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IL CESALPINO Rivista medico-scientifica dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Arezzo Agosto 2011 anno 10 - numero 28 - monotematico 2 Comitato editoriale e redazione Consiglio provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri Presidente: Raffaele Festa Direttore responsabile Roberto Romizi In redazione Beccastrini Stefano, Bianchi Amedeo, Bonelli Armando, Cinelli Alberto, Dasciani Paolo, De Napoli Isabella, Lenti Salvatore, Pieri Piero, Ralli Luciano, Sasdelli Mauro, Saullo Silvana. Coordinatore redazionale Cesare Maggi Segreteria redazionale Michela Bonet - Marco Cerofolini c/o Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri Viale Giotto, 134 - 52100 Arezzo tel. (+39) 0575 22724 fax (+39) 0575 300758 mail: [email protected] www.omceoar.it Impaginazione progetto grafico e stampa L.P. Grafiche s.n.c. Via Fabio Filzi, 28 - 52100 Arezzo tel. (+39) 0575 907425 fax (+39) 0575 941526 mail: [email protected] www.lpgrafiche.it Aut. Trib. n°7 - 2001 del registro stampa n° 522/2001 La informiamo che secondo quan- to disposto dall’art. 13, com- ma 1, della legge 675/96 sulla “Tutela dei dati personali”, Lei ha diritto, in qualsiasi momento e del tutto gratuitamente, di consultare, far modificare o cancellare i Suoi dati o semplicemente opporsi al loro trattamento per l’invio della presente rivista. In copertina: ANDREA CESALPINO (Arezzo 1519 - Roma 1603) Medico, botanico, filosofo aristote- lico, medico di Papa Clemente VII; importantissime furono le sue osservazioni sulla circolazione del sangue. editoriale 3 “ORIGINE EPIGENETICA DELLE MALATTIE DELL’ADULTO” 4 VALORE E LIMITI DEL PARADIGMA NEO-DARWINISTA Gianni Tamino 8 DA UNA MEDICINA NEO-DARWINISTA E GENE-CENTRICA AD UNA NEO- LAMARCKIANA E SISTEMICA Ernesto Burgio 16 I TUMORI STANNO AUMENTANDO? Paolo Vineis 17 EFFETTI NEUROLOGICI DI ESPOSIZIONI AMBIENTALI Lucia Migliore 20 FATTORI GENETICI, AMBIENTALI ED EPIGENETICI NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER Fabio Coppedè 22 LA PANDEMIA SILENZIOSA: METALLI PESANTI, SOLVENTI, PCB E DANNI NEUROLOGICI Dott.ssa Antonella Litta 24 GENETICA ED EPIGENETICA DELLE EPILESSIE Amedeo Bianchi 28 INQUINAMENTO ATMOSFERICO, MALATTIE DELL’ADULTO, ESPOSIZIONE TRANSPLACENTARE Ferdinando Laghi 30 SORVEGLIANZA EPIDEMIOLOGICA E INTERVENTI DI PREVENZIONE (EPIAIR) Ennio Cadum 34 ALLERGENI ALLERGIE E AMBIENTE Paola Montagna 36 ENDOCRINE DISRUPTERS (EDCS) E ALTERAZIONI DELLA DIFFERENZIAZIONE SESSUALE S. Bernasconi, S. Merli 39 L’EPIDEMIA DI OBESITà, SINDROME METABOLICA E DIABETE II IN ETà EVOLUTIVA: IL RUOLO DELLA TRASFORMAZIONE AMBIENTALE SULLA PROGRAMMAZIONE NEL FETO E NELLA PRIMA INFANZIA Rita Tanas 42 XENOBIOTICI NEL LATTE MATERNO: IL CASO DELLE DIOSSINE Patrizia Gentilini, Michelangiolo Bolognini, Ernesto Burgio, Adriano Cattaneo, Annamaria Moschetti, Stefano Raccanelli 47 EPIDEMIOLOGIA DEI TUMORI INFANTILI Benedetto Terracini 47 PROLEGOMENA AD UN NUOVO PARADIGMA IN CANCEROGENESI Ernesto Burgio 53 INQUINAMENTO DELL’ARIA E TUMORI UMANI Paolo Crosignani, Andrea Tittarelli, Martina Bertoldi, Alessandro Borgini, Paolo Contiero 56 ESPOSIZIONE A FATTORI CANCEROGENI, MUTAZIONI GENETICHE INDOTTE E APPROCCI TERAPEUTICI DIFFERENZIALI: IL MODELLO DEL CARCINOMA POLMONARE Sergio Bracarda, Sabrina Giusti, Ori Ishiwa 58 TELEFONI MOBILI E TUMORI ALLA TESTA: ANALISI CRITICA DEI DATI EPIDEMIOLOGICI Angelo Levis 63 RICONOSCIMENTI IN MEMORIA DI LORENZO TOMATIS. Roberto Romizi

20 Direttore responsabile 22 In redazione - omceoar.it n 28.pdf · APPROCCI TERAPEUTICI DIFFERENzIALI: IL MODELLO DEL CARCINOMA POLMONARE Sergio Bracarda, Sabrina Giusti, Ori Ishiwa

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Il CesalpInoRivista medico-scientifica

dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri

della Provincia di Arezzo

Agosto 2011anno 10 - numero 28 -

monotematico 2

Comitato editoriale e redazione

Consiglio provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri

Presidente: Raffaele Festa

Direttore responsabileRoberto Romizi

In redazioneBeccastrini Stefano,

Bianchi Amedeo, Bonelli Armando,Cinelli Alberto, Dasciani Paolo,

De Napoli Isabella, Lenti Salvatore, Pieri Piero, Ralli Luciano,

Sasdelli Mauro, Saullo Silvana.

Coordinatore redazionaleCesare Maggi

Segreteria redazionaleMichela Bonet - Marco Cerofolinic/o Ordine dei Medici Chirurghi

e degli OdontoiatriViale Giotto, 134 - 52100 Arezzo

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Aut. Trib. n°7 - 2001del registro stampa n° 522/2001

La informiamo che secondo quan-to disposto dall’art. 13, com-ma 1, della legge 675/96 sulla “Tutela dei dati personali”, Lei ha diritto, in qualsiasi momento e del tutto gratuitamente, di consultare, far modificare o cancellare i Suoi dati o semplicemente opporsi al loro trattamento per l’invio della presente rivista.

In copertina:AnDreA CeSAlpIno(Arezzo 1519 - Roma 1603)Medico, botanico, filosofo aristote-lico, medico di Papa Clemente VII; importantissime furono le sue osservazioni sulla circolazione del sangue.

editoriale

3 “ORIGINE EPIGENETICA DELLE MALATTIE DELL’ADULTO”

4 VALORE E LIMITI DEL PARADIGMA NEO-DARwINISTA Gianni Tamino

8 DA UNA MEDICINA NEO-DARwINISTA E GENE-CENTRICA AD UNA NEO-LAMARCkIANA E SISTEMICA

Ernesto Burgio

16 I TUMORI STANNO AUMENTANDO? Paolo Vineis

17 EFFETTI NEUROLOGICI DI ESPOSIzIONI AMBIENTALI Lucia Migliore

20 FATTORI GENETICI, AMBIENTALI ED EPIGENETICI NELLA MALATTIA DI ALzhEIMER Fabio Coppedè

22 LA PANDEMIA SILENzIOSA: METALLI PESANTI, SOLVENTI, PCB E DANNI NEUROLOGICI

Dott.ssa Antonella Litta

24 GENETICA ED EPIGENETICA DELLE EPILESSIEAmedeo Bianchi

28 INqUINAMENTO ATMOSFERICO, MALATTIE DELL’ADULTO, ESPOSIzIONE TRANSPLACENTARE

Ferdinando Laghi

30 SORVEGLIANzA EPIDEMIOLOGICA E INTERVENTI DI PREVENzIONE (EPIAIR) Ennio Cadum

34 ALLERGENI ALLERGIE E AMBIENTE Paola Montagna

36 ENDOCRINE DISRUPTERS (EDCS) E ALTERAzIONI DELLA DIFFERENzIAzIONE SESSUALE

S. Bernasconi, S. Merli

39 L’EPIDEMIA DI OBESITà, SINDROME METABOLICA E DIABETE II IN ETà EVOLUTIVA: IL RUOLO DELLA TRASFORMAzIONE AMBIENTALE SULLA PROGRAMMAzIONE NEL FETO E NELLA PRIMA INFANzIA

Rita Tanas

42 xENOBIOTICI NEL LATTE MATERNO: IL CASO DELLE DIOSSINE Patrizia Gentil ini, Michelangiolo Bolognini, Ernesto Burgio, Adriano Cattaneo, Annamaria

Moschetti, Stefano Raccanell i

47 EPIDEMIOLOGIA DEI TUMORI INFANTILI Benedetto Terracini

47 PROLEGOMENA AD UN NUOVO PARADIGMA IN CANCEROGENESI Ernesto Burgio

53 INqUINAMENTO DELL’ARIA E TUMORI UMANI Paolo Crosignani, Andrea Tittarell i, Martina Bertoldi, Alessandro Borgini, Paolo Contiero

56 ESPOSIzIONE A FATTORI CANCEROGENI, MUTAzIONI GENETIChE INDOTTE E APPROCCI TERAPEUTICI DIFFERENzIALI: IL MODELLO DEL CARCINOMA POLMONARE

Sergio Bracarda, Sabrina Giusti, Ori Ishiwa

58 TELEFONI MOBILI E TUMORI ALLA TESTA: ANALISI CRITICA DEI DATI EPIDEMIOLOGICI Angelo Levis

63 RICONOSCIMENTI IN MEMORIA DI LORENzO TOMATIS. Roberto Romizi

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3il cesalpino

Le 5e Giornate Italiane Mediche dell’Ambiente rappre-sentano il primo Congresso multidisciplinare di livello

nazionale su “Origine epigenetica delle malattie dell’adul-to”, una tematica rivoluzionaria in ambito biomedico che si ispira ad un’idea “seminale” di Lorenzo Tomatis.Lo studio dell’esposizione delle popolazioni a diverse fon-ti e tipologie di agenti inquinanti (chimico-fisici e biolo-gici) rappresenta il principale oggetto di studio dell’epi-demiologia ambientale. Ancora sottovalutata è l’esposi-zione degli organismi in via di sviluppo. Dovrebbe esse-re ormai chiaro come il target più sensibile degli inqui-nanti ambientali siano le cellule in via di differenziazione, dotate di un assetto genomico ancora “fluido”: le cellu-le staminali dei tessuti degli adulti che possono degene-rare in senso neoplastico e le cellule embrionali e feta-li e i gameti , esposti a quantità minime, ma quotidiane, di agenti e fattori esogeni, che forzano il loro (epi)geno-ma a trasformarsi. L’anticipazione nel tempo e l’espansione pandemica di malattie immunomediate (allergie, asma, malattie au-toimmuni, ecc…), endocrino-metaboliche (obesità, sin-drome metabolica, diabete II, ecc...); neurodegenerative e neoplastiche potrebbe essere il prodotto di una trasfor-mazione ambientale eccessivamente rapida. Il costante incremento di neoplasie della primissima in-fanzia, sempre più chiaramente connesso all’esposizione transplacentare (del feto) e transgenerazionale (dei ga-meti) ad agenti chimici e fisici in grado di indurre modi-fiche epigenetiche e genetiche rappresenta forse l’effet-to più esemplificativo e drammatico della trasformazio-ne in atto. Per questi motivi sarebbe importante adeguare le attuali metodologie di valutazione epidemiologica e tossicologi-ca del rischio, ancora insufficienti a comprendere la Rivo-luzione Epidemica in atto.Esiste un nesso tra l’incremento delle patologie neu-ro-psichiche dell’infanzia (autismo, disturbo da deficit dell’attenzione - ADhD, ritardo mentale..) e quello delle malattie neurodegenerative dell’adulto?Che legame esiste tra l’inquinamento atmosferico e l’in-cremento delle patologie allergiche e immunomediate?

C’è un nesso tra la trasformazione dell’ambiente e l’incre-mento di patologie quali il diabete e l’obesità?quali sono le attuali evidenze concernenti un’origine pre-coce (embrio-fetale, infantile o addirittura transgenera-zionale) del cancro?È a queste domande che si è cercato di rispondere con le Ve Giornate Italiane Mediche dell’Ambiente.quest’iniziativa cade in occasione dei 20 anni dalla costi-tuzione di ISDE. L’Associazione si caratterizza per un ruo-lo scientifico e di advocacy e individua come priorità l’al-leanza e la collaborazioni con comunità scientifica, istitu-zioni e società civile con l’obiettivo di favorirne una uti-le interazione.

ISDE Italia parte dal presupposto che produrre solo cono-scenze scientifiche adeguate non ha impatto sulla salute finché queste non sono trasferite efficacemente ai deci-sori politici.ha prodotto documenti basati sui principi fondamenta-li del diritto alla salute, del principio di precauzione, del-la prevenzione primaria e dell’informazione indipenden-te con l’obiettivo di mettere a disposizione le proprie co-noscenze e competenze scientifiche per sostenere sia le iniziative istituzionali che quelle promosse dalla socie-tà civile.Gli obiettivi principali della sua azione sono dunque privi-legiare la prevenzione primaria attraverso una valutazio-ne preventiva del rischio biologico connesso alle sostan-ze immesse nell’ambiente; promuovere il Principio di Pre-cauzione contro il conservatorismo scientifico; assicura-re la dichiarazione di eventuali conflitti di interessi da par-te di ricercatori e consulenti; comprendere la reciproca corrispondenza tra emergenza ambientale ed emergenza socio-economica; contrastare il consumismo.L’impegno dei medici non può in definitiva arrestarsi su di un’opera di contenimento e riparazione dei danni diretti e immediati dei contaminanti ambientali, ma deve anche proiettarsi su un’azione a monte di più ampio respiro, af-finché la società nella quale viviamo modifichi le sue prio-rità in favore prioritariamente della salvaguardia della sa-lute dei bambini di oggi e delle generazioni future.

Roberto RomiziPresidente Nazionale ISDE,

Coordinatore Commissione ECM Ordine dei Medici di Arezzo

E ditoriale “oriGiNe ePiGeNetiCa delle Malattie dell’adUlto”

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4G.I.M.A.il cesalpino

Gianni TaminoDocente di Biologia Università di Padova

Valore e liMiti del ParadiGMa Neo-darwiNista iN bioloGia e iN MediCiNa

❚❘❘ RiassuntoIl neodarwinismo, tra gli anni ’30 e ’40 del

secolo scorso, nella sua espressione det-

ta anche “sintesi moderna”, ha coniugato

la teoria della selezione naturale con la ge-

netica mendeliana, nel tentativo di spiega-

re con pochi e semplici principi l’evolver-

si dei viventi. Ma nel tentativo di concilia-

re la genetica con le osservazioni naturali-

stiche, sono stati trascurati altri importan-

ti elementi.

Alla metà del Novecento la sintesi moderna

diviene il paradigma unificante della biolo-

gia e solo più recentemente verranno svi-

luppate considerazioni e portate prove a fa-

vore di una nuova interpretazione dell’evo-

luzione, in particolare grazie al lavoro di S. J.

Gould. ¢

❚❘❘ Parole chiaveEvoluzione, neodarwinismo, riduzionismo,

epigenesi ¢

Introduzione

Il neodarwinismo, sviluppato a par-tire dagli anni ‘30 grazie ai lavori,

solo per citarne alcuni, di T. Dobzhan-sky, E. Mayr, G. G. Simpson, J. huxley, w. hamilton, G. C. williams, J. May-nard Smith, ha trovato nuovo impul-so dopo la scoperta della funzione e del ruolo del DNA e dei geni, soprat-tutto negli anni ‘60 del secolo scorso. Come spiega E. Mayr (1) la nuova teo-ria dell’evoluzione porta a “due con-clusioni fondamentali: 1) che l’evolu-zione è graduale e può essere spie-gata in termini di piccoli cambiamenti genetici e di ricombinazione e in ter-mini di riordinamento di questa va-riazione genetica da parte della sele-zione naturale; e 2) che… è possibile

spiegare tutti i fenomeni evolutivi in modo coerente sia con i meccanismi genetici, sia con le prove di tipo osser-vativo raccolte dai naturalisti.”In sintesi, gli aspetti fondamentali del-la teoria sintetica possono essere così riassunti:* Nascono più individui di quanti ne

possano sopravvivere;* La variabilità individuale è frutto del-

le mutazioni che, attraverso ricom-binazioni alleliche, interazioni geni-che e crossing-over, arricchiscono il campionario dei diversi aspetti che ogni carattere può assumere;

* La selezione naturale conserva le mutazioni “vantaggiose”, i cui por-tatori aumenteranno di frequenza da una generazione all’altra, ed eli-mina più o meno rapidamente quel-le “svantaggiose”.

Su queste basi la selezione naturale avrebbe modellato il maggior numero delle parti anatomiche e dei compor-tamenti per specifiche funzioni, se-condo una logica adattativa. Il neodarwinismo tende così a scom-porre l’organismo nei suoi tratti uni-tari (corrispondenti a geni o gruppi di geni), considerati indipendenti e frut-to di una selezione adattativa. Si trat-ta di un’operazione tipica del paradig-ma scientifico, allora dominante, cioè il paradigma riduzionista.¢

Dal riduzionismo deter-minista alla visione di complessità

Il riduzionismo nasce da un’esigenza reale: quella di semplificare, scom-

porre, analizzare la realtà comples-sa riducendola in ciò che è più sem-

plice, vale a dire nelle sue componen-ti essenziali. Ma si pone un problema quando le conoscenze parziali, acqui-site attraverso questo metodo, ven-gono considerate sufficienti per spie-gare ogni aspetto dell’insieme scom-posto. In buona sostanza, non sem-pre, partendo da alcuni elementi di un sistema, si possono far derivare tut-te le successive proprietà attraverso una costruzione razionale, matemati-ca. Non si può eludere la necessità di andare a verificare se la somma delle proprietà di ogni singola parte corri-sponda davvero alla realtà che si cer-ca di descrivere. quando ciò non ac-cade e si interpreta un sistema com-plesso come la somma delle proprie-tà che derivano dalla conoscenza del-le singole parti che lo compongono, si compie un errore metodologico. Ad esempio, se si scompone un orga-nismo vivente in tutte le sue parti, a differenza di quanto avviene con una macchina, non riusciremo a ricom-porre di nuovo quel vivente: avremo tutt’al più un organismo morto. In al-tre parole possiamo dire che gli orga-nismi viventi, pur rispettando le leg-gi della fisica e della chimica, raggiun-gono un livello organizzativo e fun-zionale specifico, ad alta complessità, non spiegabile solo con la conoscen-za delle proprietà dei componenti più semplici. Ciò non significa immaginare qualche ‘spirito vitale’, come vorreb-bero i vitalisti, ma semplicemente am-mettere che la materia vivente è un particolare stato della materia.In biologia, quando nuove proprietà derivano dal livello di organizzazione, cioè dalla relazione e non dalla somma

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5G.I.M.A. il cesalpino

delle parti, si parla di “proprietà emer-genti”. Che in qualche modo i sistemi complessi, costituiti da parti più sem-plici e in relazione tra loro, possieda-no delle proprietà emergenti, non è un’acquisizione esclusiva della biolo-gia (o della neurobiologia o della psi-cologia, ambiti nei quali è più faci-le capire o immaginare tali proprietà): gli stessi fisici, infatti, ritengono che le relazioni tra le parti di un medesimo sistema possano essere fonte di nuo-ve proprietà “emergenti” (2). I biologi sono certamente più portati a una visione non riduzionista della real-tà, e un eminente biologo come Mar-cello Buiatti, nel suo libro “Lo stato vi-vente della materia” (3), spiega come, a mano a mano che la materia si or-ganizza assumendo una struttura più complessa, emergono inevitabilmen-te proprietà che dipendono dai nuo-vi livelli di organizzazione: la materia vivente, dunque, arriva ad acquisire proprietà non deducibili dalle caratte-ristiche della materia non vivente.A partire dal riduzionismo biologico si approda spesso al determinismo ge-netico, per cui ogni carattere di un or-ganismo vivente è determinato solo da un gene. Spesso, infatti, si sen-te dire che ogni nostro carattere fisi-co, fisiologico o comportamentale è predeterminato dai nostri geni e i ti-toli sui giornali si sprecano: “Scoper-to il gene dell’intelligenza”, “trovato il gene dell’omosessualità”, sono alcuni tra i titoli più clamorosi. E. O. wilson nel suo libro “Sociobiologia. La nuo-va sintesi” (4) ritiene che i comporta-menti dell’uomo siano tutti spiegabi-li sulla base di geni che, determinando un particolare comportamento, con-feriscono a chi li ha un valore adattati-vo, aumentando la probabilità di ave-re una prole numerosa e forte (anche se risulta difficile spiegare l’omoses-sualità in quest’ottica, anziché come scelta).Ma come spiega S. J. Gould nel sag-gio del 1987 “Il sorriso del fenicottero” (5) : “La grande maggioranza dei biolo-gi sostiene che la vita, come risultato della propria complessità strutturale e funzionale, non può essere risolta nei suoi costituenti chimici e spiegata nel-la sua interezza da leggi fisiche e chi-miche, che operano a livello molecola-re. Ma nega in modo altrettanto stre-

nuo che l’insuccesso del riduzionismo indichi una qualsiasi proprietà misti-ca della vita, una qualche scintilla spe-ciale che sia inerente alla vita soltanto. La vita acquisisce i propri principi dalla struttura gerarchica della natura. Man mano che i livelli di complessità salgo-no lungo la gerarchia dell’atomo, del-la molecola, del gene, della cellula, del tessuto, dell’organismo e della popo-lazione, compaiono nuove proprietà, come risultato di interazioni e di in-terconnessioni che emergono ad ogni nuovo livello. Un livello superiore non può essere interamente spiegato se-parando gli elementi che lo compon-gono e interpretando le loro proprie-tà, in assenza delle interazioni che uni-scono quegli elementi.”¢

sviluppo e limiti del neo- darwinismo

Il neodarwinismo ha avuto un im-portante sviluppo grazie a Richard

Dawkins (6), secondo il quale l’unità su cui agisce la selezione naturale è il gene. Dawkins arriva ad includere nel-la teoria anche sistemi non biologici nei quali si possa riscontrare una sele-zione del “più adatto”, come nelle cul-ture umane, dove introduce il concet-to di meme, quale analogo del gene. Una posizione simile è sviluppata an-che nella sociobiologia, fondata da E. O. wilson (4), che utilizza il model-lo neodarwiniano per indagare il com-portamento degli esseri umani. que-ste teorie hanno favorito, però, po-sizioni pericolose, come il “neodarwi-nismo sociale”, in base al quale nella società si affermerà il più forte, il più adatto, in altre parole “il migliore”.In questa visione riduzionista, come già detto, l’organismo viene diret-tamente o indirettamente conside-rato scomponibile in una moltepli-cità di tratti unitari (corrispondenti a geni o gruppi di geni), pressoché in-dipendenti, e ciascun tratto è poten-zialmente ottimizzabile separatamen-te. Alla base di questo paradigma, de-finito da Gould e Lewontin “program-ma adattamentistico”, vi sarebbe-ro, come riporta A. Volpone (7), le se-guenti convinzioni:1. Ogni organismo può essere scom-

posto in una molteplicità di tratti di-stinti (strutture, funzioni o compor-tamenti); di ciascuna parte è quindi

possibile ricostruire la storia adattiva (di qui la denominazione di “estra-polazionismo” o “atomismo”).

2. Tutte le diverse parti organismiche sono ottimizzate mediante selezio-ne naturale. Il solo limite all’adatta-mento è rappresentato dai com-promessi fra domande selettive an-tagoniste. In questo modo anche l’imperfezione può essere consi-derata in qualche senso come un adattamento.

3. Variazioni di piccola entità, copiose e continue interessano ciascun trat-to organismico possibile (strutture, funzioni o comportamenti) e rap-presentano la base su cui agisce la selezione naturale.

4. La selezione naturale è il meccani-smo predominante, se non esclu-sivo dell’evoluzione degli organi-smi. Altri meccanismi possono esse-re ammessi, ma vengono conside-rati di scarsa importanza, ininfluenti o lasciati semplicemente in disparte.

A partire dagli anni Settanta la teoria sintetica è divenuta oggetto di nu-merose critiche, in particolare per quanto riguarda l’ipotesi gradualista e l’idea che tutta l’evoluzione si possa spiegare solo con la selezione natura-le (ciò che lo stesso Darwin non dava per certo!). Andando in direzione radicalmente opposta a quella di Dawkins, secondo il quale è il singolo gene o un insieme limitato di geni il reale oggetto di se-lezione, N. Eldredge e S. J. Gould, già nel 1972 (8) avevano sviluppato l’ipo-tesi che la realtà biologica su cui opera l’evoluzione sia costituita da una ge-rarchia di livelli che va oltre i singoli or-ganismi, comprendendo in particola-re la selezione al livello delle specie. Inoltre, come aveva evidenziato M. ki-mura (9), molte mutazioni sono neu-trali nei confronti della selezione, os-sia danno origine a cambiamenti che non migliorano né peggiorano la fit-ness individuale. Sempre S. J. Gould e N. Eldredge (8), indicarono il gradualismo come fon-te del “vago senso di insoddisfazio-ne che […] alcuni paleontologi hanno sempre provato per le premesse dar-winiane secondo cui i meccanismi mi-croevolutivi possono mettere in piedi tutto il grande spettacolo dei viventi semplicemente accumulando i risulta-

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ti via via più consistenti nell’enormità dei tempi geologici”.Le conseguenze paleontologiche del gradualismo, cioè che la documen-tazione fossile sia una lunga sequen-za di forme intermedie continue e ca-ratterizzate da gradazioni insensibili e che tali forme di transizione siano do-vute alle imperfezioni della documen-tazione fossile, rendono virtualmente infalsificabile la teoria dell’evoluzione: ogni vuoto può essere giustificato. La teoria viene quindi esposta a criti-che scientifiche ed epistemologiche, poiché aggiunge all’idea della sele-zione naturale un’ipotesi non testa-bile puramente interpretativa. La pro-posta alternativa dei due paleontolo-gi fu la cosiddetta teoria degli equilibri punteggiati. Secondo questa ipotesi, l’evoluzione delle specie sarebbe ca-ratterizzata da lunghi periodi di equili-brio, interrotti da brevi ma intensi pe-riodi di cambiamento evolutivo. Se-condo i due studiosi, l’evoluzione po-trebbe essere stata caratterizzata da periodi di stabilità punteggiati da im-provvisi squilibri durante i quali avreb-bero potuto apparire nuove specie.Ancora Gould (10) spiega perché la se-lezione naturale non è di per sé suffi-ciente a spiegare il cambiamento evo-lutivo. In primo luogo vi sono molte altre cause che influiscono su di esso, particolarmente ai livelli di organizza-zione biologica che sono sia al di so-pra sia al di sotto di quello su cui si è tradizionalmente concentrato Darwin e che riguarda gli organismi e la loro lotta per conseguire il successo ri-produttivo. Al livello più basso, che è quello della sostituzione delle singole coppie di basi del DNA, il cambiamen-to è spesso, di fatto, neutro e quindi casuale. Ai livelli più alti, che interes-sano intere specie o faune, l’equilibrio intermittente (o punteggiato) può produrre tendenze evolutive median-te una selezione di specie basata sul-la velocità di comparsa e di estinzione di queste ultime, mentre le estinzioni in massa spazzano via porzioni consi-derevoli di comunità vegetali e anima-li per ragioni che non hanno relazio-ne alcuna con le lotte adattative che le singole specie intraprendono nei pe-riodi “normali” intercorrenti tra l’uno e l’altro di questi eventi.In secondo luogo, benché la teoria

della selezione naturale rappresenti un quadro di riferimento importante per spiegare la storia del cambiamen-to evolutivo (nessun aspetto di questa storia può essere in contrasto con una buona teoria e considerazioni teori-che possono consentire di prevedere certi aspetti generali del quadro geo-logico in cui si inserisce la vita), i suoi principi non devono essere considera-ti come le cause determinanti dell’ef-fettivo corso degli eventi evolutivi. Le catene e le reti di eventi sono così complesse, così zeppe di elementi ca-suali e caotici, così irripetibili nel loro includere una simile moltitudine di oggetti unici (e interagenti in modo unico), che per esse non possono va-lere i modelli standard della semplice previsione e duplicazione.In particolare non tutte le caratteri-stiche di un organismo sono neces-sariamente adattamenti, come spie-gano S.J. Gould e R. Lewontin (11): gli organismi, sulla base di strutture precedenti, non sempre utili, cerca-no di adattarsi, al variare dell’ambien-te, alle nuove condizioni. Se le con-dizioni sono stabili, tendenzialmente non ci sono cambiamenti, ma quan-do l’ambiente cambia assistiamo a ra-pide evoluzioni, per adattarsi all’am-biente. ¢

neodarwinismo in medicina

Al neodarwinismo è collegata l’ipo-tesi dell’origine genetica delle

malattie, in base al cosiddetto dog-ma centrale della Biologia (secondo il quale ad ogni gene, per il tramite di un RNA, corrisponde una proteina, alla quale corrisponderebbe una pre-cisa funzione), ma la stragrande mag-gioranza delle malattie è polifattoria-le e solo una piccola parte delle malat-tie sono monogenetiche, quindi cura-bili geneticamente. Ma si deve soprat-tutto a R. M. Nesse e G. C. williams (12) la teoria evoluzionista della medicina; applicando il riduzionismo neodarwi-nista alla medicina, hanno infatti ela-borato una teoria secondo cui, come spiega F. zampieri (13), ogni caratte-ristica organica è riconducibile ad un adattamento, come sua manifesta-zione diretta o come un suo costo o come una manifestazione incidenta-le del processo. Va ricordato che G. C. williams è noto fra gli evoluzioni-

sti soprattutto come autore di Adap-tation and Natural Selection (14), un testo riconducibile all’ultradarwini-smo, secondo cui la selezione natura-le è in grado di spiegare qualsiasi adat-tamento dell’organismo e la selezione agisce solo sul gene.In base a questa teoria anche le ma-lattie sono – appunto – manifestazio-ni dirette di un adattamento. Obiet-tivo della medicina evolustionistica è anche scomporre, in una logica tipica-mente riduzionista, la manifestazione morbosa in diversi elementi, in modo da avere una visione della malattia più precisa ed un trattamento più effica-ce. “Tutto ciò si fonda su una convin-zione antropologica di base, spiega zampieri: l’organismo umano è una macchina nello stesso tempo perfetta e difettosa, proprio in quanto prodot-to di una storia evolutiva priva di fini precostituiti, ed esso si è sviluppato e si è adattato in un ambiente antico, la savana del Pleistocene, che oggigior-no non esiste più, e questa discrepan-za è la causa di molte malattie, quali l’obesità e le disfunzioni cardiovasco-lari.” Ma una vera medicina evoluzio-nistica sembra possibile solo con l’ab-bandono dei paradigmi classici del ne-odarwinismo. Come spiega zampieri, “i medici darwiniani si devono fonda-re non su un fondamentalismo evolu-tivo, ripetendo lo stesso tipo di errore delle generazioni di medici preceden-ti, che si fondavano su una concezio-ne di scienza fondamentalisticamen-te agganciata ai concetti fisico-chimi-ci classici, alle leggi, alle previsioni, al trattamento matematico. Il medico evoluzionista, proprio per il suo essere tale, deve avere una concezione plu-ralistica della scienza e dell’evoluzio-ne, altrimenti non potrà, come vor-rebbe, afferrare la sfuggente natura della vita e della malattia…. il rapporto fra malattia ed evoluzione è uno dei più complessi e interessanti di tutta la storia della vita, e non può avere un approccio semplicistico.” ¢

evoluzione: la relazione tra genetica ed epigenetica

Di solito usiamo il termine “vita” per indicare due fenomeni di-

versi, benché intuitivamente collega-ti: la “vita” di un organismo, che va dalla sua nascita alla sua morte (quin-

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di in senso “epigenetico”), e la “vita” come fenomeno globale degli organi-smi viventi, che va dalla nascita del pri-mo organismo vivente fino alla morte dell’ultimo (quindi in senso “filogene-tico”, evolutivo). La relazione “genoma – sviluppo – evoluzione” costituisce il paradigma concettuale che cerca di spiegare lo sviluppo e l’evoluzione dei viventi. Ne-gli anni ’80, su tale paradigma, è stata formalizzata la biologia evolutiva del-lo sviluppo, nota con l’acronimo EVO - DEVO (Evolutionary Developmen-tal Biology). questo paradigma è sta-to, però, spesso interpretato in un’ot-tica determinista, in base alla quale il genoma determina il fenotipo attra-verso i processi di sviluppo (DEVO), mentre la selezione naturale deter-mina quali fenotipi trasmetteranno il loro genoma alle generazioni succes-sive (EVO). In realtà oggi sappiamo che l’ontogenesi di un individuo è ben più complessa, mentre lo studio dell’epi-genetica ha messo in luce che le mo-dificazioni non genetiche che si pos-sono subire durante lo sviluppo indi-viduale, possono influenzare anche le generazioni future.Sono passati oltre 50 anni da quan-do watson e Crick hanno illustrato la struttura della doppia elica del DNA. questa scoperta, insieme alla diffu-sione sempre maggiore della teoria dell’evoluzione di Darwin e delle leg-gi di Mendel, ha contribuito a rendere molto popolare l’idea che il DNA codi-fica le varie caratteristiche ereditarie. A questa popolarità contribuì anche l’ipotesi già citata del “dogma centra-le della biologia”, secondo la quale, in una visione determinista, come ad esempio esposta da J. Monod, dato un particolare DNA, l’organismo può assumere una ed una sola “configura-zione”: il DNA, pertanto, è stabile ed assume la natura di un progetto qua-si senza errori. questa visione, come spiega M. Buiatti (15), “ha determina-to, a livello concettuale, una netta vit-toria della concezione preformista su quella epigenetica. In realtà, basando-si sui dati della Biologia contempora-nea, si è visto che il genoma permet-

te un forte livello di ambiguità, in rela-zione al numero e alle probabilità delle conformazioni che un organismo, con uno specifico DNA, può assumere. I principali meccanismi di ambiguità sono stati scoperti nella seconda metà del novecento ed individuati nei “tra-sposoni”, successivamente il sequen-ziamento dei genomi, ed in partico-lare di quello umano, ha evidenzia-to che solo 1,4% del nostro genoma è rappresentato da geni.“ Va inoltre chiarito che, di per sé, un frammento di DNA non ha informazione né per la sua duplicazione né per la sintesi pro-teica, ma ha bisogno di un contesto in cui questo si realizzi. Se anche aves-simo la descrizione completa del co-dice genetico di un organismo, non saremmo ancora in grado di dedurre come l’organismo è fatto: occorrono interventi epigenetici, che trasformi-no il genotipo (informazione geneti-ca) in fenotipo (l’organismo), fenome-no che può essere visto come una se-rie di istruzioni logiche che danno luo-go a reazioni chimiche. In altre paro-le l’informazione emerge dal conte-sto delle relazioni e non è una pro-prietà intrinseca del singolo elemen-to chimico, come si deduce, invece, dalla logica del dogma centrale. Ci si sta sempre più rendendo conto che il programma genetico non potrebbe estrinsecarsi senza gli strumenti epi-genetici in grado di renderlo mani-festo. Molti scienziati stanno cercan-do di scoprire come funzionano i no-stri geni e sembra che il loro compor-tamento possa cambiare radicalmen-te da una generazione all’altra, anche senza alterazioni della sequenza del DNA. ¢

Conclusioni

Come spiega A. Volpone (7), lo sviluppo degli organismi, spe-

cie quelli superiori, è estremamente complesso. A partire da un solo ovu-lo fecondato, miliardi di cellule vengo-no opportunamente generate e orga-nizzate in gruppi diversi per struttu-ra e funzione, in tessuti, organi, ecc. Il processo è delicato e altamente con-servativo. Da ciò non può che risulta-

re fortemente limitato il potere della selezione naturale di modellare singo-li caratteri degli organismi, separata-mente l’uno dall’altro. ¢

¢ Bibliografia1. Mayr E., Storia del pensiero biologico. Diver-

sità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri,

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3) Buiatti M. Lo stato vivente della materia,

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7) Volpone A, Il post-darwinismo e la transi-

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13) zampieri F., La medicina darwiniana, Syste-

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14) williams G.C., Adaptation and natural selec-

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15) Buiatti M. Evoluzione biologica e i grandi

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tica ed Evoluzione, nel sito http://www.lin-

cei.it/centrolinceo/bioxxxischeda5.html ¢

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In molti hanno dimenticato che il 2009 non è stato soltanto l’anno del

bicentenario della nascita di Darwin e il 150° dalla pubblicazione di On the Ori-gin of Species by Means of Natural Se-lection , ma anche l’anno del bicen-tenario della pubblicazione della Phi-losophie zoologique di Jean Baptiste de Lamarck.

quella che intendo proporre non do-vrebbe essere intesa come una ana-cronistica, velleitaria e fine a se stes-sa difesa d’ufficio di colui che lo stes-so Stephen Jay Gould ebbe a defini-re come il primo uomo di scienza ca-pace di formulare una teoria evoluzio-nistica coerente , piuttosto come una riflessione su quello che sarebbe oggi la nostra rappresentazione del pro-cesso bio-evolutivo e, di conseguen-za, delle scienze biologiche-biomedi-che, qualora venissero accettate al-cune idee lamarckiane inerenti a una tensione (evolutiva) intrinseca verso la complessità, caratterizzante tutte le forme di vita; alla possibilità di una di-retta induzione/modulazione da par-te dell’ambiente delle caratteristiche genetiche e fenotipiche degli esse-ri viventi; a una progressiva trasmis-sione transgenerazionale e fissazione delle trasformazioni indotte. quest’ultimo punto merita una par-ticolare attenzione: se è vero, infat-ti, che le informazioni provenien-ti dall’ambiente inducono e modula-no non soltanto l’espressione geni-ca, ma, nel medio-lungo termine, lo stesso assetto (epi)genetico delle spe-cie e se è vero che almeno una parte di queste trasformazioni epigenetiche

sono destinate a trasformarsi in mu-tazioni genetiche sensu stricto e ad essere trasmesse da una generazione all’altra, le conseguenze della drastica trasformazione dell’ambiente opera-ta in pochi decenni dall’uomo potreb-bero rivelarsi assai più drammatiche di quanto abbiamo fin qui registrato e compreso.Per introdurre una problematica come quella declinata dal titolo, può essere utile e forse necessario riflettere su alcuni concetti basilari, che cercherò di porre in forma semplice, o addirit-tura semplicistica: che cosa dobbiamo intendere con il termine malattia? ha senso intendere le malattie come en-tità dotate di consistenza ontologica (definibile in termini di quadro sinto-matologico, fisiopatologico o moleco-lare standard) o sarebbe più corretto parlare dei singoli casi, dei singoli “ma-lati” (inquadrando le malattie piutto-sto come storie, individuali e colletti-ve)? E ancora: se riconosciamo l’esi-stenza delle malattie, cosa dobbiamo intendere con questo termine? Da quando ci si è convinti della loro “esi-stenza”? E ancora: ha veramente sen-so pensare che esistano malattie/qua-dri patologici/cortei sintomatologici ben definiti e indipendenti dagli spe-cifici contesti ambientali e storici che li hanno determinati?

