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1 Università degli Studi di Salerno Commissione Pari Opportunità 1946 – 2006 60 ANNI DI VOTO ALLE DONNE: UNA CONQUISTA CHE CONTINUA … Fisciano , 22 novembre 2006 Atti del convegno a cura di Pasqualina Mongillo

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Università degli Studi di Salerno Commissione Pari Opportunità

1946 – 2006 60 ANNI DI VOTO ALLE DONNE:

UNA CONQUISTA CHE CONTINUA …

Fisciano , 22 novembre 2006 Atti del convegno a cura di Pasqualina Mongillo

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INTRODUZIONE Maria Teresa Chialant*

Il 22 novembre 2006, presso l'Aula dei Consigli di Facoltà dell'Università

di Salerno, si è svolta una Giornata di studio, organizzata dalla Commissione Pari Opportunità, dedicata al riconoscimento del voto alle donne avvenuto il 2 giugno 1946.

La data ricorda il raggiunto obiettivo di una lotta politica, iniziata quasi un secolo prima dalle donne italiane quando, all’indomani dell’Unità, si pose la questione del voto femminile con l’annessione del Lombardo-Veneto, in cui il codice austriaco aveva consentito, anche se con delle limitazioni, il diritto di voto (solo amministrativo) alle donne, oltre ad alcuni diritti patrimoniali e alla possibilità di divorziare "per invincibile avversione". La Giornata è stata pensata per presentare, oltre che gli aspetti storici e giuridici inerenti le lotte femminili per la conquista della piena cittadinanza, anche le più recenti normative legate all’attività dei Comitati Universitari delle Pari Opportunità, nonché le iniziative più importanti nel campo della formazione universitaria che sono state attuate nell’Ateneo salernitano.

I lavori sono stati idealmente divisi in tre sezioni. La prima ha visto le testimonianze di donne che hanno raggiunto posti di prestigio nelle istituzioni, sia accademiche che culturali e politiche; partendo dalla propria esperienza personale, esse l’hanno legata al momento storico che si andava a celebrare, non senza aprire a nuove ed ampie problematiche che, per limiti di tempo, sono state, per ora, solo sfiorate. Possiamo prevedere che varie di tali questioni saranno riprese nell’ambito delle azioni positive della Commissione Pari Opportunità e del costituendo Comitato per le Pari Opportunità del nostro Ateneo.

* Delegata del Rettore alle Pari Opportunità. È componente della Commissione Pari

Opportunità dell’Università degli Studi di Salerno con la prof.ssa Maria Rosaria Pelizzari e la dott.ssa Pasqualina Mongillo.

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Sono intervenute per la prima sezione: Maria Galante (Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia), Ileana Pagani (Preside della Facoltà di Lingue e Letterature straniere), Maria Teresa Chialant (Delegata del Rettore alle Pari Opportunità), Antonella d'Amelia (Direttrice del Centro Linguistico di Ateneo), Angela Santopietro (Capo Area V - Università di Salerno), Eva Avossa (Vice Sindaco del Comune di Salerno), Lucia Senese (Consigliera di Parità della Provincia di Salerno), Filomena Gallo (Presidente della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Salerno), Marianna Domenica Lomazzo (Consigliera di Parità della Provincia di Avellino), Fernanda Maria Volpe (Funzionaria dell’Archivio di Stato di Salerno), Lucia Napoli (Responsabile dell’Archivio del Comune di Salerno).

La seconda sezione dei lavori è stata dedicata alle relazioni che hanno avuto come punto centrale le tematiche inerenti il suffragio femminile. Ne hanno parlato Maria Rosaria Pelizzari, docente di Storia contemporanea, e Vitulia Ivone, docente di Nozioni giuridiche fondamentali. Pelizzari, ripercorrendo le strade storiche che sono alla base della questione femminile in Italia, ha presentato alcuni momenti periodizzanti nel lungo cammino delle donne verso la modernità e la modernizzazione. Un cammino che le ha viste passare dall’«universo del destino» al «mondo della scelta», in un continuo rimando a contraddizioni, lunghe persistenze e, almeno apparentemente repentini, mutamenti epocali. Ivone ha sottolineato come le vicende storiche dell’emancipazione femminile non passano soltanto attraverso il percorso del diritto al voto, ma si ricavano dall’evoluzione delle norme e dai sentieri dell’ordinamento giuridico. Ancora oggi, le attività collettive e pubbliche delle donne tendono a essere qualificate come frutto di un impegno morale o sociale ma non politico.

La terza sezione ha avuto come momento unificante la discussione sulla presenza delle tematiche relative alle Pari Opportunità all’interno del mondo universitario. Ne hanno discusso Fiorenza Taricone, docente di Dottrine Politiche dell'Università di Cassino, Presidente Nazionale dei Comitati Pari Opportunità Universitari, e Mariolina Garofalo, docente di Istituzioni di

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Economia. Taricone ha svolto una dettagliata relazione, fornendo utili informazioni sulle attività dei Comitati: dalle loro origini, agli interventi che si stanno attuando, ai progetti e coinvolgimenti futuri legati alle azioni positive; Garofalo, ideatrice del progetto salernitano "Donne politica istituzioni", finanziato dal Ministero delle P.O., ha esaminato il profilo economico-politico delle azioni positive, nonché l’importanza nella formazione universitaria di corsi sugli studi di genere.

I lavori della Giornata di studio sono stati coordinati da Pasqualina Mongillo della Commissione Pari Opportunità dell'Università di Salerno, che ha sottolineato l'importanza dell'estensione dei diritti per quei soggetti, oggi apolidi, desiderosi di acquisire una cittadinanza attiva: vale a dire, pieni diritti non soltanto politici, ma anche sociali e civili. Sono stati distribuiti materiali informativi sulla cronologia dei momenti epocali che hanno costituito tappe significative nella storia dei rapporti di genere, nonché un questionario come strumento utile per un'indagine conoscitiva del contesto al quale si proponevano tali problematiche.

Come non sempre accade nei convegni e nei seminari universitari, il dibattito finale, seguito da una folta e attenta platea, è stato molto acceso, dal momento che ha coinvolto, oltre che docenti, come Federico Sanguineti, noti per la loro sensibilità verso le tematiche dei Gender Studies, anche altri partecipanti, sia studenti che esponenti del personale tecnico-amministrativo dell’Ateneo salernitano, nonché funzionari di altre istituzioni, che hanno dialogato, spesso in contrasto, sulle più recenti tematiche relative a questioni come “differenza” e “parità”. L'occasione è stata anche quella di annunciare che il 2007 è stato dichiarato l'Anno Europeo dei diritti e delle pari opportunità.

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SEZIONE I: PARTIRE DAL SÉ

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Filomena Gallo*

Sessanta anni di Repubblica, Sessanta anni di voto alle donne e ancora

tanta strada da percorrere, affinché sia rispettata la pari opportunità tra uomini e donne.

Siamo nel terzo millennio, guardiamo le realtà di paesi vicini e lontani e vediamo vi sono donne con ruoli importanti: Michelle Bachelet in Cile, Angela Merkel in Germania non sono le uniche in Nuova Zelanda alla guida del Paese c’è Helen Clark, in Bangladesh c’è Begun khaled Zia, in Monzabico Luisa Diogo. E molte altre ancora. In Italia una donna premier non è mai esistita.

Ma non è tutto, attualmente anche gli obiettivi che ci si dava a Lisbona per il 2010, del sessanta per cento delle donne occupate, almeno in Italia, sono ben lontani. Il tasso di occupazione femminile cresce poco, e in quanto all’equiparazione degli stipendi e dei ruoli è ben altra cosa e comunque lo squilibrio resta alto. Le buone leggi ci sono, come la legge 53/00, ma in quanto all’applicazione è un’altra storia. Ci vorrà forse un’altra epoca, un’altra storia e, speriamo di no, un altro Paese. Le nostre cronache parlano ancora di morti bianche, di donne che perdono la vita in fabbrica, di lavoro sommerso, per euro 1,50 all’ora. Non è storia ma cronaca la presentazione dei dati Istat che ha fatto sulla violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia. Cifre che parlano da sole: 6.743mila donne vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita; 5 milioni di donne vittime di violenze sessuali, 3.961 mila di violenze fisiche. E mai si sarebbe pensato alle violenza prevista per legge, come quella inflitta dalle norme coercitive contenute nella Legge 40 che costringe le donne, che pure affrontano percorsi medici difficili e dolorosi per cercare un bambino, a farlo senza poter scegliere il protocollo terapeutico migliore, ma a doversi adattare a quello previsto dai legislatori e non dai medici. Per non parlare della lapidazione pubblica quotidiana in nome della difesa della vita nei

* Avvocato, Presidente Commissione Provinciale Pari Opportunità di Salerno.

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confronti di chi, attraverso la procreazione assistita, altro non vuole che metterla al mondo questa benedetta vita.

Dunque c’è ben poco ancora da festeggiare, anzi, c’è da schivare il rischio di un’involuzione culturale ed economica ai danni delle donne tanto che ancora oggi c’è bisogno di promuovere un bollino rosa per le aziende che equiparano i trattamenti economici tra i due sessi. E non bastano due ministeri a cambiare le cose. Non basta un Ministero per le pari Opportunità che, di fatto, evidenzia le problematiche relative alla condizione delle donne, ma non propone soluzioni concrete. Perché, mutate le scene, oggi, il ministro Pollastrini, firmataria dei referendum componente del Comitato per il Referendum sulla legge 40/04, oggi non spinge una radicale riforma della legge 40/04? La competenza è sicuramente del Ministro Turco, anch’essa donna, anch’essa Ministro di ben altro schieramento rispetto a quello che ha partorito la legge 40 e accesa sostenitrice dell’abrogazione della norma ai tempi del referendum, ma anch’essa immobile di fronte a questo obbrobrio legislativo. Qualunque siano le ragioni, mancanza di potere, priorità diverse in agenda, o purtroppo opportunità politiche ci vuol coraggio a continuare a lottare e a non smettere di sperare in un cambiamento reale. D’altra parte la storia ce lo ricorda: siamo capaci di farlo anche a costo della vita anche quando sembra che la rassegnazione sia l’unica cosa sensata. Ma dov’è allora il vulnus? Forse nell’incapacità di fare squadra, nell’assoggettarsi egli stessi meccanismi maschili qualora riusciamo a entrare nelle stanze dei bottoni, nel non cambiare il mondo secondo la nostra natura, ma nel fare che la nostra natura si adegui al mondo e alle sue regole che non ci hanno mai premiato se non a costo di negazioni e di alienazioni. Ciò che ci manca, forse, è questo: uno slancio vero per trovare uno spazio a nostra immagine, senza subire regole e modelli che non ci appartengono.

La strada da fare è tanta, e l’obiettivo non è dietro l’angolo. Il lavoro per una società più giusta tocca a tutti, uomini compresi, che in

una società dove le donne stanno meglio staranno meglio anche loro.

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Lucia Napoli*

Vorrei ringraziare le organizzatrici dell’iniziativa che ci hanno consentito non solo di ricordare la mostra realizzata in occasione dei 60 anni della Repubblica nata dalla stretta collaborazione tra l’Archivio di Stato di Salerno, la sezione storica dell’Archivio del Comune di Salerno e la Biblioteca Provinciale di Salerno, così come la dott.ssa Volpe ha raccontato nella sua esposizione, ma anche di sottolineare un ulteriore aspetto che riguarda gli Archivi, la loro funzione e il rapporto con le famiglie, le associazioni e i collezionisti e gli studiosi.

Nel realizzare la mostra sulla nascita della Repubblica non si poteva non ritagliare una sezione che raccontasse la novità della partecipazione delle donne al voto. Principalmente affrontando questa sezione ci si è rese conto (parlo al femminile perchè il caso ha voluto che ad organizzare la mostra fossimo tutte donne) dell’importanza della conservazione degli archivi privati.

Studiando le carte custodite negli Archivi Pubblici si può raccontare il punto di vista istituzionale, infatti abbiamo individuato carte di prefettura in cui si comunicavano comizi di donne, le dichiarazioni durante i consigli comunali1 ma non possiamo cogliere gli aspetti umani e personali delle persone coinvolte.

E’ qui che si è ravvisata la necessità di tentare di coinvolgere le famiglie delle donne che hanno partecipato alla vita politica di quel tempo. Siamo riuscite a contattare le discendenti di Olga Chieffi, una delle due donne elette nel primo consiglio comunale di Salerno nel 1946, e attraverso una sua lettera

* Responsabile Archivio Generale del Comune di Salerno. 1 Periodicamente nel 1945 e nel 1946 le Prefetture relazionando al Ministero degli Interni

sulla situazione politica, economica e annonaria, sull’ordine e lo spirito pubblico e sulle condizioni della pubblica sicurezza nella provincia sottolineavano la presenza delle donne. Nel Comune di Salerno, come in altre città, nelle prime riunioni consiliari dove erano state elette donne gli uomini plaudono alla presenza delle donne. (Delibera di Consiglio Comunale di Salerno n° 1 del 19/12/1946).

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privata si sono potute cogliere le difficoltà e le rinunce che ha dovuto affrontare per dedicarsi alla politica2.

Il mio intervento vuole essere, pertanto, principalmente un appello alle famiglie di personaggi che hanno dato il loro contributo alla vita politica, sociale, culturale e economica, ma anche agli studiosi che talvolta raccolgono testimonianze e documentazione, di mettere a disposizione della collettività tutto il materiale permettendo una lettura più completa degli avvenimenti.

Gli Archivi di Stato, quelli Comunali possono offrire la professionalità dei loro funzionari per il riordino, ma anche le strutture per custodire la documentazione e garantire a tutta la collettività e gli studiosi la possibilità di consultarle. Questa operazione potrebbe essere per gli studiosi, ma anche per tutta la collettività un importante nuovo modo di leggere la storia, e per gli Archivi di Stato e Comunali un nuovo modo di lavorare, con maggiori sinergie tra loro e con un rapporto più intenso con il territorio.

Non più Archivio come luogo chiuso, ma come luogo vivo e permettetemi uno slogan un archivio per e con la città, per i cittadini e le cittadine.

2 Terni, 7 dicembre 1948, Lettera di Mary Chieffi ai Compagni in cui sottolinea il suo

impegno politico dopo il 1944. Collezione privata famiglia Chieffi, Salerno.

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Federico Sanguineti*

Voglio sottolineare la necessità di direttive istituzionali al fine di offrire,

anche attraverso l’università, conoscenze non più omosessuate, ma rispettose della differenza di genere. Per cominciare con un esempio concreto e pedagogicamente irrinunciabile, le antologie e storie della letteratura dovrebbero dedicare 50% dello spazio a scrittrici e 50% a scrittori. La proposta avanzata in Francia dieci anni fa da Rignault e Richert, secondo cui nei manuali occorre garantire un equilibrio numerico della rappresentazione di genere, non può essere elusa in un paese come l’Italia dove, stando alla Legge costituzionale del 30 maggio 2003, «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

È vergognoso che si possa uscire dalla scuola e dall’università sapendo dell’esistenza di Dante, Petrarca e Boccaccio, ma ignorando Cristina da Pizzano (1365-1430). Questa scrittrice di respiro europeo prefigura nel suo libro più noto, La città delle dame (1404-1405), una società non discriminante nei confronti delle donne.

È vergognoso che si studi l’Umanesimo ignorando Isotta Nogarola (1418-1466), autrice del trattato De pari aut impari Evae atque Adae peccato (1451), tradotto negli Stati Uniti nel 2004, ma non pubblicato in Italia dal 1851.

È vergognoso che sia dimenticata La nobiltà et l’eccellenza delle donne, co’ diffetti e mancamenti de gli uomini di Lucrezia Marinella (1571-1653), libro tradotto negli Stati Uniti nel 1999, ma non pubblicato in Italia dal 1621.

È vergognoso che non si legga suor Arcangela Tarabotti (1604-52), autrice de La semplicità ingannata, capolavoro tradotto negli Stati Uniti nel 2004, ma non pubblicato in Italia dal 1654.

È vergognoso che si ignori il sonetto Sdegna Clorinda a i femminili uffici di Petronilla Paolini Massimi (1663-1726).

* Docente di Letteratura umanistica – Università degli Studi di Salerno. Proposta

presentata nel dibattito finale.

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È vergognoso che si lasci nell’oblìo una canzone come Le donne italiane di Maria Giuseppina Guacci Nobile (1807-1848).

E si potrebbe continuare a lungo. Ogni docente deve impegnarsi affinché le pari opportunità siano garantite

nella didattica e nella ricerca. Quanto occorre aspettare perché nascano un Osservatorio, un

Dipartimento e un Dottorato dedicati agli studi di genere anche nell’Università degli Studi di Salerno?

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Angela Santopietro*

Nel 1946 le donne andarono alle urne per la prima volta in Italia, ma sono

dovuti passare ben trent’anni prima che una donna fosse nominata ministro della Repubblica Italiana. Ricordo che allora, era il 1976, in me ragazzina questo evento accrebbe la consapevolezza di poter un giorno dare il mio apporto alla vita economica e sociale di questo Paese. Per questo oggi vorrei rievocare con voi le emozioni di quel momento storico attraverso il ricordo che Tina Anselmi, la prima dell’ancora scarsa schiera di donne nominate ministro, ha raccontato nel suo libro autobiografico Storia di una passione politica:

Noi ragazze che avevamo partecipato alla Resistenza, una volta raggiunta la pace, dopo aver contribuito rischiando la vita ad accelerare la fine della guerra, avremmo potuto non renderci conto di quale conquista fosse il diritto di voto alle donne? Peccato che molte di noi non avessero ancora l’età per votare….

