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14. LIBERALISMO E SOCIALISMO Le dottrine del liberalismo e del socialismo hanno costituito la principale coppia di opposti nell’ideologia della società borghese e industriale. Già nel Settecento, e pri- ma di tutto in Inghilterra, il liberalismo assume la forma di una dottrina compiuta, mentre il socialismo nasce sostanzialmente nel XIX secolo, e si evolve successiva- mente in stretta connessione con gli sviluppi della società industriale. Nel Novecento, mentre il liberalismo, pur in una grande ricchezza e varietà di posizioni, mantiene una certa unità di orientamenti di fondo, il socialismo si divide, originando la con- trapposizione tra la socialdemocrazia e il comunismo. Con il tramonto dell’esperienza storica dei regimi comunisti appare evidente che un ruolo cruciale è ora affidato alle teorie della democrazia moderna e alla politica degli Stati democra- tici e delle organizzazioni internazionali, che si trovano nella necessità di rinnovare funzioni e forme dell’organizzazione politica. IL MOVIMENTO LIBERALE NEL XIX SECOLO Punto di partenza del movimento liberale ottocentesco furono le dottrine elaborate nel Seicento e nel Settecento, caratterizzate all’idea che fossero innanzitutto da garantire i diritti civili e politici dell’individuo. Vedi la grande sintesi della filosofia politica liberale, destinata a ispirare gran parte degli sviluppi ulteriori, proposta da John Locke (1632-1704) nei Due trattati sul governo civile (1690) e nella Lettera sulla tolleranza (1685). Tra le idee che contribuirono a dar forma al liberalismo occorre ricordare quelle che provenivano dalla storia della filosofia in età moderna: il giusnaturalismo (Johannes Althusius, 1557-1638, Ugo Grozio, 1583-1645) che ricorreva alla teoria del diritto natu- rale su cui fondare i diritti originari e inalienabili dell’individuo come quello di libertà personale e di proprietà; il contrattualismo (Thomas Hobbes, 1588-1679, e Samuel Pu- fendorf, 1632-1694), che consisteva nel ritenere che la società umana e lo Stato fossero il risultato di un patto fra gli uomini; il liberismo economico (fisiocrati e Adam Smith, 1723-1790), che si opponeva all’intervento dello Stato nel libero gioco del mercato; l’antiassolutismo (Montesquieu, 1689-1755), che sosteneva la necessità di dividere i poteri per poterli mantenere entro limiti definiti; il principio di tolleranza ( Voltaire, 1694-1778) che era emerso dalla storia dei conflitti di religione come l’ unica soluzione possibile alla pacifica convivenza; il principio di laicità dello stato (Baruch Spino za, 1632-1677), con cui si difendeva la libertà di coscienza e si attaccava la Chiesa di Stato. Una seconda fase di sviluppo dell’idea liberale si inizia quando si pone in dubbio la possibilità che la libera azione degli individui produca in ogni caso risultati positivi per l’interesse collettivo. L’importanza di tale postulato, che aveva sorretto l’idea centrale del liberalismo, cioè il valore preminente della libera iniziativa degli individui, non era sfuggita ai teorici più accorti, che avevano ipotizzato l’esistenza di un meccanismo in- visibile in grado di regolare al meglio la distribuzione delle risorse, in modo da ricon- durre a vantaggio della società l’azione dei singoli. Vedi sul manuale di filosofia la metafora della “mano invisibile del mercato” in Adam Smith e il rapporto tra “vizi privati e pubbliche virtù” in Bernard de Mandeville (1670-1733).

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14. LIBERALISMO E SOCIALISMO

Le dottrine del liberalismo e del socialismo hanno costituito la principale coppia di opposti nell’ideologia della società borghese e industriale. Già nel Settecento, e pri-ma di tutto in Inghilterra, il liberalismo assume la forma di una dottrina compiuta, mentre il socialismo nasce sostanzialmente nel XIX secolo, e si evolve successiva-mente in stretta connessione con gli sviluppi della società industriale. Nel Novecento, mentre il liberalismo, pur in una grande ricchezza e varietà di posizioni, mantiene una certa unità di orientamenti di fondo, il socialismo si divide, originando la con-trapposizione tra la socialdemocrazia e il comunismo. Con il tramonto dell’esperienza storica dei regimi comunisti appare evidente che un ruolo cruciale è ora affidato alle teorie della democrazia moderna e alla politica degli Stati democra-tici e delle organizzazioni internazionali, che si trovano nella necessità di rinnovare funzioni e forme dell’organizzazione politica.