Semplificando al massimo il discorso possiamo affermare che nel corso de-gli ultimi due secoli si è andata affer-mando una concezione delle malat-tie come entità ben definite (addirit-tura secondo un grande storico del-la medicina “reificate”) : dapprima su

base nosologica (segni-sintomi), poi su base fisiopatologica (meccanismi), infine su base molecolare, almeno a partire dalla celebre formulazione “un gene, un enzima” da parte di Sir Ar-chibald Garrod o dai primi modelli di malattia molecolare proposti da Pau-ling (proprio negli scritti geniali e fo-rieri di grandi scoperte di Pauling é possibile individuare le grandi poten-zialità e i rischi insiti nel paradigma ri-duzionista, che domina la ricerca bio-medica da oltre mezzo secolo: si veda il famoso articolo pubblicato nel 1949 su Science in cui l’anemia falciforme viene a definirsi come malattia mole-colare, causata da un’alterazione della molecola di emoglobina, equiparata a un “micro-organo malato” ).

Un altro limite della medicina moder-na deriva dall’adozione di un modello eziopatogenetico lineare e, in partico-lare, dalla ricerca, di volta, in volta, di una causa specifica che determini l’ef-fetto/malattia e, possibilmente, di un rimedio altrettanto specifico (pharma-kon). questo ha fatto sì che l’accen-to venisse posto sulle cause prossime e sulla ricerca di risposte terapeutiche immediate, con grandi vantaggi e suc-cessi per ciò che concerne le malattie acute da cause esogene (in particolare per ciò che concerne le malattie bat-teriche e parassitarie, dominanti nel xIx secolo e per parte del xx). Assai meno efficace si è rivelata però l’ap-plicazione di un tale modello nell’am-bito delle malattie cronico-degenera-tive (disreattive, infiammatorie e neo-plastiche ) che sono diventate domi-nanti negli ultimi decenni del xx seco-

Da UNa MediCiNa Neo-darwiNista e GeNe-CeNtriCa ad UNa Neo-laMarCkiaNa e

sisteMiCa

Ernesto BurgioPediatra; coordinatore Comitato Scientifico ISDE Italia

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lo, in stretta concomitanza con il calo (praticamente speculare) delle sud-dette malattie acute da cause esoge-ne (relazione interessante che non an-drebbe troppo semplificata: la tesi se-condo cui la riduzione delle prime ab-bia “determinato” un incremento del-le seconde - secondo le prime formu-lazioni della cosiddetta hygiene hypo-thesis - non appare oggi sostenibile) . E’ infatti sempre più evidente che le malattie croniche sono multifattoria-li: alla loro origine concorrerebbero tanto fattori genetici, che ambienta-li e non avrebbe alcun senso ostinar-si nella ricerca di una causa univoca di malattia, magari cercando di sostitui-re alla causa determinante esogena (il germe), una causa endogena (il gene).

Affermare la multifattorialità di un processo patologico significa essen-zialmente sostenere che i meccanismi patogenetici implicati sono numerosi e complessi e che alcune di tali con-cause sono prevalentemente endoge-ne, altre esogene. questo ha condot-to numerosi autori a interrogarsi lun-gamente circa il ruolo svolto nel pro-cesso patogenetico dalle informazioni provenienti dall’ambiente (nurture) e da ciò che è frutto esclusivo del patri-monio genetico, o meglio dell’eredità genetica (nature). Negli ultimi anni, però, la contrappo-sizione, anzi la stessa dialettica nur-ture/nature è stata messa in discus-sione o quantomeno ha cambiato di valore e significato . ha infatti sem-pre meno senso chiedersi quanta par-te abbia nella genesi di una malattia (e più in generale nelle trasformazio-ni del nostro fenotipo) l’informazio-ne proveniente dall’esterno, rispetto a quella inscritta nel DNA del sogget-to. Potremmo anzi dire che da alcuni anni la stessa distinzione tra esterno e interno o almeno la linea di confine tra queste due realtà si è fatta più sfu-mata, essenzialmente grazie alla defi-nizione e allo studio dell’epigenetica, cioè delle interazioni molecolari attra-verso cui le informazioni provenien-ti dall’ambiente inducono l’attualizza-zione fenotipica di quelle (ereditarie) contenute in potenza nel genoma . Ora sappiamo infatti che il nostro ge-noma è composto di una parte relati-vamente stabile, la molecola base del

Dna (che trasporta essenzialmente la memoria di specie e che in condizio-ni naturali muta assai lentamente, nel corso di milioni di anni) e da un com-plesso assai più dinamico, interattivo con l’ambiente e continuamente mu-tevole, che definiamo epigenoma (se il Dna può esser paragonato all’har-dware, l’epigenoma rappresenta il software che dirige le operazioni) . Sappiamo che tutto ciò che man-giamo, respiriamo e persino ciò che ascoltiamo, percepiamo, pensiamo e soffriamo interferisce con l’assetto del software: poiché ogni informazio-ne che giunge dall’ambiente (nurture) attiva o disattiva, apre o chiude tutta una serie di circuiti biochimici intercel-lulari e intracellulari e, in ultima ana-lisi, induce dapprima una trasforma-zione, praticamente immediata e re-versibile, del software , poi, nel me-dio-lungo termine e in modo poten-zialmente irreversibile, dell’hardware (l’esempio più emblematico in tal sen-so concerne, almeno per il momento, la cancerogenesi). Sappiamo che chi studia il genoma di due gemelli monozigoti in tenera età, si troverà di fronte due complessi mo-lecolari praticamente identici, mentre chi analizza i genomi degli stessi due soggetti dopo anni di esperienze di-verse, che hanno via, via “marcato” l’epigenoma e indotto la cromatina a riposizionarsi, vedrà che l’esperienza (nurture) ha drammaticamente cam-biato l’assetto del genoma (nature) . Sappiamo che una parte delle trasfor-mazioni epigenetiche si trasmette da una generazione cellulare all’altra, permettendo e stabilizzando la pro-gressiva differenziazione morfo-fun-zionale delle cellule nei vari tessuti e stiamo cominciando a capire come al-meno una parte delle marcature epi-genetiche si conservi e trasmetta da una generazione umana all’altra e come questo possa tradursi, in alcu-ni casi, in una trasmissione trans-ge-nerazionale del danno e persino di pa-tologie neoplastiche. Sappiamo infine che le marcature epi-genetiche concernono essenzialmen-te le cellule meno differenziate (carat-terizzate da un assetto epigenetico e genomico più plastico) e quindi le cel-lule totipotenti e multipotenti delle prime fasi dell’ontogenesi e le cellu-

le staminali dei vari tessuti.. e che le marcature epigenetiche delle cellule germinali possono incidere non solo sul processo di sviluppo e quindi sul-la determinazione fenotipica dell’or-ganismo che da esse direttamente proviene, ma addirittura sulla discen-denza (tanto che è stato scritto che accendere una sigaretta o consuma-re un certo cibo o esporsi a sostanze inquinanti può danneggiare il destino dei propri nipoti).

Se dunque immaginiamo l’ambien-te come un flusso continuo di solle-citazioni e di informazioni molecola-ri, più o meno complesse, possiamo dire che ogni cellula e, per estensio-ne, ogni organismo è continuamen-te sollecitato a cambiare per adattar-si e che, a questo scopo, deve acqui-sire le informazioni stesse, elaborarle, trasformarle in nuova informazione, che potrà essere fissata in vario modo (dapprima e nel breve termine a livello epigenetico, in seguito anche in am-bito genetico), in specie in alcuni tes-suti deputati allo scopo: il sistema im-munocompetente (formazione di lin-fociti di memoria; di immunoglobuli-ne sempre diverse e sempre meglio adattate agli stimoli antigenici; di altri recettori linfocitari) e il sistema ner-voso centrale (modalità epigenetiche di fissazione della memoria e forma-zione di sinapsi e circuiti) .A questo punto è importare ricorda-re come una differenza fondamentale tra il modello bioevolutivo (neo)lamar-chiano e quello neodarwinista oggi imperante concernesse proprio il ruo-lo dell’ambiente. Mentre nell’ambito del paradigma neodarwiniano l’am-biente svolge un ruolo essenzialmen-te selettivo, l’evoluzione lamarckiana appare infatti interamente modula-ta e guidata da esigenze interne de-gli organismi, almeno in parte indot-te dall’ambiente stesso. Per meglio comprendere la differenza, conviene partire da quanto accade negli organi-smi più semplici, nei quali è molto più facile riconoscere e analizzare l’azione di induzione e modulazione delle tra-sformazioni genetiche e fenotipiche esercitata dall’ambiente.Nei procarioti l’insorgenza di mutazio-ni specifiche e adattative indotte da fattori ambientali è ormai ampiamen-

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te documentata. Nel 1988, John Cai-rns dimostrò che alcune mutazioni in E. Coli potrebbero emergere lamar-ckianamente in risposta alla presenza, nell’ambiente, di un particolare com-posto . Inevitabilmente l’esperimen-to scatenò polemiche e critiche, che ancora perdurano, nonostante nume-rosi ricercatori abbiano pubblicato ri-sultati simili concernenti altri ceppi di E. coli, Salmonella typhimurium, Ba-cillus subtilis, Pseudomonas e Clostri-dia, nonché in microrganismi eucari-oti quali Saccharomyces Cerevisiae e Candida albicans. Gli studi più recenti dimostrano come le mutazioni adattative vadano inseri-te in un contesto più ampio di stress e caos genomico con rotture e ricombi-nazioni, alterazioni dei meccanismi di riparazione, amplificazioni e uno sta-to di iper-mutazione diffuso a tutto il genoma batterico attivato e regolato dal sistema SOS, che risponde a pre-cisi segnali ambientali . Tali mutazio-ni lamarchiane attive/adattative rap-presentano un esempio emblematico di come un organismo possa “fornirsi di armi genetiche per fronteggiare le necessità ambientali e quindi adattarsi evolutivamente all’ambiente”.

Se il tema delle mutazioni attive/adat-tative indotte dall’ambiente negli or-ganismi più semplici e della loro pos-sibile trasmissione da una generazio-ne all’altra è stato oggetto di dibattiti e controversie, è facile intuire come le polemiche e le controversie siano sta-te alquanto più aspre quando si è cer-cato di affrontare il problema in rela-zione agli organismi superiori. L’am-bito specifico nel quale il dibattito si è maggiormente sviluppato è quel-lo delle ipermutazioni somatiche, in-dotte dall’ambiente, che svolgono un ruolo chiave nella produzione di mi-lioni di recettori immunitari specifi-ci (e in particolare di anticorpi) nel si-stema immunocompetente dei mam-miferi: un apparato, estremamente complesso, che è il prodotto di miliar-di di anni di coevoluzione molecolare e si compone di meccanismi aspecifi-ci’immunità naturale) e specifici (im-munità adattativa). questi ultimi sono particolarmente sofisticati, basandosi sull’azione di specifici recettori linfo-

citari, adattati ai singoli antigeni (mo-lecole non self). Le modalità della ma-turazione ontogenetica di tali recetto-ri sono particolarmente complicate e.. istruttive. I recettori dei linfociti B (im-munoglobuline), ad esempio, sono il prodotto di un processo multifasico, attraverso il quale il linfocita si diffe-renzia ed esprime recettori sempre più specifici.

Il primo a riconoscere, alla fine degli anni ’70, la natura lamarckiana di al-cune fasi del processo di formazio-ne dell’immunità adattativa fu l’im-munologo australiano Ted Steele, il quale non si limitò a evidenziare l’im-possibilità di spiegare l’intero proces-so suddescritto mediante il modello classico (neodarwiniano) della selezio-ne clonale, proposto da Burnett (se-condo il quale l’organismo produrreb-be, per mutazioni stocastiche, milio-ni di linfociti differenti, dotati di recet-tori/Ig specifici, che l’ambiente e cioè gli antigeni si limiterebbero a selezio-nare, inducendo la proliferazione dei cloni linfocitari produttori) ma propo-se una prima formulazione molecola-re di un meccanismo lamarckiano, nel quale i cambiamenti genetici specifici a carico dei geni codificanti per gli an-ticorpi sarebbero retro-trascritti nel-le cellule germinali: alcuni degli innu-merevoli mRna prodotti verrebbero cioè veicolati da retrovirus non pato-geni – un’idea almeno in parte deriva-ta dal lavoro pionieristico di Temin sul-le possibili funzioni “fisiologiche” di re-trovirus e trascrittasi inversa - e, dopo esser stati inseriti nel DNA delle cellu-le germinali, sarebbero trasmessi alle successive generazioni).Numerose ricerche hanno comprova-to la fondatezza del meccanismo pro-posto di Steele. E’ stata ad esempio provata, e in contesti assai diversi, la possibile trasmissione di materiale ge-netico da cellule somatiche a cellule germinali e, di conseguenza, alle suc-cessive generazioni ed anche il ruo-lo dei retrovirus in questo contesto è stato a più riprese documentato e analizzato . E la documentata capaci-tà delle cellule germinali, e soprattut-to degli spermatozoi, di acquisire aci-di nucleici dall’ambiente ; la suaccen-nata possibilità che le informazioni ge-netiche (retrogeni) così acquisite ven-

gano inserite nel patrimonio genetico e trasmesse alle successive generazio-ni; la comprovata attività di retroele-menti, retrovirus e trascrittasi inversa nelle diverse fasi dello sviluppo onto-genetico , tanto da parte delle cellu-le germinali , che dei gameti matu-ri , che dell’intero tratto genitale ma-schile hanno recentemente indotto alcuni ricercatori a riflettere a fondo su meccanismi molecolari di trasmis-sione lamarckiana tutto sommato non molto dissimili da quelli preconizzati da Steele.

E’ importante comprendere che tut-to questo potrebbe incidere in modo significativo sulla nostra “rappresen-tazione bio-medica”. Nel senso che se nei prossimi anni sarà sempre più evidente che l’ambiente è in grado di trasformare il nostro fenotipo, tan-to in ambito fisiologico, che patolo-gico, inducendo continue modifica-zioni reattive nel nostro genoma (fa-cendo leva sul software epigenetico, ma agendo nel medio-lungo termine sullo stesso DNA) e se è dimostrabile che una parte di queste modifiche ge-nomiche indotte si trasmettono ver-ticalmente da una generazione all’al-tra (per così dire lamarckianamente, ma senza dimenticare che lo stesso Darwin in questo era certamente più lamarckiano dei suoi propri seguaci e proseliti), è evidente che la medicina dovrebbe riconoscere all’ambiente (e, in particolare, alla drammatica trasfor-mazione chimico-fisica di tutti i com-parti dell’ecosfera che l’uomo ha de-terminato in pochi decenni) un ruolo assai più importante.Da quanto detto sin qui, possiamo an-che indurre che se il programma ge-netico di base e, di conseguenza, le strutture anatomiche e le caratteri-stiche fisiologiche proprie di una data specie sono il prodotto di milioni di anni di lenta co-evoluzione molecola-re adattativa in un ambiente relativa-mente stabile sul piano chimico (mo-lecolare), come dimostra il fatto che negli ultimi 6-8 milioni di anni la se-quenza dal DNA propria dei prima-ti è cambiata assai poco (in particola-re per ciò che concerne la componen-te codificante le proteine) , la dram-matica trasformazione chimico-fisi-ca dell’ambiente indotta dall’uomo in

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pochi decenni, (una frazione di tempo del tutto irrilevante in ambito bio-evo-lutivo: si pensi alle decine di migliaia di molecole di sintesi o di scarto immes-se nell’ecosfera a partire dalla secon-da rivoluzione industriale - molte delle quali genotossiche, la gran parte del-le quali poco studiate - e alla notevole gamma di radiazioni ionizzanti e non di frequenza diversa che nell’ultimo mezzo secolo ha letteralmente inva-so l’atmosfera, per alcune delle qua-li è stata già dimostrata una possibi-le interferenza tanto sull’epigenoma, quanto sul DNA ) sembrerebbe poter determinare uno stress epigenetico e, conseguentemente, una instabilità genomica e cromosomica non solo e non tanto a carico dei tessuti più solle-citati o più direttamente esposti negli organismi maturi (azione pro-cance-rogena), ma anche e soprattutto ne-gli organismi in via di sviluppo (in rela-zione alla maggior plasticità delle cel-lule poco differenziate) e nei gameti.

A questo punto dovrebbe anche ri-sultare più comprensibile quanto det-to intorno all’importanza di distingue-re tra cause prossime e cause remo-te delle malattie o piuttosto di ricono-scere il ruolo di queste seconde nel-la determinazione di patologie cro-niche - degenerative, immunome-diate, neoplastiche - che insorgono come conseguenza di alterazioni del-la programmazione epigenetica di or-gani e tessuti, reattivo-adattative a si-tuazioni ambientali o micro-ambien-tali che l’organismo in via di sviluppo recepisce come potenzialmente pe-ricolose o comunque non favorevo-li alla corretta realizzazione del pro-prio programma genetico (fetal pro-gramming) . E’ questo, evidentemen-te, il grande tema originato dalla co-siddetta Barker hypothesis o più re-centemente, dalla teoria dell’Origine Fetale delle Malattie dell’Adulto (DO-hAD - Developmental Origins of he-alth and Diseases) che da modello pa-togenetico validato per alcune patolo-gie endocrino-metaboliche assurge-rebbe a paradigma patogenetico “uni-versale” in base al quale le alterazio-ni del microambiente uterino (legate a carenze nutrizionali, all’inquinamento progressivo dell’ambiente e delle ca-tene alimentari o ad altre situazioni di

stress materno-fetale) sembrerebbe-ro poter produrre alterazioni dello svi-luppo ontogenetico e, in particolare, dell’assetto epigenetico di vari tessuti ed organi , trasferibili per di più da una generazione all’altra.

Ma parlare di case remote delle malat-tie significa fare riferimento non solo alle possibili alterazioni epigenetiche insorte nelle prime fasi della vita fetale o concernenti addirittura i gameti dei genitori del soggetto malato; significa anche e soprattutto rifarsi al proces-so bio-evolutivo nel suo insieme. Non bisognerebbe infatti trascurare (come si è fatto finora, in ambito biomedico) che ogni singolo organismo è il pro-dotto di un duplice percorso di svilup-po: filogenetico ed ontogenetico.

Con il termine filogenesi ci si riferi-sce ad un processo co-evolutivo e co-adattativo che, iniziato circa 4 miliardi di anni fa (almeno sulla terra), ha con-dotto, a partire da organismi semplici (monocellulari) alla formazione di or-ganismi via, via più complessi tanto sul piano genetico (genotipico), che su quello anatomo-fisiologico (fenoti-pico). In seguito a tale processo gli or-ganismi hanno acquisito, trasforma-to e fissato le informazioni provenien-ti dall’ambiente esterno, converten-dole in bio-molecole (acidi nucleici e proteine) e in strutture (cellule, tessu-ti, organi, apparati) specie-specifiche. Con il secondo termine (ontogenesi) si fa riferimento al processo di svilup-po individuale, in parte geneticamen-te programmato (le istruzioni essen-do fissate essenzialmente nel genoma specie-specifico, prodotto dal sudde-scritto processo filogenetico), in par-te indotto dalle informazioni prove-niente dall’ambiente (in larga misura attraverso il filtro del microambiente materno/uterino).

Potremmo anche dire, per sintetiz-zare e chiarire la relazione tra questi due processi in certa misura paralle-li, che lo sviluppo ontogenetico (indi-viduale) è il prodotto della decodifi-ca delle potenzialità genetiche dell’in-dividuo, indotta e modulata dalle in-formazioni provenienti dall’ambien-te. Parafrasando la famosa quanto di-scussa espressione di Ernest haeckel

secondo cui “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, che potremmo considera-re come l’origine della corrente evolu-zionistica che va sotto il nome di Evo-Devo e che ha avuto il grande meri-to di ricollegare, dopo alcuni decen-ni di deleteria separazione, la biolo-gia evoluzionistica (Evolutionary Bio-logy) e la biologia dello sviluppo (De-velopmental Biology), potremmo an-che dire che l’ontogenesi rappresen-ta il banco di prova e il laboratorio del-la filogenesi (e sarebbe allora addirit-tura più corretto e più efficace il bino-mio Devo-Evo) .

Già sulla base di queste note possiamo comprendere quanto sia potenzial-mente fertile il parallelismo tra svilup-po ontogenetico ed evoluzione filo-genetica. L’intero processo ontogene-tico può essere infatti descritto come il realizzarsi nel tempo del program-ma genetico ed epigenetico contenu-to in un’unica cellula: lo zigote. E’ im-portante sottolineare come in orga-nismi più semplici (esempio classico il Caenorhabditis elegans) tale processo sia rigidamente programmato e come man mano che si sale nella scala di complessità degli organismi (livello fi-logenetico) il ruolo delle informazioni ambientali (ormoni, morfògeni, campi morfogenetici ) nel processo di svi-luppo ontogenetico diventi prepon-derante. Ed è evidente che la superio-re plasticità e dipendenza dalle infor-mazioni ambientali che caratterizza gli organismi più complessi aiuta a com-prendere, quantomeno nell’ambito di una rappresentazione lamarckiana del processo evolutivo, l’accelerazio-ne progressiva dei processi evolutivi e la sempre maggiore variabilità fenoti-pica degli organismi appartenenti alle specie più complesse.

Negli ultimi 20 anni vari autori si sono in effetti posti il problema di “aggan-ciare” la medicina al grande paradig-ma bioevoluzionistico neodarwiniano : un’esigenza assolutamente fonda-ta se è vero che, secondo le parole di uno dei fondatori della Sintesi neodar-winaina, Theodosius Dobzhansky, non è possibile descrivere correttamente alcun evento biologico, se non in ter-mini bio-evolutivi .

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12G.I.M.A.il cesalpino

Le coordinate utilizzate dai”pionieri” della medicina evoluzionistica sono stati efficacemente sintetizzati da Ste-fano Canali in questi termini:”Il postu-lato che fa da sfondo al ragionamento evoluzionistico in medicina è che ogni individuo è espressione di un pro-gramma genetico e che tale program-ma rappresenta un prodotto stori-co e unico dell’evoluzione, plasma-to dai meccanismi della filogenesi: va-riazione genetica e selezione natura-le. Secondo la medicina evoluzionisti-ca dunque i fenomeni epidemiologi-ci, la specifica vulnerabilità individua-le alle malattie, i modi e i tempi con cui ogni individuo risponde a un agen-te patogeno, si ammala o recupera la salute dipenderebbero anche da pro-cessi storici, filogenetici. Tale prospet-tiva, suggerisce che una spiegazione adeguata delle malattie non può arre-starsi all’esame delle cause prossime che innescano il processo patogene-tico ma deve considerare l’azione di cause remote cioè far ricorso a cate-gorie esplicative e argomentazioni di tipo evoluzionistico”

L’aver posto, nei primi anni ‘90, l’esi-genza di incardinare la medici-na nell’ambito della biologia e quin-di della biologia evoluzionistica è sta-to essenzialmente merito di Randol-ph Nesse e George williams, uno psi-chiatra e un biologo, che hanno an-che cercato, in questo modo, di dare un fondamento epistemico più solido alla medicina. O almeno di tornare a cercarlo, se è vero che già alcuni dei padri fondatori della fisiologia e del-la medicina moderna (da Rudolf Vir-chow a Claude Bernard, fino ad hans Selye e walter Cannon) avevano for-mulato teorie importanti sulla malat-tia come prodotto di una crisi omeo-statica (locale o sistemica ), di una cri-si dell’autoregolazione o anche di una crisi teleonomica.

D’altro canto Nesse e williams e la gran parte degli autori che in que-sti venti anni hanno partecipato al di-battito su questa tematica hanno fat-to, inevitabilmente, riferimento alle grandi coordinate della varianza ge-netica e della selezione naturale, che rappresentano i cardini della Sintesi neodarwiniana.

Se a questo punto volessimo inseri-re nel dibattito le coordinate proprie del modello lamarckiano (e come det-to darwinista sensu stricto) per dare un maggior rilievo al ruolo gioca-to dall’ambiente (e dalla sua recente, drammatica trasformazione ad opera dell’uomo) ed ai nuovi modelli mole-colari epigenetici, potremmo vedere in molte patologie croniche (e in par-ticolare in quelle in cui è più evidente una componente flogistica) l’espres-sione di una crisi adattativa (come un processo reattivo-adattativo o come il fallimento di questo). Dovremmo in questo caso sostitui-re ad un paradigma “lineare” secon-do cui ad una singola causa (esposi-zione ad una sostanza tossica o ad un mix di inquinanti) dovrebbe far segui-to con sufficiente frequenza e costan-za, in un dato lasso di tempo, un ef-fetto ben definito e possibilmente ri-producibile (ad es. l’incremento di una data patologia), un paradigma più am-pio e fluido, fondato sull’assunto che le principali alterazioni fisio-patologi-che rappresentino, in ultima analisi, tentativi di adattamento ai mutamen-ti ambientali e che tutte le modifiche epidemiche stabili siano da interpreta-re come effetti di una trasformazione eccessivamente rapida della relazione organismi/ambiente. In questa luce praticamente tutte le patologie che negli ultimi decenni hanno mostrato un trend di cresci-ta abnorme -asma/allergie e altre pa-tologie immunomediate; alterazioni dello sviluppo neurologico/patologie neurodegenerative dell’adulto; obesi-tà/sindrome metabolica/insulino-resi-stenza/diabete II; aterosclerosi - pos-sono essere riconosciute come il se-gno/sintomo di uno stress biologico ed (epi)genetico che coinvolge tutti gli organismi superiori (e in particola-re quelli più direttamente esposti a in-quinamento e alle conseguenze del-la suddetta, repentina trasformazio-ne ambientale). Tanto più che una si-mile rappresentazione non si fonda su un paradigma puramente teorico ed astratto, ma su alcune ipotesi patoge-netiche estremamente interessanti, la cui validità sul piano scientifico è ormai universalmente riconosciuta: la cosid-detta Barker hypothesis (secondo cui la rapida trasformazione dell’ambien-

te esterno e della catena alimentare si ripercuoterebbe sul microambiente uterino e quindi sul feto, inducendo una serie di modifiche epigenetiche adattative proprio in quelle cellule che andranno a formare i tessuti e gli or-gani preposti al controllo metabolico ed alle relazioni con il mondo ester-no) ; la cosiddetta hygiene hypothe-sis (secondo cui l’alterazione dell’am-biente, e in particolare degli ecosiste-mi microbici esterni ed endogeni, de-terminerebbe uno squilibrio nello svi-luppo del sistema immunocompeten-te e, in particolare, dei meccanismi di acquisizione della tolleranza immuni-taria) ; l’ipotesi flogistica, che si fon-da sul dato di fatto che in tutte le sud-dette patologie è presente una com-ponente flogistica cronica, che avreb-be un ruolo patogenetico chiave (e che può essere, in genere, ricondot-ta all’attivazione di alcuni meccanismi, propri dell’immunità naturale, da par-te di sostanze inquinanti, agenti ossi-danti o molecole proteiche alterate, in grado di innescare processi reattivi o immuno-mediati). Le trasformazioni (epi)genomiche e le conseguenti modifiche anatomiche e fisio-patologiche a carico di un orga-nismo affetto da malattia cronica sa-rebbero il prodotto di uno stress bio-logico possibilmente precipitato da agenti biologici o chimico-fisici spe-cifici (cause prossime), ma originato da uno stress epigenomico dis-adat-tivo di lungo termine (cause remote). La continua attivazione di meccanismi reattivi (difensivi, riparativi: in ultima analisi, di processi proliferativi) si tra-durrebbe sul piano fisiopatologico in un incremento della flogosi con atti-vazione dapprima dell’immunità natu-rale, poi dell’immunità adattativa (pro-liferazione linfocitaria, Ig..), infine dei meccanismi di riparazione (remode-ling tessutale).All’origine di questa condizione di stress biologico, che potrebbe coin-volgere via, via la gran parte della po-polazione umana e altre specie di es-seri viventi, sarebbe in ultima anali-si una sorta di gap tra quello che ab-biamo definito come l’hardware de-gli organismi superiori (composto dal programma genetico e dalla struttu-ra organica specie-specifica, che sono il portato di milioni di anni di lenta co-

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evoluzione biologica e molecolare) e il software (costituto dall’epigenoma, cioè dalla componente più reattiva e dinamica, in continua trasformazio-ne adattiva del genoma). all’origine di questo gap sarebbe la relativa inerzia al cambiamento dell’hardware a fron-te di un ambiente mutato in modo eccessivamente rapido.

Sul piano storico (e filogenetico) pos-siamo ipotizzare che, per quanto con-cerne la storia più recente di homo Sapiens, sia possibile riconoscere due momenti di crisi dis-adattive maggiori, legate a cambiamenti particolarmente rapidi dell’ambiente e della micro-bio-cenosi e quindi della patocenosiLa prima di queste crisi è probabil-mente coincisa con la cosiddetta rivo-luzione neolitica, allorché dopo milio-ni di anni di esistenza da primate pre-valentemente erbivoro e alcune centi-naia di migliaia di anni da ominide cac-ciatore-raccoglitore homo sapiens si sarebbe rapidamente trasformato in essere sociale, sempre più sedentario (inurbamento) dedito ad agricoltura e zootecnia, trasformando interi ecosi-stemi (insetti vettori, agenti microbici, parassiti e virus): questo avrebbe cau-sato l’insorgere di nuove malattie le-gate alla trasformazione della dieta (in primis la celiachia) e quindi del micro-biota intestinale (alterazioni del siste-ma immunocompetente) e soprattut-to endemie/epidemie infettive: ma-lattie acute da cause esogene, essen-zialmente zoonosi, che avrebbero do-minato per quasi 10mila anni il mon-do dell’uomo.La seconda crisi sarebbe stata una conseguenza della rivoluzione indu-striale e in particolare della seconda ri-voluzione industriale (chimica) e della globalizzazione dei trasporti e dei traf-fici commerciali che in pochi decen-ni avrebbe determinato una dramma-tica trasformazione della stessa com-posizione molecolare della biosfera, in specie a partire dal secondo dopo-guerra mondiale, con diffusione pla-netaria di decine di migliaia di mole-cole di sintesi, tra cui, in particolare, antibiotici, pesticidi, insetticidi, plasti-ficanti e altri EDCs e POPs. Ne sareb-bero derivati: da un lato una trasfor-mazione radicale degli ecosistemi mi-crobici e biologici in genere, con in-

cremento e diffusione orizzontale dei geni di antibiotico-resistenza, pressio-ne selettiva su virus e in particolare retrovirus (attivazione e/o slatentizza-zione di hERVs ), zoonosi (ri)emergen-ti etc.. Dall’altro e più direttamente un inquinamento chimico-fisico mas-sivo, da intendersi come rapida tra-sformazione della composizione mo-lecolare dell’ecosfera e, in particolare, dell’atmosfera delle aree urbane e in-dustriali (con esposizione collettiva e in particolare transplacentare e tran-sgenerazionale a IPA, metalli, benze-ne, UP..), della biosfera e delle catene alimentari (con effetti di bioconcen-trazione, bioaccumulo, biomagnifica-zione) e conseguente stress genomi-co (epigenetico e poi genetico) col-lettivo e crescente, perdita della tol-leranza immunologica e iperreattività sempre meno selettiva (TILT), trasfor-mazione radicale del microbiota (hy-giene hypothesis) e alterato program-ming fetale (DOhAD).

questo sembrerebbe essere, alla luce di quanto detto, il quadro bio-evoluti-vo che si va delineando e che nel me-dio-lungo periodo potrebbe persi-no incidere in ambito devo-evo, cioè sull’evoluzione genomica della nostra e di altre specie viventi, in conseguen-za della drammatica trasformazione chimico-fisica dell’ecosfera indotta dall’uomo. Un problema fin qui enor-memente trascurato, anche a cau-sa dell’oblio in cui è stato lungamen-te e ingiustamente relegato dal neo-

darwinismo trionfante il modello bio-evolutivo proposto oltre due secoli fa da Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet, cavaliere di Lamarck, biologo, zoologo e botanico francese, che per primo comprese la necessità teorica dell’evoluzione degli esseri viventi.¢

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16G.I.M.A.il cesalpino

I tUMori staNNo aUMeNtaNdo?

Paolo VineisProfessore di Epidemiologia Ambientale, Imperial College of

Science, Technology and Medicine, Londra

I tumori stanno aumentan- do?

Nei paesi occidentali attualmente l’incidenza dei tumori è all’incir-

ca doppia rispetto ai paesi in via di svi-luppo, e i tumori predominanti sono diversi nei due tipi di paesi (polmone, colon, mammella, prostata nei paesi sviluppati; fegato, collo dell’utero nei paesi a basso reddito). Coerentemen-te con il resto della patologia, i tumo-ri in molti paesi in via di sviluppo han-no prevalentemente cause infettive. Ma il quadro sta rapidamente cam-biando e alcuni paesi classificati fino a qualche anno fa come “in via di svilup-po” (Cina, India) stanno velocemente acquisendo caratteristiche analoghe a quelle dei paesi occidentali anche dal punto di vista epidemiologico. Stanno cioè passando attraverso una “transi-zione epidemiologica” dalla patologia prevalentemente infettiva a quella di tipo occidentale basata sulle malattie croniche-metaboliche (cardiovascola-ri, ipertensione, diabete, e alcuni dei tumori menzionati sopra).Se al termine “epidemia” diamo il si-gnificato comune, cioè di un rapido aumento nel corso del tempo della frequenza di una malattia, allora c’è sicuramente un’epidemia di cancro in Cina, ma non nei paesi occidenta-li, dove nel complesso i tumori negli ultimi anni non hanno mostrato una crescita ma semmai un lieve declino. Stanno infatti diminuendo i tumori del polmone negli uomini (anche se au-mentano nelle donne), e in alcuni pa-esi, in particolare gli Stati Uniti, molto recentemente si è iniziato ad assiste-re a un declino dei tumori della mam-mella e del colon. Il declino per questi ultimi si riferisce non solo alla morta-lità, fenomeno iniziato da tempo e le-gato alle diagnosi più tempestive, ma anche all’incidenza, cioè al numero di nuovi casi che ogni anno vengono dia-gnosticati. Sembra pertanto che vi sia

nei paesi economicamente più avan-zati una modifica nei fattori di rischio, ma non è ancora chiaro di che cosa esattamente si tratti. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni tu-mori che altrove sono in diminuzio-ne sono da noi in lieve aumento. In un decennio, tra il 1993-95 e la metà de-gli anni Duemila, secondo l’Associa-zione italiana registri tumori (Airtum) sono aumentati i tumori della tiroide, della prostata, del testicolo, i melano-mi della pelle, i linfomi di hodgkin, e i tumori del polmone nelle donne. Cre-scono anche i tassi per i tumori del co-lon, pancreas, fegato, i tumori infanti-li e i mesoteliomi pleurici (a causa del-la esposizione all’amianto), ma altri tu-mori sono in diminuzione (in partico-lare i tumori dello stomaco). L’aumen-to di alcune neoplasie è legata in parte alla maggiore tempestività diagnosti-ca, ma in parte anche a una maggiore esposizione a fattori di rischio. In Ita-lia ci si ammala in parte di più, ma si muore meno rispetto al passato. Sem-pre più spesso i tumori sono colti in fase precoce, con maggiori chances di guarigione. Merito anche dei pro-grammi di screening per prevenire i tumori del collo dell’utero, della mam-mella e del colon. Le cure sono diven-tate in parte più efficaci. Secondo i dati di Eurocare, il più vasto studio di popolazione che ha analizza-to più di due milioni e mezzo di pa-zienti oncologici in 22 paesi europei, oggi quasi la metà dei malati di tumo-re è vivo a cinque anni dalla diagno-si. L’Italia si piazza bene nella classifi-ca europea, con una sopravvivenza a 5 anni per tutte le neoplasie maligne del 44% negli uomini e del 59% nel-le donne. ¢

Il cancro è dovuto alle so-stanze chimiche?

