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Daniele Bertoldo • Via Ca’ Castelle 23 • 36010 Zanè (Vicenza)• 00.39.34.65.92.22.39 •

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Giuliana Bruno, docente di arti visive ad Harward, ha pubblicato di recente un bellissimo libro dal titolo Surface: Matters of Aesthetics, Materiality and Media. Il tema del libro è la superficie intesa come schermo, inteso a sua volta come specchio che riflette noi e la nostra storia. In realtà l’acuta analisi che l’autrice porta avanti nelle quasi trecento pagine del suo saggio non è facilmente semplificabile anche perchè i concetti presi in considerazione sono molti e alcuni abbastanza complessi. La domanda centrale del libro è “Che posto occupa la materialità nel mondo virtuale in cui oggi viviamo?”. Per rispondere a questo quesito la Bruno suggerisce di pensare alle superfici piuttosto che alle immagini, focalizzandosi principalmente sulle superfici come quelle dello schermo, della tela, della parete ma anche della nostra pelle e dei nostri vestiti. Le immagini pertanto vanno pensate nella loro materialità e nella materialità dell’involucro modellante (texture) o. in altre parole, come macchie, testo visivo dotato di consistenza. E questo medesimo testo visivo ci racconta una storia proprio perchè essa è iscritta, stratificata, sedimentata e depositata sulla superficie. Di più: quella superficie racconta persino delle emozioni. Pensiamo al segno tracciato in un certo modo o al pigmento usato in una certa tonalità. L’emozione è tradotta sulla superficie e fatta scorrere nel tempo sotto forma di macchia residua, di traccia, di consistenza. Ancora di più: la superfice ci rivela i modelli di trasformazione e le forme di trasmissione e di mediazione. Significa-tivo diventa quindi il passaggio dall’ottico all’aptico che è una modalità relazionale che deriva dal tatto ma che va intesa nel senso ampio di entrare in contatto con le cose e questo contatto avviene proprio nelle superfici e ci permette di conoscere l’oggento dell’arte. Lo schermo nasce come concetto architettonico: era una parete divisoria. Schermare significa opporre resistenza ma anche nello stesso tempo lasciar passare. Lo schermo era un mobile d’interno che divideva un ambiente da un altro ma anche un un oggetto di design che messo in prossimità di una finestra faceva filtrare la luce in un certo modo oppure davanti ad un camino faceva vedere il fuoco ardente ma proteggeva dai pericoli delle fiamme. Con il cinema, la televisione e il computer poi lo schermo diventa un oggetto che ci permette di entrare in comunicazione con altre persone e soprattutto con altri mondi immaginari . La superficie dello schermo quindi diventa uno spazio di confine e di relazione tra interno ed esterno, filtro tra la materia e l’immaginario, tra luoghi e tempi diversi e zona di contatto fra le persone. Ci siamo dilungati esponendo sommariamente i contenuti del bellissimo libro di Giuliana Bruno proprio perchè anche queste stampe presentate nel catalogo 2014 sono di fatto delle superfici assorbenti che raccontano nella loro materialità dello spazio visuale una storia contenuta proprio negli “strati” del loro texture che le avvolge. Ma sono anche degli schermi, quindi comunque delle superfici assorbenti, che ci permettono di fare delle trasposizioni liminali e immaginarie. La ma-terialità pertanto non è opposta alla virtualità ma anzi ne fa parte: l’oggetto materiale (il foglio e i pigmenti) diventa poi l’oggetto attraverso il quale si puo’ trapassare nell’immaginario. In questo senso il collezionista puo’ essere definito come un erudito materialista dell’immaginario visivo. Se le stampe qui catalogate sono delle superfici-schermo, questo stesso catalogo è un ulteriore superficie-involucro materiale e la sua stesura è un’ulteriore forma di materialità: in essa l’arte dell’assemblare e del montare cinematograficamente prende corpo e il tutto viene pensato in modo materiale come una sorta di montaggio di un film dove si riuniscono e si tagliano le diverse sequenze. Oppure come una sartoria dove si tagliano e si riuniscono diversi pezzi di tessuto. Ci troviamo davanti ad uno schermo (il catalogo, le foto del catalogo, le schede del catalogo) che ci fa guardare dentro ad un altro schermo (le stampe presentate che sono a loro volta schermo-superficie). Come non andare col pensiero al cinema di Wong Kar-wai regista delle inquadrature velate come dei tessuti multipli, dello schermo che si riproduce dentro allo schermo, del guardare qualcosa sempre attraverso qualcos’altro come una porta o una finestra… regista anche dello spazio mai trasperente ma sempre velato pro-prio come uno schermo, laddove il termine va inteso proprio nella sua accezione primaria di filtro. Presuntuosamente speriamo che queste schede e queste foto saranno in grado di mettere in relazione persone che condividono un’esperienza, intima ma non domestica. Esperienza che si condivide con sconosciuti. Si dovrebbe trattare proprio della pubblica intimità generata da uno schermo postmoderno. D.B.

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Xilografia mm 396x283 (foglio). Dalla serie della Grande Passione su Legno nell’edizione del 1511 con il testo latino al verso. In basso al centro il monogramma “AD” con lettere sovrapposte.Magnifica e brillante prova completa di margini di circa 1-2 mm oltre la linea di inquadramento su tutti i lati, in perfetto stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,18 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 53 mm, con filigrana “Torre coronata”, Meder 259, come indicato dallo studioso per questa edizione (fil. n. 1). Alcuni elementi di questa grandiosa e complessa composizione come la forma arcaica del sole e della luna e l’affollamento della scena sembrano collocarla in un periodo anteriore al 1498. Ricca di spunti simbolici che sembrano sublimare il momento in cui umano e divino si toccano e compenetrano, l’opera si arricchisce di elementi compositivi minori di estrema eleganza e raffinatezza come i drappeggi delle vesti, il piumaggio sull’elmo del cavaliere e la testa voltata del cavallo. Il sole, simbolo dell’immutevolezza e quindi dell’eternità di Dio e la luna, che col mutare continuo delle sue fasi crescenti e discendenti rappresenta la temporalità e quindi la provvisorietà della vita umana, qui splendono insieme e sembrano rispecchiarsi l’uno nell’altra, celebrando l’istante in cui l’umano si fonde con il divino. Messaggio, questo, rinforzato dal teschio ai piedi della croce; Golgota significa “monte del teschio”, perché secondo la tradizione vi venne sepolto il cranio di Adamo che mangiando il frutto dell’Albero della Conoscenza operò la rottura tra l’uomo e Dio. Ma dal teschio di Adamo nasce qui un altro albero, quello della Croce nel cui simbolo, grazie al sacrificio di Cristo, l’umanità ritrova la perduta unità con Dio. Mentre tre angeli, due in volo ed uno a terra ai piedi della croce, raccolgono in calici il sangue gemente del Cristo, i due cavalieri sulla destra sembrano conversare indifferenti, simboleggiando forse la noncuranza di parte dell’umanità, di fronte al dramma che viene vissuto con angoscia dal gruppo delle tre Marie e Giovanni sulla sinistra. Il cavaliere sulla destra, con il cavallo che volge la testa verso lo spettatore servì da modello a Jacopo Bassano per un analogo soggetto nel suo Martirio di San Marco, conservato a Hampton Court (cfr Giovanni Maria Fara, 2007, Albrecht Dürer - originali, copie, derivazioni, pag. 192).-

Bartsch, vol. VII, pag. 117, n. 11 | Meder, 1932, n. 120 | Strauss, 1980, pagg. 218-220, n. 61 | Fara, 2007, pagg. 190-192, n. 89h

1 La Crocifissione

Norimberga 1471 - ivi 1528

Albrecht DÜRER

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Acquaforte su lastra di ferro 220x318 mm. Secondo stato su due dopo la comparse delle macchie di ruggine sulla lastra; probabile variante d-e/g con varie macchie di ruggine attorno al monogramma, sul tetto, la strada ed il petto del turco. In alto a destra il monogramma “AD”, a lettere sovrapposte e, subito sotto, la data “1518”. Bellissimo esemplare completo alla linea di inquadramento visibile sui quattro lati, con sottile margine oltre la stessa ai lati superiore ed inferiore e visibile a tratti al lato sinistro; una piega centrale verticale in parte fissurata ed alcuni strappetti restaurati, nel complesso in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 23 mm, con filigrana non completamente leggibile “Grande porta di città”, Strauss nn. 260 e 261 (simile), circa 1550-1580 (fil. n. 2). Conosciuto nel tempo sotto vari titoli, il grande cannone, il cannone turco, il cannone da campo norimberghese, Ungheresi presso il cannone e paesaggio con cannone, questo intaglio rappresenta l’ultima delle sei acquaforti dureriane incise tra il 1515 e il 1518; in esso l’Artista riesce ad esprimere al meglio i risultati raggiunti con l’acquaforte su lastra di ferro, tecnica incisoria ancora “sperimentale”. L’acquaforte su ferro era un mezzo incisorio che insolitamente bene si adattava a trattare tematiche attuali del tempo offrendo il vantaggio di una certa rapidità di esecuzione e consentendo una tiratura di un numero di copie abbastanza grande. Sulla scia di Dürer anche altri artisti come Albrecht Altdorfer, Sebald Beham, Urso Graaf e Hans Burgkmair iniziarono a sperimentare questa tecnica. Questa è la sola incisione di Dürer nella quale predomina il paesaggio, consentendo un interessante raffronto con i paesaggi incisi all’acquaforte da Altdorfer. Resta ancora da chiarire l’interpretazione complessiva di questa incisione nella quale sullo sfondo si delinea un ampio paesaggio con un villaggio tedesco dai tipici tetti a spiovente, mentre il primo piano è dominato, sulla sinistra, da un antiquato cannone, piuttosto malconcio e dall’aria abbandonata, di una tipologia che sembra essere stata in uso attorno agli anni 1450-1480, già obsoleto quindi ai tempi in cui Dürer intagliò il soggetto, ma che sicuramente l’artista poté conoscere visitando l’Arsenale di Norimberga dove erano conservati molti tipi di cannone; non è un caso che sulla cassetta degli attrezzi posata sull’affusto, subito dietro la culatta del cannone, sia riprodotto lo stemma di questa città; sulla destra, davanti a un gruppo di quattro persone, un uomo visto di profilo, identificato come un turco il cui costume è stato posto in rapporto con il disegno di Dürer raffigurante Tre Orientali conservato al British Museum, sembra osservare con attenzione il cannone, ma non si riesce a cogliere il nesso esistente tra questi due elementi.

