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L’OSSERVAZIONE MICROSCOPICA L 2.1. BASI DELLA MICROSCOPIA Tranne alcune situazioni particolari, i singoli microrganismi non possono essere osservati direttamente ad occhio nudo (g. 2.1); ciò è dovuto al fatto che la maggior parte di essi possiede dimensioni al di sotto delle capacità possedute dall’occhio umano. Il parametro che esprime questo valore è indicato come limite di risoluzione dell’occhio ed equivale approssimativamente a circa 0,1 mm a 25 cm di distanza. Dal punto di vista pratico questo parametro indica che, alla distanza di 25 cm, non possono essere distinti tra essi due punti posti a meno di 0,1 mm. Ne consegue che la scoperta e lo studio dei microrganismi sono stati possibili solo con l’impiego di strumenti in grado di ingrandirne adeguata- mente l’immagine. Gli strumenti che svolgono questa funzione, utilizzando la luce come sorgente illuminante, sono definiti microscopi a luce o microscopi ottici. Pertanto, per microscopia s’intende la tecnica d’osservazione che utilizza tale strumentazione. I microscopi a luce, possono essere classificati in semplici e composti. Si definiscono semplici se sono costituiti da una sola lente; composti, se possiedono più sistemi di lenti. L’invenzione delle lenti è piuttosto antica, in quanto risa- le al basso Medioevo; tuttavia la messa a punto e l’impiego dei primi strumenti ottici sono avvenuti solo nel periodo rinascimentale. Nella seconda metà del diciassettesimo secolo furono perfezionati, in particolare, strumenti come il telescopio ed il microscopio; entrambi si rivelarono di gran- de importanza nell’ampliamento delle conoscenze scienti- fiche dell’epoca. Lo strumento impiegato inizialmente nell’osservazione microbica era costituito, in realtà, da una struttura piuttosto semplice; essendo dotato di una sola lente, deve essere ritenuto come un classico esempio di microscopio semplice. Il primo ad utilizzare questo strumento fu un mercante di stoffe olandese: Antoni van Leeuwenhoek. Il suo micro- 2 1 1 mm 100 μ 10 μ 1 μ 100 nm 10 nm 1 nm Cellule eucariotiche Cellule procariotiche Virus Proteine Aminoacidi Atomi Limite di risoluzione del microscopio ottico Limite di risoluzione dell’occhio umano Limite di risoluzione del microscopio elettronico 1 Å FIGURA 2.1 Scala delle dimensioni microscopiche. FIGURA 2.2 Il microscopio costruito da Antoni van Leeuwenhoek era costituito da una semplice lente biconvessa.

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L’OSSERVAZIONE MICROSCOPICAL

2.1. BASI DELLA MICROSCOPIATranne alcune situazioni particolari, i singoli microrganismi non possono essere osservati direttamente ad occhio nudo (fi g. 2.1); ciò è dovuto al fatto che la maggior parte di essi possiede dimensioni al di sotto delle capacità possedute dall’occhio umano. Il parametro che esprime questo valore è indicato come limite di risoluzione dell’occhio ed equivale approssimativamente a circa 0,1 mm a 25 cm di distanza. Dal punto di vista pratico questo parametro indica che, alla distanza di 25 cm, non possono essere distinti tra essi due punti posti a meno di 0,1 mm. Ne consegue che la scoperta e lo studio dei microrganismi sono stati possibili solo con l’impiego di strumenti in grado di ingrandirne adeguata-mente l’immagine.

Gli strumenti che svolgono questa funzione, utilizzando la luce come sorgente illuminante, sono definiti microscopi a luce o microscopi ottici. Pertanto, per microscopia s’intende la tecnica d’osservazione che utilizza tale strumentazione. I microscopi a luce, possono essere classificati in semplici e composti. Si definiscono semplici se sono costituiti da una sola lente; composti, se possiedono più sistemi di lenti.

L’invenzione delle lenti è piuttosto antica, in quanto risa-le al basso Medioevo; tuttavia la messa a punto e l’impiego dei primi strumenti ottici sono avvenuti solo nel periodo rinascimentale. Nella seconda metà del diciassettesimo secolo furono perfezionati, in particolare, strumenti come il telescopio ed il microscopio; entrambi si rivelarono di gran-de importanza nell’ampliamento delle conoscenze scienti-fiche dell’epoca. Lo strumento impiegato inizialmente nell’osservazione microbica era costituito, in realtà, da una struttura piuttosto semplice; essendo dotato di una sola lente, deve essere ritenuto come un classico esempio di microscopio semplice.

Il primo ad utilizzare questo strumento fu un mercante di stoffe olandese: Antoni van Leeuwenhoek. Il suo micro-

2

1

1 mm

100 µ

10 µ

1 µ

100 nm

10 nm

1 nm

Cellule eucariotiche

Celluleprocariotiche

Virus

Proteine

Aminoacidi

Atomi

Limite di risoluzione del microscopio ottico

Limite di risoluzionedell’occhio umano

Limite di risoluzione del microscopio elettronico

1 Å

FIGURA 2.1 ◗ Scala delle dimensioni microscopiche.FIGURA 2.2 ◗ Il microscopio costruito da Antoni van Leeuwenhoek era costituito da una semplice lente biconvessa.

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe2

scopio era dotato di una lente biconvessa, fissata da due lamine metalliche e di un sistema di viti; per essere osserva-to, il campione era posto all’estremità di una punta mobile in corrispondenza del foro d’alloggiamento della lente (fig. 2.2). Seppure con notevoli difficoltà, permetteva l’osserva-zione di forme microbiche eucariotiche e procariotiche unicellulari. Van Leeuwenhoek intorno al 1670 costruì diver-si microscopi semplici, che fornivano immagini ingrandite di circa 200-300×; per quasi 200 anni questi strumenti re-starono l’unica possibilità per osservare i microrganismi, anche perché nessuno fu in grado di produrne altrettanto validi. Per la verità, intorno al 1590, era stato messo a punto anche il microscopio ottico composto (fig. 2.3) che, seppu-re teoricamente più potente rispetto al microscopio sem-plice, presentava tante e tali aberrazioni ottiche da essere di scarsa utilità pratica.

Solo nel diciannovesimo secolo, con l’avvento di tecni-che innovative nella costruzione delle lenti e delle altre componenti strutturali, il microscopio composto fu perfe-zionato nelle sue caratteristiche ottiche e impiegato nella pratica in modo sempre più diffuso. Divenne, da allora, uno strumento fondamentale per gli studi microbiologici. In seguito, nonostante la struttura di base sia stata mantenuta inalterata, il microscopio ottico composto è stato continua-mente perfezionato tanto che, nel corso del ventesimo se-colo, la tradizionale osservazione in campo chiaro è stata arricchita da nuove possibilità come ad esempio il contra-sto di fase, la fluorescenza ed il campo oscuro.

Il microscopio ottico (M.O., fig. 2.4) è uno strumento im-portante in numerose attività e fondamentale nelle indagi-ni microbiologiche; tuttavia presenta notevoli limiti per la natura ondulatoria della luce. La radiazione luminosa, la cui lunghezza d’onda è compresa tra i 380 ed i 730 nm, non permette di distinguere 2 punti posti ad una distanza infe-riore a circa la metà della lunghezza d’onda impiegata.

Questo valore, definito limite di risoluzione del microscopio ottico, corrisponde a circa 200 nm (0,2 µm). Ne consegue che il reale ingrandimento raggiungibile con la microsco-

FIGURA 2.3 ◗ Esemplare di microscopio ottico composto costruito intorno al 1750.

FIGURA 2.4 ◗ Un microscopio ottico composto utilizzato attualmen-te nella routine.

FIGURA 2.5 ◗ Un moderno microscopio elettronico a scansione (SEM).

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 3

pia ottica è limitato a 1200-1500×. Questi valori sono suffi-cienti a permettere un’agevole osservazione dei microrga-nismi eucariotici e procariotici, ma non consentono l’osser-vazione delle singole forme acellulari. I microscopi ottici (o a luce), pertanto, sono inutilizzabili negli studi virologici in quanto le particelle virali possiedono dimensioni comprese tra i 20 e i 300 nm. Dati i limiti oggettivi del microscopio ottico, nel corso del novecento la ricerca si è rivolta allo sviluppo di tecniche innovative (microscopia elettronica, fig. 2.5) che utilizzavano gli elettroni al posto della radiazio-ne luminosa. Gli elettroni sono prodotti artificialmente con il tubo catodico. A differenza della radiazione luminosa, possiedono un’onda associata di lunghezza nettamente inferiore; impiegati nella microscopia hanno permesso di raggiungere definizioni delle immagini di gran lunga supe-riori. La microscopia elettronica è stata messa a punto alla fine degli anni trenta e nel 1942 ha fornito le immagini del primo virus (mosaico del tabacco).

L’ingrandimento reale prodotto può raggiungere i 106×; consente l’osservazione dei dettagli morfologici di tutti i microrganismi, comprese le particelle virali con le dimen-sioni più ridotte. Gli elettroni perdono rapidamente il loro contenuto energetico nell’aria, di conseguenza le osserva-zioni devono essere eseguite sottovuoto; inoltre, sono scarsamente assorbiti dal materiale biologico, per cui è necessario ricorrere al fissaggio e alla colorazione dei pre-parati. Questo consente di aumentare i contrasti tra le di-verse strutture biologiche, ma non permette un’osservazio-ne di materiale vivo. Ne risulta una limitazione delle possi-bilità applicative, ma l’adozione di complesse e raffinate tecniche nell’allestimento dei preparati rende questa me-todologia insostituibile nell’indagine microbiologica.

2.1.1. L’occhio e le sue componentiPrima di approfondire le conoscenze concernenti gli stru-menti impiegati nell’osservazione microscopica, è necessa-rio acquisire alcune nozioni fondamentali sulle strutture e sui meccanismi alla base della visione. L’occhio è una con-

tinuazione del microscopico all’interno del nostro corpo (viceversa il microscopio può essere ritenuto un’estensione delle componenti che permettono la visione).

La conoscenza delle strutture anatomiche e dei mecca-nismi della visione, può essere utile per ottimizzare l’osser-vazione microscopica e per contribuire ad evitare un uso scorretto dello strumento. L’occhio (fig. 2.6) è un organo piuttosto complesso deputato a raccogliere (fig. 2.7) e ad elaborare le radiazioni elettromagnetiche (tab. 2.1) con lunghezza d’onda compresa tra 380 e 730 nm; le diverse lunghezze d’onda sono percepite come colori compresi tra il violetto ed il rosso (tab. 2.2).

Le radiazioni luminose, raggiungendo gli strati anteriori dell’occhio, incontrano strutture in grado di regolare:

la quantità di luce in entrata (in relazione all’intensità della • luce ambientale) attraverso il sistema iride-pupilla;la messa a fuoco dell’immagine sulla retina per mezzo del • cristallino.

Camera posteriore

Congiuntiva

Camera anteriore

Cristallino

Iride

Cornea

Muscolo ciliare

Muscolo retto laterale

Retina

Corpo vitreo

Fovea

Coroide

Sclera

Nervo ottico

Vena e arteria della retina

Muscolo retto mediale

FIGURA 2.6 ◗ Le principali componenti strutturali del globo oculare.

FIGURA 2.7 ◗ Percorso dei raggi luminosi attraverso le strutture ocu-lari.

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe4

Il fascio di luce che oltrepassa le suddette strutture vie-ne rifratto seguendo le regole dell’ottica geometrica; quin-di raggiunge la retina posta nella parte opposta del globo oculare, dove si ricostituisce l’immagine di quanto osserva-to. Sulla retina si ritrova una complessa struttura, costituita da cellule fotorecettrici, rappresentate da coni e bastoncelli, responsabili rispettivamente della visione a colori e crepu-scolare. Questi elementi cellulari sono deputati alla conver-sione degli stimoli luminosi in segnali elettrici che, convo-gliati attraverso una fi tta rete di cellule situate in prossimità delle fi bre del nervo ottico, giungono alle aree encefaliche corticali poste in corrispondenza delle regioni occipitali. In questa sede vengono defi nitivamente rielaborate e trasfor-mate in immagini.

Anatomicamente l’occhio è una camera oscura in cui si forma un’immagine rimpicciolita e capovolta su un’espan-sione del sistema nervoso: la retina. Il globo oculare è rive-stito da tre membrane concentriche che, dall’esterno verso l’interno, sono: la sclera, l’uvea e la retina.

La sclera è costituita da tessuto connettivo compatto; nel polo anteriore del globo, si presenta con una zona traspa-rente definita cornea. Sclera e cornea nella parte anteriore

sono rivestite dalla congiuntiva. A livello del polo posteriore nel tessuto sclerale passano le fibre del nervo ottico.

L’uvea riveste la superficie interna della sclera fino a li-vello del solco che la separa dalla cornea; qui si piega verso l’interno per formare le strutture dell’iride. Tra la cornea e l’iride è delimitato uno spazio definito camera anteriore ri-empito da un liquido (umore acqueo). Nell’uvea si distin-guono una parte posteriore detta coroide, ricca di vasi e di cellule pigmentate, un corpo ciliare, che forma la corona dei processi ciliari e l’iride, che è aperta al centro per formare la pupilla. L’iride contiene le fibrocellule del muscolo costrit-tore e del muscolo dilatatore della pupilla.