Dunque non è in corso propria-mente un’epidemia di cancro nei

paesi occidentali, ma al tempo stes-so è vero che il cancro causa il 25-30% delle morti. Semmai si può par-lare di “endemia”, cioè di una malattia, o complesso di malattie, cronicamen-te presenti con frequenze elevate nel-la popolazione, un concetto diverso da quello corrente. E’ questa endemia dovuta alle sostanze chimiche cui sia-mo esposti? Se vogliamo una risposta semplice, questa probabilmente è un “solo in parte”. Ma una risposta così semplice non è quasi mai corretta.Gli studi di cancerogenesi chimi-ca hanno avuto un grande succes-so nell’identificare un elevato nume-ro di cancerogeni, a partire dagli idro-carburi aromatici policiclici (IAP) deri-vanti dalla combustione di materiali organici. Per un lungo periodo il pa-radigma dominante tra la teorie della cancerogenesi è stato quello chimico, sulla scorta di osservazioni provenien-ti da diversi campi della ricerca scien-tifica. Prima si ebbe la dimostrazione sperimentale, in animali, che estrat-ti di catrame contenenti IAP produ-cevano tumori sulla pelle, come negli spazzacamini inglesi esposti a fuliggi-ne. Poi si vide che gli IAP potevano le-garsi al DNA, e in seguito si divenne in grado anche di identificare le muta-zioni provocate dagli IAP in geni dotati di funzioni cruciali nelle cellule. quel-lo che ha reso così solido il paradig-ma della cancerogenesi chimica è sta-ta proprio la coerenza tra osservazio-ni effettuate a diversi livelli della real-tà: popolazioni umane, cellule in col-tura, filamenti di DNA. Inoltre lo stesso paradigma ha portato all’introduzione del Principio di Precauzione e a preve-nire probabilmente decine o centinaia di migliaia di tumori. Se oggi i tumori siano principalmente dovuti a esposizioni chimiche ambien-tali e’ incerto ma poco probabile (se escludiamo dalle sostanze chimiche il fumo di tabacco). Gli studi epidemio-

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17G.I.M.A. il cesalpino

logici suggeriscono che l’inquinamen-to contribuisce sicuramente, ma svol-ge una parte relativamente modesta, benche’ difficilmente quantificabile. Dobbiamo ora guardare a fenomeni piu’ complessi, come un’alimentazio-ne largamente industrializzata e sbi-lanciata. ¢

Che cosa è un cancerogeno?

Il contributo probabilmente più so-lido e duraturo alla definizione di

cancerogeno si deve a Lorenzo To-matis e all’attività di valutazione si-stematica da lui avviata con le Mono-grafie dell’Agenzia Internazionale per le Ricerche su Cancro (IARC). Fin dal-la fine degli anni ’60, sotto la guida di Tomatis, la IARC ha passato in rasse-gna le prove epidemiologiche e spe-rimentali di cancerogenicità di sostan-ze chimiche e altri agenti, avvalendosi di gruppi di esperti indipendenti, cioè non legati all’industria. Molte centina-ia di esposizioni sono state conside-rate e classificate in base a uno sche-ma che prevede tre categorie di pro-ve: sufficienti, limitate o inadegua-te, rispettivamente in soggetti uma-ni (studi epidemiologici) o in anima-li da esperimento. Inoltre la catego-rizzazione si avvale anche di indizi di tipo sperimentale in cellule in coltu-ra o d’altra natura (riguardanti i mec-canismi d’azione). Infine, i dati umani e sperimentali vengono combinati in una classificazione che prevede quat-tro categorie: (a) sicuramente can-

cerogeno per l’uomo in base a pro-ve epidemiologiche; (b) sicuramente cancerogeno per gli animali, con pro-ve nell’uomo incerte; (c) la cancero-genicità per l’uomo non può essere chiaramente stabilita per i limiti delle prove sia nell’uomo che negli animali; (d) non cancerogeno.questo lavoro di valutazione ha resi-stito nel tempo e continua a essere la più autorevole modalità di valutazio-ne delle prove e il più solido supporto per la regolamentazione dei cancero-geni in molti paesi. Le categorie usa-te dalla IARC connettono fra loro os-servazioni a diversi livelli della realtà: prove epidemiologiche, sperimenta-li in animali, sperimentali in cellule in coltura, di mutagenesi in batteri, ecc. Un esempio tra tanti – ma particolar-mente istruttivo - può essere quello dell’1,3-butadiene. questa è una so-stanza di largo uso industriale (per esempio nelle gomme sintetiche e materie plastiche), ma che si libera an-che per combustione di vari compo-sti organici (per esempio si trova nel fumo di tabacco o nei gas di scarico degli autoveicoli). Sei milioni e seicen-tomila tonnellate di 1,3-butadiene ve-nivano prodotte nel mondo alla fine degli anni ‘90, e questa sostanza era 36esima tra le sostanze chimiche negli USA in termini di volume prodotto. La cancerogenicità della sostanza venne suggerita dai risultati piuttosto clamo-rosi di un test in animali condotto nel 1984 dal National Toxicology Program

degli Stati Uniti. Gruppi di 50 topi fu-rono esposti a diverse concentrazioni di 1,3-butadiene per inalazione. I topi trattati svilupparono una frequenza elevatissima di un tumore inusuale e molto raro in assenza del trattamen-to, gli emangiosarcomi del cuore. La frequenza di questi tumori era di uno su più di 2.000 controlli non trattati, ma quasi del 50% nei topi trattati con la sostanza ad alte dosi. Un altro tu-more frequente nei topi trattati era-no i linfomi. Dunque c’era decisamen-te di che allarmarsi. Tuttavia gli studi nell’uomo sono stati fino a tempi re-centi equivoci, sostanzialmente per-ché le popolazioni di lavoratori espo-sti alla sostanza sono relativamente piccole, mentre le grandi popolazio-ni di consumatori sono esposte a dosi estremamente basse. Solo nel 2007 un gruppo di lavoro della Monogra-fie IARC ha riconosciuto che vi sono prove sufficienti di cancerogenicità nell’uomo (in cui la sostanza produce linfomi, coerentemente con le osser-vazioni negli animali), dunque 23 anni dopo le clamorose osservazioni negli animali. Secondo gli standard che pre-tende l’industria, le sperimentazioni negli animali non sono utilizzabili per la prevenzione del cancro nell’uomo. Ma questo ovviamente significa ac-cettare una dilazione di più di 25 anni in un caso, come quello esaminato, in cui erano disponibili prove iniziali in animali che sono poi state conferma-te nella specie umana. ¢

Effetti NeUroloGiCi di esPosizioNi aMbieNtali

Lucia MiglioreProfessore Ordinario di Genetica Medica, Dipartimento di Scienze

dell’Uomo e dell’Ambiente, Università di Pisa

❚❘❘ RiassuntoL’ambiente, che può essere considerato

nelle sue matrici aria, acqua, suolo, o come

cibo, supplementi dietetici o farmaci, op-

pure visto come interazioni sociali, dina-

miche familiari e cure materne, può es-

sere potenzialmente in grado di alterare

l’espressione genica e di produrre un cam-

biamento fenotipico, interferendo con

l’epigenoma o modificandolo.

Se poi queste modificazioni indotte

dall’ambiente avvengono in stadi cruciali

della nostra vita, le potenziali conseguen-

ze possono riguardare cambiamenti com-

portamentali, suscettibilità alle malattie e

variazioni nella sopravvivenza. Le influen-

ze ambientali capaci di causare modifica-

zioni dell’espressione genica durante pe-

riodi critici dello sviluppo cerebrale avreb-

bero potenziali effetti negativi su specifi-

che funzioni cerebrali o potrebbero con-

tribuire alla neurodegenerazione duran-

te la senescenza di un organismo. E’sta-

to dimostrato che esposizioni a neurotos-

sine quali piombo od etanolo, alterazioni

delle cure materne, modificazioni dei livel-

li di nutrienti critici come la colina duran-

te la gravidanza, possono alterare il profilo

di espressione genica e l’imprinting gene-

tico in modo programmatico, in differenti

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18G.I.M.A.il cesalpino

regioni del cervello. Come in ogni altro di-

stretto corporeo, il DNA delle cellule cere-

brali è soggetto a modificazioni dinamiche

della metilazione. Ci si aspetta che il man-

tenimento dell’integrità genetica ed epi-

genetica sia di fondamentale importanza

per cellule come i neuroni, che continua-

no a funzionare per tutta la vita. Sta emer-

gendo sempre più il concetto che i mecca-

nismi epigenetici hanno un ruolo centra-

le nelle funzioni cerebrali più fini. La loro

deregolazione può portare a diverse ma-

lattie neurodegenerative e dello sviluppo

cognitivo, ma anche a disordini della sfera

emotiva, nell’ambito delle malattie psichia-

triche. Diversi studi preclinici hanno dimo-

strato che meccanismi di regolazione epi-

genetica contribuiscono ai fenotipi com-

portamentali in modelli di schizofrenia e

depressione, tossicodipendenza e distur-

bi d’ansia. ¢

❚❘❘ Parole chiaveMalattie neurodegenerative, disordini psi-

chiatrici, disordini comportamentali, espo-

sizioni ambientali, epigenetica. ¢

L’epigenetica è lo studio dei cam-biamenti ereditabili del fenotipo

o dell’espressione genica attraver-so meccanismi diversi dalla sequenza del DNA. Specifici processi epigeneti-ci, soggetti a regolazione, includono l’interazione tra due alleli di un singo-lo locus, la trasmissione della memo-ria cellulare, l’imprinting, l’inattivazio-ne del cromosoma x, il silenziamen-to genico, il differenziamento cellula-re tessuto-specifico.Attualmente è in corso il Progetto Epigenoma Umano (human Epigeno-me Project, hEP http://www.epigeno-me.org). Si avvale di collaborazioni in-ternazionali pubbliche e private con lo scopo di identificare, catalogare ed interpretare i profili di metilazione di tutti i geni nei principali tessuti umani. Alla base delle modificazioni epigene-tiche vi sono molteplici meccanismi molecolari, i più attivamente studiati finora sono la metilazione, le modifi-cazioni della cromatina e l’azione dei microRNA (miRNA).La metilazione del DNA è una delle più comuni modificazioni epigenetiche che regolano l’espressione genica nel-le cellule di mammifero. Consiste nel trasferimento di un gruppo metilico dalla S-adenosil metionina all’atomo

di carbonio in posizione 5 dell’anel-lo citosinico, con il risultato della for-mazione di una nuova base: 5-metil-citosina. In genere la metilazione av-viene sulle citosine che fanno parte di una sequenza dinucleotidica simme-trica CpG. queste sequenze (nel geno-ma ce ne sono circa 30.000) tendono ad essere concentrate in regioni note come “isole CpG”, caratterizzate da un contenuto in G-C ≥ al 55%, e localiz-zate nelle regioni promotrici dei geni. queste isole CpG sono un eccellen-te substrato per gli enzimi DNA me-tiltransferasi. La metilazione delle ci-tosine delle isole CpG dei promotori dei geni è correlata con il silenziamen-to dell’attività trascrizionale, mediante l’inibizione di fattori di legame trascri-zionale o tramite interazioni tra le me-til CpG binding proteins ed i represso-ri trascrizionali. Recenti studi hanno dimostrato il si-gnificato funzionale della metilazio-ne del DNA in disordini neurologici e psichiatrici. La sindrome di Rett è una malattia ad insorgenza infantile che colpisce qua-si esclusivamente le femmine. E’ una malattia genetica x-linked dominan-te ed ha un’ incidenza media stima-ta di 1:10.000 / 15.000 bambine nate. E’ la seconda causa, dopo la sindro-me di Down, di ritardo mentale fem-minile ed è spesso erroneamente dia-gnosticata come autismo o un non specificato ritardo dello sviluppo. E’ un disordine dello sviluppo neurologi-co dovuto nella maggior parte dei casi ad alterazioni del gene della metil-CpG binding protein 2 (MeCP2), situato sul cromosoma x.La proteina MECP2 è un represso-re trascrizionale, ovvero una proteina che impedisce ad alcuni geni specifi-ci di essere espressi. Come tutti i re-pressori trascrizionali, anche MECP2 possiede un dominio capace di legare il DNA ad un altro capace di spegnere l’attività dei geni bersaglio.Oggi è noto il ruolo di MeCP2 sullo svi-luppo del Sistema Nervoso Centra-le (SNC) e sulla maturazione neuro-nale. Modelli animali con funzioni di MeCP2 compromesse hanno dimo-strato che la regolazione omeostatica di MeCP2 è indispensabile per un cor-retto funzionamento del SNC. Inotre MeCP2 avrebbe un ruolo importan-

te nel mantenere e modulare la tra-smissione sinaptica, in particolare nel SNC. Secondo recenti studi su rodi-tori, MeCP2 regolerebbe epigeneti-camente anche la risposta a psicosti-molanti (1). Il deficit attentivo con ipe-rattività (attention deficit hyperactivi-ty disorder, ADhD) è uno dei disordi-ni neurocomportamentale più comu-ni, caratterizzato da sintomi di man-canza di attenzione, e/o iperattività, impulsività, che insorgono nei bam-bini generalmente al di sotto dei 7 anni. L’eziologia della malattia non è stata ancora del tutto caratterizzata, ma si ritiene siano coinvolti sia fatto-ri genetici, sia ambientali, in partico-lare esisterebbe una correlazione tra ambiente prenatale e comportamen-to ADhD attraverso cambiamenti per-sistenti dell’espressione genica. Esem-pi di fattori specifici associati con defi-cit tipo ADhD sono l’esposizione pre-natale a nicotina, alcool e droghe ed esposizione neonatale a tossine qua-li policlorobifenili, organofosfati, esa-clorobenzene, glucocorticoidi, ma anche stress e dieta carente in gravi-danza (2).Esposizioni ambientali in certi periodi dello sviluppo potrebbero avere im-portanti effetti patogenetici a lungo termine, mediati da processi epigene-tici come la metilazione del DNA. La di-sponibilità di donatori di gruppi metili-ci nella dieta sarebbe molto importan-te durante l’embriogenesi e nell’im-mediato periodo post-natale, quan-do il tasso di sintesi del DNA è alto ed i marcatori epigenetici necessari per il normale sviluppo dei tessuti sono già stati stabiliti. In queste fasi le variazioni epigeneti-che indotte dall’ambiente sono vero-similmente propagate con la mitosi portando a cambiamenti a lungo ter-mine dell’espressione genica e del fe-notipo e aumentando potenzialmen-te la suscettibilità a disordini come l’ADhD dopo la nascita. Con il tempo, quando i pattern epigenetici sono già stati stabiliti, ed il tasso di sintesi del DNA è molto più basso, i fattori am-bientali avrebbero molto meno peso sulle modificazioni epigenetiche (2). L’autismo rappresenta la più grave ma-nifestazione di un gruppo di disabilità dello sviluppo neurologico note con il nome di disordini dello spettro autisti-

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19G.I.M.A. il cesalpino

co (autism spectrum disorders, ASD). Molte sindromi genetiche presenta-no comorbidità con l’autismo (Rett, x Fragile, Prader-willi, Angelman..). Tut-te queste sindromi sono caratteriz-zate da deregolazione di meccanismi epigenetici o del pattern epigenetico di specifici geni. Anche geni o regioni cromosomiche con regolazione epi-genetica anomala sono stati associati a forme sindromiche (es.: dup mater-na 15q11-13) o anche non sindromi-che. Sono state identificate a rischio di ASD alcune condizioni prenatali, tra cui l’assunzione materna di acido val-proico, o la pratica di tecniche di fe-condazione assistita ART (3).Studi sul comportamento materno nel ratto suggeriscono che tratti com-portamentali tipici (quali la cura ma-terna: maternal care) vengono tra-smessi epigeneticamente, da madre a figlia, attraverso i livelli di metilazione del promotore del gene del recettore degli estrogeni alfa Era (Estrogen Re-ceptor alfa) (4).Sempre più evidenze suggeriscono che esposizioni ambientali prenatali, le interazioni tra il neonato e la madre, le attività sociali giovanili, lo stress da adulti possono alterare i processi epi-genetici, come la metilazione del DNA e l’acetilazione degli istoni con conse-guenze a lungo termine per l’espres-sione genica e in generale per pro-cessi fisiologici e comportamentali (5).Nel corso della 88a Conferenza an-nuale dell’Associazione per le malat-tie nervose e mentali (5 dicembre 5, 2008, New York Academy of Medici-ne) l’ epigenetica (e la medicina epige-nomica) è stata identificata quale nuo-va scienza del cervello e delle relazioni comportamentali. questa nuova disci-plina ha iniziato a rivoluzionare la no-stra comprensione dello sviluppo del sistema nervoso in molti settori spe-cifici: la biologia delle cellule stamina-li neuronali, il differenziamento cellu-lare, la diversità e la connettività cel-lulare, l’apprendimento e la memoria, l’omeostasi neuronale e delle reti neu-rali, la plasticità e la risposta allo stress, la patogenesi dei disordini neuropsi-

chiatrici ed i nuovi interventi terapeu-tici con possibilità di una riprogram-mazione cellulare dinamica, della rior-ganizzazione delle connessioni sinap-tiche e neurali e del rimodellamento del parenchima cerebrale e delle sue connessioni sistemiche, per promuo-vere il ripristino delle funzioni cogniti-ve, comportamentali e sensomotorie di ordine superiore (6).Molti fattori ambientali, soprattut-to metalli e fattori dietetici, sarebbe-ro in grado di modificare l’epigenoma silenziando o attivando l’espressione di geni critici per la neurodegenera-zione, mediante metilazione/demeti-lazione dei promotori ed acetilazione/deacetilazione degli istoni (7) . In parti-colare piombo e folati sembrano mo-dulare epigeneticamente l’espressio-ne dei geni APP (gene per il precur-sore del beta amiloide) e PSEN1 (gene della presenilina 1; le preseniline sono le componenti del complesso delle -secretasi e mediano il taglio dell’APP) in colture cellulari e modelli animali di AD (si veda a questo proposito la rela-zione di Fabio Coppedè).E’ ormai accertato che la possibilità che l’ambiente influenzi una caratte-ristica fenotipica o l’insorgenza di una malattia non sia confinata solamente all’individuo esposto, ma possa coin-volgere anche la progenie successiva per più generazioni (eredità transge-nerazionale) (8).Fattori ambientali in grado di modifi-care l’epigenoma indurrebbero epi-mutazioni a livello della linea germina-le e sarebbero responsabili della tra-smissione di fenotipi epigenetici tran-sgenerazionali. Da studi su animali sta emergendo che esposizioni a con-dizioni prenatali o post natali preco-ci (supplementi nutrizionali, xenobio-tici, tra cui metalli pesanti, basse dosi di radiazioni, ma anche cure materne o tecniche riproduttive artificiali) pos-sono alterare la programmazione epi-genetica ed interferire con il rischio di sviluppare successivamente determi-nate patologie.Gli studi epigenetici sui tumori han-no rivoluzionato la nostra percezione

dell’eziologia e della progressione di tali malattie ed hanno portato allo svi-luppo dei cosiddetti farmaci epigene-tici. Alcuni di essi sono già stati appro-vati per la terapia dei tumori, in parti-colare si sono rivelati particolarmente efficaci per la cura dei tumori emato-logici. Aziende farmaceutiche stanno già studiando questi farmaci, come gli inibitori dell’istone deacetilasi (histo-ne deacetylase inhibitors, hDACi), per il trattamento della malattia di Alzhei-mer. Tuttavia, poiché si ha contempo-raneamente l’alterazione dell’attivi-tà di più geni, occorre molta cautela e ancora molta sperimentazione, per poterne determinare l’efficacia, sen-za incorrere in seri effetti collatera-li (9). ¢

¢ Bibliografia1. Feng J, Nestler EJ. MeCP2 and drug addic-

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303 ¢

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20G.I.M.A.il cesalpino

Fattori GeNetiCi, aMbieNtali ed ePiGeNetiCi Nella Malattia di alzheiMer

Fabio CoppedèDipartimento di Scienze dell’Uomo e dell’Ambiente, Sezione di Gene-

tica Medica, Università di Pisa.

❚❘❘ RiassuntoLa malattia di Alzheimer (AD) costituisce la

forma più comune di demenza nell’anzia-

no, caratterizzata da una perdita progres-

siva della memoria e delle capacità cogniti-

ve in grado di interferire con la qualità della

vita e le attività quotidiane. Le lesioni isto-

patologiche specifiche della malattia sono

le placche senili ed i grovigli neurofibrillari,

costituite rispettivamente da depositi ex-

tracellulari del peptide beta-amiloide (Aβ) e

da aggregati intracellulari di proteina tau

iperfosforilata. L’ AD è una malattia com-

plessa ed eterogenea, attribuibile solo in

una minoranza dei casi (10% circa) alla pre-

senza di mutazioni in geni specifici (finora

ne sono stati identificati tre: APP, PSEN1 e

PSEN2) trasmesse nelle famiglie con mo-

delli di eredità mendeliana. Tuttavia, nel

90% circa dei casi l’Alzheimer è il risultato

dell’interazione tra fattori ambientali e fat-

tori genetici di suscettibilità, non sufficien-

ti da soli a determinarne la comparsa. Ne-

gli ultimi anni è stato inoltre proposto che

alcuni fattori ambientali, quali ad esempio

metalli e molecole presenti negli alimenti,

possano avere effetti epigenetici rilevanti

per l’insorgenza della malattia.¢

❚❘❘ Parole chiaveMalattia di Alzheimer, genetica, fattori am-

bientali, epigenetica.¢

1. Genetica della malattia di alzheimer: geni causativi e geni di suscettibilità

Rare mutazioni in tre geni causativi (APP, PSEN1 e PSEN2), a penetran-

za completa, sono responsabili del-le forme mendeliane a trasmissione quasi esclusivamente autosomica do-minante ed insorgenza precoce (<65 anni) (early onset Alzheimer’s disease, EOAD)1 (Tabella 1). Il gene APP codifi-ca per la proteina precursore dell’ami-loide (APP), una proteina integrale di membrana il cui taglio proteolitico mediato da - e -secretasi produce for-me del peptide A note come A 40 e A 42. Mutazioni nel gene APP fanno au-mentare i livelli totali di A o solo quel-li della forma A 42, che è il principa-le componente delle placche senili. I geni delle preseniline (PSEN1 e PSEN2) codificano rispettivamente per le pro-teine presenilina 1 e 2, componen-ti del complesso della -secretasi, che partecipano al taglio proteolitico dell’ APP che porta alla produzione di A. Mutazioni nei geni PSEN1 e PSEN2 provocano generalmente un aumen-to della produzione del peptide A 421.

Le forme sporadiche costituiscono ol-tre il 90% dei casi di AD e si manifesta-no generalmente dopo i 65 anni (late onset Alzheimer’s disease, LOAD). Ne-gli ultimi anni sono stati analizzati mi-gliaia di polimorfismi in oltre seicento geni diversi quali candidati come fat-tori di suscettibilità per AD1. Oltre agli studi di associazione basati sull’ap-proccio del gene candidato, lo stru-mento più attuale in genetica sono gli studi di associazione dell’intero ge-noma (genome-wide association stu-dies o GwAs), in cui oltre mezzo milio-ne di polimorfismi a singolo nucleo-tide vengono analizzati contempora-neamente. L’AlzGene database (www.alzgene.org) è un database pubbli-co che viene continuamente aggior-nato con i risultati dei vari studi di as-sociazione, inclusi i GwAs. Attualmen-te AlzGene contiene oltre 1350 studi di associazione per un totale di circa 3000 polimorfismi in più di 650 geni diversi. Inoltre, meta-analisi aggiorna-te sono disponibili per quei polimor-fismi che sono stati valutati in alme-no quattro studi di associazione indi-pendenti. queste meta-analisi hanno portato all’individuazione di circa 40 geni quali possibili fattori di rischio o di protezione per la malattia di Alzhei-mer (i Top 10 dell’elenco sono mostra-ti in Tabella 2). ¢

2. Fattori ambientali

Numerosi fattori ambientali sono stati studiati quali possibili mo-

dulatori del rischio di sviluppare for-me sporadiche di AD1. Per ragioni di spazio tali fattori sono dettagliati in Tabella 3. ¢

Tabella modificata da: Migliore e Coppedè 2009.1 AD = autosomico dominante; AR = autosomico recessivoGene Proteina Polimorfismo

Rischio

Designazione Locus Gene Modello di eredità

Proteina

AD1 21q21.2 APP AD, AR APP AD3 14q24.3 PSEN1 AD Presenilina 1 AD4 1q31-q42 PSEN2 AD Presenilina 2

Relativoa

APOE

apolipoprotein E

4

3.68 (3.30- 4.11)

CLU clusterin rs 11136000 0.87 (0.84- 0.90)

EXOC3L2 exocyst complex component 3-like 2

rs 597668

1.17 (1.12-1.23)

BIN1

bridging integrator 1

rs 744373

1.15 (1.10-1.20)

PICALM phosphatidylinositol binding

clathrin assembly protein rs 541458

0.87 (0.83- 0.91)

SORL1 Sortilin-related receptor

rs 2282649

1.10 (1.03-1.17)

Sconosciuta

rs 11622883

0.84 (0.77-0.93)

tyrosine kinase non-receptor1 rs 1554948

0.84 (0.76- 0.93)

ACE angiotensin I converting enzyme rs 1800764 0.83 (0.72-0.95)

rs 4073

Fattore ambientale Associato con Metalli: ferro, rame, zinco, mercurio, alluminio

aumento del rischio

Solventi e pesticidi aumento del rischio Campi elettromagnetici aumento del rischio Traumi cranici aumento del rischio Infezioni ed infiammazioni aumento del rischio Antiossidanti protezione Dieta mediterranea, frutta e verdura protezione Acidi grassi omega- protezione

Modello sperimentale

Osservazioni

Cellule di neuroblastoma umano

La deprivazione di folati e vitamina B12 induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Cellule di neuroblastoma umano

La somministrazione di SAM al mezzo di crescita riduce l’espressione del gene PSEN1

Cellule endoteliali cerebrali murine

Il peptide A riduce i livelli di metilazione globale del DNA ed ipermetila il gene della neprilisina

Roditori

La deprivazione di vitamine del gruppo B induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Roditori e scimmie

Esposizione perinatale a Pb induce demetilazione del gene APP ed alterata espressione dello stesso in età adulta

Cervelli umani post-mortem

Marcata riduzione dei livelli di metilazione globale ed

GWA_14q32.13

TNK1

IL8 interleukin 8 1.27 (1.08-1.50)

Tabella 1 Geni causativi della malattia di Alzheimer

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21G.I.M.A. il cesalpino

3. epigenetica della Malat-tia di alzheimer

Il metabolismo dei folati è di fon-damentale importanza nei processi

epigenetici in quanto fornisce le uni-tà monocarboniose necessarie per la sintesi della S-adenosilmetionina (SAM), il principale agente metilante intracellulare. Numerosi studi sugge-riscono alterazioni del metabolismo dei folati in pazienti AD con conse-guente alterazione dei livelli cerebrali di SAM e possibili conseguenze epige-netiche2. Studi condotti in colture di cellule neuronali e nei roditori hanno dimostrato che la riduzione dei livelli di folati e di altre vitamine del gruppo B induce demetilazione del promoto-re del gene PSEN1 con conseguente aumento della proteina presenilina 1. La correta metilazione del gene può essere ripristinata aggiungendo SAM al mezzo di coltura delle cellule o alla dieta dei roditori3. Scimmie e rodito-ri esposti a piombo durante lo svilup-po embrionale o nelle prime fasi del-la vita hanno mostrato modificazioni epigenetiche del gene APP ed altera-ta espressione dello stesso in età adul-ta4. Studi condotti in cervelli uma-ni post-mortem hanno rivelato una marcata ipometilazione del DNA in pa-zienti AD rispetto a controlli neurolo-gicamente sani. Uno degli esempi più ecclatanti riguarda l’analisi post-mor-tem del cervello di due gemelli mono-zigoti discordanti per l’AD che ha ri-velato una marcata riduzione dei livel-li di metilazione del DNA nel cervello del gemello malato rispetto al gemel-lo sano, sottolineando ulteriormente il possibile contributo dei fattori am-bientali nei processi epigenetici5. E’ stato inoltre dimostrato che il pepti-de A possiede proprietà epigenetiche ed è in grado di indurre ipometilazio-ne di numerosi geni ed ipermetilazio-ne (silenziamento) di geni coinvolti nella sua eliminazione, quali ad esem-pio il gene della neprilisina.6 In tabel-la 4 sono riportati alcuni degli esempi di modificazioni epigenetiche di geni coinvolti nella malattia di Alzheimer, per una review recente si rimanda a Coppedè (2010) 2. ¢

4. Conclusioni

Numerose scoperte avvenute principalmente nell’ultimo de-

Gene Proteina PolimorfismoRischio

Designazione Locus Gene Modello di eredità

Proteina

AD1 21q21.2 APP AD, AR APP AD3 14q24.3 PSEN1 AD Presenilina 1 AD4 1q31-q42 PSEN2 AD Presenilina 2

Relativoa

APOE

apolipoprotein E

4

3.68 (3.30- 4.11)

CLU clusterin rs 11136000 0.87 (0.84- 0.90)

EXOC3L2 exocyst complex component 3-like 2

rs 597668

1.17 (1.12-1.23)

BIN1

bridging integrator 1

rs 744373

1.15 (1.10-1.20)

PICALM phosphatidylinositol binding

clathrin assembly protein rs 541458

0.87 (0.83- 0.91)

SORL1 Sortilin-related receptor

rs 2282649

1.10 (1.03-1.17)

Sconosciuta

rs 11622883

0.84 (0.77-0.93)

tyrosine kinase non-receptor1 rs 1554948

0.84 (0.76- 0.93)

ACE angiotensin I converting enzyme rs 1800764 0.83 (0.72-0.95)

rs 4073

Fattore ambientale Associato con Metalli: ferro, rame, zinco, mercurio, alluminio

aumento del rischio

Solventi e pesticidi aumento del rischio Campi elettromagnetici aumento del rischio Traumi cranici aumento del rischio Infezioni ed infiammazioni aumento del rischio Antiossidanti protezione Dieta mediterranea, frutta e verdura protezione Acidi grassi omega- protezione

Modello sperimentale

Osservazioni

Cellule di neuroblastoma umano

La deprivazione di folati e vitamina B12 induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Cellule di neuroblastoma umano

La somministrazione di SAM al mezzo di crescita riduce l’espressione del gene PSEN1

Cellule endoteliali cerebrali murine

Il peptide A riduce i livelli di metilazione globale del DNA ed ipermetila il gene della neprilisina

Roditori

La deprivazione di vitamine del gruppo B induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Roditori e scimmie

Esposizione perinatale a Pb induce demetilazione del gene APP ed alterata espressione dello stesso in età adulta

Cervelli umani post-mortem

Marcata riduzione dei livelli di metilazione globale ed

GWA_14q32.13

TNK1

IL8 interleukin 8 1.27 (1.08-1.50)

Tabella 2 Alcuni dei geni di suscettibilità per la malattia di Alzheimer

aDati sono tratti dall’ AlzGene database (www.alzgene.org) in data 01/09/2010, rischio relativo è fornito con (95%CI)).

Gene Proteina PolimorfismoRischio

Designazione Locus Gene Modello di eredità

Proteina

AD1 21q21.2 APP AD, AR APP AD3 14q24.3 PSEN1 AD Presenilina 1 AD4 1q31-q42 PSEN2 AD Presenilina 2

Relativoa

APOE

apolipoprotein E

4

3.68 (3.30- 4.11)

CLU clusterin rs 11136000 0.87 (0.84- 0.90)

EXOC3L2 exocyst complex component 3-like 2

rs 597668

1.17 (1.12-1.23)

BIN1

bridging integrator 1

rs 744373

1.15 (1.10-1.20)

PICALM phosphatidylinositol binding

clathrin assembly protein rs 541458

0.87 (0.83- 0.91)

SORL1 Sortilin-related receptor

rs 2282649

1.10 (1.03-1.17)

Sconosciuta

rs 11622883

0.84 (0.77-0.93)

tyrosine kinase non-receptor1 rs 1554948

0.84 (0.76- 0.93)

ACE angiotensin I converting enzyme rs 1800764 0.83 (0.72-0.95)

rs 4073

Fattore ambientale Associato con Metalli: ferro, rame, zinco, mercurio, alluminio

aumento del rischio

Solventi e pesticidi aumento del rischio Campi elettromagnetici aumento del rischio Traumi cranici aumento del rischio Infezioni ed infiammazioni aumento del rischio Antiossidanti protezione Dieta mediterranea, frutta e verdura protezione Acidi grassi omega- protezione

Modello sperimentale

Osservazioni

Cellule di neuroblastoma umano

La deprivazione di folati e vitamina B12 induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Cellule di neuroblastoma umano

La somministrazione di SAM al mezzo di crescita riduce l’espressione del gene PSEN1

Cellule endoteliali cerebrali murine

Il peptide A riduce i livelli di metilazione globale del DNA ed ipermetila il gene della neprilisina

Roditori

La deprivazione di vitamine del gruppo B induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Roditori e scimmie

Esposizione perinatale a Pb induce demetilazione del gene APP ed alterata espressione dello stesso in età adulta

Cervelli umani post-mortem

Marcata riduzione dei livelli di metilazione globale ed

GWA_14q32.13

TNK1

IL8 interleukin 8 1.27 (1.08-1.50)

Tabella 3Fattori ambientali associati con aumento del rischio o protezione nei confronti della malattia di Alzheimer

Tabella modificata da: Migliore e Coppedè 20091

Gene Proteina PolimorfismoRischio

Designazione Locus Gene Modello di eredità

Proteina

AD1 21q21.2 APP AD, AR APP AD3 14q24.3 PSEN1 AD Presenilina 1 AD4 1q31-q42 PSEN2 AD Presenilina 2

Relativoa

APOE

apolipoprotein E

4

3.68 (3.30- 4.11)

CLU clusterin rs 11136000 0.87 (0.84- 0.90)

EXOC3L2 exocyst complex component 3-like 2

rs 597668

1.17 (1.12-1.23)

BIN1

bridging integrator 1

rs 744373

1.15 (1.10-1.20)

PICALM phosphatidylinositol binding

clathrin assembly protein rs 541458

0.87 (0.83- 0.91)

SORL1 Sortilin-related receptor

rs 2282649

1.10 (1.03-1.17)

Sconosciuta

rs 11622883

0.84 (0.77-0.93)

tyrosine kinase non-receptor1 rs 1554948

0.84 (0.76- 0.93)

ACE angiotensin I converting enzyme rs 1800764 0.83 (0.72-0.95)

rs 4073

Fattore ambientale Associato con Metalli: ferro, rame, zinco, mercurio, alluminio

aumento del rischio

Solventi e pesticidi aumento del rischio Campi elettromagnetici aumento del rischio Traumi cranici aumento del rischio Infezioni ed infiammazioni aumento del rischio Antiossidanti protezione Dieta mediterranea, frutta e verdura protezione Acidi grassi omega- protezione

Modello sperimentale

Osservazioni

Cellule di neuroblastoma umano

La deprivazione di folati e vitamina B12 induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Cellule di neuroblastoma umano

La somministrazione di SAM al mezzo di crescita riduce l’espressione del gene PSEN1

Cellule endoteliali cerebrali murine

Il peptide A riduce i livelli di metilazione globale del DNA ed ipermetila il gene della neprilisina

Roditori

La deprivazione di vitamine del gruppo B induce demetilazione del promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione genica

Roditori e scimmie

Esposizione perinatale a Pb induce demetilazione del gene APP ed alterata espressione dello stesso in età adulta

Cervelli umani post-mortem

Marcata riduzione dei livelli di metilazione globale ed

GWA_14q32.13

TNK1

IL8 interleukin 8 1.27 (1.08-1.50)

Tabella 4Modificazioni epigenetiche di geni coinvolti nella malattia di Alzheimer

Tabella modificata da: Coppedè 20102

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22G.I.M.A.il cesalpino

cennio hanno rivoluzionato le no-stre conoscenze in merito alle malat-tie complesse e multifattoriali eviden-ziando il ruolo di modicazioni epige-netiche indotte dall’esposizione a fat-tori ambientali. queste ultime stan-no attualmente rivestendo un setto-re emergente della ricerca nell’ambi-to della malattia di Alzheimer in quan-to la possibiltà di modulare epigene-ticamente l’espressione di geni chia-ve nell’insorgenza della malattia e la comprensione dei fattori ambientali in grado di indurre tali modificazioni, potrebbero costituire una solida piat-taforma per lo sviluppo di approcci preventivi e terapeutici.¢

¢ Bibliografia1. Migliore L, Coppedè F. Genetics, environ-

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lial cells.Biochem Biophys Res Commun.