Bartsch, vol. VII, pag. 108, n. 99 | Meder, 1932, n. 96 | Strauss, 1980, pagg. 242, n. 86 | Landau-Parshall, 1994, pag. 329, n. 356 | Bartrum, 1995, pagg. 55-56, n. 40 | Bartrum, 2002, pag. 233, n. 186 | Fara, 2007, pagg. 157-158, n. 78

2 Paesaggio con cannone

Norimberga 1471 - ivi 1528

Albrecht DÜRER

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Bulino mm 57x35. Stato unico; seconda variante su tre secondo Winzinger. Nell’angolo superiore sinistro il monogramma di Altdorfer “AA” a lettere sovrapposte. Magnifico esemplare completo all’impronta del rame con filo di margine ai lati superiore, inferiore e destro; in perfette condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,11 mm. Provenienza: collezione British Museum, al verso timbro ovale in nero con i numeri “1853, 7,9 e 33”, Lugt n. 302 e timbro ovale “Duplicate” in violetto, Lugt n. 305.Il culto della “Schone Maria” di Regensburg iniziò nel 1519 a seguito di una miracolosa guarigione. Alla morte di Massimiliano I° nel 1519, il Consiglio Comunale di Regensburg decise di espellere tutti gli ebrei e di abbattere la sinagoga del XIII° secolo, alcune immagini della quale ci sono pervenute attraverso due acqueforti di Altdorfer (Winzinger 173 e 174), per costruirvi un chiesa dedicata alla Vergine. I cittadini infiammati dal fanatico predicatore Hubmaier, bruciato poi sul rogo a Vienna assieme alla moglie, iniziarono immediatamente a demolire l’edificio e, durante i lavori, un muratore di nome Jakob Kern rimase schiacciato sotto le macerie, ma miracolosamente si alzò dal suo letto di morte. La notizia si diffuse rapidamente e si gridò al miracolo. Sul posto venne rapidamente innalzata una cappella dedicata alla Vergine Immacolata ed il Papa stesso concesse un’indulgenza per il pellegrinaggio che in poco tempo assunse proporzioni considerevoli di migliaia di pellegrini provenienti anche da luoghi lontani. L’immagine installata sull’altare della Cappela Nuova il 24 marzo 1519 era una copia di un più antico pannello rappresentante la “Schone Maria”, probabilmente l’icona duecentesca donata da papa Benedetto VIII° all’Imperatore Enrico III° e conservata nell’Alte Kapelle di Regensburg; ma nell’attenzione dei pellegrini maggior interesse rivestì la più spettacolare statua di pietra posta su una colonna davanti alla Cappella. Ben presto il luogo divenne sede di eccessi di fanatismo religioso che portò molti osservatori contemporanei, sia conservatori che riformatori, a considerare tutta la vicenda come opera del diavolo. In una xilografia Michael Ostendorfer mostra molti fedeli che ai piedi della Madonna, in preda all’estasi, invocano, si prostrano e si rotolano per terra colti da convulsioni. In una prova in suo possesso, Dürer annotò.”1523 / Questo spettro a Ratisbona si è sollevato contro le sacre scritture...”. Altdorfer stesso fu promotore del culto attraverso le sue opere. Tutte le “Schone Marie” di Altdorfer presentano attributi distintivi comuni che denotano la loro derivazione da un unico modello, probabilmente l’icona della Cappella Nuova. In un chiaroscuro a sei blocchi (w 89) la Madonna col Bambino è incastonata in una cornice architettonica, in un’altra xilografia è rappresentata in una pala d’altare affiancata da quattro santi (w 90) ; in un bulino è raffigurata in trono con angeli che suonano strumenti musicali (w 141), in un altro, quello qui descritto, è seduta in un paesaggio (w 140); infine nell’olio su legno del museo diocesano di St. Ulrich di Regensburg, l’aureola si espande in un alone fiammeggiante che fa da fondo all’intera figura. Ma in tutte è ricoperta da un manto frangiato decorato dagli stessi motivi floreali stilizzati.

Bartsch, vol. VIII, pag. 46, n. 12 | Winzinger, 1962, pag. 105, n. 140 | Mielke (The New Hollstein), 1997, pag. 22, n. e.13

3 La bella Vergine di Regensburg seduta in un paesaggio

Amberg (?) 1480 - Ratisbona 1538

Albrecht ALTDORFER

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Bulino mm 283x200. Stato unico. In basso verso il centro la sigla di Marcantonio “AMF” con lettere sovrapposte. Bellissima prova ben contrastata e con tono di fondo; foglio completo di sottile margine oltre l’impronta del rame sui quattro lati; nel complesso in ottimo stato di conservazione a parte alcune abrasioni e scoloriture superficiali al verso e due strappi lungo i bordi perfettamente restaurati e visibili solo in controluce. La tipologia del monogramma senza tavoletta e con lettere più grandi del consueto, nel quale erroneamente Heinecken ha voluto vedere il nome di Andrea Mantegna, assieme ad un ancor incompleto possesso dell’abilità bulinistica starebbero ad indicare che si tratta di una delle prime opere incise dal maestro bolognese; in base anche a considerazioni stilistiche l’esecuzione viene collocata in un periodo antecedente al 1505, probabilmente negli anni 1501-1503. Per questa incisione non è stato reperito alcun modello ed è verosimile che lo stesso Raimondi abbia elaborato l’invenzione del soggetto nel quale si rilevano indubbi riferimenti alla statuaria antica oltre che personali rielaborazioni di elementi derivati da altri autori, come nel modo di raffigurare la schiena del giovane a destra, dove è stata ravvisata una qualche analogia grafica con il bagno degli uomini di Dürer. Non facile risulta l’interpretazione iconologica. Adam Bartsch si è limitato ad intitolare la stampa “La jeune femme entre deux hommes”. Heinecken vi ha scorto una rappresentazione di Ercole tra il Vizio e la Virtù. Delaborde, pur in assenza di attributi specifici, ha interpretato le tre figure da sinistra a destra come la Filosofia (oppure la Logica), l’Eloquenza e la Scienza in base anche al fatto che nel paesaggio sullo sfondo sono rappresentate le due torri della Garisenda e degli Asinelli, simbolo della città di Bologna, omaggio di un bolognese alla sua città che nel XVI° secolo fu uno dei centri più rinomati per l’attività scientifica e letteraria. In tutti i casi veniva trascurata la figura del bambino nudo posto in primo piano. Più recentemente Marzia Faietti ha proposto L’allegoria del tempo come un’interpretazione più aderente alla rappresentazione che vede raffigurate le tre generazioni attraverso il bambino, la coppia ed il vecchio. Il bambino nudo a terra reca in mano un drago che si morde la coda, emblema del Tempo che distrugge ogni cosa, mentre “la figura centrale introduce un elemento dialettico rispetto al rapido fuggire del tempo affidato alla corona di edera simboleggiante l’immortalità” (cfr Marzia Faietti e Konrad Oberhuber, 1988, Bologna e L’Umanesimo 1490-1510, pag. 94).

Bartsch, vol. XIV, pagg. 301-302, n. 399 | Passavant 1860-1864 , Tomo VI, pag. 37, n. 235 | Delaborde, 1888, pagg. 194-195, n. 159 | Faietti-Oberhubert, 1988, pagg. 94-96, n. 3

4 Allegoria del Tempo

S. Andrea in Argine (Bologna) ca. 1480 - Roma 1534

Marcantonio RAIMONDI

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Bulino mm 265x392. Secondo stato su sei con, in basso verso destra, la tavoletta col monogramma “MAF” a lettere sovrapposte. Tavoletta e monogramma sono assenti nel primo stato, mentre nel terzo la lastra appare ritoccata e compare l’excudit di Antonio Salamanca “Ant. Sal. exc.”, subito al di sotto della tavoletta. Il quarto e quinto stato sono caratterizzati dalla presenza dell’indirizzo rispettivamente di Van Aest e Gio. Battista de Rossi; in un ultimo stato, il sesto, edito dal Losi nel 1773, è stato abraso l’indirizzo del de Rossi. Magnifica e fresca prova completa all’impronta del rame con filo di margine attorno alla linea di inquadramento sui quattro lati, in buono stato di conservazione. Provenienza: collezione Pierre Mariette II, al verso in inchiostro al gallotannato di ferro la firma “P. Mariette” seguita dalla data ”1676”, Lugt 1789.L’incisione è in rapporto con l’affresco di Perin del Vaga, su disegno ora perduto di Raffaello, nella XI volticella delle Logge Vaticane. Dello stesso soggetto, coevo rispetto all’incisione e delle stesse dimensioni, ma in controparte, è un chiaroscuro di Ugo da Carpi. E’ possibile che entrambi gli artisti abbiano preso a modello il medesimo disegno dell’Urbinate, ma è stato anche ipotizzato che Ugo da Carpi abbia copiato l’incisione oppure, viceversa, che sia stato Marcantonio a copiare il chiaroscuro dopo la morte di Raffaello. Oberhuber ravvisando nell’incisione del Bolognese una minor energia, assieme ad una mancanza di naturalezza ed un ridotto dinamismo nella descrizione del susseguirsi delle azioni rispetto al chiaroscuro, nel quale anche il paesaggio dello sfondo si presenta di più ampio respiro e con più intensa profondità di fondo, propende per quest’ultima ipotesi (cfr K. Oberhuber-A. Gnann, 1999, Roma e lo stile classico di Raffaello, pag. 170). Nonostante Adam Bartsch abbia scritto “Cette estampe est une des plus considérables que Marc-Antoine ait gravée d’après Raphaël. Il l’a faite avec beaucoup de soin, et dans le temps, qu’il étoit parvenu à manier le burin avec le plus de liberté”, l’attribuzione, oggi universalmente ricondotta a Raimondi, è stata oggetto di discussione. Zani per primo l’aveva attribuita ad Agostino Veneziano, mentre Delaborde nel suo studio storico-critico su Marcantonio l’inserisce tra le “Pièces douteuses”, ravvisandovi caratteristiche stilistiche insolite per il Raimondi, come per esempio una resa eccessivamente minuziosa, quasi decorativa, del terreno in primo piano e contorni delle figure e dei drappeggi eccessivamente regolari e definiti con paziente precisione.

Bartsch, vol. XIV, pag. 12, n. 10 | Passavant 1860-1864 , Tomo VI, pagg. 11-12, n. 5 | Delaborde, 1888, pagg. 278-280, XI, n. 1 | Shoemaker, 1981, pagg.166-167, n. 53 | Massari, 1985, pagg. 75-76, I, n. 24 | Oberhuber-Gnann, 1999, pag. 170, n. 107 | Höper, 2001, pag. 432, n. G 10.1

5 Davide e Golia

S. Andrea in Argine (Bologna) ca. 1480 - Roma 1534

Marcantonio RAIMONDI

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Bulino mm 265x349. Stato unico. In basso a sinistra sul pavimento la tavoletta senza monogramma. Stefania Massari (1985) segnala l’esistenza di un primo stato senza le figure in alto nel loggiato e di un terzo stato ritoccato, ma di ciò non si è trovata alcuna traccia nella bibliografia consultata. Bellissimo e fresco esemplare con filo di margine oltre la battuta su tre lati e completo all’impronta del rame sul lato sinistro. Piega centrale verticale visibile per lo più al verso ed alcuni difetti minori, per il resto in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore 0,19 ± 0,01 mm, filoni non visibili, con filigrana non completamente leggibile “Stemma con animale”, altezza 43 mm (fil. n. 3). L’incisione è tratta da un’idea dispersa di Raffaello ed è in rapporto con uno dei famosi cartoni commissionati all’Urbinate da Papa Leone X, ora di proprietà della Regina d’Inghilterra e conservati all’Albert and Victoria Museum di South Kensington - Londra, successivamente inviati a Bruxelles come modello per la tessitura di altrettanti arazzi destinati a decorare la Cappella Sistina. E’ però ormai chiaro che l’incisione di Marcantonio non si basò sul cartone, come asserito dal Vasari, nè sull’arazzo, considerate le numerose e significative differenze che intercorrono tra le due opere sia nei costumi, posture, gesti ed espressioni delle figure, che nell’architettura e nel trattamento della luce; in generale si può dire che la versione di Marcantonio è più semplificata nelle forme, ma più intensa nei significati (cfr I. H. Shoemaker - E. Brown, 1981, The engravings of Marcantonio Raimondi, pag. 154). La stampa sembra essere più in stretto rapporto con due disegni, nessuno dei quali di mano di Raffaello, conservati rispettivamente al Louvre ed agli Uffizi. La loro attribuzione è discussa, anche se parecchi autori hanno riconosciuto nella prova di Parigi un disegno del Penni e nel foglio di Firenze una copia di quello. Secondo Oberhuber il disegno del Louvre rappresenterebbe a sua volta una copia del modello perduto dell’Urbinate. Ma l’incisione di Raimondi segue un altro studio ancora, anch’esso perduto, come comprovato dal fatto che nell’incisione, nel cartone e nell’arazzo, ma non nei disegni in parola, la persona seduta a sinistra sui gradini e l’ascoltatore con le mani incrociate sotto il mantello hanno una folta barba (cfr K. Oberhuber-A. Gnann, 1999, Roma e lo stile classico di Raffaello, pag. 74).