E devo dire che andando a parlare con le contadine, al mattino presto, perché si alzavano alle cinque, cinque e mezza, per governare gli animali nelle stalle, e poi per accudire uomini, vecchi e bambini, io e le mie amiche non trovavamo difficoltà a convincerle a partecipare. Piuttosto i dubbi erano sul come partecipare: «Che cosa dobbiamo fare? Come facciamo a non sbagliare? Ne saremo capaci?» Per noi militanti è stato molto gratificante vedere che esse comprendevano i nostri discorsi, li condividevano, si rendevano conto che il voto era il punto di partenza di una nuova partecipazione alla vita sociale e politica del paese: un diritto-dovere che ci proiettava, da protagoniste, nel futuro.

E le italiane, fin dalle prime elezioni, parteciparono in numero maggiore degli uomini, spazzando via le tante paure di chi temeva che fosse rischioso dare a noi il diritto di voto perché non eravamo sufficientemente emancipate. Non eravamo pronte. Il tempo delle donne è stato sempre un enigma per gli uomini. E tuttora vedo con dispiacere che per noi gli esami non sono ancora finiti. Come se essere maschio fosse un lasciapassare per la consapevolezza democratica! E’ proprio grazie a queste donne se oggi tante donne possono dare il loro

contributo alla vita sociale, politica ed economica di questo Paese. Credo che il modo migliore per ringraziarle oggi sia di occupare con competenza e professionalità gli spazi che al costo di grandi sacrifici esse hanno conquistato per noi, affinché potessimo contribuire a passare alle nostre figlie e ai nostri figli una società dove vi siano reali condizioni di pari opportunità per tutti. Una

* Dirigente, Capo Area V - Università degli Studi di Salerno.

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società dove le donne possano affermare le proprie competenze non solo nei ruoli per i quali la selezione avviene per concorso ma anche quando l'attribuzione di responsabilità dirigenziali passa attraverso criteri discrezionali, o meccanismi di cooptazione e regole di selezione non fondati esclusivamente sulla competenza. Questo è il fenomeno che qualcuno ha definito del soffitto di cristallo, immagine che dà l'idea della difficoltà femminile di arrivare ai massimi livelli di carriera nell'amministrazione come nelle professioni.

Mi piace, pertanto, immaginare che, nella società in cui mia figlia esprimerà la sua individualità, alle donne sarà unanimemente riconosciuto il diritto di essere ambiziose, non nel senso di essere competitive, quanto di essere consapevoli delle proprie capacità uscendo da quella corazza di timidezza che ci inibisce ogni passo in avanti che faticosamente compiamo.

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Fernanda Maria Volpe*

Porgo il saluto della Direttrice dell’Archivio di Stato di Salerno, dott.ssa Maria Luisa Storchi.

Nell’ambito delle manifestazioni del 60° Anniversario della Repubblica, l’Archivio di Stato ha allestito una mostra documentaria, bibliografica e fotografica dal titolo “Dalla Monarchia alla Repubblica. Momenti di storia a Salerno”, inaugurata il 30 maggio 2006, ideata e organizzata in collaborazione con l’Archivio storico del comune di Salerno e la Biblioteca provinciale di Salerno con il sostegno della Prefettura di Salerno.

La mostra, allestita nel Salone d’ingresso dell’Archivio, che rimarrà aperta fino al 30 ottobre 2006, vuole offrire l’occasione di far conoscere, soprattutto a coloro che non hanno vissuto in quel periodo, quanto fosse difficile e complesso il momento storico, in cui avvenne il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. Dai fondi documentari e bibliografici conservati nei vari Istituti è stata selezionata tutta quella documentazione, in gran parte inedita, più significativa ed esplicativa come documenti, corrispondenze, telegrammi, fotografie, manifesti, opuscoli, giornali, cimeli ed altro.

Divisa in due parti, la prima parte raccoglie tutte le fonti documentarie conservate presso l’Archivio di Stato di Salerno e l’Archivio storico del Comune di Salerno ed è articolata in quattro sezioni, secondo un’organizzazione tematica.

La prima sezione, dal titolo “La nascita della Repubblica” esamina la questione istituzionale e ripercorre gli eventi accaduti dalla primavera del 1946 fino alle elezioni dell’aprile 1948.

La seconda, dal titolo “Salerno e gli Alleati” evidenzia la presenza degli alleati a Salerno e provincia tra il 1943 ed il 1946, attraverso una ricca documentazione proveniente dal Fondo Intendenza di Finanza – Danni di guerra

* Archivista di Stato.

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dell’Archivio di Stato e dal Fondo Capone dell’Archivio del Comune di Salerno, entrambi di recente acquisizione da parte dei due Istituti.

La terza, “I danni di guerra e la ricostruzione a Salerno e provincia”, è la testimonianza, attraverso immagini fotografiche, dei danni causati dai bombardamenti e nel contesto i documenti delle due edizioni della “Rassegna della Ricostruzione” tenutesi a Salerno nel 1945 e nel 1947, mostrano in modo molto chiaro quanto fosse grande il desiderio della città di rinascere.

L’ultima sezione, “I simboli della Repubblica e gli Anniversari”, raccoglie testimonianze delle celebrazioni e degli anniversari della Repubblica e dedica un’approfondita analisi all’emblema della Repubblica italiana.

La seconda parte della mostra, curata dalla Biblioteca Provinciale di Salerno, è divisa in tre sezioni, le prime due intitolate “Giovanni Cuomo. Un salernitano alla Costituente” e “ La pace di Parigi. Un commento di Giovanni Cuomo”, che riguardano l’attività politica svolta dall’illustre politico salernitano negli anni 1946-1948, illustrata attraverso materiale documentario tratto dal Fondo Cuomo, conservato nella Divisione Manoscritti e Rari “Michele Scozia” della Biblioteca Provinciale; la terza, intitolata “Referendum e Costituente. Il problema istituzionale e i governi italiani”, riprende la questione istituzionale attraverso articoli di quotidiani dell’Emoroteca della Biblioteca Provinciale, tracciando un percorso amministrativo che va dalle elezioni amministrative del 1946 all’elezioni politiche del 1948.

Questa mostra è stata ideata con scopo didattico, pertanto s’invitano i docenti di quest’Università, presenti in questo contesto, a diffondere tra i propri allievi l’ iniziativa; i Funzionari dell’Archivio sono a disposizione per eventuali visite guidate non solo per la mostra, ma anche per una conoscenza più approfondita delle attività dell’Archivio e della documentazione, in esso conservata.

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SEZIONE II: LE RELAZIONI

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PARI OPPORTUNITÀ:

DAL SUFFRAGISMO ALLA CITTADINANZA ATTIVA Pasqualina Mongillo

La ricostruzione delle battaglie civili e sociali delle donne per ottenere il

diritto al voto sono un'occasione per ricordare le donne che hanno offerto la loro vita all'impegno politico e alla conquista e difesa dei diritti civili. Pensiamo a Nilde Iotti, partigiana, costituente, a cui la Presidenza del Consiglio di Ministri ha dedicato un francobollo, deputata per 51 anni ed indimenticata Presidente della Camera dei deputati, la più lunga Presidenza nella storia del Parlamento italiano. Pensiamo a Teresa Mattei, la più giovane delle costituenti, che chiedeva al Parlamento aiuto “affinché tutti i legami che ancora avvincevano le mani delle donne, fossero sciolti, in modo da disporre di nuove braccia, liberamente operose, per costruire il futuro dell’Italia".

Pensiamo a tante altre ancora … E' questa l'occasione per fissare cronologicamente le tappe di questo lungo

periodo della conquista del diritto di voto delle donne italiane, ma anche rivisitare la formazione di un pensiero politico femminile nonché per esercitare controllo e sorveglianza sulla conquista di questa libertà, affinché i diritti acquisiti non vadano dispersi da una ondata di reazione.

Attualizzando l’intenzione è quella mantenere viva la riflessione sulla necessità di estensione dei diritti politici, sociali e civili, necessari per una società che voglia affermarsi come democratica.

1. Verso la conquista del voto delle donne: una cronologia.

Sin dall'Unità d’Italia le donne italiane furono escluse dal godimento dei diritti politici: la Camera dei Deputati del Regno d'Italia respinse come 'folle', alla fine degli anni sessanta, la modifica proposta dell'onorevole Salvatore Morelli all'esclusione delle donne dal voto politico e amministrativo, come gli

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analfabeti, gli interdetti, i detenuti e i falliti. Il parlamentare di Sessa Aurunca presentò tre progetti di legge che racchiudevano tutto il suo programma di legge. Già nel 1861 era stata presentata una petizione alla Camera dei Deputati perché venissero estesi a tutte le italiane i diritti concessi alle donne lombarde, venete e toscane dal codice austriaco: la conservazione di proprietà su beni in possesso prima del matrimonio e la possibilità di divorziare. Molte proposte di legge segnano un’incessante attività delle donne in Italia di questi anni: la proposta di Peruzzi del 1863, il Progetto Lanza del 1871, il progetto Nicotera del 1876. Nel 1877 Anna Maria Mozzoni iniziava la battaglia per il suffragio femminile presentando la prima petizione al Parlamento. Da quel momento molteplici furono le difficoltà legate ad ostilità di ogni tipo.

Ma il pensiero politico femminile, supportato dalla consapevolezza dei diritti sociali e civili, aveva ormai cominciato a produrre consensi. Nel 1879 Mozzoni fonda una Lega promotrice degli interessi femminili; nel 1880 il governo Depretis presenta una proposta di legge per il voto alle donne; nel 1881 Anna Maria Mozzoni tiene il Comizio dei Comizi, e presenta una petizione in Parlamento firmata con Paolina Schiff, Guseppina Pozzi, Nerina Bruzzesi, Virginia Negri e Costantino Lazzari. Nel 1882 si rinnova la proposta Depretis e relaziona l'on. P. Lacava. Nel 1888 si discute in Parlamento il progetto del 1880. Nel 1897 nasce a Roma l'Associazione nazionale per la donna, nel 1899 a Milano l'Unione Femminile Nazionale.

Ma il Novecento incalzava affermandosi come il secolo delle donne. Nel 1902 il Parlamento approvò la L. n. 242 a tutela delle donne e dei bambini, sostenuta da Anna Kuliscioff. Nel 1903 nasceva il Consiglio Nazionale delle donne italiane aderente al Consiglio internazionale femminile. Nel 1904 R. Mirabelli presenta una proposta di legge sull'ammissione delle donne al voto amministrativo, sostenuta dalla petizione avanzata da Mozzoni, a firma di L. Taverna, M. Montessori, V. Benedetti Brunelli, T. Labriola, la cui discussione veniva a lungo rimandata.

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La battaglia emancipazionista di Anna Maria Mozzoni fu ripresa da Anna Kuliscioff, che sostenne con coraggio la battaglia delle donne all'interno del partito socialista.

Nel 1905 l'Unione Femminile milanese si trasformava in Unione Femminile Nazionale. Nel 1906 Linda Malnati costituiva a Milano il Comitato Nazionale per il suffragio universale e nello stesso anno a Torino Emilia Mariani organizzava il Comitato pro voto; Anna Maria Mozzoni presentò una nuova petizione al parlamento. Giolitti definì la loro proposta 'un salto nel buio'.

Nel 1908 i comitati pro voto si univano alle lotte per i diritti civili. Si organizzava il I Congresso nazionale delle donne italiane presieduto da Giacinta Martini Marescotti, con Elena Lucifero, Cleofe Pellegrini, Anita Pagliari, Romelia Troise, Elena Lollini. Intervennero, tra la altre, Elena Ballio, Irene De Bonis, Teresa Labriola. Molte di loro parteciparono al Congresso Internazionale di Amsterdam.

Nel 1910 si assisté alla scissione tra aristocratiche e democratiche. I gruppi femminili prepararono un Manifesto comune per il voto alle donne.

Nel 1911 a Roma si discusse più approfonditamente sul suffragio femminile sotto l'aspetto politico, legislativo ed economico con l'ordine del giorno di Ersilia Bronzini in Majno. Nel 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe concesso il voto agli analfabeti maschi, i deputati Mirabelli, Treves, Turati e Sonnino proposero un emendamento per concedere il voto alle donne.

Nel 1914 a Roma si tenne il I Convegno Nazionale pro-suffragio organizzato dal Comitato Nazionale in cui intervenne Alice Schiavoni Bosio rimproverando la tendenza delle donne a schierarsi coi partiti di sinistra alienando il favore di molte donne di altra estrazione.

Alla fine della guerra del 1915-18 in Europa molte nazioni concessero il suffragio femminile e in Italia, soprattutto in seguito alla Legge Salandra che intendeva estendere il voto ai giovani combattenti di 17 anni, furono riprese le battaglie pro suffragio.

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Nel 1919 si presentò il progetto Nitti di estensione dell'elettorato amministrativo politico. Il 30 luglio la Camera approvava la proposta di legge Martini-Gasparotto con 174 voti favorevoli e 55 contrari, ma la magistratura si chiuse in anticipo prima che il Senato votasse per la legge. Papa Benedetto XV si dichiarò a favore del voto alle donne. Il 30 luglio venne abolita l'autorizzazione maritale.

Nel 1920 la Camera approvava la legge elettorale ma l'iter per l'approvazione non fu completato. Ancora nel 1922 Modigliani presentava l'ennesimo progetto di legge contemporaneamente al tentativo del ministro Anile di esclusione delle donne dall'insegnamento dei licei. Nel 1921 Mussolini dichiarva la non ammissibilità del voto alle donne "perché le donne dovevano ubbidire". Nel 1922 il consiglio nazionale delle donne italiane organizzava le Commissioni centrali pro-suffragio con Alice Schiavoni Bosio ed Enrichetta Chiaraviglio Giolitti. La sezione di Firenze affidava alla commissione giuridica presieduta da Ernesta Viganò il compito di propaganda suffragista precedentemente svolta dall'associazione autonoma di Angiolina Altoviti Avila e da Romelia Troise.

Nel maggio del 1923 l'Italia ospitava a Roma il IX Congresso dell'Alleanza internazionale pro-suffragio femminile. Mussolini promise, in questa occasione, il voto amministrativo alle donne. Nel giugno dello stesso anno, dopo il Congresso dei fasci femminili tenutosi a Padova, alla Camera venne presentato un disegno di legge che concedeva alle donne non minori di venticinque anni (con meriti di guerra ed alfabete). Nel 1925 sulla Gazzetta Uficiale veniva pubblicata la legge di voto amministrativo ad alcune categorie di donne. Nel 1926 l'istituzione dei podestà toglie il diritto di voto amministrativo a uomini e donne.

Nel 1928 la Federazione per il suffragio e i diritti civili e politici delle donne riprendeva la battaglia elettorale: Matelda Pietro Pagni, Ada Sacchi Simonetta, succeduta a Magherita Ancona, indicevano una riunione con Jolanda Pagni per il comitato romano la cui presidente fu Bice Crova e venne eletta come presidente Vittoria Federici Sora. Si organizzarono nove

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commissioni. Nel 1929 Valeria Benetti e Beatrice Sacchi lavoravano al Nuovo codice penale e nel 1930 si discussero vari progetti. Nel 1930 il codice Rocco considerava l'adulterio della donna reato a differenza di quello dell'uomo. Nel 1931 fu nominata presidente del comitato romano Valeria Benetti Brunelli insieme a Maria Ripamonti. Le revisore erano Vittoria Federici Sora e Maria d'Angelo. Nel 1931 la Federazione sostenne le propagande per il disarmo. Nel 1933 un decreto escludeva e limitava le donne dal voto amministrativo. Nel 1935 il regime nominava alla presidenza della federazione Irmpa Arzelà. Nel 1938 un decreto stabiliva che l'assunzione delle donne negli uffici pubblici fosse limitata al 10%.

Il 30 gennaio del 1945 il Consiglio dei Ministri del Governo provvisorio, presieduto da Ivanoe Bonomi, approvava l'estensione del voto politico alle donne. Il 1° febbraio venne emanato il relativo decreto luogotenenziale. Alcune donne furono nominate nella Consulta Nazionale. La questione del voto alle donne trionfava in Parlamento trasformandosi da conquista di un diritto nell'esercizio concreto di un dovere.

Alla vigilia delle elezioni del 1946, il 2 giugno, con il referendum tra monarchia a repubblica, un decreto sanciva il diritto delle donne ad essere elette oltre che elettrici. Risultarono elette in 21 su 556 uomini.

2. La presenza delle donne nelle istituzioni politiche italiane dal 1948 ad oggi.

I diritti politici tanto attesi e solo ora maturati, implicarono una serie di conseguenze ne4lla vita politica italiana. Prima di tutto l’uguaglianza dei diritti rimandava necessariamente ad un’uguaglianza dei doveri. C’era da considerare anche che tale conquista politica su un contesto profondamente diseguale, tra nord e sud, tra città e periferie ed il sud e le periferie non potevano risentire, considerata la genesi, di questo forte e prolungato ritardo.

Varrà la pena di sottolineare che i tempi lunghi della conquista del voto femminile non dipendono dunque dalla incapacità delle donne ad affermarsi ma più probabilmente dalla reticenza e dall’indifferenza della politica maschile ad accogliere le istanze femminili.

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Ricordiamo che il passaggio dalla monarchia alla repubblica aveva consentito una salto di qualità per la civiltà italiana. Nell'Italia liberata i1 gennaio 1948 votano per la prima volta più di dodici milioni di donne: con il loro voto entra in vigore la Costituzione Repubblicana.

Da allora i tempi sembrano accelerarsi. Il primo Parlamento vede l'elezione di 45 donne alla Camera e 4 al Senato.

La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo dello stesso anno include il principio di parità dei sessi.

Nel 1951 viene eletta la prima donna nominata sotto-segretario presso il Ministero dell’Industria, Angela Cingolani Guidi; nel 1963, nella quarta legislatura, Marisa Cinciari Rodano è eletta Vice Presidente della Camera. Nel 1970 con la L. n. 898 viene introdotto il divorzio. Nel 1976 Tina Anselmi fu nominata Ministro del Lavoro, primo ministro donna in Italia.