La retina è la membrana più interna. È costituita da una lamina cellulare pigmentata, che poggia sull’uvea, e da una complessa serie di cellule nervose distribuite su più strati.

Tra questi ultimi possono essere individuati in partico-lare:

uno strato periferico di coni e bastoncelli;• uno strato di cellule bipolari d’associazione;• uno strato più interno di neuroni di trasmissione.• Dai neuroni di trasmissione partono le fibre del nervo

ottico, che convergono tutte nella papilla ottica, posta nei pressi del polo posteriore del bulbo oculare. Su questo polo si nota una zona giallastra infossata al centro, che cor-risponde all’area della visione distinta. Internamente alla retina è presente una cavità contenente il corpo vitreo: una massa semifluida la cui parte liquida è definita umor vitreo. Dietro la pupilla si trova il cristallino: una lente elastica co-stituita da cellule epiteliali allungate e mantenuta nella sua posizione da una corona di fibrille provenienti dai processi ciliari (muscolo ciliare); tale muscolo, contraendosi, regola la curvatura del cristallino. Tra il cristallino e l’iride è compresa la camera posteriore dell’occhio.

2.1.2. Le lentiLe lenti sono componenti fondamentali di tutti gli appa-recchi ottici come il cannocchiale, il binocolo, gli strumenti fotografi ci e cinematografi ci e il microscopio; dal punto di vista fi sico sono menischi in vetro o in materiale sintetico. Costruite con spessore variabile dalla periferia al centro, sono capaci di deviare i raggi luminosi che le attraversano in rapporto al tipo di curvatura posseduta. In generale si può aff ermare che i raggi luminosi, uscenti da una lente convessa, sono convergenti e danno luogo alla formazione d’immagini.

Radiazione elettromagnetica

Lunghezza d’ondain nm

Raggi cosmici 10–6-10–5

Raggi gamma 10–5-10–2

Raggi x 10–2-20

Raggi ultravioletti 20-380

Visibile 380-730

Raggi infrarossi 730-4·105

Onde hertziane 4·105-3·1015

TABELLA 2.1. Lunghezza d’onda delle radiazioni elettromagnetiche

I coni ed i bastoncelli sono elementi cellulari dotati della capacità di convertire stimoli luminosi in segna-li elettrici che, convogliati attraverso il nervo ottico, giungono fi no alle aree corticali della regione occipi-tale, ove hanno sede le aree visive.Il cristallino è la principale lente dell’occhio; è deputa-to alla messa a fuoco delle immagini sulla retina.Alcune alterazioni anatomiche o funzionali dell’oc-chio impediscono che l’immagine si formi sulla reti-na; l’immagine in alcuni casi si forma anteriormente (miopia); in altri posteriormente (ipermetropia).La perdita dell’elasticità del cristallino impedisce, nell’età avanzata, la messa a fuoco delle immagini ravvicinate (presbiopia).Luci intense ed osservazioni microscopiche eccessi-vamente prolungate possono produrre danni all’oc-chio ed in particolare alla retina.

Radiazione visibile Lunghezza d’ondain nm

Rosso 700

Arancione 650

Giallo 600

Verde 550

Azzurro 500

Indaco 450

Violetto 400

TABELLA 2.2. Lunghezza d’onda delle radiazioni visibili

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 5

Il principio su cui si basa una lente è la rifrazione. Con questo termine s’indica la deviazione di un raggio lumino-so che colpisce con una certa angolazione un mezzo tra-sparente, dotato di una densità diversa da quella ambien-tale (fig. 2.8). La rifrazione è la conseguenza del ritardo della velocità della luce che passa dall’aria attraverso le lenti.

Un raggio luminoso passante attraverso una lente viene rifratto due volte: una all’entrata e una all’uscita; in una lente convergente, una prima volta si avvicina all’asse ottico, mentre all’uscita se ne allontana. Se le superfici esterne so-no parallele, un raggio è deviato per due volte con angola-zioni opposte. Ne consegue che il raggio incidente e quello emergente sono paralleli; quindi non vi è deviazione.

La linea perpendicolare al piano della lente e passante per il suo centro è detta asse ottico. I raggi paralleli all’asse ottico sono deviati in un punto posto sull’asse ottico stesso, detto fuoco. La distanza compresa tra fuoco e centro della lente è definita distanza focale; rappresenta la caratteristica principale della lente, in quanto da essa dipende l’ingrandi-mento ottenibile. Il termine fuoco deriva dal fatto che i raggi provenienti dal sole (in pratica paralleli tra loro ed all’asse ottico) convergono in modo tanto concentrato in un punto, situato oltre la lente, da potere bruciare un foglio di carta posto su di esso (fig. 2.9). Sull’asse ottico, alla stessa distanza dal centro, esiste un altro fuoco (F1), collocato dal-la parte opposta della lente.

I raggi paralleli incidenti sulla lente, con un certo angolo rispetto all’asse ottico, non convergono sul fuoco, ma su un piano ad esso perpendicolare contenente il fuoco e defini-to piano focale. Se un oggetto è posto ad una distanza su-periore a quella focale, di esso una lente convergente pro-duce un’immagine reale, ingrandita e capovolta che può essere raccolta su uno schermo. Se l’oggetto si trova ad una distanza inferiore a quella focale non si forma un’immagine

Asse ottico

a

b

c Asse ottico

Asse ottico

FIGURA 2.8 ◗ Deviazione dei raggi luminosi nel passaggio attraverso una lente convergente (a) e un corpo trasparente con le due superfi ci parallele (b). Nelle lenti i raggi luminosi che passano attraverso il centro (dove le superfi ci sono parallele) emergono parallelamente rispetto a quelli incidenti (c).

Raggi paralleli

F

Raggi paralleli

F

Piano

focale

F

F1

F

F1

FIGURA 2.9 ◗ a) In una lente convergente i raggi luminosi paralleli all’asse ottico convergono in un punto defi nito fuoco. b) I raggi paralleli che incontrano la lente con un certo angolo rispetto all’asse ottico non convergono sul fuoco, ma in un punto posto su un piano perpendicolare all’asse ottico, contenente il fuoco e defi nito piano focale. c) Se l’oggetto è posto ad una distanza maggiore di quella focale, si forma un’immagine reale ca-povolta e ingrandita dalla parte opposta della lente. d) Se l’oggetto è posto ad una distanza inferiore al fuoco, si forma un’immagine virtuale diritta e ingrandita dallo stesso lato dell’oggetto.

A

C D

B

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe6

reale, bensì, dalla stessa parte dell’oggetto, un’immagine virtuale diritta ed ingrandita, che non emette luce e non può essere raccolta su uno schermo. Può essere vista dall’occhio.

Il diametro delle lenti (apertura) è un parametro molto importante in quanto influenza la luminosità ed il potere di risoluzione dell’immagine ottenuta.

2.1.2.1. Difetti e limiti delle lentiLe lenti presentano imperfezioni e limiti; quelle che inte-ressano la microscopia sono, in particolare, le aberrazioni geometriche e cromatiche.

Le aberrazioni geometriche derivano dalle imperfezioni della curvatura della loro superficie; sono tanto più accen-tuate quanto più grande è l’angolo che i raggi luminosi formano con l’asse ottico. Le aberrazioni cromatiche sono conseguenti alla composizione della luce solare o artificia-le. La luce è costituita da un insieme di radiazioni distingui-bili per lunghezza d’onda, frequenza e contenuto energeti-co. Le differenze di tali parametri si evidenziano con una diversa colorazione e un diverso angolo di rifrazione; ciò provoca la comparsa di una frangia costituita da diversi colori, in corrispondenza del punto di formazione dell’im-magine (fig. 2.10).

Luce bianca

Vio

letto

Inda

coB

luVe

rde

Gia

lloA

ranc

ione

Ros

so

FIGURA 2.10 ◗ Alla base dell’aberrazione cromatica è la di-versa rifrazione delle componenti della luce bianca.

Tubo porta oculare

Anello di regolazione diottrica

Colonna

Tavolino traslatore

Vite macrometrica

Vite di traslazione del condensatore

Base

Interruttore di accensione

Vite micrometrica

Testata binoculare

Revolver portaobiettivi

Apparato traslatore del vetrinoObiettivo

Viti coassiali per la traslazione del vetrino

Condensatore con diaframma e portafiltri

Sistema di illuminazione

FIGURA 2.11 ◗ Le principali componenti di un microscopio ottico da routine.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 7

Le aberrazioni geometriche possono essere limitate me-diante l’uso di lenti addizionali, mentre quelle cromatiche possono essere corrette con l’adozione di vetri speciali (co-stosissimi alla fluorite) o di lenti addizionali. Se la correzione è parziale, si parla di lenti semiapocromatiche; se la correzio-ne è completa si parla invece di lenti apocromatiche.

2.2. IL MICROSCOPIO OTTICO COMPOSTOIl microscopio ottico composto (fi g. 2.11) è lo strumento con cui è stato possibile superare in modo sostanziale i limi-ti di risoluzione dell’occhio umano. È costituito da più lenti disposte in modo da consentire ingrandimenti fi no a 1.200-1.500×. La sua invenzione è attribuita a H. Jansen intorno al 1590. Come già evidenziato, è stato scarsamente utilizzato fi no al secolo diciannovesimo, a causa delle notevoli aber-razioni ottiche che rendevano le immagini prodotte scarsa-mente leggibili.

Il microscopio ottico composto è stato perfezionato nel corso del diciannovesimo secolo ed è anche oggi uno dei più importanti strumenti del microbiologo. Il suo funziona-mento è basato sull’impiego di due sistemi di lenti (oculari ed obiettivi), con cui sono opportunamente deviati (rifrazio-ne) i fotoni emessi da una sorgente luminosa, che in genere è costituita da una lampada ad incandescenza (fig. 2.12).

La lampada è alloggiata all’interno della parte inferiore del microscopio (base). La luce prodotta è indirizzata verti-calmente verso l’alto direttamente o tramite uno specchio; uscita dalla base, in corrispondenza di un’apertura, incon-tra un primo sistema di lenti che la converge verso il con-densatore. Quest’ultimo è costituito da: una sede per il posi-zionamento dei filtri, un diaframma ad iride (in grado di re-golare la quantità di luce) ed un sistema di lenti (condensa-tore vero e proprio) che concentra la luce sul preparato. In questo modo il fascio luminoso incontra il preparato illumi-nandolo intensamente. Le parti del preparato sono oltre-passate dal fascio luminoso in rapporto alla diversa opacità posseduta. La luce che ne emerge, continuando il suo per-corso verticale, entra nell’apertura delle lenti dell’obiettivo selezionato; ne viene rifratta e, in corrispondenza del fuoco dell’oculare, forma un’immagine reale ingrandita e capo-volta, che viene ulteriormente ingrandita dalle lenti dell’oculare (fig. 2.13). L’interazione dell’obiettivo con l’ocu-lare permette la formazione di un’immagine finale, posizio-nata sulla retina dell’osservatore. L’ingrandimento com-plessivo prodotto da un microscopio ottico composto, di-pende dall’ingrandimento dell’obiettivo e da quello dell’oculare; in pratica si ottiene moltiplicando l’ingrandi-mento dell’obiettivo per quello dell’oculare.

La natura ondulatoria della luce pone insormontabili problemi per la realizzazione di strumenti che mirano al raggiungimento di ingrandimenti reali superiori a 1200-1500×. Ciò è dovuto al fatto che un oggetto puntiforme non appare come tale, ma come un alone circolare. In pra-tica utilizzando il microscopio ottico non è possibile distin-guere due punti posti ad una distanza inferiore a 0,2 µm.

Immagine finale ingrandita

Oculare

Obiettivo

Materiale

Condensatore

Lampada

FIGURA 2.12 ◗ Schema ottico del microscopio a luce composto.

Oculare

Testata binoculare

ObiettivoCampione

Condensatore

Fonte luminosa

FIGURA 2.13 ◗ Schema ottico interno di un microscopio a luce bino-culare.

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe8

Questa distanza, che costituisce il cosiddetto limite di riso-luzione (LR) del microscopio ottico, dipende essenzialmen-te dalla lunghezza d’onda (λ) impiegata nell’osservazione microscopica, dalle caratteristiche della lente e, in partico-lare, dall’apertura numerica dell’obiettivo (AN) (tab. 2.3) Il li-mite di risoluzione corrisponde ad un valore che è circa la metà della lunghezza d’onda della luce impiegata. La for-mula che consente di ricavare il limite di risoluzione è la seguente:

LR = 0,61 λ/AN

dove LR rappresenta il limite di risoluzione, mentre lambda (λ) è la lunghezza della luce impiegata e AN è l’apertura nu-merica. L’AN dipende essenzialmente dall’angolo d’apertu-ra della lente e dall’indice di rifrazione del mezzo compreso tra la lente dell’obiettivo ed il vetrino contenente il materia-le (fi g. 2.14). Più precisamente:

AN = N·senα

In questa relazione N è l’indice di rifrazione del mezzo, mentre senα è il seno del semiangolo d’apertura della len-te. I valori di senα sono inferiori ad 1, mentre l’indice di ri-frazione della maggior parte del materiale ottico non supe-ra 1,6; in pratica il massimo valore dell’apertura numerica (AN) di una lente, se è usato olio per immersione (1,53), è di circa 1,4. Con questi parametri il limite di risoluzione del microscopio ottico equivale a circa 170 nm (0,17 µm) qua-lora sia usata luce monocromatica di 400 nm (violetto). Con luce bianca il limite di risoluzione è di 250 nm (0,25 µm). Dato che il valore di AN è limitato, l’unica possibilità di ri-durre il limite di risoluzione è quella di usare lunghezze d’onda corte.