Bartsch, vol. XIV, pag. 50, n. 44 | Passavant 1860-1864 , Tomo VI, pag. 15, n. 17 | Delaborde, 1888, pagg. 133-134, n. 84 | Shoemaker, 1981, pagg.152-154, n. 47 | Massari, 1985, pag. 133, IX, n. 1 | Oberhuber-Gnann, 1999, pagg. 74-75, n. 12 | Höper, 2001, pag. 491, n. H 10.1

6 Predica di San Paolo agli ateniesi

S. Andrea in Argine (Bologna) ca. 1480 - Roma 1534

Marcantonio RAIMONDI

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Bulino mm 246x180. Primo stato su due, prima dei pesanti ritocchi. In basso a destra su una tavoletta il monogramma del Veneziano “AV”. Bella e delicata prova completa all’impronta della lastra con filomargine visibile a tratti; in ottimo stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,13 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 30 mm, con estremità inferiore di filigrana “stemma?” (fil. n. 4).Sullo sfondo di un paesaggio essenziale con alcune fabbriche a disegno elementare, un giovane eroe, riconoscibile come tale dall’elmo piumato che indossa, pianta un vessillo gonfiato ed agitato dal vento sul terreno, quasi a significare la presa di possesso di un territorio conquistato. Tra i suoi piedi un leone addomesticato, simbolo di coraggio e di nobile eroismo, ma anche di dominio. Bartsch ritenne che l’invenzione del soggetto fosse ascrivibile alla mano di Raffaello; successivamente Passavant e Delaborde proposero che il modello potesse essere ricondotto a Giulio Romano e ciò che, indipendentemente dalle caratteristiche e dalle forme della figura, sembrò giustificare tale opinione fu soprattutto l’analogia tra l’elmo con alto cimiero adorno di piuma e gli elmi dei personaggi rappresentati da Giulio Romano negli affreschi della Sala di Costantino in Vaticano ed in parecchi altri quadri e cartoni con scene di battaglia. Sicuramente però la scultorea anatomia del giovane uomo nudo visto di spalle, con la muscolatura dettagliata e resa evidente sotto la pelle dalla tensione prodotta dalla postura, non può non richiamare alla mente L’arrampicatore (B. 487) di Marcantonio, di derivazione michelangiolesca, dove la torsione del busto sotto sforzo è molto simile oppure Il soldato che riaggancia la calzamaglia all’armatura (B. 463) attribuito al Veneziano, anch’esso di derivazione michelangiolesca, dove l’inclinazione del bacino è sovrapponibile, anche se in controparte. Bartsch per primo ha ipotizzato che Agostino abbia inciso il Portastendardo, non direttamente dal disegno, bensì da un raro intaglio del Raimondi dello stesso soggetto e nello stesso verso (B. 481). Opinione confermata dal Delaborde e dalla critica successiva.

Bartsch, vol. XIV, pagg. 357-358, n. 482 | Passavant 1860-1864 , Tomo VI, pag. 62, n. 115 | Delaborde, 1888, pag. 224, XI, n. 1 | Massari, 1985, pagg. 268-269, V, n. 4 | Höper, 2001, pag. 222, n. A 99

Venezia (?) ca. 1490 - Roma post 1536

Agostino MUSI detto Agostino VENEZIANO

7 Uomo con lo stendardo

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Bulino mm 255x181. Stato unico. Al centro nel bordo bianco inferiore il monogramma di Dente “ SR “ a lettere sovrapposte. Bellissimo, fresco esemplare in ottime condizioni di conservazione, completo all’impronta del rame. Carta dello spessore di 0,17 ± 0,03, distanza tra i filoni di 35 mm, con filigrana “Cerchio con inscritto un rombo con inscritta stella a 6 punte”, Ø mm 45x42, Woodward n. 291 (identica), Italia, 1565 (fil. n. 5).Una donna avanza con grande sicurezza circondata da una vegetazione lussureggiante tenendo al guinzaglio un leone domato ed indicando con la mano destra un fuoco, piccolo ma vivace, che sta di fronte a lei quasi ad impedirne il passo, ma che non sembra essere in grado di arrestare la sua avanzata. La scena è incorniciata a destra e sinistra da alcuni cespugli ed alberi, nei quali alcuni hanno voluto intravvedere riferimenti a modelli düreriani, mentre lo sfondo è dominato da un paesaggio montano molto ben definito e dettagliato con precisione calligrafica. La figura femminile è interpretata generalmente, in aderenza con la titolazione fornita da Adam Bartsch che ha ritenuto l’incisione “d’après un dessein qui a de la manière de Raphaël et de celle de Jules Ramain” , come un’allegoria della Fortezza, fuoco e leone rappresentando temperamenti selvaggi tenuti a freno dalla donna. Secondo una diversa interpretazione, si tratterebbe di una personificazione della Generosità o di una allegoria della Magnanimità (cfr Stefania Massari, 1989, Tra Mito e Allegoria, pag. 72). L’incisione riproduce fedelmente in controparte un disegno delle stesse dimensioni, conservato al Teylers Museum di Haarlem, che venne attribuito di volta in volta alla bottega di Raffaello, a Giovanni Francesco Penni e, da ultimo, in maniera definitiva secondo Stefania Massari (cfr op. citata) al bolognese Tommaso Vincidor che Vasari ricorda essere stato allievo di Raffaello come Giulio Romano e il Penni. Secondo più recenti valutazioni il disegno potrebbe essere invece restituito allo stesso Raffaello in base alla tipologia della testa e dell’acconciatura della donna che sarebbe caratteristica delle figure femminili più tarde dell’Urbinate (cfr Konrad Oberhuber - Achim Gnann, 1999, Roma e lo stile classico di Raffaello, pag. 201).

Bartsch, vol. XIV, pag. 298, n. 395 | Bernini Pezzini, Massari, Prosperi Valenti Rodinò, 1985, pag. 264, n. 16 | Massari, 1989, pagg. 72-74, n. 21 | Oberhuber-Gnann, 1999, pag. 201, n. 135 | Imolesi Pozzi, 2008, pagg. 64-65, n. 2

Ravenna (?) ca. 1493 - Roma 1527

Marco DENTE

8 Allegoria della Fortezza o Allegoria della Magnanimità

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Bulino mm 339x487. Stato unico. In basso al centro la scritta “∙ R ∙ / I ∙ IACOBUS ∙ VER ∙ F ∙” Bellissima prova stampata con tonalità argentea, completa di sottile margine oltre la linea di inquadramento; in ottimo stato di conservazione a parte una piega centrale verticale visibile soprattutto al verso ed alcune pieghe di stampa. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni di 35 mm, con filigrana “Incudine e martello in un cerchio”, Ø mm 40 (fil. n. 6). Provenienza: timbro di collezione “S” in blu che traspare al recto, non nel Lugt. Al centro della movimentata scena di battaglia nella quale le figure di cavalli e guerrieri, forse Romani con elmo e corazza e barbari coperti solo da leggere tuniche, sono dinamicamente legate tra loro e allo spazio circostante in un ammasso concitato di corpi dai muscoli evidenti a fior di pelle, un cavallo passa sul corpo di un guerriero caduto, davanti al quale sono deposti uno scudo e una lancia che hanno dato il nome alla stampa. Bartsch riferisce che “Cette estampe est une de plus considérables de l’oeuvre de Caraglio, et une des plus parfaites qui ait été exécutée d’après Raphaël”, concordando con Mariette che già l’aveva annoverata tra le sue opere migliori. Nonostante l’inventore dichiarato del soggetto sia Raffaello, come indicano le iniziali R. I., cioè Raphael Invenit, già il Basan dubitativamente considerò la stampa d’après Raffaello o Giulio Romano e il Passavant ravvisò che alcune parti, in particolare la testa del guerriero che si spaventa all’avvicinarsi del cavaliere che galoppa verso di lui, rivelano la matita dell’allievo dell’Urbinate. Più recentemente anche Stefania Massari rileva palesi riferimenti formali e stilistici con opere di Giulio Romano, in particolare con il cartone raffigurante una Battaglia conservato all’École des Beaux Arts di Parigi (cfr Stefania Massari, 1983, Giulio Romano pinxit et delineavit, pag. 62). Appare quindi probabile ipotizzare per questa stampa l’esistenza di un modello di Giulio Romano mentre un disegno, nello stesso verso rispetto all’intaglio del Caraglio, conservato agli Uffizi ed attribuito con formula dubitativa a Perin del Vaga, sembra essere una replica di questo modello originale ormai perduto.

Bartsch, vol. XV, pagg. 93-94, n. 59 | Massari, 1985, pagg. 236-237, n. 1 | Massari, 1993, pag. 62, n. 52

Verona o Parma ca. 1500 - Parma 1570

Giacomo CARAGLIO

9 Battaglia con armati di scudo e di lancia

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Bulino mm 223x176. Probabile primo stato su tre, antecedente all’excudit di Antonio Salamanca nel bordo bianco inferiore a destra. Magnifico e fresco esemplare completo all’impronta del rame, in ottimo stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,17 ± 0,01 mm, distanza irregolare tra i filoni di ca. 32-35 mm, in corrispondenza della filigrana di 30 mm, con filigrana “Balestra in un cerchio sormontato da giglio”, Ø 50x48 mm, altezza totale 71 mm, Woodward n. 216 (identica), Europa 1542 (fil. n. 7). Seconda incisione appartenente alla serie di sei intagli tratti da disegni ora perduti di Rosso Fiorentino il quale, secondo Vasari, li avrebbe eseguiti direttamente per la divulgazione a stampa. A destra, sulla riva del fiume gonfio e pieno di vortici, Ercole in piedi con la pelle di leone in testa ha scoccato la freccia avvelenata, non visibile nell’incisione, contro il Centauro Nesso. A sinistra, Nesso colpito a morte, dona il suo manto intriso di sangue e veleno alla giovane Deianira che ha cercato di rapire e che porta ancora in groppa. In primo piano la personificazione del dio fiume Eveno che porta un grande vaso che per il peso rischia quasi di farlo cadere all’indietro. In questo giovane muscoloso, coricato e visto di schiena in un plastico movimento di torsione, Eugene Carrol ha intravvisto riferimenti ai nudi della Cappella Sistina. L’incisione è in relazione con un episodio delle gesta di Ercole narrato nel cap. IX delle Metamorfosi di Ovidio: “At te, Nesse ferox, eiusdem virginis ardor perdiderat volucri traiectum terga sagitta... - Ma a te, feroce Nesso, la passione per quella fanciulla è costata la vita, trafitto alla schiena da una freccia in volo...” Narra il mito che Eracle tornando alla sua città con la giovane sposa Deianira giunse alle rapide del fiume Eveno, in piena e quasi impossibile da attraversare. Mentre Eracle gettati sull’altra sponda clava ed arco lo guada impavido a nuoto, Deianira impaurita viene trasportata in groppa dal Centauro Nesso che usava traghettare i viaggiatori da una sponda all’altra. Ma Nesso invece di depositare la fanciulla sulla riva opposta si dà alla fuga cercando di rapirla; Eracle, già sull’altra sponda, sentita l’invocazione della moglie, scocca una freccia avvelenata con il sangue dell’Idra di Lerna che trafigge alla schiena il fuggiasco. Nesso in agonia giura vendetta e dona a Deianira il suo manto intriso di sangue promettendole che ogni volta che Eracle avesse mostrato interesse per un’altra donna sarebbe bastato farglielo indossare per farlo tornare devoto, garantendone così l’amore eterno. Tempo dopo giunse all’orecchio di Deianira la voce menzognera che Eracle si era invaghito della principessa Iole; dopo molto pianto, ricordandosi della promessa di Nesso, manda in dono ad Eracle tramite l’ignaro schiavo Lica la veste intrisa di sangue. Eracle prende la veste e senza saperlo indossa il veleno dell’Idra di Lerna che rapidamente si diffonde per tutte le sue membra. L’eroe muore bruciando tra atroci dolori e la vendetta del Centauro Nesso fu compiuta. Deianira disperata si uccise anch’ella.