E' del 1978 la legge n. 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, drammatica scelta, ma importante conquista civile che fa emergere un problema di grave mancanza di assistenza medica e di prevenzione sanitaria. Nel 1979 Nilde Iotti è eletta Presidente della Camera. Viene eletto il Primo Parlamento Europeo: sono presenti 61 donne di cui 10 italiane. Nel 1983 è istituito in Italia il Comitato Nazionale per l’attuazione dei principi di parità presso il Ministero del Lavoro. Nel 1984 è istituita la Commissione Nazionale della Parità presso la Presidenza del Consiglio, presieduta da Elena Marinucci. Nel 1987 le donne del PCI lanciano la Carta delle donne, riuscendo a portare in Parlamento un terzo (53 donne alla Camera e 10 al Senato) delle proprie candidate. Nel 1989 Tina Anselmi è nominata Presidente della Commissione Nazionale di Parità. Nel 1991, con la legge n. 125 del 10 aprile anche in Italia sorgono le affirmative actions per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro. Nel 1994 le nuove leggi introducono l’alternanza nelle liste elettorali (L. 277/93, L. 45/95, L. 81/93). Nel 1995 Susanna Agnelli è la prima donna a ricoprire l’incarico di Ministro degli Esteri. Livia Turco è Presidente della Commissione Nazionale di Parità. Emma Marcecaglia è eletta Presidente dei Giovani Industriali. Nel 1996 il Governo Prodi nomina tre donne Ministro e

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otto Sottosegretari. Viene creato il Ministero Pari Opportunità assegnato ad Anna Finocchiaro. Silvia Costa è Presidente della Commissione Nazionale Parità, Viene approvata la legge n. 66 che classifica reato violento contro la persona la violenza sessuale, prima considerato reato contro la morale. Nel 1998 nel governo D’Alema per la prima volta una donna Rosa Russo Jervolino assume l’incarico di Ministro degli Interni e vengono assegnati altri cinque ministeri a donne. Nel 1999 la legge di riforma del finanziamento pubblico ai partiti prevede una quota volta ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica.

Nel 2003 la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica approvano la modifica dell’art. 51 della Costituzione Italiana inserendo nella Costituzione Italiana il principio della promozione delle pari opportunità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.

Il 17 maggio del 2006 il Secondo Governo Prodi nomina 6 Ministri donna: Linda Lanzillotta (Affari regionali e Autonomia Locali), Barbara Pollastrini (Diritti e Pari Opportunità), Giovanna Melandri (Politiche giovanili e attività sportive), Rosy Bindi (Politiche per la famiglia), Emma Bonino (Politiche Europee e Commercio Internazionale), Livia Turco (Salute), due vice ministre: Marcella Lucidi (Interni), Mariangela Bastico (Pubblica Istruzione) e 9 donne sottosegretari.

3. Il diritto di voto… una conquista civile che continua.

La conquista dei diritti politici per le donne ha coinciso da sempre con la richiesta dei diritti civili e sociali, ovvero dell’aspirazione alla cittadinanza attiva. Sono proprio queste rivendicazioni a fondare la nascita del movimento femminista, inteso come insieme delle riflessioni e delle pratiche politiche finalizzate all'affermazione dell'autonomia delle donne, alla loro emancipazione dalla disuguaglianza e al pensiero positivo della differenza.

L'astratto principio di cittadinanza era stato teorizzato dalla filosofie del 17esimo e del 18esimo secolo da Hobbes a Locke, da Pufendorf a Kant ma sai

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riferivano sempre ad un soggetto generico, non consideravano la partecipazione delle donne alla società civile.

La divisione tra la sfera pubblica - con le sue istituzioni politiche, militari, giurisdizionali - e la sfera privata - incentrata sulla famiglia - aveva cristallizzato i ruoli sessuali e i saperi. Neanche le 'rivoluzioni della modernità' e gli importanti sviluppi delle riflessioni socialiste cambiarono la condizione delle donne che, anzi, continuarono a subire forme di discriminazione.

La parità, che andava di pari passo con il concetto di uguaglianza, anche oggi, a distanza di sessant'anni, tarda ad affermarsi, seppure ostentata e celebrata da ogni parte. Bisogna aspettare la metà degli anni ’50 quando un giudice riconobbe che un marito non poteva picchiare la moglie; solo negli anni ‘60 le donne italiane furono ammesse ai concorsi per la magistratura; solo negli anni '70 le madri ebbero riconosciuta la parità nell’esercizio della ‘potestà’ genitoriale sui figli.

Ancora la presenza femminile nelle istituzioni e nei posti decisionali è esigua e la questione delle quote-rosa puntualmente si ripropone ad ogni tornata elettorale come un diritto da elemosinare. Negli ’90 le donne imprenditrici sono passate dal 15 al 22%, le libere professioniste dal 19 al 26%, le dirigenti del settore servizi dal 15 al 25%, i magistrati donne di Cassazione a Corti d’Appello dal 10 al 25%, il 35% delle funzionarie della Camera sono oggi donne.

In Italia lavora oltre l’80% delle ragazze, anche se tale dato crolla al di sotto del 50% per le donne sposate e con figli. Il dato si abbassa ancora se consideriamo il Mezzogiorno d’Italia. Solo il 6% delle famiglie e delle donne lavoratrici del Sud (e in provincia di Salerno, il dato scende al 2%) possono contare su un asilo nido pubblico ed anche il Nord, con il suo 15%, resta drammaticamente al di sotto dei bisogni delle famiglie e delle donne lavoratrici. Insomma, nell’Italia di oggi si ripropongono antichi divari: un Nord che avanza e compie il sorpasso ed un Sud stagnante.

Insomma resta una inaccettabile condizione di disuguaglianza della donna nella società e nel mondo del lavoro di stampo ancora fordista ed anche in

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politica, come abbiamo visto, nonostante la formazione avviata in più università, la presenza femminile in politica stenta ad affermarsi nella sua pienezza e nel lavoro è precaria per eccellenza.

Evidentemente non si è centrati l’obiettivo ma si gira intorno ad esso. Per noi il ritardo dell’affermazione femminile nella società civile, specie nel Mezzogiorno d’Italia e, in genere, nei Paesi in ritardo di sviluppo, dipende dal radicato familismo e dalla mancanza di una cultura della conciliazione, della qualità, dei servizi alle persone. La società meridionale resta cristallizzata, infatti, in ruoli stereotipati utili ad un sistema come il nostro in cui il lavoro sommerso, e nero per eccellenza, fa comodo al sistema delle proprietà private, agli uomini e ai capitali.

Il ritardo di sviluppo, da cui il nostro territorio è segnato, non si limita a quello economico e finanziario ma soprattutto culturale, a fronte del vigoroso confronto politico che invece infervora le tornate elettorali. La crisi economica del vecchio modello di welfare ha scaricato sulle donne il peso gravoso delle attività di cura e assistenza all’interno delle famiglie; la precarizzazione crescente dei rapporti di lavoro rischia di tradursi, per le giovani donne, nell’alternativa secca ed intollerabile tra maternità e posto di lavoro, e quindi tra dimensione di vita domestica e dimensione di vita pubblica, ed immancabilmente in una nuova schiavitù.

E’ da riprendersi, dunque, la questione femminile a partire da una lotta civile e culturale e dalle pari opportunità. Con lo strumento dell’autodeterminazione l'affermarsi del pensiero politico femminile ha condotto ad una molteplicità di teorie che attualmente rendono fertile le culture e ne segnano la reale innovazione. Il pensiero filosofico-pratico femminile si avvia con la profonda revisione del concetto di uguaglianza, supera il concetto di parità, giunge fino all'allargamento dell'idea classica di cittadinanza politica costituendo una rivendicazione in molte agende politiche delle forze socialdemocratiche e riformiste.

Nell'attuale contesto italiano l'obiettivo dell'eguaglianza si trasforma in strategie per le pari opportunità. La coscienza 'ontologica' della 'differenza di

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genere', insomma, formula una società democratica in cui le differenze sono legittimamente alla base di una società globale, in cui la politica viene inglobata dalle istanze sociali e civili ed in cui il pensiero italiano della differenza viene di fatto considerato, insieme al movimento operaio, come quello caratterizzante il novecento italiano.

Il pensiero della differenza oggi significa l'intensa integrazione dei tempi delle pari opportunità con la rivendicazione di uno stato di giustizia sociale a partire dalle riflessioni dell’idea civile delle storiche “creare la democrazia”, del concetto di “doppia presenza” delle sociologhe italiane degli anni Settanta, attraverso le teorie della differenza sessuale di Carla Lonzi, Adriana Cavarero, Luisa Muraro giungendo fino alla biopolitica di Angela Putino.

Dalla Mozzoni (che aveva avanzato nel 1864 dodici priorità, incluse la parità retributiva e, in tema di lavoro, il problema delle molestie sessuali) in poi, il pensiero femminile si è caratterizzato per le richieste di formazione, di istruzione, di rispetto della persona e della salute, specie riproduttiva: tutte aspirazioni volte al rafforzamento della presenza nei luoghi decisionali e della rappresentanza, visibilità e valorizzazione di figure femminili, istanze che percorrono trasversalmente la storia delle donne.

Le implicazioni del sessantesimo del voto alle donne, che è 'storico' per l'ampia portata culturale che comportò, giungono a noi ad una temperatura ancora elevata. Queste tematiche sono infatti riscaldate dal bisogno di difendere un diritto così difficilmente e lungamente conquistato ma anche dal bisogno che questo diritto vada esteso, condiviso, ed attualizzato, attraverso politiche sociali, in una società globale.

L'obiettivo di riproporre la questione dei diritti dalla prospettiva della nostra attualità significa oltrepassare le tematiche femminili per acquisire orizzonti più ampi che si ispirino ad una cultura della qualità, alla prassi dell'accoglienza, ai servizi alle persone.

Così come la conquista del diritto di voto alle donne in Italia fu un atto epocale che segnò un forte rinnovamento, un allargamento dei diritti ad una categoria di persone che aveva lottato per anni con impegno e sacrificio

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difendendo la propria ‘Patria’ (perché non Matria?), resistendo contro il regime fascista e adoperandosi per la nascita della Repubblica, allo stesso modo possiamo pensare ad un’estensione della cittadinanza attiva a quei soggetti che siano in grado di esercitare i doveri della cittadinanza e il rispetto delle regole.

Infatti il rispetto dei diritti umani può essere esercitato solo se questi si conoscono, si interiorizzano. Per rispettare i diritti bisogna assumerli nella vita di ogni giorno e nel contesto sociale, politico e culturale in cui si vive. Il diritto alla vita, all'eguaglianza e alla libertà sono diritti fondamentali per la convivenza civile e democratica. I diritti sono “insaziabili divoratori di democrazia”, a volte a discapito della democrazia, a volte ridotti ad auctoritas.

In questo contesto si abbracciano percorsi assai generali: la vita è considerato come il più prezioso dei beni, la pace contrasta la guerra, i profughi conquistano una cittadinanza, la pena di morte viene combattuta, l'emarginazione sostituita con la partecipazione, la tolleranza diventa la parola chiave delle nuove relazioni sociali. Il messaggio del fondamentale rispetto dei diritti umani viene oggi riproposto con forza proprio dai Comitati per le Pari Opportunità.

Le società occidentali sono diventate complesse e nelle strategie femministe sempre più si pone l'accento su nuovi problemi di disuguaglianza quali l'immigrazione e la disabilità, la povertà, l’omosessualità, che richiedono pari opportunità. Dalle lotte per l'emancipazione contro le discriminazioni, affermando la parità tra i sessi, i movimenti di liberazione femministi sono approdati agli studi sul genere e la differenza, dalla parità alla uguaglianza delle opportunità.

Luce Irigaray scrive: «Penso che su certi punti si debba lottare per l'uguaglianza dei diritti, per far risaltare le differenze. Perché le donne e gli uomini non sono uguali e la strategia dell'uguaglianza, quando esiste, dovrebbe sempre avere come obiettivo il riconoscimento delle differenze».

Questa frase per noi è densa di significato e ci aiuta a meglio chiarire le problematiche ad essa connesse, in particolare a considerare l'uguaglianza non come un livellatore ma come una ricerca di riconoscimento attraverso il quale

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un individuo diventa, per effetto dell’azione sociale, una identità intenzionata alla convergenza, all’appartenenza che rafforza la differenza specifica. Riconoscimento è non solo riconoscere l’altro, attribuzione di reciproca identità, ma significa incontro con se stessi a partire dall’altro.

Riferimenti bibliografici AMODIO Emanuele, Differenza che passione, Milano, Editrice A, 1988. BALBO Laura, Relazione introduttiva, in Atti del Convegno Lavorare e vivere con pari

opportunità, Napoli, Mostra d’Oltremare, 2000. BEBEL August, La donna e il socialismo: la donna nel passato, nel presente, nel futuro, Roma,

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dell'oppressione femminile, Roma, Erre Emme, 1996. DEL BO BOFFINO Anna - RAVASI BELLOCCHIO Lella, Un cerchio dopo l'altro: il cambiamento

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nuova, 1989. European Equality Agent: una professione oltre il 2000, Milano, Ancompari, 1999. IRIGARAY Luce, Il tempo della differenza, Roma, Editori Riuniti, 1989. Lavorare e vivere con pari opportunità, relazione introduttiva di Laura Balbo, in Atti del

Convegno Lavorare e vivere con pari opportunità, Napoli, Mostra d'Oltremare, 2000. Le parole delle pari opportunità, Quaderno n. 2, Milano, Guerini, 2000. MANACORDA Paola, Le trasformazioni del lavorare e le nuove tecnologie, in Atti del Convegno

Lavorare e vivere con pari opportunità, Napoli, Mostra d'Oltremare, 2000. MORELLI Salvatore, La donna e la scienza, o La soluzione dell’umano problema, Brindisi, La

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lavoro, Milano, Franco Angeli, 1992. SARACENO Chiara (a cura di), Età e corso della vita. Pluralità e mutamento, Bologna, Il

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1946-2006: LE DONNE SULLA SCENA PUBBLICA •

Maria Rosaria Pelizzari

1. Le donne e la Resistenza. Nel 1945 l’Italia usciva, come tutti sappiamo, da una guerra che, accanto

alle rovine materiali, aveva portato con sé profonde lacerazioni interne. La Resistenza, oltre che lotta di liberazione nazionale, aveva avuto i caratteri di guerra civile (PAVONE, 1991; PELI, 2004). Il fascismo era sconfitto, ma la sua ombra condizionava non poco la ripresa della vita politica. La classe dirigente di tutti gli schieramenti politici era perciò impegnata in un’impresa su due fronti. Se, da una parte, appariva necessario uscire dal clima delle divisioni determinate dalla guerra, dall’altro, la costruzione della nuova Italia non poteva che fondarsi sull’antifascismo e sull’idea di un sistema democratico che avesse in sé gli anticorpi per resistere a qualsiasi tentazione autoritaria. Già durante la guerra nelle forze dell’antifascismo erano apparse chiare alcune questioni riguardanti la vita civile e politica ereditate dall’Italia prefascista (COLARIZI, 1996). Tra queste la questione femminile, che l’attiva partecipazione delle donne alla Resistenza aveva reso urgente. Il 25 ottobre 1944 si era costituito a Roma il Comitato pro voto, composto dalle rappresentanti dei movimenti femminili di tutti i partiti politici della Resistenza: partito comunista e partito socialista, democrazia cristiana, partito d’azione, partito repubblicano e partito liberale, con la Federazione Italiana Laureate e Diplomate Istituti Superiori, e l’Alleanza pro suffragio che aveva sollecitato il Comitato di Liberazione Nazionale a chiedere da subito il diritto di voto alle donne.

Va ricordato che le donne che parteciparono alla Resistenza non furono poche: senza soffermarmi sui dati e le cifre diffusi dal Comitato di Liberazione Nazionale, voglio tuttavia sottolineare che, se si pensa che il numero

• Si riproduce, con il rimando ad alcune essenziali integrazioni bibliografiche, il testo

della relazione, presentata alla giornata di studio del 22 novembre 2006.

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complessivo dei partigiani è valutato in circa 200.000 persone, le donne rappresentarono circa il 20% di essi (e la percentuale è assai più alta tra i fiancheggiatori del movimento). In realtà, ormai è pacifico che finora non sono stati ricostruiti dati statisticamente precisi sul numero dei partecipanti alla lotta partigiana. Secondo il CNL-Alta Italia le donne aderenti, a vario titolo, alla Resistenza (ma sono dati solo indicativi) furono: 75.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa, 35.000 partigiane, 4563 tra arrestate torturate e condannate, 623 fucilate e cadute, 2750 deportate, 512 Commissarie di guerra, 15 decorate con Medaglia d’oro. Il numero delle donne è nettamente inferiore (circa l’1%), fra i caduti e i fucilati perché i combattimenti di prima linea, così come le fucilazioni, coinvolgevano raramente le donne, che erano in genere tenute al riparo (COLLOTTI et al., 2001; ROCHAT, 2001; BALDISSARA, 2000).

Ci si riferisce soprattutto al Nord e al Centro, la realtà del Mezzogiorno è ancora poco conosciuta. Recenti studi tuttavia, analizzando nel Sud le specifiche realtà locali, insorte contro il nazi-fascismo, stanno facendo emergere l’attiva presenza di molte donne, che in vario modo parteciparono alla lotta impegnandosi attivamente (GRIBAUDI, 2003, 2005; CHIANESE, 2006). Va sottolineato, del resto, che solo da poco più di quindici anni gli storici della Resistenza non hanno più concentrato la loro attenzione soprattutto sull’epopea della lotta armata e della guerra di liberazione. Rivedendo, infatti, quella esperienza alla luce di nuove tematiche e facendola oggetto di mirate analisi culturali, sono stati presi in considerazione aspetti trascurati. Si è cominciato, tra l’altro, a non vedere più il ruolo delle donne nella Resistenza soltanto in una condizione ancillare, come ausiliarie che recavano appunto aiuto, assistenza, rimanendo in una posizione del tutto secondaria rispetto a quella maschile. Si è superato, insomma, il confine dell’immagine oleografica di madri e sorelle, che portavano soccorso, nonché i limiti della rappresentazione di staffette audaci e infaticabili, ma del tutto complementari e subalterne, a prescindere dalle disponibilità, dai compiti effettivamente svolti, dai rischi e dalle sofferenze affrontate (ADDIS SABA, 2005).