Teoricamente il miglior limite di risoluzione del micro-scopio ottico si ottiene utilizzando lenti dotate di un’eleva-ta apertura numerica ed una radiazione con la lunghezza d’onda più corta possibile, come quella ultravioletta. In queste condizioni il limite di risoluzione è prossimo a valori di 100-150 nm (0,1-0,15 µm). Tuttavia, nel caso siano impie-gate queste radiazioni, le comuni lenti si dimostrano opa-che e devono essere sostituite da lenti al quarzo.

I parametri numerici che caratterizzano il microscopio ottico composto sono l’ingrandimento ed il potere risoluti-vo (inverso del limite di risoluzione). Tra i due quello più im-portante è il potere risolutivo; infatti un’immagine ingran-dita oltre il limite di risoluzione appare sfuocata e quindi scarsamente leggibile; inoltre la qualità dell’immagine pro-

dotta dipende da altri due caratteri del sistema ottico, vale a dire: il potere di penetrazione ed il potere di definizione.

Il potere di penetrazione, definito anche profondità di campo, è la capacità di un sistema ottico di mettere a fuoco contemporaneamente due punti del preparato, che siano posti su piani diversi.

Il potere di definizione dipende dalla qualità delle lenti e dall’architettura del sistema ottico. Un alto potere di defini-zione è sinonimo di immagine fedele, esente da aberrazio-ni cromatiche e geometriche.

2.2.1. Le componenti del microscopio ottico compostoLe parti costitutive del microscopio possono essere in-dividuate nello stativo, nel sistema d’illuminazione, nel condensatore, nel tavolino traslatore e nel sistema ottico. I microscopi attuali impiegano: come fonte luminosa una lampada ad incandescenza o a LED, come apparato otti-co una serie di obiettivi variabile da quattro a cinque, una coppia di oculari, infi ne una testata binoculare che, inter-posta tra obiettivi ed oculari, permette l’osservazione con entrambi gli occhi (visione binoculare).

Lo stativo comprende una base, in cui sono alloggiate le componenti del sistema di illuminazione, ed una colonna variamente conformata. La colonna funge da sostegno per il sistema ottico e per il tavolino traslatore, che costituisce, a sua volta, il piano d’appoggio dei preparati. Gli stativi moderni sono dotati di grande versatilità, in quanto per-mettono l’aggiunta di numerosi accessori. In questo modo sono possibili numerosi allestimenti, con cui eseguire di-versi tipi d’osservazione: in campo chiaro, in campo oscuro,

Obiettivo A.N. Limite di risoluzionein µm

4 0,07 3,93

10 0,25 1,1

40 0,65 0,43

100 1,25 0,25

TABELLA 2.3. Limiti di risoluzione di unmicroscopio in base all’ingrandimentodell’obiettivo ed alla sua apertura numerica,considerando l’impiego di luce con unalunghezza d’onda di 0,55 µm.

Obiettivo

LenteAngolo di apertura

Asse ottico

Condensatore

Raggi luminosi

FIGURA 2.14 ◗ Angolo d’apertura dell’obiettivo dal quale si ricava l’apertura numerica. AN = N·senα.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 9

in contrasto di fase, con luce polarizzata. Utilizzando testa-te trinoculari è possibile aggiungere sistemi di ripresa digi-tale, con cui documentare tutto quanto si osserva.

Il sistema d’illuminazione è formato da una lampada ad incandescenza, da un interruttore e da un reostato. La lampada ad incandescenza rappresenta la fonte d’illumina-zione del preparato; è contenuta all’interno della base in una sede di facile accesso. L’interruttore permette l’accen-sione della lampada, mentre il reostato regola l’intensità della luce; interruttore e reostato, in genere, sono posti nella parte superiore della base. Il fascio di luce emergente da questa, giunge al preparato dopo aver attraversato un sistema di lenti, il condensatore ed un’apertura posta al cen-tro del tavolino traslatore (fig. 2.15).

Il condensatore (fig. 2.16) è formato da diverse compo-nenti: un sistema portafiltri, un diaframma ad iride ed il con-densatore vero e proprio. Il sistema portafiltri è situato nella parte inferiore del condensatore; permette l’alloggiamento di filtri con la colorazione più idonea al tipo d’osservazione effettuata. Il diaframma ad iride è in grado di regolare la quantità della luce inviata al preparato. Se la sua apertura è ridotta, il contrasto delle strutture osservate aumenta in modo significativo. Ciò è particolarmente importante nelle osservazioni a fresco. Il condensatore vero e proprio è for-mato da un sistema di lenti piano-convesse ed a corta lun-

ghezza focale; è in grado di concentrare il fascio di luce sul preparato. Tutto il complesso che costituisce il condensato-re è dotato di un sistema a cremagliera, che ne permette il sollevamento o la discesa in rapporto al tipo d’osservazione; di norma, è corredato anche da un sistema di viti, che con-sente il suo spostamento sul piano orizzontale, per centrare il suo asse ottico con quello dell’obiettivo.

Il tavolino traslatore (fig. 2.17) è localizzato sopra il condensatore; presenta una forma quadrata o rettangolare

Tavolino

Condensatore

Luce emergentedalla base

Pianodell’obiettivo

Luce emergentedal preparato

FIGURA 2.15 ◗ Percorso della luce emergente dalla base del micro-scopio fi no al piano dell’obiettivo.

FIGURA 2.16 ◗ Condensatore, con la leva del diaframma e, in alto a destra, la sede portafi ltri.

FIGURA 2.17 ◗ Particolare del microscopio nel quale sono evidenti i rapporti tra il tavolino traslatore ed il revolver portaobiettivi.

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe10

e al centro un foro di 2-4 cm di diametro. La messa a fuoco del preparato si ottiene mediante lo spostamento verticale del tavolino. Ciò è ottenuto attraverso due viti coassiali, di cui una permette grandi spostamenti (macrometrica) e l’al-tra la messa a fuoco accurata (micrometrica). Il tavolino è

dotato di un apparato di traslazione del vetrino, che ne permette l’esame completo mediante lo spostamento oriz-zontale, sia in senso laterale, sia in senso antero-posteriore. Nell’apparato di traslazione del vetrino è compreso anche un sistema di scale graduate, che facilita l’individuazione delle aree osservate.

Il sistema ottico. È la componente più importante del microscopio; è costituita dagli obiettivi (fig. 2.18), dalla te-stata mono-, bino- o trinoculare e dagli oculari stessi.

Gli obiettivi sono sistemati sopra il tavolino traslatore in una struttura che, per la capacità di ruotare attorno al pro-prio asse, è definita revolver. Su di esso, a seconda dei mo-delli, ne sono alloggiati da quattro a cinque. Il revolver permette di passare agevolmente da un obiettivo all’altro. Gli obiettivi sono formati da una struttura cilindrica (barilot-to) al cui interno è presente un sistema di lenti di piccole dimensioni, a fuoco molto corto e con un’apertura angola-re relativamente stretta. Sono costruiti impiegando vetri speciali (flint o crown) o moderni materiali di sintesi. Ri spet-to ai normali obiettivi, quelli planacromatici e planapocro-matici, sono dotati di maggiore apertura numerica, potere risolutivo più elevato ed un maggiore potere di penetrazio-ne. Alcuni obiettivi richiedono l’interposizione di un idoneo liquido (olio per immersione), con indice di rifrazione all’in-circa del vetro (1,53), che permette di migliorarne il potere risolutivo; sono i più potenti e sono dotati di una messa a fuoco in posizione vicinissima al preparato.

Le caratteristiche degli obiettivi sono incise sul barilotto (fig. 2.19); in particolare sono indicati: l’ingrandimento, la lunghezza del tubo portalenti (di norma 160 mm), l’apertu-ra numerica, l’impiego in immersione e lo spessore del ve-trino coprioggetti.

La testata binoculare (fig. 2.20) è una complessa struttura dotata di un sistema di prismi; permette la deviazione dell’unico fascio di luce emergente dall’obiettivo di un an-golo di circa 60° e la sua suddivisione in due parti. Ognuna di esse, opportunamente deviata, giunge ad uno specifico

FIGURA 2.18 ◗ Sul barilotto sono indicate tutte le caratteristiche ot-tiche dell’obiettivo.

Numero di serie

Spessore del coprioggetti

Obiettivo planacromatico

Ingrandimento

Apertura numerica

Lunghezza tubo portalenti

FIGURA 2.19 ◗ Caratteristiche fondamentali di un obiettivo impiegato nella moderna microscopia.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 11

oculare. La testata binoculare consente di mantenere il ta-volino traslatore sul piano orizzontale e, al contempo, la visione con entrambi gli occhi mantenendo una posizione corretta.

Gli oculari sono formati, di norma, da due lenti piano-convesse (oculare di Huygens) o da un sistema costituito da due o tre lenti poste in cima ed in fondo al tubo portaocu-lare (oculare di Ramsden). Quelli di superiore qualità, insie-me ad obiettivi semi o apocromatici, sono in grado di elimi-nare gran parte delle aberrazioni cromatiche. In alcuni casi portano incise scale graduate che permettono determina-zioni sulle aree del preparato. Nel tubo portaoculare sono presenti: un meccanismo a vite con cui è possibile correg-gere le eventuali differenze di rifrazione tra le strutture ot-tiche dell’operatore ed un meccanismo in grado di modifi-care la distanza degli oculari in rapporto alla distanza inter-pupillare.

Com’è già stato evidenziato, l’ingrandimento complessi-vo del microscopio composto è calcolato moltiplicando l’ingrandimento dell’obiettivo per quello dell’oculare (tab. 2.4). Ne consegue che un microscopio dotato di oculare 10× e della seguente serie di obiettivi: 5×, 10×, 40×, 100×, raggiunge gli ingrandimenti: 50×, 100×, 400× e 1000×. Il microscopio ottico composto è impiegato nell’osservazio-ne di materiali istologici, citologici, microbiologici. Permet-te l’esame di strutture uni e pluricellulari; con l’impiego di idonee tecniche è possibile ottenere una grande quantità d’informazioni.

2.3. LA MICROSCOPIA OTTICAIl microscopio ottico per lungo tempo è rimasto inalterato nella sua architettura di base, costituita da una fonte di illu-minazione, un condensatore, un tavolino portaoggetti, un revolver portaobiettivi, una testata binoculare ed un siste-ma di oculari. Nel corso del secolo passato, tuttavia, sono stati apportati continui perfezionamenti alle sue compo-nenti ottiche, meccaniche ed al sistema di illuminazione.

L’impiego di lenti dotate di un elevato potere di penetra-zione e di grande apertura numerica, oltre che di sistemi di messa a fuoco estremamente precisi, ha reso possibile l’ottimizzazione dello strumento, permettendo di sfruttar-ne pienamente le potenzialità.

Inoltre, del microscopio ottico tradizionale sono state prodotte diverse varianti, che hanno permesso l’acquisizio-ne dai preparati di informazioni un tempo impensabili. L’impiego della luce polarizzata, ultravioletta, di particolari sistemi di illuminazione ed accorgimenti ottici innovativi, ha consentito la messa a punto di tecniche microscopiche, che hanno amplificato enormemente le possibilità offerte dal tradizionale microscopio ottico. In questo modo ora, oltre alla microscopia in campo chiaro, sono possibili altre modalità d’osservazione come: in campo oscuro, in contra-sto di fase, in contrasto di interferenza differenziale, con luce polarizzata ed ultravioletta.

2.3.1. Microscopia in campo chiaroÈ la tradizionale modalità d’osservazione microscopica. Con questa modalità il preparato posto sul vetrino è illuminato dal fascio di luce emergente dal condensatore senza l’inter-posizione di diaframmi o di altre componenti che modifi -chino il percorso della luce. Possono essere invece impiega-ti fi ltri colorati o grigi in relazione alle specifi che necessità. Ad esempio l’impiego di fi ltri azzurri consente di aumentare il potere di risoluzione del microscopio. Nella osservazione in campo chiaro il fondo appare intensamente illumina-to, mentre le componenti cellulari presentano un aspetto che dipende dal tipo di allestimento adottato o dalla pig-mentazione posseduta. La microscopia in campo chiaro è impiegata su preparati a fresco o fi ssati e colorati; nel caso di preparati a fresco non risulta molto effi cace, tanto che

Regolazionediottrica

Regolazioneinterpupillare

Oculari

FIGURA 2.20 ◗ Testata binoculare con le relative componenti.