Bartsch, vol. XV, pag. 85, n. 45 | Carrol, 1987, pag. 78, n. 10 | Oberhuber-Gnann, 1999, pag. 350, n. 259

10 Ercole e Nesso

Verona o Parma ca. 1500 - Parma 1570

Giacomo CARAGLIO

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Acquaforte mm 215x115. Stato unico. In alto a sinistra il monogramma “AF”.Bellissimo esemplare completo all’impronta della lastra con filomargine al lato inferiore e sinistro, in ottimo stato di conservazione a parte alcuni difetti minori. Carta dello spessore di 0,14 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni di 25 mm.Questa rarissima acquaforte che rappresenta una donna vestita alla romana vista di profilo mutila delle braccia seduta su una sedia ai cui piedi si trova un cane mutilo della parte superiore del corpo, probabilmente databile al 1545, fa parte di un gruppo di 28 incisioni rappresentanti statue antiche. Non si tratta di interpretazioni dirette dell’autore, bensì di traduzioni incise tra il 1543 ed il 1545, stilisticamente non omogenee, da disegni d’après l’antique di mano del Primaticcio, anche se è noto un solo disegno preparatorio appartenuto a Ph. de Chennevières servito per la dea Igea.

Bartsch, vol. XVI, pagg. 346-347, n. 23 | Herbet, 1969, pag. 86, n. 90 | Zerner, 1969, n. A.F. 110

11 Donna seduta su una sedia

Bologna ? - 1550

Antonio FANTUZZI

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Bulino mm 480x578. Secondo stato si cinque, antecedente all’indirizzo dello stampatore Van Aest. Lo Zanetti riporta un primo stato privo di firma. In basso al centro la firma dello Scultori e la data “∙ I ∙ B ∙ MANTVANVs / SCVLPTOR ∙ 1538 ∙”. Bellissima e contrastata prova stampata, completa di marginino attorno alla linea di inquadramento quasi sempre visibile su tutti e quattro i lati. Piega centrale verticale visibile al verso ed alcuni strappi riparati, ma nel complesso in ottimo stato di conservazione considerate le dimensioni del foglio. Al verso tre disegni a matita: studio di giovane, studio di avambraccio e mano e studio di uomo maturo.

Bartsch identifica questa accanita battaglia navale come I Troiani che respingono i Greci ai loro vascelli; assegna l’invenzione del soggetto a Giulio Romano e considera questo intaglio come uno dei più considerevoli tra tutti quelli incisi dallo Scultori. Si tratterebbe in realtà di un’opera d’invenzione dello stesso Scultori nella quale sono stati identificati vaghi riferimenti a Giulio Romano nella figura del guerriero in piedi con il ginocchio sinistro piegato intento a sferrare un colpo di scimitarra e più precisi richiami al cartone della pesca miracolosa di Raffaello nell’uomo sulla prua della nave a destra con le braccia tese a sollevare un ferito.

Bartsch, vol. XV, pag. 383, n. 20 | Massari, 1981, pag. 22, n. 6

12 Battaglia navale

Mantova 1503 - ivi 1575

Giovanni Battista SCULTORI

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Bulino mm 140x315. Secondo stato su tre, antecedente all’excudit di Antonio Salamanca. Eugene A. Carrol riferisce l’esistenza di un primo stato, probabilmente in prova unica, conservato agli Uffizi di Firenze, nel quale sono assenti il disegno dei mattoni sul muro eretto a sinsistra e la puntinatura sul pavimento e sull’alzata dei gradini (cfr Eugene A. Carrol,1987, Rosso Fiorentino - Drawings, Prints and Decorative Arts, pag. 261, nota n. 1). Sullo zoccolo della colonna compare la data “1542” e nel margine bianco inferiore la scritta in latino “QUO NON PENETRAT, AUT QUID NON EXCOGITAT PIETAS? QUAE IN CARCERE SERVANDI PATRIS NOVAM RATIONEM / INVENIT” vale a dire “Dove non giunge o che cosa non inventa l’amore filiale? Trovò infatti un nuovo modo per salvare il padre in carcere”. Magnifica e brillante prova completa di sottile margine oltre l’impronta della lastra su tre lati, al lato inferiore, sotto la scritta, irregolarmente rifilata entro la battuta. In ottimo stato di conservazione a parte alcuni difetti minori. Carta dello spessore di 0,19 mm, distanza tra i filoni 35 mm. L’incisione descrive l’exemplum virtutis narrato nella famosa storia del vecchio Cimone e di sua figlia Pero, che appaiono al centro mentre Cimone per trarre nutrimento avvicina la testa, attraverso l’inferriata della sua prigione, alla mammella di Pero seduta sul davanzale con il suo bambino in braccio, storia trasmessaci da Valerio Massimo nel I° secolo d.C. nel suo Factorum dictorumque memorabilium. Spetta ad Evelina Borea il merito di aver identificato in maniera definitiva l’invenzione del soggetto, già attribuita dall’Armano a Raffaello: l’incisione è in rapporto con un rilievo a stucco sito al di sotto dell’affresco di Cleobi e Micone nella Galleria di Francesco I° nel Castello di Fontainebleau ed è nella stessa direzione. Lo stucco è sicuramente d’invenzione di Rosso Fiorentino e venne realizzato d’après un disegno, purtroppo perduto, che servì da modello anche per l’incisione, la quale si differenzia in alcuni punti figurativi, oltre che per le dimensioni, dall’opera scolpita. Lo stesso disegno servì anche da modello per un fregio, più aderente all’incisione rispetto allo stucco e nella stessa direzione di entrambi, presente nell’arazzo di Cleobi e Micone databile 1535-1536, uno dei sei arazzi destinati a decorare la Galleria di Francesco I°, ora conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Per quanto riguarda la paternità dell’incisione si è preferito seguire le indicazioni del British Museum che la assegna a Georges Reverdy, ricordando che Stefania Massari identificò in Bonasone l’autore del bulino sulla base del fatto che la matrice, ora perduta, venne catalogata sotto questo nome nell’Indice delle stampe esistenti nella calcografia della Rev. Camera Apostolica del 1784; Zerner considera lo stile incisorio vicino alla maniera di Domenico del Barbiere; Herbet, Carrol e Droguet rigettano ogni attribuzione e considerano il bulino come di mano anonima, come pure Adam Bartsch che invece dell’acquaforte in controparte raffigurante lo stesso soggetto scrive “on l’attribue ordinairement à Reuerdino; mais nous n’osons pas le soutenir” pur catalogandola sotto il nome di Gaspar Reverdino.

Bartsch, vol. XV, pagg. 387-388, n. 2 | Herbet, 1969, cap. V, pag. 130, n. 11 | Massari, 1983, pagg. 34-35, n. 5 | Carrol, 1987, pagg. 260-261, n. 81 | Droguet, 2013, in Le Roi et l’Artiste - François Ier et Rosso Fiorentino, pag. 133, n. 43 |

13 Caritas Romana

Lione attivo ca. 1531 - 1554

Georges REVERDY

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Bulino, mm 432x575. Probabile secondo stato su due. In basso al centro in un’area bianca la scritta “MICHAEL . ANGELVS . B . PINXIT . IN . VATICANO”. Al di sotto, l’excudit dell’editore Antonio Salamanca seguito dalla data “EXCUDEBAT. ANT . SALAMANCA 1548” (lo stato anteriore porta la data 1545) risulta assente nell’esemplare presentato, in quanto rifilato subito al di sotto del nome dell’inventore del soggetto (cfr Bibliotèque Nationale, Inventaire des fonds français, gruvures du seizième siècle,1932, pag. 210, n. 3). Bellissimo esemplare in ottime condizioni di conservazione, completo all’impronta del rame su tre lati, con filo di margine al lato superiore; rifilato all’interno della lastra al lato inferiore. Carta dello spessore di 0,19 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni di 30 mm, con filigrana “Scala in un cerchio con stella a sei punte sopra il cerchio”, Ø 43x46 mm, altezza totale 75 mm, Woodward n. 238 (identica), Roma 1548 (fil. n. 8). Rappresenta la quarta lastra contenente il gruppo centrale con la figura del Cristo, contando da sinistra a destra e dall’alto in basso, di una incisione multipla che, costituita da 12 fogli congiunti, raggiunge dimensioni molto ragguardevoli (1545x1320 mm) e rappresenta il Giudizio Universale affrescato dal Buonarroti nella Cappella Sistina tra il 1536 e il 1541. Bury ritiene che questa incisione, assieme ad altre tre, La Barca di Caronte, Gli Angeli che suonano la Tromba e La Resurrezione dalla Morte, venisse stampata per essere venduta come foglio singolo. Solo l’ultima lastra della serie, la Barca di Caronte, la sola che porta la firma di Nicolò e che riportando nel primo stato la data 1543 è la più antica, sarebbe di mano del maestro (cfr Michael Bury, Niccolò Della Casa’s Last Judgement Dissected, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-4). A tutt’oggi ancora senza risposta è invece la questione di chi sia l’autore delle altre lastre.

Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pag. 181, n.1 | Le Blanc, 1856-1888, tome I, pag. 610, n. 1 | Passavant, 1860-1864, tome VI, pag.124, n.1 | Bibliotèque Nationale, Inventaire des fonds français, gruvures du seizième siècle,1932, pag. 210, n. 3 | Moltedo, 1991, pagg. 50-52, n. 6 | Bellini, 1998, pag. 219, n. 51/1 | Borea, 2009, vol. I, pagg 120-121 e vol. II cap. X, n. 20 | Bury, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-10 | Barnes, 2010, pagg. 100-106

14 Cristo Giudice

Lorraine - Roma attivo prima metà XVI secolo

Niccolò DELLA CASA

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Bulino, mm 423 x 503. Stato unico. In basso al centro verso destra la sigla “A.S.X”, cioè verosimilmente “Antonio Salamanca excudit”, come ipotizzato da Michael Bury (cfr Michael Bury, Niccolò Della Casa’s Last Judgement Dissected, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pag. 10).Superba prova con filomargine oltre la battuta del rame; piega mediana verticale visibile per lo più al verso, per il resto in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni di 40 mm (in corrispondenza della filigrana la distanza tra i filoni è di mm 25) con filigrana “Croce greca in un cerchio sormontato da una stella”, Ø 43 mm ed altezza totale di 65 mm (fil. n. 9). Provenienza: Bibliotèque Nationale de France di Parigi, al recto timbro “BR”in viola, Lugt n. 408 e timbro ovale “double” sovrapposto.Rappresenta l’ottava lastra, contando da sinistra a destra e dall’alto in basso, di una incisione multipla che, costituita da 12 fogli congiunti, raggiunge dimensioni molto ragguardevoli (1545x1320 mm) e rappresenta il Giudizio Universale affrescato dal Buonarroti nella Cappella Sistina tra il 1536 e il 1541. Solo l’ultima lastra, rappresentante La Barca di Caronte, porta la firma di Della Casa ed è l’unica che Bury considera di mano del Maestro, mentre risulterebbe complicata l’attribuzione delle altre potendo solo affermare con certezza che non tutte risultano incise dallo stesso autore (Bury, op. citata, pag. 9).

Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pag. 181, n.1 | Le Blanc, 1856-1888, tome I, pag. 610, n. 1 | Passavant, 1860-1864, tome VI, pag.124, n.1 | Bibliotèque Nationale, Inventaire des fonds français, gruvures du seizième siècle,1932, pag. 210, n. 8 | Moltedo, 1991, pagg. 50-52, n. 6 | Bellini, 1998, pag. 219, n. 51/1 | Borea, 2009, vol. I, pagg 120-121 e vol. II cap. X, n. 20 | Bury, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-10 | Barnes, 2010, pagg. 100-106

Lorraine - Roma attivo prima metà XVI secolo

Niccolò DELLA CASA

15 La caduta dei dannati

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34

Bulino, mm 406 x 557. Primo stato su due, antecedente al nome dell’editore e alla data “EXCVDEBAT . ANT. SALAMANCA . / . 1548” aggiunti, nel secondo stato, in basso a destra. In basso a sinistra la scritta “MICHAEL . ANGELVS . BONAROTVS . FLORENTINVS . PINXIT . IN . VATICANO”. Questo stato non viene catalogato nell’Inventario del Fondo Francese della Bibliotèque Nationale che riporta solo la prova con la data e l’excudit del Salamanca e, in analogia con quanto segnalato da Bury per Gli Angeli suonano la Tromba, si tratta probabilmente di una prova di stampa più che di un precoce stato pubblicato. La stampa appare infatti non completamente finita: mancano, sopra lo scheletro posto al centro verso sinistra, i piedi ed i lembi inferiori del drappeggio della figura femminile che si sviluppa in alto nel foglio posto subito al di sopra nella composizione delle lastre assemblate, come pure i piedi della figura maschile che sembrano appoggiarsi sul dorso di uno dei tre uomini nudi posti verso destra. E’ da segnalare che la carta e la filigrana sono identiche a quelle presenti nella stampa descritta nella scheda n. 17 del presente catalogo. Superbo e precoce esemplare con filo di margine oltre la battuta del rame, in ottime condizioni di conservazione a parte un piccolo patch di reintegro in basso verso destra nella parte bianca non incisa, un corto strappo riparato al bordo superiore verso sinistra e piega mediana verticale visibile per lo più al verso. Carta dello spessore di 0,18 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni di 40 mm (in corrispondenza della filigrana la distanza tra i filoni è di mm 28) con filigrana “Scala in uno stemma sormontato da croce”, 94x32 mm, Woodward nn 255-256 (simile), Roma 1558-1559 (fil. n. 10). Provenienza: Bibliotèque Nationale de France di Parigi, al recto timbro “BR” in viola, Lugt n. 408 e timbro ovale “double” sovrapposto. Costituisce la lastra posta a sinistra in basso di una incisione multipla che, costituita da 12 fogli congiunti, raggiunge dimensioni molto ragguardevoli (1545x1320 mm) e rappresenta il Giudizio Universale affrescato dal Buonarroti nella Cappella Sistina tra il 1536 e il 1541. Solo l’ultima lastra, rappresentante la Barca di Caronte, l’unica considerata da Bury come incisa da Nicolò, porta la firma di Della Casa e la data 1543 costituendo la lastra più antica dell’insieme. Bury (cfr Michael Bury, Niccolò Della Casa’s Last Judgement Dissected, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-4) ritiene inoltre che La barca di Caronte, assieme ad altre tre, Gli Angeli che suonano la Tromba, Gesù Giudice e La Resurrezione dalla Morte venissero stampate per essere vendute come fogli singoli. Questa opinione viene condivisa da Bernadine Barne (cfr Bernadine Barne, Michelangelo in print, 2010, pag. 106).

Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pag. 181, n.1 | Le Blanc, 1856-1888, tome I, pag. 610, n. 1 | Passavant, 1860-1864, tome VI, pag.124, n.1 | Bibliotèque Nationale, Inventaire des fonds français, gruvures du seizième siècle,1932, pag. 210, n. 9 | Moltedo, 1991, pagg. 50-52, n. 6 | Bellini, 1998, pag. 219, n. 51/1 | Borea, 2009, vol. I, pagg 120-121 e vol. II cap. X, n. 20 | Bury, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-10 | Barnes, 2010, pagg. 100-106 |

Lorraine - Roma attivo prima metà XVI secolo

Niccolò DELLA CASA

16 La resurrezione dei morti

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Bulino, mm 339 x 441. Primo stato su due, antecedente al nome dell’editore e della data “ANT. SALAMANCA . 1548” aggiunti, nel secondo stato, subito dopo la scritta incisa in basso verso destra “MICHAEL . ANGELVS . BONAROTVS . FLORENTINVS . PINXIT . IN . VATICANO”. Da segnalare che Bury considera questa prova senza data e senza indirizzo del Salamanca una probabile prova di stampa più che un precoce stato pubblicato. Superbo e precoce esemplare nel complesso in ottime condizioni di conservazione considerata la rarità della stampa, nonostante la presenza di tasselli di reintegro in corrispondenza dell’angolo superiore sinistro e lungo il lato sinistro. Carta dello spessore di 0,18 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni di 40 mm (in corrispondenza della filigrana la distanza tra i filoni è di mm 28) con filigrana “Scala in uno stemma sormontato da croce”, 94x32 mm, Woodward nn 255-256 (simile), Roma 1558-1559. (fil. n. 10) Provenienza: Bibliotèque Nationale de France di Parigi, al recto timbro “BR”in viola, Lugt n. 408 e timbro ovale “double” sovrapposto. Questa rarissima incisione rappresenta la settima lastra, contando da sinistra a destra e dall’alto in basso, di una incisione multipla che, costituita da 12 fogli congiunti, raggiunge dimensioni molto ragguardevoli (1545x1320 mm) e rappresenta il Giudizio Universale affrescato dal Buonarroti nella Cappella Sistina tra il 1536 e il 1541. Solo l’ultima lastra, rappresentante la Barca di Caronte, l’unica considerata da Bury come incisa da Nicolò, porta la firma di Della Casa e la data 1543 costituendo la lastra più antica dell’insieme. Bury (cfr Michael Bury, Niccolò Della Casa’s Last Judgement Dissected, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-4) ritiene inoltre che La Barca di Caronte, assieme ad altre tre, Gli Angeli che suonano la Tromba, Gesù Giudice e La Resurrezione dalla Morte venissero stampate per essere vendute come fogli singoli. Questa opinione viene condivisa da Bernadine Barne (cfr Bernadine Barne, Michelangelo in print, 2010, pag. 106) e sembra avvalorata dalla presenza sulla stampa presentata della scritta che richiama Michelangelo come autore dell’affresco da cui essa è tratta, scritta che scompare quando l’incisione viene assemblata con le altre.

Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pag. 181, n.1 | Le Blanc, 1856-1888, tome I, pag. 610, n. 1 | Passavant, 1860-1864, tome VI, pag.124, n.1 | Bibliotèque Nationale, Inventaire des fonds français, gruvures du seizième siècle,1932, pag. 210, n. 6 | Moltedo, 1991, pagg. 50-52, n. 6 | Bellini, 1998, pag. 219, n. 51/1 | Borea, 2009, vol. I, pagg. 120-121 e vol. II cap. X, n. 20 | Bury, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pagg. 3-10 | Barnes, 2010, pagg. 100-106 |

Lorraine - Roma attivo prima metà XVI secolo

Niccolò DELLA CASA

17 Gli Angeli suonano la tromba

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Bulino mm 367x479. Secondo stato su sei, con l’indirizzo dello stampatore Lafreri in basso verso destra “Romae Antonij Lafreri Formis”. Nel margine bianco inferiore al centro il nome dell’inventore del soggetto “I. B. MANTVANVS. IN.” e in basso a sinistra, sul sasso, il nome dell’incisore “GEOR / MANT / ∙ F ∙”. Massari (1980) riferisce di uno stato ante litteram descritto dal Vasari, di cui però non si conserva traccia.Magnifica e contrastata prova completa all’impronta della lastra con filomargine visibile a tratti e con il margine inferiore bianco, in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni di 28 mm, con filigrana “Scudo con Lettera M delimitata da doppia linea sotto una stella a sei punte”, 70x45 mm, Woodward n. 328 (identica), Venezia 1571 e Lewis n. 38.(fil. n. 11) La stampa che si basa, come è scritto, su un disegno perduto di Giovanni Battista Scultori, influenzato da modelli di Giulio Romano, illustra l’episodio dell’inganno ordito dai Greci per conquistare Troia narrato nell’Eneide (II, 57-198). La scena si svolge all’alba come indicato dalla presenza in alto verso destra di due cavalli del carro di Aurora quando Sinone, lo scaltro amico di Ulisse, al centro della composizione bendato e in ginocchio sulla sponda di una palude, racconta ai Troiani che si accalcano attorno a lui, che i Greci hanno deciso di togliere l’assedio per tornarsene in patria lasciando abbandonato e deserto l’accampamento che si può vedere in alto a sinistra della stampa; continua dicendo che Ulisse lo aveva destinato ad essere sacrificato per propiziare un favorevole viaggio di ritorno, ma quando tutto era ormai pronto per il sacrificio e già era stato bendato, riuscì a scappare, nascondendosi durante la notte tra le canne della palude. Aggiunge ancora che i Greci avevano lasciato il cavallo di legno, visibile in alto verso il centro, come offerta a Minerva e che lo avevano costruito così grande per impedirne il passaggio attraverso la porta della città, credendo che se il cavallo fosse entrato in Troia tutti i popoli dell’Asia si sarebbero coalizzati contro i Greci. I Troiani ingannati dalle parole di Sinone fanno entrare il cavallo in città abbattendo parte delle mura ed una volta dentro, i Greci nascosti nella sua pancia poterono conquistare la città. Bellini (1998) data l’esecuzione di questo bulino fra il 1546 e il 1550, nell’ultima fase del periodo mantovano o durante il soggiorno romano del Ghisi.

Bartsch, vol. XV, pag. 396, n. 28 | Le Blanc, 1856-1888, tome II, pag. 294, n. 61 | Massari, 1980, pagg. 124-125, n. 180 | Lewis, 1985, pagg. 49-50, n. 7 | Bellini, 1998, pagg. 52-54, n. 8

18 Sinone inganna i Troiani

Mantova 1520 - ivi 1582

Giorgio GHISI

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Bulino, lastra a forma irregolare mm 245-298 x 385. Primo stato su tre, antecedente alla lettera maiuscola “F” apposta nel secondo stato nell’angolo inferiore sinistro e ai panneggi censori post-conciliari incisi a coprire le parti intime delle figure nel terzo stato. Magnifica prova nitida e precoce; piega verticale centrale visibile per lo più al verso, per il resto in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,14 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni di 40 mm, con filigrana “Scala in uno scudo delimitato da doppia linea, sormontato da una croce”, mm 80x55, Woodward n. 257 (identica), Roma 1540 (fil. n. 12).Sesta lastra, contando in senso antiorario da destra a sinistra e dall’alto in basso, appartenente alle 10 di formato irregolare che unite insieme costituiscono un’opera di grandi dimensioni (mm 1200 x 1070) rappresentante il Giudizio Universale tratto dall’affresco michelangiolesco. L’opera del Ghisi deriverebbe non già direttamente dall’affresco, bensì dal disegno che Marcello Venusti realizzò durante il suo soggiorno romano del 1541, subito dopo lo scoprimento dell’affresco; Alida Moltedo ritiene che Ghisi abbia in realtà anche studiato personalmente il Giudizio di Michelangelo. Per quanto riguarda la datazione di questo Giudizio non esiste accordo tra gli studiosi. Autorevoli autori come S. Boorsch e D. Landau ne collocano l’esecuzione alla metà degli anni quaranta e concorda con questa datazione Moltedo che avanza l’ipotesi secondo cui “Ghisi avrebbe fatto una prima versione del Giudizio verso la fine degli anni Quaranta, sulla base di una prima conoscenza diretta dell’affresco e di una sua riduzione in scala attraverso i disegni del Venusti. [...] Verso la fine degli anni Cinquanta, primissimi Sessanta avrebbe pubblicato una prima edizione formale del Giudizio, cui avrebbe fatto seguito la facchettiana, dopo il ritorno del Ghisi a Mantova, oppure prima di questo evento, avendo fatto pervenire le lastre all’editore mantovano tramite terze persone” (cfr Alida Moltedo, La Sistina Riprodotta, 1991, pag. 72). P. Bellini ritiene viceversa, pur non possedendo dati certi, più probabile una datazione attorno agli anni Sessanta, piuttosto che una intorno alla metà degli anni Quaranta. La filigrana databile agli anni quaranta presente nel foglio presentato, congiuntamente alla superba qualità dell’impressione, fa ritenere che si tratti di una prova assai precoce della primissima tiratura sostenendo la datazione anticipata ipotizzata da Boorsch e Landau e successivamente da Montedo, almeno per alcuni fogli probabilmente stampati sciolti, del Giudizio.