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Nell’immediato dopoguerra, come è stato fatto notare da più studiosi, il lungo racconto dei partigiani, in lotta contro l’invasore tedesco e contro il fascismo, veniva strutturato assumendo il linguaggio della retorica risorgimentale e nazionalista. Si rideclinavano immagini e simbologie religiose: il sacrificio, il sangue rigeneratore, il martirio, e così via. Appare evidente che si tratta di un linguaggio maschile, utilizzato, non a caso da una generazione che era stata educata fin dall’Ottocento al mito della nazione e della guerra (GIBELLI, 2005). E non a caso nella pedagogia dell’amor patrio alla donna spettava già dall’infanzia l’immedesimazione in un futuro ruolo di crocerossina, infermiera ausiliaria, a supporto del soldato eroe e martire. Non a caso quindi dall’oleografia partigiana veniva esclusa la militanza armata femminile a tutto vantaggio della subalternità e sussidarietà delle donne. In perfetta linea, ci si perdoni l’ovvia constatazione, con il ruolo di invisibilità già altre volte assegnato dalla storia alla componente femminile del genere umano.

In realtà, come è stato efficacemente rilevato, se la resistenza armata era stata maschile, si poteva solo accennare di sfuggita alla promiscuità delle bande che di fatto si era pure verificata. Erano considerati tabù alcuni aspetti che, in condizioni di assoluta eccezionalità, potevano comportare mutamenti e rotture sul piano dei costumi e delle relazioni tra i sessi. Non è un caso che le sfilate dei giorni trionfali dell’insurrezione finale, ed anche quelle che la precedettero nelle varie zone libere, riproponevano inesorabilmente l’esclusione delle partigiane. Una esclusione che accomunava tutti i comandanti, di qualsiasi colore e credo: timori e moralismi comuni spingevano sia i filo-monarchici che i garibaldini a vietare la sfilata delle partigiane. Questi ultimi, soprattutto, tenevano alla loro “rispettabilità”: il partito comunista era, infatti, particolarmente impegnato ad accreditarsi come forza rispettabile (BRAVO-BRUZZONE, 2005; PELI, 2006). Come hanno sottolineato Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, i contenuti culturali della pedagogia fascista, che enfatizzava le virtù guerriere del maschio ed esaltava la vocazione riproduttiva della femmina non erano certo crollati di botto il 25 luglio 1943. Accanto a progetti di drastico mutamento politico e sociale, continuavano le persistenze di archetipi

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e pregiudizi culturali che in seguito, per oltre venti anni ancora, né la lotta partigiana né la nuova Italia, ormai democratica e repubblicana, avrebbero messo in crisi. Si oscurava dunque la parte femminile della Resistenza armata.

Alla fine della guerra si fece di tutto perché si chiudesse il nuovo modo di essere donna e persona intravisto durante la Resistenza: ognuna doveva ritornare nella “vita normale” vestendo i panni di madre e di angelo del focolare, un focolare tuttavia in piena trasformazione con l’arrivo dei prodigi della tecnologia domestica e della modernizzazione. In quegli anni, come ricorda Sandro Bellassai, nell’Italia repubblicana i furori misogini e antifemministi dell’era fascista si mostravano sulla difensiva: di certo non erano né minoritari né poco influenti (BELLASSAI, 2006). E sin dall’immediato dopoguerra gli apocalittici difensori del privilegio maschile avevano più di una occasione per preoccuparsi. Prima fra tutte, a guerra ancora in corso, la novità del diritto di voto alle donne con il decreto luogotenenziale 1° febbraio 1945 n. 23, che incominciava a sancire il voto attivo. L’anno dopo, il 10 marzo 1946, con le norme per l’elezione della Costituente, sarebbe stato finalmente riconosciuto anche il loro diritto ad essere elette (ROSSI DORIA, 1996).

Va ricordato tuttavia che talune esclusioni continuavano: pochi ricordano che il decreto escludeva dal diritto di voto (insieme a falliti, esercenti delle case di tolleranza, ubriachi abituali, accattoni, indigenti) le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio al di fuori dei locali autorizzati”. La discriminazione delle prostitute fu abolita con la legge 7 ottobre 1947, n. 1058. Non c’è dubbio, però che, nonostante queste esclusioni, il suffragio universale approvato nel 1945 rappresenti un colpo gravissimo contro l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica. Né va dimenticato che l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948, sancisce esplicitamente, nell’articolo 3, grazie ad un emendamento presentato alla Costituente dalla senatrice Lina Merlin, la parità dei diritti politici tra uomini e donne. In questo articolo infatti si vieta, tra l’altro, ogni discriminazione di sesso.

Votando per il referendum istituzionale del 2 giugno e per l’Assemblea Costituente le donne avviarono il loro inserimento nella vita politica

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smentendo quanti erano convinti che per il diritto di voto esse non fossero mature, né preparate e che soprattutto non sarebbero andate a votare. Il diritto di voto rappresentava una prova non solo della loro volontà di partecipazione, ma anche della capacità di impegnarsi in un momento epocale della storia nazionale: il passaggio dalla dittatura alla democrazia. In quegli anni dell’immediato dopoguerra migliaia e migliaia di donne, sia come militanti “di base” che come esponenti di associazioni collaterali ai partiti, cattoliche, socialiste o comuniste, partecipavano attivamente nell’organizzazione di riunioni in parrocchia o nelle sezioni, raccoglievano fondi per le organizzazioni di massa e per i partiti, preparavano manifesti e riuscivano a tenere comizi (ANSELMI, 2006). Ciò naturalmente non significa che occupassero spazi di visibilità paragonabili a quelli dei loro colleghi e compagni di partito di sesso maschile, ma il loro attivismo partecipativo è significativo. Si pensi al quadro delineato da Fiorenza Taricone sulle origini del CIF e la mobilitazione delle donne cattoliche (TARICONE, 2001). Proprio a partire dagli anni Cinquanta si possono individuare le tracce di quei fermenti di rinnovamento che nel lungo periodo costituiscono il filo che porta alle profonde trasformazioni degli anni Settanta (PICCONE STELLA, 1993). Si elaboravano temi che sarebbero diventati centrali negli anni Sessanta e Settanta: un graduale movimento di erosione dell’asimmetria giuridica tra uomini e donne procedeva grazie all’intenso lavoro con cui la partecipazione femminile incideva sia nella società civile che nella vita politica nazionale.

Ma su questo tornerò di qui a poco; nel quadro che si è delineato sarà ora utile sottolineare alcuni aspetti che riguardano, in modo più specifico, il campo della storia della mentalità e dei cambiamenti di costume.

2. Persistenze e mutamenti.

Nonostante la censura di genere esercitata sulla memoria resistenziale, una volta usciti dalla guerra, non si poteva certo ignorare la forte presenza e mobilitazione femminile nella lotta al nazi-fascismo (GAGLIANI et al., 2000; GAGLIANI, 2006). Il periodo della resistenza al nazi-fascismo può essere

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considerato un momento periodizzante nella cronologia dell’emancipazione femminile (GUERRA, 2001). In quel momento storico tra i più drammatici della storia europea, le donne, attraverso varie modalità di incontro con la Resistenza (anche con quella che viene definita “passiva” o meglio resistenza civile e “senza armi”) conobbero un consapevole e condiviso cambiamento. Stanche della guerra, stanche di lutti e privazioni, volevano avere, in primo luogo, il diritto di sognare un avvenire migliore per se stesse e per i propri figli, ed aspiravano alla pace. Molte inoltre erano in grado di capire la differenza tra fascismo e democrazia e quindi lo combattevano in modo consapevole. Queste motivazioni, saldandosi in modo forte con i contenuti politici propri della Resistenza, riuscirono a creare un vincolo indissolubile tra emancipazione femminile e lotta di liberazione. Partendo da queste considerazioni, si può individuare uno dei punti chiave per una giusta interpretazione della partecipazione femminile. Il ruolo determinante delle donne italiane nella Resistenza parla di coinvolgimento di massa, spontaneo o anche organizzato, che marciava di pari passo con l'adesione al cambiamento in atto, inteso come riscatto sociale e progresso civile. Era una partecipazione unica (e perciò profondamente diversa dal passato), che attraversava la società femminile italiana in una nuova dimensione. Senza barriere sociali o politiche o religiose, senza limiti di età, le donne parteciparono alla vita pubblica in una nuova dimensione e con modalità uniche e quindi profondamente diverse dal passato. Era un fenomeno senza precedenti: si mettevano insieme, nonostante la diversità di formazione culturale, ideale e politica, casalinghe ed operaie, contadine e donne istruite. Da allora in poi la “questione femminile” diventava una questione di massa (SALVATI, 1998).

La costituzione dei Gruppi di difesa della donna (GDD), nell’inverno 1943-1944, univa le donne nella direzione dell’impegno per la costruzione di una società giusta e democratica. Ne facevano parte molte donne comuniste, ma anche socialiste, cattoliche, del partito d’azione e tante altre senza una precisa collocazione politica. I Gruppi di difesa della donna venivano costituiti, come si legge nelle loro dichiarazioni, per partecipare alla lotta del popolo

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italiano per salvarsi dall’estrema rovina, per affrontare la liberazione, per ricostruire il paese esaurito e rovinato dalla guerra fascista, per costruire una società nuova, ispirata agli ideali di libertà, amore e progresso. Si costituirono inizialmente a Milano alla fine del 1943, col nome di “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti”. Nell’estate del 1944 i GDD furono riconosciuti come organizzazione aderente ai CLN. Nel dopoguerra si trasformarono nell’Unione donne italiane (UDI, 1995).

La forte presenza e mobilitazione femminile nella lotta al nazi-fascismo non poteva dunque essere ignorata. Perciò l’idea di riconoscere il diritto di voto alle donne non trovò seri ostacoli in nessuno schieramento. La sinistra, dal canto suo, non poteva che dichiararsi favorevole al voto delle donne, anche se era preoccupata per l’influenza che la Chiesa cattolica esercitava su di loro, più che sugli uomini. Ma il 1° febbraio del 1945, fu proprio Palmiro Togliatti a presentare con Alcide De Gasperi la proposta di concedere il voto alle donne.

L’articolo 48 della Costituzione (nel titolo IV della Parte I, sui Rapporti politici) nel prevedere che «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età», sottolinea anche che: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». Si concludeva, dunque, con questo articolo una storia che parte da lontano: noi ne seguiremo il filo attraverso alcune tracce, le principali, per cercare ora di capire il percorso femminile verso una specifica esperienza dell’affermazione dell’individualità del soggetto: la modernità, cosa diversa dalla modernizzazione, che ha riguardato le donne come genere e ha segnato le politiche a loro destinate. Ci metteremo, quindi per grandi linee generali, sulle strade storiche delle esperienze che hanno consentito il passaggio delle donne italiane dall’«universo del destino» al «mondo della scelta» (GUERRA, 2001).

3. Le lotte per il suffragio.

All’alba del Regno d’Italia, finito il movimento risorgimentale, durante il quale non indifferente fu la presenza femminile, furono poste le basi – grazie

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alla critica di Anna Maria Mozzoni al codice Pisanelli e in seguito ai tre disegni di legge di Salvatore Morelli – per la questione dei diritti politici delle donne. In proposito va ricordato che la legge del 1866 per l’unificazione della legislazione della nuova Italia aveva privato del diritto di voto (solo amministrativo) le donne della Toscana e del Lombardo Veneto che lo avevano sino ad allora esercitato, finché erano state sotto il dominio austriaco. Morelli propose, infatti, per la prima volta il 18 giugno 1867, di modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne, e di concedere loro tutti i diritti riconosciuti ai cittadini, ma la sua proposta fu respinta dalla Camera dei Deputati. In seguito, tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, si accese una stagione caratterizzata da un dibattito molto vivo e aperto anche al dialogo tra le associazioni laiche e quelle cattoliche. Va ricordato che nel 1897 sorse il movimento femminile socialista per iniziativa di Anna Kulishoff e Argentina Altobelli. Nel 1906 con il primo Congresso Femminile Socialista si decise di sostenere con forza la battaglia per l’allargamento del suffragio elettorale anche alle donne.

Dopo la proposta del deputato Roberto Mirabelli di introdurre il suffragio universale maschile e femminile, a partire dal 1905 furono creati i Comitati pro suffragio che nel marzo del 1906 indirizzarono al Parlamento la petizione per il voto (CAPPIELLO et al., 1988; d’AMELIA, 2006). Nello stesso anno, dalle pagine de "La Vita", Maria Montessori si appellò alle donne italiane affinché si iscrivessero alle liste elettorali. L’appello fu affisso da un gruppo di studentesse sui muri e molte donne tentarono perciò di iscriversi alle liste elettorali, così come era stato fatto con successo negli Stati Uniti. Sulla stampa si scatenò un dibattito fra i fautori del voto alle donne e i contrari. Le corti di appello delle varie città respinsero però le iscrizioni; unica eccezione la corte di Ancona, dove era presidente Ludovico Mortara, ma anche questa sentenza fu annullata dalla Corte di Cassazione.

In questo quadro va sottolineata la posizione indecisa, se non del tutto ostile dei socialisti sulla questione del suffragio femminile. Nel 1910 Filippo Turati si pronunciò espressamente contro il voto alle donne nel timore che «la

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pigra coscienza politica e di classe delle masse proletarie femminili» finisse con il rafforzare le forze conservatrici. E la stessa Anna Kuliscioff, pur difendendo dalle pagine di "Critica Sociale" il suffragio femminile, al Congresso socialista del 1910 finì con il sostenere che il proletariato femminile non poteva schierarsi col femminismo delle donne borghesi. La Kuliscioff avvertiva, in realtà, il disagio della sua posizione; ne è una testimonianza quanto scriveva su "Critica Sociale", rivelando di non riuscire a spiegarsi la rigidità dei socialisti nei confronti del movimento femminile non proletario, dal momento che nei rapporti con i partiti politici borghesi, essi avevano ormai smussato «così generosamente gli spigoli della loro intransigenza» (ADDIS SABA, 1993).

Nel 1912 durante la ricchissima discussione intorno al disegno di legge sulla Riforma elettorale politica, che avrebbe istituito il suffragio universale maschile, Ernesto Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proposero un emendamento per concedere il voto anche alle donne ma Giolitti si oppose definendolo “un salto nel buio”. Egli riteneva, infatti, che il suffragio alle donne doveva essere concesso gradualmente, a partire dalle elezioni amministrative: le donne avrebbero potuto esercitare i diritti politici solo quando avessero esercitato effettivamente i diritti civili. Con la nomina quindi di un’apposita commissione per la riforma giuridica del Codice Civile, la questione fu in pratica rimandata sine die (BIGARAN, 1985).

Gli anni della Prima Guerra Mondiale vengono in genere considerati una tappa nella storia dei mutamenti dell’universo femminile. I posti di lavoro lasciati dagli uomini, richiamati al fronte, furono occupati dalle donne, nei campi e soprattutto nelle fabbriche. Apposite circolari ministeriali avevano, infatti, permesso l’impiego di manodopera femminile fino all’80% del personale nell’industria meccanica e in quella bellica, dalla quale per legge le donne erano state escluse nel 1902. Posti di lavoro che, con la fine della guerra, sarebbero stati però tolti alle donne, accusate di rubare lavoro ai reduci. È comunque ormai riconosciuta la funzione degli anni della Grande guerra come momento importante nella storia della costruzione di un’identità collettiva di genere diversa da quella codificata dalla cultura maschile. Gli anni della guerra

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avevano visto le donne protagoniste nella dimensione familiare e sul posto di lavoro, mentre mariti, figli, padri, fratelli erano al fronte. A guerra finita, il movimento delle donne, una sorta di Quinto Stato, minaccioso per il genere maschile (ormai da tempo sulle difensive), riprendeva le sue battaglie (BELLASSAI, 2004).

Nel dopoguerra riprese, infatti, il dibattito sul voto alle donne. Il neonato Partito Popolare appoggiava il suffragio femminile. Del resto, dal partito di don Luigi Sturzo ai Fasci di combattimento di Benito Mussolini, nei programmi delle nuove forze politiche era presente la promessa dell’estensione al voto (PIERONI BORTOLOTTI, 1978). Lo scenario era radicalmente cambiato rispetto al periodo precedente alla guerra, ne è un esempio l’abolizione nel 1919, anche se con notevoli limitazioni, dell’autorizzazione maritale, con la quale si concedeva alle donne almeno l’emancipazione giuridica; contestualmente, seppure limitato ad alcuni ambiti, fu consentito l’ingresso delle donne nei pubblici uffici. Erano maturi i tempi per l’approvazione del suffragio femminile: il 6 settembre del 1919 la Camera l’approvò, con 174 voti favorevoli e 55 contrari. Ma, prima che anche il Senato potesse approvarlo, le camere vennero sciolte. L’anno successivo di nuovo la legge fu approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni. In proposito, va ricordato che l’opportunità di decidersi finalmente a concedere il suffragio femminile era suggerita anche dall’annessione di Trento e Trieste, in cui le donne fino a quel momento avevano esercitato, anche se per procura, il voto amministrativo. Si riproponevano, dunque, i termini di una questione già vista al tempo dell’unione del Lombardo Veneto e della Toscana. Nel marzo del 1922, fu presentata un’ennesima proposta di legge dal deputato socialista Giuseppe Emanuele Modigliani, con un articolo unico che recitava: «le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne» (TARICONE-DE LEO, 1996). Anche questa proposta, ancora una volta, non poté essere discussa. Ormai per ottobre si preparava la Marcia su Roma.

