferirsi alla generica attività dell’impresa, non allo specifico com-ponente positivo idealmente derivante dalla spesa, né tanto meno ad un vantaggio in rapporto di corrispettività con la spesa. E ciò deriva da una condivisibile scelta normativa diretta a consentire una valutazione ex ante del collegamento della spesa all’attività dell’impresa, in una logica di normalità ed a prevenire un sindacato am-ministrativo sull’utilità o sull’opportunità della spesa condotto in un momento successivo rispetto a quello in cui la spesa è stata decisa e dissociato dalla respon-sabilità nella conduzione dell’attività economica.

Nella fattispecie esaminata, comunque, la differenziazione proposta attiene non al giudizio sull’inerenza della spesa, ma piuttosto alla ripartizione dell’onere proba-torio, per cui il piano logico si presenta del tutto particolare. Nondimeno, le con-clusioni cui si giunge, affermandosi una sorta di presunzione di inerenza nel caso di sponsorizzazione del proprio marchio e di necessità di una positiva dimostrazione del beneficio nell’ipotesi di sponsorizzazione del marchio altrui, finiscono per esse-re molto vicine.

Per questo, si ritiene opportuno esaminare la dinamica dimostrativa sottesa alla verifica dell’inerenza, in modo da incanalare tale problematica nella più ampia si-stematica dell’accertamento del reddito d’impresa.

5. Prova dell’inerenza e accertamento contabile

L’analisi fin qui svolta ha consentito di individuare la portata del principio dell’inerenza nell’ambito delle regole sulla determinazione del reddito d’impresa ai fini fiscali e la centralità di tale principio per la garanzia della corrispondenza del-l’imponibile all’effettiva espressione di capacità contributiva ricollegabile all’eserci-zio dell’attività imprenditoriale, con particolare riferimento alla verifica della de-ducibilità del costo di una sponsorizzazione. Si tratta ora di esaminare l’altro aspetto che caratterizza il percorso logico della sentenza annotata e che attiene alla dimen-sione dinamica dell’inerenza, con particolare riguardo alla ripartizione degli oneri dimostrativi dei fatti presupposti dal giudizio circa l’inerenza della spesa in que-stione. Il tema, in sostanza, concerne la dimensione dinamica del principio dell’ine-renza e la sua rilevanza nell’ambito delle regole probatorie poste alla base della ri-costruzione fattuale del reddito d’impresa, consentendo di individuare il soggetto onerato della dimostrazione del requisito dell’inerenza, nonché le forme che la prova viene ad assumere in relazione a tale aspetto della gestione dell’impresa nei suoi diversi profili di rilevanza giuridica.

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Con riferimento al primo punto, il tema si riduce alla soluzione dell’interrogativo circa la possibilità per l’amministrazione di contestare la deducibilità di un costo sulla base della semplice contestazione della mancata prova dell’inerenza da parte del contribuente, motivando in tal modo un atto di accertamento diretto alla retti-fica della dichiarazione. Sul punto la Cassazione propone una soluzione di com-promesso, fondata sulla differenza tra componenti negativi strettamente necessari alla produzione del reddito o fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale e componenti negativi che presentano un dubbio collegamento con l’attività reddi-tuale dell’impresa. Per i primi, per i quali la strumentalità della spesa è di chiara evi-denza in considerazione della sua stessa natura, l’inerenza deve ritenersi presunta, spettando all’amministrazione finanziaria l’onere della dimostrazione della riferibi-lità della spesa ad interessi extraimprenditoriali. Mentre per quelle spese che ri-guardino attività non direttamente legate ad un diretto vantaggio dell’impresa, sarà il contribuente ad essere onerato della dimostrazione del collegamento teleologico tra la spesa e l’attività dell’impresa.

Tale impostazione ripropone, in modo più articolato, una giurisprudenza di le-gittimità, che ha, in più occasioni, affermato che l’onere della dimostrazione dei fatti idonei ad impedire la nascita e il perdurare del vantato diritto, tra i quali rientrano tutte le componenti negative incidenti sulla formazione del reddito imponibile, in-combe sul contribuente che ne invoca la deducibilità 36, che deve inoltre provare anche i requisiti dell’inerenza e dell’imputazione ad attività produttive di ricavi 37. La sentenza annotata introduce una distinzione interna nella dinamica probatoria diretta alla ricostruzione dell’inerenza della spesa, proponendo la descritta differen-ziazione tra spese di “evidente” inerenza ed altre spese, nella quali l’inerenza non appare prima facie, fissando per le prime una presunzione, giurisprudenziale, di inerenza, e quindi di deducibilità, e, per le seconde, una presunzione opposta, vinci-bile dall’apporto probatorio del contribuente.