Bartsch, vol. XV, pagg. 395-396, n. 25 | Le Blanc, 1856-1888, tome II, pag. 295, n. 18 | Lewis, 1985, pagg. 53-57, n. 9 | Moltedo, 1991, pagg. 68-72, n. 17 | Bellini, 1998, pagg. 213-225, n. 51 | Borea, 2009, vol. I, pagg 120-121 e vol. II cap. X, n. 21 | Bury, Print Quaterly, XXVII, 2010, 1, pag. 6, n. 2 | Barnes, 2010, cap. 4, pagg. 100-106

Mantova 1520 - ivi 1582

Giorgio GHISI

19 I Dannati

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Bulino mm 279x390. Raro primo stato su tre, prima dell’aggiunta dell’indirizzo del de Rossi che nel terzo stato è sostituito da quello del Losi. In basso su un sasso verso sinistra il nome di Michelangelo, inventore del soggetto, “INV ∙ / MICH ∙ ANG ∙/ BONAROTI ∙” e verso destra su un altro sasso il monogramma dell’incisore “∙ NB ∙ / LOTAR ∙ / ∙ F ∙”. Magnifico esemplare nitido e contrastato, completo all’impronta del rame; piega centrale verticale visibile soprattutto al verso, uno strappo ben riparato dal bordo inferiore verso l’alto e sinistra ed alcuni raggrinzimenti della carta visibili al verso, nel complesso in buone condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,16 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 25 mm, con filigrana “Aquila in un cerchio sormontato da corona”, Ø 45x42 mm, altezza totale 60 mm, Woodward n. 67 (simile), Roma 1555(fil. n. 13). L’incisione è tratta da un disegno a sanguigna attribuito a Michelangelo, ora conservato a Windsor Castle e probabilmente appartenente al gruppo di disegni donati al Cavalieri. Un’altra incisione dello stesso soggetto venne intagliata da Enea Vico con la data 1546. Vico tradusse la sanguigna di Michelangelo in controparte, mentre Beatricetto nello stesso verso, entrambi le stampe però sono esattamente delle stesse dimensioni, un po’ più grandi del disegno, rispetto al quale ambedue sono molto fedeli per quanto riguarda le figure, mentre apportano variazioni significative nel drappeggio di fondo e nelle rocce. Controversi sono i pareri circa la primogenitura dei due intagli; secondo Stefania Massari (1989) fu Beatricetto a realizzare per primo l’incisione. A Bernadine Barnes (2010) sembra evidente che una sia la copia dell’altra e secondo la studiosa Bartsch stesso avrebbe detto che quella di Vico fu la prima, ma noi non abbiamo trovato alcun riscontro circa il dove e il quando Bartsch avrebbe sostenuto questa ipotesi. Una copia della Baccaneria, per usare il titolo adottato dal Lafrery e più recentemente anche da Evelina Borea, reca l’indirizzo di questo stampatore seguito dalla data “Ant. Lafrery Formis Romae 1553” sul sasso in basso a sinistra sotto il nome di Michelangelo e presenta, rispetto all’originale, vistose differenze evidenti soprattutto nelle vegetazione e nel terreno, essendo anche omesso il masso sulla destra che reca il monogramma del Beatricetto. Questa copia di anonimo già ben conosciuta e descritta da Adam Bartsch e successivamente dalla Massari e nel 2003 da Silvia Bianchi nella sua esaustiva catalogazione dell’intera opera incisa di Beatricetto, è stata scambiata prima da Maria Catelli Isola e più recentemente dalla Barnes, per un secondo stato della lastra originale.Al centro un gruppo di putti sono intenti a trasportare, non senza fatica, l’asino di Sileno secondo Bartsch, un cervo secondo Stefania Massari; sulla sinistra, su un piano più alto, un altro gruppo mette a bollire un porcellino in un calderone sotto il quale arde un vivace fuoco; sul fondo a destra, su un piano ancora più alto, altri amorini apparentemente ebbri bevono vino attorno a un tino. In primo piano, sulla sinistra un satiro femmina allatta un bambino mentre un altro le sta in grembo; sulla destra, un nudo maschile addormentato di non facile interpretazione.

Bartsch, vol. XV, pag. 260, n. 40 | Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pagg. 153-154, n.34 | Catelli Isola in Rotili, 1964, pag. 67, n. 38 | Massari-Prosperi Valenti Rodinò, 1989, pag. 234, n. 91 | Bianchi in Grafica d’Arte n. 55, 2003, pag. 6, n. 34 | Barnes, 2009, pag. 64, n. 3.7 | Borea, 2009, vol. I, pag. 124 e vol. II cap. XI, n. 5 | Barnes, 2010, pagg. 64-66

Lunéville ca. 1525 - Roma ca. 1580

Nicolas BEATRIZET detto Beatricetto

20 Baccaneria

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Bulino mm 340x548. Primo stato su sei. La stampa non porta il nome dell’incisore, ma da tutti i catalogatori è concordemente attribuita al Beatricetto. Magnifica e brillante prova completa alla linea di inquadramento e con sottile margine al lato superiore; piega centrale leggermente fissurata in basso, sulla sinistra una piega di stampa visibile al verso dal margine inferiore verso l’alto, macchie di colla al verso con alcune abrasioni, nel complesso, considerate le dimensioni del foglio, in buone condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,20 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni 35 mm, ma in corrispondenza della filigrana 30 mm, con filigrana “Losanga contenente una stella a sei punte in un cerchio”, Ø 45x40 mm, Woodward n. 289 (identica), Venezia 1544 (fil. n. 14).L’incisione riproduce nello stesso verso la colossale statua marmorea risalente ad età adrianea rinvenuta a Roma nel 1512 tra Santa Maria sopra Minerva e Santo Stefano del Cacco che, come indicato dall’incisore nella legenda in alto a destra “ ...HOC • EX • ANTIQUO • MARMOREO / SIMVLACHRO • QUOD • IN • / VATICANO • ...”, venne trasportata per decorare il cortile del Belvedere in Vaticano, prima di trovare la sua attuale dimora al museo del Louvre. Seguendo un’iconografia utilizzata già in epoca ellenistica per rappresentare i fiumi, il dio Tevere ha sembianze di possente figura maschile barbuta, semidistesa, con la testa cinta di una corona di foglie acquatiche ed un manto drappeggiato sull’avambraccio sinistro; tiene con la sinistra una canna palustre, pianta del fiume, in sostituzione del remo presente nella statua. Attributi specifici sono i gemelli Romolo e Remo che secondo la leggenda vennero abbandonati proprio sulle sponde del Tevere e la lupa che li nutrì. La cornucopia che il dio tiene con la destra starebbe a simboleggiare il ruolo avuto dal fiume nella prosperità dell’Urbe. Al lato inferiore Beatricetto estende l’immagine dell’acqua increspata fino a riempire l’intero primo piano, mentre lungo la fascia superiore e laterale che incornicia l’immagine sono descritti gli animali che popolano i dintorni, “... LVPVS . OVES . ARIES . VVLPES . EQVVS . SVS . …”, scene di vita sul fiume come la pesca ed il trasporto delle merci con la rappresentazione di alcune “linteres”, le leggere imbarcazioni utilizzate per la navigazione fluviale, alcuni edifici che aggettano sul fiume, senza trascurare aspetti ludici come il nuoto.

Bartsch, vol. XV, pag. 267, n. 96 | Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pagg. 172-173, n. 100 | Bury, 2001, pagg. 137-138, n. 85 | Bianchi in Grafica d’Arte n. 56, 2003, pag. 6, n. 104

Lunéville ca. 1525 - Roma ca. 1580

Nicolas BEATRIZET detto Beatricetto

21 Il fiume Tevere

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Bulino mm 328x555. Primo stato su quattro. La stampa non porta il nome dell’incisore, ma da tutti i catalogatori è concordemente attribuita al Beatricetto. Bellissimo e fresco esemplare completo di sottile margine oltre la linea di inquadramento in alto e a destra e con filomargine visibile a tratti al lato sinistro ed inferiore. Piega centrale verticale visibile per lo più al verso e strappo riparato dal margine inferiore verso l’alto a sinistra; al verso macchie di colla ed alcune abrasioni lungo il margine inferiore, nel complesso, considerate le dimensioni del foglio, in buone condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,20 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni 35 mm, ma in corrispondenza della filigrana 30 mm, con filigrana “Losanga contenente una stella a sei punte in un cerchio”, Ø 45x40 mm, Woodward n. 289 (identica), Venezia 1544 (fil. n. 14).La stampa riproduce nello stesso verso la monumentale statua riportata alla luce nel 1513, un anno dopo il ritrovamento della sua gemella raffigurante il dio Tevere, sotto la chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva. Ulisse Aldovrandi nel suo trattato del 1556 “Delle statue antiche che per tutta Roma in diversi luoghi e case si veggono”, ci tramanda che “nel mezzo del giardinetto [del Belvedere] si veggono duo simulacri di fiumi antichi, bellissimi, e sta ciascuno di loro coricato sopra la sua base, e si riguardano l’un l’altro. L’un di essi è il simolacro del Tevere [...] L’altro è il simolacro del Nilo, fiume dell’Egitto, che giace col fianco sinistro sopra una Sfinge, animale peculiare dell’Egitto; e con la man manca tiene il Corno della copia, e gli sono di ogni intorno sopra XVII putti del marmo istesso. Nella sua base, che è del medesimo marmo, si veggono scolpiti Crocrodili, barchette, e varie sorti di animali dell’Egitto, che del Nilo stesso nascono”. Anche il Nilo quindi finì dapprima ad adornare il Giardino del Belvedere, per restare poi in Vaticano dove tuttora costituisce il fulcro del Braccio Nuovo del Museo Chiaramonti. Nell’intaglio, il Nilo è rappresentato come un vecchio saggio e barbuto, disteso su un fianco; con la mano destra tiene un fascio di spighe di grano simbolo delle fertilità del terreno della valle del Nilo, assicurata dalle periodiche esondazioni del fiume. Ai suoi piedi un coccodrillo, tipico animale fluviale. I sedici puttini che gli si arrampicano addosso simboleggiano i figli che ha generato, ovvero gli Egizi, la cui civiltà è qui richiamata dalla Sfinge, posta sulla destra. Dei sedici putti, otto hanno la testa od un arto amputato, come pure mozzata appare la testa del coccodrillo sotto il ginocchio sinistro del dio, ad indicare che probabilmente la statua è stata restaurata con il reintegro delle parti mancanti dopo che l’incisore ne aveva tratto il disegno. Sulla destra spighe di grano, uva, rose selvatiche e frutti di loto escono dalla cornucopia, simbolo dell’abbondanza che il Nilo apporta all’Egitto. Anche qui, come nel Tevere, l’intero primo piano lungo il bordo inferiore è colmo delle onde del fiume, mentre nel fregio, sui restanti lati, sono rappresentati gli animali del fiume, coccodrilli ed ippopotami, spesso in lotta tra loro, ibis, buoi tra piante e fiori fluviali e uomini in barca.