Oc. 5× 10× 40× 100×

10× 50× 100× 400× 1000×

12× 60× 120× 480× 1200×

15× 75× 150× 600× 1500×

TABELLA 2.4. Ingrandimenti complessivi diun microscopio ottico composto

Ob.

FIGURA 2.21 ◗ Epitelio pseudostratifi cato osservato in campo chiaro.

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ad essa è preferibile l’osservazione in contrasto di fase o in contrasto di interferenza diff erenziale. È valida nell’esame di materiale citologico o istologico colorato (fi g. 2.21).

2.3.2. Microscopia in contrasto di faseL’occhio ha la capacità di percepire le variazioni della lun-ghezza d’onda e dell’intensità della luce visibile; tuttavia la maggior parte delle componenti cellulari, ad eccezione di alcuni pigmenti colorati come la clorofi lla, sono quasi completamente trasparenti alla radiazione della regione visibile dello spettro. Il basso assorbimento della luce da parte della cellula vivente è dovuto, per la maggior parte, all’elevato contenuto d’acqua; l’essiccamento dei prepara-ti non migliora in modo signifi cativo l’osservazione degli stessi. Un mezzo per superare questo problema è l’uso di coloranti; questi si fi ssano alle strutture cellulari e produco-no contrasti tra le varie componenti percepite con diverse intensità delle colorazioni. In genere, le colorazioni devono essere precedute da tecniche che prevedono trattamenti come la disidratazione, il fi ssaggio e talvolta l’inclusione; in questo modo si ha la perdita delle attività biologiche e la comparsa di alterazioni (artefatti) che frequentemente mu-tano l’aspetto morfologico originario.

Lo studio delle cellule viventi si avvale da diversi decenni dell’adozione di particolari tecniche microscopiche, quali la microscopia in contrasto di fase e in contrasto di interferen-za differenziale. Entrambe si basano sul fatto che le struttu-re biologiche, seppure piuttosto trasparenti alla radiazione visibile, quando sono oltrepassate da essa producono una lieve modificazione di fase. Ciò è in relazione alle piccole differenze nell’indice di rifrazione delle strutture cellulari ed al loro diverso spessore.

Consideriamo la luce che colpisce un corpo e lo oltre-passa (fig. 2.22); se tale corpo presenta un indice di rifrazio-ne diverso da quello ambientale (vetro rispetto all’aria), l’ampiezza dell’onda non è modificata, ma cambia la velo-cità di propagazione; si verifica in pratica un ritardo di fase. Se l’onda emerge dall’oggetto, la sua velocità si ristabilisce, ma permane il ritardo di fase. L’entità del ritardo è propor-zionale allo spessore del corpo attraversato ed alla differen-za esistente tra l’indice di rifrazione dell’oggetto e quello dell’ambiente circostante. Se la luce attraversa un corpo trasparente, ma anche assorbente, nell’onda si ha, oltre ad un ritardo di fase, una diminuzione dell’ampiezza d’onda, proporzionale alla capacità assorbente da parte del corpo. Il meccanismo con cui opera la microscopia in contrasto di

Retina

Oculare

Piano focaledell’oculare

Piano focaleposteriore

dell’obiettivo

Obiettivo

Preparato

Condensatore

Diaframma anulare

FIGURA 2.22 ◗ Eff etto di materiali diversi sul cammino dei raggi lu-minosi. a) L’eff etto di un materiale trasparente e non assorbente con in-dice di rifrazione più elevato di quello ambientale; si produce un ritardo di fase; b) l’eff etto di un materiale simile al precedente, ma più spesso; in questo caso il ritardo di fase è più pronunciato; c) l’eff etto di un materia-le trasparente ed assorbente. Vi è ritardo di fase, oltre alla diminuzione della ampiezza, quindi dell’intensità luminosa.

FIGURA 2.23 ◗ Cammino dei raggi luminosi nel microscopio a con-trasto di fase.

a

b

c

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 13

fase può essere compreso esaminando il passaggio dell’on-da associata ad una radiazione luminosa, attraverso un sottile strato biologico, come una cellula con indice di rifra-zione vicino a quello ambientale.

Una parte della radiazione che attraversa la cellula, non incontra componenti con indice di rifrazione significativa-mente più elevato rispetto all’ambiente; ne emerge senza deviare e mantenendo la stessa ampiezza e lunghezza (S). Un’altra parte della radiazione (D) è rifratta e deviata rispet-to alla direzione della radiazione originaria, subendo un ri-tardo di fase approssimativamente di circa ¼ della lun-ghezza d’onda. I due raggi S (non modificato) e D (in ritardo di fase) penetrando nelle lenti dell’obiettivo subiscono un fenomeno d’interferenza; il raggio risultante ha la stessa ampiezza di quello che non ha subito modificazioni, ma

soltanto con un piccolo ritardo di fase, che non è apprezza-bile al microscopio ottico normale.

Nella microscopia in contrasto di fase (fig. 2.23) le picco-le differenze di fase sono amplificate in modo tale da po-tere essere percepite dall’occhio o da una lastra fotografica (fig. 2.24). Ciò è dovuto al fatto che, a livello dell’obiettivo, la luce passante ai margini della lente è sfasata in anticipo o in ritardo di ¼ della lunghezza d’onda, rispetto a quella che passa nella parte centrale dell’obiettivo. La modifica-zione della fase è prodotta da un dispositivo ad anello si-tuato sul piano focale posteriore dell’obiettivo, costituito da un disco trasparente contenente una doccia o un rilievo anulare corrispondente, per forma e dimensione, all’im-magine del condensatore a sua volta dotato di un filtro anulare.

Il contrasto di fase deriva dall’interferenza tra l’immagi-ne ottenuta dalla parte centrale dell’obiettivo e l’immagine laterale, che è stata anticipata o ritardata di ¼ della lun-ghezza d’onda (fig. 2.25a). Nel contrasto scuro o positivo i due fasci di raggi si sottraggono dando un’immagine dell’oggetto più scura del fondo (fig. 2.25b). Nel contrasto chiaro o negativo i due fasci di raggi si sommano e l’ogget-to appare più chiaro del fondo (fig. 2.25c). Le piccole varia-zioni di fase, a causa dell’interferenza, sono amplificate e trasformate in variazione d’ampiezza. L’oggetto trasparente appare perciò in vari toni di grigio, che dipendono dal suo spessore e dal suo diverso indice di rifrazione rispetto all’ambiente.

Il microscopio a contrasto di fase è impiegato per l’osser-vazione di cellule e tessuti viventi in cui possono essere osservati particolari citologici, istologici e microbiologici. Evidenzia in modo molto dettagliato, numerosi processi cellulari come la divisione nucleare, la citodieresi, la prolife-razione batterica, il movimento e la fagocitosi. È molto utile nello studio delle cellule coltivate in vitro. L’impiego di si-stemi microfotografici e microcinematografici, abbinati alla microscopia in contrasto di fase, si dimostra molto utile anche nella produzione di materiale divulgativo, per la no-tevole efficacia delle immagini prodotte.

FIGURA 2.24 ◗ Una clorofi ta (Scenedesmus sp.) osservata in contra-sto di fase a 400×.

Onda centrale S

Onda rifratta D

¼

S

S-D

D

S+DSD

a b

c

FIGURA 2.25 ◗ Interferenza tra due onde. a) Il normale ritardo di ¼ di λ della luce rifratta da un oggetto e la sua diff erenza di fase nei confron-ti della luce che passa nell’ambiente circostante. b) Per la diff erenza di fase le due onde S e D si sovrappongono per sottrarsi in un contrasto di fase scuro (S-D). c) Le due onde S e D si sovrappongono per rinforzarsi in un contrasto di fase luminoso (S+D).

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe14

2.3.3. Microscopia in campo oscuroLa microscopia in campo oscuro (fi g. 2.26), è un’ulteriore me-todologia usata nello studio delle cellule viventi. È basata sul fenomeno della diff usione luminosa, che si verifi ca al limite tra due fasi dotate di un indice di rifrazione diff erente. L’appa-recchio è un microscopio in cui il normale condensatore è so-stituito da una struttura particolare, che illumina il materiale obliquamente. Con questa metodologia nessuno dei raggi luminosi entra direttamente nell’obiettivo, ma penetrano solamente quelli diff usi dall’oggetto, che appare pertanto lu-minoso su fondo scuro. Con la microscopia in campo oscuro possono essere distinti microrganismi di piccole dimensioni, senza tuttavia poterne analizzare i dettagli strutturali.

2.3.4. Microscopia in contrasto di interferenza differenziale (DIC)È un tipo di microscopia che si propone lo stesso fi ne del-la microscopia in contrasto di fase, cioè rendere più visibili

gli oggetti trasparenti intervenendo sul percorso ottico. È basata sull’impiego di dispositivi capaci di suddividere l’on-da in due parti; una di esse attraversando il materiale viene perturbata, mentre l’altra parte conserva una forma geome-trica regolare. Le due parti ricombinandosi interferiscono e formano un’immagine legata alla struttura dell’oggetto. L’immagine, rispetto al campo circostante, appare con una luminosità o un colore diverso a seconda della fase delle due onde che interferiscono e del tipo di radiazione emessa dalla sorgente luminosa. L’oggetto perturba localmente la fase di una delle onde, per cui cambia la relazione di fase fra le onde interferenti, e quindi la luminosità del campo (o il suo colore) in corrispondenza della propria immagine.

Un particolare tipo di microscopia interferenziale è la tecnica DIC (Differential Interference Contrast, figg. 2.27 e. 2.28) che impiega:

due • fi ltri polarizzatori di cui uno posto sotto il preparato (nel condensatore o nel diaframma di campo) e l’altro sopra l’obiettivo.due • prismi di Wollaston, di cui uno posto a livello del condensatore e l’altro tra l’obiettivo e il secondo polariz-zatore. Il primo prisma suddivide la radiazione in due parti mentre il secondo la riunisce. Tra le due parti che si riuniscono avviene l’interferenza.

2.3.5. Microscopia in fluorescenzaLa fl uorescenza è la proprietà posseduta da alcune sostanze di assorbire radiazioni a corta lunghezza d’onda ed emette-re radiazioni di maggiore lunghezza, situate nel campo del visibile. Il microscopio a fl uorescenza, che di norma impie-ga radiazione ultravioletta (UV), permette di osservare le strutture fl uorescenti o rese fl uorescenti. Possiede diverse componenti:

una lampada a vapori di mercurio che produce UV;• un fi ltro d’eccitazione per selezionare la radiazione UV;• un fi ltro d’arresto, posto tra il preparato e l’osservatore (trat-• tiene la radiazione ultravioletta che, se non è assorbita, produrrebbe gravi lesioni oculari).Il microscopio a fluorescenza è largamente utilizzato

nelle indagini batteriologiche ed immunologiche.

2.3.6. Microscopia con luce polarizzataLa luce vibra in tutti i piani passanti lungo la linea di pro-pagazione. Facendo passare un pennello di luce monocro-matica, attraverso particolari minerali allo stato cristallino, è

FIGURA 2.26 ◗ Un’ameba osservata in campo oscuro.

Asse ottico

Condensatore Obiettivo Prisma di Wollaston 2

Prisma di Wollaston 1

Polarizzatore 1 Polarizzatore 2

Preparato

FIGURA 2.27 ◗ Le componenti microscopiche impiegate nel contrasto di interferenza diff erenziale (DIC).

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 15

possibile ottenere una luce polarizzata che vibra in un solo piano. Questo fenomeno è ottenuto con i prismi di Nicol, co-stituiti da cristalli di calcite tagliati in due secondo l’asse di simmetria ternaria e rincollati con balsamo del Canada.

Nella microscopia a luce polarizzata due prismi di Nicol, il primo polarizzatore ed il secondo analizzatore, sono montati in modo che il secondo possa essere ruotato, ri-spetto al primo, intorno alla direzione dei raggi incidenti. L’intensità della luce che ne esce è massima se i due prismi sono paralleli, mentre è minima quando il secondo prisma è ruotato di 90°, rispetto al primo (Nicol incrociati).

Questa metodologia è basata sul comportamento di al-cune componenti della cellula e dei tessuti, allorché sono osservati con la luce polarizzata. Se il materiale è isotropo la luce polarizzata si propaga in esso con la medesima ve-locità, in tutte le direzioni. Nelle sostanze anisotrope, inve-ce, la velocità di propagazione della luce polarizzata varia nelle diverse direzioni. Questo materiale è detto anche biri-frangente, in quanto presenta due indici di rifrazione corri-spondenti a diverse velocità di trasmissione della luce po-larizzata.