IL MOVIMENTO LIBERALE NEL XIX SECOLO Punto di partenza del movimento liberale ottocentesco furono le dottrine elaborate nel Seicento e nel Settecento, caratterizzate all’idea che fossero innanzitutto da garantire i diritti civili e politici dell’individuo.

→ Vedi la grande sintesi della filosofia politica liberale, destinata a ispirare gran parte degli sviluppi ulteriori, proposta da John Locke (1632-1704) nei Due trattati sul governo civile (1690) e nella Lettera sulla tolleranza (1685).

Tra le idee che contribuirono a dar forma al liberalismo occorre ricordare quelle che provenivano dalla storia della filosofia in età moderna: il giusnaturalismo (Johannes Althusius, 1557-1638, Ugo Grozio, 1583-1645) che ricorreva alla teoria del diritto natu-rale su cui fondare i diritti originari e inalienabili dell’individuo come quello di libertà personale e di proprietà; il contrattualismo (Thomas Hobbes, 1588-1679, e Samuel Pu-fendorf, 1632-1694), che consisteva nel ritenere che la società umana e lo Stato fossero il risultato di un patto fra gli uomini; il liberismo economico (fisiocrati e Adam Smith, 1723-1790), che si opponeva all’intervento dello Stato nel libero gioco del mercato; l’antiassolutismo (Montesquieu, 1689-1755), che sosteneva la necessità di dividere i poteri per poterli mantenere entro limiti definiti; il principio di tolleranza (Voltaire, 1694-1778) che era emerso dalla storia dei conflitti di religione come l’ unica soluzione possibile alla pacifica convivenza; il principio di laicità dello stato (Baruch Spinoza, 1632-1677), con cui si difendeva la libertà di coscienza e si attaccava la Chiesa di Stato.

Una seconda fase di sviluppo dell’idea liberale si inizia quando si pone in dubbio la possibilità che la libera azione degli individui produca in ogni caso risultati positivi per l’interesse collettivo. L’importanza di tale postulato, che aveva sorretto l’idea centrale del liberalismo, cioè il valore preminente della libera iniziativa degli individui, non era sfuggita ai teorici più accorti, che avevano ipotizzato l’esistenza di un meccanismo in-visibile in grado di regolare al meglio la distribuzione delle risorse, in modo da ricon-durre a vantaggio della società l’azione dei singoli.

→ Vedi sul manuale di filosofia la metafora della “mano invisibile del mercato” in Adam Smith e il rapporto tra “vizi privati e pubbliche virtù” in Bernard de Mandeville (1670-1733).

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2 Percorso 14 - Liberalismo e socialismo

La difficile coesistenza della libertà individuale e del bene pubblico spinse alcuni filoso-fici della prima metà del secolo – romantici o idealisti – alla critica dell’individualismo liberale, che già in Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) dà luogo a un diverso modo di intendere i diritti, il cui soggetto non è più l’uomo naturale ma il cittadino.

→ Vedi il sul manuale di filosofia l’opera il Contratto sociale (1762) in cui è la “volontà generale” a trasformare gli interessi dei singoli in interesse collettivo.

Attraverso questo passaggio, che viene sviluppato sia da Edmund Burke (1729-1797) sia da Georg Friedrich Hegel (1770-1831) nel senso di una rivalutazione storica del ruo-lo dello Stato, l’individuo trova un suo posto nella collettività solo grazie all’esistenza di un’istituzione a lui superiore. Tale rovesciamento dei termini del rapporto tra individuo e Stato, che mirava a un ridimensionamento delle formulazioni originarie del liberali-smo, venne ampiamente discusso nell’ambito della filosofia politica del XIX secolo.