2009;378:57-61. ¢

Antonella Littareferente ISDE Viterbo

La PaNdeMia sileNziosa: esPosizioNe MaterNa aGli iNqUiNaNti aMbieNtali e daNNi NeUroloGiCi

Il Registro tumori italiano (www.re-gistri-tumori.it) ci informa che il nu-

mero di bambini e adolescenti colpiti ogni anno da patologie neoplastiche è in crescente aumento. Nel ” Rapporto 2008 Tumori infantili. Incidenza, sopravvivenza, andamen-ti temporali “, il tasso di incidenza per tutti i tumori pediatrici in Italia nel pe-riodo osservato, risulta il più alto di quello rilevato negli anni novanta ne-gli Stati Uniti e in Europa. Si tratta di un fenomeno che riguar-da tutti i Paesi occidentali e l’incidenza dei tumori infantili in Italia, nel primo anno di vita, ha un incremento annua-le che è il doppio rispetto a quello de-gli altri Paesi europei. Recenti indagini hanno anche rileva-to che un bambino su sei negli Stati Uniti d’America è affetto da distur-bi dell’apprendimento, disordini e/o deficit del livello di attenzione e pro-blemi di tipo comportamentale. Per quanto riguarda i Paesi europei i dati sono simili.

questa situazione impone quindi una particolare attenzione anche per quanto riguarda l’esposizione mater-na ad inquinanti chimici, sia in epo-ca pre-concezionale che gestaziona-le; infatti durante questo particolare periodo si possono determinare alte-razioni permanenti nella struttura or-ganica, nella fisiologia e nel metabo-lismo del feto, favorendo successiva-mente la comparsa di numerose pa-tologie anche di tipo neurologico.Patologie del neurosviluppo (NDD) – autismo,disturbo da deficit dell’atten-zione (ADD-attention deficit disorder), disturbo dell’attenzione da iperattività (ADhD-attention deficit hyperactivity disorder ) e ritardo mentale, come un aumentato rischio di morbo di Parkin-son, morbo di Alzheimer e altre ma-lattie neuro-degenerative e neoplasti-che, sono infatti, con sempre mag-giori evidenze scientifiche, correlate anche all’esposizione materna ad in-quinanti chimici ambientali.E’ noto che nei nove mesi di gesta-

zione si stabilisce un rapporto mater-no-fetale dalle caratteristiche uniche ed estremamente complesse e delica-te; si tratta di una interrelazione parti-colarissima le cui dinamiche rivestono un ruolo strategico nel determinare ciò che definiamo benessere psico-fi-sico del feto, del bambino e infine del soggetto adulto.E’ conoscenza medica acqui-sita da decenni che: infezioni, intossicazioni,disturbi metabolici, as-sunzioni di alcuni tipi di farmaci, fumo di sigaretta, alcool e droghe possono causare danni importanti e spesso ir-reversibili al futuro nascituro; il basso peso alla nascita è ritenuto correlato ad un incrementato rischio di malat-tie cardiovascolari e diabete non insu-lino-dipendente; meno noti ed inda-gati sono invece i danni neurologici da esposizione a quegli inquinanti chimi-ci ambientali che non provocano una intossicazione acuta diretta. Le ricerche hanno dimostrato che molte sostanze tossiche immesse

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nell’ambiente e in grado di superare la barriera placentare ed emato-cere-brale fetale e del bambino, anche a li-velli di esposizione ammessi per legge nei soggetti adulti, possono avere ef-fetti non immediatamente visibili cli-nicamente ma tuttavia essere in gra-do di determinare effetti avversi im-portanti anche a distanza di molti anni dall’esposizione materna.La maggiore vulnerabilità delle strut-ture cerebrali nel feto e nel bambino rispetto ai soggetti adulti è determi-nata dal rapido accrescimento e dai processi propri dello sviluppo ontoge-netico (enorme numero di cellule in attiva proliferazione e differenziazio-ne cellulare) che conducono allo svi-luppo e organizzazione di complessi sistemi e organi vitali.Durante l’intero sviluppo fetale e an-cora oltre, il sistema nervoso centra-le e il cervello in particolare vanno in-contro a tutta una serie di trasforma-zioni complesse: sebbene il maggior numero di neuroni sia già formato al momento della nascita, lo sviluppo delle cellule gliali e la mielinizzazione degli assoni prosegue per diversi anni; è pertanto evidente che un’interfe-renza, dovuta all’azione di sostanze tossiche, che disturbi questi proces-si complessi, può avere conseguenze gravi e permanenti.

In una rassegna della letteratura, pub-blicata sulla prestigiosa rivista scien-tifica The Lancet nel 2006 dai ricerca-tori P. Grandjean, della harvard Scho-ol of Public health, e da P.J. Landri-gan, del Mount Sinai School of Medi-cine, sono stati presi in esame i dati pubblici disponibili sulla tossicità chi-mica per identificare le sostanze che con maggior probabilità interferisco-no nello sviluppo delle strutture cere-brali: 202 sostanze chimiche industria-li sono state identificate come capaci di danneggiare il cervello umano. I due ricercatori fanno presente che questo elenco non può essere consi-derato completo; infatti il numero di sostanze chimiche in grado di causa-re neurotossicità in test su animali di laboratorio supera il numero di 1.000. I due autori hanno quindi esaminato le pubblicazioni relative alle sole cin-que sostanze dell’elenco –piombo, metilmercurio, arsenico, i PCB (bifeni-

li policlorurati) e toluene – la cui tos-sicità per il cervello in via di sviluppo era stata già sufficientemente docu-mentata. Il lavoro succitato, rappre-senta una pietra miliare in questo par-ticolare campo d’indagine e si conclu-de con la forte ed impegnativa affer-mazione che l’inquinamento chimico può aver danneggiato milioni di bam-bini in tutto il mondo e che gli effet-ti tossici delle sostanze chimiche indu-striali sui bambini sono stati e sono in genere trascurati.Successivi studi hanno valutato e con-fermato, sia in esperimenti di labora-torio che nei bambini attraverso vi-site, raccolta dell’anamnesi, test neu-ro-psico-motori, la nocività cerebrale di sostanze quali: pesticidi, diossine, furani, Pcb, solventi, metalli pesanti e tossine alle quali erano state espo-ste le madri nel periodo antecedente e durante la gravidanza.L’inquinamento e la contaminazio-ne dell’aria, dell’acqua e delle catene alimentari sono le vie di esposizione materno-fetale oltre alle esposizioni occupazionali.Il fenomeno del bioaccumulo, della bioconcentrazione e biomagnificazio-ne, amplificano l’esposizione ricon-ducibile fondamentalmente all’inqui-namento delle catene alimentari.questi tre processi possono così esse-re definiti: con il termine bioaccumu-lo si indica la capacità di una sostan-za di accumularsi all’interno di un or-ganismo (le sostanze ad elevato po-tere di bioaccumulo sono quelle con più elevata solubilità nei grassi); con il termine bioconcentrazione si indica un processo che porta ad una mag-giore concentrazione di una sostanza in un organismo rispetto a quella pre-sente nell’ambiente e infine si defini-sce biomagnificazione il processo nel quale un composto chimico si accu-mula in modo seriale attraverso la ca-tena alimentare passandoda concentrazioni più basse nelle spe-cie preda a concentrazioni via via più alte nelle speciepredatrici. L’inquinamento dell’aria dovuto an-che alle polveri sottili ed ultrasottili: il particolato fine ed ultrafine prodotto dal traffico veicolare, dal traffico ae-reo, in generale dalle combustioni di combustibili fossili e dall’incenerimen-

to di rifiuti rappresenta anch’esso una fonte d’inquinamento ed esposizione che può interferire nello sviluppo ce-rebrale fetale.L’acqua inquinata e non efficace-mente potabilizzata può contenere: arsenico,vanadio,selenio, fluoro, me-talli pesanti, elementi radioattivi, pe-sticidi, fitofarmaci, diossine, sotto-prodotti della disinfezione dell’acqua per clorazione, batteri, virus, parassi-ti, alghe e le microcistine prodotte da particolari tipi di alghe e cianobatte-ri, etc. questi sono tutti elementi che possono determinare rischio e danno alla salute della madre e, con molte-plici meccanismi diversi da quello della sola e semplice sommazione (intera-zione sinergica, interferenza endocri-na e amplificazione), anche al feto e al bambino. Il crescente e diffuso inqui-namento delle risorse idriche e degli altri comparti dell’ecosfera (litosfera, atmosfera, biosfera, catene alimenta-ri) sta determinando una inaccettabile condizione di rischio e danno alla salu-te delle persone, delle future genera-zioni e degli ecosistemi.Per prevenire e contrastare quella che giustamente è stata definita la pande-mia silenziosa sono necessarie quin-di nuove politiche di difesa e tutela dell’ambiente, il controllo e la riduzio-ne di tutti gli inquinanti, una normati-va mondiale più precauzionale per le sostanze chimiche con proprietà neu-rotossiche per lo sviluppo cerebrale e l’applicazione concreta in ogni parte del mondo di efficaci norme di tute-la della salute dei lavoratori e in par-ticolare delle donne in gravidanza. ¢

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GeNetiCa ed ePiGeNetiCa delle ePilessie

Amedeo BianchiResponsabile Commissione Genetica Lega Italiana contro l’Epilessia

Responsabile Centro Epilessia. U.O. di Neurologia. Ospedale San Donato . Arezzo

L’epilessia comprende sindromi di-verse per caratteristiche cliniche e

prognostiche e tra queste si delinea-no due gruppi principali : le Epilessie Idiopatiche, che rappresentano circa il 30 % di tutte le epilessie, dove il fat-tore genetico assume valore eziologi-co primario e le più frequenti Epilessie Sintomatiche dove l’epilessia è secon-daria ad un danno cerebrale certo o presunto di tipo lesionale (es. vascola-re, postanossico pre-perinatale, trau-matico, tumorale, infettivo) o malfor-mativo . Inoltre va segnalato il gruppo

più raro ( circa l’1% delle epilessie ) del-le Encefalopatie Genetiche Epilettoge-ne e tra queste in particolare le Epiles-sie Miocloniche Progressive che rap-presentano malattie a trasmissione genetica definita di tipo mendeliano. La ricerca genetica nell’epilessia rap-presenta al momento la frontiera di studio più suggestiva e promettente di risultati. ¢

Genetica Clinica

Negli ultimi anni numerosi stu-di clinici sui gemelli e sulle fami-

glie hanno cercato di definire la mo-dalità di trasmissione genetica del-le epilessie e la valutazione del rischio individuale. Il tasso di concordanza per epiles-sia é nettamente più alto nei gemel-li monozigoti rispetto ai gemelli dizi-goti confermando l’importanza del fattore genetico in alcune forme sindromiche. Gli studi familiari e di popolazione han-no permesso di evidenziare la presen-za di un maggiore rischio a sviluppare una forma di epilessia nei parenti di un

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paziente affetto da epilessia, rispetto alla popolazione generale, dove si as-sume un rischio dell’1 %. In partico-lare nei fratelli di un caso affetto da epilessia si osserva un maggior rischio del 3-5 %; nei figli di un genitore con epilessia il rischio è nell’ordine del 4-6 %. Il rischio aumenta all’8 % se è affet-to da epilessia oltre il probando an-che un secondo membro della fami-glia nucleare . Gli studi di genetica clinica non han-no permesso di definire un modello di trasmissione genetico univoco per le diverse forme e, ad eccezione per le rare forme con Trasmissione Men-deliana, nelle forme sindromiche più comuni va assunto un modello di Tra-smissione Complessa di tipo Oligo-genico-Poligenico e/o Multifattoriale , dove si ipotizza per lo sviluppo del-la sindrome una azione concomitan-te di fattori ereditari, fattori ambien-tali e caratteristiche individuali (1). ¢

Genetica Molecolare

Stiamo oggi assistendo ad un note-vole sviluppo degli studi di gene-

tica molecolare che hanno modifica-to le conoscenze in molte patologie neurologiche e nelle epilessie. La definizione di una specifica mu-tazione genica è il risultato di com-plesse e articolate strategie di studio che hanno percorso diverse linee di ricerca. In primo luogo lo studio di localizza-zione cromosomica o di mutazione genica ha privilegiato ampie famiglie informative con modalità di trasmis-sione mendeliana ed infatti i risultati maggiormente rilevanti si sono avuti nelle rare forme di epilessia con eredi-tarietà mendeliana autosomico domi-nante come la Epilessia con Crisi Ne-onatali Benigne Familiari o con ere-ditarietà mendeliana autosomica re-cessiva come le Epilessie Miocloniche Progressive, nelle rare famiglie mul-tigenerazionali autosomico dominan-ti con casi affetti da forme cliniche di epilessia più comune ed in peculiari forme familiari con epilessia non tut-te inquadrabili nelle forme sindromi-che della attuale classificazione inter-nazionale delle epilessie. questa me-todologia ha permesso l’individuazio-ne di diverse mutazioni e localizza-zioni geniche con definizioni di nuo-

vi geni candidati, anche se evidenzia dei limiti perché i risultati sono otte-nuti solo in poche famiglie, senza al momento una chiara correlazione pa-togenetica con le più comuni forme di epilessia. Un altro filone di studio è rappresen-tato dalla ricerca di geni di predispo-sizione o di suscettibilità attraverso lo studio di linkage sull’intero genoma in gruppi più numerosi di famiglie di non estese dimensioni, caratterizzate da forme cliniche comuni e con parziale variabilità fenotipica e dagli studi di as-sociazione tra casi affetti da una speci-fica forma di epilessia e geni candida-ti che abbiano una specifica plausibili-tà biologica con la forma allo studio.La individuazione di un gene mutato può rappresentare inoltre uno stru-mento per verificare la presenza di mutazioni anche in casi sporadici o in forme cliniche affini alle famiglie stu-diate. questa strategia ha permesso ad esempio di individuare mutazio-ni del canale del sodio voltaggio-di-pendente SCN1A in casi sporadici af-fetti da Epilessia Mioclonica Severa dell’InfanziaNel 1988 c’è stata la prima descrizio-ne di una localizzazione cromosomica possibile tra il locus hLA nel cromoso-ma 6 e l’Epilessia Mioclonica Giovanile e nel 1995 è stato individuato il primo gene mutato in una epilessia umana : il recettore nicotinico dell’acetilcolina nella Epilessia Autosomica Dominante Notturna del Lobo Frontale . In que-sti anni stiamo assistendo ad una no-tevole vivacità della ricerca in questo campo e numerose sono le nuove se-gnalazioni di localizzazione cromoso-mica o di individuazione di geni mu-tati (2-3). ¢

le epilessie come Canalo- patie

Negli anni scorsi sono state indi-viduate mutazioni dei canali del

potassio voltaggio-dipendenti kCNq2 e kCNq3 nelle Crisi Neonatali Benigne Familiari , delle subunità alfa 4 e beta 2 del recettore nicotinico dell’acetil-colina nella Epilessia Autosomico Do-minante Notturna del Lobo Frontale e dei canali del sodio voltaggio-dipen-denti SCN1A e SCN1B nella Epilessia Generalizzata con Crisi Febbrili Plus. In questa forma si sono aggiunte muta-

zioni nel gene del canale del sodio vol-taggio-dipendente SCN2A e mutazio-ni nella subunità gamma2 del recet-tore GABA-A. In una famiglia franco-canadese con una forma autosomi-ca dominante di Epilessia Mioclonica Giovanile è stata identificata una mu-tazione nel gene della subunità alfa 1 del recettore GABA-A . Studi sperimentali hanno da tempo individuato la presenza di scariche pa-rossistiche intense di una popolazio-ne di neuroni alla base dell’epilettoge-nesi e il ruolo fondamentale delle cor-renti ioniche in particolare le correnti del sodio, del potassio, del calcio e del cloro attraverso canali attivati da neu-rotrasmettitori o variazioni del poten-ziale di membrana.La recente individuazione di mutazio-ni nei geni codificanti subunità di ca-nali voltaggio-dipendenti del sodio, del potassio e del cloro, di recetto-ri per l’acetilcolina e per il GABA in al-cune forme di epilessia hanno confer-mato gli studi sperimentali e permet-tono di inserire oggi queste forme di epilessia idiopatica tra le Canalopatie. . Il concetto di Canalopatia va inoltre esteso non solo alle forme puramen-te genetiche, ma anche alle forme se-condarie acquisite dove le crisi epilet-tiche sono il risultato di cambiamenti secondari dei canali ionici per modifi-ca dei geni regolatori e modificazioni post-trascrizionali (2-3). ¢

Quesiti aperti nella ricerca epilettologica

La ricerca epilettologica ed in parti-colare gli studi di genetica moleco-

lare ‘classica o strutturale’ hanno sicu-ramente dato un formidabile contri-buto alla conoscenza della eziopato-genesi e della clinica nelle diverse for-me di epilessia.Rimangono tuttavia aperti numero-si quesiti che cercherò sinteticamen-te di elencare :- Limiti dei risultati finora raggiunti

nella genetica ‘strutturale’ delle epi-lessie .

I maggiori risultati scientifici sono sta-ti raccolti dalla analisi e relativa indivi-duazione di mutazioni geniche solo in rare famiglie multigenerazionali e solo in rare forme di epilessia dove abbia-mo un modello di Trasmissione Men-deliano. In queste forme si osserva

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che lo stesso fenotipo epilettico può essere determinato da mutazioni ge-niche differenti (Etereogeneità) ed inoltre che lo stesso gene mutato può determinare differenti forme di epi-lessia (Variabilità espressiva).Nella maggior parte dei casi di epiles-sia, comprese le forme idiopatiche a maggiore valenza eziologica geneti-ca, troviamo forme sporadiche ed in questo caso possiamo considerare ac-cettabile solo un modello di Trasmis-sione Complesso di tipo Poligenico-Multifattoriale dove dobbiamo ipotiz-zare una interazione causale tra fatto-ri di suscettibilità genetica minore e fattori ambientali.Infine è interessante osservare che una stessa sindrome epilettica può essere determinata da differenti mec-canismi di Trasmissione genetica Men-deliana o Complessa.- Epidemiologia di popolazione Gli studi epidemiologici di popolazio-

ne hanno permesso di rilevare una prevalenza media nel mondo di 5-8 casi per 1000 abitanti % ed una inci-denza globale intorno ai 50 casi per anno per 100.000 abitanti. Si segna-lano tuttavia differenze anche signi-ficative tra le diverse nazioni, in par-ticolare nei paesi meno sviluppa-ti, non chiaramente spiegabili . Ad esempio in Colombia è stata rilevata una prevalenza di 19,5 casi per 1000 abitanti ed in Equador una incidenza di 120 casi l’anno per 100.000 abitan-ti (4)

- Epidemiologia di genere Se analizziamo gli studi generali di

popolazione si riscontra una lieve prevalenza dei maschi rispetto alle femmine e questo è in particolare più evidente nelle forme sintomati-che lesionali soprattutto nel periodo giovanile-adulto. Al contrario se ana-lizziamo le forme idiopatiche, dove prevale il fattore genetico, riscon-triamo una netta prevalenza, soprat-tutto nel periodo adolescenziale-giovanile, delle femmine rispetto ai maschi.

Inoltre se la madre è affetta da epi-lessia vi è un maggior rischio per un nuovo nato a sviluppare l’epilessia quattro volte rispetto al padre affet-to da epilessia ( rischio 8.2 madre, 2.4 padre rispetto all’1.0 della popolazio-ne generale) (5).

- Gemelli discordanti Il modello di studio dei gemelli ha

confermato l’importanza del fatto-re genetico nell’epilessia , in partico-lare nelle forme idiopatiche. Infatti il tasso di concordanza per epilessia é nettamente più alto nei gemelli mo-nozigoti rispetto ai gemelli dizigoti. Se combiniamo i maggiori studi sui gemelli troviamo un tasso medio di concordanza del 60% per i monozi-goti e del 13% nei dizigoti . La con-cordanza appare differente nelle di-verse forme sindromiche ed in parti-colare si osserva che nei gemelli mo-nozigoti con epilessia idiopatica è presente la stessa forma clinica in ol-tre l’80% dei casi. Sappiamo tuttavia ormai che nei gemelli monozigoti si sviluppano nell’arco della vita diffe-renze epigenetiche che portano allo svilupparsi di differenze fisiologiche e patologiche notevoli.

Anche nell’epilessia osserviamo una diversificazione nel tempo delle ma-nifestazioni cliniche e della risposta farmacologica nei gemelli monozi-goti con la stessa forma sindromi-ca. Inoltre sono sempre più numero-se le segnalazioni di gemelli con fe-notipi clinici discordanti, a conferma che una unica variazione genica non è sufficiente determinare la stessa sindrome (6-7).

- Famiglie con epilessia e concordanza sindromica

A conferma di questa variabilità fe-notipica è stata osservata negli studi di raccolta di famiglie multigenera-zionali con numerosi casi di epilessia nella stessa famiglia che una concor-danza completa per la stessa forma sindromica si osserva solo nel 25 % delle famiglie, negli altri casi posso-no essere presenti nella stessa fami-glia due o tre forme cliniche di epi-lessia. La concordanza per la stessa forma clinica è più alta nei parenti di primo grado, con una frequenza dal 30 al 40 % nelle diverse forme sin-dromi che (1).

questo dato conferma il fatto che i fattori genetici di predisposizio-ne prevalenti in quella famiglia sono modificati nello loro espressio-ne da fattori ambientali che condi-zionano le diverse manifestazioni fenotipiche.

- Epilessie Sintomatiche e rischio

relativo Nelle Epilessie Sintomatiche dove il

meccanismo eziopatogenetico ap-pare relativamente chiaro si osser-vano nella realtà differenze notevo-li di rischio individuale. Se ipotizzia-mo lo stesso trauma cranio encefa-lico in un gruppo lesionale possia-mo ragionevolmente ipotizzare una evoluzione ‘cicatriziale’ epilettoge-na che si sviluppa attraverso la mo-difica dei canali ionici nell’area cere-brale interessata, ma nella realtà non tutti i soggetti traumatizzati andran-no a sviluppare una forma di epiles-sia. Lo sviluppo di una area’ epiletti-ca’ è quindi condizionata dalle mo-dalità differenti di ‘lettura’ del riar-rangiamento genico indotto dalla le-sione traumatica.

Pertanto nelle diverse Epilessie Sin-tomatiche lesionali a diversa eziolo-gia : vascolare, postanossica pre-pe-rinatale, traumatica, tumorale, infet-tiva, degenerativa, malformativa ri-scontriamo un maggior rischio, dif-ferenziato a seconda della eziologia, a sviluppare una forma di epilessia, condizionato da una variabilità indi-viduale non prevedibile nel singolo caso (8).

- Epilessia Temporale con Sclerosi dell’Ippocampo

La forma più comune tra le epilessie sintomatiche è la Epilessia Temporale con crisi parziali complesse con evi-denza diagnostica, in particolare alla RM encefalo, di una Sclerosi dell’Ip-pocampo con perdita neuronale , dispersione delle cellule granulari e alterazione architetturale del giro dentato. questa forma è frequente-mente resistente ai farmaci antiepi-lettici e questi soggetti sono da con-siderare candidati elettivi alla chirur-gia dell’epilessia.

La variabilità individuale e talora la ra-pidità nello svilupparsi del proces-so di Sclerosi Ippocampale fanno di questa forma un modello non chia-rito di rimodellamento plastico pato-logico delle connessioni neuronali in una specifica area cerebrale. ¢

l’epigenetica nelle epilessie

Tali ‘questioni aperte’ che ho volu-to rapidamente sintetizzare sono

solo alcuni dei problemi ancora non chiariti nei meccanismi patogenetici

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delle epilessie. Appare evidente che la Epigenetica con lo studio della metilazione e del-la acetilazione degli istoni può rappre-sentare una risposta nel chiarire le dif-ferenze individuali nella organizzazio-ne del focolaio epilettico e nella diver-sa espressività fenotipica.Purtroppo non abbiamo al momento studi di ricerca specifici di Epigenetica nella epilettologia, ma stanno emer-gendo una serie di ‘indizi’ scientifici in differenti forme cliniche che indicano l’importanza che può avere questo fi-lone di studio (9-10).La Sindrome di Rett è una forma cli-nica da inquadrare nello spettro auti-stico frequentemente associata con Spasmi Infantili e successive crisi epi-lettiche farmacoresistenti. La sindro-me è principalmente determinata da mutazioni e duplicazioni del gene MeCP2 (Methyl-CpG-binding domain proteins). questo gene codifica per una proteina chiave nella metilazione genomica ed in altri processi epigene-tici relativi alla organizzazione croma-tinica e all’RNA. Studi nei modelli ani-mali hanno evidenziato una alterazio-ne nella biosintesi dei neurotrasmetti-tori e nella differenziazione nella ma-turazione di diverse popolazioni neu-ronali (11).Il gene MeCP2 interagisce direttamen-te con il gene UBE3A (Ubiquitin pro-tein ligase 3A) implicato nella Sindro-me di Angelmann. La sindrome carat-terizzata clinicamente dalla presen-za di epilessia, mioclono corticale, ri-tardo mentale, assenza di linguaggio, atassia e microcefalia è causata da una alterazione del centro dell’imprinting nel cromosoma 15 per microdelezio-ni dell’allele materno. Alterazioni del centro dell’imprinting determinano modificazioni della metilazione e del-la relativa attivazione o disattivazione dei processi di maturazione neuronale inclusa la sinaptogenesi (12).Il gene ARx è un altro gene fondamen-tale nello sviluppo della organizzazio-ne cerebrale ; esso agisce sulle code istoniche rimodellando la cromatina, interagisce con altri fattori epigeneti-ci incluso l’ MePC2 ed è coinvolto nella regolazione trascrizionale e nella for-mazione eterocromatinica.

Mutazioni del gene ARx determinano la insorgenza di una serie di sindromi epilettiche di estrema gravità clinica quali la Sindrome di Ohtahara, la Sin-drome di west, la Lissencefalia con Ge-nitali Ambigui ed altre forme non sin-dromiche di Encefalopatie Epilettiche Precoci e ritardo mentale (10).Anche il gene FRM1, le cui mutazio-ni determinano la insorgenza del-la Sindrome x fragile dove si osserva ritardo mentale, epilessia ed anoma-lie elettroencefalografiche, agisce at-traverso meccanismi epigenetici sul-la regolazione dell’RNA, sulle funzioni sinaptiche glutaminergiche e GABA e sulla plasticità neuronale (10).Il gene MePC2 interagisce inoltre di-rettamente anche con il gene che co-difica la Reelina, molecola della ma-trice extracellulare che gioca un ruo-lo importante nello sviluppo e nel-le funzioni sinaptiche dell’Ippocam-po. Il gene della Reelina promuove la metilazione delle regioni ippocampa-li ed è stato trovato un elevato livello della zona promoter della metilazione del gene nelle Epilessie Temporali con Sclerosi dell’Ippocampo ed una stret-ta correlazione con la dispersione del-le cellule granulari (13).Un’importante indicazione sulla rile-vanza dei meccanismi epigenetici nel-le epilessie viene dalla farmacologia. Il Valproato, che come noto è il farma-co più attivo nelle epilessie ed in parti-colare nelle forme idiopatiche, ha, ol-tre una azione sul neurotrasmettitore GABA , una azione diretta sugli inibito-ri enzimatici delle deacetilasi istonica determinando una riprogrammazione della metilazione nel processo di epi-lettogenesi (14-15).queste segnalazioni evidenziano chiaramente l’importanza della epige-netica nella insorgenza e nella variabi-lità fenotipica delle epilessie e nella di-versa risposta farmacologica.Possiamo concludere che questo fi-lone di ricerca rappresenta una sfida ed una frontiera nella ricerca epiletto-logica e che lo studio e la conoscen-za dei meccanismi epigenetici potran-no sicuramente contribuire a chiarire tutte le questioni tuttora aperte nella eziopatogenesi delle epilessie ¢

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28G.I.M.A.il cesalpino

INqUiNaMeNto atMosferiCo: esPosizioNe traNsPlaCeNtare e Malattie dell’adUlto

Ferdinando Laghi

Direttore U.O. Medicina Interna P.O. di Castrovillari ASP Cosenza. ISDE-Italia

❚❘❘ RiassuntoE’ ormai accertato che l’inquinamen-to atmosferico è fonte di patologie, acute e croniche, a carico del siste-ma respiratorio e cardiovascolare. Ma-lattie infiammatorie, neoplastiche, al-lergiche per l’apparato respiratorio, mentre nel caso del distretto cardio-vascolare, c’è evidenza di un aumento non soltanto delle sindromi coronari-che acute, ma anche della progressio-ne dell’aterosclerosi, delle aritmie car-diache, degli ictus cerebrali. I mecca-nismi eziopatogenetici non sono sta-ti ancora del tutto chiariti, ma certa-mente un ruolo fondamentale è gio-cato dalla flogosi, locale e sistemica, determinata dalla inalazione di polve-ri fini e ultrafini con azione nocicetti-va diretta o con il concorso di altre so-stanze da esse stesse veicolate (me-talli pesanti, sostanze chimiche diver-se). Il passaggio transplacentare degli inquinanti, con alterazioni epigeneti-che trasmissibili alle successive gene-razioni e chiamate in causa nella gene-si delle malattie cronico-degenerative, sembra aprire un nuovo orizzonte per la comprensione dei meccanismi alla base di tali patologie. ¢

Introduzione

L’inquinamento ambientale non è certo una novità del nostro tempo,

ma attraversa i secoli, la storia e la let-teratura. Alcuni storici ritengono, in-fatti, che la caduta dell’Impero roma-no sia stata accelerata dalle bizzarrie comportamentali degli ultimi impe-ratori, a loro volta probabilmente de-terminate da alterazioni neurologiche causate dal saturnismo. L’uso di sto-viglie contenenti alte percentuali di

piombo, che contaminava gli alimen-ti con i quali veniva ingerito, sarebbe stata la causa della malattia. Anche la figura del Cappellaio Mat-to, presente nel famoso libro di Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meravi-glie, ha un preciso riferimento storico, in quanto i cappellai inglesi del tem-po usavano, per tingere capelli e cap-pelli dei loro clienti, tinture ai vapo-ri di mercurio, sostanza neurotossica, che, ripetutamente inalata, determi-nava alterazioni cerebrali responsabi-li del comportamento di tali artigiani, all’origine dell’aforisma “matto come un cappellaio”.Oggi i determinanti della salute sono assai numerosi, alcuni non modifica-bili, come età, sesso, patrimonio ge-netico, altri suscettibili di variazioni e miglioramenti. Tra questi, gli aspetti socio-economici, quelli ambientali, lo stile di vita individuale, l’accesso ai ser-vizi. Volendo percentualizzare il peso delle categorie, è forse per molti sor-prendente come soltanto il 10% del totale di questi determinanti dipenda dall’accesso ai servizi sanitari, mentre il rimanente 90% sia in rapporto all’in-sieme dei fattori genetici, ambientali e socio-economici.L’inquinamento atmosfericoParlando di inquinamento atmosferi-co, una prima distinzione è utile fare tra inquinamento indoor e outdoor; a quest’ultimo faremo particolare ri-ferimento in questo scritto. La qualità dell’aria degli ambienti confinati è tut-tavia di estrema importanza, soprat-tutto nelle nazioni sviluppate, dove si trascorre la massima parte del tempo, circa il 90%, in ambienti chiusi. In tali situazioni il pericolo maggiore è rap-

presentato dal fumo di sigaretta che, da solo, dà origine a centinaia di diver-se sostanze, molte delle quali danno-se, con una forte presenza di partico-lato fine ed ultrafine. L’esposizione al fumo passivo determinerebbe, tra le altre cose, una maggiore probabilità di sensibilizzazione allergica ad inalan-ti ed asma anche con salti generazio-nali da collegare a danni epigenetici. In un report del 2002 dell’Organizza-zione Mondiale della Sanità, riferito a dati dell’anno 2000, l’inquinamen-to aereo è stato ritenuto responsabi-le della morte prematura di 3.000.000 di persone, con le massime concen-trazioni nei paesi dell’Europa orienta-le e in Asia.Tra gli inquinanti maggiormente peri-colosi per la salute, gli ossidi di azoto e di zolfo, l’ozono, i metalli pesanti, i Composti Organici Volatili (VOC), il par-ticolato. E proprio a quest’ultimo vie-ne attribuita la maggiore nocività. In realtà il termine particolato (PM, acronimo di Particulate Matter) com-prende una serie di particelle di di-mensioni assai eterogenee e con vario grado di pericolosità. quelle di mag-gior diametro, il particolato grossola-no, con diametro dai 10 µm in su, de-riva per lo più da processi meccanici e contiene elementi della crosta ter-restre; c’è poi il particolato fine ed ul-trafine, il primo compreso tra i 10 e i 2,5 µm, il secondo al di sotto dei 2,5 µm, fino a livelli di decine di volte al di sotto del micrometro. queste com-ponenti del particolato fine e ultra-fine, note anche come nanopolveri, si generano solitamente da proces-si di combustione, da conversione di sostanze gassose, da processi foto-

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chimici e contengono un insieme di componenti quali fuliggine, acidi, ni-trati e solfati, come pure metalli pe-santi e altri elementi tossici.In aggiunta ai tipi di particolato fin qui descritti, c’è da aggiungere come il rapido sviluppo delle nanotecnologie abbia portato alla produzione di nuo-vi tipi di nanoparticelle non risultan-ti da altri processi naturali o di origi-ne antropica.Dal punto di vista patogenetico, le componenti del particolato derivan-te da processi naturali non determi-nano, in genere, rischi particolari per la salute umana e alcune, come il so-dio cloruro, sono del tutto prive di no-cività. Al contrario, quelle derivanti dai processi di combustione, oltre ad ave-re una maggiore pericolosità intrin-seca, sono anche in grado di funge-re da vettori per un considerevole nu-mero di sostanze tossiche (idrocarbu-ri policiclici aromatici, metalli pesan-ti, composti organici solubili) e gene-rare stress ossidativo e flogosi a cari-co dei tessuti. In ogni caso, gran parte delle sostanze in causa non sono bio-compatibili né biodegradabili, destina-te quindi, a svolgere per periodi lun-ghi o lunghissimi un’attività nocicetti-va a carico di tutti quegli organi ed ap-parati con cui vengono in contatto o nei quali si depositano.Inquinamento aereo e patologie sistemiche Le patologie più frequentemente cor-relate all’inquinamento atmosferico, riguardano in primo luogo l’apparato respiratorio e quello cardio-vascolare. L’esposizione all’inquinamento aereo determina un aumento di incidenza di bronchiti –acute e croniche-, fino all’enfisema polmonare, dell’asma bronchiale e delle allergie, delle neo-plasie polmonari e dell’apparato respi-ratorio in genere.Ma se l’interessamento di questo ap-parato appare intuitivamente ovvia, il coinvolgimento di altri organi e appa-rati lo è un po’ meno.È perciò necessario richiamare le ipo-tesi eziopatogenetiche relative al par-ticolato fine ed ultrafine, chiarendo tuttavia che alcuni dei meccanismi supposti necessitano di ulteriori con-ferme, sperimentali e cliniche, ed altri non sono ancora noti.La maggiore pericolosità delle nano-

plveri più sottili è dovuta al fatto che il particolato grossolano (PM 10, o di grandezza maggiore) è, in genere, in-tercettato dal film che ricopre la mu-cosa di trachea e grossi bronchi e quindi eliminato attraverso il movi-mento dell’apparato ciliare delle cellu-le di tale mucosa. Le particelle di mi-nori dimensioni, invece, arrivano con facilità inversamente proporziona-le alle loro dimensioni, fino alle estre-me propaggini dell’albero respirato-rio, nella zona alveolo-capillare, dove avvengono gli scambi gassosi tra l’aria ambiente e il sangue. C’è anche l’evi-denza iconografica, attraverso l’utiliz-zo della microscopia elettronica, che questo particolato di grandezza tal-volta anche sub-micrometrica (enor-memente inferiore, ad esempio, ad un globulo rosso, che ha un diame-tro di circa 8 micron) può attraversa-re direttamente la barriera alveolo ca-pillare, attraverso le giunzioni cellula-ri, o essere trasportato all’interno del flusso sanguigno dai macrofagi alveo-lari, avendo inoltre la possibilità, come già accennato, di fungere da “carrier” per altre sostanze nocive. questo pas-saggio di nanoparticelle attraverso la barriera alveolo-capillare è stato di-mostrato in animali da esperimento, mentre appare, al momento, soltanto plausibile per l’uomo, sia per quanto riguarda il particolato in quanto tale, sia dopo l’ingestione dello stesso da parte dei macrofagi alveolari. A livello polmonare, studi sperimen-tali hanno dimostrato flogosi locale dopo inalazione di particolato aereo concentrato e gas di scarico di moto-ri diesel diluiti, unitamente ad un in-cremento sistemico di indici di flogo-si quali le citochine, come l’interleuki-na (IL)1ß, IL-6 e del fattore stimolante le colonie granulocito-macrofagiche.Un aumento degli indici di flogosi si-stemici è stato anche descritto dopo esposizione al particolato. In anima-li da esperimento, le concentrazioni plasmatiche di fibrinogeno sono au-mentate sia in ratti sani che in quelli affetti da ipertensione arteriosa, espo-sti a PM 2,5, mentre in studi di popola-zione, a tale esposizione si è associato un incremento della proteina C-reatti-va nel siero, una aumento della visco-sità plasmatica e dei livelli di fibrinoge-no e un’alterata espressione delle mo-

lecole di adesione dei leucociti. Per quanto riguarda invece l’alterazio-ne dei meccanismi di regolazione va-somotoria, osservati nella esposizio-ne ai gas di scarico veicolare, l’ipote-si attualmente più accreditata fa riferi-mento ad un aumento di molecole ad attività ossidante con conseguente ri-duzione della sintesi di ossido nitrico, dalla ben nota azione vasodilatatrice. I meccanismi attraverso cui l’inquina-mento aereo ed in particolare il parti-colato fine ed ultrafine determinano o aggravano patologie del distretto car-diovascolare sembrerebbero perciò avere come inizio comune lo stress ossidativo e la flogosi, che determi-nerebbero un successivo processo “a cascata”. Anzitutto una accelerazione dei fenomeni ateromasici, con pro-gressione delle placche fino alla loro fissurazione e rottura, a cui si aggiun-gono le già ricordate alterazioni vaso-motorie (in senso vasocostrittivo) e un ulteriore aumento del rischio trombo-tico causato dall’incremento dei tassi di fibrinogeno plasmatico. Sollecitata, in tali condizioni, anche l’attivazione/aggregazione delle piastrine, attraver-so stimoli sia di natura meccanica, da stimolazione diretta da parte del sot-toendotelio messo a nudo dalle lesio-ni endoteliali, che di natura fisico-chi-mica, da interazione con le sostanze tossiche inalate e penetrate nel tor-rente circolatorio. Tutte le situazioni descritte determinano, singolarmente e/o concomitantemente, un aumen-to del rischio ischemico e trombotico e quindi, come evento finale, di mor-te cardiovascolare. Ma l’inquinamento aereo sembra avere negative ricadu-te anche sul ritmo cardiaco, promuo-vendo aritmie, verosimilmente per in-fluenza del particolato sui sistemi au-tonomici di controllo della frequenza e del ritmo cardiaco. Seppur con meccanismi non ancora del tutto chiariti, dunque, le evidenze scientifiche sperimentali e cliniche, in numerosi lavori pubblicati sulle mag-giori riviste internazionali, evidenzia-no l’azione dell’inquinamento aereo favorente le patologie trombotiche a carico di cuore, encefalo, circolo peri-ferico e sulle patologie polmonari.Esposizione transplacentare e malat-tie dell’adultoGli studi di epigenetica stanno sempre