Il microscopio a luce polarizzata è impiegato in biologia per la ricerca di sostanze o composti tissutali birifrangenti a Nicol incrociati (silice, capelli, collagene), che appaiono lu-minosi su fondo oscuro. Nel microscopio a luce polarizzata il disco polarizzatore è situato nel portafiltro del condensa-tore, mentre il disco analizzatore è posto sopra l’obiettivo. Quando l’analizzatore è ruotato di 360° nel campo visivo, si ha alternanza di luce e oscurità ogni 180°. Le due posizioni di massima luminosità si ottengono allorché l’analizzatore è parallelo al polarizzatore. Quando analizzatore e polariz-zatore sono incrociati a 90° non c’è passaggio di luce pola-rizzata; se in queste condizioni si pone sul tavolino del mi-croscopio una sostanza birifrangente, il piano di polarizza-zione della luce è deviato di un angolo corrispondente al ritardo introdotto dal campione in esame. La prova usuale, che è compiuta con il microscopio a luce polarizzata, consi-ste nel ruotare il preparato su uno speciale tavolino ruotan-te, per trovare i punti di massima e di minima luminosità.

2.4. ALLESTIMENTO DEI PREPARATI PER LA MICROSCOPIA OTTICAL’osservazione mediante la microscopia ottica può essere eff ettuata con due tipi di tecniche: a fresco e dopo colora-zione.

2.4.1. Allestimento a frescoL’esame a fresco consente l’osservazione dei microrganismi in condizioni di normale vitalità. A seconda delle specifi che esigenze può essere eff ettuato in campo chiaro (fi g. 2.29), in campo oscuro, in contrasto di fase (fi g. 2.30 a, b) o in con-trasto di interferenza diff erenziale. Può essere impiegato su vetrino o a goccia pendente.

FIGURA 2.28 ◗ Alga unicellulare (Closterium sp.) circondata da bat-teri osservata in contrasto di interferenza diff erenziale (DIC).

FIGURA 2.29 ◗ L’osservazione a fresco mette in luce le caratteristiche delle cellule in condizioni di normale vitalità. Nell’immagine un eliozoo.

FIGURA 2.30 ◗ L’osservazione a fresco, oltre che in campo chiaro, può essere eseguita anche in contrasto di fase. Con questa tecnica si accen-tuano i contrasti tra le varie componenti cellulari. a) un eliozoo; b) un ciliato.

a

b

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe16

1) Esame su vetrino. Se il campione è costituito da una sospensione microbica, se ne preleva una goccia che viene deposta sul vetrino con una pipetta Pasteur o con l’ansa di platino. La goccia è ricoperta con un vetri-no coprioggetti, evitando la formazione di bolle d’aria. Si pressa il vetrino coprioggetti con una pinzetta, asciu-gando dai bordi del vetrino l’eccesso di sospensione con carta da fi ltro e si passa all’osservazione microsco-pica. Questa operazione deve essere eseguita in modo attento ad evitare pericolose contaminazioni. Se il campione è costituito da materiale compatto, come ad esempio una colonia batterica, si prepara una sospen-sione ponendo al centro del vetrino portaoggetti una goccia di soluzione fi siologica, in cui è stemperata una piccola quantità del materiale con l’ansa di platino. In seguito si distende la sospensione su una piccola por-zione del vetrino con movimenti delicati, si ricopre con un vetrino coprioggetti, si pressa e si passa all’osserva-zione microscopica.

2) Osservazione con goccia pendente. I vetrini alle-stiti con la goccia pendente sono spessi e presentano depressioni in cui è sistemata una goccia del preparato, che pende dal vetrino coprioggetti. Ne esistono diversi tipi; sono usati in particolare nell’esame della mobilità batterica. Il più comune è quello di Koch, che è dotato di un’escavazione centrale; è adatto per studi sui mi-crorganismi aerobici. Un altro vetrino è quello Sclavo. Possiede due escavazioni comunicanti; in una di esse può essere posto un reattivo per creare un ambiente anaerobico, aggiungendo composti in grado di cattu-rare l’ossigeno molecolare.

L’osservazione a fresco può essere effettuata secondo le necessità con obiettivi a secco o ad immersione. I preparati a goccia pendente non possono essere impiegati per il contrasto di fase, perché l’immagine viene distorta dal me-nisco che si forma con il preparato.

2.4.2. Allestimento di vetrini coloratiLe colorazioni aumentano il contrasto tra le diverse com-ponenti biologiche. Producono evidenti diff erenze croma-tiche delle strutture cellulari, di cui permettono la diff eren-ziazione altrimenti non apprezzabile con l’esame a fresco.

Si distinguono colorazioni vitali, colorazioni negative e co-lorazioni vere e proprie; queste ultime devono essere prece-dute dal fissaggio del preparato. Con particolari colorazioni è possibile identificare specifici costituenti chimici cellulari; a tale scopo vengono utilizzati coloranti selettivi, in grado di legarsi in modo specifico con i costituenti ricercati.

Le colorazioni vitali utilizzano coloranti che mantengo-no la vitalità cellulare, pertanto permettono l’osservazione dei microrganismi in vivo. Le colorazioni negative impiega-no sostanze che colorano intensamente lo sfondo, senza penetrare negli elementi cellulari; in questo caso le cellule appaiono chiare e nettamente distinguibili dal fondo colo-rato.

Una metodica di questo tipo è la colorazione di Burri, che impiega l’inchiostro di China; è utilizzata, in particolare, per evidenziare la capsula batterica. Questa metodica consiste nel porre al centro di un vetrino portaoggetti una piccola quantità d’inchiostro di China, in cui è stemperato il mate-riale microbico. Ottenuta la sospensione si ricopre con un vetrino coprioggetti, si pressa e si passa all’osservazione microscopica.

2.4.2.1. Le fasi dell’allestimentoLe colorazioni vere e proprie richiedono, di norma, il fi ssag-gio alla fi amma. Le fasi dell’allestimento dei preparati colo-rati sono relativamente complesse e prevedono le seguenti fasi:

prelievo del campione• (fi g. 2.31);distensione del materiale sul vetrino• (fi g. 2.32);asciugatura all’aria• ;fi ssaggio alla fi amma• (fi g. 2.33);colorazione• (fi g. 2.34);lavaggio in acqua corrente• ;asciugatura all’aria• .

FIGURA 2.31 ◗ Prelievo di colonia in piastra.

FIGURA 2.32 ◗ Distensione su vetrino.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 17

Se il materiale è costituito da sospensione microbica, viene prelevato con ansa di platino e posto al centro di un vetrino portaoggetti. Se è costituito da materiale “compat-to” come le colonie provenienti da terreni agarizzati, deve essere stemperato in una goccia di soluzione fisiologica, posta in precedenza al centro del vetrino portaoggetti. La sospensione è distesa delicatamente con movimenti circo-lari, per allontanare i microrganismi tra di essi senza alterar-ne gli aggregati.

Il preparato ottenuto è asciugato in ambiente areato, dopodiché si passa al fissaggio alla fiamma. Questa fase è piuttosto importante in quanto: blocca le attività cellulari (quindi impedisce i fenomeni alterativi), disidrata a fondo il materiale, uccide le forme potenzialmente patogene e fa aderire il materiale al vetrino. Di norma il fissaggio si ese-gue passando lentamente il vetrino sulla fiamma di un becco Bunsen per tre volte consecutive. A questo punto il vetrino è sottoposto alla colorazione scelta, secondo le sequenze e i tempi previsti.

Si passa quindi ad un lavaggio prolungato per eliminare il colorante non assorbito; questa fase si esegue in acqua corrente fino a che il preparato non cede più colore. Si pas-sa quindi all’asciugatura in ambiente areato. Dopo questa fase il preparato è pronto per l’esame microscopico.

L’osservazione è eseguita, di norma, con il massimo in-grandimento in immersione con olio di cedro o sintetico. I campioni costituiti da tessuti o cellule animali devono esse-re trattati impiegando metodi d’allestimento istologici e citologici.

2.5. I COLORANTIUn colorante è una sostanza, naturale o di sintesi, dotata di una duplice caratteristica: da una parte deve essere in grado di assorbire la luce e di colorarsi, dall’altra deve es-sere in grado di legarsi ai substrati conferendo ad essi una colorazione che corrisponde, di norma, alla propria. Il mec-canismo della colorazione è caratterizzato da una fase in cui il colorante è adsorbito sulla superfi cie della struttura che deve essere colorata (substrato) e dalla reazione chimi-ca che si stabilisce tra le molecole del colorante e quelle del substrato.

2.5.1. Caratteri chimici dei colorantiI coloranti sono sostanze dotate di caratteristiche quanto mai diverse. In ogni caso nelle molecole dei coloranti pos-sono essere evidenziate tre distinte componenti:

una struttura molecolare dotata di funzione di supporto, • come ad esempio il benzene. Su di essa sono legate le com-ponenti che caratterizzano il colorante;uno o più gruppi colorati defi niti • cromòfori;uno o più gruppi in grado di legarsi con specifi ci substrati • defi niti gruppi auxòcromi.

FIGURA 2.33 ◗ Fissaggio.

FIGURA 2.34 ◗ Colorazione.

Alcuni gruppi cromòfori−NO2; −N=; −N=N−

Alcuni gruppi auxòcromiAcidi: −OH; −COOH.

Basici: −NH2; −NHR; −NR2

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe18

La molecola del benzene (C6H6) può essere presa come modello di riferimento. Tale composto è privo di colore, ma se tre dei suoi atomi d’idrogeno sono sostituiti da gruppi –NO2, si ottiene una sostanza dotata di una colorazione gial-la definita trinitrobenzene. I gruppi –NO2 sono i cromòfori, in quanto responsabili della colorazione gialla (fig. 2.35).

Se, nel trinitrobenzene, uno degli atomi dell’idrogeno è sostituito con un ossidrile (–OH) si ottiene l’acido picrico, che è in grado di dare reazioni di salificazione con moleco-le basiche; il gruppo –OH è pertanto auxòcromo. Se invece del gruppo –OH è inserito un gruppo –NH2, la molecola ottenuta è basica ed in grado di legarsi con substrati acidi.

2.5.2. Classificazione dei colorantiI coloranti impiegati nella microscopia sono classifi cati, in base alla provenienza, in naturali ed artifi ciali. Quelli natu-rali sono relativamente pochi e derivano dal regno animale o vegetale; tra essi possono essere ricordati: l’indaco, lo zaf-ferano, l’ematossilina, l’orceina. I coloranti artifi ciali, invece, sono composti aromatici derivati dal benzene ed ottenuti esclusivamente per sintesi chimica. Particolarmente impor-

tanti sono i composti contenenti: gruppi azoici (−N=N−), ni-trosi (−NO), tiocarbonilici (−C=S). Possono essere classifi cati anche in:

basici• . Sono costituiti da un sale ottenuto da una base colorata e un acido incolore. Colorano selettivamente gli acidi nucleici. I coloranti utilizzati in batteriologia sono, in gran parte, coloranti basici. Comprendono il blu di me-tilene (fi g. 2.36), il violetto di genziana, il verde metile, la safranina, la fucsina basica ed altri;acidi.• Sono formati da un sale di acido colorato e una base incolore. Comprendono l’eosina, il verde luce, l’aran-cio G;neutri.• Sono costituiti da un sale di una base e di un acido colorati (eosinato di blu di metilene).Come già indicato, il colore assunto dai substrati, di nor-

ma è lo stesso del colorante; tuttavia alcuni composti come il blu di toluidina, conferiscono ad alcune componenti cellu-lari una colorazione diversa rispetto alla propria (metacro-masia). Nella colorazione di Albert, ad esempio, i granuli di volutina dei bacilli difterici si colorano in rosso, mentre il resto del corpo batterico è colorato in verde (fig. 2.37). La metacromasia è un elemento diagnostico della difterite.

Alcuni coloranti sono assunti dalle cellule viventi senza alterarne in modo significativo i processi biologici. Sono impiegati per lo studio di alcune funzioni. Comprendono il rosso Congo, il verde janus, il blu di cresile brillante, il rosso neutro.

2.5.3. Preparazione dei colorantiLe preparazioni adatte all’uso dei coloranti, sono costituite da soluzioni idroalcoliche. Tali soluzioni sono poco stabili e devono essere preparate frequentemente dalle soluzioni sovrassature in alcool assoluto (soluzione alcolica madre). La soluzione alcolica madre è più stabile, ma è inidonea all’im-piego come colorante, poiché non possiede la tipica disso-ciazione che permette il suo legame con il substrato.

Per ottenere la soluzione alcolica madre, si prepara una soluzione sovrassatura del colorante in alcol etilico assolu-to e la si lascia a riposo per qualche giorno, agitandola fre-quentemente per evitare la formazione di grossolani depo-siti. Le soluzioni idroalcoliche impiegabili come coloranti, sono preparate con una semplice diluizione in acqua: ad una parte della soluzione alcolica madre vengono aggiun-te dieci parti d’acqua distillata.

O2N NO2

NO2

O2N NO2

NO2

OH

O2N NO2

NO2

O2N NO2

NO2

NH2

Benzene

Benzene

Trinitrobenzene

Trinitrobenzene Trinitroanilina

Acido picrico

FIGURA 2.35 ◗ Struttura molecolare di un colorante.

+S N

N

CH3

H3C N

CH3

Cl–

H3C

FIGURA 2.36 ◗ Struttura del blu di metilene.