La tesi della Corte di Cassazione, tuttavia, non sembra fondata su un dato nor-mativo che ne consenta l’affermazione, potendosi ritenere una sorta di introduzio-ne giurisprudenziale di una regola probatoria, fondata da un lato sulle caratteristi-che della spesa e dall’altro dal presumibile vantaggio per il contribuente derivante dalla deduzione della spesa, che giustifica, in ultima analisi, l’attribuzione dell’one-re probatorio. Ma tale soluzione, pur coerente con una visione del principio dell’o-nere della prova quale regola di giudizio sul fatto incerto, non sembra in realtà per-fettamente adattabile alle norme speciali in tema di accertamento del reddito d’im-presa, sulle quali ruota la ricostruzione fattuale a base della tassazione. Infatti l’af-fermazione dell’incombenza dell’onere dimostrativo su colui che vanta un fatto ido-

36 Cass., sez. trib., 4 ottobre 2000, n. 13181, in Corr. trib, 2001, p. 298, con nota di FANELLI. 37 Cass., sez. trib., 7 settembre 2001, n. 11514, in Corr. trib., 2002, p. 697.

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neo ad impedire la nascita del diritto all’imposizione, si adatta ad una visione del-l’onere deducibile strutturalmente distinto dalla fonte di reddito, ma sembra diffi-cilmente proponibile in una visione unitaria del risultato reddituale attribuibile ad una specifica fonte economica. Infatti, mentre nelle fonti reddituali ricollegate a specifici cespiti produttivi la deduzione di una spesa costituisce l’oggetto di un di-ritto potestativo attribuito al contribuente, che viene pertanto ad essere onerato del-la dimostrazione dei supporti fattuali, nelle fonti ricollegate all’esercizio di un’atti-vità economica, invece, la deduzione di un componente negativo non può ricon-nettersi propriamente all’esercizio di un diritto attribuito al contribuente, in quan-to l’imputazione di un costo in tale contesto si presenta quale passaggio necessario ai fini della rappresentazione unitaria di un risultato gestionale attribuibile alla spe-cifica fonte produttiva. La visione unitaria che la legge attribuisce al risultato eco-nomico dell’attività d’impresa impedisce di configurare la deduzione del costo che concorre alla formazione dell’utile o della perdita gestionale alla stessa stregua del-la deduzione della spesa deducibile da un reddito tassabile al lordo, per cui la ripar-tizione degli oneri dimostrativi di tali componenti non può porsi sullo stesso pia-no, ma deve adattarsi alla diversa scelta legislativa di considerare il costo una com-ponente elementare di un risultato netto oppure una posta rettificativa da conside-rare nella semplice liquidazione dell’imposta.

Tale differente struttura dimostrativa trova d’altronde conferma nella partico-lare disciplina accertativa prevista per i redditi derivanti dall’esercizio di un’attività economica, che pur inserendosi nell’accertamento analitico, si presenta caratteriz-zata da un’articolazione normativa che non trova riscontro nella regolamentazione dell’attuazione amministrativa propria delle altre categorie di reddito 38. In partico-lare, dal combinato disposto degli artt. 38 e 39, D.P.R. n. 600/1973, si desume una disciplina di carattere generale, dedicata all’accertamento di tutte le categorie red-dituali con eccezione di quelle derivanti da attività d’impresa o di lavoro autonomo professionale, fondata sul riscontro documentale delle deduzioni e quindi sulla ri-gorosa prova del diritto alla deduzione, cui si contrappone una ben più articolata disciplina finalizzata a bilanciare l’interesse erariale al riscontro dell’effettività dei componenti economici con le caratteristiche proprie della dimostrazione contabi-le degli stessi, adattando le regole di sindacato amministrativo al rispetto di adem-pimenti formali astrattamente idonei a fornire un principio di prova dell’effettività dei componenti elementari concorrenti alla formazione del risultato finale.

Anzi la contrapposizione di un metodo contabile ad un metodo extracontabile, desumibile dalla differente formulazione del comma 1 e 2 dell’art. 39, D.P.R. n. 600/1973, conferma l’opzione legislativa diretta ad attribuire alla ricostruzione con-

38 Sul principio dell’alternatività dei metodi di accertamento, v. LA ROSA, L’alternatività dei “me-todi” di accertamento alla luce delle recenti innovazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 247.