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più aprendo la strada alla comprensio-ne dei processi eziopatologici relativi a varie malattie, tra cui quelle croni-co-degenerative: dal diabete, alle pa-tologie cardiovascolari, dalle allergie, all’obesità, all’Alzheimer. L’interazione degli inquinanti ambientali con la sa-lute degli individui e delle generazioni successive ha trovato una plausibile e assai interessante spiegazione, anche se da verificare e convalidare con ul-teriori studi e ricerche, che promette di aprire scenari del tutto nuovi nel-la comprensione dei processi patolo-gici e, conseguentemente, nelle pos-sibilità di cure.Le sostanze inquinanti, infatti come attraversano la barriera alveolo capil-lare, così possono fare con quella pla-centare, interferendo con “l’ambien-te” fetale, determinando anche nei nascituri, così come negli adulti, alte-razioni epigenetiche (metilazione del DNA, modificazioni dei micro-RNA, acetilazione degli istoni) che senza de-terminare cambiamenti nelle sequen-ze del DNA codificante, provocano al-terazioni fenotipiche condizionando l’espressione dei geni. Le generazioni successive possono perciò essere col-pite o attraverso la trasmissione trans generazionale, oppure perché espo-ste ad analoghe condizioni di inquina-mento ambientale. ¢

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Ennio Cadum Epidemiologia Ambientale ARPA Piemonte - ISDE Italia

SorveGliaNza ePideMioloGiCa e iNterveNti di PreveNzioNe (ePiair)

❚❘❘ RiassuntoIl progetto EpiAir ha avuto come obiettivo quello di porre le basi per l’avvio di un programma di sorveglian-

za dell’impatto sanitario dell’inquina-mento atmosferico fondato sull’uti-lizzo di indicatori ambientali e sanitari affidabili e standardizzati. Nel proget-

to sono state aggiornate le stime di ri-schio sul rapporto tra inquinamento atmosferico ed effetti a breve termi-ne sulla salute in Italia, valutando i ri-

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schi legati agli inquinanti atmosferici (PM10, NO2 e ozono) rilevati nel pe-riodo 2001-2005 nelle città di Milano, Mestre-Venezia, Torino, Bologna, Fi-renze, Pisa, Roma, Taranto, Cagliari e Palermo.L’analisi degli effetti a breve termine sulla mortalità ha evidenziato la pre-senza di eccessi di rischio statistica-mente significativi legati agli inquinan-ti in studio. I risultati relativi alla valu-tazione della associazione tra PM10 e mortalità giornaliera hanno mostrato un incremento del 0.69% del rischio di mortalità per tutte le cause natu-rali per incrementi di 10 µg/m3 nel-le concentrazioni di PM10. Un effetto questo superiore a quello riscontrato nelle più importanti analisi pubblica-te in Europa (incremento del 0.33%), nel Nord America (incremento dello 0.29%) e nei precedenti studi italiani MISA (incremento dello 0.31%). que-sto dato ha portato a suggerire che in Italia possiamo trovarci in presenza di un aumento della tossicità dell’inqui-namento a fronte di una stabilità o lie-vi diminuzioni dei livelli assoluti di con-centrazione degli inquinanti. ¢

Introduzione

Il Progetto EpiAir rappresenta il siste-ma di sorveglianza più aggiornato

sul rapporto tra inquinamento atmo-sferico e effetti a breve termine sulla salute in Italia. Nel progetto (i cui risul-tati sono stati presentati il 25 novem-bre 2009 a Roma, presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali) sono stati analizzati gli effetti a breve termine dei principali inquinan-ti atmosferici (PM10, NO2 e ozono) ri-levati nel periodo 2001-2005 nelle cit-tà di Milano, Mestre-Venezia, Torino, Bologna, Firenze, Pisa, Roma, Taran-to, Cagliari e Palermo. Lo studio, co-ordinato per il primo periodo da Fran-cesco Forastiere (Osservatorio epide-miologico regione Lazio), per il secon-do da Ennio Cadum (ARPA Piemon-te) è finanziato dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM), ed ha come obiettivo quello di porre le basi per l’avvio di un programma di sorveglianza dell’im-patto sanitario dell’inquinamento at-mosferico fondato sull’utilizzo di indi-catori ambientali e sanitari affidabili e standardizzati. ¢

Materiali e Metodi

L’analisi 2001-2005 ha valutato i dati di mortalità e di ricorso al ricove-

ro ospedaliero urgente in relazione ai dati di qualità dell’aria forniti dalle Arpa regionali (vedi tabella. 1), pro-muovendo quindi la integrazione fra competenze epidemiologiche e di ri-levazione ambientale, ad assicurare la validità delle stime ottenute.L’analisi dei dati raccolti è stata con-dotta con l’approccio case-crossover, una variante del disegno caso-con-trollo, ed ha permesso di valutare, per ogni soggetto, l’effetto di condizioni morbose o socio-economiche predi-sponenti. Le stime di rischio sono sta-te calcolate con il software R per sin-gola città e per tutte le città insieme (analisi pooled) ¢

Risultati

L’inquinamento atmosferico ur-bano, in gran parte originato dal

traffico veicolare, si conferma anco-ra oggi come un problema ambien-tale rilevante per gli effetti sanita-ri evidenziati. Se si considerano i de-cessi per cause naturali, il PM10 è ri-sultato associato ad un incremento del rischio di morte dello 0,69% per

ogni incremento di concentrazione nell’aria di 10 µg/m3. questo significa che laddove ci sarebbero normalmen-te 1.000 decessi se ne registrano 7 in più e questo vale per ogni incremento di 10 µg/m3. Sono soprattutto gli an-ziani i più suscettibili a tali effetti. Con-siderando in analisi come determinan-te il biossido d’azoto (NO2), si registra un incremento dello 0.99% di tutte le morti per cause naturali (per ogni au-mento di 10 µg/m3). La maggior par-te di questi decessi avvengono per di-sturbi respiratori. Per quanto riguar-da infine l’ozono, per ogni 10 µg/m3 di inquinante si riscontrano aumen-ti dell’1,54%, del rischio di morte per cause naturali, dati valutati nella sta-gione calda in cui questo inquinan-te secondario si trova a far rilevare le concentrazioni più dannose (vedi ta-bella 2Le conseguenze dell’inquinamento si manifestano ovviamente anche con l’incremento del numero di ricove-ri in ospedale: aumentate concentra-zioni di PM10 e NO2 in atmosfera ri-sultano nell’aumento dei ricoveri per malattie cardiache, soprattutto scom-penso cardiaco nel caso del PM10, in-farto del miocardio e angina instabi-le per l’NO2. Gli inquinanti analizza-

PM10 (mg/m3) NO2 (mg/m3) PM10 / NO2 O3 (mg/m3)

(apr-set) Città

Periodo di studio

Media DS Media DS Media DS Media DS

Milano 2001 - 2005 51.5 31.7 59.2 22.8 0.86 0.33 91.1 34.0

Mestre 2001 -2005 48.0a 33.2

a 38.2 14.2 1.19a 0.60a 91.4 30.3

Torino 2001 - 2005 53.9b 33.7b 66.0 20.1 0.79b 0.36b 115.4 38.6

Bologna 2001 - 2005 42.5a 25.3a 51.7 18.3 0.82a 0.34a 90.8 31.0

Firenze 2001 - 2005 38.2 17.7 46.1 18.6 0.89 0.41 95.9 23.6

Pisa 2001 - 2005 34.2 15.1 29.8 11.3 1.23 0.62 99.0 21.3

Roma 2001 - 2005 39.4 16.0 62.4 15.6 0.65 0.26 105.1 25.0

Taranto 2001 - 2005 50.3c 21.2c 26.3 10.9 2.37c 1.30c 77.9 20.5

Cagliari 2002 - 2005 30.3d 11.0d 35.0e 16.2e 1.13d 0.84d 80.8d 21.0d

Palermo 2002 - 2005 34.8 19.9 52.1 15.6 0.71 0.61 88.3 18.2

Tabella 1. Descrizione (media e deviazione standard – DS) degli inquinanti rilevati nelle 10 città in studio. Le città sono riportate secondo la loro latitudine geografica, dal nord al sud.

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32G.I.M.A.il cesalpino

ti sono risultati associati a incrementi del rischio di ricovero per malattie re-spiratorie, con un eccesso dell’8% tra NO2 e ricoveri per asma, fino al 9% per ibambini. (vedi tabella. 3)Gli inquinanti considerati sono tutti indicatori della stessa miscela disper-sa nell’aria delle città e sono correla-ti tra loro, motivo per cui non è pos-

sibile scinderne gli effetti. Certamente nessuno di questi inquinanti può es-sere menzionato come l’unico agen-te tossico: ognuno è risultato danno-so con una sua specificità.L’effetto dell’inquinamento si mani-festa in misura maggiore quando si prendono in considerazione le cau-se cardiache e respiratorie. L’effet-

to è immediato (si verifica nello stes-so giorno o il giorno successivo) per la mortalità cardiaca mentre è più pro-lungato per le patologie respiratorie.Anche per l’NO2 si osservano effetti ri-levanti, più marcati sulle cause respira-torie. L’associazione tra ozono e mor-talità, per il solo semestre caldo (apri-le – settembre) si è dimostrata statisti-

Tabella 2. Risultati città-specifici e meta-analitici per le 10 città in studio, relativi all’associazione tra mortalità per cause naturali ed inquinamento atmosferico, per inquinante: incrementi percentuali di rischio, ed intervalli di confidenza al 95%, corrispon-denti a variazioni di 10µg/m3 dell’inquinante – 2001-2005 (periodo aprile-settembre per l’ozono)

Tabella 3. Risultati città-specifici e meta-analitici per le 9 città in studio, relativi all’associazione tra ricoveri per malattie respiratorie ed inquinamento atmosferico, per inquinante: incrementi percentuali di rischio, ed intervalli di confidenza al 95%, corri-spondenti a variazioni di 10µg/m3 dell’inquinante – 2001-2005 (periodo aprile-settembre per l’ozono).

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33G.I.M.A. il cesalpino

camente significativa e con una laten-za tra 0 e 5 giorni ad eccezione della mortalità cerebrovascolare per la qua-le si osserva un effetto ritardato tra i 2 e i 5 giorni. Tra i fattori individuali in-dagati, lo studio ha messo in evidenza come l’età molto avanzata sia un fat-tore di suscettibilità per l’esposizione alle polveri. Nella valutazione dei ricoveri ospeda-lieri, lo studio EpiAir ha dovuto proce-dere ad un’accurata selezione e valu-tazione dei dati dei flussi informativi correnti, in particolar modo dei rico-veri ospedalieri avvenuti con caratteri-stiche di urgenza, ricoveri di particola-re interesse epidemiologico per lo stu-dio degli effetti acuti degli inquinanti dell’aria. Il progetto EpiAir ha analizza-to una ampia serie di patologie, defi-nite sia come grandi gruppi che come singole patologie; inoltre ha valutato gli effetti per la fascia di età pediatri-ca viste le evidenze scientifiche dispo-nibili a supporto della ipotesi di effet-ti degli inquinanti atmosferici sull’ap-parato respiratorio dei bambini. An-che per i ricoveri ospedalieri sono sta-ti documentati effetti a breve termi-ne del PM10 e dell’NO2 per le malat-tie cardiache nel loro insieme (e per la sindrome coronarica –infarto del mio-cardio ed angina instabile- e lo scom-penso cardiaco) e per tutte le malat-tie respiratorie (per le infezioni respi-ratorie acute, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e l’asma bronchia-le). L’associazione più forte è risulta-ta quella tra NO2 e ricoveri per asma, specie nella fascia d’età 0-14 anni.Il progetto ha voluto analizzare anche le politiche di contenimento adotta-te negli ultimi anni dalle amministra-zioni dei 10 comuni coinvolti, svelan-do scenari contraddittori per quan-to riguarda gli interventi sulla mobili-tà sostenibile. A fronte di una gran va-rietà di provvedimenti (potenziamen-to del trasporto pubblico, car sharing, Ecopass, istituzione di aree pedona-li e piste ciclabili, incentivi all’acqui-sto di veicoli meno inquinanti) si rile-vano notevoli difficoltà nell’attuazione di alcune misure e carenza di controlli. Come dato univoco si è registrato un numero sempre maggiore di veico-li circolanti nelle città e tassi di moto-rizzazione più elevati rispetto alla me-dia europea. ¢

Discussione

Nel periodo considerato i livelli di PM10 e NO2 e di ozono (nella sta-

gione calda) sono risultati preoccu-panti alla luce dei valori di riferimen-to normativi e delle linee guida sul-la qualità dell’aria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, testimoniando il perdurare di una grave esposizione generale della popolazione italiana a inquinanti atmosferici tossici.I risultati sulla mortalità (incremento di 0.69% del rischio di mortalità totale per incrementi di 10 µg/m3 nelle con-centrazioni di PM10) hanno messo in luce un effetto superiore a quello ri-scontrato nelle più importanti analisi pubblicate in Europa (incremento del 0.33%), nel Nord America (incremen-to dello 0.29%) e nei precedenti studi italiani MISA (incremento dello 0.31%). Un importante effetto è stato riscon-trato nelle analisi dei decessi per cause cardiache e respiratorie. Lo studio del-le latenze temporali ha evidenziato ef-fetti prolungati per le patologie respi-ratorie ed effetti più immediati per la mortalità cardiaca.L’analisi dei ricoveri ha evidenzia-to un effetto immediato del PM10 e dell’NO2 (non dell’ozono) specie per le malattie cardiache ad insorgenza acu-ta, come l’infarto e lo scompenso car-diaco; sono stati riscontrati effetti evi-denti per esposizione a NO2 e patolo-gie respiratorie, specialmente l’asma in età pediatrica.Lo studio ha focalizzato il suo interes-se anche sulle condizioni di suscettibi-lità confermando che le persone più anziane sono più vulnerabili agli effet-ti del particolato sospeso. I risultati del progetto indicano la ne-cessità della prosecuzione della sor-veglianza epidemiologica degli effetti di esposizioni diffuse ad agenti tossi-ci, per attuare la quale è necessario di-sporre di indicatori ambientali e sani-tari affidabili e standardizzati, utili inol-tre a guidare lo sviluppo di program-mi di prevenzione articolati di caratte-re nazionale e locale. In conclusione, lo studio presentato ha aggiornato le stime di rischio per la salute delle popolazioni nelle grandi città italiane e sono state poste le basi per l’avvio di un programma di sorve-glianza dell’impatto sanitario dell’in-quinamento atmosferico fondato

sull’utilizzo di indicatori ambientali e sanitari affidabili e standardizzati. Il si-stema potrà essere utile per stimolare lo sviluppo di politiche di prevenzio-ne e per valutare l’efficacia degli inter-venti preventivi intrapresi, a breve e a lungo termine. La disponibilità di una rete di servizi epidemiologici ed am-bientali si è confermata un pre-requi-sito essenziale del sistema. Si è potu-to avviare la sorveglianza epidemiolo-gica per il periodo 2001-2005 permet-tendo valutazioni future comparative del quadro ambientale e sanitario nel periodo 2006-2010.Il materiale prodotto finora nell’ambi-to del Progetto EpiAir è stato raccol-to in due supplementi della rivista Epi-demiologia e Prevenzione: la pubbli-cazione Inquinamento atmosferico e salute, sorveglianza epidemiologica e interventi di prevenzione che presen-ta i dati analitici, ed un quaderno ri-volto agli operatori della prevenzione e dell’ambiente Inquinamento atmo-sferico e salute umana, ovvero come orientarsi nella lettura e nell’interpre-tazione di studi ambientali, tossicolo-gici ed epidemiologici entrambi scari-cabili dal sito www.epiprev.it. ¢

Ringraziamenti.

Questo documento rappresenta una sintesi dei contributi di vari

collaboratori al progetto EPIAIR, che desidero ringraziare tutti indistinta-mente per il lavoro svolto ¢

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❚❘❘ Riassunto. Da tempo è noto come vi sia corre-lazione tra allergopatie ed ambien-te. In particolare sono stati individua-ti fattori inquinanti che, da una par-te, hanno reso l’ambiente più allergiz-

zante e, dall’altra, predispongono l’in-dividuo alla sensibilizzazione e alla in-fiammazione allergica. Di recente, gli studi di epigenetica hanno aperto un nuovo capitolo, che potrebbe spiega-re con quale meccanismo fattori am-

bientali siano in grado di indurre la ri-sposta immunitaria tipica dell’allergia. In particolare, in risposta a determina-ti stimoli ambientali, (ad es.: particola-to da traffico, IPA) si sono evidenziate modificazioni dello stato di metilazio-

AllerGeNi allerGie e aMbieNte

Maria Paola Montagna Responsabile U.O.S.di Allergologia

U.O. di Patologia Clinica, Ospedale di Castrovillari – ASP Cosenza

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35G.I.M.A. il cesalpino

ne del DNA, modificazioni degli isto-ni e variazioni dei microRNA, in gra-do di modulare la risposta immunita-ria dei linfociti T helper e T reg. Lo svi-luppo degli studi epigenetici potreb-be, in futuro, fornire nuovi strumen-ti non solo per l’interpretazione pato-genetica, ma anche per la terapia del-le malattie allergiche.¢

Le allergie rappresentano una pato-logia assai diffusa, in quanto col-

piscono oltre il 20% della popolazio-ne occidentale e sono in progressivo aumento.Il rapporto tra condizioni ambienta-li (clima, inquinamento, stile di vita) asma e allergie respiratorie è stato, fi-nora, oggetto di numerosi studi.Da questi si è evidenziato che, ad esempio, i cambiamenti climatici han-no indotto un aumento dei fattori che incidono sulle allergie respirato-rie tramite:- l’aumento della concentrazione

dei pollini e delle spore fungine, do-vuto all’aumento della temperatura;

- la frantumazione delle particelle al-lergizzanti dovuta ai temporali, di-venuti più frequenti;

- l’estensione delle aree geografi-che di diffusione di alcune specie allergizzanti;

- l’allungamento del ciclo vegetativo (di circa dieci giorni negli ultimi qua-ranta anni).

Anche gli inquinanti atmosferici gio-cano un loro ruolo.Ozono e microparticolato (tra i mag-giori inquinanti nelle città dell’area mediterranea) interagiscono con gli allergeni dei pollini anemofili, aumen-tando il rischio sia di sensibilizzazione atopica che di esacerbazioni dei sin-tomi nei soggetti sensibilizzati.L’adsorbimento alle particelle di parti-colato di pollini allergizzanti, ad esem-pio, prolunga l’esposizione delle vie aeree a questi ultimi. E’ inoltre dimo-strato che gli agenti inquinanti posso-no agire sulla risposta ai pollini: - aumentando la permeabilit epitelia-

le;- avviando le risposte indotte

dall’allergene;- aumentando lo stress ossidativo

nelle vie aeree, ma anche:-aumentando l’allergenicità delle pian-

te (induzione di produzione delle

cosiddette “proteine dello stress”) e il loro rilascio di polline.

Alcuni componenti dell’inquinamento atmosferico, ancora, sembrano ave-re un effetto immunologico adiuvan-te sulla sintesi di IgE, nei soggetti ato-pici, ad esempio, il particolato da gas di scarico di motori diesel. Passando all’inquinamenti indoor, oltre alle pol-veri ed al fumo passivo di sigaretta, si è visto che anche le muffe favori-scono l’aumento di produzione di IgE, l’asma e la tendenza a sviluppare aller-gie verso tutti gli aeroallergeni. In me-rito alla sensibilizzazione da alimenti, bisogna considerare come, oltre alle cross-reattività tra pollini e alimen-ti vegetali, dovute alla sensibilizzazio-ne a “panallergeni” contenuti nei polli-ni (ad esempio Bet v1 del polline di be-tulla con possibile sensibilizzazione a: mela, nocciola, sedano, soia, kiwi), si è evidenziato come alcune proteine ve-getali, come le Lipid Transfer Protein (LTP), contenute nella frutta (ad esem-pio Pru p3 della pesca) e capaci di in-durre anafilassi, fanno parte delle co-siddette “proteine dello stress” (Pa-thogenesis Related Proteins o PRP), la cui produzione è indotta da patogeni, lesioni, stress ambientali. In partico-lare l’ozono può alterare l’espressio-ne di alcune PRP allergeniche. E, an-cora, riguardo la Dermatite Atopica, che, in Europa, colpisce il 10-20% del-la popolazione infantile e l’ 1-3% degli adulti, si è visto che l’eczema atopico (incidenza triplicata nell’arco di trenta anni e massima incidenza nei Paesi al-tamente industrializzati, nelle aree ur-bane e nelle classi sociali alte) è certa-mente collegato con fattori ambien-tali. Recenti studi hanno dimostrato che la sensibilizzazione e l’atopia sono successive e non causali rispetto all’ insorgenza della dermatite. La derma-tite sarebbe in relazione con la per-dita di espressione, a livello cutaneo, della filaggrina (Filament-aggregating protein -FL), che aggrega la cherati-na del citoscheletro nell’epidermide. Da quanto esposto, risulta chiara l’in-fluenza dell’ambiente sulle manifesta-zioni allergiche, così come è stata da tempo individuata una predisposizio-ne genetica alle patologie di tale natu-ra. Gli studi recenti di epigenetica han-no aperto un nuovo capitolo, che si spera possa contribuire a definire qua-

le sia l’innesco molecolare dei mecca-nismi immunitari con cui fattori am-bientali sono in grado di favorire la re-attività allergica. Numerosi studi han-no dimostrato il ruolo chiave dello sta-to di metilazione del DNA nell’indur-re la produzione di IgE. E’ dimostrato, a livello sperimentale, sui topi, come il Th2 Locus Control Region (Th2 LCR) del cromosoma 11, sia criticamente importante nel regolare i geni delle ci-tochine Th2: la sua delezione porta a: diminuita acetilazione dell’istone h3, diminuita metilazione h3-k4, deme-tilazione del DNA del locus Th2 cito-chine e, quindi a induzione dell’asma (koh et al 2010). Neonati di madri al-lergiche hanno variazioni della metila-zione del DNA delle cellule dendritiche spleniche CD11c+DCs, in assenza di contatto con allergeni. queste cellu-le aumentano la suscettibilità allergica dei topi in cui vengono inoculate. L’al-lergia materna produrrebbe, cioè, un alterato profilo epigenetico nelle cel-lule dendritiche neonatali, favorevole alla reattività allergica (Fedulov, 2010). L’esposizione ambientale all’inquina-mento da particolato da traffico può portare a rapide variazioni dello sta-to di metilazione del DNA nei leucoci-ti ematici, in sequenze con rappresen-tazione genomica diffusa (Baccarelli et al 2009) . Alti livelli di esposizione ma-terna a idrocarburi aromatici policicli-ci correlano con il grado di metilazio-ne del DNA e con lo sviluppo di sinto-matologia asmatica in bambini prima dei cinque anni di età (Burton, 2009).Uno studio sull’interazione tra par-ticelle di gas di scarico diesel e chal-lenge intranasale con Aspergillus fu-migatus, dimostra l’induzione di iper-metilazione nei siti CpG del promoter dell’INF- e l’ipometilazione del promo-ter dell’IL-4, che correlano con le va-riazioni dei livelli di IgE (Liu et al 2007).Esiste un’ipotesi di azione sinergica tra infezioni virali nella prima infanzia ed esposizione cronica ad allergeni, nel-la patogenesi dell’asma infantile, che individua nella produzione di citochi-na IL-25, da parte delle cellule epiteliali respiratorie, in risposta al danno vira-le, l’innesco della promozione della ri-sposta Th2 (kumar et al 2009). La rego-lazione epigenetica fornisce, dunque, un’interessante spiegazione per alcu-ni degli eventi molecolari legati alla

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36G.I.M.A.il cesalpino

ENdoCriNe disrUPters (edCs) e alterazioNi della differeNziazioNe sessUale

S. Bernasconi,S.Merli

Clinica Pediatrica – Dipartimento dell’Età Evolutiva, Università di Parma

❚❘❘ RiassuntoDa alcuni anni studi epidemiologi-ci nell’uomo e ricerche sperimentali nell’animale hanno evidenziato come alcune delle numerosissime sostanze chimiche presenti nel nostro habitat (solventi, additivi, plastificanti, pestici-di, fitoestrogeni) possano agire come endocrine disrupters (EDCs) interfe-rire con vari sistemi ormonali ( per esempio a livello testicolare, surrena-lico e tiroideo) ed operare a livello mo-lecolare, influenzando l’espressione di geni. Molte di queste ricerche hanno avuto come campo d’interesse la dif-ferenziazione sessuale e la funzione riproduttiva ed è stato ipotizzato che i contaminanti chimici possano esse-re, .almeno parzialmente, responsabi-

li dell’aumentata incidenza di neopla-sie testicolari e di infertilità, criptorchi-dismo ed ipospadia segnalate in alcu-ni Paesi. E’ importante che i clinici e in particolare i pediatri conoscano que-sto nuovo meccanismo patogenetico sia per meglio studiarlo sia per preve-nire i possibili danni ¢

❚❘❘ Parole chiaveEndocrine Disrupters, Sindrome da Di-

sgenesia Testicolare, espressione genica,

ipospadia.¢

Introduzione:

Numerose sostanze chimi-che prodotte dall’uomo han-

no progressivamente contamina-to l’ambiente in cui viviamo, provo-

cando, attraverso una gran varie-tà di sorgenti e vie, danni all’ecosi-stema e alla salute delle popolazioni. Numerosi studi condotti negli ultimi anni suggeriscono la possibile inter-ferenza di tali sostanze chimiche con i sistemi ormonali degli organismi vi-venti. Numerose organizzazioni in-ternazionali che si occupano di salu-te ambientale hanno posto l’attenzio-ne sul problema dei cosiddetti Endo-crine Disrupters (EDCs), definiti come ‘ qualsiasi sostanza esogena in grado di interferire con la sintesi, la secrezio-ne, il trasporto, il metabolismo, il lega-me recettoriale o l’escrezione di una sostanza endogena con azione ormo-nale normalmente in grado di garanti-re l’omeostasi, il normale sviluppo e la

esposizione ambientale prenatale o nelle fasi più precoci di vita, con il suc-cessivo sviluppo di malattia (Miller et al 2008). In particolare, variazioni epi-genetiche (metilazione del DNA, mo-dificazioni degli istoni e variazioni dei microRNA) potrebbero collettivamen-te contribuire alla sinergia tra chiavi di innesco della patogenesi dell’asma in-fantile. Gli studi, attualmente in corso, sempre più accreditano l’ipotesi che la malattia allergica derivi dalla induzio-ne di variazioni epigenetiche determi-nate da agenti ambientali. A sua volta, la regolazione epigenetica influenza la differenziazione delle cellule T helper e la produzione dei linfociti T reg

(kuriakose 2010). ¢

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funzione riproduttiva di un individuo’. (1) Attualmente solo per una minima parte delle numerosissime sostanze chimiche presenti sul mercato è stato possibile identificare un potenziale da EDCs; tra queste sono state identifica-te sostanze di sintesi utilizzate come solventi e additivi (come bifenili poli-clorurati, bifenili polibrominati, diossi-ne), sostanze usate come plastificanti (come gli ftalati), pesticidi (come me-tossicloro, DDT,...), fungicidi, erbicidi e sostanze di origine vegetale, come i fitoestrogeni. Molti di questi compo-sti ( come ad esempio i pesticidi) per-sistono nell’ambiente e si accumulano a diversi livelli della catena alimentare, per cui la principale fonte di esposizio-ne per l’uomo è rappresentata dalla dieta. Tuttavia altre vie di esposizione sono rappresentate dall’aria inalata e dal diretto contatto cutaneo: gli ftala-ti ad esempio sono presenti in un nu-mero incalcolabile di prodotti, come giocattoli, dispositivi sanitari, prodot-ti ad uso personale (cosmetici, profu-mi, saponi, lozioni ecc.), vestiti, pro-dotti per la casa e per l’auto. I neonati ed i lattanti possono inoltre essere po-tenzialmente esposti in modo indiret-to, per via transplacentare o attraver-so l’allattamento materno. (2) ¢

Meccanismo d’azione

Molti EDCs sono in grado di inter-fenire con sistemi ormonali con

meccanismi di agonismo e/o antago-nismo recettoriale, con interferen-ze sulle vie di trasduzione del segnale o con azioni genomiche. Sono infat-ti state dimostrate azioni di antagoni-smo (DES, bisfenolo A, PPCB, PBB, fta-lati, endosulfano, DDT, DDE) e di anta-gonismo (bisfenolo A, diossina, DDT, PCB) sui recettori nucleari degli or-moni steroidei ERalfa ed ER beta (3), azioni sui recettori non nucleari degli ormoni steroidei e azioni sui recettori di ormoni non steroidei (es. serotoni-na, dopamina, noradrenalina). L’inter-ferenza sulle vie di trasduzione del se-gnale si esplica invece attraverso azio-ni degli EDCs su vie metaboliche (ste-roidogenesi ed altri processi biochimi-ci), modulazione dei coattivatori dei recettori steroidei (SRC-1, TIF-2, GRIP-1, ACTR, PPAR-gamma), modulazione della degradazione proteasoma-me-diata dei recettori nucleari e dei loro

coregolatori con conseguente intera-zione con l’attività trascrizionale, azio-ne di amplificazione della normale ri-sposta ormonale attraverso l’inibizio-ne della istone-deacetilasi e la stimo-lazione delle proteinkinasi attivate dal segnale ormonale. ¢

effetti sull’organismo

I principali effetti degli EDCs sull’orga-nismo sono stati dimostrati nell’am-

bito della funzione riproduttiva. Nel maschio è stata rilevata una mag-gior incidenza di neoplasie testico-lari ed infertilità, oltre ad un’aumen-tata frequenza di criptorchidismo ed ipospadia.(4) L’azione dei fattori eso-geni sulla funzione riproduttiva ma-schile sembra supportata anche da un substrato di predisposizione ge-netica, che sta alla base di quella che viene definita Sindrome da Disgene-sia Testicolare (TDS): l’ipotesi eziologi-ca relativa a questa condizione riguar-da la possibile azione simil-estroge-nica ed anti-androgenica di sostanze esogene, che non solo possono agi-re antagonizzando i ligandi ormona-li, ma possono anche operare a livello molecolare influenzando l’espressio-ne di geni coinvolti nella regolazione della funzione riproduttiva. (5) (Fig 1) L’epoca di esposizione agli EDCs, come pure il sesso del soggetto espo-sto, possono avere una notevole im-portanza nel manifestarsi di altera-

zioni dello sviluppo pre e postnatale: l’esposizione agli EDCs di un sogget-to in fase attiva e vivace dello sviluppo determina quindi una peculiare mo-dulazione dell’espressione genica con la possibilità di sviluppare una con-dizione patologica anche dopo anni dall’esposizione. Recenti studi con-dotti su modelli animali hanno dimo-strato ad esempio come l’esposizione precoce di topi a xenoestrogeni come il BPA determini un’alterazione della funzione del GnRh pulse ipotalamico e del conseguente sviluppo puberale. (6) (7) Allo stesso modo studi condot-ti sulla prole di femmine di ratto espo-ste durante la gravidanza a miscele di PCBs hanno dimostrato una modifi-cazione del pattern di espressione di aromatasi e 5alfa-reduttasi, respon-sabili del corretto rapporto di estra-diolo e testosterone, che si mantiene fino all’età adulta. (8) Attualmente nu-merose conferme riguardo gli effetti degli EDCs sull’uomo provengono da studi sperimentali sull’esposizione pe-rinatale agli ftalati, con evidenza di ri-duzione dell’ Anogenital Index (AGI), indice correlato ad elevata prevalen-za di criptorchidismo e ridotte dimen-sioni dei genitali, in bambini per i qua-li si documentano aumentati livelli di ftalati in campioni di urina materna durante la gravidanza (9). Anche stu-di in ratti maschi adulti hanno dimo-strato alterazioni della spermatogene-

Figura 1Meccanismo patogenetico della sindrome da disgenesia testicolare

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si e dell’istologia testicolare in anima-li esposti all’erbicida Atrazina, a DEhP e flutamide. (10) (11) Anche nostre re-centi ricerche (in via di pubblicazio-ne) hanno dimostrato una correlazio-ne positiva tra concentrazioni di DES e flutamide e metilazione del gene per il recettore degli androgeni (AR) (Fig 2) Tale gene è risultato maggiormen-te metilato, e quindi espresso in misu-ra minore, in pazienti con ipospadia ri-spetto a controlli sani di pari età, sug-gerendo un possibile ruolo di tale al-terazione nella patogenesi dell’ipo-spadia. ¢

Conclusioni

Negli ultimi anni numerosi studi sperimentali hanno evidenziato

come la contaminazione ambientale e in particolare varie sostanza in grado di interferire sull’espressione genica e sul metabolismo ormonale possano essere corresponsabili sia di malfor-mazioni della sfera genitale sia di pato-logie che si manifestano anche al di là dell’età evolutiva (per esempio tumori del testicolo). Non è facile in molti casi

arrivare a delle evidenze conclusive sia per la difficoltà di impostare scientifi-camente queste ricerche (basti pensa-re che spesso si è in grado di valuta-re il possibile effetto biologico di una sostanza e non si tiene conto del fat-to che i contaminanti possono esse-re presenti sotto forma di miscele di più componenti) sia perché, come ac-cennato in precedenza, molte azioni dannose possono aversi in un periodo critico quale quello della vita fetale e i danni possono comparire anni dopo rendendo quindi problematico lo stu-dio causa-effetto. Non possiamo co-munque, anche per l’universalmente accettato principio di cautela, ignora-re le evidenze accumulate ed è sem-pre più compito di noi medici e in par-ticolare di noi pediatri farci carico del-le problematiche ambientali per me-glio studiarle, capirle e per cercare di prevenire con saggezza la salute delle nuove generazioni ¢

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Pazienti Controlli

Perc

entu

ale

di M

etila

zion

e (%

)

Figura 2Percentuale di metilazione del gene del recettore degli andorogeni in cute prepuziale di

soggetti normali operati di ciconcisione (controlli) e soggetti ipospadici di grado 2-3

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L ’ePideMia di obesità, siNdroMe MetaboliCa e diabete Mellito ii iN età evolUtiva: Il ruolo della trasformazione ambientale sulla programmazione nel feto e nella prima infanzia

Rita Tanas Pediatra Endocrinologo. UO Pediatria Ospedaliera Azienda OU S Anna di

Ferrara. E-mail: [email protected]

❚❘❘ RiassuntoL’epidemia del sovrappeso e obesi-tà, registrata nell’ultimo trentennio in tutti i paesi industrializzati, si correla con l’epidemia di sindrome metaboli-ca e diabete mellito. Le conseguenze disastrose di questo fenomeno sulla salute necessitano di una spiegazione esaustiva e un conseguente approccio terapeutico adeguato. L’articolo cerca di desumere dalla letteratura recen-te le prove che l’epidemia possa es-sere favorita da cambiamenti ambien-tali: stress nutrizionali in eccesso e in difetto, stress psicofisici e da inquina-mento chimico, verificatisi in epoca prenatale e perinatale, possono modi-ficare il corredo epigenetico dei nuo-vi nati, riprogrammandone il metabo-lismo, così da predisporlo ad amma-lare più facilmente da adulto. Occor-re, comunque, impegnarsi fin d’ora con coraggiose scelte di cambiamen-to degli stili di vita e un contenimento dell’inquinamento per arrestare il fe-nomeno, in attesa di studi epidemio-logici decisivi ¢

❚❘❘ Parole ChiaveObesità, Sindrome Metabolica, Program-

ming perinatale, Origini precoci delle pa-

tologie dell’adulto. Impatto ambientale. ¢

l’epidemia di obesità, sin-drome metabolica e diabete mellito II in età evolutiva.

L’aumento dell’incidenza del so-vrappeso e obesità in età evolutiva

nell’ultimo trentennio è ampiamen-te documentato in tutti i paesi del mondo (1-2); e di conseguenza anche quello del diabete mellito II (DM) con previsioni catastrofiche per i prossimi anni (3), già in età adolescenziale (4). Si sta registrando un andamento epi-demico anche della Sindrome Meta-bolica (SM), cioè l’associarsi di fattori di rischio per la malattia cardiovasco-lare, che comprendono Obesità cen-trale, Ipertensione Arteriosa, Dislipide-mia, Insulino-Resistenza fino al DM e Steatosi epatica non alcolica. La pre-valenza di questa sindrome aumen-ta con l’età e il BMI della popolazione, ma il suo aumento negli ultimi decen-ni è documentabile solo in pochi stu-di, per la mancanza di criteri condivi-si di definizione e, quindi, di studi epi-demiologici confrontabili (5-7). Si ritie-ne che oggi sia riscontrabile in alme-

no il 30% degli adolescenti obesi (8).¢

le Cause dell’epidemia: il ruolo della trasformazione ambientale sulla program-mazione nel feto e nella pri-ma infanzia.