FIGURA2.37 ◗ Le granulazioni metacromatiche sono componenti cellulari che si colorano in modo diverso dal colorante utilizzato.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 19

Per permettere un più agevole passaggio del colorante attraverso i tegumenti cellulari, alle soluzioni idroalcoliche possono essere aggiunte sostanze intensificanti; tra queste può essere ricordato, in particolare, l’acido fenico, che è aggiunto alla soluzione satura del colorante dopo averlo sciolto in acqua.

2.5.4. Reagenti usati nelle colorazioniDurante le colorazioni, oltre ai coloranti, possono essere impiegate altre sostanze come gli intensifi canti, i mordenti ed i decoloranti (o diff erenzianti).

Gli intensificanti sono agenti chimici (tab. 2.5) e fisici in grado di aumentare l’assunzione del colore da parte del substrato senza inserirsi nel complesso colorante-substra-to. Tra gli intensificanti fisici può essere ricordato il calore; come già indicato, tra quelli chimici l’acido fenico (fig. 2.38). Il calore aumenta l’assunzione dell’acqua e dei coloranti presenti in soluzione, diminuendo l’idrofobia delle struttu-re cellulari di superficie.

I mordenti o mordenzanti intervengono nella reazione colorante-substrato, in quanto entrano nella composizione del prodotto. I mordenti possono essere aggiunti alla solu-zione del colorante o in una fase successiva alla colorazio-ne. Nel primo caso si parla di coloranti mordenzati. La maggior parte dei mordenti o mordenzanti sono agenti ossidanti come l’acido cromico, lo iodio, l’acido picrico e l’acido nitrico.

I decoloranti sono sostanze in grado di allontanare l’ec-cesso di colorante assunto da un preparato. Tra i decoloran-ti possono essere ricordati: l’alcol etilico, l’acido acetico,

l’acido cloridrico, l’alcol-acetone, l’acido solforico. Se l’azione decolorante è esercitata in modo selettivo, il decolorante è definito diffenziatore (alcol etilico nella colorazione di Gram).

2.6. LE COLORAZIONI MICROBIOLOGICHETra le colorazioni microbiologiche assumono particolare ri-lievo quelle batteriche; in esse, per l’alta concentrazione di molecole acide intracellulari, vengono impiegati i coloranti basici. Tra i coloranti batteriologici possono essere ricorda-ti: il blu di metilene, il cristalvioletto, la fucsina ed il verde malachite.

Si parla di colorazioni positive, se è colorata solo la cellula batterica, di colorazioni negative se, invece, è colorato lo sfondo. In quest’ultimo caso i batteri si presentano incolori e contrastano sul fondo scuro (fig. 2.39).

Se le colorazioni impiegano un solo colorante e richie-dono un solo passaggio, si definiscono semplici; se richie-dono più passaggi ed anche sostanze diverse dai coloranti, sono definite complesse o composte.

2.6.1. Principali colorazioni batteriologicheI batteri possiedono dimensioni modeste ed uno scarso contrasto con l’ambiente circostante. Per questo motivo, frequentemente vengono impiegate colorazioni semplici monocromatiche o complesse che, se da una parte privano della vitalità gli elementi cellulari, dall’altra ne migliorano l’osservazione.

La soluzioni alcolica madre si prepara aggiungendo:Colorante in polvere g 10Alcol etilico assoluto ml 100Le soluzioni idroalcoliche del colorante si prepara-no aggiungendo:Soluzione alcolica madre ml 10Acqua distillata ml 100

ColoranteSoluzione

alcolica madre

Acido fenico Acqua

Fucsina fenicata di Ziehl

10 ml 5 g 100 ml

Violetto di genziana fenicato di Nicolle

10 ml 1 g 100 ml

Blu di metilene fenicato di Khune

15 ml 2 g 100 ml

Cristalvioletto fenicato di Roux

10 ml 2 g 100 ml

TABELLA 2.5. Coloranti contenenti sostanzeintensifi canti

OH

Fenolo

FIGURA 2.38 ◗ Il fenolo (acido fenico) è un composto in grado di faci-litare la penetrazione del colorante all’interno della cellula.

FIGURA 2.39 ◗ Osservazione a 400× della capsula batterica con in-chiostro di China (metodo di Burri).

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe20

2.6.1.1. Colorazione semplice monocromaticaImpiega un solo colorante ed un’unica fase di colorazione:

il materiale è prelevato, deposto e disteso sul vetrino, • quindi essiccato all’aria e fi ssato alla fi amma;sul vetrino, posto su un piano orizzontale, si versa tanto • liquido colorante da ricoprire completamente il prepara-to. Si lascia agire per qualche minuto a freddo;si getta il colorante e si lava abbondantemente con ac-• qua corrente. Questa operazione consente di eliminare ogni traccia del colorante non assorbito;si asciuga in ambiente areato.•

2.6.1.2. Colorazione di GramÈ stata proposta dall’anatomopatologo danese Cristian Gram nel 1884. Rivelò la sua utilità ben oltre lo scopo che l’aveva ispirata, cioè quello di mettere in luce le cellule bat-teriche nei preparati istologici. Il suo largo impiego è moti-vato dal fatto che è di semplice esecuzione e permette di distinguere agevolmente i batteri Gram positivi (fi gg. 2.40 e 2.41) dai batteri Gram negativi (fi gg. 2.42 e 2.43). Si basa sulla capacità posseduta da alcuni coloranti, come il violetto di genziana o il cristalvioletto, di legarsi con lo iodio dando composti non dissociabili con l’alcool. Alcuni batteri hanno una speciale affi nità per questa combinazione. Una volta

colorati, cedono il colorante con diffi coltà; in particolare, se trattati con alcool etilico assoluto, restano colorati in viola (Gram positivi). Altri batteri nelle stesse condizioni si deco-lorano del tutto, ma sono ricolorabili con un colorante di contrasto come la safranina, il verde malachite o la fucsina basica diluita 1/10 o 1/20; quest’ultima li tinge di rosa-rosso (Gram negativi).

Il diverso comportamento che le cellule batteriche di-mostrano nella colorazione di Gram, si riflette anche in un diverso comportamento nei confronti di altri agenti. Dal punto di vista terapeutico è degno di considerazione il fatto che alcuni antibiotici si presentano più efficaci nei confronti dei batteri Gram positivi, mentre altri dimostrano una maggiore attività nei confronti dei Gram negativi.

Da un punto di vista diagnostico, con un semplice esa-me batterioscopico, come la colorazione di Gram, è possi-bile giungere ad un preciso orientamento per l’identifica-zione dei germi in esame. Sono Gram positive: gran parte delle forme sferiche e una parte delle forme bastoncellari diritte. Sono Gram negative: tra le forme sferiche solo le Neisseriaceae (a forma di chicco di caffè), tra le forme ba-stoncellari diritte diverse famiglie, come le Enterobacteria-ceae e le Pseu do mo na daceae, tutte le forme bastoncellari ricurve, come le spirochete del genere Borrelia, Treponema e Le pto spira.

FIGURA 2.40 ◗ Forme bacillari Gram positive. Osservazione a 1000×.

FIGURA 2.41 ◗ Forme cocciche Gram positive. Osservazione a 1000×.

FIGURA 2.42 ◗ Piccoli batteri Gram negativi con forma bastoncellare diritta. Osservazione a 1000×.

FIGURA 2.43 ◗ Batteri di forma coccica Gram positivi e batteri con forma bastoncellare Gram negativi. Osservazione a 1000×.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 21

Esecuzione (tab. 2.6)1) Si preleva il materiale, lo si depone sul vetrino, si disten-

de, si asciuga e si fi ssa il preparato ottenuto alla fi amma;2) colorazione primaria: si colora con violetto di genziana,

cristalvioletto o violetto di Nicolle. Tempo 1-3 minuti;3) mordenzatura: si getta l’eccesso di colorante e, senza

lavare, si versa sul preparato la soluzione di Lugol (solu-zione iodo-iodurata in acqua). Tempo 1 minuto;

4) decolorazione: si getta il liquido di Lugol e, senza la-vare, si versa goccia a goccia alcol etilico assoluto sul preparato. Si continua fi no a che il preparato non cede più colore. Il tempo della decolorazione è molto impor-tante ed è infl uenzato dalla qualità del materiale e dallo spessore dello striscio. Se da una parte una decolora-zione insuffi ciente rischia di lasciare colorati anche bat-teri Gram negativi, dall’altra una decolorazione ecces-sivamente prolungata può privare i Gram positivi della classica colorazione viola. In genere il tempo previsto in questa fase è di circa 20″-30″;

5) breve lavaggio con acqua corrente;6) colorazione di contrasto: questa fase ha essenzialmen-

te lo scopo di evidenziare le cellule batteriche che hanno perso il colore durante il lavaggio in alcol assoluto (Gram negativi). Richiede l’impiego di un colorante che contra-sti con il violetto dei batteri Gram positivi. In genere s’im-piega la fucsina 1/10 o 1/20 o la safranina. I Gram negativi si colorano in rosso. L’uso di altri coloranti come il verde malachite evidenzia, in modo ugualmente netto, i Gram negativi dai Gram positivi. Tempo 20″-30″;

7) lavaggio prolungato in acqua corrente fi no a che il preparato non cede più colore;

8) asciugatura in ambiente areato.

2.6.1.3. Colorazione di Ziehl-Neelsen (per alcol acidi resistenti)L’alcol-acido resistenza del bacillo tubercolare, scoperta da Ehrlich, costituisce la base per la diagnosi microscopica del-la tubercolosi. Questa proprietà è presa anche come crite-rio per la classifi cazione di un particolare gruppo batterico: quello dei micobatteri. Appartengono a questo gruppo: il bacillo tubercolare, il bacillo della lebbra ed alcune forme saprofi tiche. I batteri alcol-acido resistenti sono dotati di un’elevata idrofobia; possono essere colorati solo con colo-ranti mordenzati, come la fucsina fenicata di Ziehl, median-te trattamenti a caldo. Una volta assunto il colorante, hanno la capacità di trattenerlo anche se sottoposti ad un’energica diff erenziazione con alcol ed acidi minerali. L’alcol-acido re-sistenza è dovuta alla presenza di sostanze di natura lipidi-ca che rivestono la parete.

Esecuzione (tab. 2.7)1) Si preleva il materiale, lo si depone sul vetrino, si distende,

si asciuga e si fissa il preparato ottenuto alla fiamma;2) colorazione primaria: si colora con fucsina fenicata di

Ziehl (soluzione alcolica madre di fucsina basica ml 10, acido fenico 5% ml 100) scaldando alla fiamma in mo-do che per tutta la durata si sviluppino vapori. Tempo 5 minuti;

3) breve lavaggio in acqua corrente;4) decolorazione: s’impiega acido solforico al 20% fino a

che il preparato diviene giallo e dopo lavaggio conser-vi una tinta rosa. Occorrono in genere 30″-60″;

5) breve lavaggio in acqua corrente;6) decolorazione: si decolora con alcol etilico assoluto,

Fase Tempi Gram+ Gram–

Colorazione primaria con violetto di genziana 1-3 minuti

Mordenzatura con soluzione di Lugol 1 minuto

Decolorazione con alcol etilico assoluto 20"-30"

Colorazione di contrasto con fucsina basica diluita 1/10-1/20 20"-30"

TABELLA 2.6. Schema della colorazione di Gram e degli eff etti prodotti in ogni fase suiGram positivi e Gram negativi

Fase TempiBatteri

alcol-acido resistenti

Batteri nonalcol-acido resistenti

Colorazione primaria con fucsina fenicata di Ziehl 5 minuti

Decolorazione con acido solforico al 20% 30"-60"

Decolorazione con alcol etilico assoluto 60"-120"

Colorazione di contrasto con blu di metilene 2-5 minuti

TABELLA 2.7. Schema della colorazione di Ziehl-Neelsen

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe22

fino a che il preparato non cede più colore. Occorrono in genere 60″-120″;

7) breve lavaggio in acqua corrente;8) colorazione di contrasto: s’impiega una soluzione

idroalcolica di blu di metilene. Tempo 2-5 minuti;9) lavaggio prolungato in acqua corrente fino a che il

preparato non cede più colore;10) asciugatura in ambiente areato.

I batteri alcol-acido resistenti sono colorati dalla fucsina che trattengono in tutte le fasi successive. I batteri non alcol-acido resistenti, sono anch’essi colorati dalla fucsina, ma dopo essere stati decolorati durante la differenziazione, sono in grado di assumere il colorante di contrasto. Quest’ultimo, di norma è costituito da blu di metilene. In conclusione i batte-ri alcol-acido resistenti assumono una colorazione rossa, mentre tutti gli altri appaiono azzurri (fig. 2.44).

2.6.1.4. Colorazione delle spore secondo AlessandriniDal punto di vista tecnico e concettuale, la colorazione delle spore può essere trattata accanto alla colorazione di Ziehl-Neelsen, in quanto l’elevata idrofobia dei rivestimenti sporali richiede trattamenti drastici, paragonabili a quelli impiegati nella colorazione dei batteri alcol-acido resistenti (fi g. 2.45).