Fu a questo punto che si inserì la corrente utilitaristica nel filone del liberalismo classi-co. Il capofila dell’ utilitarismo fu Jeremy Bentham (1748-1832), che definì l’ utilità come ciò che generalmente produce piacere, bene, felicità, e che perciò riteneva "utile" ciò che rende minimo il dolore e massimo il piacere. Ogni azione sociale comporta dei risultati sul piano degli effetti individuali, che occorre saper riconoscere, prevedere e calcolare. James Stuart Mill (1806-1873) cercò di elaborare questo principio utilitario ricorrendo alla psicologia associazionistica, stabilendo così un primo nesso tra la mente e i fatti economici e sociali.

Ma tutte queste idee vennero a maturazione nell’opera di James Stuart Mill, che, allar-gando il concetto di utile, concepito da Bentham in termini semplicemente quantitativi, sostenne che la qua lità è ciò che caratterizza veramente il piacere e che essa è percepita dai soggetti in modo differente, a seconda del loro grado di sviluppo. Di conseguenza Mill poneva la necessità di educare gli individui, di migliorarli per permettere loro di raggiungere pienamente la felicità, chiave di volta del sistema utilitaristico, intesa da Mill come la realizzazione piena della personalità di ciascuno. Il massimo benessere per il maggior numero di individui si lega così all’altruismo e alla solidarietà, giacché la re-alizzazione della felicità altrui comporta per ciascun individuo anche un accrescimento del piacere.

IL SOCIALISMO DALL’UTOPIA ALLA POLITICA

La storia Karl Marx (1818-1883) fu il principale fautore dell’Internazionale, la prima organizza-zione sovranazionale dei lavoratori, all’interno della quale sorsero ben presto forti con-trasti con esponenti degli altri movimenti, ispirati dalle idee di Pierre- Joseph Proudhon (1809-1865), Giuseppe Mazzini (1805-1872), Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876) e Louis-Auguste Blanqui (1805-1881). Dopo una fase di rapida crescita, l’Internazionale, il cui spazio politico andò riducendosi dopo la guerra franco-prussiana, venne sciolta. Crebbero intanto i partiti politici nei vari paesi, che iniziarono un lungo cammino all’interno delle istituzioni liberali, passando attraverso la presentazione di li-ste elettorali, la pratica parlamentare, la partecipazione alle maggioranze e ai governi di alcuni Stati.

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3 Percorso 14 - Liberalismo e socialismo

→ Vedi sul manuale di storia la crescita del Partito socialdemocratico tedesco, che riuscì, nonostante la repressione bismarckiana, a darsi salde strutture e a rappresentare una quota crescente della popolazione tedesca.

La filosofia Sebbene si possa dire che alcuni elementi del socialismo si fossero presentati nella sto-ria della filosofia anche in epoche precedenti, fu solo in connessione con gli sviluppi della critica alla società industriale che il concetto di socialismo iniziò ad essere più propriamente elaborato. In questo periodo, che coincide con la piena affermazione della Rivoluzione industriale in Inghilterra, i principali pensatori e riformatori sociali reagi-rono agli eccessi e alle ingiustizie del capitalismo e si fecero sostenitori di riforme che avrebbero dovuto trasformare la società in piccole comunità nelle quali la proprietà pri-vata doveva essere abolita e doveva valere la regola di una radicale redistribuzione delle ricchezze prodotte.

Questi pensatori volevano criticare le possibilità di riforma politica della società e privi-legiavano la diffusione delle idee e l’apostolato tra i giovani, arrivando a sperimentare anche dei modelli comunitari, che avrebbero dovuto dimostrare la superiorità delle loro teorie.

→ Vedi la figura di Robert Owen (1771-1858), e la corrente dei cosiddetti socialisti utopisti, come Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825) e Charles Fourier (1772-1837).

I primi socialisti entrarono nella storia della filosofia con la qualifica di “utopisti” attri-buita loro da Marx e Engels che da una parte, nel loro Manifesto del Partito comunista (1848) li elogiarono perché intravidero la possibilità di istituire una società futura diver-sa da quella presente, ma, dall’altra, li criticarono perché non avevano saputo cogliere la funzione storica della lotta di classe. Marx e Engels contrapposero al socialismo “utopi-stico” le proprie teorie che essi definirono “socialismo scientifico”. Questo si fondava sul riconoscimento del ruolo avuto dalla classe borghese nel rivoluzionare i rapporti di produzione feudali, e di quello ulteriore che il proletariato avrebbe avuto nella nuova trasformazione della società verso il comunismo. Questa trasformazione, tuttavia, non era il risultato semplicemente dell’intenzione e dell’azione rivoluzionaria del proletaria-to, ma aveva anche una base oggettiva nelle contraddizioni del sistema capitalistico stesso.