Negli anni ‘90 la letteratura affer-mava che le cause dell’obesità es-

senziale fossero per il 70% genetiche, come confermato dagli studi sui ge-melli di Stunkard (9), e per il restan-te 30% ambientali, da squilibrio calori-co per stile di vita alimentare e moto-rio inadeguato. Ma sempre più spesso ci si domanda se questi squilibri calo-rici, oggi forzati dall’ambiente obeso-geno in cui viviamo, bastino a spiega-re quest’epidemia. D’altronde l’epide-mia ha lo stesso andamento della pro-duzione industriale e quindi dell’inqui-namento chimico (10).Le cause genetiche tradizionali non si possono modificare rapidamente e senza una noxa ben definita. Secon-do le indagini dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizio-ne, gli apporti nutrizionali della nostra popolazione non sono aumentati ne-gli ultimi anni (11), anche se è cambia-

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ta la composizione dei macronutrien-ti contenuti nei cibi. D’altronde la se-dentarietà della popolazione è più dif-ficile da valutare, e forse, soprattut-to nella prima infanzia, non è tale da spiegare completamente il fenome-no. Oggi sempre più spesso la lettera-tura parla di un’altra possibile spiega-zione dell’epidemia: l’epigenetica (12).In particolare sembra che situazioni di stress ambientale dovute a carenze o eccessi o squilibri nutrizionali, espo-sizione a stress cronico o a sostan-ze tossiche, agendo sull’embrione e sull’individuo durante le prime fasi della vita, possano determinare pic-cole modificazioni della sua genetica, trasmissibili alle generazioni successi-ve. queste modifiche sono piccole al-terazioni della struttura del DNA, della sua metilazione (modifiche più stabi-li, trasmissibili alla prole), modificazio-ni degli istoni, e possono determina-re silenziamento o attivazione genica. La pressione ambientale, quin-di, potrebbe indurre o modificazio-ni genetiche funzionali, adattative, “intelligenti”dei geni oppure nume-rose modificazioni, di cui solo quelle funzionali si manterrebbero con tra-smissione alla prole per una o due ge-nerazioni, secondo il criterio della se-lezione naturale.L’ipotesi etiologica dell’epidemia dell’obesità è nota con il nome di “Ipo-tesi di Barker” dal suo ideatore, cardio-logo inglese. Partendo da osservazio-ni epidemiologiche della correlazione fra basso peso alla nascita e mortalità per cardio-vasculopatia nell’età adul-ta, Barker ha ipotizzato che situazioni di forte stress in gravidanza e nei pri-mi anni di vita del nuovo nato, agen-do sul microambiente uterino, possa-no causare una riprogrammazione fe-tale, cioè un riassetto dei geni desti-nati al controllo metabolico-endocri-no dell’organismo, aumentando così la sua predisposizione ad alcune ma-lattie dell’età adulta, fra cui appun-to l’obesità, la SM e il DM II. In questo modo i fattori ambientali modifiche-rebbero lo sviluppo fetale, diventan-do prioritari rispetto a quelli genetici.Studi successivi hanno conferma-to queste prime osservazioni, raffor-zando le teorie del”Thrifty phenot-ype” di hales e Barker (13) e della “Pla-sticità perinatale” di Bateson e Barker

(14) e portando alla nascita nel 2005 della Società Internazionale sulle “Ori-gini precoci di salute e malattia nelle prime fasi dello sviluppo” cioè Deve-lopmental Origins of health and Dise-ase (DOhaD). questa società sta cer-cando di provare e definire le influen-ze dell’ambiente prenatale e perina-tale sulla salute degli adulti median-te o esperimenti sull’animale o studi osservazionali di vasta portata sull’uo-mo. Da tali studi sembrerebbe che il feto, che subisce l’ambiente mater-no, sia capace di rispondere ad esso sviluppando attitudini metaboliche peculiari: la sottonutrizione come la ipernutrizione correlano secondo una curva ad U con la SM (15).Da studi sull’animale si dimostra che, alterando i comportamenti della ma-dre, si modifica l’attività dell’asse ipo-talamo-ipofisi-surrene, aumentando il contenuto di grassi nella sua dieta au-menta il peso dei piccoli (16). La dieta ricca di grassi saturi in gravidanza al-tera lo sviluppo ipotalamico e l’ome-ostasi energetica del nascituro, agen-do sul meccanismo di regolazione dell’appetito e predispone allo svilup-po della SM (17); inoltre spinge il feto a sviluppare lipogenesi epatica e lo pre-dispone alla steatoepatite non alcoli-ca, indipendentemente dalla presen-za di obesità e DM della madre (18). La dieta ricca di grassi, come anche stress psicofisici cronici precoci, de-terminano nel nascituro una riduzio-ne del trasporto di elettroni nei mito-condri, quindi una minore capacità os-sidativa (19), e un’alterazione perma-nente della massa muscolo-scheletri-ca (20).Studi epidemiologici suggeriscono che il peso della madre, l’incremento del peso in gravidanza, il Diabete Mel-lito gestazionale, il DM II, il tipo di ali-mentazione in gravidanza e nei primi giorni/mesi di vita, cioè durante il pe-riodo del completamento dello svilup-po dell’ipotalamo, possono determi-nare conseguenze stabili in età adulta, favorendo l’obesità e la SM attraverso vari meccanismi. I meccanismi biochi-mici ipotizzati sono vari: alterato svi-luppo delle beta cellule (21), iperfa-gia e accelerazione della crescita, so-vra espressione del Neuro peptide Y e dell’Agouti-related peptide (13), ridu-zione del recettore 4 della Melanocor-

tina (22), iperplasia/ipertrofia dell’adi-pocita, alterato segnale dei glicocor-ticoidi sull’adipocita, alterazione del-la massa muscolare: struttura e fisio-logia, ridotta capacità motoria, altera-ta omeostasi energetica. Il sistema melanocortinico ipotalami-co dei primati si sviluppa nel 3° tri-mestre di gravidanza e la dieta ricca di grassi in gravidanza ne determine-rebbe un’alterazione forse attraverso un’attivazione delle citochine proin-fiammatorie (23). Se il soggetto era anche predisposto geneticamente ad obesità e sindrome metabolica, la die-ta grassa in epoca embrio-fetale ren-de più frequente la patologia, alteran-do in modo permanente l’omeosta-si energetica (24). Se il fenomeno in-teressa neonati femmine, che diven-teranno a loro volta madri, si capi-sce come sia ipotizzabile un aumen-to a cascata di generazione in gene-razione. Da anni è noto che i neona-ti nati sottopeso per l’età gestazionale sono ad elevato rischio di SM e cardio-vasculopatia da adulti. Anche i neona-ti di peso superiore all’atteso per l’età gestazionale (LGA), situazione sempre più frequente (25-26) hanno un mag-gior rischio di diventare obesi o svilup-pare Diabete gestazionale e DM (27). Così le donne più spesso obese e/o iperalimentate in età fertile (28) sono più spesso diabetiche (29) e mettono alla luce figlie, spesso LGA, predispo-ste all’obesità e al DM amplificando il fenomeno nel tempo.Lo stress cronico, come la sommini-strazione di glicocorticoidi in gravi-danza, altera stabilmente l’asse ipo-talamo-ipofisi-surrene del neonato e della sua discendenza causando iper-funzione, ipertensione e iperglicemia nell’età adulta (30). Inoltre, l’associazione di più fatto-ri, per esempio squilibri nutrizionali e stress psicologico può dare un po-tenziamento della predisposizione ad ammalare. Il topo sottoposto in ute-ro a stress cronico e dieta grassa da adulto presenta maggior aumento di peso, grasso corporeo, insulina e gli-cemia dopo carico orale di glucosio, e steatosi epatica rispetto a quello sot-toposto ad un sola noxa (31).Per confermare questi fenomeni sull’uomo sono stati predisposti vari studi epidemiologici di vasta portata,

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come il National Children Study (NCS) avviato in USA su 750 mila donne in età fertile di 105 paesi per studiare l’effetto dell’esposizione materna a numerosi ipotetici fattori di rischio sui previsti circa 100 mila bambini da esse probabilmente generati (32).Oltre a ciò, è sempre più forte l’ipote-si di alterazione dello sviluppo del feto da inquinanti ambientali, che agisco-no su tessuti ad elevata plasticità. L’au-mento della produzione industriale, e quindi dell’inquinamento, coincide con quello dell’obesità. Sono state im-messe nell’ambiente molte nuove so-stanze derivate da processi industriali. Alcune di queste, lipofiliche, resisten-ti al metabolismo e capaci di concen-trarsi nella catena alimentare, mima-no o interferiscono con l’azione degli ormoni naturali, quali estrogeni, an-drogeni, ormoni tiroidei, ipotalamici e ipofisari, con vari meccanismi d’azio-ne: legame con i recettori nucleari per gli estrogeni, antagonismo verso il re-cettore, inibizione delle aromatasi, at-tivazione degli enzimi legati al citocro-mo P450, alterazione della formazio-ne di sinapsi neuronali in sedi depu-tate alla produzione di neurormoni con ruolo chiave nel bilancio energeti-co (33). Studi epidemiologici hanno di-mostrato una distribuzione ubiquita-ria di questi e altri prodotti industria-li nell’ambiente, e oggi misurabili nel-le urine e nel plasma delle persone di tutte le popolazioni testate e persino nel latte materno.In particolare, il bisfenolo A presen-te nei contenitori di plastica per ali-menti e persino in molti biberon, è attualmente dosabile nel sangue del-le persone. Il Bisfenolo A ha un ruolo sul tessuto adiposo: in vitro promuo-ve la differenziazione degli adipociti, in vivo l’esposizione in utero o perina-tale causa aumento del tessuto adipo-so nei nuovi nati. Uno studio recentis-simo dimostra che somministrato alle topoline con l’acqua durante la gravi-danza e allattamento, aumenta il peso corporeo, la massa grassa e la cole-sterolemia dei neonati, soprattutto se femmine (34).Alcuni studi hanno evidenziato una correlazione fra livelli di queste so-stanze, chiamate Endocrin Disruptor, e il Body Mass Index, la lipidemia, la massa grassa, la sindrome dell’ovaio

policistico. Ovviamente mancano stu-di randomizzati a provare definitiva-mente queste ipotesi sull’uomo (35).Conclusione Da quanto emerge dalla letteratura quali azioni possiamo pro-porre al medico pratico davanti a que-sto scenario? Il sapere di avere delle tendenze genetiche o epigenetiche all’obesità o alla SM non aiuta i nostri pazienti. Nonostante ciò questi studi danno agli operatori sanitari, grandi contributi: da essi si evince che l’obe-sità va affrontata prima possibile. La donna che si prepara al ruolo di ma-dre deve essere aiutata ad avere peso e glicemia accettabili e a fare una die-ta sana. Il Piano sanitario 2005-07 della Regione Emilia Romagna proponeva la cura dell’obesità delle giovani don-ne e dei bambini a rischio, ma non è stato applicato (36).Un’alimentazione sana e una vita atti-va riducono la predisposizione ad am-malare di tutta la popolazione. La die-ta ricca di lipidi anche se non deter-mina obesità o diabete fa male a sé e alle generazioni future. Oggi le don-ne in età fertile sono per metà obe-se o sovrappeso e per metà in restri-zione, più o meno adeguata a garan-tire normali apporti calorici: quando arrivano alla gravidanza continuano o con l’iperalimentazione o con la restri-zione. Entrambi i percorsi sono molto pericolosi e possono danneggiare la programmazione metabolica del feto. Tutta la popolazione va informata ed educata a comportamenti più pru-denti, ma ciò non è sufficiente. Le isti-tuzioni devono riuscire a rendere fa-cili le scelte salutari alimentari e mo-torie per tutti, secondo il principio dell’architettura delle scelte dell’eco-nomista americano Richard Thaler (37), già sposato dal progetto ministe-riale 2007:”Guadagnare in salute: ren-dere facili le scelte salutari”, e ridur-re l’inquinamento ambientale, capa-ce di determinare danni da esposizio-ne precoce in utero e nei primi mesi di vita, ancora oggi non quantizzabili. ¢

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❚❘❘ Riassuntola presenza di diossine e PCB nel latte materno e il loro trasferimento al lat-tante rappresentano la punta dell’ice-berg di una situazione molto grave: l’esposizione a xenobiotici che già si realizza durante la vita intrauterina. Il monitoraggio della contaminazione del latte materno permette di stima-re l’esposizione presente e pregres-

sa di una popolazione, specie se que-sta vive in territori densamente indu-strializzati. La presenza di diossine nel latte materno sta diminuendo in Eu-ropa, ma poco si sa circa la situazio-ne in Italia. In particolare persistono nel nostro paese situazioni allarman-ti in zone ad alta densità industriale e attorno agli inceneritori. A Taranto e a Montale (Pistoia), su iniziativa dei cit-

tadini, sono stati analizzati campio-ni di latte materno riscontrando livel-li di diossine molto al di sopra di quelli raccomandati come sicuri. A Montale, il profilo dei PCB trovati nel latte ma-terno era del tutto sovrapponibile a quello dei PCB emessi dall’incenerito-re. questi risultati non devono essere usati per scoraggiare l’allattamento, ma per sollecitare le autorità compe-

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tenti ad un monitoraggio sistematico del latte materno ed orientare la po-litica verso un diverso modello di svi-luppo per la salvaguardia delle gene-razioni future.¢

❚❘❘ Parole chiavexenobiotici , diossine, latte materno, accia-

ierie, inceneritori ¢

Introduzione:

L’esposizione ad agenti tossici ed in-quinanti nelle primissime fasi del-

la vita rappresenta un problema di crescente interesse per la comuni-tà scientifica, già ipotizzato da Loren-zo Tomatis negli anni‘70 ed in segui-to ampiamente confermato (1,2): la fase dello sviluppo fetale, anzi, appare oggi essere la più cruciale per il futu-ro destino di salute/malattia non solo nell’infanzia ma anche nell’età adul-ta.(3). In questo articolo si affronta in modo specifico la contaminazione da diossine e policlorobifenili (PCB), ma non va dimenticato che questi non sono certo gli unici inquinanti poten-zialmente presenti nel nostro organi-smo e che possono trovarsi quindi nel latte materno. Si stima infatti che ol-tre 300 sostanze tossiche, di cui mol-te cancerogene, si rinvengano stabil-mente nel nostro corpo e possano es-sere, al pari delle diossine e dei PCB, trasferite alla prole; tra queste, mer-curio, piombo, nichel, arsenico, cad-mio, benzene, idrocarburi policicli-ci aromatici, pesticidi e ritardanti di fiamma ed il latte materno rappresen-ta un mezzo particolarmente idoneo per la valutazione dell’inquinamento “in vivo” di una popolazione. (4).¢ obiettivi:

Richiamare l’attenzione di Istitu-zioni ed autorità sanitarie affin-

ché vengano messi in atto sia stu-di rigorosi sul grado di contaminazio-ne del latte materno nel nostro paese sia, soprattutto, politiche più rispet-tose dell’ambiente e tali da evitare la formazione di sostanze tossiche che inevitabilmente trasferiamo ai nostri bambini ancor prima che nascano.¢

Metodi:

Revisione della letteratura e disa-nima di alcune esperienze in cui -

per iniziativa dei cittadini che vivono

in territori particolarmente inquina-ti- sono state condotte analisi di que-sto tipo. ¢

Diossine e pCB: caratteristi-che e tossicità

Con il termine “diossine” si indica un gruppo di 210 composti chimi-

ci formati da carbonio, idrogeno, os-sigeno e cloro, che si formano come sottoprodotti involontari dei proces-si di combustione in particolari condi-zioni di temperatura ed in presenza di cloro; sono divise in due famiglie: po-licloro-dibenzo–p-diossine (PCDD) e policloro-dibenzofurani (PCDF o fu-rani); le singole molecole sono indica-te col termine di “congeneri” e, nel-lo specifico, si contano 75 congene-ri di PCDD e 135 congeneri di PCDF. Capostipite di queste molecole è la TCDD (2,3,7,8–tetraclorodibenzo-p-diossina), nota come “diossina di Se-veso” a causa dell’incidente occorso a Seveso nel 1976. Si tratta di moleco-le particolarmente stabili e persisten-ti nell’ambiente: per la TCDD i tempi di dimezzamento sono da 7 a 10 anni nel corpo umano e oltre 100 anni nel sottosuolo; sono insolubili in acqua e hanno una elevata affinità per i grassi; sono inoltre soggette a bioaccumulo e biomagnificazione, nell’uomo la loro assunzione avviene per oltre il 90% per via alimentare, specie attraverso pesce, latte, carne, uova e formaggi. A differenza delle diossine, i PCB sono stati prodotti deliberatamente trami-te processi industriali. La loro produ-zione è iniziata negli anni‘30 ed è per-durata fino al 1985, quando sono sta-ti ufficialmente banditi stante la loro pericolosità. Dei PCB si conoscono 209 congeneri, 12 di questi sono molto af-fini alle diossine e vengono denomi-nati “dioxin-like”. Sono composti mol-to stabili, decomponendosi solo oltre i 1000-1200 gradi centigradi. Sono sta-ti utilizzati sia in sistemi chiusi (trasfor-matori) che come additivi per ritar-danti di fiamma, antiparassitari ed al-tro. Diossine e PCB rientrano nel gran-de gruppo di sostanze denominate “endocrin disruptor”, ovvero interfe-renti endocrini, agenti cioè che mi-mano l’azione degli ormoni natura-li interferendo e disturbando funzioni complesse e delicatissime quali quelle immunitarie, endocrine, metaboliche

e neuropsichiche. La tossicità di que-ste molecole viene espressa facendo uso dei fattori di tossicità equivalen-te (TEF) che rappresentano il rapporto tra la tossicità del singolo congenere e quella del più tossico tra essi, che è la TCDD, a cui è attribuito un fattore di tossicità pari ad 1. Dal momento che nelle diverse matrici sono presenti mi-scele dei diversi congeneri, si è intro-dotto il concetto di tossicità equiva-lente (TEq), che si ottiene moltiplican-do le concentrazioni dei singoli con-generi per i rispettivi TEF e somman-do tra loro i prodotti ottenuti. L’espo-sizione a diossine è correlata allo svi-luppo di tumori (per la TCDD, linfo-mi, sarcomi, tumori a fegato, mam-mella, polmone, colon) nonchè a di-sturbi riproduttivi, endometriosi, ano-malie dello sviluppo cerebrale, diabe-te, malattie della tiroide, danni polmo-nari, metabolici, cardiovascolari, epa-tici, cutanei e deficit del sistema im-munitario.(5) Anche per esposizione a PCB sono stati descritti effetti sulla riproduzione, anomalie del compor-tamento, danni neuropsicichici, ipo-funzione tiroidea (6-7). OMS ed UE fis-sano limiti simili di assunzione attra-verso il cibo: per l’UE tale limite cor-risponde a 2 pg TEq/kg di peso cor-poreo al dì senza distinzione fra adul-to e bambino.Diossine e PCB rientra-no tra i 12 “Persistent Organic Pollu-tants” (POPs), sostanze altamente tos-siche, persistenti, praticamente ine-liminabili una volta prodotte, di cui la Convenzione di Stoccolma del 2004, sottoscritta da 120 paesi fra cui l’Ita-lia – unico paese a non averla ratifica-ta - ha vietato la produzione intenzio-nale ed imposto la riduzione di quella non voluta. ¢

Risultati:

L’OMS, di recente, ha documentato come in molti paesi europei si re-

gistri una diminuzione nella presenza di diossine nel latte materno: nel re-port del 2007 (8), si evidenziano in tut-ti i paesi, ad eccezione del Belgio, livel-li inferiori ai 10 pg TEq/g di grasso, ri-spetto ai 15- 40 pgTEq/g di grasso del 1988; purtroppo nulla si conosce circa la situazione italiana. A livello mondia-le tuttavia la situazione appare molto variegata: nella Figura 1 sono riporta-ti i risultati degli studi più consisten-

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ti. A parte il caso italiano (14), emerge che i livelli più elevati sono presenti in Giappone e Germania, paesi da tem-po altamente industrializzati. I lavori effettuati in Germania nel 2007-2008, inoltre, mostrano che singoli lavo-ri effettuati su specifiche popolazioni non possono essere considerati rap-presentativi della realtà del paese, per cui i livelli medi riscontrati corrispon-dono a quelli che, secondo il report dell’OMS erano i livelli del 1988-1993. Viceversa i livelli riscontrati in Cina e in Turchia sono in linea con quelli ri-portati dall’OMS per i paesi europei nel 2007 e cioè inferiori ai 10 pgTEq/g di grasso. Particolarmente interessan-te e corposo è lo studio condotto in Cina: su 1237 campioni provenienti da altrettante puerpere in 12 provincie del paese e rappresentativo del 50% dell’intera popolazione cinese i risulta-ti per PCDD/PCDF-PCB sono variabili da 2.59 a 9.92 pg/g di grasso, con una media di 5,42. Anche questo studio ha confermato che il latte di puerpere re-sidenti in aree rurali è molto meno in-quinato di quello di donne residenti in aree industrializzate.¢

la situazione in Italia

Appare subito evidente la mag-gior numerosità di indagini su lat-

te materno eseguite in altri paesi ri-spetto al nostro; lo studio di Abballe (15) effettuato in Italia su 39 campio-ni, anche se pubblicato nel 2008, si ri-ferisce a campioni raccolti dal 1998 al 2001. Tale indagine aveva l’obiettivo di confrontare i livelli di inquinamento di un’area urbana (Roma) con quelli di Venezia, territorio in prossimità di un distretto fortemente industrializza-to (Porto Marghera). I campioni non sono stati analizzati singolarmente ma in pool e lo studio ha mostrato per i campioni romani valori di 20.4 TEq/g di grasso e per quelli veneziani - ana-lizzati in tre gruppi in base al consumo alto, medio e basso di pesce - rispet-tivamente di 25.0, 33.0 e 34.2, senza comunque differenze significative in base alle abitudini alimentari. Del tutto peculiare è poi la situazione dell’uni-co caso indagato a Brescia (14). Bre-scia è la città nella quale era disloca-ta la Caffaro, azienda italiana produt-trice di PCB, che ha arrecato un in-quinamento gravissimo del territorio

e tale da portare ad un’ordinanza, nel 2007, di divieto di utilizzo del terreno, delle acque, di animali allevati all’aper-to ecc. Di fatto, in un campione di lat-te di una mamma residente nell’area contaminata e che si era sempre ali-mentata con prodotti coltivati in loco, sono stati riscontrati valori elevatissi-mi, al di sopra di qualunque segnala-zione in letteratura e pari a 147 pg/g di grasso fra PCDD/PCDF e PCB. ¢

Risultati di indagini con-dotte in Italia per iniziativa spontanea

Per iniziativa spontanea di cittadini sono stati di recente eseguite, in

aree critiche del nostro paese, analisi, che se pure episodiche, ci sembrano degne di menzione. Tratteremo quin-di a quanto emerso in mamme resi-denti a Taranto e nei pressi dell’ince-neritore di Montale (Pistoia).¢

Il caso di Taranto

A Taranto è in funzione da cir-ca 50 anni la più grande acciaie-

ria d’Europa, l’ILVA. questa, secondo i dati INES 2006, immette in atmosfe-ra 96.5 g/anno di diossina, che corri-sponde a circa il 92% della diossina im-messa in tutta Italia da grandi impian-ti. questa diossina è immessa in atmo-sfera da una ciminiera molto alta e in seguito all’azione dei venti è disper-sa su un territorio molto ampio. In se-guito al monitoraggio espletato per la ricerca di PCB e diossina nelle pro-duzioni zootecniche dal Dipartimen-to di Prevenzione dell’ASL di Taranto sugli allevamenti di ovini presenti nel raggio di 15 km dall’area industriale, è stato imposto un divieto di pascolo nei terreni non destinati all’agricoltura nel raggio di 20 km. Anche a Taranto, come a Montale, per iniziativa spon-tanea dei cittadini, sono stati esegui-ti esami su tre campioni di latte ma-terno di donne residenti nel raggio di 11 km dall’acciaieria, riscontrando va-lori di TEq di PCDD/F e PCB dioxin-like, espressi in pg/g di grasso, rispettiva-mente di 31.37, 26.18 e 29.40. Il valo-re medio (media aritmetica) è risulta-to essere 29.1 pg TEq/g di grasso.¢

Il caso di Montale (pt)

L’inceneritore di Montale (Pt) tratta 120 ton/giorno (pari a circa 36.000

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ton/anno) di rifiuti urbani, ospedalie-ri e speciali ed è stato recentemente autorizzato a trattare fino a 150 ton/giorno (45.000 ton/anno). L’impianto ha sempre presentato criticità ed an-che in passato erano stati riscontrati superamenti nelle emissioni di diossi-ne, ma, grazie a deroghe, aveva sem-pre continuato a lavorare. Nel mag-gio 2007, in seguito a controlli di rou-tine, si evidenziò un importante sfo-ramento per diossine per cui si giun-se, solo nel luglio, ad una temporanea chiusura. Nei mesi di funzionamento, da maggio a luglio, si può stimare che siano stati emessi oltre 50.000.000 ng di diossine, ovvero quanto l’impian-to avrebbe potuto emettere in qua-si un anno e mezzo di attività e pari alla dose massima tollerabile per cir-ca un milione di individui adulti in un intero anno. In conseguenza dell’inci-dente ARPAT e ASL eseguirono anali-si sia di tipo ambientale che su matri-ci biologiche. Il dato più eclatante fu il riscontro, in 6 su10 campioni di car-ne di pollo esaminati, di livelli di dios-sine superiori a quelli consentiti per la commercializzazione senza che sia stata emanata alcuna ordinanza al ri-guardo. Sulla scia di tali problemati-che, due mamme, residenti in area di ricaduta, hanno volontariamente sot-toposto ad analisi il proprio latte, a circa due settimane dal parto: in un campione si riscontrava un totale di

3,984 PCDD/F TEq pg/g di grasso e di 10,621 PCDD/F-PCB TEq pg/g di gras-so e nell’altro i valori erano rispettiva-mente 5, 507 e 9,485. Di particolare interesse nel caso in og-getto è il profilo di 12 molecole PCB dioxin-like riscontate nei campioni di latte materno che, come si vede dal-la Figura 2, è del tutto sovrapponi-bile al profilo dei PCB emessi dall’im-pianto (analisi a camino effettuate in regime di autocontrollo e riguardanti un intero anno di attività) ed al profilo dei PCB riscontrati nella carne di pollo. Appare verosimile che i PCB immes-si in atmosfera dall’inceneritore rica-dono nell’ambiente e lo contaminano gravemente; il sospetto che proprio l’impianto sia il maggiore responsabile della contaminazione riscontrata negli alimenti (polli) e nel latte materno tro-va quindi riscontro oggettivo.¢

Discussione

La quota di diossine presenti nel lat-te materno è, nella massima par-

te dei casi, nettamente superiore a quella che la normativa stabilisce per diossine e PCB nel latte vaccino: 6 TEq pg/g di grasso. Sapendo che la com-ponente grassa è circa il 4% del latte, si può calcolare che un neonato che si nutre con 800-1000 ml di latte ma-terno al giorno assumerà una dose di diossine variabile da 80-90 a 500-600 fino ad oltre 1000 pg di TEq al giorno,

a seconda che abbiamo 3, 15 o 30 TEq pg/g di grasso; nell’unico caso di Bre-scia, in cui la quota è 147 pg/TEq, si arriva addirittura a circa 6000 pg TEq/die. Un bambino allattato al seno as-sume pertanto quantità di diossine nettamente superiori a quelle indicate da OMS e UE (2 pgTEq/kg di peso), ad es. un bimbo di 5 kg dovrebbe assu-merne al massimo 10 pg al giorno. In-dagini condotte su pochi campioni di latte materno e per iniziativa sponta-nea, quali quelle di Taranto e Montale, hanno un significato di “case report” non certo di ricerca scientifica; fanno però emergere un problema gravissi-mo circa quello che è l’inquinamento “in vivo” - a nostro avviso non suffi-cientemente indagato in Italia – e ri-vestono pertanto un chiaro significa-to di denuncia, prestandosi ad alcune considerazioni:- L’assenza di un biomonitoraggio si-

stematico e su larga scala sul lat-te materno in Italia a differenza di quanto avviene in altri paesi.

- La sottovalutazione dei rischi per la salute dei bambini in territori conta-minati anche quando vengono av-viate indagini ambientali: si riporta a titolo di esempio lo studio Moniter, varato dopo la diffusione dei dati sui due inceneritori di Forlì in cui non è stato previsto alcun campionamen-to di diossine su matrici biologiche.

- Non è oggi possibile ritenere, alla luce della letteratura, quali livelli di contaminazione “in vivo” in parti-colare delle donne in età fertile, e quindi di feti e neonati, siano sce-vri da rischi.

- Anche se, per quanto è dato sapere, non ci sono protocolli che moduli-no caso per caso l’allattamento al seno in relazione ai contaminanti in esso presenti, non si può trascurare il fatto che un lattante di 5 kg possa trovarsi indifferentemente ad assu-mere da 18 a 80 o perfino da 240 a 1200 pg/kg di peso/die di diossine, a seconda che risieda in zona rura-le, a Montale, a Taranto o a Brescia.

- Non è possibile escludere che il tri-ste primato che l’Italia detiene per i tumori infantili: un aumento del 2% l’anno, rispetto all’ 1,1% riscontrato in Europa (addirittura del 3.2% an-nuo nei primi 12 mesi di vita (16), non possa essere associato con

Figura 2Profilo dei PCB dl in: emissioni dell’inceneritore, carne di pollo e latte umano

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l’esposizione già in utero e poi at-traverso il latte materno a questa pletora di sostanze tossiche.

- Di certo questi livelli di esposizione sono destinati ad aumentare se si continuano a privilegiare politiche di incenerimento e combustione, sia che si tratti di biomasse o di ri-fiuti e se non si pone un serio fre-no all’immissione di diossina da par-te di stabilimenti industriali come le acciaierie.

- Non è possibile inoltre “fidarsi” di nuove o migliori tecnologie impian-tistiche, dato che anche da un im-pianto tenuto sotto stretta osserva-zione, quale quello di Montale, i PCB sono emessi in quantità non trascu-rabile, anche perché non ne è previ-sto- per legge- il monitoraggio.

- Deve essere riconsiderata urgente-mente la necessità di abbandona-re politiche di incenerimento di ri-fiuti, impropriamente incentivate a scapito di azioni meno impattan-ti sull’ambiente e sulla salute, come già espresso nel documento della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici. I rifiuti, come dice la leg-ge, devono essere smaltiti “senza danno per la salute e per l’ambien-te” e ciò è già oggi possibile attra-verso il riciclo della materia ed esclu-dendo del tutto le combustioni.

- Fra tutte le pratiche l’incenerimento dei rifiuti è la meno rispettosa del-la salute e dell’ambiente. Di recente il Prof David kriebel, commentando uno studio francese che ha eviden-ziato un aumentato rischio di mal-formazioni urogenitali per esposi-zione a diossine emesse da incene-ritori, ha affermato che questi im-pianti - oltre che immettere fumi in atmosfera, produrre ceneri tos-siche, contribuire al riscaldamento globale - ostacolano il diffondersi di pratiche molto più virtuose qua-li la riduzione, il recupero/ riciclo perché“una volta che questi impian-ti costosissimi sono stati costruiti, i gestori vogliono avere garantita una sorgente continua di rifiuti per ali-mentarli” (17) ¢

Conclusioni

Nella consapevolezza che l’OMS raccomanda comunque l’allatta-

mento materno esclusivo fino al 6° mese e la sua prosecuzione fino al 2° anno di vita pur in presenza di conta-minanti, riteniamo altresì che sia giun-to il momento di sollevare il problema della difesa del latte materno dall’in-quinamento. Del resto, il fatto di non aver dato, almeno fino ad ora, la giu-sta attenzione a questo problema po-trebbe essere non del tutto casuale. Se da un lato, infatti, nuovi problemi emergono all’attenzione della società civile e della comunità scientifica, che risultano impreparate, dall’altro è pos-sibile che il trascurare questo proble-ma sia il frutto di una rimozione dei problemi più scomodi e drammatica-mente coinvolgenti, come quello del possibile danno procurato alle nuo-ve generazioni in conseguenza di er-rate scelte economiche e politiche di cui si ha in prima persona la respon-sabilità. Riconoscere l’esistenza di una grave contaminazione del latte ma-terno nelle aree industrializzate deve anche comportare, di conseguenza, una presa di coscienza del fallimento di un modello di sviluppo di una so-cietà come l’attuale, che non sempre si cura delle conseguenze delle pro-prie scelte e delle ricadute sull’infan-zia, il cui benessere dovrebbe essere al primo posto nei pensieri di una co-munità civile. Ci auguriamo che pren-dere consapevolezza di questi proble-mi risvegli nella società e nelle stesse donne una nuova coscienza che spin-ga per uno sviluppo diverso e com-patibile con l’inalienabile diritto del-le presenti e delle future generazioni alla vita e alla salute. ¢

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ProleGoMeNa ad UN NUovo ParadiGMa iN CaNCeroGeNesi

Ernesto Burgio

Pediatra; coordinatore Comitato Scientifico ISDE Italia

Negli ultimi dieci anni le conoscen-ze nel campo della biologia mo-

lecolare, della genomica, della biolo-gia evoluzionistica sono enormemen-te aumentate e si va delineando un modello assolutamente nuovo di ge-noma dinamico e interattivo con l’am-biente. Se per quasi mezzo secolo si era pensato al DNA come a un sem-plice «serbatoio di informazioni», frut-to di milioni di anni di evoluzione mo-lecolare e quasi immutabile nel tempo e alle altre componenti della cromati-na e in particolare agli istoni (le pro-teine attorno alle quali il DNA è supe-ravvolto, per poter essere contenuto in un nucleo di pochi micron di dia-

metro) come ad una semplice strut-tura portante ancora più stabile (con-servata per centinaia di milioni di anni) e semplicemente deputata a garan-tire le migliori modalità di esposizio-ne del DNA (cioè dei «geni»), negli ul-timi anni ci si è resi conto che l’inte-ro genoma andrebbe rappresentato piuttosto come un network moleco-lare complesso e dinamico, in conti-nua interazione con l’ambiente e che quest’ultimo andrebbe considerato come una fonte di informazioni - mo-lecole chimiche, ioni metallici, radia-zioni ionizzanti e non – che interagi-scono con la componente più fluida del genoma stesso, l’epigenoma, in-

ducendola continuamente a trasfor-marsi e a riposizionarsi, per risponde-re nel modo più efficace alle solleci-tazioni. In una tale rappresentazione dinamica e sistemica, la struttura tri-dimensionale della cromatina verreb-be a configurarsi come un comples-so molecolare intimamente reattivo: le stesse modifiche genomiche e cro-mosomiche, andrebbero interpreta-te in questa luce e le mutazioni, tra-dizionalmente interpretate come sto-castiche, verrebbero a configurarsi come modifiche attive/difensive a ca-rico dapprima dell’epigenoma (e del-la cromatina nel suo assetto tridimen-sionale) e in un secondo tempo della

Nella maggior parte dei paesi occi-dentali, negli ultimi 30-40 anni si

è registrato un aumento dell’inciden-za dei tumori infantili, che non vie-ne completamente spiegato dai mi-glioramenti delle procedure di rileva-zione di tale patologia. In Italia l’au-mento è stato intorno al 2% per anno (e l’incremento sembra attenuarsi in anni molto recenti). Nel contempo, si è anche verificato un cambiamento della distribuzione dei tassi di inciden-za specifici per classi di età delle leu-cemie linfatiche acute, con una pro-gressiva maggiore evidenza del “pic-co” di incidenza in età 2-3. E’ ragio-nevole attribuire questi cambiamen-

ti a modifiche delle condizioni di vita (compresi cambiamenti di suscettibili-tà agli agenti infettivi) e ad esposizio-ni fisiche e chimiche ambientali. D’al-tra parte, con l’eccezione dell’utilizzo ad alte dosi di radiazioni ionizzanti a scopo diagnostico in gravidanza, non sono state riconosciute con certezza esposizioni ambientali che aumen-tano il rischio di cancro in età pedia-trica. Si sono invece accumulate co-noscenze che suggeriscono tale as-sociazione (comprese emissioni veico-lari, esposizioni lavorative dei genito-ri, campi elettromagnetici a bassa fre-quenza ed altre). queste osservazio-ni scientifiche, ancorché non soddi-

sfano il criterio di dimostrare rapporti causa-effetto “oltre ogni ragionevole dubbio”, non possono essere ignora-te. Inoltre, si tratta di circostanze che aumentano, per i bambini, il rischio di altre malattie, soprattutto dell’appa-rato respiratorio. Complessivamente, quindi, si impone la definizione di una rigorosa strategia preventiva nei con-fronti delle esposizioni a fattori nocivi nella vita fetale e nei primi anni di vita. Tale strategia ovviamente deve anche riguardare la protezione da agenti no-civi i cui effetti si manifestano oltre il 15° anno di vita. ¢

EPideMioloGia dei tUMori iNfaNtili

Benedetto TerraciniGià professore di epidemiologia dei tumori e di statistica medica

Università di Torino

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stessa sequenza-base del DNA. Il can-cro sarebbe da interpretare, in questo modello come il prodotto di un lun-go processo reattivo-adattivo inizia-to in utero o addirittura nelle cellule germinali.