Il fascismo avrebbe concesso il diritto di voto passivo ad alcune categorie di donne per le sole elezioni amministrative. Mussolini stesso, intervenendo a

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Roma al IX Congresso dell’Alleanza internazionale Pro-Suffragio aveva detto che il governo da lui presieduto aveva intenzione di concedere il voto amministrativo alle donne. Dopo non molto, il 9 giugno del 1923, fu presentato alle camere il progetto di legge di cui era relatore il deputato Giacomo Acerbo che concedeva il voto alle donne sopra i 25 anni (contro il limite dei 21 fissato per gli uomini), e solo ad alcune categorie: le decorate al valore militare e civile, le madri di caduti in guerra, le vedove di caduti (non risposate o concubine), quelle che esercitavano la patria potestà, quelle che avevano conseguito il diploma del corso elementare obbligatorio o superato un esame corrispondente, quelle, infine, che sapevano leggere e scrivere ed erano contribuenti di tasse comunali non inferiori alle 40 lire annue. In pratica, su 12 milioni di donne solo un milione avrebbe potuto votare.

Nel 1925 fu, infine, concesso il voto amministrativo, ma la legge non entrò mai in vigore: le leggi fascistissime degli anni 1925 – 26 introducevano ormai donne e uomini agli anni della dittatura (ADDIS SABA, 1988; GALEOTTI, 2006).

Finito il ventennio fascista, finita la guerra, la Costituzione avrebbe dunque riconosciuto l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e anche il Codice Penale. Ma su questi punti mi soffermerò, di qui a poco, nelle riflessioni conclusive.

4. Una ”conquista” che continua.

Il peso del voto femminile fu determinante: non a caso a svolgere un ruolo maggioritario nella storia repubblicana sono stati la DC e il PCI, ovvero i due partiti che avevano favorito organizzazioni proprie delle donne, e portato alla Costituente un nuovo ceto dirigente femminile. Va ricordato che il 18 aprile del ‘48 furono elette 45 donne alla Camera e 4 al Senato. Appena aperta la legislatura furono presentati due progetti di legge per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri: il primo da Teresa Noce del PCI e il secondo da Amintore Fanfani, ministro del lavoro, esponente della sinistra

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democristiana. L'impegno militante delle donne di tutte le parti politiche (molte erano mobilitate proprio per convincere, accompagnare, far andare a votare) ebbe, inoltre, una funzione decisiva nel radicare, a livello popolare, il valore del voto, il valore della scelta del cittadino, in poche parole, il valore della democrazia. In seguito, la presenza femminile negli spazi pubblici e nella sfera pubblica avrebbe accompagnato nel nostro Paese il passaggio da una società, con tratti premoderni ancora forti, ad una società modernizzata. Anni segnati dallo “scoppio” dei consumi, da un vertiginoso sviluppo dell’economia, dall’affermarsi di garanzie collettive, da un’epoca di mobilità sociale, forse unica nella nostra storia nazionale, anni del miracolo economico e della golden age, secondo l’espressione di Eric Hobsbawm. Che presentavano, in realtà, accanto allo sviluppo anche non poche contraddizioni: in entrambi gli aspetti le donne maturarono esperienze di partecipazione.

Soffermiamoci solo su alcuni punti. Nel secondo dopoguerra rimaneva in vigore il codice penale del '31, il codice Rocco, che ribadiva la subalternità della donna nei confronti dell'uomo, riconoscendo il delitto d’onore, la potestà maritale, la patria potestà. Ugualmente rimaneva in vigore lo jus corrigendi maritale, cioè il potere correttivo che comprendeva anche la "coazione fisica", da parte del marito, abolito solo nel 1956. Erano tuttavia anni segnati – sul piano simbolico – da faticose conquiste legislative. Le associazioni femminili e le donne parlamentari, si impegnarono con tenacia per un adeguamento legislativo, che, pur fra resistenze e ritardi, avrebbe in seguito consentito di raggiungere, dopo circa venti anni, almeno una parità giuridica formale, sulle questioni proprie della vita femminile: dalla legge di tutela della lavoratrice madre (1950) al divieto di licenziamento a causa di matrimonio (1962), dall’ingresso delle donne nelle giurie popolari e nei Tribunali dei minorenni (1956) alla costituzione della polizia femminile (1959). Negli anni Cinquanta nelle organizzazioni femminili, col lungo dibattito a cui le donne sono state costrette dai ritardi della cultura politica, sono circolate idee e critiche nei confronti della tradizione e del costume che hanno oltrepassato l'obiettivo legislativo in senso stretto e hanno preparato la legislazione paritaria degli anni

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sessanta, dalla parità di salario alla parità di lavoro, legata al Trattato di fondazione della CEE, fino all'accesso delle donne a tutte le professioni e soprattutto ai concorsi per entrare in magistratura (1963). A questi obiettivi si sarebbero aggiunti, negli anni Settanta, una nuova legge di tutela della donna lavoratrice (1971), l'istituzione degli Asili nido (1971), quella dei Consultori familiari (1975), oltre alla riforma del diritto di famiglia (1975) con il riconoscimento della parità dei coniugi, e alla legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (1977).

Tuttavia, come ricorda Elda Guerra, le culture politiche dei partiti, fino alla fine degli anni Sessanta, non sembrano interpretare fino in fondo questi mutamenti. Nei grandi partiti di massa le donne erano allora presenti come in una sorta di cittadinanza asimmetrica per cui il “lavoro fra le donne” rappresentava un’articolazione specifica dell’elaborazione e dell’intervento politico generale. L’associazionismo femminile, nonostante i momenti importanti e significativi di presenza sulla scena pubblica, era sempre legato alle culture politiche dominanti fortemente caratterizzate dalla visione maschile. Dal secondo dopoguerra in poi, come ho già accennato, nel parlare di partecipazione politica occorre fare riferimento in Italia al modello consociativo, caratterizzato da una profonda frattura ideologico-politica e da una società fortemente divisa sul piano dei valori e della cultura politica. Fino a quando è durato tale modello, la storia della partecipazione politica femminile si è intrecciata alla storia dei due maggiori partiti politici italiani, DC e PCI, principali fautori dell’accesso delle donne alle istituzioni politiche (DONÀ, 2006). Differenti sono invece i cambiamenti in atto nel costume e nei comportamenti che nel vissuto quotidiano si verificavano in quegli anni, e che traspaiono dal cinema, dai consumi, dalla letteratura, dalla musica giovanile (CAPUSSOTTI, 2004). Cambiamenti che matureranno ed avranno forte visibilità alla fine degli anni Sessanta con l’alleanza tra giovani donne e giovani uomini contro l’autoritarismo del mondo dei padri: dalla famiglia alla scuola. L’esperienza del Sessantotto vide, come è noto, procedere insieme ragazze e ragazzi, ma la loro alleanza doveva poi incrinarsi di fronte alla contraddizione

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di genere. Nei gruppi politici le ragazze presero infatti coscienza che ormai da “angeli del focolare” erano diventate “angeli del ciclostile”: ancora una volta veniva loro cucito addosso un abito già conosciuto e a lungo indossato. Partiva allora la riflessione che dall’esperienza del Sessantotto avrebbe portato le donne a considerare l’alterità e la differenza dei sessi (BERTILOTTI- SCATTIGNO, 2005). E proprio nell’elaborazione della differenza il movimento delle donne si distinse dal movimento del Sessantotto.

Nella seconda metà degli anni Settanta il femminismo sarebbe diventato un fenomeno sociale e politico in grado di incidere non solo sulle donne che erano più direttamente impegnate nel movimento. Si pensi a quell’importante momento di crescita individuale e collettiva rappresentato dalla grande mobilitazione delle donne che si batterono per non far abrogare il divorzio e per la liberalizzazione dell’aborto. Apparve chiaro, anche agli stessi partiti della sinistra, scesi, per paura di una sconfitta, timidamente in campo a favore della legge per il divorzio, che il Bel Paese e soprattutto le donne italiane erano cambiate. Proprio la mobilitazione per l’aborto fece da catalizzatore e da punto di aggregazione per il movimento femminista. Al centro dello scontro era in gioco la sessualità femminile, la libertà di ciascuna donna di decidere del proprio corpo e della propria vita. Nei collettivi femministi l’esperienza individuale veniva analizzata da ciascuna in un confronto speculare che consentiva condivisioni, immedesimazioni, appropriazioni, era insomma una crescita vissuta collettivamente.

Il 1978, che vide l’approvazione della legge sull’aborto, viene tuttavia considerato un termine dal quale si apre una fase di crisi e di ripensamento nei movimenti femminili. Le difficoltà di quante non riuscivano a riconoscersi negli esiti di una vittoria, che istituzionalizzava il diritto delle donne alla libera scelta della maternità, andavano ad intrecciarsi con l’emergenza del terrorismo e degli anni di piombo, che finirono per schiacciare i movimenti sociali di massa. In quegli anni il femminismo incominciò a scomparire dalla scena politica nella quale avevano gran parte la violenza e la repressione. Le donne si immergevano nel sociale e molte si incamminavano alla ricerca di una nuova

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identità collettiva attraverso itinerari personali. Erano cominciati comunque gli anni della riflessione e dello studio guidati dall’esigenza di avviare una fase di approfondimento teorico che portava le donne lontano dalla piazza. Era ormai assimilata e superata l’esperienza dei collettivi. Maturava una trasformazione epocale della coscienza e della vita di molte donne che dagli anni Sessanta si erano interrogate insieme sulla loro stessa identità, sul significato di “essere donna”, e sui contenuti dell’essere “donna completa”. Erede di quella stagione è tutto ciò che viene correntemente inteso nell’espressione “femminismo diffuso”, grazie al quale rimane ormai aperto per molte donne, insieme alla consapevolezza dei propri diritti, un grande spazio di libertà (PASSERINI, 1991, MOTTI, 2000).

La presenza oggi, nei linguaggi delle tematiche di genere, di concetti così diversi, come “parità” e “differenza” sta in fondo a testimoniare come il movimento delle donne produce o rielabora la cultura politica, propria dei femminismi che, pur rimandando ad una vicenda di lungo periodo, allo stesso tempo ha le sue radici nella crisi degli anni Settanta. In quegli anni l’esperienza femminile si intrecciava con altri movimenti legati all’appartenenza di diverse identità razziali e culturali. Da questo intreccio nascono termini come ‘genere’, ‘differenza’, ‘differenze’, ovvero questioni essenziali che hanno traghettato le donne nel nuovo millennio (ORTOLEVA, 1988; PASSERINI, 1991). Non a caso, la Società Italiana delle Storiche nel 2005 con il convegno “Nuovi femminismi, nuove ricerche”, ha avviato una riflessione sul femminismo “storico” favorendo una valutazione storica, e cercando, allo stesso tempo, di seguire un pensiero che non si è fermato agli anni Settanta, ma ha attraversato percorsi, suggestioni, in alcuni casi binari o convergenti o diversi, ma comunque tutti da esplorare (BERTILOTTI et al., 2006). Del resto è il presente che può fornire alle storiche categorie e domande con cui interrogare in modo nuovo il passato.

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PER IL SESSANTESIMO ANNIVERSARIO DEL DIRITTO DI

VOTO ALLE DONNE. SPUNTI DI RIFLESSIONE Vitulia Ivone

La ricorrenza dei 60 anni dalle elezioni del 1946 sono lo spunto per

riflettere sul tema della partecipazione femminile alla vita pubblica: nelle tappe ideali che hanno portato all’allargamento del suffragio alle donne e più in generale nella ricostruzione del cammino della cittadinanza delle donne nel nostro Paese è possibile leggere alcune linee di fondo dell’evoluzione della società civile italiana tra l’Ottocento e il Novecento dalle quali emerge la struttura di una società basata sulla distinzione di un maschile politico e di un femminile sociale.

La principale causa della persistenza dell’idea di una non completa autonomia individuale e quindi della non perfetta cittadinanza delle donne appare oggi in tutta la sua ampiezza – malgrado l’assoluta parità dei diritti – proprio nel loro rapporto non risolto con la politica. Le basse percentuali di donne elette a livello locale o nazionale sono soltanto l’effetto di un altro e ben più sostanziale presupposto logico: le attività collettive e pubbliche delle donne tendono ancora oggi ad essere qualificate come frutto di un impegno morale o sociale, ma non politico.

E siccome il diritto usa il tempo come strumento che ordina le azioni umane, l’effetto di cui si parla parte da molto lontano: esso, oltre a ragioni di tipo eminentemente storico, ha origine di tipo giuridico. La storia dell’emancipazione femminile in Italia non passa soltanto attraverso il percorso del diritto al voto, ma si evince dall’evoluzione delle norme e dai sentieri dell’ordinamento giuridico.

In base al Codice Albertino, le donne erano sotto la “tutela maritale” per l’esercizio dei diritti di proprietà. E poiché nell’800 il voto si basava sul criterio del censo, allora le donne erano automaticamente escluse dal poterlo esercitare.

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Con il codice civile del 1865 – che sanciva l’autorizzazione maritale per ogni atto di natura patrimoniale (alienazione di immobili ricevuti in dote, accensione di ipoteche, mutui, cessione o riscossione di capitali, né transazioni o partecipazioni a giudizi come parti) – si venne a cancellare persino il diritto al voto amministrativo che pure era riconosciuto in alcuni Stati pre-unitari a legislazione austriaca. Ed è del 1880 l’affermazione di Zanardelli – padre della prima codificazione penale nazionale – sul carattere maschile del voto, secondo la tradizione che vedeva la missione della donna esclusivamente finalizzata alla famiglia.

Dal punto di vista penale, l’art.486 del codice penale prevedeva una pena detentiva da 3 mesi a 2 anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo nel caso di concubinato.

Tra il 1902 e il 1907 furono approvate le prime leggi per la difesa del lavoro femminile e minorile.

Ma il lavoro femminile difficilmente veniva riconosciuto davvero come tale: quasi tutte le donne occupate nell’agricoltura non venivano riconosciute come lavoratrici, a meno che non fossero titolari di una proprietà o di un contratto di affitto. In ogni caso lo stipendio delle lavoratrici era in genere poco più della metà di quello dei lavoratori di sesso maschile. I salari più bassi delle donne venivano percepiti dagli altri lavoratori come una forma di concorrenza sleale, e quindi le prime proposte di legge cercavano di garantire un minimo salariale alle lavoratrici, anche per "mantenere sul mercato" la manodopera maschile. La legge sul lavoro femminile del 1902 finì per limitare ancora una volta i diritti delle donne: se da un lato essa concedeva quattro settimane di riposo - non pagato - alle puerpere, dall’altro vietava l’impiego di lavoratrici in alcuni lavori ritenuti "pericolosi". I lavori "pericolosi" contenuti nel decreto attuativo erano in realtà lavori ideologicamente ritenuti incompatibili con le attitudini femminili (attivazione di macchine, trattamenti di polveri e materiali "sconvenienti" o tali da richiedere una manipolazione complessa etc.). Lo Stato mostrava così di voler favorire al massimo il rientro delle donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale: la casa.

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Sul fronte dell’istruzione, venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili. Nel 1919, venne abolita l’autorizzazione maritale - pur con notevoli limitazioni - dando così alla donne almeno l’emancipazione giuridica; per la prima volta furono ammesse le donne ai pubblici uffici e alle professioni, sia pur con l’esclusione da alcuni gradi e tipi di impiego. Il 6 settembre del 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile, con 174 voti favorevoli e 55 contrari. Le camere però vennero sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla. L’anno successivo di nuovo la legge venne approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni. Dopo la parentesi del voto “Acerbo” e il periodo fascista, si giunse al codice civile del 1942 che non si discostava molto dal codice del 1865 così come il codice Rocco del 1930 confermò tutte le norme in opposizione a qualunque progetto emancipativo della donna: si assistette all’aggiunta dell’art. 587 che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia (il cd. delitto d’onore), eliminato poi soltanto nel 1981.

Il decreto del 1° gennaio 1945 sancisce l’apertura del voto alle donne, il diritto attivo e non quello passivo, cioè non la loro eleggibilità. Soltanto col decreto successivo del 10 marzo 1946 è riconosciuta la loro eleggibilità, in funzione delle elezioni che sono di là da venire.

Il diritto di voto –concretamente esercitato nel referendum sulla scelta istituzionale tra repubblica e monarchia- aveva dato il senso di una nuova libertà per le donne; tuttavia, dall’attività legislativa e dalle scelte politiche successive emerse con tutta evidenza quanto il voto femminile venisse invece considerato ancora come uno strumento per la difesa della famiglia, piuttosto che come un diritto individuale.

Basti pensare alla prima legge per la protezione delle lavoratrici dell’agosto del 1950 che parla di “tutela fisica ed economica delle lavoratrici

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madri”: come è evidente, ancora una volta il tema della tutela della “madre” si sostituisce all’obiettivo della parità salariale.

Dunque, sancita con il diritto al voto l’uguaglianza formale con l’uomo, alla pienezza dei diritti politici della donna non corrisponde però la pienezza dei diritti civili: ad esempio, permane la differente valutazione morale dei comportamenti dell’uomo e della donna; il licenziamento delle donne a seguito del matrimonio; la preclusione di alcune carriere come la magistratura e l’esercito.

E’ in questo clima che matura la nostra Carta costituzionale che all’art.3 enuncia il principio di eguaglianza oltre che in modo formale – nel senso che nessuna disparità di trattamento è da considerarsi ammissibile per le diversità nella norma citate – anche in modo sostanziale –nel senso che le istituzioni dello Stato hanno il compito e quindi il potere-dovere di rimuovere tutte quelle situazioni che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della loro personalità.

L’eguaglianza senza distinzioni di sesso è stata ribadita a livello costituzionale sia in materia di matrimonio (art. 29, co. 2), sia riguardo al rapporto di lavoro (art. 37), sia per l’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive (art. 51).