→ Vedi sul manuale di filosofia la critica di Marx a Proudhon un altro pensatore che si è soliti annoverare tra i primi socialisti. Marx definisce il suo socialismo “borghese” e inservibile ai fini dell’emancipazione delle masse nell’ambito dei rapporti sociali capitalistici.

L’elaborazione della teoria di Marx poggiava su un’analisi criticamente approfondita delle strutture economiche del capitalismo, che partiva dalla rivisitazione della teoria del valore-lavoro presente negli scritti degli economisti classici. Egli estendeva l’analisi del valore delle merci anche a quella particolare merce che è la forza-lavoro nel sistema capitalistico, attribuendo alla sua capacità di creare valore l’origine del pro-fitto.

→ Vedi le teorie sul valore economico di Smith e Ricardo ed in particolare il volume la Ricchezza delle nazioni di Smith.

Egli pensava che l’impetuoso sviluppo delle forze produttive capitalistiche avrebbe fini-to col travolgere lo stesso sistema, poiché la contraddizione tra il carattere sociale della

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produzione capitalistica e il carattere privato dell’appropriazione si sarebbe sempre più inasprita e il sistema nel suo insieme non sarebbe stato in grado di tollerare il progressi-vo allargarsi delle periodiche crisi economiche che lo affliggevano.

→ Vedi, sul manuale di filosofia, le controversie suscitate dalle teorie esposte nel Capitale (1867-1894) sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, sul necessario impoverimento dei lavoratori, sulla teoria del plus - lavoro, sull’anarchia del mercato capitalistico, sull’alienazione dell’essere umano in quanto lavoratore espropriato.

IL COMUNISMO NEL XX SECOLO

La storia Con la Rivoluzione russa del 1917 si inizia una nuova fase che porta le forze del sociali-smo a dividersi tra socialisti e comunisti; una divisione che partiva dalla diversità di me-todo e di lotta politica tra chi voleva arrivare al socialismo attraverso le riforme e chi in-vece sosteneva la possibilità di successo di un’ insurrezione rivoluzionaria.

→ Vedi sul manuale di storia la teoria e la prassi rivoluzionaria dei bolscevichi e di Lenin, e la contesa tra Trotzkij e Stalin.

Sotto Stalin (1879-1953) l’Unione Sovietica si trasformò in uno regime autoritario e bu-rocratico, in cui vi era un’identificazione totale tra Partito e Stato, dove ogni garanzia liberale e ogni istanza democratica vennero soppresse. L’Unione Sovietica organizzò la Terza internazionale (1919), l’organismo politico che sovrintendeva alla strategia e alla tattica dei vari partiti comunisti sorti sul modello di quello bolscevico all’indomani della rivoluzione. Il suo ruolo fu fortemente condizionato dalle esigenze dettate da Mosca, e in particolare dalla politica delle alleanze in Europa. Il sorgere del nazismo, il patto Mo-lotov-Ribbentrop, l’ invasione nazista e la costituzione dell’alleanza antifascista segna-rono altrettante svolte nella strategia staliniana.

→ Vedi, sul manuale di storia, la figura di Palmiro Togliatti (1893-1964), segretario della Terza internazionale e del Pci, anche in relazione alle linee di politica culturale adottate dal Partito.

La vittoria nella guerra, tuttavia, rinsaldò il prestigio di Stalin e il peso internazionale dell’Unione Sovietica, che riuscì a costituire un blocco di Stati satelliti in Europa. Ino l-tre, in Europa, dove i partiti comunisti avevano dato un contributo decisivo alla Resi-stenza, divennero importanti forze politiche, mantenendo una rigida ortodossia rispetto a Mosca. In Italia il Partito comunista, che cercò di elaborare una via nazionale al so-cialismo, rimase in sostanziale sintonia con Mosca fino agli sessanta, anche a causa del-le alterne vicende del disgelo tra le due superpotenze.