Bartsch, vol. XV, pagg. 266-267, n. 95 | Robert-Dumesnil, 1835-1871, tome IX, pagg. 172, n. 99 | Bianchi in Grafica d’Arte n. 56, 2003, pagg. 5-6, n. 103

Lunéville ca. 1525 - Roma ca. 1580

Nicolas BEATRIZET detto Beatricetto

22 Il fiume Nilo

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Acquaforte, bulino e puntasecca mm 433x313. Secondo stato su due con l’iscrizione in basso a destra “Federicus Barocius Vrb / inuentor excudit”. Bellissimo esemplare in perfette condizioni di conservazione con margini irregolari da 2 a 5 mm oltre l’impronta della lastra su tre lati e completo all’impronta al lato superiore con filomargine visibile a tratti. Carta di 0,18 ± 0,02 mm di spessore, distanza tra i filoni di 30 mm, con filigrana “Fiore di giglio su tre monti in un cerchio con lettera M a linea singola sopra il cerchio”, Ø mm 41x46 ed altezza totale mm 55, Woodward n. 112 (identica), Roma 1580 (fil. n. 15). Il primo stato ante litteram, conservato in unico esemplare al British Museum di Londra, è inciso alla sola acquaforte costituendo una sorta di prova d’artista che probabilmente consentì all’autore di prendere visione dei risultati raggiunti; nel secondo stato infatti Barocci ha reinciso a bulino alcune aree rinforzando linee già tracciate all’acquaforte per renderle più scure, in modo da intensificare il contrasto tra luci e ombre e conferire all’intera composizione effetti di vibrazione tonale con intensa profondità di campo. (cfr Mann-Bohn, 2012, pag. 192). Il termine “excudit” che segue la firma starebbe ad indicare che Federico pubblicò personalmente la stampa ed infatti la lastra è rimasta nel suo studio fino al momento della sua morte. E’ verosimile pensare che Barocci abbia tenuto per tutta la sua vita il completo controllo della produzione e distribuzione di questa stampa legata alla basilica di Loreto, uno dei luoghi di pellegrinaggio più famosi d’Europa, ricavando notevoli vantaggi economici dalla sua vendita. La stampa infatti è in rapporto con un dipinto commissionato al Barocci nel 1582 dal duca di Urbino, Francesco Maria della Rovere, per la cappella ducale della basilica di Loreto ed ora conservato nei musei vaticani. Fu terminato nel 1584, data dopo la quale Federico incominciò a lavorare all’incisione. E’ però probabile che una tappa intermedia tra il quadro e l’incisione sia un disegno molto accurato, a penna ed inchiostro, conservato al museo di Budapest (cfr Turner, 2000, pag. 146). “La dernière gravure de Barocci, l’Annunciation, indiscutablement sa plus belle, a de tout temps été admirée pour sa perfection technique et pour la maîtrise dont témoigne son dessin” (Turner, 2000, pag. 145).

Bartsch, vol. XVII, pagg. 2-3, n. 1|Pillsbury-Richards, 1978, pagg. 105-106, n. 75|Reed-Wallace, 1989, pagg. 96-98, n. 44|Turner, 2000, pag. 145, n. 133|Bury, 2001, pag. 54, n. 30|Cerboni Baiardi in Federico Barocci 1535-1612, 2009, pagg. 307-308, n. 40|Mann-Bohn , 2012, pagg. 192-194, n. 9.9

Urbino 1528 - ivi 1612

Federico BAROCCI

23 Annunciazione

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Bulino mm 234x434 (misure massime del foglio), lastra a centina. Stato unico. In basso al centro verso destra in piccoli caratteri su un sasso il monogramma “L D”. Bellissima prova nitida e stampata con tonalità argentee, completa all’impronta del rame; due pieghe di stampa nella parte destra del foglio e due macchie di colla visibili al verso e in trasparenza, piccolo strappo verticale ben restaurato al bordo inferiore verso destra, per il resto in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni 25 mm, con filigrana scarsamente leggibile (fil. n. 16). Il soggetto deriva con sicurezza, secondo lo Zerner, da un’opera di Francesco Primaticcio probabilmente un affresco dipinto sul soffitto di una delle stanze del Castello di Fontainebleau. L’esistenza di tale opera, ormai perduta essendo anche sconosciuta la sede della lunetta, è ipotizzabile solo attraverso questa stampa del Davent; un disegno preparatorio è conservato alla National Gallery di Edimburgo (D.2247).Giove Pluvio, dispensatore della pioggia, comprime le nuvole e ne fa uscire la pioggia che cadendo sulla terra va ad alimentare le urne dissecate dal calore del sole dei Fiumi che appaiono in primo piano, riversi e stremati dalla sete. Dietro a Giove è Mercurio, suo amato figlio, riconoscibile dal petaso alato.

Bartsch, vol. XVI, pagg. 326-327, n. 54 | Herbet, 1969, pag. 24, n. 11 | Zerner, 1969, n L.D. 6 | Brugerolles-Mason-Strasser, 2002, pag. 20, n. 21

Attivo in Francia ca. 1540 - 1556

Leon DAVENT

24 Giove spreme le nuvole

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Bulino mm 227x169. Secondo stato di quattro, unico stato conosciuto da Adam Bartsch, con la data “1597” in basso a destra ed antecedente all’excudit di Matteo Giudici. Bellissima e nitida prova in perfetto stato di conservazione con filo di margine oltre l’impronta della lastra sui quattro lati. Carta dello spessore di 0,19 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 32 mm, con filigrana “giglio in un cerchio con corona a linea singola sovrapposta al cerchio”, Ø 45x43 mm ed altezza totale di 55 mm (fil. n. 17). Provenienza: collezione Pierre Mariette II, al verso firma in inchiostro al gallotannato di ferro “P. Mariette” seguito dalla data “1696”, Lugt n. 1789; al verso timbro di collezione “S” in inchiostro nero, non nel Lugt. Questa incisione con le sue figure scultoree fortemente influenzate dalle statue antiche viste da Agostino durante il suo soggiorno romano è sicuramente basata su un suo disegno, come già proposto da Adam Bartsch e rivela l’influsso di Michelangelo e Raffaello sulla sua opera grafica. Calvesi e Casale hanno visto un rapporto con un disegno dello stesso soggetto a penna e inchiostro bruno con acquarello bruno su matita rossa, già nella collezione Ellesmere a Londra, ora in una raccolta privata. Nella stampa, Agostino ha spostato la Vergine in una posizione più frontale modificando anche la posizione del Bambino secondo uno schema iconografico rivisitato, conservandone però gli elementi principali che occupano gran parte del foglio nel disegno come nell’incisione. La Madonna solleva con la mano un lembo del panno lasciano scoperto il sesso di Gesù che così manifesta la sua natura umana; natura che si esprime, una seconda volta, anche attraverso il sonno del Bambino che fa presagire alla morte di Cristo. La posa del Bambino addormentato deriva dalla Madonna col collo lungo di Parmigianino conservata agli Uffizi, mentre il gesto della Vergine che alza il velo sembra essere stato ispirato dalla Madonna della rosa, sempre di Mazzola, che fu a Bologna prima di giungere alla sua sede attuale nella Gemäldegalerie di Dresda (cfr Babette Bohn, 1995, T.I.B. Commentary, vol. 39, part 1, pag. 350) .

Bartsch, vol. XVIII, pag. 63, n. 43 | De Grazia, 1984, pagg. 189-190, n. 208 |T.I.B Commentary, vol. 39 (Bohn), part 1, 1995, pagg. 350-353, n. .213 | Cristofori, 2005, pagg. 268-269, n. 159

Bologna 1557 - Parma 1602

Agostino CARRACCI

25 Sacra Famiglia

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Bulino mm 339x487. Quarto stato su quattro; la lastra è stata completata e lungo il bordo inferiore, nella parte figurata verso il centro, compare il nome dell’incisore “Aug: Caracius. faciebat”, mentre al di sotto del margine inferiore la sigla dello stampatore Pietro Stefanoni “P S F” a lettere distanziate. Ancora più sotto è stata apposta, come si riscontra soltanto in alcuni esemplari, una lastra aggiuntiva recante, su sei righe, il titolo, due versi in latino su due colonne, la dedica dello Stefanoni rivolta all’amico Pietro Antonio Prisco, incisore di ornamenti e grotteschi, ed il permesso. Magnifica e fresca prova stampata con intenso effetto chiaroscurale e con tono di fondo, completa all’impronta del rame con filomargine visibile a tratti su tre lati; l’incisione inferiore, recante la scritta, è rifilata all’interno dell’impronta di qualche millimetro per cui risultano assenti le ultime due righe con la scritta “Petrus Stephanonius Vicentinus amicitiae, et grati animo ergo D • D • / Superior pmissu”. Carta dello spessore di 0,22 mm, distanza tra i filoni 40 mm, con filigrana “Giglio nel cerchio singolo”, Ø 40 mm (fil. n. 18).Questa stampa d’invenzione di Agostino, l’ultima e forse la più conosciuta delle sue opere, tanto che ne esistono ben tredici copie, fu incisa negli ultimi anni della vita dell’Artista e restò non finita al sopraggiungere della sua morte. Esistono rari secondi stati tirati dalla lastra, tal quale fu lasciata da Agostino, nei quali la gamba, l’avambraccio e la mano sinistra del Santo, con l’eccezione del solo terzo dito che appare finito, ma anch’esso assente in un unico esemplare di primo stato conservato a Berlino, il relativo sfondo in tutta la parte destra, così come parte della testa del leone sulla sinistra, risultano non incise e nella stampa tutto appare bianco, tranne che per la presenza di sottili contorni che delimitano a schizzo l’immagine almeno in alcune parti principali. Tale reperto ci illumina sul modo di procedere dell’Artista che “tracciò leggermente l’intera composizione a bulino e completò a caso le ombreggiature e porzioni interne, anche se risulta aver lavorato in linea di massima cominciando dalle parti più importanti per passare poi a quelli di minor conto” (cfr De Grazia, 1984, pag. 195). Fu Francesco Brizio a completare l’opera, sembra su richiesta Lodovico Carracci, cugino di Agostino, che, come sostiene Adam Bartsch, avrebbe personalmente supervisionato i lavori di completamento. Probabilmente lo stesso Brizio fu anche l’autore del secondo stato nel quale risulta aggiunto il dito di San Gerolamo sperimentalmente prima del completamento della lastra; l’incisione del dito nel secondo stato è più delicata e leggera rispetto al resto, discrepanza che è stata rettificata tramite una rilavorazione della parte nel terzo stato. E’ stato anche ipotizzato che lo stesso Lodovico nel suo viaggio del 1602 possa aver portato la lastra a Roma per farla pubblicare dall’editore Stefanoni che la diede alle stampe nel 1604. In relazione con la stampa esistono numerosi disegni preparatori nei quali il Carracci ha sperimentato l’immagine del Santo in diverse posture e due studi con la sola testa del leone, prima di giungere ad un disegno conclusivo più completo e fedele all’incisione ed in controparte rispetto ad essa, conservato all’Albertina di Vienna.