Come è noto, al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, i codici e le leggi vigenti erano ancora quelli del periodo precedente, per cui i principi stabiliti in essa non trovano immediatamente applicazione nell’ambito familiare e nella vita sociale.

Uno dei rami nel quale sarà necessario un intervento ad hoc è il diritto di famiglia la cui riforma risente della presenza, nella Costituzione, del principio di eguaglianza. Infatti, la riforma del 1975/151 ha modificato le norme riguardanti i rapporti personali e patrimoniali dei coniugi in modo che il marito non sia più istituzionalmente il capo della famiglia, acquistando entrambi i coniugi gli stessi diritti e assumendo i medesimi doveri (art. 143, co. 1°). La moglie non ha più diritto di essere mantenuta dal marito, essendo entrambi i coniugi tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia, ciascuno in relazione alle

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proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 143, comma 3°).

La riflessione di taglio giuridico del fenomeno del suffragismo femminile lascia aperta la via della comprensione del seguente assunto: rivendicare l’uguaglianza dei diritti non significa affatto perseguire una omogeneità che dimentica le differenze individuali, le specificità e il valore dell’essere donna.

Il costante e forte richiamo ai valori costituzionali non può rimanere soltanto una dichiarazione di intenti, ma deve tradursi in uno strumento di adeguamento della normativa al disegno del costituente e ciò, per quanto attiene al compito del giurista civilista, deve avvenire nel rispetto di una interpretazione complessiva volta ad individuare quale ruolo la rilevanza e la tutela del singolo valore hanno nell’ambito del sistema.

In tal senso, nel 1970 viene approvata la legge che introduce nel sistema l’istituto del divorzio e nel 1977 il Parlamento approva la legge sull’interruzione della gravidanza, cui segue la famosa legge 19 febbraio 2004, n.40 in tema di procreazione medicalmente assistita.

In materia di lavoro viene affermata la parità formale di trattamento tra uomini e donne con la legge 9 dicembre 1977, n. 903 per quanto riguarda l’accesso al lavoro, le retribuzioni, l’attribuzione di qualifiche e mansioni e la progressione nella carriera. Già con la legge 9 gennaio 1963, n.7 erano state rimosse le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi o in regolamenti, volte a prevedere la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio.

La realizzazione della parità sostanziale uomo-donna nel lavoro è altresì sancita mediante la previsione delle cosiddette azioni positive.

Appartiene alla storia più recente la discussione intorno al problema di una maggiore presenza delle donne nella politica, negli organismi elettivi e in tutti i settori della società.

Per dare piena attuazione alla parità tra uomo e donna è stata istituita nel 1984 la “Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna”, con l’obiettivo di vigilare sulla realizzazione della parità sancita dal

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testo costituzionale: si innesta in questo solco il d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 recante norme a tutela e a sostegno della maternità e della paternità, poi modificato e integrato con il d.lgs. 23 aprile 2003, n. 115.

La liberazione dalla tendenza ad identificare il principio di eguaglianza con quello della parità di trattamento - in quanto le disparità di condizioni economiche e sociali devono essere trattate in forma diversa, cioè senza parità – ha assunto negli ultimi anni un peso politico non ignorabile.

In altri termini, la differenza non va confusa con la disuguaglianza: la differenza è un dato fattuale (il fatto di avere una certa abitudine, una credenza o una preferenza affettiva), mentre la disuguaglianza è un giudizio di valore (la valutazione che una certa norma di favore o di disfavore si giustifica perché il soggetto ha quelle caratteristiche).

Il precetto costituzionale dell’eguaglianza è violato sia quando, senza giustificazione costituzionalmente rilevante, situazioni eguali vengono a subire un trattamento diverso sia quando degli individui in situazione differente e sperequata subiscono un trattamento identico.

Dunque eguaglianza non significa egualitarismo: non si può pretendere eguaglianza in ogni aspetto, a prescindere ad esempio dai meriti e dalle competenze.

Si richiede, invece, che ogni disparità di trattamento debba essere giustificata come attuazione dei principi costituzionali.

Se la parità di trattamento si giustifica in base alla logica della giustizia retributiva e della par condicio, l’eguaglianza sostanziale tende a realizzare la pari dignità sociale, rimuovendo gli ostacoli che limitano la libertà dei cittadini e operando quindi la giustizia sociale e distributiva, sebbene potremmo contestare che il profilo retributivo e quello distributivo possono anche trovare un loro punto di piena integrazione.

Già nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente si evince un largo consenso sul testo unitario presentato in sede di 1° sottocommissione da La Pira-Basso: “Gli uomini a prescindere dalla diversità di attitudini di sesso, razza, classe, opinione politica e religione sono eguali di fronte alla legge ed

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hanno diritto ad eguale trattamento sociale”: l’eguale trattamento sociale evidenzia il carattere dinamico dello Stato democratico proteso verso una maggiore eguaglianza.

In molti Paesi, tra cui l’Italia, proprio la politica e la prassi dell’eguaglianza di genere prima (in cui confluivano i problemi dei diritti delle donne e dell’emancipazione) e poi quello della differenza hanno preparato il terreno e anticipato la riflessione sul rapporto diversità ed eguaglianza nei diversi ambiti sociali e in particolari contesti organizzativi e istituzionali.

L’eguaglianza può a ben ragione essere vista ed interpretata come ricchezza di diversità, negazione di ogni appiattimento coattivo, stravolgimento in positivo di ogni disuguaglianza naturale.

La minima rappresentanza parlamentare delle donne continua ad essere la spia più evidente di una serie di problemi irrisolti non delle donne, ma della democrazia.

Ma la democrazia è contrassegnata dal suffragio universale quale suo baluardo? Comincio a persuadermi che l'era del suffragio universale stia finendo: alle ultime elezioni americane ha votato poco più del 30% dei cittadini, quindi solo un 18% ha eletto i propri rappresentanti. Fortunatamente ciò che caratterizza una democrazia non è il suffragio universale, ma la libertà di pensiero.

Non appartiene più alla schiera dei pensieri deboli affermare che la democrazia non può essere "delegata" alle istituzioni della politica perché è la società civile che costruisce e orienta la democrazia; ma per esercitare a pieno la propria funzione essa deve divenire consapevole della propria responsabilità. L'opinione pubblica deve diventare una opinione pubblica consapevole.

L'unico garante della democrazia appare insomma quel principio di responsabilità individuale, di autoresponsabilità che vuol dire dare il proprio contributo alla cosa pubblica soprattutto in termini di competenza. E la competenza prescinde dal genere, si alimenta di presenza e di approfondimento, di sensibilità e di equilibrio, di conoscenza dei problemi e di buon senso nel risolverli.

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Nelle sedi nazionali e decentrate il principio delle pari opportunità è stato accolto con un ampio consenso, ma lo iato con un effettivo riscontro nelle istituzioni rappresentative è acquisizione comune a tutti. La partecipazione in democrazia non è un bene che si attende, non è un diritto che si aspetta passivi: le leggi svolgano il loro compito perché le donne continueranno le loro battaglie.

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SEZIONE III. UNIVERSITÀ E PARI OPPORTUNITÀ

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LA POLITICA DELLE DONNE E LE POLITICHE PER LE DONNE:

IL CASO DELLA CONCILIAZIONE DEI TEMPI Mariolina Garofalo

Il tema della conciliazione dei tempi si colloca nell’ambito della crescente

rilevanza che le pari opportunità hanno assunto nel contesto europeo con la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) a partire dal 1997 e con la politica di coesione, in particolare, nella programmazione dei Fondi Strutturali 2000-2006. Tuttavia, la rilevanza del tema, in sede di dibattito politico, non va di pari passo con un consenso, in sede di riflessione teorica su natura e valore della conciliazione . Anche nel caso delle politiche di genere, si possono “, come spesso accade alle esperienze legate alle politiche pubbliche, si possono “raccontare molte storie” a seconda delle lenti che si adottano, in modo più o meno consapevole e critico, sia nella fase di contrattazione delle priorità e delle misure correttive , sia nella fase di allocazione delle risorse e di messa in campo di incentivi per promuovere e sostenere quelle priorità e misure. Pertanto, il tema della conciliazione può rappresentare l’occasione di un modo nuovo di tener conto delle disparità, della loro persistenza e del loro radicamento nel contesto economico e nella struttura sociale.

Obbiettivi e misure di conciliazione dei tempi, infatti, possono essere letti e implementati, ad esempio, o continuando a muoversi all’interno del paradigma tradizionale della scelta economica individuale o mettendo sotto scacco innanzitutto il suo scarso potere esplicativo rispetto all’articolazione reale e soggettiva non solo delle risorse e delle opportunità di accesso ai mercati sia delle donne rispetto agli uomini sia tra le donne, ma anche rispetto alla natura dei bisogni e dei desideri delle donne. Diversamente, la conciliazione dei tempi può non essere concettualizzato in sede teorica, e progettato in sede di policy, semplicemente come una misura che intende favorire schemi di riallocazione del tempo tra lavoro e cura, e che in tal modo prova a compensare

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le ineguali opportunità di scelta, imputabili a differenze di genere. Esso può, piuttosto, aprire lo spazio per una riflessione più radicale e, quindi, per una policy più innovativa tra generi, ma saltando la riflessione sulle asimmetrie di accesso ai mercati e, quindi, sulle asimmetrie di potere materiale e decisionale e sui conflitti tanto tra generi quanto all’interno del genere, tanto sui mercati e nella famiglia, quanto nella via pubblica. In tal senso, la conciliazione dei tempi può allargare e diversificare lo spettro alternative di scelta (o può aspirare a farlo!), provando a tener dentro, accanto al lavoro e alla cura, il tempo per sé e il tempo per la partecipazione, in vari modi e luoghi, alla vita collettiva.

La riflessione teorica su questo tema è, com’è noto, pluridisciplinare. Soprattutto quando, e non per caso ma intenzionalmente, prova a far attraversare ed accavallare i canonici confini disciplinari (diritto, filosofia politica, economia, storia, etica), essa si focalizza tanto sul livello individuale (ad esempio sul cambiamento delle condizioni di scelta del beneficiario di questa misura di policy) quanto sulle forme di interazione e scambio (ad esempio sulla condivisione di risorse e obbiettivi e sulla effettiva equità delle “soluzioni cooperative” nella famiglia) quanto, infine, sulle possibili implicazioni che tali cambiamenti, individuali e condivisi, possono avviare e sostenere in termini di sviluppo.

Attraverso il mainstreaming, la prospettiva di genere è stata trasversalmente introdotta in Italia in tutti gli ambiti delle politiche pubbliche sia a livello nazionale sia a livello regionale. Inoltre, particolare rilevanza al tema delle pari opportunità è conferita dalla cosiddetta anomalia del caso italiano – vale a dire, la presenza, nello stesso tempo, di un basso tasso di fecondità e di un basso tasso di partecipazione femminile, una struttura produttiva industriale caratterizzata da piccole e piccolissime dimensioni, alti differenziali produttivi territoriali con larghe fasce di economia sommersa, una tradizione neocorporativa del modello di welfare.

Rispetto a tali questioni, la maggior parte della letteratura economica disponibile è empirica e particolarmente centrata sulla condizione femminile nel mercato del lavoro. Gli studi esistenti fotografano uno scenario

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caratterizzato da discriminazione sia orizzontale che verticale e da segregazione del lavoro femminile in specifici ambiti professionali o in contesti in ritardo di sviluppo. Nell’ambito del lavoro non di mercato, ancora limitata è l’indagine sul ruolo e sul peso delle donne nei servizi di cura. Gli studi sugli esiti delle politiche sociali hanno evidenziato effetti di spiazzamento, suggerendo un approccio integrato delle policies.

Le lenti interpretative del dibattito teorico pluri-disciplinare sono essenzialmente tre categorie: (i) l’empowerment, (ii) una visione riduttiva del mainstreaming e (iii) l’insieme coordinato di regole istituzionali formali, e, in particolare, la conformità della scelta razionale degli agenti alla regola della sussidiarietà verticale. Pur perseguendo esplicitamente un obiettivo di eguaglianza formale dei generi, questo dibattito, tipico dell’approccio “gender” presuppone l’esistenza di molteplici forme di differenza tra i generi, ma assume che tale differenza non modifichi la capacità di scelta degli individui. Ne consegue che obiettivi di policy e regole istituzionali non solo risultano reciprocamente coerenti, ma mirano sostanzialmente a riequilibrare le differenze osservate. Tuttavia, l’uso di queste tre categorie non consente di raccontare tutta la storia sulle differenze di genere e sulle policies, nella specificità dei contesti in cui queste sono attuate. L’approccio gender potrebbe, paradossalmente, evidenziare che le politiche e/o gli assetti istituzionali prescelti, invece di attenuare gli squilibri tra uomini e donne, falliscono e, nel medio-lungo periodo, generano fenomeni di “trappola della povertà” (Bowles, Durlauf, Hoff, 2006).

Con riferimento alle tre suddette categorie presenti trasversalmente nel dibattito pluri-disciplinare sul tema delle pari opportunità, prende corpo un quadro di riferimento alternativo in linea con l’approccio feminist (Agarwal, 2005; Folbre, 2005; Nelson, 2005). Quest’ultimo qualifica la differenza tra individui in termini di modelli cognitivi, aspirazioni e motivazioni che possono essere valorizzati od ostacolati a seconda dei diversi sistemi di potere e di interazione tra gli agenti (ad esempio, nella famiglia, nei mercati, nella vita pubblica). Questo schema concettuale ed interpretativo parte dalla soggettività

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degli agenti alla base della razionalità delle scelte e prova a ricostruire i modelli di comportamento degli individui sia rispetto al sistema delle aspirazioni, delle motivazioni e delle finestre cognitive, sia nell’interazione con il contesto istituzionale di riferimento. Nel paradigma cognitivo della conciliazione dei tempi come scelta complessa si assume che le differenze contano; e contano sia per il miglioramento delle condizioni di benessere individuale, sia per gli effetti sul benessere della collettività. In tal senso, questo paradigma costituisce il microfondamento delle politiche integrate per lo sviluppo e, in particolare, della complementarietà istituzionale (Aoki, 2003).

In conclusione, l’idea centrale è di pensare la conciliazione non come una specifica misura delle politiche di genere secondo l’approccio prevalente soprattutto in sede europea, quanto piuttosto come una misura che può intraprendere e sostenere, a seconda dei contesti territoriali e sociali, un percorso di sviluppo. La conciliazione dei tempi può essere una politica di sviluppo nella misura, nelle forme, con le regole e i valori attraverso cui essa riesce ad essere complementare alle politiche settoriali in contesti differenti.

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I COMITATI PARI OPPORTUNITÀ UNIVERSITARI

Fiorenza Taricone*

1. Una moderna tipologia di associazionismo. I Comitati pari opportunità non possono essere storicamente compresi se

non vengono inseriti nel più generale e complesso fenomeno dell’associazionismo femminile che ha caratterizzato la società civile e politica dalla fine dell’Ottocento in poi e ne ha costituito uno dei più rilevanti aspetti modernizzatori.

Lo studio dell’associazionismo femminile tra Ottocento e Novecento, non ha purtroppo goduto dell’apporto di numerosissimi studi sia sul piano generale che su quello specifico, rispetto a contemporanei esempi di associazionismo maschile; ciò ha reso dapprima necessario ricostruirne nel corso di anni e pazienti studi, le modalità fondative e operative, per poi passare ad una fase successiva, l’attuale, che tenta di metterne in evidenza le matrici teoriche, laddove è possibile individuarle con sufficiente chiarezza1.

Istituzioni e politiche di parità: una traiettoria incompiuta. Le politiche di parità, sono state attuate in Italia anche sulla scia di

analoghi esempi internazionali2 e del ruolo trainante svolto dalla Comunità europea.

Le cosiddette affirmative actions, azioni positive arrivano in Europa negli anni ’80; la Comunità europea emette una Raccomandazione agli stati membri nel 1984, n. 85/635 nella quale si prevede la promozione di azioni positive a favore delle donne invitando gli stati membri tra cui appunto l’Italia, ad

* Presidente Nazionale Comitati Pari Opportunità Universitari. 1 I limiti entro cui è contenuto questo intervento non consentono di entrare in dettaglio,

mi permetto perciò di rimandare ai miei due lavori sull’argomento e alla bibliografia in essi contenuta: Fiorenza TARICONE, L’associazionismo femminile in Italia dall’Unità al Fascismo, Milano, Unicopli, 1996 e Teoria e prassi dell’associazionismo italiano nel XIX e XX secolo, Cassino, Edizioni dell’Università, 2003.

2 Fiorenza TARICONE, Una svolta decisiva: le politiche di pari opportunità, in Donne, politica e Istituzioni. Percorso formativo all’Università di Cassino (2005-2006), EADEM (a cura di), Minturno, Caramanica, 2006.

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adottare provvedimenti intesi a “eliminare la disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella vita lavorativa e a promuovere l’occupazione mista con la finalità di:

a) eliminare o compensare gli effetti negativi derivati per le donne che lavorano o ricercano un lavoro, da atteggiamenti, comportamenti e strutture basati su una divisione tradizionale dei ruoli all’interno della società, tra uomini e donne;

b) incoraggiare la partecipazione delle donne alle varie attività nei settori della vita lavorativa nei quali esse siano attualmente sotto rappresentate in particolare nei settori d’avvenire, e ai livelli superiori di responsabilità per ottenere una migliore utilizzazione di tutte le risorse umane. In altri termini- con l’intento di realizzare una effettiva parità dei diritti delle donne nella vita professionale- si sollecitavano gli stati membri ad adottare delle misure promozionali, finalizzate a conseguire una eguaglianza di opportunità per le donne tanto nell’accesso al lavoro quanto nello svolgimento di un’attività professionale”3.