→ Vedi sul manuale di storia le vicende che portarono al definitivo "strappo" tra il Pci e il Pcus. Fu il segretario del Pci, Enrico Berlinguer (1922-1984), che, nei primi anni settanta, dichiarò che la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si era esaurita.

In Europa i partiti laburisti e socialdemocratici nel dopoguerra ottennero considerevoli successi elettorali, che li portarono al governo in Francia, nella Repubblica federale te-desca, nei paesi scandinavi, e nei paesi che tornavano alla democrazia come la Grecia, il Portogallo, la Spagna. Anche in Italia, a partire dagli anni sessanta, i socialisti entrarono stabilmente nelle coalizioni di governo con il partito cattolico, cercando di realizzare una politica riformista.

→ Vedi, sul testo di storia, il dibattito sugli esiti del riformismo in Italia.

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Negli anni ottanta, e soprattutto dopo il crollo del blocco sovietico, i partiti comunisti, compresi quelli dell’Europa orientale, hanno accelerato la trasformazione in formazioni politiche nuove, la cui differenziazione ideologica dalla tradizione della sinistra demo-cratica è andata progressivamente diminuendo fino ad annullarsi di fatto.

→ Vedi, sul libro di storia, la crisi del Partito socialista italiano, in particolare alla fine degli anni ottanta, coinvolto in pratiche di potere e corruzione, privo di un’ autentica ispirazione riformatrice.

La filosofia Il marxismo, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, diede luogo a un dibattito origina-le e a elaborazioni teoriche di rilievo. All’interno della Seconda internazionale (1889) la discussione si accese sui modi, le forme e i tempi del superamento del capitalismo. Si formarono due schieramenti: da una parte stava chi, come Eduard Bernstein (1850-1932) intendeva modificare in senso riformista la teoria marxiana, dall’altra chi, come Rosa Luxemburg ( 1870-1919), riteneva che il crollo del capitalismo sarebbe stato una conseguenza delle politiche imperialistiche degli Stati.

Un ruolo di eccezionale influenza storica nel dibattito filosofico intorno alla natura del marxismo e ai compiti politici dei comunisti hanno avuto le opere di Nicolaj Lenin (1870-1924). Egli combatté l’impostazione revisionistica di Bernstein e si convinse del-la necessità di ribadire il carattere materialistico della dottrina marxista, contrastando la diffusione in Russia della corrente filosofica dell’empiriocriticismo. Dal punto di vista della lotta politica Lenin riteneva, contrariamente all’interpretazione ortodossa di Marx, che anche in un paese arretrato come la Russia fosse possibile accendere la miccia rivo-luzionaria. Una minoranza di intellettuali e lavoratori, organizzati da un Partito unito e determinato a lottare fino in fondo, avrebbe portato il proletariato alla conquista del po-tere. Dal focolaio della Russia l’incendio rivoluzionario si sarebbe esteso agli altri paesi, che avrebbero dato vita a un movimento rivoluzionario internazionale.

→ Vedi le critiche di Lenin a Mach, Poincaré e Duhem in Materialismo ed empiriocriticismo (1909).

Dall’ana lisi del differente contesto storico tra Russia e Occidente parte la riflessione di Antonio Gramsci (1891-1937), che dedica gran parte delle proprie analisi allo studio della società civile, degli aspetti culturali e ideologici presenti nella società, per sottoli-neare l’autonomia della sfera della sovrastruttura. Per Gramsci la rivoluzione in Occi-dente si deve fondare sul consenso della società civile, e quindi ai comunisti spetta il compito di elaborare una filosofia e una prassi capaci di diventare egemoni nella socie-tà, di riformare intellettualmente e moralmente le masse lavoratrici.

→ Vedi i rapporti della filosofia della prassi gramsciana con lo storicismo crociano e con il marxismo di Antonio Labriola (1843-1904), che fornirono elementi anti-positivistici all’ elaborazione di Gramsci.

→ Vedi anche gli altri autori che completano il quadro del marxismo antipositivistico di questo periodo: György Lukàcs (1885-1971) che riprende le categorie hegeliane di totalità e dialettica; e Ernst Bloch (1885-1977) che rilancia la dimensione utopica.