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tabile, ove rispettosa di alcune elementari regole formali, un’attitudine dimostrati-va dell’esistenza e della dimensione economica dei componenti elementari della gestione dell’impresa, suscettibile di essere rimossa soltanto nel rispetto di specifi-che regole probatorie caratterizzate da intrinseca attendibilità dei risultati. Simili regole, in presenza di un generalizzato potere di imporre una prova ulteriore del componente economico, non avrebbero senso, ben potendo l’amministrazione af-fermare la generica indeducibilità di un costo, sostenendo la mancata dimostrazio-ne dell’inerenza o di qualche altro requisito condizionante la deducibilità.

L’affidabilità dimostrativa di un sistema di rilevazioni periodiche, unita alla pre-visione di forme di responsabilità extratributarie a presidio della regolarità delle registrazioni gestionali dell’impresa 39, concorrono ad attribuire all’imputazione di un componente economico alla determinazione del reddito d’impresa una valenza dimostrativa caratterizzata da una certa stabilità, suscettibile di essere superata sol-tanto in presenza di apporti probatori di segno opposto, tali da dimostrare l’inesi-stenza o le diverse dimensioni quantitative del componente economico, rappre-sentando una risultante del bilanciamento normativo tra l’attendibilità dimostrati-va dei dati contabili emergenti dalla rilevazione sistematica dei fatti di gestione e la garanzia dell’effettività dell’attività di accertamento, che si esprime nel generale accollo dell’onere probatorio all’amministrazione finanziaria, che però può utiliz-zare, per assolvere tale onere, anche strumenti presuntivi, pur in presenza di scrit-ture contabili regolarmente tenute, dimostrando in tal modo l’incompletezza o l’infedeltà delle rilevazioni contabili 40.

Pertanto, la contestazione della deducibilità di un costo, regolarmente imputato in contabilità, per difetto di inerenza non potrà realizzarsi mediante la semplice af-fermazione in sede di accertamento della mancata dimostrazione di tale requisito, ma dovrà passare per la prova, anche presuntiva, dell’inesistenza della passività di-chiarata, secondo la previsione contenuta nel comma 1, lett. d), dell’art. 39 cit. In

39 Come pure, nelle società di rilevanti dimensioni, la tendenziale veridicità delle rilevazioni conta-bili deriva, oltre che dai controlli formali previsti dalla legge, dalla normale contrapposizione degli inte-ressi all’utile con quelli al dividendo, che spingono gli amministratori verso visioni dell’attività sociale opposte rispetto a quelle dei soci, il cui interesse immediato vede nella riduzione delle spese dell’im-presa uno strumento per aumentare l’utile di bilancio, mentre nella visione degli amministratori la spe-sa può manifestare i suoi frutti anche in un esercizio assai distante da quello in cui è stata sostenuta.

40 Ciò non sta certo a significare che la semplice rilevazione contabile, non supportata da alcuna documentazione amministrativa, possa ritenersi idonea alla dimostrazione dell’inerenza del costo, dovendosi unire l’imputazione al rispetto delle regole procedurali adottate dall’impresa nella rileva-zione dei fatti gestionali. Tale aspetto è sottolineato da una pronuncia della Cassazione (Cass., sez. trib., 20 novembre 2001, n. 14570, in MANZON-MODOLO, Rassegna della Cassazione tributaria (III quadrimestre 2003), in Riv. dir. trib., 2002, II, p. 191), che ha rilevato l’insufficienza della semplice con-tabilizzazione di una componente negativa ai fini della prova dell’inerenza, in quanto la rilevazione con-tabile presuppone una documentazione di supporto, dalla quale possa evincersi oltre all’importo an-che la ragione della spesa.

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tale direzione, l’atto di accertamento dovrà positivamente dimostrare l’inattendibi-lità della registrazione contabile alla luce degli elementi probatori, pur indiretti ma rispettosi dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., offerti dall’amministrazione finanzia-ria, incorrendo altrimenti in una mancata dimostrazione dell’indeducibilità del co-sto, se non in un difetto di motivazione dell’atto.

In definitiva, la prova dell’inerenza non può confondersi con la particolare me-todologia accertativa su cui poggia la ricostruzione fattuale del reddito d’impresa su iniziativa della pubblica amministrazione, inserendosi tale prova nella più ampia tematica connessa alla formazione dell’atto di accertamento ed ai relativi presuppo-sti formali. Va da sé, tuttavia, che nell’esercizio dei poteri istruttori previsti dalla legge, l’amministrazione potrà richiedere al contribuente i supporti informativi ne-cessari al fine di determinare con esattezza la base fattuale dell’accertamento, de-scrivendone il processo di valutazione nella motivazione dell’avviso di accertamen-to ai fini del disconoscimento della deduzione del costo ritenuto non inerente 41. La completezza di tale argomentazione descrittiva condurrà alla formazione di un atto di accertamento formalmente corretto, ferma restando la devolvibilità al con-trollo giudiziale del merito del recupero a tassazione, ai fini della verifica della fon-datezza dell’azione di accertamento.