L’Italia la applica nel ’91 con la legge n.125 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo- donna, ma la loro sperimentazione era già iniziata. L’azione positiva secondo la definizione datane dal Comitato per l’uguaglianza fra uomo e donna del Consiglio d’Europa, è “una strategia destinata a stabilire l’uguaglianza delle opportunità grazie a misure che permettono di contrastare o correggere discriminazioni che sono il risultato di pratiche o sistemi sociali”. La legge la descrive come una misura che rimuove gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. Anche nella recentissima carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, del dicembre 2000 al capo III art. 23 si recita che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.

Le azioni positive sono promosse da organismi nel mondo del lavoro: il Comitato nazionale presso il Ministero del lavoro, i Comitati aziendali di enti o

3 Maria Luisa DE CRISTOFARO, Il lavoro delle donne dalla protezione alla pari opportunità, in Gli studi sulle donne nelle Università: ricerca e trasformazione del sapere, a cura di Ginevra CONTI ODORISIO, Napoli, Esi, 1988, p.142.

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settore, le consigliere di parità, e da organismi nella società e nelle istituzioni: la Commissione Nazionale, le Commissioni negli enti locali, Comuni, Province, Regioni, il Ministero della Parità. E’ questo tessuto associativo-politico che rappresenta agli occhi di chi scrive il frutto più moderno e tattico delle strategie teoriche ed operative dell’associazionismo femminile emancipazionista e femminista.

Le consigliere di parità, istituite con due leggi nel 1984, sono pubblici ufficiali con esperienza e competenza tecnica in tema di p.o. da almeno tre anni; quelle provinciali sono competenti per tutta la provincia, hanno sede presso l’ufficio di collocamento, le regionali intervengono anche davanti al Tar su delega delle lavoratrici, le nazionali hanno competenza su tutto il territorio e risiedono presso il Comitato Nazionale di parità, Ministero del lavoro. Il decreto legislativo n.196 del 23 maggio 2000 la cosiddetta “nuova 125” ha potenziato le funzioni delle consigliere di parità, ampliando il ruolo in giudizio, istituendo un fondo di 20 miliardi finanziato dal Ministero del lavoro, creando la rete nazionale delle consigliere.

Le discriminazioni possono essere dirette: assunzioni rivolte a soli uomini, mancata assunzione delle donne sposate, licenziamento delle donne in attesa, assegnazione delle mansioni; indirette: selezione, carriera, formazione, assunzioni nominative per soli uomini, mancanza di servizi.

Tra gli obiettivi minimi, aumentare la partecipazione delle donne alla vita politica e alla cooperazione internazionale, chiedendo ai governi le pari opportunità d’accesso ai servizi sociali, all’insegnamento, alla formazione professionale e tecnica, la parità nel matrimonio, nella nazionalità, nel commercio.

Negli anni ’80 quindi, in applicazione delle direttive ONU e dell’ UE, l’Italia avvia politiche istituzionali di pari opportunità con la nascita nell’ ’83 del Comitato nazionale della Parità presso il Ministero del lavoro e della Presidenza Sociale, e l’anno successivo della Commissione Nazionale Parità, nell’’88 della Sezione per la parità sempre nell’ambito della Commissione presso Palazzo Chigi per il controllo dei flussi di spesa con funzioni di

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Osservatorio del Pubblico Impiego-Dipartimento della Funzione Pubblica, e del Comitato Nazionale per le Pari Opportunità presso il Ministero della Pubblica Istruzione nell’ ’89; sono presenti in quasi tutte le Regioni le Commissioni e Consulte regionali, la Consigliera Nazionale di Parità, e le Consigliere regionali e provinciali4.

Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità fra lavoratori e lavoratrici, istituito in base alla legge n. 125 del 10 aprile 1991 presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale; le Consigliere di parità, a vari livelli territoriali, a seguito della legge 125/91, che promuovono azioni in giudizio contro le discriminazioni; il Comitato per l’imprenditorialità femminile presso il Ministero dell’Industria nel ’92, i Comitati paritetici per le pari opportunità previsti da tutti i contratti collettivi nei vari settori della Pubblica Amministrazione nel ’93. A questi possiamo aggiungere nelle Università le recenti Delegate dal rettore per le tematiche della Pari Opportunità5.

Nel ’96, in attuazione degli impegni assunti a Pechino, e degli obiettivi europei del IV programma di Azione comunitaria a medio termine per le pari opportunità per le donne e per gli uomini (1996-2000), il governo italiano presieduto da Prodi, nominava la Ministra per le Pari Opportunità, Anna Finocchiaro, sollecitato dalla stessa Commissione Nazionale, che più di una volta aveva sottolineato la necessità di una presenza femminile nel governo, rispetto alla funzione solo consultiva svolta dalla commissione. Infine, nel ’97 è stato istituito il Dipartimento per le Pari Opportunità quale struttura amministrativa di supporto per il lavoro della Ministra.

4 Si veda Maria Luisa DE CRISTOFARO, Le commissioni per le pari opportunità in Italia ed in alcune esperienze straniere, in «Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale», a. XL, fasc. 2-3, 1989.

5 Si nota anche in questo caso quanto era già stato osservato per la storia delle donne: la diversa cronologia rispetto a quella tradizionale e i diversi significati per quella più canonica. Gli anni Ottanta hanno finora goduto di una considerazione piuttosto negativa, è stato sottolineato il valore negativo del cosiddetto rampantismo, la crisi delle istituzioni e del sistema politico. Per quello che riguarda invece le realizzazioni in materia di pari opportunità, l’interpretazione va ribaltata. Si veda Agata Alma CAPPIELLO, Infrangere il tetto di vetro. Quindici anni di politica per le donne, Roma, Koiné, 1999.

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2. Comitati Pari Opportunità universitari: istruzione e lavoro, diritti in bilico. Un recente esempio di connubio fra logica associativa ispirata alle azioni

positive e riconoscimento istituzionale sono i Comitati di Pari Opportunità all’interno delle Università. Anch’essi presenti a macchia di leopardo negli atenei italiani, non sono stati attivati dappertutto; in alcuni è talvolta presente la sola delegata del Rettore per le pari opportunità; per quanto prestigiosa possa essere la persona incaricata, essa non può svolgere da sola un compito che per definizione dovrebbe essere plurale; gli organismi infatti attivati nelle Università sono in genere misti, cioè sia di natura elettiva che di nomina del Rettore e rappresentano sia i docenti che gli amministrativi e gli studenti.

Ritengo che in essi si possano giocare delle poste di fondamentale importanza: la verifica della trasversalità di genere nel campo delle azioni positive, ossia l’adozione di misure concrete per la correzione di discriminazioni o impedimenti che accomunano il genere al di là delle qualifiche lavorative specifiche; nei comitati infatti si incontrano tre componenti universitarie che finora si sono intersecate solo tangenzialmente, i/le docenti, i/le tecnici amministrativi, contrattualizzati a differenza dei docenti, i/le studenti, che hanno un rapporto con una parte di quest’ultimi finalizzato alle sole questioni amministrative e che assorbono dai primi invece un contenuto formativo che dovrebbe essere il più completo e largo possibile per quarto riguarda le discipline di genere poiché nel loro futuro, a contatto con professioni specifiche non avrebbero più la possibilità di venirne a conoscenza e che invece dovrebbe costituire una sorta di lievito di base per il loro impatto nella società civile e politica. Un ripensamento dei curricula darebbe seguito anche alla istituzionalizzazione delle discipline di genere non limitata alle sole facoltà umanistiche; la possibilità infatti di introdurre nuove tematiche si è resa possibile in Italia grazie alla riforma universitaria Berlinguer, dopo il 1995, sotto l’ombrello accademico del raggruppamento di Storia Contemporanea. Da allora, si sono moltiplicati anche masters e dottorati cosiddetti di genere, ma in un’ottica volontaristica legata alle buone volontà individuali, alle singole forze

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contrattuali e non all’interno di un ripensamento globale su una offerta qualitativamente democratica per i due sessi.

In secondo luogo, i Comitati effettivamente funzionanti consentirebbero l’intervento sulla formazione delle più giovani generazioni cointeressandoli alla gestione concreta di iniziative destinate alla sensibilizzazione delle coetanee e coetanei su queste tematiche; sia, infine, spaziare sui territori delle future realtà lavorative femminili, per esempio quelle collegate alla micro e piccola imprenditorialità femminile, la quale spesso, nasce da buone intuizioni, ma è deficitaria nella formazione di base, poiché in pochissime facoltà si fornisce la conoscenza di base per poter elaborare progetti propri6.

Dal 1998 al 2006 ha avuto un ruolo teorico-gestionale per i Comitati di Pari Opportunità universitari il Coordinamento nazionale degli stessi CPO, avviato a seguito di un Convegno svoltosi a Parma nell’aprile del ’98 al quale era seguita la costituzione formale della rete mediante la sottoscrizione di un atto costitutivo-statuto a Genova durante il I Convegno Nazionale dei Comitati Pari Opportunità delle Università7.

Il Coordinamento ha cercato fin dagli inizi un collegamento con le istituzioni più politicamente rappresentative per gli scopi di questo organismo, il Ministero per le Pari Opportunità, nella persona dell’allora Ministra Katia Belillo, alla quale nel 2001 la Presidente del Coordinamento Nazionale, Rita Tanzi esprimeva l’esigenza che l’organismo, l’unico nazionale costituito e dotato di Statuto di un comparto della Pubblica Amministrazione fosse riconosciuto come soggetto istituzionale attraverso un Decreto ministeriale che configurasse la creazione della Conferenza Permanente dei Comitati Pari

6 Per un approfondimento, si possono leggere gli Atti sul 3° Convegno nazionale dei

Comitati Pari Opportunità delle Università italiane, (Padova 15-17 giugno 2000), Padova, Cleup, 2002.

7 A seguire, sempre a Parma, si era svolta una prima riunione della Presidenza e della Segreteria del Coordinamento e a Palermo, nel giugno del 2000 un secondo convegno nazionale. Nel 2000 si è svolto il III Convegno a Padova, nel 2001 il IV a Torino e nel 2003 il V a Sassari. Tra un Convegno e l’altro si erano svolti numerosi incontri del Coordinamento o parte di esso in diverse città italiane: Palermo, Roma, Brescia, Genova, Padova, Pavia, Bari, Roma. Sull’Atto costitutivo si vedano gli Atti del 3° Convegno nazionale dei Comitati Pari Opportunità delle Università italiane, a cura di Lorenza PERINI, Padova, Cleup, 2000.

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Opportunità delle Università italiane, in analogia con la Conferenza dei Rettori e la Conferenza dei Dirigenti Amministrativi.

Nel 2003 il Coordinamento nazionale elaborava le Linee Guida di un Regolamento unico per i Comitati Pari Opportunità, che ne definiva i compiti: promuovere la realizzazione di azioni positive da parte dell’Ateneo per garantire le pari opportunità nel lavoro e nello studio, in sintonia con le politiche europee in materia, la direttiva del Consiglio dei Ministri del 7 marzo 1997 Azioni volte a promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini, e con la legge 125/91, sulle azioni positive.

Il Comitato individuava quindi le forme di discriminazione, dirette o indirette che ostacolavano le pari opportunità nell’ambito delle attività di lavoro e di studio delle tre componenti universitarie, docenti, personale tecnico amministrativo, e componente studentesca, facendosi promotore delle iniziative necessarie alla loro rimozione8. Al Comitato dovevano essere garantiti la sede, le attrezzature necessarie, il supporto di collaboratrici, esperte e personale dedicato, un budget idoneo da definirsi annualmente attraverso la predisposizione di un apposito capitolo di bilancio. Il Comitato poteva anche sottoporre all’approvazione del Consiglio di Amministrazione propri progetti di attività e richiedere specifici finanziamenti, ma anche ricevere fondi da enti esterni e proporre un gettone di presenza per le/i componenti, di entità non inferiore a quella prevista per le/i componenti degli altri organi centrali dell’Ateneo.

8 Al Comitato competeva quindi per esempio: formulare Piani di azione positiva

triennali, formalmente approvati dal Senato Accademico e dal Consiglio di Amministrazione. Avanzare proposte in ordine ai criteri e alle modalità riguardanti l’accesso, la progressione di carriera, le figure professionali, l’attribuzione di incarichi e responsabilità, l’assegnazione alle strutture, la mobilità, le mansioni, la formazione e l’aggiornamento professionale, la ripartizione del salario accessorio, gli orari di lavoro del personale, dei servizi all’utenza, gli interventi di organizzazione e ristrutturazione dell’ente, nonché ogni altra materia che secondo il Comitato riguardi la condizione delle lavoratrici e delle studentesse dell’ateneo. Il Comitato ha quindi diritto di accesso a tutte le informazioni e i documenti amministrativi necessari all’espletamento delle proprie attività, anche in analogia a quanto previsto dall’art. 9 della legge 125/91.

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Nel 2003 un primo censimento nazionale rilevava che su 77 università solo 35 avevano un comitato, 3 erano congelati. Inoltre, erano pochissime quelle dotate di un organismo veramente funzionante, in grado di agire come soggetto antidiscriminatorio nei confronti della popolazione dell’Ateneo. Sono dati significativi se associati ad un altro: in nessun Comitato è stato applicato lo standard minimo, il cosiddetto kit stabilito dal Coordinamento nazionale: comitato elettivo con pariteticità delle tre componenti, attività riconosciuta a tutti gli effetti, persona dedicata, sede, ampia autonomia, budget, configurazione di centro di spesa, partecipazione alla negoziazione decentrata come soggetto terzo, inserimento nello Statuto di Ateneo, partecipazione agli organi, regolamento e pagina web.

Benché le Università siano obbligate ad istituire i Comitati Pari Opportunità l’effettività della loro azione è determinata da molteplici fattori quali ad esempio un background culturale, specificamente segnato da esperienze di genere, una sensibilità nei confronti delle problematiche relative al mondo del lavoro, in particolare al lavoro delle donne, la possibilità di usufruire di una serie di strumenti che rendano attivo il Comitato.

Proseguendo nei tentativi di interlocuzione con le istituzioni, quali il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Crui e il Ministero Pari Opportunità il Coordinamento consegnava nel novembre del 2004 un documento stilato da Grazia Morra al Dipartimento Politiche di pari opportunità, che aveva individuato quattro problematiche di percorso emerse dal confronto con gli altri Comitati di Ente. Le Università hanno infatti comitati diversi fra loro a seconda degli Statuti e delle scelte operate in autonomia e di conseguenza con bisogni specifici non sempre coincidenti con gli altri Comitati. Nel documento si legge che “l’esigenza di una struttura che collegasse i Comitati con il Dipartimento, senz’altro confermiamo la necessità di una interlocuzione, non necessariamente di una struttura burocratica, piuttosto di un canale, da una parte d’ascolto, dall’altra di intervento e di risposta ai nostri bisogni […] Il secondo aspetto considerato, quello relativo alla carenza di mezzi finanziari, di strutture e di

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risorse umane, è senz’altro un problema per tutti gli organismi di parità ai quali vengono affidati compiti enormi senza mettere loro a disposizione i mezzi per l’espletamento del mandato.

Noi ci aspettiamo che il Dipartimento sposi il nostro progetto nazionale e lavori insieme a noi e alla diffusione delle azioni, indicandoci le forme di finanziamento alle quali potremmo accedere. Viste le difficoltà esistenti in molte università, abbiamo cominciato a discutere la proposta di una somma vincolata da richiedere al Miur all’interno del Fondo di funzionamento ordinario, per il finanziamento dei Comitati pari opportunità applicando così pienamente quanto previsto dall’art. 57 del D. Lgs. 165/2001”.

Il Dipartimento Pari Opportunità si era detto disponibile ad aiutare questo processo, avviando da parte del Coordinamento una relazione strutturata fra il Dipartimento e la rete, costituita in associazione, punto di contatto fra il Ministero Pari Opportunità e le Università.

Nel novembre del 2005 durante il VI Convegno Nazionale Coordinamento dei Comitati Pari Opportunità, si procedeva all’approvazione dello Statuto che trasformava il Coordinamento stesso in Associazione, epilogo di un lungo lavorio, con l’elezione di un consiglio di gestione e di una rappresentante pro-tempore. Infine nell’ottobre del 2006, nella giornata conclusiva del VII Convegno Nazionale a Siena, realizzato grazie all’aiuto dell’Università di Siena e di Siena stranieri, l’Associazione eleggeva i suoi organi interni, Presidente, il Comitato tecnico- scientifico, il Consiglio di gestione, il Collegio di controllo, le Coordinatrici di settore, una segretaria e una tesoriera.

Nel nuovo cammino in veste associativa, unitamente ai contatti con il Ministero e il Dipartimento Pari Opportunità, l’Associazione riprendeva quelli già avuti in precedenza con la Crui. Al Comitato di Presidenza, l’Associazione, rappresentata dalla sottoscritta nella veste di Presidente, sottolineava nell’ottobre 2006 la continuità d’intenti con il precedente Coordinamento; in particolare, la richiesta di interazione con la Crui, formalizzata in Statuto anche attraverso la presenza del Presidente Crui o suo delegato, nel Comitato Tecnico scientifico dell’Associazione era volta a garantire nel modo più trasparente ed

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efficiente il conseguimento degli scopi dell’Associazione, mantenendo un utile flusso di informazioni tra le Università per fornire nella più leale e proficua collaborazione indirizzi di base relativi alle politiche di pari opportunità comuni nel sistema universitario italiano. Ciò anche sulla base della normativa vigente che prevede da parte delle Università l’istituzione di Comitati per le pari opportunità (D.P.R. 567/1987, art. 17), la promozione di azioni positive (Legge n. 125/91) le pari opportunità nell’accesso al lavoro e nel trattamento sul luogo di lavoro (D. lgs. n. 29/93 artt. 7 e 61 e D. lgs. 165/2001, art. 57) il riequilibrio della presenza femminile e della relativa sottorappresentanza con l’obbligo di predisporre un Piano triennale di Azioni positive (D. lgs. 196/2000) per garantire in definitiva la più compiuta applicazione del dettato costituzionale in tema di parità (artt. 3 e 51 Cost.). Nel momento in cui il presente saggio va in stampa, sarà in discussione nel mese di marzo 2007 al Comitato di Presidenza della Crui il Protocollo d’intesa presentato dall’Associazione che prevede tra i punti qualificanti il censimento curato dall’Associazione stessa sui Comitati di parità effettivamente esistenti negli atenei italiani, la loro operatività, la conformità rispetto ad un minimo di requisiti, nonché un convegno nazionale che faccia il punto della situazione previsto nella seconda metà del 2007, anno europeo delle pari opportunità.