A partire dagli anni venti, con il gruppo di intellettuali marxisti di origine tedesca che ha costituito la Scuola di Francoforte, il marxismo venne a confronto con le scienze sociali e con le metodologie interpretative che si richiamavano alla psicoanalisi. Max Hor-kheimer (1895-1973), Theodor Adorno (1903-1969), Walter Benjamin (1892-1940), E-

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ric Fromm (1900-1980), Herbert Marcuse (1898-1979) e gli altri numerosi studiosi en-trati in contatto con l’Istituto di ricerca sociale, hanno rappresentato un prestigioso pun-to di riferimento per il marxismo del XX secolo, soprattutto per l’impegno nell’elaborazione di una teoria critica coerente ed efficace della società capitalistica, che utilizzasse tutti gli strumenti d’indagine necessari.

Nel secondo dopoguerra il confronto con l’epistemologia contemporanea, con i risultati delle scienze umane e naturali, con le teorie strutturalistiche e gli sviluppi della psicoa-nalisi, ha portato vari pensatori marxisti a criticare le posizioni storicistiche e la lettura umanistica del materialismo storico presenti nell’ideologia del movimento comunista.

→ Vedi, a questo proposito, la posizione di Louis Althusser (1918-1990) nel dibattito francese degli anni sessanta e di Galvano Della Volpe 81895-1968) in Italia.

LA DEMOCRAZIA E I SUOI PROBLEMI Osservando lo sgretolarsi del blocco sovietico, alcuni teorici del liberalismo hanno tratto la conclusione che la storia fosse finita con questo avvenimento epocale, destinato a sancire la vittoria del liberalismo su ogni altra forme di organizzazione dello Stato. In realtà lo scenario appare oggi assai più complesso e, come mostrano gli avvenimenti più recenti, in forte mutamento. Gli sviluppi tecnologici ed economici sembrano aver messo in moto un processo destinato a cambiare rapidamente il volto del pianeta, rivoluzio-nando le forme e i modi della produzione capitalistica. L’indebolirsi degli Stati, ormai sempre più interdipendenti, e l’emergere di organismi sovranazionali che dettano le po-litiche economiche ai governi, sembra richiedere ai teorici dello Stato liberale una nuo-va riflessione. Gli stessi flussi migratori, conseguenza più evidente della globalizzazione economica, hanno aperto nuovi problemi di integrazione e riaperto la questione della tolleranza tra culture diverse. Si pongono nuovi problemi di etica e di definizione della giustizia, nel tentativo di superare lo iato apertosi nella modernità tra politica e morale.

Il problema della giustizia sociale si è riaffacciato in seguito alla crisi del welfare state (Stato sociale) e alle critiche circa il complesso di garanzie da questo fornito. A questo proposito alcuni filosofi liberali hanno cercato di ridefinire il loro debito verso la grande tradizione della filosofia politica anglosassone, proponendone versioni aggiornate e ri-vedute in seguito ad una più puntuale analisi di alcuni aspetti formali e sostanziali. Questo vivace dibattito, iniziatosi negli anni settanta fra i liberali americani, ebbe esiti teorici interessanti. Analizziamo alcune delle posizioni che si confrontano. Per John Rawls, appare necessario recuperare la tradizione del contrattualismo e abbandonare la tradizione utilitaristica; Robert Nozick pensa invece ad una riproposta in chiave innova-tiva del filone giusnaturalista, e nella stessa direzione si sono mossi i sostenitori di una nuova teoria dei diritti, come Ronald Dworkin.

Critiche verso questi pensatori sono venute dai teorici del comunitarismo, come A-lasdair MacIntyre e Michael Walzer, che, opponendosi all’individualismo e all’astrattismo e utilizzando l’eredità del pensiero etico di Aristotele, tentano di definire i contesti e le istituzioni in cui i princìpi morali trovano reale attuazione. Il problema del pluralismo, del formarsi di società multietniche e multiculturali all’ in-terno delle democrazie occidentali, è stato oggetto di analisi da parte di filosofi come Jürgen Habermas (1929) e Karl Otto Apel (1922). Essi scorgono nei nuovi problemi po-sti dall’integrazione la necessità di rinnovare l’etica in senso comunicativo, sostenendo che, solo tenendo presente il quadro ideale di una situazione discorsiva in cui tutti i par-

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tecipanti possono prendere parola e argomentare le proposte, si possano definire criteri e presupposti di una società veramente aperta e democratica.