Da oltre 20 anni il cancro è definito es-senzialmente in termini di “malattia genetica” . Si intende così sottoline-are che non esiste patologia neopla-stica senza danno genetico o cromo-somico: nelle cellule che costituisco-no il clone neoplastico sono sempre presenti, infatti, mutazioni e/o aber-razioni cromosomiche , instabilità ge-nomica e aneuploidia , seppur diver-samente collegate tra loro dai diver-si ricercatori.

Forse la prima formulazione scientifi-ca del cancro come malattia genetica si deve a Novell, che nel 1976 scrive-va: “Si propone che la maggior parte dei tumori derivi da una singola cellu-la e che la progressione tumorale sia il risultato di una instabilità genetica ac-quisita all’interno del clone originale che consente la selezione sequenziale delle linee cellulari più aggressive. Le popolazioni di cellule tumorali appaio-no geneticamente più instabili rispet-to a quelle normali, forse per attiva-zione di specifici loci genici. ”

Nel 1991 Loeb sottolineò come nell’ambito di un qualsiasi tessuto ne-oplastico siano presenti migliaia di mutazioni e di anomalie cromosomi-che e, rilanciando una tesi già pro-posta negli anni ’50 da Nordling sul-la tendenza delle cellule in attiva pro-liferazione ad accumulare mutazioni , formulò la teoria del mutator phe-notype , ipotizzando una intrinse-ca tendenza del clone neoplastico ad accumulare alterazioni genetiche e cromosomiche.

Nel 2000 hanahan e weinberg defi-nirono i caratteri fondamentali con-feriti a una cellula/clone neoplasti-co dal progressivo accumulo di mu-tazioni sequenziali: proliferazione in-dipendente da segnali di crescita, in-sensibilità ai segnali inibitori, resisten-za all’apoptosi, riattivazione della te-lomerasi (e immortalizzazione), at-tivazione dell’angiogenesi, tenden-

za a metastatizzare, instabilità geno-mica (carattere facilitatore) . Si venne così a definire quello che è a tutt’oggi il modello cancerogenetico per eccel-lenza: la cosiddetta Teoria Mutaziona-le Somatica (SMT), secondo cui all’ori-gine del cancro sarebbe l’insorgenza, in una o più cellule somatiche, di mu-tazioni stocastiche in alcuni geni-chia-ve , fisiologicamente deputati al con-trollo della proliferazione, della mor-te cellulare programmata (apopto-si) e dei meccanismi di riparazione del Dna stesso: proto-oncogéni e geni oncosoppressori.

Non è difficile riconoscere in un tale modello la trasposizione in ambito cellulare del classico modello evolu-zionistico neo-darwiniano: fra le mi-riadi di mutazioni che quotidianamen-te danneggiano il nostro Dna, finireb-bero per prevalere e stabilizzarsi (nel giro di mesi/anni) le pochissime in grado di conferire a un dato clone cel-lulare un vantaggio selettivo . Su que-ste basi viene anche interpretato l’in-cremento dei casi di cancro che carat-terizza le società post-industriali, no-toriamente caratterizzate da un al-trettanto significativo allungamento della vita media: è infatti noto che il Dna si va progressivamente destabiliz-zando con l’età, anche a causa di un accumulo “parafisiologico” di lesioni ossidative.

Da anni le critiche al modello SMT sono state numerose e significative, anche se ancora insufficienti a costringere i suoi sostenitori a riconoscerne i limi-ti sostanziali. Comincerei col ricordare che numerosi autori hanno sottoline-ato: come in moltissimi casi il cancro sembri essere (il prodotto di) un pro-cesso complesso che concerne un in-tero tessuto o addirittura l’intero or-ganismo e che non sembra avere ori-gini nelle supposte/teorizzate muta-zioni stocastiche ; come, in partico-lare, il modello SMT non riconosca il ruolo-chiave svolto dal microambien-te (stroma , endoteliociti , macrofa-gi attivati ecc.) e dai tessuti circostan-ti e il percorso di sviluppo distorto a carico del tessuto in cui si è prodotta la degenerazione neoplastica ; come non sempre sia possibile documenta-re l’esistenza di mutazioni specifiche

che esitino in una ben definita forma neoplastica , né dimostrare una chia-ra relazione tra mutazioni e progres-sione tumorale (persino nel caso del modello-classico di Vogelstein, quel-lo del carcinoma del colon, nessuna mutazione appare necessaria e suffi-ciente a determinare il passaggio tra uno stadio e l’altro della progressio-ne neoplastica) ; come il modello SMT non sia in grado di chiarire adeguata-mente l’azione degli agenti cancero-geni non-mutageni, né, tantomeno, di dare un’interpretazione accettabile dei complessi fenotipi tumorali e degli stessi processi cancerogenetici …

Una delle posizioni critiche più note nei confronti della SMT è quella di Duesberg e Rasnick, i quali ricono-scono nell’aneuploidia l’aberrazio-ne carcinogenica primaria e fonda-mentale alla quale farebbero seguito una instabilità genomica complessiva e progressiva e mutazioni e aberra-zioni cromosomiche di vario genere e tipo, più o meno specifiche delle di-verse forme tumorali. questi e altri ri-cercatori hanno sottolineato il preco-ce manifestarsi di aneuploidia in cellu-le neoplastiche prive di mutazioni e l’alta frequenza di tumori in sindro-mi caratterizzate da anomalie carioti-piche (trisomie, disomie) : basti pen-sare alla sindrome di Down caratteriz-zata non da un incremento di muta-zioni aspecifiche, ma da forme neo-plastiche peculiari per sede e forma, meglio interpretabili come il prodotto di un assetto genomico sbilanciato in quanto trisomico . Un dato particolar-mente interessante, per quanto con-cerne la tesi di Duesberg, è che a pa-rere del noto virologo e biologo mo-lecolare è possibile mettere in paral-lelo il processo di oncogenesi e quel-lo di speciazione, riconoscendo in un rimescolamento cromosomico la tra-sformazione genomica fondamenta-le all’origine dei due processi (il tem-po di latenza tipico della gran parte di forme neoplastiche rifletterebbe l’im-probabile composizione, in seguito ad alterazioni casuali del processo mito-tico, di un assetto cariotipico vitale o addirittura vantaggioso per le cellule trasformate, come per le specie ne-oformate) . Tuttavia, a ben vedere, la tesi “rivoluzionaria” di Duesberg (che,

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come è noto, riprende una delle pri-missime ipotesi concernenti la carci-nogenesi, formulata da Boveri quasi un secolo fa ) è tale solo in parte: nel senso che Duesberg non rifiuta l’idea delle mutazioni stocastiche e sequen-ziali, piuttosto antepone cronologica-mente ad esse un meccanismo non meno aleatorio, consistente appun-to nell’alterazione dell’assetto cromo-somico in seguito a un’alterazione del processo mitotico.

Le suaccennate critiche sollevano dubbi e pongono problemi di gran-de rilievo e potrebbero essere di per sé sufficienti a proporre una seria revi-sione critica del paradigma di cancero-genesi dominate. Ma dal nostro punto di vista esistono altre e ancor più vali-de ragioni per mettere in discussione il modello SMT.La prima di queste ragioni consiste nel fatto che un tale modello relega l’am-biente ad un ruolo tutto sommato se-condario, essenzialmente “selettivo” nei confronti di trasformazioni gene-tiche, viste come essenzialmente ca-suali/stocastiche. questo fa sì che nel-la valutazione della gran parte di epi-demiologi e ricercatori in genere che si occupano della valutazione dei rischi di cancro legati ad una esposizione di-retta o indiretta ai principali fattori cancerogeni, la percentuali dei tumo-ri verosimilmente legati a tale esposi-zione oscillerebbe tra un trascurabile 3-4 % e un già più rilevante (e plau-sibile) 20% circa . All’origine di valu-tazioni tanto discordanti non possono che esserci modalità e criteri di valuta-zione assai differenti : se si sceglie di prendere in considerazione soltanto situazioni in cui il nesso causa-effetto tra un agente cancerogeno e un certo tipo di cancro sia provato con assolu-ta certezza (es. tra amianto e mesote-lioma), i numeri saranno di entità tra-scurabile; se si dà valore a tutte quel-le situazioni in cui un nesso tra espo-sizione e insorgenza di patologie ne-oplastiche sia possibile o probabile, la situazione sarà già diversa. Ma le maggiori differenze di valuta-zione dipendono essenzialmente dai modelli di cancerogenesi utilizzati: se, ad esempio, si pensa che soltan-to esposizioni massive ad agenti fisici (radiazioni ionizzanti) o chimici (agen-

ti mutageni) possano indurre danni genetici e che solo in questi casi un certo tipo di cancro possa essere ri-conosciuto come “prodotto da cau-se ambientali”, allora i numeri saran-no trascurabili; se invece il cancro è vi-sto come il prodotto di un processo di lungo periodo che si estrinseca tan-to a livello tessutale, che cellulare, che molecolare (e in particolare genomi-co) come processo reattivo a una no-tevole quantità di agenti e stimoli dif-ferenti, di diversa natura (chimici, fi-sici..), di intensità anche minima, ma in grado di agire in modo persistente e sinergico (radiazioni ionizzanti, virus, microrganismi ed agenti chimici non mutageni ma dotati di azione pro-flo-gistica e pro-cancerogena…) il discor-so cambia radicalmente. E’ infatti possibile ipotizzare che l’esposizione a una quantità crescen-te di agenti chimico-fisici “nuovi sul piano bio-evolutivo” e in particolare di molecole xenobiotiche prodotte in-tenzionalmente o come scarti di pro-cessi antropici e di radiazioni ionizzan-ti e non di varia frequenza e intensi-tà possa determinare una continua attivazione cellulare ed epigenetica e quindi una condizione di stress ge-nomico che nel medio-lungo termi-ne può bypassare e persino sovverti-re i meccanismi compensatori (forniti in particolare da alcune proteine del-lo stress) che il processo evolutivo ha messo a punto per far fronte alle tra-sformazioni ambientali . E’ del resto ormai ampiamente dimostrato come le informazioni e sollecitazioni pro-venienti dall’ambiente inducano con-tinuamente la parte più dinamica del genoma, l’epigenoma, a modificarsi cambiando, di conseguenza, l’asset-to tridimensionale della cromatina , regolando l’accesso al Dna dei fatto-ri di trascrizione e degli altri comples-si proteici deputati alla modulazione espressiva ed evolutiva del genoma e quindi del fenotipo cellulare e come siano proprio tali modifiche epigeneti-che, almeno in parte ereditabili da una generazione cellulare all’altra, a deter-minare tanto il fisiologico processo di differenziazione morfo-funzionale delle cellule dei diversi tessuti, quanto le modificazioni patologiche (e in par-ticolare neoplastiche). Già da questi pochi accenni ad alcuni

meccanismi epigenetici che la moder-na biologia molecolare ha documen-tato negli ultimi anni, traspare l’esi-genza e la concreta possibilità di defi-nire un nuovo modello “bio-evolutivo e cancerogenetico”, che potremmo definire per semplicità neo-lamarckia-no, nel quale l’ambiente non si limita a svolgere un ruolo “essenzialmente se-lettivo”, ma appare in grado di indurre e modulare le risposte e la trasforma-zione progressiva del genoma e del fenotipo, tanto in senso fisiologico che patologico, tanto in ambito onto-genetico (individuale), che filogeneti-co (di specie) . Su queste basi il pro-cesso neoplastico si verrebbe a con-figurare come la fase finale di un pro-cesso evolutivo (reattivo/adattativo) distorto, all’origine del quale sarebbe-ro alterazioni dell’assetto epi-genetico a carico delle cellule staminali del tes-suto colpito o delle cellule embrio-fe-tali in via di differenziazione durante l’ontogenesi.Alla base di una simile trasformazione del paradigma cancerogenetico è evi-dentemente una concezione radical-mente diversa del genoma e dei mec-canismi del danno genetico: anziché come una molecola essenzialmente stabile (per milioni di anni), possibile sede di processi degenerativi essen-zialmente stocastici, legati a una sorta di deperibilità intrinseca/parafisiologi-ca e bersaglio passivo, di agenti chimi-ci, fisici o biologici (mutageni o meno), il Dna, o per meglio dire il genoma, viene infatti a configurarsi come un network molecolare complesso, dina-mico e interattivo al suo interno e con l’ambiente, le cui modifiche e trasfor-mazioni (ivi comprese le mutazioni e le aberrazioni cromosomiche e cario-tipiche più complesse che caratteriz-zano il processo neoplastico) rappre-sentano il prodotto di un processo at-tivo e reattivo di auto-ingegnerizza-zione molecolare . In questo contesto trova un senso più profondo anche il modello proposto da Duesberg, se-condo cui il cancro sarebbe il prodot-to di un rimescolamento cromosomi-co, piuttosto che di mutazioni stoca-stiche del Dna: si tratterebbe però di un processo di rimescolamento ge-nomico attivo e reattivo a condizioni di stress molecolare. Un processo che secondo alcune ricerche recentissime

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potrebbe addirittura prodursi (almeno in alcuni casi) in modo “repentino e ca-tastrofico”, configurandosi come una sorta di crisi dell’intero sistema geno-mico, piuttosto che come il prodot-to di un lento e progressivo accumu-lo di mutazioni stocastiche, descritto nel modello SMT (il che consentireb-be, sia detto per inciso, di proporre un ulteriore parallelismo tra i nuovi mo-delli di cancerogenesi e i modelli evo-luzionistici post(neo)darwiniani –la cui validità è ormai quasi universalmente riconosciuta - che vedono nel proces-so bio-evolutivo una sequenza di crisi biologiche anche drammatiche, piut-tosto che un progressione graduale, continua e costante). Già sulla base di quanto detto fin qui dovrebbe essere evidente come, nell’ambito del “nuovo modello”, le mutazioni e aberrazioni cromosomi-che procancerogene, abitualmente definite “stocastiche”, non siano tali. Accettare un modello di genoma net-work molecolare unitario, dinamico e interattivo, composto di una parte re-lativamente stabile, la molecola base del Dna, che contiene essenzialmen-te la memoria di specie e che in con-dizioni naturali muta lentamente, nel corso di milioni di anni, e da un com-plesso assai più dinamico, interattivo con l’ambiente e continuamente mu-tevole, definito come epigenoma (per cui se il Dna può esser paragonato all’hardware, l’epigenoma rappresen-ta il software che dirige le operazio-ni) , significa riconoscere le modifiche a carico del genoma come eventi mo-lecolari attivi (reattivi, difensivi): in una parola adattivi a un ambiente in con-tinua trasformazione e, in particolare, ad una esposizione sempre più massi-va a molecole chimiche ed agenti fisici potenzialmente (epi)genotossici. Lo studio delle interazioni tra ambien-te ed epigenoma e delle continue tra-sformazioni di questo ha, in effetti, mostrato in che modo ciò che man-giamo e respiriamo e persino ciò che ascoltiamo, percepiamo e pensiamo possa interferire con l’assetto del sof-tware: come ogni informazione che giunge dall’ambiente possa attivare o disattivare, aprire o chiudere tutta una serie di circuiti biochimici intercellula-ri e intracellulari e, in ultima analisi, in-durre dapprima una trasformazione

praticamente immediata e reversibile del software , quindi, nel medio-lun-go termine e in modo potenzialmen-te irreversibile, dello stesso hardware: l’esempio più emblematico in tal sen-so concerne, almeno per il momento, proprio la cancerogenesi. Sappiamo, infatti, che uno stress (epi)genetico protratto è destinato a pro-durre, nel medio-lungo termine, un’attivazione genomica sistemica, caratterizzata da una ipo-metilazio-ne progressiva e globale del Dna e da una iper-metilazione distrettuale a ca-rico delle isole CpG (normalmente ipo-metilate ) della regione del promoto-re di geni oncosoppressori. L’ipome-tilazione globale del DNA favorireb-be tanto l’instabilità genomica - ac-centuando la mobilità delle sequenze trasponibili (possibilmente deputate a un lavoro di ingegnerizzazione del lo stesso genoma) e determinando la perdita dell’imprinting di alcuni geni-chiave - che quella cromosomica (de-stabilizzando i centromeri, favorendo quindi una condizione di aneuploidia e incrementando i tassi di ricombinazio-ne: il che predispone a perdita di ete-rozigosi-LOh e apre la strada a riarran-giamenti cromosomici ). L’ipermetila-zione selettiva delle isole CpG agisce invece bloccando l’azione di numerosi geni oncosoppressori che come p21 , p14, p15, p16 , p73 , Rb controllano i programmi di proliferazione cellulare, o come TMS-1, regolano l’apoptosi , o come i componenti della BRCA pa-thway, regolano i meccanismi di ripa-razione del DNA . Un ruolo importan-te è infine svolto, a livello post-tradu-zionale, dai network degli Rna minori , il cui funzionamento appare alterato in molte forme di cancro. Per concludere dobbiamo sottolinea-re come anche i dati epidemici sem-brino contraddire alla radice il para-digma SMT. E’ infatti noto come negli ultimi tre decenni l’aumento della pa-tologia neoplastica abbia interessato tutte le età (e non soltanto gli anzia-ni), compresi i bambini e in particolare i più piccoli tra loro (al punto che i casi di tumore del primo anno di età sa-rebbero circa otto volte i “casi attesi”): una situazione assolutamente impre-vedibile sulla base del modello SMT (se le mutazioni fossero realmente stoca-stiche, non si spiegherebbe un incre-

mento così rapido).Se è vero, infatti, che il 60% dei tumo-ri colpisce l’anziano (con 3/4 dei casi > 60 anni) e che soltanto l’1% di tut-ti i casi si verifica in bambini, occorre però sottolineare che in cifre assolu-te questo significa, vista la grande fre-quenza della malattia nel mondo in-dustrializzato, che oggi in un bambino su 500 ca. viene diagnosticato un can-cro; che oltre 13 mila bambini si am-malano ogni anno di cancro nei soli US; che l’incremento di tumori in età pediatrica è stato negli ultimi 20 anni costante;che nonostante i significativi miglioramenti prognostici degli ultimi decenni il cancro rappresenta ormai la prima causa di morte per malattia in età pediatrica.Ancora peggiori sembrano essere le notizie concernenti i bambini italia-ni. I recenti dati del Rapporto AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) 2008 sui tumori infantili dimostrano infatti come i dati di incidenza e gli an-damenti temporali siano in Italia peg-giori che negli altri paesi europei e ne-gli USA: “Il tasso di incidenza per tutti i tumo-ri pediatrici in Italia (175,4 casi per mi-lione/anno nel bambino, 270,3 casi nell’adolescente) è più alto di quello rilevato negli anni novanta negli Sta-ti Uniti (158) e in Europa (140).. In Ger-mania è 141, in Francia è 138… Tra il 1988 e il 2002 si è osservato un au-mento della frequenza (per tutti i tumori) del 2% annuo passando da 146,9 casi nel periodo 1988-1992 a 176,0 casi nel periodo 1998-2002. L’in-cremento più consistente riguarda i bambini al di sotto di un anno di età (+3,2%), seguiti da quelli di età com-presa tra i 10 e i 14 anni (+2,4%). Tutti e tre i tumori più frequenti nei bambini sono in aumento: le leucemie (+1,6% annuo), i tumori del sistema nervoso centrale (+2,0% annuo) e soprattutto i linfomi (+4,6% anno)”.Il dato in assoluto più preoccupan-te, concerne l’incremento delle neo-plasie del primo anno di vita: in primis perché, in questo caso, non è di cer-to possibile proporre quale causa pri-ma l’incremento/accumulo nel tem-po di lesioni ossidative a carico del DNA e/o il progressivo indebolimento dei meccanismi di riparazione del DNA e/o le trasformazioni para-fisiologiche

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(es: ipometilazione diffusa e instabili-tà epi-genomica diffusa) legate all’in-vecchiamento (ageing) dei tessuti; ma anche e soprattutto in quanto, come è ormai noto, la gran parte di queste neoplasie è il prodotto di un’esposi-zione diretta del feto o dei genitori e dei loro gameti . Una evidente conferma di quanto so-stenuto per decenni da Lorenzo To-matis, circa la possibile trasmissione transplacentare - da esposizione em-brio-fetale diretta a fattori fisici (es. radiazioni ionizzanti), biologici (virus) o chimici (xenobiotici) - e/o trans-ge-nerazionale - da modifiche epigene-tiche o genetiche a carico dei game-ti, potenzialmente accumulabili e tra-smissibili da una generazione all’altra - del cancro : il che impone di prendere in seria considerazione l’ipotesi di una progressiva amplificazione trans-ge-nerazionale del danno. ¢

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❚❘❘ RiassuntoL’evidenza che l’inquinamento dell’aria sia causa di tumori del polmone è convincente. Tutti gli studi prospet-tici condotti negli Stati Uniti e in Eu-ropa hanno stimato rischi consistenti per il carcinoma polmonare in relazio-ne alla esposizione a particolato fine. Gli stessi risultati sono stati ritrovati in studi caso-controllo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che ad ogni incremento di esposizione di 10 ug/m3 di particolato fine sia asso-ciato un incremento di rischio dell’8%. Si può stimare che in un’area inquina-ta, una quota del 20% dei casi sia attri-buibile all’inquinamento atmosferico.

Numerose sono anche le evidenze di una relazione tra leucemie infantili e esposizione all’inquinamento prodot-to dal traffico veicolare. Per i tumo-ri della mammella vi sono alcuni stu-di che sembrano indicare un aumen-to di rischio per esposizioni in parti-colari momenti della vita della donna. Poiché l’inquinamento atmosferico è responsabile anche di molti altri ef-fetti negativi sulla salute umana, esso deve diventare una priorità per la sani-tà pubblica. ¢

❚❘❘ Parole chiave: inquinamento, aria, tu-

mori. ¢

Tumore del polmone

Il maggior determinante del can-cro polmonare è rappresentato dal

fumo di sigaretta (1); altri sono co-stituiti dalle esposizioni professiona-li e dalla dieta (2). Il cancro del polmo-ne è una patologia a lunga latenza ed il rischio è determinato dalla esposi-zioni avvenute negli anni precedenti. questo preclude che si possa diretta-mente confrontare il rischio di tumo-re polmonare in popolazioni esposte a diversi livelli di inquinamento. Il ruolo del fumo di sigaretta è talmente forte che basterebbe una piccola differenza nelle abitudini tabagiche delle popola-zioni che si confrontano per alterare

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54G.I.M.A.il cesalpino

la stima del ruolo dell’inquinamento.Per studiare il ruolo dell’inquinamen-to atmosferico per il tumore del pol-mone è quindi necessario effettuare studi analitici, cioè basati sulla osser-vazione di individui e, per ciascun sog-getto, disporre sia di informazioni sul fumo e possibilmente anche sugli al-tri determinanti. Tutti gli studi utilizza-ti in questa revisione hanno analizzato l’effetto dell’inquinamento tenendo conto almeno del fattore più impor-tante: il fumo di sigaretta. Molti degli studi considerati hanno anche tenuto conto delle esposizioni professionali e della dieta. Se è relativamente semplice rilevare in modo anamnestico il fumo, le esposi-zioni professionali e le abitudini diete-tiche, il livello quantitativo delle espo-sizioni ad inquinanti, specie per i livel-li di esposizioni passate, non è diret-tamente ottenibile del soggetto. Al soggetto vengono quindi attribuite le esposizioni dell’ambiente in cui ha vissuto, quasi sempre ricavate da mi-sure effettuate da agenzie pubbliche. E’ anche necessario disporre di que-ste misure oppure ricorrere a stime per un congruo periodo precedente la diagnosi. Il rischio di tumore polmo-nare è infatti determinato dalla espo-sizione cumulativa a cancerogeni ed il tumore polmonare presenta lunghi tempi di latenza.Sulla relazione tra tumori del polmo-ne e inquinamento atmosferico sono stati reperiti ed inclusi in questa revi-sione 7 studi prospettici (3-9) e 9 studi di tipo caso controllo (10-18).Il primo e fondamentale studio, pub-blicato nel 1993 (19) sul ruolo dell’in-quinamento sulla salute, è lo studio delle sei città americane. In questo studio l’esposizione individuale è stata stimata dai livelli misurati nella città di residenza. questo studio è importan-te perché, quando ancora non erano disponibili misure del particolato fine, venne impiantata una rete di misura-tori per il PM2.5. I risultati, pubblica-ti nel 1993, furono molto diffusi e sti-molarono l’analisi della grande coorte della American Cancer Society. Più tar-di furono pubblicati studi realizzati in Europa. Tutti questi studi indicano un aumento di rischio compreso tra 1.03 (6) e 1.27 (19). Da una analisi dei mag-giori studi prospettici, l’Organizzazio-

ne Mondiale della Sanità (20) ha stima-to un aumento del rischio pari 1.08 per ogni10 ug/m3 di PM2.5. Esistono inoltre forti evidenze che gli effetti a lungo termine siano in relazione linea-re con i livelli di particolato e che non esistano soglie (21).I valori di rischio relativo stimati sia da-gli studi prospettici, sia dagli studi ca-so-controllo presentano un range tra 3.36 ed 1.06. Si tratta di valori modesti se paragonati ai fumo attivo di tabac-co. Tuttavia, date le dimensioni delle popolazioni esposte e dei livelli medi di inquinamento elevati, questi rischi esprimono effetti importanti in termi-ni di salute delle popolazioni esposte.Ad esempio, se si considera che i livel-li di particolato fine a Milano sono da ritenersi attorno ai 50 ug/m3, e che i livello indicato dalla Comunità Euro-pea come obiettivo per il 2010 è di 20 ug/m3, si può stimare che il rischio re-lativo della popolazione di Milano, ri-spetto al livello obiettivo della CE sia di 1.24.La proporzione di casi di tumore pol-monare attribuibili all’inquinamento sarà:(1.24-1)/1.24 = 0.19cioè quasi il 20% dei tumori polmona-ri che si verificano nella popolazione sono dovuti alla differenza di esposi-zione tra i livello obiettivo della CE (20 ug/m3) ed il livello attuale di partico-lato nell’aria milanese (22). questo non significa che circa il 90% dei tumori polmonari dei milanesi non sia anche attribuibile al fumo di sigaretta. Nono-stante il rischio di tumore polmonare sia determinato in larga misura dalla dose cumulativa di cancerogeni, la ri-duzione della esposizione a particola-to ha effetti importanti. Una recente ri-analisi (23) della coorte delle sei cit-tà americane ha dimostrato che una diminuzione dell’inquinamento com-porta, dopo soli 3 anni, una diminu-zione anche del rischio di carcinoma polmonare. questo dato ha importan-ti implicazioni di carattere preventivo, in quanto qualsiasi riduzione dei livel-li di inquinamento non comporta solo la riduzione, immediata, degli effetti a breve termine, ma anche, in un tem-po estremamente breve, degli effetti a lungo termine, molto più importan-ti come numero di soggetti affetti e come gravità. ¢

Mammella femminile

Vi sono evidenze che gli idrocarburi aromatici policiclici (IAP) possano

indurre tumori alla mammella nell’ani-male da esperimento (24). Esiste inol-tre uno studio caso-controllo di popo-lazione (25), che ha considerato 1068 casi e 1944 controlli di cui è stata otte-nuta una storia residenziale comple-ta. L’esposizione ad IAP è stata stima-ta con un modello che ha considera-to sia i dati di traffico sia le condizioni meteorologiche. L’aspetto importan-te di questo studio è la caratterizza-zione della esposizione in due perio-di importanti per lo sviluppo e la diffe-renziazione della ghiandola mamma-ria: il menarca e l’età al primo figlio. Ri-schi superiori all’unità sono stati otte-nuti solo nelle donne non fumatrici e per l’età al menarca solo nelle donne in premenopausa, mentre l’esposizio-ne al momento della nascita del pri-mo figlio si è rivelata importante sia in pre- sia in post-menopausa. L’esposi-zione ad inquinamento atmosferico in particolari periodi della vita della don-na è probabilmente associabile ad un eccesso di rischio e questi risultati do-vrebbero essere oggetto di ulteriori ricerche.¢

leucemie infantili

I tumori infantili sono in aumento. Una recente monografia dell’Asso-

ciazione Italiana Registri Tumori (26) mostra un aumento del 1.6 % annuo per le leucemie, del 4.6 %per linfo-mi e del 2.0 % per i tumori del sistema nervoso. questo dato, non riconduci-bile a miglioramenti diagnostici, indica nell’ambiente una causa possibile di questi tumori, dato l’enorme aumen-to dell’uso di combustibili fossili che si è verificato negli ultimi anni. E’ anche plausibile che i bambini rappresentino una popolazione particolarmente su-scettibile, dato l’elevato turn-over cel-lulare e il minor peso corporeo (27).Abbiamo reperito numerosi lavori (28-41) molti dei quali mostrano un rischio aumentato di leucemie nel bambino per esposizione ai prodotti di combu-stione del traffico veicolare.Con la medesima metodologia utiliz-zata per lo studio referenziato in (39), knox trova una relazione tra tumo-ri infantili e cancerogeni in atmosfe-ra (42) e con i processi di combustione

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55G.I.M.A. il cesalpino

del petrolio (43).Esistono anche evidenze in favore della associazione tra traffico veico-lare e leucemie basate su studi eco-logici. Uno studio condotto a Lon-dra (44) e basato sull’inventario delle emissioni mostra una chiara relazione tra l’incidenza di leucemie e le emis-sioni di benzene, in primo luogo da traffico veicolare. In California è stata rilevato un RR di 1.15 per le microa-ree con maggior esposizione a traffi-co (45) ed un aumento di rischio dose-dipendente da esposizione ambienta-le alle sostanze cancerogene conside-rate nel loro insieme (46). Uno studio condotto sull’incidenza dei tumori di ogni sede ad Amsterdam (47) ha fat-to rilevare un RR di 2.63, basato su 5 casi con residenza in strade a grande traffico rispetto al resto della città. E negli Stati Uniti un lavoro basato sulla mappa delle esposizioni a benzene e 1-3 butadiene, dovute principalmente a traffico veicolare, ha rilevato per le aree a maggior concentrazione (5.5 vs 1.2 ug/m3 di benzene) un rischio do-se-dipendente di 1.37 (48). Un recen-te studio condotto a Taiwan (49) trova inoltre una relazione, dose dipenden-te, tra la densità di distributori di car-burante ed il rischio di leucemia infan-tile, con un rischio di 1.91 per le aree a densità più elevata. ¢

Conclusioni

L’associazione tra inquinamento at-mosferico e tumore del polmone

è supportata da numerosi dati di let-teratura. Pur avendo valutato l’espo-sizione con metodologie diverse, i ri-sultati degli studi sono concordanti anche per il valore del rischio relativo, che si situa tra 1.08 e 1.12 per ogni in-cremento di 10 ug/m3 di concentra-zione di particolato fine (PM2,5). An-che per le leucemie infantili l’evidenza è solida. Per i tumori della mammel-la femminile vi sono indicazioni di esi-stenza di un rischio. Complessivamen-te l’informazione disponibile indica la necessità di una azione incisiva con-tro l’inquinamento da traffico, specie nelle aree più inquinate. Senza que-sta azione le vittime dell’inquinamen-to continueranno a costituire un im-portante carico di sofferenza per l’in-tera collettività. ¢

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EsPosizioNe a fattori CaNCeroGeNi, MUtazioNi GeNetiChe iNdotte e aPProCCi teraPeUtiCi

differeNziali: IL MODELLO DEL CARCINOMA POLMONARE NON-A PICCOLE CELLULE (NSCLC).

Sergio Bracarda, Sabrina Giusti, Ori Ishiwa.

U.O.C. di Oncologia Medica, Dipartimento di Oncologia USL 8 Arezzo. Istituto Toscano Tumori (ITT).

Il carcinoma polmonare, rappresen-ta ancor‘oggi la prima causa di mor-

te per cancro nel mondo occidenta-le. Con 215.000 nuovi casi e 161.840

morti all’anno (US, 2008), questa ne-oplasia è infatti responsabile di un numero di decessi superiore a quel-li consegueni a tumore della mam-

mella, prostata e colon messi insie-me. Nonostante i progressi della ricer-ca scientifica, inoltre, la sopravvivenza a 5 anni è rimasta sostanzialmente in-

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57G.I.M.A. il cesalpino

variata (solo il 15 % dei pazienti è an-cora vivo a 5 anni dalla diagnosi, linee guida AIOM 2009), mentre nei prossi-mi anni ci si attende addirittura un au-mento di incidenza e mortalità nelle donne, a fronte di una notevole dimi-nuzione di mortalità (10-25%) nei ma-schi, con un trend simile sia negli Stati Uniti che in Europa.

La maggior parte dei casi di tumori del polmone (circa il 70%) viene ancor’og-gi diagnosticato in fase avanzata. La diagnosi istologica prevalente di que-sti casi è quella di carcinoma polmo-nare non a piccole cellule (circa 80 % dei casi), va tuttavia osservato che la semplice e grossolana distinzione tra microcitoma e non-microcitoma, ac-cettata dagli anni 70 ad oggi, non è più ritenuta sufficiente dall’Oncologo, dato che impedisce una programma-zione terapeutica ottimale (chemio-terapia, e con quali farmaci, o tratta-mento con farmaci a bersaglio mole-colare). La definizione di una sottoti-pizzazione istopatologica (carcinoma squamocellulare, adenocarcinoma, carcinoma a grandi cellule, carcino-ma bronchioloalveolare, etc), da par-te dell’anatomopatologo o da parte di un’equipe multispecialistica, è quindi oggi ritenuta indispensabile.

Tra le cause più probabili di questo an-damento epidemiologico c’è il fumo di tabacco, ritenuto il più importante fattore di rischio per questa patologia (lo si ritiene responsabile dell’85% dei casi di tumore del polmone!). Il rischio relativo di sviluppare questa neoplasia è in stretta correlazione con il nume-ro di sigarette/die fumate, la durata in anni del vizio al fumo e il contenuto in catrame delle stesse. Il rischio relativo dei fumatori, rispetto ai non fumato-ri, è pari a 14 volte, mentre quello dei forti fumatori (identificati con i sog-getti che fumano più di 20 sigarette al dì) è pari a 20 volte. Anche l’esposizio-ne al fumo passivo è pericolosa, per-chè riconduce il non fumatore ad una condizione di rischio simile a quel-la del fumatore. Dal momento della cessazione dell’abitudine al fumo il ri-schio si riduce progressivamente, ma nel corso dei 10-15 anni successivi. Al-tri fattori di rischio valutati sono l‘in-quinamento atmosferico, oggi rico-

nosciuto come importante fattore causale in una percentuale che varia tra il 20 e il 50-100% die casi a secon-da delle aree geografiche e delle po-polazioni studiate; l’esposizione lavo-rativa a sostanze come asbesto, cro-mo arsenico, berillio, cloruro di vinile, idrocarburi aromatici policiclici e ra-don. E’ molto probabile un effetto di potenziamento reciproco tra cance-rogeni presenti nell’ambiente e fumo di tabacco.Esiste una classe di pazienti defini-ta never-smoker che sviluppa tutta-via tumori del polmone in assenza di storia di fumo di sigaretta, in que-sto gruppo di patologia l’adenocarci-noma è l’istotipo più frequente e ad esserne maggiormente interessate sono le donne. questi pazienti (circa il 25% dei casi) presentano con mag-giore frequenza mutazioni del gene EGFR (Epidermal Growth Factor Re-ceptor) e, di conseguenza i farmaci a bersaglio molecolare anti EGFR (EGFR Inhibitors) sono in questo gruppo più attivi. Per identificare i pazienti candi-dabili a trattamento con inibitori-EG-FR con elevate probabilità di succes-so sono state identificate, oltre a que-ste caratteristiche fenotipiche “pro-babilistiche“ (sesso femminile, istolo-gia di adenocarcinoma, non-fumatri-ce, origine asiatica) alcune caratteristi-che biologiche specifiche del tumo-re predittive di risposta a questi far-maci: espressione immunoistochimi-ca dell’EGFR, amplificazione dell’EGFR (identificata mediante FISh), mutazio-ni geniche attivanti dell’EGFR (delezio-ne dell’esone 19, sostituzione L858R dell’esone 21). Sono state individuate anche mutazioni geniche (ad esem-pio dei geni k-ras e Met ma anche di EGFR) in grado di conferire al tumore resistenza al trattamento con questi nuovi farmaci. Recentemente è stato inoltre identificato un nuovo bersa-glio terapeutico, per un farmaco de-nominato crizotinib, nel gene di fu-sione EML4-ALk (echinoderm micro-tubule-associated protein-like 4 ana-plastic lymphoma kinase), espresso nel 5% nei pazienti affetti da neoplasia del polmone non-microcitoma, sem-pre non fumatori e senza mutazioni dei geni EGFR e kRAS. In conclusione i tumori del polmone “non-microcitoma“ possono essere

distinti in due grossi gruppi in base a diversi meccanismi causali: fumo di si-garetta vs non fumo di sigaretta. I due gruppi di tumori hanno diverse storie naturali e diverse possibilità di risposta al trattamento, in altre parole sono tu-mori “geneticamente“ diversi, con un reale attuale vantaggio in termini di ri-sposta e potenzialmente di sopravvi-venza soltanto nel sottogruppo dei non fumatori. Data la persistente altissima quota di tumori polmonari derivanti dal fumo di sigaretta si può quindi concludere che solo una importante e seria cam-pagna contro il fumo, rivolta soprat-tutto verso le classi di popolazione a maggior rischio, e cioè le giovani don-ne, unita ad una sistematica, capillare (e difficile) lotta all’inquinamento am-bientale potrà ridurre l’incidenza del tumore del polmone, il persistente “big killer number one“ delle patolo-gie tumorali. ¢

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58G.I.M.A.il cesalpino

TelefoNi Mobili e tUMori alla testa: UN aGGiorNaMeNto iNdisPeNsabile

Angelo Gino Levis* (già Prof. Ordinario di Mutagenesi Ambientale, Università di Padova; AP-PLE e CTS/ISDE-Italia) e Spiridione Garbisa (Prof. Ordinario di Istologia,

Università di Padova).