Per quanto riguarda invece l’oggetto della prova nella verifica dell’inerenza di un componente economico, deve rilevarsi come la prova dovrà dirigersi, anzitutto, alla dimostrazione della relazione tra tale componente e l’attività effettivamente esercitata o da esercitarsi da parte dell’imprenditore. Quest’ultimo fatto deve rite-nersi presunto per effetto dell’attendibilità dimostrativa riconosciuta dalla norma-tiva tributaria al sistema di rilevazione contabile derivato dalla regolamentazione civilistica di provenienza e dal correlativo sistema di garanzie extratributarie, ma tale presunzione potrà essere vinta dalla p.a. mediante l’allegazione di situazioni incompatibili con la base fattuale risultante dalle rilevazioni amministrative, da porre alla base dell’azione accertatrice, di cui potrà costituire adeguata motivazio-ne di sostegno. Tale rappresentazione, peraltro, potrà formare oggetto di contesta-zione da parte dell’interessato, che potrà dedurre argomenti di fatto ulteriori a sup-porto della genuinità della imputazione contabile, in modo da giustificare il colle-gamento della spesa all’attività economica effettivamente svolta. Deve peraltro esclu-dersi la necessità di particolari mezzi di prova ai fini della dimostrazione dell’ine-renza, salve le ipotesi in cui la legge subordini il riconoscimento di determinati com-ponenti economici ad una particolare forma dimostrativa. Per cui, normalmente,

41 Come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. trib., 11 febbraio 2009, n. 3305, in Banca dati Leggi d’Italia), la semplice registrazione sul libro giornale non potrà costituire prova del costo, in quanto la registrazione non fornisce nessuna garanzia di certezza, atteso che il libro gior-nale, come ogni altra scrittura dell’imprenditore, non fa fede della veridicità dei dati in esso esposti e non fa prova a favore dell’imprenditore stesso, giusta il disposto dell’art. 2709 c.c.

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l’inerenza potrà dimostrarsi anche mediante il ricorso a strumenti presuntivi ido-nei a consentire un giudizio di riferibilità del componente economico all’attività d’impresa. D’altronde tale sistema sembra rispondere alla particolarità della disci-plina dei redditi d’impresa, in cui la giustificazione in termini razionali di una de-terminata scelta economica deve collocarsi in un più ampio disegno imprendito-riale, essendo ciò ineliminabile al pari del rischio d’impresa. In altri termini la valu-tazione circa l’opportunità di una spesa o la dimensione della stessa deve ritenersi affidata alla responsabilità dell’imprenditore e non può formare oggetto di una giu-stificazione ex post, in quanto da ciò deriverebbe un inammissibile sindacato am-ministrativo sulla conduzione dell’attività economica. Ciò non toglie, tuttavia, che la p.a. possa addurre elementi fattuali idonei a dimostrare la reale finalizzazione della spesa o l’uso extraimprenditoriale di beni aziendali, tali da dimostrare il difet-to di inerenza del costo o dell’investimento.

In tale direzione, d’altronde, porta la più recente evoluzione normativa, che per prevenire e reprimere l’abuso derivante dall’improprio godimento di beni aziendali da parte dei soci ha previsto da un lato l’indeducibilità dei costi e dall’altro la presun-zione di attribuzione al socio dell’utile derivante dall’utilizzo dei beni sociali, qualifi-cato, normativamente, quale reddito diverso 42. Tale disciplina, evidentemente, con-trasta con l’affermazione della preesistenza di un potere amministrativo di sindacato generale sull’inerenza dei costi fondato sulla necessaria preventiva dimostrazione dell’inerenza da parte del contribuente e conferma la scelta legislativa di intervenire mediante regole di carattere generale dirette a fornire fattispecie normative median-te le quali si giunge ad una sorta di inversione dell’onere della prova, in deroga, quin-di, alla ordinaria regolamentazione prevista dal D.P.R. n. 600/1973.

Giuseppe Tinelli

42 D.L. 13 agosto 2011, n. 138, conv., con modificazioni, in L. 14 settembre 2011, n. 148.

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Cass., sez. trib., 27 aprile 2012, n. 6548

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GIURISPRUDENZA RTDT - n. 1/2013

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