Le spore, nell’esame a fresco in campo chiaro o in campo oscuro, sono distinguibili dalle altre componenti dello spo-rangio e dalle cellule vegetative per l’alta rifrangenza e

l’elevata luminosità. Possedendo un’elevata idrofobia, assu-mono i coloranti con grande difficoltà. Ne deriva che, nei preparati sottoposti alla colorazione semplice od a quella di Gram (fig. 2.46), le spore appaiono come un centro inco-lore e trasparente, distinto dalla parte restante del batterio

FIGURA 2.44 ◗ Nella colorazione di Ziehl-Neelsen i batteri alcol-aci-do resistenti, come il Mycobacterium tubercolosis, appaiono colorati in rosso. Da. R. Cevenini. Microbiologia Clinica. Piccin Nuova Libraria. Padova 2002.

FIGURA 2.45 ◗ Sporangi e spore libere. Colorazione di Alessandrini (1000×).

Colorazione delle spore con il verde malachite1) Colorazione primaria con verde malachite a caldo

per un tempo di 5-10 minuti. Colora le spore, gli sporangi e le cellule vegetative.

2) Colorazione di contrasto con safranina per 30 se-condi. Questo colorante si sostituisce al verde ma-lachite negli sporangi e nelle cellule vegetative, ma non penetra nelle spore.

3) Le spore sono colorate in verde, mentre gli spo-rangi e le cellule vegetative in rosso (fi g. 2.47).

FIGURA 2.46 ◗ Sporangi con morfologia a bactridio. Colorazione di Gram (1000×).

FIGURA 2.47 ◗ Sporangi colorati con il verde malachite. Osservazio-ne a 1000×.

e dalle altre cellule vegetative. Nelle spore libere (fig. 2.48) il colorante si deposita sulla superficie e si evidenzia con un sottile involucro colorato (esosporio). La colorazione delle

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 23

spore richiede l’impiego di una colorazione a caldo, come la fucsina fenicata di Ziehl ed una successiva differenziazio-ne, che però deve essere meno energica rispetto a quella impiegata per gli alcol-acido resistenti. La metodologia proposta è quella di Alessandrini.

Esecuzione (tab. 2.8)1) Si preleva il materiale, lo si depone sul vetrino, si di-

stende, si asciuga e si fissa il preparato ottenuto alla fiamma;

2) colorazione primaria: si colora con fucsina fenicata di Ziehl (soluzione alcolica madre di fucsina basica ml 10, acido fenico 5% ml 100) scaldando alla fiamma in mo-do che si sviluppino vapori. Tempo 5-10 minuti;

3) breve lavaggio in acqua corrente;4) decolorazione: si decolora con solfito di sodio al 10%

per 20"-30";5) si lava con acqua corrente;6) colorazione di contrasto: si colora con blu di metile-

ne. Tempo 5 minuti;7) lavaggio prolungato in acqua corrente fino a che il

preparato non cede più il colore;8) asciugatura in ambiente areato.

2.6.1.5. Colorazione della capsulaOltre alla colorazione negativa, la capsula può essere evi-denziata mediante alcune colorazioni positive; tra queste appaiono degne di nota quelle che richiedono un pretrat-tamento con mordenti a base di tannino o formolo. Uno dei metodi più importanti è quello dell’impregnazione argen-

tica, secondo Fontana; comporta l’uso del tannino come mordente. Di particolare signifi cato sono anche le meto-dologie che utilizzano anticorpi specifi ci contro gli antigeni capsulari; evidenziano la capsula direttamente o dopo es-sere stati marcati con fl uorocromi.

2.6.1.6. Colorazione delle cigliaDato che lo spessore delle ciglia batteriche è inferiore al limite di risoluzione del microscopio ottico, tutti i metodi messi a punto per dimostrarle tendono a realizzarne l’ispes-simento. L’estrema fragilità di queste appendici impone un delicato allestimento del preparato e l’impiego di fi ssati-vi che non producono un’eccessiva alterazione della loro struttura originaria. Può essere ricordato il metodo di Pul-cher che comporta il fi ssaggio del preparato (con cloruro di cobalto e acido cromico), seguito da colorazione a caldo con cristalvioletto-tannino e successivo trattamento con ni-trato d’argento ammoniacale.

2.6.1.7. Colorazione delle granulazioni metacromaticheÈ una metodica utilizzata nella diagnostica microscopica per la ricerca del bacillo difterico. Tra le diverse tecniche può essere ricordata quella di Ernst-Neisser modifi cata (Neis-ser II). Il preparato è prima colorato con blu-cristalvioletto acetico (soluzione di blu di metilene, cristalvioletto e acido acetico), in seguito trattato con soluzione di Lugol acido (Lugol + acido lattico) e infi ne sot toposto a colorazione di contrasto con soluzione di crisoidina. Nei corpi batterici, di color avana chiaro, spiccano i granuli metacromatici di vo-

FIGURA 2.48 ◗ Numerose spore libere frammiste a sporangi con spo-re subterminali prominenti. Osservazione all’M.O. dopo colorazione di Gram a 1000×.

FIGURA 2.49 ◗ Sporangi batterici osservati in contrasto di fase a 400×.

Fase Tempi Sporangi Cellule vegetative

Colorazione primaria con fucsina fenicata di Ziehl 5-10 minuti a caldo

Decolorazione con acido solforico al 10-15% 20"-30"

Colorazione di contrasto con blu di metilene 5 minuti

TABELLA 2.8. Schema della sequenza delle fasi della colorazione di Alessandrini e degli eff etti prodotti da ogni passaggio su sporangi e batteri

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe24

lutina, colorati in violetto scuro o neri. Nel metodo di Albert, il preparato è colorato con blu di toluidina, verde malachite e acido acetico (Albert I) e, in seguito, trattato con soluzione iodo-iodurata (Albert 2). I bacilli difterici ap paiono verdi con i granuli metacromatici rossi, mentre gli altri microrganismi assumono una tenue colorazione verde (fi g. 2.50).

Esecuzione tecnica del metodo di AlbertSi preleva il materiale, lo si depone sul vetrino, si disten-• de, si asciuga e si fi ssa il preparato ottenuto alla fi amma;si colora con il colorante di Albert I per 5 minuti;• si getta il colorante senza lavare;• si colora con l’Albert II per 1 minuto;• si lava abbondantemente con acqua corrente, si asciuga • e si osserva in immersione.

2.6.1.8. Colorazione con fluorocromiLe sostanze fl uorescenti hanno la capacità di assorbire ra-diazioni elettromagnetiche di una determinata lunghezza d’onda e di rilasciare radiazioni di una lunghezza d’onda superiore. In pratica, ricevendo gli ultravioletti, emettono

luce visibile. La fl uorescenza prodotta da sostanze proprie dei microrganismi si defi nisce primaria, mentre quella do-vuta alle sostanze che vengono legate ai microrganismi (fl uorocromi), si defi nisce secondaria. In microbiologia è più importante quest’ultima; è ottenuta legando sostanze fl uo-rescenti alla cellula microbica dopo un idoneo trattamento. L’uso dei fl uorocromi, quali l’isotiocianato di fl uoresceina o l’isotiocianato di rodamina legati agli anticorpi, è alla base dell’immunofl uorescenza. Questa tecnica prevede: una pri-ma fase in cui gli anticorpi marcati si legano agli antigeni microbici specifi ci con i quali sono posti a contatto; una se-conda fase in cui si ricercano le cellule legate ai fl uorocromi con la microscopia a fl uorescenza. È largamente utilizzata nella diagnostica microbiologica (fi g. 2.51).

2.7. IL MICROSCOPIO ELETTRONICO2.7.1. Aspetti generaliIl microscopio elettronico (fi g. 2.52) è uno strumento do-tato di un potere risolutivo nettamente superiore a quello

FIGURA 2.50 ◗ Granulazioni metacromatiche di Corynebacterium diphtheriae. Da M. Marchegiani, M. Mirra. Vita e Microrganismi. Pic-cin Nuova Libraria. Padova 1988.

FIGURA 2.51 ◗ Schema di un preparato contenente due specie ba-cillari, trattate con anticorpi marcati con isotiocianato di fl uoresceina (verde) e rodamina (rosso).

FIGURA 2.52 ◗ Il microscopio elettronico è una complessa apparecchiatura costituita da componenti ad alta tecnologia. Nell’immagine un micro-scopio elettronico a scansione (SEM).

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 25

del microscopio ottico (1000 volte più elevato); permette la visione di strutture di dimensioni dell’ordine dei 2,5-3 Å ed è dotato di ampie possibilità applicative. In campo biologi-co consente lo studio dettagliato delle strutture cellulari e virali.

Il cuore del microscopio elettronico è costituito da un catodo al cui interno è contenuto un filamento di tungste-no o di esaboruro di lantanio (LaB6) che, una volta riscalda-to, emette elettroni accelerati attraverso l’applicazione di un elevato potenziale elettrico (tra i 50 e i 200 kV). In queste condizioni gli elettroni tendono a percorrere una traiettoria rettilinea e mettono in evidenza una natura corpuscolare ed ondulatoria come la radiazione luminosa. Si differenzia-no tuttavia da quest’ultima per una lunghezza d’onda mol-to più breve: quella della luce è compresa tra i 380 (violetto) ed i 730 nm (rosso), mentre l’onda associata agli elettroni è prossima a 0,005 nm (fig. 2.53).

Nell’M.E. gli elettroni emessi dal catodo sono deviati da una prima bobina magnetica, funzionante da condensatore, e messi a fuoco in corrispondenza del preparato; dopo aver-lo oltrepassato, sono deviati da un secondo avvolgimento magnetico, avente la funzione di obiettivo. Quest’ultimo è in grado di produrre un’immagine ingrandita che è ricevuta da una terza lente magnetica, la quale funge da oculare e pro-duce un ulteriore ingrandimento. L’immagine finale può es-sere osservata direttamente su uno schermo fluorescente o essere proiettata su una lastra fotografica (fig. 2.54).

In contrasto con le apparenti somiglianze, le differenze tra il microscopio a luce ordinaria e quello elettronico sono sostanziali (tab. 2.9). In particolare è diverso il meccanismo con cui si forma l’immagine. Nel microscopio ottico la for-mazione dell’immagine dipende dal grado d’assorbimento della luce nelle diverse zone del preparato, mentre nel mi-croscopio elettronico la formazione dell’immagine è legata, soprattutto, alla dispersione degli elettroni. Questi, entran-do in collisione con i nuclei degli atomi del preparato, sono deviati in modo da cadere fuori dell’apertura della lente magnetica che costituisce l’obiettivo. L’immagine, che ne deriva sullo schermo fluorescente, è quindi il risultato della mancanza d’elettroni. La deviazione degli elettroni può es-sere conseguente a molteplici collisioni, che comportano una diminuzione dell’energia contenuta; in questo caso possono essere prodotti anche effetti cromatici.

L’entità della dispersione elettronica deriva dallo spesso-re e dalla struttura molecolare del materiale in esame; di-pende, in particolare, dal numero atomico degli elementi

contenuti. Tanto più elevato è il numero atomico, tanto maggiore è la perdita elettronica. La maggior parte delle molecole che costituiscono la materia biologica ha un bas-so numero atomico; ciò contribuisce scarsamente alla for-mazione dell’immagine. Pertanto nel caso di materiale biologico è necessario aggiungere atomi pesanti alla sua struttura molecolare.

+

e–

FIGURA 2.53 ◗ L’elettrone può essere considerato come una particel-la di massa infi nitesima, a cui è associata un’onda di lunghezza pari a circa 0,005 nm.

Lastra fotografica

Bobina magnetica di proiezione

Bobina magneticacon funzione di obiettivo

Bobina magneticacon funzione di condensatore

Sorgente di elettroni

FIGURA 2.54 ◗ Schema delle componenti di un microscopio elettro-nico a trasmissione (TEM).

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe26

Il vantaggio del microscopio elettronico è dovuto all’ele-vatissimo potere di risoluzione, che dipende dalle stesse variabili del microscopio a luce ordinaria. La lunghezza d’onda del fascio elettronico non ha un valore costante, ma dipende essenzialmente dalla tensione d’accelerazione alla quale gli elettroni sono sottoposti; può essere calcolata con la formula di De Broglie in cui la lunghezza d’onda impiega-ta (λ), espressa in angstrom (Å), è uguale a:

12,2V

Å

In un modello corrente di microscopio elettronico, dota-to di un potenziale corrispondente a 50 kV (5·104V), l’onda associata all’elettrone risulterebbe di 0,0535 Å; in questo caso il limite di risoluzione teorico, essendo equivalente a circa la metà della lunghezza d’onda, dovrebbe essere in-torno a 0,03 Å. Ciò consentirebbe di osservare le piccole molecole, ma a causa di limitazioni quali ad esempio le aberrazioni delle lenti magnetiche, la disomogeneità dei campi elettrici e lo spessore delle sezioni, il limite di risolu-zione reale dell’M.E. corrisponde a circa 3-5 Å. Per i prepa-rati d’origine biologica, il limite di risoluzione reale sale a circa 10 Å (1 nm).