❚❘❘ RiassuntoVengono analizzati i risultati degli ulti-mi lavori di L. hardell e quelli del Pro-getto Interphone – varato nel 2001 dall’Agenzia Internazionale per le Ri-cerche sul Cancro (IARC) e dalla Com-missione Europea (CE) – sul rischio di tumori maligni e benigni alla testa in utilizzatori di telefoni mobili (TM: cel-lulari e cordless). Si rafforzano così le conclusioni già raggiunte in prece-denza: i dati di hardell mostrano che la lunga latenza o l’uso prolunga-to [maggiore o eguale (≥) a 10 anni] di TM comporta un aumento netto (≥ 100%) e statisticamente significati-vo (s.s.) del rischio di tumori ipsilatera-li maligni al cervello (gliomi) e benigni al nervo acustico (neuromi). Invece i dati dell’Interphone sembrano non evidenziare alcun aumento del rischio di tumori alla testa negli utilizzatori di soli cellulari (no cordless). L’analisi cri-tica dei diversi protocolli usati e delle modalità di presentazione dei dati ot-tenuti consente l’identificazione di er-rori metodologici e condizionamenti, e permette di evidenziare che anche i dati dell’Interphone, nei quali venga esaminata la localizzazione ipsilatera-le dei tumori su un numero adeguato di soggetti esposti da o per ≥ 10 anni, confermano un aumento netto e s.s. del rischio di gliomi, neuromi e tumo-ri parotidei ¢

❚❘❘ Parole chiaveTelefoni mobili (cellulari e cordless), tumo-

ri alla testa, studi epidemiologici, condizio-

namenti e conflitti di interesse ¢

Introduzione

Abbiamo già fornito su questa Ri-vista, vedi bibliografia, un quadro

esauriente sull’aumento del rischio di tumori alla testa provocato dall’uso volontario di TM1-3 . Da un lato har-dell – mediante studi epidemiologi-ci caso-controllo, analisi “pooled” dei suoi dati raccolti negli anni 1997-2003, e metaanalisi di tutti i dati della let-teratura sull’argomento – ha eviden-ziato, negli utilizzatori di TM da o per ≥ 10 anni, aumenti s.s. e consisten-ti (≥100%) del rischio di tumori mali-gni al cervello (gliomi) e benigni al ner-vo acustico (neuromi). Tale aumento è prevalente sul lato della testa usato abitualmente per telefonare (tumo-ri ipsilaterali) ed è più elevato nei sog-getti che hanno iniziato ad usare i TM in giovane età (prima dei 20 anni) o che li hanno usati in situazioni nel-le quali il segnale elettromagnetico (e.m.) necessario per telefonare era particolarmente carente – come av-viene nelle zone rurali a causa dello scarso numero di ripetitori per la te-lefonia mobile – e perciò è compensa-to da una emissione e.m. della batte-ria del cellulare fino a 100 volte più alta rispetto a quanto si verifica nelle zone urbane, ricche di ripetitori. I lavori dell’Interphone sembrano invece non evidenziare aumenti del rischio di tu-mori alla testa (gliomi cerebrali, neu-romi acustici e tumori parotidei) lega-to all’uso di soli cellulari (no cordless). Per chiarire questa discrepanza abbia-mo seguito il procedimento suggerito anche da Rothman4 il quale, sulla base dell’ipotesi che “una serie di decisio-ni metodologiche, di strumenti anali-tici e di modalità di presentazione dei dati siano la spiegazione più plausibi-le della discordanza tra i dati di har-dell e quelli dell’Interphone”, ritiene che “una ragionevole priorità per chi

volesse cimentarsi con una revisione della letteratura sull’argomento do-vrebbe consistere nell’esaminare con più attenzione le differenze metodo-logiche fra i due protocolli in questio-ne”. Abbiamo quindi identificato3 er-rori metodologici e condizionamenti nei lavori del’Interphone che ne ren-dono privi di valenza scientifica gran parte dei risultati e che sono invece assenti nei lavori di hardell, i cui risul-tati appaiono del tutto affidabili3. Ma anche tra i dati dell’Interphone abbia-mo potuto evidenziare – sulla base dei dati che rispondono a requisiti es-senziali alcune volte soddisfatti (tem-po di latenza o durata dell’esposizione ai cellulari compatibili con lo sviluppo dei tumori in esame; analisi della late-ralità dei tumori rispetto alla lateralità d’uso dei cellulari; n. congruo di casi e di controlli esposti e non esposti, e percentuale elevata ed equilibrata del-la loro partecipazione allo studio) – au-menti s.s. e rilevanti del rischio di glio-mi, neuromi e tumori parotidei2,3.¢

Materiali e metodi

Stabilito e ampiamente documen-tato quanto sopra, ci sembra uti-

le esaminare alcuni risultati partico-larmente significativi pubblicati dai 2 gruppi di Autori a partire dalla secon-da metà del 2009 (v. Bibliografia). I cri-teri per la valutazione dell’appropria-tezza delle metodologie usate sono gli stessi indicati ai punti 1 – 8 della se-zione “Materiali e Metodi” del nostro articolo precedente3, e la definizione dei parametri statistici per la valuta-zione degli incrementi di rischio (OR, Odds Ratio, cioè rapporto di inegua-glianza; IC95%, Intervallo di Confiden-za significativo al 95%) è riportata nel-

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59G.I.M.A. il cesalpino

la nota a piè pagina della stessa se-zione. ¢

Risultati.

1 I dati recenti di hardell hardell ha pubblicato una 3a metaanalisi dei

dati della letteratura5 ed ha mostrato (TABellA 1) che, se si prendono i dati complessivi di 10 studi caso-control-lo sull’incidenza di gliomi tra gli utiliz-zatori di TM (7 studi dell’Interphone, 2 di altri Autori e 1 di hardell), non si evidenzia alcun aumento del rischio. Ma, se da questi stessi lavori si sele-zionano solo i dati relativi ai sogget-ti con ≥ 10 anni di latenza e si separa-no i dati a seconda della lateralità del tumore, si evidenzia un raddoppio s.s. [limite inferiore dell’IC95% maggiore (>)di 1] del rischio di gliomi ipsilaterali, ridotto ma ancora s.s. per i gliomi to-tali e ancora più ridotto e non più s.s. per i controlaterali. Analogamente per i neuromi acustici (7 lavori dell’Inter-phone, 1 di altri Autori e 1 di hardell) i dati complessivi non mostrano alcun aumento del rischio, mentre i dati re-lativi solo agli esposti da ≥ 10 anni mo-strano un aumento netto e s.s. del ri-schio di neuromi ipsilaterali, ridotto e prossimo alla significatività statisti-ca per i neuromi totali, e ancora più ridotto e non s.s. per i controlatera-

li. Infine per i meningiomi cerebrali (7 lavori dell’Interphone, 1 di altri Auto-ri e 1 di hardell) nessun dato mostra aumenti s.s. del rischio, mentre per i tumori alle ghiandole salivari (2 lavo-ri dell’Interphone e 1 di hardell) l’au-mento del rischio di tumori ipsilatera-li dopo ≥ 10 anni di latenza è rilevante e prossimo alla significatività statistica, rispetto ai valori nettamente ridotti e non s.s. per i tumori totali e per quel-li controlaterali.questi risultati confermano due aspetti fondamentali già documentati con altri esempi e con una nostra me-taanalisi2,3 :• anche i dati dell’Interphone, sele-

zionati sulla base dei criteri essen-ziali per una corretta analisi (laten-za sufficiente e identificazione del-la lateralità dei tumori), evidenziano un aumento consistente e s.s. del rischio di gliomi cerebrali e di neu-romi acustici negli utilizzatori di TM;

• c’è un chiaro rapporto causa-effet-to tra uso dei TM e rischio oncoge-no, visto che il rischio è elevato sul lato della testa abitualmente usa-to per telefonare – che è il solo si-gnificativamente irradiato – mentre viene diluito se è riferito ai tumo-ri totali e annullato per i soli tumori controlaterali.

Gli Autori dell’Interphone sostengo-no che gli aumenti del rischio onco-geno potrebbero essere dovuti alla sovrastima delle esposizioni ai TM da parte dei casi (soggetti colpiti da tu-more), i quali sarebbero portati ad at-tribuire la causa della loro malattia ai TM, esagerandone le dichiarazioni d’uso. Errori di questo tipo (“recall er-rors”) sono possibili negli studi Inter-phone il cui protocollo “non è in cie-co” – sia l’intervistatore che l’intervi-stato conoscono le finalità dello stu-dio – e i cui dati vengono raccolti me-diante interviste durante il ricovero ospedaliero, spesso nel periodo post-operatorio quando i ricordi del mala-to sono offuscati e più influenzabi-li. Tali errori non sono invece possibi-li nei lavori di hardell, il cui protocol-lo è “in doppio cieco” e i cui dati ven-gono raccolti mediante un questiona-rio inviato alle residenze dei sogget-ti in esame, durante la loro convale-scenza. Inoltre hardell ha effettuato recentemente uno studio caso-con-trollo sulle cause di mortalità, e non di incidenza, per tumori maligni al cer-vello in utilizzatori di TM deceduti pri-ma di essere inclusi nello studio epi-demiologico e che pertanto non han-no potuto influenzare la stima delle esposizioni ai TM6. Lo studio eviden-

TUMORI LATENZA IPSILATERALI TOTALI CONTROLATERALI

Gliomi

Tutti

10 anni

________

(118/145): 1,9;1,4-2,4

(1667/3554): 1,0;0,9-1,1

(233/330): 1,3;1,1-1,6

________

(93/150): 1,2;0,9-1,7

Neuromi

Tutti

10 anni

________

(41/152): 1,6;1,1-2,4

(668/3581): 1,0;0,8-1,1

(67/311): 1,3;0,97-1,9

_________

(26/134): 1,2;0,8-1,9

Meningiomi

Tutti

10 anni

_________

(48/141): 1,3;0,9-1,8

(1217/3386): 0,9;0,8-0,9

(116/320): 1,1;0,8-1,4

_________

(36/146): 0,8;0,5-1,3

Tumori alle ghiandole

salivari

10 anni

(22/61): 1,7;0,96-2,9

(28/112): 0,8;0,5-1,4

(5/34): 0,4;0,2-1,2

Autori (classi di età)

utilizzatori di cordless

A. Hardell (20-80)

cordless=esposti

B. Hardell (30-59)

cordless=esposti

C. Hardell (30-59)

cordless=non esposti

za 10 anni : tutti (88/99): 2,3 ; 1,6-3,2 (56/74) : 2,0 ;1,3-3,0 (56/74) : 1,8 ; 1,2-2,7

« :solo ipsilaterali (57/45) : 2,8 ; 1,8-4,4 (35/30) : 2,5 ;1,4-4,4 (35/30) : 2,3 ; 1,3-4,0

640 ore : tutti (42/43) : 2,3 ; 1,4-3,7 (29/37) : 1,9 ;1,1-3,3 (29/37) : 1,7 ; 1,1-3,0

« :solo ipsilaterali (29/21) : 2,9 ;1,6-5,4 (20/18) : 2,3 ; 1,1-4,7 (20/18) : 2,2 ; 1,1-4,3

Autori (classi di età)

Utilizzatori di cordless

D. Interphone (30-59)

cordless=non esposti

E. Interphone (30-59)

(Appendice 2)

cordless=non esposti

za 10 anni : tutti (252/232) : 1,0 ; 0,8-1,3 (190/150) : 2,2 ; 1,4-3,3

« :solo ipsilaterali (108/82) : 1,2 ; 0,8-1,8 non riportato

640 ore : tutti (210/154) : 1,4 ; 1,1-1,9 (160/113) : 1,8 ; 1,2-2,9

« :solo ipsilaterali (100/62) : 2,0 ; 1,2-3,2 non riportato

Tabella 1hardell 20095: metaanalisi dei dati suoi e dell’Interphone sulla correlazione tra uso di TM e tumori alla testa. (casi/control-li: OR; IC95%).

Evidenziati i dati statisticamente significativi ; sottolineati quelli prossimi alla significatività statistica.

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zia che l’uso dei cellulari produce un aumento s.s. del rischio di mortalità per tumori maligni al cervello più ele-vato nel sottogruppo con latenza ≥ 10 anni (OR=2,4; IC95%= 1,4-4,1), che au-menta con l’aumentare del numero di ore d’uso dei cellulari, raggiungendo il massimo nel gruppo con ≥ 2000 ore d’uso (OR=3,4; IC95%=1,6-7,1), quindi con un chiaro rapporto causa-effetto.Infine hardell ha confermato, con una recentissima revisione dei suoi dati7 , l’aumento rilevante (≥100%) e s.s. del rischio ipsilaterale di tumori cerebrali maligni e di neuromi acustici negli uti-lizzatori da ≥ 10 anni di telefoni cellu-lari e anche di soli cordless, ed anche i risultati delle metaanalisi dei suoi dati e di quelli “significativi” dell’Interpho-ne (v. sopra). Ed ha segnalato come, a dispetto delle sottostime effettua-te dal Registro Tumori della Svezia, l’incidenza annua aggiustata per età dei soli gliomi è aumentata (+1,55%) in maniera s.s. in Svezia nel periodo 2000-2007, e ancor più (+2,16%) nel sottogruppo di età > 19 anni, contro un aumento annuo aggiustato per età (+0,28%) di tutti i tumori cerebrali nel periodo 1970-2007. Segno evidente che dal 2000 un nuovo rischio onco-geno per i gliomi ha cominciato a ma-nifestare il suo effetto. A questo pro-posito si noti che i cellulari analogici sono stati introdotti in Svezia all’inizio degli anni ’80, i digitali a partire dal ’91 e i cordless analogici e digitali tra l’’88 e il ’90 e che, quindi, a partire dal 2000 i primi utilizzatori di TM avevano ma-turato latenze di 10-20 anni, compati-bili con la possibilità di diagnosi di una parte dei gliomi correlabili all’uso dei TM. In questo stesso articolo hardell ha messo a confronto, come abbiamo fatto nel Box 1 del nostro ultimo lavo-ro3, diversi aspetti del suo protocollo con quelli del protocollo Interphone, evidenziandone le differenze e sotto-lineando gli errori e i condizionamen-ti che determinano, nei lavori dell’In-terphone, una sistematica e sostan-ziale sottovalutazione delle stime di ri-schio. hardell ha anche segnalato al-cuni esempi di mancanza di obiettivi-tà nei giudizi espressi sull’argomento da autorevoli Autori dell’Interphone (A. Ahlbom e M. Feychting) e dai loro commentatori (h. O. Adami e D. Tri-chopoulos), concludendo che “certa-

mente questi esempi mostrano come interessi economici ed altri non svela-ti possono influenzare questa area di ricerca e precludere una valutazione obiettiva dei rischi”. In effetti il peso dei conflitti di interesse è particolar-mente rilevante nei lavori dell’Inter-phone, come abbiamo documentato nei precedenti articoli su questa Rivi-sta2,3 e in altri più recenti8,9 .

2Il rapporto conclusivo dell’Inter-phone sui tumori cerebrali questo

rapporto10 - pubblicato dopo mol-ti contrasti tra i partecipanti, che ne hanno provocato un ritardo di 5 anni rispetto a quanto inizialmente previ-sto dalla IARC – comprende i risultati relativi ai gliomi e ai meningiomi cere-brali pubblicati da 8 dei 13 gruppi na-zionali dell’Interphone, e i risultati rac-colti dagli altri 5 gruppi nazionali, pre-cedentemente non pubblicati. I risul-tati possono essere così riassunti:• complessivamente, si osserva una

riduzione s.s. del rischio [limite superiore dell’IC95% minore (<) di 1] sia per i gliomi (OR=0,81; IC95%=0,70-0,94) che per i menin-giomi (OR=0,79; IC95%=0,68-0,91) negli utilizzatori “regolari” (almeno 1 telefonata /settimana per almeno 6 mesi) di soli cellulari;

• la partecipazione dei casi allo stu-dio è scarsa (78% per i meningio-mi e 64% per i gliomi) e quella dei controlli assolutamente insufficien-te (53%);

• non si osserva nessun aumento s.s. dei valori complessivi di rischio (tu-mori totali), neppure dopo ≥ 10 anni di latenza;

• nonostante il n. di casi con ≥ 1640 ore di esposizione ai cellulari e con gliomi ipsilaterali sia limitato (100 = 6,0% su 1666 casi), si osserva un rad-doppio s.s. (OR=1,96; IC95%=1,22-3,16) del rischio di sviluppare un glioma ipsilaterale, maggiore ri-spetto ai tumori totali e ancor più rispetto ai controlaterali (rapporto causa-effetto);

• il tempo medio cumulativo dell’uso dei cellulari è molto ridotto: 75 ore per i meningiomi (mediamen-te 2 ore /mese, cioè 4 minuti/gior-no) e 100 ore per i gliomi (media-mente 2,5 ore/mese, cioè 5 minuti/giorno);

• la prevalenza di valori di OR <1 è mol-to elevata (90% circa) e più del 30% di questi sono s.s., il che sembre-rebbe indicare che l’uso dei cellulari determina una riduzione del rischio di contrarre tumori al cervello – ciò che non ha alcuna plausibilità bio-logica e non è sostenuto neppure dagli Autori stessi – ma che dipen-de invece dagli errori metodologi-ci concessi dal protocollo utilizzato;

• l’analisi limitata ai soggetti con “tem-pi cumulativi d’uso dei cellulari più elevati” mostra una netta prevalen-za di valori di OR >1: 90% per i me-ningiomi e 100% per i gliomi, e il 20% di questi ultimi è s.s., con pro-babilità praticamente nulla che que-sta distribuzione così asimmetrica dei valori di OR sia casuale;

• usando come gruppo di riferimen-to quello col tempo di latenza più breve – con lo scopo di corregge-re la sottostima del rischio – i valori di OR per i gliomi sono quasi tutti >1 (18 su 22), il 30% dei quali s.s. (6 su 18), con una chiara relazione dose-risposta (rapporto causa-effetto).

Anche Saracci e Samet11, nel loro commento allo studio Interphone10 – dal titolo molto significativo “Call me on my mobile phone ... or better not ?”, hanno sottolineato alcuni dei più importanti errori che inficiano le con-clusioni di questo studio:• la durata troppo limitata dell’espo-

sizione e/o del tempo di latenza dall’inizio dell’uso dei cellulari;

• la sistematica riduzione del rischio (mediamente dell’ordine del 30%) che ha una minima probabilità di es-sere dovuta al caso;

• l’utilizzo giornaliero troppo limitato dei cellulari anche nella categoria a più alta esposizione, rispetto all’uso intensivo che ne viene fatto oggi;

• il fatto che il rischio di tumori e an-che di malattie neurodegenerative risulta ridotto persino in alcuni studi di coorte dell’Interphone – nei quali i “biases” di partecipazione e i “recall biases” non trovano posto –, come se gli utilizzatori di cellulari costitu-issero un sottogruppo della popola-zione particolarmente in salute, ca-pace di manifestare un effetto be-nefico legato a tale uso;

• la presenza di sostanziali errori come spiegazione più plausibile dei dati

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ottenuti, tale da oscurare il possibile rischio suggerito dall’aumento qua-si sistematico dei valori di OR (1,45 per i meningiomi, e 1,96 per i glio-mi) quando il tumore viene riferito al lato abituale d’uso dei cellulari.

Dal canto suo hardell ha dimostrato12 che alcune differenze sostanziali tra i suoi dati13 e quelli dell’Interphone10 sono determinanti nel dare luogo in questi ultimi a una sostanziale e siste-matica sottostima del rischio (TABel-lA 2):• l’Interphone considera - a torto -

ininfluente l’esposizione ai cordless e, pertanto, ne include gli utilizzato-ri tra i “non esposti” anziché tra gli “esposti”;

• il gruppo compreso dall’Interphone è limitato a soggetti di 30-59 anni di età, mentre hardell comprende soggetti di 20-80 anni di età, quin-di anche una fascia di soggetti (20-30 anni) che hanno iniziato ad usa-re i TM in giovane età, per i quali il ri-schio di sviluppare gliomi e neuromi è nettamente più alto;

Pertanto (v. Tabella 2):• nei lavori di Hardell tutte le stime

del rischio di gliomi riferite al grup-po complessivo (20-80 anni di età), comprendente tra gli esposti anche gli utilizzatori di cordless (A), si ab-bassano se il gruppo viene ristretto ai soggetti di 30-59 anni di età (B) e

ancor più se, in questo stesso grup-po, gli utilizzatori di cordless vengo-no inclusi tra i “non esposti” (C);

• i dati s.s. dell’Interphone10 per i soli gliomi ipsilaterali dopo ≥ 1640 ore di uso cumulativo di cellulari (D) e quel-li per i gliomi totali riportati nell’Ap-pendice 210 (E) risultano confron-tabili con quelli di hardell, quando questi vengono corretti per le stes-se condizioni (30-59 anni; esposti solo a cellulari).

La conclusione dell’Interphone – “complessivamente, non è stato os-servato alcun aumento del rischio di contrarre gliomi o meningiomi negli utilizzatori di cellulari. C’è una indica-zione di rischio aumentato di gliomi nei soggetti con esposizione più ele-vata, ma errori e condizionamenti me-todologici impediscono di interpreta-re tale dato come indicativo di una re-lazione causa-effetto. I possibili effetti a lungo termine dell’uso intenso di TM richiedono ulteriori investigazioni” – è ambigua e lascia ampio spazio alle in-terpretazioni divergenti che sono sta-te date dei risultati di questo rappor-to. Infatti più di 100 testate giornalisti-che ne hanno fatto da “cassa di riso-nanza”, dividendosi tra quelle che ne hanno condiviso le conclusioni tran-quillizzanti; quelle che invece hanno messo in evidenza i preoccupanti au-menti del rischio di tumori cerebrali

maligni ipsilaterali dopo ≥10 anni di la-tenza nei maggiori utilizzatori di cellu-lari; e quelle che hanno preferito non sbilanciarsi, rinviando la soluzione del problema a quando saranno disponi-bili i dati relativi a soggetti esposti ai TM, con tempi di latenza ≥20-30 anni. Unanime e tranquillizzante è invece il parere degli Enti che hanno promos-so il Progetto Interphone e delle Or-ganizzazioni Internazionali a questi collegate: così la IARC14 , l’Organizza-zione Mondiale della Sanità (whO)15, la Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ioniz-zanti (ICNIRP)16 , l’Unione Internazio-nale contro il Cancro (UICC)17 , la Food and Drug Administration (FDA)18 , il National Cancer Institute (NCI)19 , l’health Protection Agency (hPA)20 , il Medical Bulletin a firma di M. Feych-ting e A. Ahlbom21 , il prestigioso Ist. karolinska di Stoccolma22 , e, in Ita-lia, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS)23 anche tramite i ricercatori del “team” Interphone: S. Lagorio (responsabile scientifico del “team”)24 e P. Vecchia (anche Presidente dell’ICNIRP)25 . Per non parlare dei comunicati ovviamen-te trionfali delle Compagnie di telefo-nia mobile.

3. I dati dell’Interphone sui tumori pa-rotideiNel Settembre 2009 la Dott.ssa S. Sadetzki, responsabile del “team”

TUMORI LATENZA IPSILATERALI TOTALI CONTROLATERALI

Gliomi

Tutti

10 anni

________

(118/145): 1,9;1,4-2,4

(1667/3554): 1,0;0,9-1,1

(233/330): 1,3;1,1-1,6

________

(93/150): 1,2;0,9-1,7

Neuromi

Tutti

10 anni

________

(41/152): 1,6;1,1-2,4

(668/3581): 1,0;0,8-1,1

(67/311): 1,3;0,97-1,9

_________

(26/134): 1,2;0,8-1,9

Meningiomi

Tutti

10 anni

_________

(48/141): 1,3;0,9-1,8

(1217/3386): 0,9;0,8-0,9

(116/320): 1,1;0,8-1,4

_________

(36/146): 0,8;0,5-1,3

Tumori alle ghiandole

salivari

10 anni

(22/61): 1,7;0,96-2,9

(28/112): 0,8;0,5-1,4

(5/34): 0,4;0,2-1,2

Autori (classi di età)

utilizzatori di cordless

A. Hardell (20-80)

cordless=esposti

B. Hardell (30-59)

cordless=esposti

C. Hardell (30-59)

cordless=non esposti

za 10 anni : tutti (88/99): 2,3 ; 1,6-3,2 (56/74) : 2,0 ;1,3-3,0 (56/74) : 1,8 ; 1,2-2,7

« :solo ipsilaterali (57/45) : 2,8 ; 1,8-4,4 (35/30) : 2,5 ;1,4-4,4 (35/30) : 2,3 ; 1,3-4,0

640 ore : tutti (42/43) : 2,3 ; 1,4-3,7 (29/37) : 1,9 ;1,1-3,3 (29/37) : 1,7 ; 1,1-3,0

« :solo ipsilaterali (29/21) : 2,9 ;1,6-5,4 (20/18) : 2,3 ; 1,1-4,7 (20/18) : 2,2 ; 1,1-4,3

Autori (classi di età)

Utilizzatori di cordless

D. Interphone (30-59)

cordless=non esposti

E. Interphone (30-59)

(Appendice 2)

cordless=non esposti

za 10 anni : tutti (252/232) : 1,0 ; 0,8-1,3 (190/150) : 2,2 ; 1,4-3,3

« :solo ipsilaterali (108/82) : 1,2 ; 0,8-1,8 non riportato

640 ore : tutti (210/154) : 1,4 ; 1,1-1,9 (160/113) : 1,8 ; 1,2-2,9

« :solo ipsilaterali (100/62) : 2,0 ; 1,2-3,2 non riportato Tabella 2

hardell12 : incidenza di gliomi nei lavori suoi13 e in quelli dell’Interphone 10 (casi/controlli : OR ; IC95%).

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israeliano dell’Interphone e autrice di uno studio epidemiologico caso-con-trollo sull’incidenza di tumori paroti-dei negli utilizzatori di cellulari26 – fir-mato anche dalla Dott.ssa E. Cardis co-ordinatrice dell’Interphone – ha docu-mentato i suoi risultati davanti al Se-nato degli USA. La videoregistrazio-ne e il testo di questa testimonian-za sono stati resi disponibili27 subi-to dopo la pubblicazione del rapporto conclusivo dell’Interphone10. In bre-ve, i dati della Sadetzky documenta-no aumenti s.s. del rischio di tumori parotidei ipsilaterali crescenti con l’au-mentare dell’esposizione ai cellulari (rapporto causa-effetto): + 34% per quanti hanno usato il cellu-lare ≥ 5 anni;+ 47% per quanti hanno usato il cel-lulare ≥5 anni e fatto più di 5.479 telefonate;+ 49% per quanti hanno telefonato ≥ 266,3 ore;+ 48 -51% per quanti hanno usato il cellulare ≥ 5 anni e per più di 266,3 ore; per gli utilizzatori regolari che hanno fatto 5.479-18.996 o ≥ 18.997 telefonate, oppure che hanno usato il cellulare ≥ 1.035 ore;+ 81% per quanti hanno fatto ≥ 18.997 telefonate in aree rurali;+ 96% per quanti hanno telefonato ≥ 1.035 ore in aree rurali;+ 142% per quanti hanno usato il cel-lulare ≥ 5479 ore su entrambi i lati del-la testa. A sostegno di questi dati alcuni medi-ci israeliani hanno documentato come l’incidenza di tumori maligni parotidei ricavata dai dati del Registro Naziona-le Tumori di Israele28 sia quadruplica-ta (da 16 a 64 casi/anno) dal 1970 al 2006, mentre l’incidenza degli altri più comuni tumori alle ghiandole salivari è rimasta costante. Inoltre il maggiore aumento dei cancri parotidei si è veri-ficato a partire del 2001: 37/anno pri-ma di tale data, contro 61 casi/anno a partire del 2001, e il 20% dei casi re-centi riguarda soggetti di età inferio-re ai 20 anni che sono tra i maggiori utilizzatori di cellulari. Se si tiene con-to del fatto che Israele è una delle pri-me Nazioni, assieme ai Paesi Scandi-navi e agli USA, ad avere introdotto l’uso dei cellulari analogici e digitali (v. sopra), anche questi dati confermano l’esistenza di un rapporto causa-effet-

to tra uso dei TM e aumentato rischio di tumori alla testa. ¢

ConClUsIonI

Richiamando quanto già esposto nella Discussione e nelle Conclu-

sioni del nostro precedente articolo su questa Rivista3 , aggiungiamo al-cune annotazioni rilevanti: • nonostante i molti limiti dovuti ad

un protocollo inadeguato, anche i dati dell’Interphone, nei quali ven-ga esaminata la lateralità dei tumori su un numero adeguato di sogget-ti esposti da o per ≥ 10 anni, con-fermano un aumento s.s. del rischio di gliomi, neuromi acustici e tumo-ri parotidei ipsilaterali, maggiore ri-spetto ai tumori totali e ancor più ri-spetto ai controlaterali – come si ve-rifica nei dati di hardell – in accordo con l’ipotesi di un effetto oncogeno dei TM prevalente sul lato della te-sta abitualmente irradiato (rapporto causa-effetto);

• ogni volta che viene pubblicato uno studio che conferma i risultati di hardell (p.es. il recentissimo artico-lo di Dubey29), questo viene accolto sui quotidiani italiani da una campa-gna denigratoria e ingiustificata da parte di qualche autorevole rappre-sentante dell’Interphone o di una delle tante Organizzazioni a questo collegate (in quest’ultimo caso da P. Vecchia30, membro del “team” Ita-liano dell’Interphone e Presidente dell’ICNIRP);

• mentre si continua a mettere in di-scussione l’aumento comprova-to ed estremamente preoccupan-te – dovuto all’uso dei TM – del ri-schio di tumori rari come sono i tu-mori cerebrali, ai nervi cranici e alle ghiandole salivari, è sempre più evi-dente che le esposizioni volontarie ai TM e anche quelle residenziali e la-vorative a radiofrequenze, aumen-tano non solo l’incidenza dei tumo-ri, ma anche quella di patologie in-validanti a breve termine che colpi-scono soprattutto – ma non solo – soggetti particolarmente sensibili. Tumori e patologie di cui sono sem-pre meglio documentati i meccani-smi di induzione genetici, epigene-tici, cellulari, biochimici e funziona-li, che ne supportano la plausibilità biologica 31,32 ;

• in una situazione controllata da Agenzie e Commissioni internazio-nali e nazionali, compromesse da stretti legami con le Compagnie pri-vate che gestiscono le tecnologie a radiofrequenze, preoccupa la deci-sione della IARC di dare corso, tra il 24 e il 31 Maggio 2011, alla riunio-ne di un gruppo di lavoro incarica-to di predisporre la Monografia sul-le radiofrequenze, con particolare riferimento all’uso dei TM. La com-posizione di tale gruppo –condizio-nata dal ruolo che la IARC, la CE e le Organizzazioni internazionali a que-ste collegate hanno avuto nella ge-stione del Progetto Interphone – sarà infatti determinante sull’esito di questo lavoro. ¢

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Germany) – Evidence of a dose-response

relationship. Umwelt Medizin Gesellschaft

2010; 23 (2): 130-9.¢

RiCoNosCiMeNti iN MeMoria di loreNzo toMatis

A PAOLO RABITTI PER LA SUA TESTI-MONIANZA CORAGGIOSA E LA SUA VOCE INDIPENDENTE ED AUTONO-MA A FAVORE DELLA VERITÀ E DEL-LA LEGALITÀPaolo Rabitti è ingegnere e urbanista, esperto di gestione di rifiuti ed è di-ventato ormai un simbolo per il no-stro Paese per la testimonianza che ha reso nei confronti del problema dello smaltimento dei rifiuti in Campania e

degli scandali che ne sono consegui-ti in 14 anni di emergenza. questo co-munque è solo l’ultimo degli impegni di Rabitti, che vanta infatti un curricu-lum di tutto rispetto sul versante del-la difesa dell’ambiente.E’ stato infatti Docente universita-rio, Ricercatore, ma soprattutto con-sulente di prim’ordine per le Procu-re in alcuni dei processi più importan-ti del nostro tempo: dal processo del petrolchimico di Marghera con Felice

Casson, al processo ENEL di Porto Tol-le, a quello del Petrolchimico di Brin-disi fino ad processo per inquinamen-to da DDT del Lago Maggiore.Del tutto recentemente è stato poi consulente per la Procura di Napo-li nel processo che ha portato sotto giudizio alcuni dei più importanti pro-tagonisti di 14 anni di “emergenza ri-fiuti” a Napoli.Proprio la vicenda della gestione dei ri-fiuti in Campania, con tutti i retrosce-

Page 64: 20 Direttore responsabile 22 In redazione - omceoar.it n 28.pdf · APPROCCI TERAPEUTICI DIFFERENzIALI: IL MODELLO DEL CARCINOMA POLMONARE Sergio Bracarda, Sabrina Giusti, Ori Ishiwa

64G.I.M.A.il cesalpino

na e le connessioni che hanno fatto di questa vicenda uno scandalo sen-za precedenti, viene spiegata grazie al lavoro di certosina pazienza svolto dal Rabitti e con l’esemplare chiarezza che gli è propria nel suo libro “Ecobal-le”. qui Rabitti svela come la “monnez-za”, ed in particolare la pratica dell’in-cenerimento dei rifiuti, sia in Italia un business miliardario.Le verità che, grazie al Rabitti, emer-gono dai documenti e dagli atti ren-dono giustizia alla sistematica opera di mistificazione e disinformazione che su questa vicenda è stata compiuta.L’Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE Italia riconosce pertanto e pre-mia nell’opera di Paolo Rabitti una te-stimonianza coraggiosa ed una voce indipendente ed autonoma a favore della verità e della legalità che fa ono-re a tutto il nostro Paese. ¢

A VINCENZO CENNAME PER IL SUO ESEMPIO DI COERENZA E DI TESTI-MONIANZA AL PROPRIO MANDATOVincenzo Cenname è Sindaco di un piccolo paese del casertano, Camiglia-no, che è stato di recente commis-sariato a seguito dell’attuazione del-la Legge 26/2010 recante disposizio-ni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella regione Campania. questa legge, che regolamenta la raccolta dei rifiuti per la sola regione Campania con un evi-dente profilo di incostituzionalità, di-spone la centralizzazione del servizio rifiuti all’ente Provincia. questa scel-ta, già discutibile nel momento in cui si parla di eliminazione di questi enti, appare paradossale quando viene at-

tuata in regione Campania, ed in par-ticolare per la provincia di Caserta, ove tutti sono ben consci della quo-ta di infiltrazione criminale ad ogni li-vello. Nel dettaglio, attribuire alla Pro-vincia il servizio integrato di rimozione dei rifiuti significa creare una gigante-sca azienda, facilmente controllabile da componenti criminali, incapace di fornire un servizio di eccellenza, inca-pace di promuovere una seria raccolta differenziata, ma capace da subito di far aumentare e non di poco la tariffa a carico dei cittadini. Vincenzo Cenna-me, che già da anni gestisce in modo esemplare la raccolta ed il riciclo dei ri-fiuti nel proprio Comune, con ottimi livelli di raccolta differenziata e gran-de soddisfazione dei propri concitta-dini che godono di tariffe bassissime a fronte di un ottimo servizio, si è rifiu-tato di sottostare a provvedimenti le-gislativi che non fanno l’interesse del-la comunità ma dei soliti gruppi di po-tere e per questo ha rinunciato al pro-prio ruolo di Sindaco pur di difendere i diritti dei cittadini.L’Associazione Medici per l’Ambien-te – ISDE Italia riconosce nella figura di questo Sindaco un esempio di co-erenza e di testimonianza al proprio mandato di cui mai come ora il nostro Paese ha bisogno e per questo gli vie-ne assegnato il premio odierno. ¢

A EMILIANO FITTIPALDI PER NELLA COMUNE BATTAGLIA A DIFESA DELLA SALUTE E DEL FUTURO DI TUTTISi tratta di un giornalista che, nono-stante la relativa giovane età, ha già una solida tradizione di giornalismo d’inchiesta su temi delicatissimi lega-

ti all’ambiente ed alla salute.ha lavorato per il Mattino, per il Cor-riere della Sera ed attualmente lavo-ra per l’Espresso e proprio per questa testata ha condotto alcune inchieste di particolare rilievo quali: “Gomorra al Nord”, “Così ho avvelenato Napoli” e soprattutto “S.O.S. bambini”, dedica-to al tema dell’incremento di cancro nell’infanzia che si registra in partico-lare nel nostro Paese.Di recente poi ha pubblicato il libro “Così ci uccidono” che rappresenta l’apice del suo lavoro di inchiesta ed in cui in modo dettagliato e documen-tato, ma sempre in termini compren-sibili anche ai non addetti al mestie-re, viene svelato come - a nostra tota-le insaputa - attraverso l’acqua, il cibo, l’aria, l’ambiente in cui viviamo siamo esposti a cocktail di sostanze tossiche e cancerogene, micidiali per la nostra salute e la nostra vita.Tutto questo accade certo per l’azio-ne di “avvelenatori di professione” che lucrano utilizzano prodotti avariati o contaminati.L’opera di Fittipaldi è pertanto di vita-le importanza per fornire una infor-mazione indipendente su temi di così cruciale rilevanza e che troppo spesso vengono colpevolmente dimenticati.L’Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE Italia riconosce nel Fittipaldi, con questo premio, un fondamentale al-leato nella comune battaglia a difesa della salute e del futuro di tutti noi. ¢

Arezzo, 18 Settembre 2010

Dr. Roberto Romizi, Presidente ISDE Italia