Analogamente è stato proposto un Protocollo d’intesa alla Consigliera Nazionale di Parità, sottoposto all’esame della rete nazionale delle e dei Consiglieri di parità, siglato nell’aprile del 2007.

Negli ultimi mesi invece per quanto riguarda l’interlocuzione con il Ministero per i diritti e le pari opportunità è stata presentata alla Ministra Barbara Pollastrini e alla Capo Dipartimento Pari Opportunità, dott.ssa Silvia Della Monica, una richiesta di istituzione di una Conferenza permanente che dia la possibilità all’Associazione di confrontarsi per le problematiche di competenza con la Ministra per i Diritti e le Pari Opportunità, il Ministro dell’Università e della ricerca, il Ministro del Lavoro, il Presidente della Conferenza dei rettori ed eventualmente con altri Ministri competenti in relazione agli argomenti in discussione, per un coinvolgimento in una politica

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comune tutti gli organismi presenti nel territorio con il necessario riferimento all’indirizzo di Governo.

L’Associazione inoltre, termina la proposta, sottolinea la propria intenzione di avvalersi degli strumenti offerti dai media per la diffusione negli Atenei italiani di una sensibilità rispetto alle diverse problematiche di genere e per un più compiuto radicamento nel tessuto sociale e civile della conoscenza delle politiche di pari opportunità e dei vantaggi ad esse connessi.

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LE PARI OPPORTUNITÀ TRA STUDENTI A SALERNO

Giuseppina Papa*

1. L’evento e la platea. La Commissione Pari Opportunità dell’Università di Salerno ha

organizzato, nell’anno in cui ricorre il sessantesimo della conquista del voto alle donne, un evento per ricostruire il percorso che ha consentito l’affermarsi di questo diritto, con un occhio volto a quello che sarà il futuro.

Infatti è significativo il nome dato alla giornata di studio Sessanta anni di voto alle donne: una conquista che continua…, fortemente rappresentativo del taglio dato all’evento, che intendeva coinvolgere le diverse generazioni: chi ha vissuto più da vicino questa conquista e chi l’ha percepita solo come un’eco lontana.

L’Università di Salerno ha in realtà al suo attivo diversi eventi sulle tematiche femminili; in questo ultimo, tuttavia, è stato molto interessante riscontrare la nota interdisciplinare e la capacità degli organizzatori nel rendere la comunicazione dei contenuti lineare e allo stesso tempo sfaccettata.

La commissione ha curato la somministrazione, tra i partecipanti all’evento, di un questionario anonimo, per monitorare la conoscenza sulle problematiche delle pari opportunità tra studenti universitari a Salerno.

Questo strumento è stato accolto con curiosità ed interesse, permettendo di evidenziare il punto di vista soggettivo dei partecipanti, su diverse tematiche femminili, non solo dal punto di vista storico-istituzionale, ma anche formativo inerente le azioni positive.

La platea si è presentata in modo molto eterogeneo, per una grande maggioranza composta da donne, con età diverse e appartenenti a diversi percorsi esperenziali e formativi, una esigua minoranza composta da uomini,

* Laureata in sociologia. Ha partecipato come studentessa dell’Università di Salerno al VII

Congresso Nazionale dei Comitati Pari Opportunità Universitari, Siena, 5/7 ottobre 2006.

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per lo più di età superiore ai 35 anni, formata da professori, politici e … molti curiosi.

Dei questionari distribuiti, è stata riconsegnata soltanto meno della metà compilata; partendo da questi si è costruito un campione di riferimento.

Il campione si presenta così composto: 31 unità, di cui 30 donne e un caso di risposta non effettuata, per quanto riguarda il sesso dell’intervistato/a. Questo dato può essere interpretato in due diversi modi: o sbadataggine oppure un uomo che non ha voluto “firmarsi”, tra tante donne.

Occorre sicuramente distinguere all’interno del campione differenti fasce di età, che vanno a sottolineare delle linee di demarcazione, afferenti a retroterra generazionali profondamente differenti, soprattutto sul grado di consapevolezza del ruolo femminile e della sua affermazione nell’evoluzione storica.

Grafico 1

L’affluenza in relazione alle fasce d’età. Anno di nascita

A ben osservare si potrà notare che il campione è scarsamente omogeneo

per quanto riguarda le fasce d’età. Vi è, infatti, una notevole affluenza di giovani donne: quasi il 70% dell’intero campione, sotto i trenta anni (come si può notare dal grafico sommando V4, V3 e V2, dove V4 rappresenta la fascia d’età dal 1985 al 1987, V3 dal 1980 al 1985, V2 dal 1970 al 1980).

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Questo dato è fondamentale nella lettura del questionario, vi sono due aspetti da sottolineare: in primo luogo, si è registrata una buona affluenza, che in altre situazioni si è dimostrata spesso sporadica e occasionale; l’altro aspetto è più problematico, infatti, è emersa una quantità di informazioni e commenti molto distanti da quella che è la realtà dei diritti e della condizione femminile.

2. Il questionario.

La scelta del questionario, per tastare il polso dei partecipanti sulle Pari Opportunità, credo che si sia rivelata molto proficua, sicuramente da migliorare, ma questo è implicito, come è noto, nella natura stessa di questo strumento, che spesso può far cadere in ambiguità di lettura sia nella codifica dei dati, sia nella compilazione da parte degli intervistati.

Il questionario è composto da poche e mirate domande. Questa scelta metodologica non solo limita gli errori sopra citati, ma non annoia e distrae l’intervistato dall’obiettivo preposto; per questi motivi, ritengo sia stata una scelta oculata.

Il questionario si snoda lungo quattro sezioni: la prima è la parte dei dati anagrafici, la seconda riguarda la valutazione dell’evento, la terza è volta a capire il significato che oggi ha il diritto di voto e più in generale le pari opportunità, in fine l’ultima sezione è relativa al suggerimento su quelle che possono essere le azioni positive che il comitato può realizzare nel futuro.

La maggior parte delle domande sono a risposta aperta, proprio per consentire una grande possibilità di espressione del punto di vista soggettivo, per far emergere una possibilità di dibattito futuro sui dati emersi.

La prima parte, riguardante le fasce d’età, è stata già illustrata nel grafico 1, mentre per quanto riguarda la seconda, afferente la valutazione dell’evento, e in particolare la comunicazione dell’evento, si può dire che più della metà del campione ne è venuto a conoscenza grazie ai propri professori e tutor, circa un terzo mediante i volantini e il passaparola, e una piccola parte del campione (circa 1/6) direttamente dalle organizzatrici.

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Per la parte vera e propria della valutazione si può vedere, dal grafico 2, che l’evento è stato più che sufficientemente apprezzato dalla platea.

Grafico 2

Grado dell’interesse per la giornata di studio.

Numero di persone

Infatti, riunendo i dati su quattro variabili (sì, molto, sufficiente e astenuti),

si può notare che la maggioranza del campione (le prime due colonne da sinistra, in tutto 28 unità) ha ritenuto l’evento di suo interesse.

Nella terza parte si è cercato di mettere in luce l’importanza rivestita dal diritto di voto e la sua attualità.

Alla domanda su quali siano i vantaggi acquisiti con il diritto di voto, più del 50% del campione, ha sottolineato il diritto di poter scegliere i propri rappresentanti, la frase ricorrente è: “avere voce in capitolo”, mentre solo pochissime hanno espresso la possibilità delle donne di poter essere elette, che il diritto/dovere di voto sia uno strumento di parità per poter partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e morale di un paese, e non solo della sfera politica come elettrici.

Altro dato sostanziale è quello relativo ad una domanda che ha suscitato una buona varietà di risposte, mi riferisco alla domanda sulle Pari Opportunità.

La domanda è stata così formulata: “Ha sicuramente sentito parlare di Pari Opportunità, ma quale significato ha per lei?”, le più giovani sono andate

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0

5

10

15

20

si no a volte astenute

1981-1985

1940-1980

leggermente in confusione, molte di loro non sapevano neppure lontanamente che cosa questa parola, ai loro occhi misteriosa, sottintendesse.

Pur considerando che molti hanno “scopiazzato”, come si fa nei compiti in classe, il significato per la maggioranza delle giovani donne è “poter svolgere il lavoro che prima svolgevano gli uomini”, altre hanno “confuso” le Pari Opportunità con il diritto di voto e in fine la risposta che più mi ha colpito, recita così: “In passato il termine pari opportunità era legato al sesso oggi anche ad altro in particolar modo alle razze e alle religioni”; sarebbe davvero significativo se fosse così, ma nella realtà che viviamo questa è una affermazione un po’ azzardata.

Sono presenti nei dati raccolti delle discordanze, infatti, emerge chiaramente che la maggioranza del campione ritiene che vi sia un linguaggio sessista, logoro e obsoleto, e che esista la molestia morale, anzi alcune di loro ritengono di esservi sottoposte continuamente.

Grafico 3

Percezione del linguaggio e fasce d’età. Numero di persone Vi è un linguaggio sessista?

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Ricordando che il grafico racchiude la somma del campione, al suo interno

ho diviso il campione in due parti, aiutandomi con il grafico 1, tra le più giovani e le più mature: sopra e sotto i trenta anni.

Sia la maggioranza delle giovani donne (rappresentate dal colore più chiaro), sia delle più grandi (colore più scuro), ritengono che vi sia sempre un linguaggio sessista, a prescindere dai contesti; ma vi è una distinzione da fare tra le giovani e le più mature.

Infatti, se le donne più grandi sono state più compatte nell’affermare la presenza di questo tipo di linguaggio, le più giovani mostrano una percentuale meno netta e alcune ritengono che non vi sia affatto un linguaggio sessista oppure che ci sia ma che vari e si presenti a seconda dei contesti. Malgrado ciò nel momento in cui si è chiesto di ordinare, secondo l’importanza, le discriminazioni presenti nel nostro paese, le discriminazioni di genere sono state collocate al terzo posto (per un solo punto in più) seguite dalle discriminazioni a carattere religioso, mentre al primo e al secondo posto, rispettivamente, vi sono le razze e le classi sociali.

Non ritengo che i dati ottenuti, in relazione al grado di discriminazione, siano totalmente attendibili. Infatti la domanda è stata formulata in modo ambiguo, non precisando se l’ordine fosse crescente o decrescente, ma poiché molte di loro hanno sottolineato la loro “classifica” aggiungendo dei commenti, sono riuscita a decodificare i dati.

Il punteggio attribuito alle quattro discriminazioni, variava da un minimo di un punto ad un massimo di 4, quindi, poiché il campione è di 31 unità, il minimo punteggio, che una singola discriminazione poteva ottenere era 31, fino ad un massimo di 124 (4x31).

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Grafico 4

La valutazione della platea sul grado delle discriminazioni oggi. Punteggio attribuito

Si può dedurre, che per quanto riguarda la parte più matura del campione,

una piena consapevolezza della difficoltà di essere donna, e di come i diritti acquisiti siano solo un passaggio per acquisirne di nuovi, su un terreno non del tutto fertile e pronto ad accogliere Pari Opportunità, valorizzazione del percorso formativo e del bagaglio umano di chiunque.

Credo che questa sostanziale spaccatura del campione, sia dovuta alla maggiore quantità di esperienze e di conoscenze accumulate, occorre però, in un certo senso correre ai ripari.

Infatti le giovani donne intervistate sembrano del tutto sprovviste di questa conoscenza, ma allo stesso tempo mostrano il desiderio di apprendere soprattutto tramite le testimonianze di donne più adulte.

3. Verso le conclusioni: le azioni positive.

In un luogo come l’Università si può e si deve fare formazione e informazione, per evitare di ‘sfornare’ giovani donne inesperte ed estranee al mondo, sia lavorativo che familiare, che le attende.

In relazione a questo aspetto, nella parte finale del questionario vi era l’invito a selezionare due azioni, tra quelle più urgenti da realizzare all’interno

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del campus, ad opera della Commissione Pari Opportunità dell’Università di Salerno.

Gli interventi sono stati così raggruppati: - Realizzazione di servizi di conciliazione per l’infanzia (indicato con

la lettera A). - Organizzazione di un archivio di documentazione di studi di

genere, utili per lavori di ricerca, alfabetizzazione informatica (indicato con la lettera B).

- Riduzione del disagio sociale e lavorativo: prevenzione sanitaria per le donne (screening, consultorio, etc) “messa in sicurezza” dell’ateneo,organizzazione di un corso di difesa personale (indicato con la lettera C).

- Percorsi formativi: approccio storico, giuridico, politico sulle problematiche femminili e di genere (indicato con la lettera D). Il punteggio attribuito, da parte di ogni intervistato, va da 1 a 4 punti, da

riferire alla singola discriminazione da esaminare. I risultati sono sintetizzati nel grafico 5 della pagina seguente.

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Grafico 5

Le azioni positive Punteggio attribuito

Come si può notare il maggior grado d’urgenza è attribuito ai percorsi

formativi, ma tenendo presente che tutti questi interventi sono fondamentali, mi sembra impensabile la creazione di percorsi formativi, senza organizzare un archivio sulle tematiche femminili, al quale è stata data molta meno importanza.

La costruzione di un archivio, in alcuni casi sarebbe solo un lavoro di raccolta di materiali già disseminati nell’ateneo, si potrebbe pensare quindi alla creazione di un archivio, anziché cartaceo, multimediale, che indicasse le coordinate del materiale, permettendo così una consultazione più facilitata e accessibile.

Significativa altresì risulta la grande importanza data alla “messa in sicurezza” dell’ateneo, intendendo la riduzione del disagio sociale e lavorativo, la prevenzione sanitaria per le donne (screening, consultorio etc.) e l’organizzazione di un corso di difesa personale.

Pertanto le Pari Opportunità si affermano come un nodo focale non solo per la vita della donna, ma anche e soprattutto della famiglia, pensando alle disparità salariali, a determinati tipi di tutela sanitaria che risultano carenti e

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ancora agli studi sul bilancio di genere, che mettono chiaramente in primo piano l’inaccessibilità alle donne ad alcuni tipi di lavoro o meglio alla conquista di ruoli di potere, dalla politica alle istituzioni; non a caso le donne abbondano nel precariato o nei lavori scarsamente retribuiti.

L’assenza o carenza delle donne dal panorama politico, culturale e lavorativo, in determinati settori, non è solo un diritto negato, ma rappresenta l’impoverimento di una società che non può essere considerata come civile e soprattutto meritocratica.

Per quanto riguarda i servizi di conciliazione per l’infanzia è stata attribuita ad essi una media importanza, ma occorre sottolineare che le leggi afferenti la maternità, di cui spesso si sono fatte promotrici le donne, sono intensamente legate alla figura femminile, come se non fosse possibile l’idea di donna slegata dal concetto di madre; in realtà, oggi non si può più concepire la prole solo in relazione delle cure genitoriali della donna, ma occorre estendere la procreazione al concetto di coppia. Gli attori che interagiscono, in una cornice di valori, per la creazione di un ambiente sano e ricco di riferimenti per il nascituro, sono entrambi chiamati a rispondere della sua educazione e formazione.

Per questo motivo le leggi sulle donne e per le donne non devono mai essere concepite come atti di tutela volte solo ad una parte della società, che è quella femminile; sono leggi sulla e per tutta la società nel suo insieme, e così vanno pensate, ottenerle e tutelarle non è una battaglia di genere, possono nascere così, ma devono essere pensate in altri termini.

Il questionario, oltre ad aver fornito dati nuovi e interessanti che offrono una fotografia della realtà e delle necessità delle giovani donne del campus, ha rappresentato uno strumento nuovo e in quanto tale sicuramente da migliorare, ma allo stesso tempo ha incuriosito molto.

Concludendo si può ritenere che l’obiettivo di promozione da cui è partita la commissione per la realizzazione della giornata di studi, sia stato raggiunto brillantemente.

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L’evento non è stato uno sterile momento di commemorazione fine a se stesso, ma un terreno di incontro che ha lasciato aperto uno spiraglio di dibattito, a cui attingere per la propria formazione.

In questo intento ha giocato un ruolo fondamentale la scelta degli interventi, che gettano un ponte interdisciplinare, sulle tematiche di parità, offrendo una visione di insieme che spesso è difficile mantenere.

Ritengo che il sentimento più forte, veicolato dalla giornata del sessantesimo, sia racchiuso nell’idea di evoluzione e di continuità: ricordare da dove si è dovuti passare, per capire dove si può e vuole arrivare.

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INDICE 1 Introduzione, Maria Teresa Chialant

SESSIONE I: PARTIRE DAL SÉ 5 Filomena Gallo 7 Lucia Napoli 9 Federico Sanguineti 11 Angela Santopietro 13 Fernanda Maria Volpe

SESSIONE II: RELAZIONI 16 Pari opportunità: dal suffragismo alla cittadinanza italiana, Pasqualina Mongillo. 28 1946-2006: le donne sulla scena pubblica, Maria Rosaria Pelizzari. 46 Per il sessantesimo anniversario del diritto di voto alle donne. Spunti di riflessione, Vitulia Ivone.

SEZIONE III. UNIVERSITÀ E PARI OPPORTUNITÀ 55 La politica delle donne e le politiche per le donne: il caso della conciliazione dei tempi, Mariolina Garofalo. 59 I Comitati Pari Opportunità universitari, Fiorenza Taricone. 70 Le pari opportunità tra studenti a Salerno, Giuseppina Papa.

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Finito di stampare nel novembre 2007 ©Università degli Studi di Salerno.