L’immagine prodotta dall’obiettivo, che è di circa 100×, può essere enormemente ingrandita dall’avvolgimento oculare, raggiungendo un ingrandimento complessivo di circa 20.000×. Negli apparecchi recenti, che sono dotati di lenti intermedie, è possibile ottenere ingrandimenti fino a 160.000× che, con un’ulteriore elaborazione fotografica, possono raggiungere i 106. Lo scarso potere di penetrazio-ne degli elettroni richiede, oltre ad un ambiente sottovuo-to, l’impiego di uno spessore estremamente sottile delle sezioni. Per raggiungere tale obiettivo si impiegano parti-colari resine, in cui vengono inclusi i campioni, e speciali microtomi (ultramicrotomi) che consentono di ottenere sezioni sottilissime.

2.7.2. Microscopio elettronico a trasmissione (TEM)Il microscopio elettronico a trasmissione, defi nito anche TEM (Transmission Electron Microscope, fi g. 2.55), è costitu-ito essenzialmente da una struttura cilindrica e da una con-solle attraverso la quale possono essere programmate tutte le attività. Le principali componenti sono:

una sorgente luminosa• . È costituita da un fi lamento di tungsteno o di esaboruro di lantanio; tale fi lamento produce un fascio di elettroni che vengono convogliati all’interno di un cilindro (calotta di Whenalt). In prossimi-tà di questo si trova l’anodo, attraverso cui passa il fascio elettronico. Se tra il catodo e l’anodo si applica una diff e-

renza di potenziale di oltre 50 kV, si produce un’elevatis-sima accelerazione degli elettroni;una colonna • (fi g. 2.56). È mantenuta sotto vuoto spinto per evitare la dispersione degli elettroni contenuti nel fascio, se si è in presenza di molecole d’aria;

Caratteri distintivi M.O. M.E.

Ingrandimento complessivo 1200-1500× 10×

Ingrandimento dell’obiettivo 100× 200×

Lenti intermedie — Presenti

Ingrandimento fotografi co — Possibile

TABELLA 2.9. Alcuni elementi distintivi trail microscopio ottico e quello elettronico

FIGURA 2.55 ◗ Microscopio elettronico a trasmissione (TEM). Uno strumento di questo tipo consente l’osservazione di particolari biologici con dimensioni di 10 Å.

FIGURA 2.56 ◗ Particolare della colonna del microscopio elettronico a trasmissione.

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Capitolo 2. L’osservazione microscopica 27

un sistema di lenti. • È costituito da una serie di campi ma-gnetici la cui intensità cambia in rapporto all’intensità della corrente che li genera. Modifi cando l’intensità del campo magnetico, varia l’ingrandimento prodotto;un supporto per l’alloggiamento del preparato• . È formato da una sottile griglia metallica di 3 mm di diametro. Il supporto è situato nella parte media della colonna del microscopio e in modo tale che risulti perpendicolare al fascio elettronico prodotto;uno schermo fl uorescente o pellicola fotografi ca. • Permette di ricavare le immagini di quanto esaminato. Poiché l’oc-chio umano non è direttamente sensibile agli elettroni, è necessario impiegar lastre fotografi che o schermi fl uo-rescenti. Questi ultimi, alla pari di quelli televisivi, assor-bono gli elettroni e li convertono in radiazioni luminose, quindi, in immagini osservabili.

2.7.3. Microscopio elettronico a scansione (SEM)Da quando è stato messo a punto nel 1965, il microsco-pio elettronico a scansione (SEM) ha reso possibile lo svi-luppo di un’ulteriore metodologia d’indagine. Con questa tecnica microscopica è possibile esplorare la superfi cie dei campioni esaminati. Da cellule, tessuti e batteri è possibile ottenere immagini tridimensionali perfette nei più piccoli particolari e con una risoluzione nettamente superiore a quella del microscopio ottico. Combina il meccanismo di funzionamento della microscopia elettronica con quello te-levisivo, in quanto l’immagine fi nale è raccolta appunto da uno schermo televisivo.

A differenza del TEM, gli elettroni non sono trasmessi attraverso preparati ultrasottili, ma rimbalzano sulla super-ficie del campione esaminato che può possedere qualsiasi forma e spessore. L’allestimento dei preparati richiede un procedimento di lavoro piuttosto complesso. In particolare le superfici del campione devono essere rese conduttrici ed in grado di riflettere gli elettroni mediante rivestimento con carbone e vapori metallici, solitamente oro e argento.

Gli elettroni del microscopio elettronico a scansione so-no prodotti da un tubo catodico ad alta energia. Impiegan-do campi magnetici e lenti, paragonabili al condensatore del microscopio ottico, dal fascio elettronico è ottenuto un sottilissimo pennello, di 5-10 nm di diametro, che è fatto scorrere sul preparato rivestito di metallo. In questo modo dalla superficie del campione si ottiene la riflessione di elettroni secondari.

La scansione del campione è effettuata punto per punto; il piccolo pennello elettronico è inviato su tutta la superficie ed è in grado di penetrare attraverso tutte le più minuscole aperture presenti. Ne deriva un potere di risoluzione di 10-20 nm e, perciò, assolutamente impensabile con la microscopia ottica. La microscopia elettronica a scansione consente una elevatissima profondità di campo ed è in grado di produrre sorprendenti effetti tridimensionali.

La produzione dell’immagine finale è ottenuta dagli elettroni secondari, estratti punto per punto dalla superfi-cie del campione su cui il pennello elettronico incontra le aree rivestite di metallo. Gli elettroni secondari, selezionati e deflessi magneticamente da un collettore (detector), pro-ducono una serie di segnali corrispondenti all’area esplora-ta dalla sonda elettronica. Il segnale prodotto dal collettore è amplificato e trasmesso ad un tubo catodico televisivo che, in sincronia con il movimento della sonda, forma l’im-magine finale. Gli ingrandimenti possibili con il SEM varia-no da 20 a 106.

2.7.4. Microscopio elettronico ad alta tensioneI microscopi elettronici ad alta tensione sono apparecchiatu-re molto complesse, costose e di diffi cile manutenzione. Nel microscopio elettronico convenzionale le tensioni sono com-prese tra i 50 e i 200 kV, mentre nei microscopi ad alta ten-sione si raggiungono tensioni d’accelerazione comprese tra i 500-3000 kV. Per questo motivo, possiedono un maggiore potere di penetrazione degli elettroni e la possibilità di esa-minare sezioni spesse fi no a 5 µm con un’elevata risoluzione e la possibilità di esaminare campioni allo stato vivente.

2.8. ALLESTIMENTO DEI PREPARATI PER IL TEMIl materiale biologico assorbe gli elettroni in modo modesto. Per aumentarne il basso contrasto che ne deriva, si deve ri-correre a trattamenti con metalli, nell’ambito di metodologie come: l’ombreggiatura, la colorazione negativa, le sezioni ul-trasottili e la colorazione positiva. Il trattamento scelto è sem-pre preceduto da una fase d’allestimento del preparato, che varia secondo i risultati che si vogliono raggiungere.

Nell’ombreggiatura la griglia, contenente il preparato, è introdotta in una camera a vuoto. All’interno di questa è fatto evaporare un metallo pesante come il cromo, il platino o il palladio, in modo tale che si depositi sul preparato. Quest’ultimo, rispetto al filamento, si trova disposto con una certa angolazione; ne deriva che il metallo si deposita solo sulla superficie del materiale rivolta verso il filamento di tungsteno. In questo modo le parti in ombra, contraria-mente a quelle esposte, non sono ricoperte dal metallo. Nelle immagini ottenute sullo schermo fluorescente, le par-ti ricoperte dal metallo appaiono scure, mentre sulla lastra fotografica, che è stampata in negativo, appaiono lumino-se. Nella riproduzione fotografica le particelle in esame ap-paiono ben contrastate rispetto allo sfondo e con un effetto tridimensionale, dovuto alle ombre non colorate. Forma, grandezza e collocazione delle ombre forniscono dati circa morfologia e dimensioni delle particelle esaminate.

La colorazione negativa (fig. 2.57) è un’altra tecnica mi-croscopica. Consiste nel deporre sulla reticella contenente

FIGURA 2.57 ◗ Virus respiratorio sinciziale osservato al TEM dopo co-lorazione negativa. Da R. Cevenini, Microbiologia clinica, II ed. Piccin Nuova Libraria. Padova 2010.

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Le basi microbiologiche della BiochimicaLe28

il preparato da esaminare una goccia d’acetato di uranile o di fosfotungstato di potassio. In questo modo il colorante tende a depositarsi sulle parti vuote della griglia ed alla periferia delle strutture esaminate. Queste ultime sullo schermo fluorescente appaiono, pertanto, più luminose ri-spetto allo sfondo.

Sezioni ultrasottili. Questa metodologia è impiegata nel-le indagini sulle componenti cellulari o virali, contenute all’interno di cellule o tessuti. L’allestimento delle sezioni ultrasottili è preceduto da una complessa serie di operazio-ni sul campione in esame. Tra le fasi possono essere indivi-duate: una prefissazione, un fissazione ed un’inclusione in resina epossidica.

Colorazione positiva. Le strutture biologiche possono essere colorate con sali, come l’acetato d’uranile che è ad-sorbito in modo differente dalle diverse componenti. Nella colorazione positiva possono essere impiegati anche anti-corpi specifici che, legati con una molecola opaca agli elettroni (ferritina), permettono la colorazione selettiva di alcune componenti microbiche (fig. 2.58).

I metodi utilizzati mettono in risalto i particolari struttu-rali in modo differenziato. Le dimensioni di una particella virale, ad esempio, nell’ombreggiatura appaiono maggiori rispetto alla situazione reale per l’accumulo di metallo sulla superficie dei virioni; nelle colorazioni negative appaiono minori per la penetrazione del colorante nelle strutture superficiali. Nelle sezioni ultrasottili sono ancora più ridot-te, in quanto le strutture virali collassano durante l’allesti-mento dei preparati.

FIGURA NON ORIGINALE: TRATTA DA FIGURA NON ORIGINALE: TRATTA DA VOLUME DA NOI TRADOTTO. SI PREGA VOLUME DA NOI TRADOTTO. SI PREGA

SOSTITUIRE O ELIMINARE.SOSTITUIRE O ELIMINARE.

FIGURA 2.58 ◗ Aggregati cristallini di adenovirus intranucleari. Da R. Cevenini, Microbiologia clinica, II ed. Piccin Nuova Libraria. Padova 2010.

1) Quale ruolo ebbe Antoni van Leeuwenhoek nell’ambi-to delle scienze microbiologiche?

2) Si descriva la struttura dell’occhio.3) Si illustri il meccanismo di formazione dell’immagine

sulla retina.4) Che cosa s’intende per aberrazione cromatica e per

aberrazione di sfericità?5) Che cosa s’intende per limite di risoluzione del micro-

scopio ottico?6) Si descrivano le componenti del microscopio ottico

composto.7) Si calcoli il limite di risoluzione di un M.O. se AN = 1,25

ed è impiegata una radiazione con lunghezza d’onda di 600 nm.

8) Come si determina l’ingrandimento complessivo di un microscopio ottico composto?

9) Su quale principio si basa il microscopio a contrasto di fase?

10) In quali ambiti è impiegato il microscopio a contrasto di fase?

11) Si evidenzino le componenti impiegate nella microsco-pia in contrasto di interferenza differenziale (DIC)

12) Quali altri tipi di microscopio sono utilizzati, oltre a quello in campo chiaro ed a contrasto di fase?

13) Si descriva l’itinerario di lavoro necessario per allestire un preparato microscopico a fresco.

14) Si descriva l’itinerario di lavoro necessario per allestire un preparato microscopico colorato.

15) Quali sono le componenti molecolari di un colorante?16) Quali caratteristiche possiedono i coloranti impiegati

in batteriologia?17) Quando si parla di colorazioni semplici e di colorazioni

complesse?18) Quale ruolo svolgono i mordenzanti?19) Si descriva la colorazione di Gram.20) Si descriva la colorazione di Ziehl-Neelsen e la colora-

zione di Alessandrini.21) Che cosa s’intende per “granulazioni metacromatiche”?22) Su quale principio si basano le metodologie microsco-

piche impiegate per osservare le ciglia?23) Si descriva la colorazione negativa secondo Burri.24) Che cosa s’intende per fluorescenza?25) In quali situazioni è impiegata la microscopia a fluore-

scenza?26) Quali sono i limiti propri del microscopio ottico?27) Quali vantaggi presenta il microscopio elettronico ri-

spetto al microscopio ottico?28) Si evidenzino le caratteristiche fondamentali del TEM e

del microscopio ad alta tensione.29) Si evidenzino le caratteristiche ed il meccanismo di

formazione dell’immagine nel SEM.30) Si descriva la tecnica dell’ombreggiatura.31) Si descriva la tecnica della colorazione negativa impie-

gata per l’osservazione al TEM.

1) Q l l bb A i L h k ll’ bi

QUESITI DEL CAPITOLO 2