Bartsch, vol. XVIII, pagg. 75-76 n. 75 | De Grazia, 1984, pagg. 194-195, n. 213 | T.I.B. Commentary, vol. 39 (Bohn), 1995, pagg. 369-385, n. .219 | Cristofori, 2005, pagg. 279-283, n. 163

Bologna 1557 - Parma 1602

Agostino CARRACCI

26 San Girolamo penitente

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Bulino mm 214x156. Stato unico. In basso al centro su una pietra il titolo “QUIS EVADETS ∙”; subito a destra il monogramma del Goltzius a lettere sovrapposte “HG” e, sotto, la data in caratteri molto piccoli “1594”. Nel bordo inferiore una quartina in latino “Flos nouus, et verna fragrans argenteus aura / Marcescit subitò, perit, ali, perit illa venustas. / Sic et vita hominum iam, nunc nascentibus, eheu, / Jnstar abit bullae vanitas elapsa vaporis” seguita dalla firma dell’autore dei versi “F. Estius”. Magnifica prova completa all’impronta del rame in buone condizioni di conservazione. L’antica controfondatura, anche se sottile, impedisce la rilevazione delle caratteristiche della carta.Il titolo sulla pietra, che vagamente ricorda il bordo superiore di una pietra tombale, “Chi può sfuggire?” ed i sottostanti versi dell’Umanista Franco Estius “L’argenteo fiore appena sbocciato, fragrante alla brezza primaverile, rapidamente appassirà e così scomparirà la sua bellezza. Allo stesso modo la vita dell’uomo, fin dalla nascita, è destinata a dissolversi come effimera bolla di sapone o vapore fugace” ci aiutano ad interpretare, se ce ne fosse bisogno, la composizione. Un putto con la mano sinistra tiene una conchiglia con l’acqua e sapone appoggiandosi con il braccio su un cranio, accanto al quale giacciono altre ossa umane; con la destra tiene la cannuccia che ha usato per soffiare delle bolle che volano in aria, alcune iniziando già a dissolversi. In primo piano a sinistra un fiore di giglio sta ancora sbocciando, mentre più indietro, a destra, da un incensiere posato su un’ara si leva una intensa colonna di fumo. I cinque elementi simbolici allusivi, tutti, al tema della caducità della vita, alcuni di tipologia più italiana come il putto, altri ad impronta più nordica, sono stati armonicamente assemblati creando un profondo livello di materialità e suggestione spaziale in un formato relativamente piccolo. Il putto simboleggia sicuramente la giovinezza, ma forse anche di più, l’inconsapevolezza dell’uomo nei confronti del carattere effimero della vita; così pure il fiore di giglio con la sua bellezza non ancora completamente dischiusa allude alla vita che, come il fiore, per quanto rigogliosa inevitabilmente prima o poi è destinata ad appassire. Dal lato opposto il cranio e le ossa umane rappresentano la morte; tra questi estremi, le effimere bolle di sapone ed il fumo che presto scompare disperdendosi nell’aria simboleggiano, entrambi, la transitorietà della vita e dei beni terreni. L’immagine dell’homo bulla, questo particolare tipo di Vanitas vanitatum et omnia vanitas nella quale la vita umana viene accostata alle bolle di sapone, bellissime ma dall’esistenza brevissima, risale all’autore latino del I° secolo a.c. Marco Terenzio Varrone che in apertura della prima parte del Rerum Rusticarum Libri Tres scriveva: “quod, ut dicitur, si est homo bulla, eo magis senex” (“per sé, come si dice, l’uomo è una bolla, tanto più se è un uomo vecchio”); il motto fu ripreso dal siriano Luciano di Samosata nei suoi Dialoghi dei morti: “Hai veduto le bollicine che si levano nell’acqua sotto la cascata di un torrente? Così è la vita degli uomini” e, successivamente anche da Erasmo da Rotterdam che usò l’espressione nei suoi Adagia. L’immagine è ricorrente nella storia dell’arte e l’intaglio del Goltzius ne interpreta uno degli esempi più belli e raffinati; esso godette di grande popolarità e diffusione tanto che Strauss ne cataloga ben sedici copie.

Bartsch, vol. III, pagg. 97-98, n. 10 | Strauss, 1977, vol. 2, pag. 588, n. 323 | T.I.B. Commentary, vol. 3 (Strauss), 1982, pagg. 158-161, n. 160j | The New Hollstein (Leesberg), Goltzius, part I , 2012, pagg. 188-192, n. 128.

Mühlbracht 1558 - Haarlem 1617

Hendrick GOLTZIUS

27 Allegoria della Caducità - Homo bulla

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Bulino mm 536x405. Raro primo stato su cinque, antecedente all’indirizzo del de Rossi, mentre quello del van Aest è stato barrato. In basso a sinistra l’indirizzo dello stampatore “Nicolai uan Aelst Bruxellensis formis ∙” e a destra la firma dell’incisore “G: Sadeler Sculp: Romae ∙”. Nella banderuola al lato inferiore la dedica in latino al Cardinal Santori del quale compare al centro lo stemma, con un riferimento al Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino, inventore del soggetto e la data 1593. Magnifica e fresca prova completa all’impronta del rame con filomargine visibile a tratti e con sottile margine oltre la linea di inquadramento al lato inferiore. Piega centrale orizzontale visibile per lo più al verso; al verso macchie di colla, nel complesso in ottimo stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 38 mm, con filigrana non completamente leggibile “Figura (animale ?) in un cerchio sormontato da stella a sei punte”, Ø 48 mm, altezza totale 80 mm (fil. n. 19)“II Cardinal Santori, al quale è dedicata l’incisione, fu uno dei primi mecenati che appoggiarono ll giovane Cesari. Quindi la dedica è senza dubbio un segno di riconoscenza da parte del pittore. L’incisione deve esser stata piuttosto famosa, come confermano le numerose copie dipinte che ne furono tratte. (Carpineto Romano, S. Michele Arcangelo, v. Catalogo della Mostra dei Restauri 1969, Roma aprile-maggio 1970, n° 27, con attribuzione a scuola lombarda-piemontese; asta Christie’s, 21 aprile 1950, 114,3 x 96,5 cm, con attribuzione al Calvaert, com. di Ph. Pouncey; Roma, Ospedale di S. Spirito, d’autore fiammingo; Madrid Museo de Encamacion, pala d’altare). Un disegno, che copia la figura del manigoldo alla destra di Cristo, è conservato a Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, 25243, matita nera, acquarellato, 335 x 193. Ripetizioni incise esistono di Ragot (Parma Biblioteca Palatina, n° 40), di anonimo, più piccola (n° 41) e rovesciata, ancora piu piccola, del Landry. Secondo quanto riferisce il Ridolfi questa stessa incisione diede spunto ad un quadro di Palma il Giovane, dallo stesso soggetto, dei Padri Crociferi a Venezia, che il Palma avrebbe dipinto per fare concorrenza alla composizione del Cesari. Questo quadro era già terminato nel 1591 (v. Venturi 1932, IX, 7. fig. 124). Ma lo stesso Sadeler esegui nel 1594 un’incisione, da una composizione del Palma il Giovane, di questo soggetto che non è identica al quadro dei Padri Crociferi. Non è da escludersi quindi il fatto che l’opera concorrenziale da parte del Palma sia da riferire a questa incisione e non al quadro dei Padri Crociferi, come dice il Ridolfi. Apparve ancora a Roma nel 1774 presso Carlo Losi.II modello della composizione del Cesari è l’affresco di Federico Zuccari nell’Oratorio del Gonfalone del 1573, e alla base di questa tipologia della Flagellazione sta l’affresco di Sebastiano del Piombo in S. Pietro in Montorio. Da notare che il Cesari invece della solita colonna alta adopera la colonna bassa, cioè la reliquia della chiesa di S. Prassede, come ha gia osservato la Brugnoli (v. Catalogo della mostra del restauro 1969, n° 27)” (Herwarth Röttgen, 2002, Il cavalier Giuseppe Cesari D’Arpino - un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna, pag. 514, n. IV).

Hollstein, Dutch and Flemisch, vol. XXI (De Hoop Scheffer), 1980, pag. 17, n. 46 | Hollstein, Dutch and Flemisch, vol. XXII (De Hoop Scheffer), 1980, pag. 13, ill. N. 14 |T.I.B. Supplement, vol. 72 (De Ramaix), part. 1, 1997 ,pag. 75, n. .047 | Röttgen, 2002, pag. 514, n. IV

Anversa 1570 - Praga 1629

Aegidius II (Gilles) SADELER

28 La Flagellazione di Cristo

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Acquaforte e bulino mm 441x662. Seconda lastra incisa a Nancy; primo stato su due, prima dell’aggiunta dell’excudit di Israel Silvestre e del privilegio reale nel margine a sinistra all’altezza della terza riga della dedica. Nel margine inferiore la dedica in latino, su due colonne di quattro righe ciascuna, al Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici “SERENISSIMO COSMO MAGNO DUCI ETRURIAE”, il cui stemma compare al centro; in basso a destra “fe. Florentiae et excudit Nanceij”. Bellissimo esemplare stampato su due fogli uniti insieme, con la medesima filigrana in entrambi. Sottile margine oltre la linea di inquadramento su tutti e quattro i lati ed impronta del rame visibile a tratti; alcune tenui macchie che interessano soprattutto il margine con la dedica e che non disturbano la godibilità del foglio; al verso alcune abrasioni verticali lungo la linea di congiungimento dei due fogli e residui di antichi supporti, tuttavia nel complesso in buono stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni 25 mm, con filigrana “Leone con stella”, 60x80 mm, Lieure n. 38 (identica), come indicato dalla studioso per il primo stato della prova di Nancy (fil. n. 20). La Fiera dell’Impruneta è considerato il capolavoro di Callot ed una delle più considerevoli opere della storia dell’Incisione. In essa la complessità della composizione ed il numero esorbitante di gruppi impegnati in varie attività sono perfettamente armonizzati in una rigorosa organizzazione a piani degradanti del vasto spazio antistante la chiesa di Santa Maria dell’Impruneta, alla quale ogni 18 ottobre un grande pellegrinaggio conduceva dalla vicina Firenze e da tutta la Toscana una folla immensa. Prima dell’Impruneta nessun artista ha mai rappresentato una simile folla che, secondo il catalogo della Pinacoteca di Monaco che conserva una copia dell’incisione dipinta da Teniers le Jeune, consta di ben 138 uomini e donne, 45 cavalli, 67 asini e 137 cani (cfr Georges Sadoul, Jacques Callot - miroir de son temps, 1969, pag. 114). Di fronte a questo capolavoro tutta Firenze restò folgorata d’ammirazione e il Granduca Cosimo II, al quale l’intaglio era dedicato, conferì a Jacques una medaglia con le sue effigie, onore poco prima riservato anche a Galileo Galilei, medaglia che compare nei ritratti di Callot successivi al 1620. Tale risultato non sarebbe stato raggiunto senza il lungo lavoro preparatorio che precedette l’incisione: più di 230 croquis di figure singole o di gruppi ripresi dal vero sia all’Impruneta, sia nelle strade di Firenze si accompagnano a quattro studi d’insieme. Il primo a matita nera è conservato agli Uffizi ed è nello stesso senso rispetto all’incisione e poco fedele rispetto ad essa a parte la chiesa e gli edifici sul fondo. Il secondo a matita nera, penna e inchiostro e lavis bruno, conservato all’Albertina di Vienna, è in controparte e già rispecchia la disposizione generale dell’incisione, anche se i gruppi sono meno numerosi e meno dettagliati. Il terzo disegno, conservato agli Uffizi, riproduce in forma ingrandita lo schizzo di Vienna. Ed infine l’ultimo, conservato sempre agli Uffizi, costituisce il disegno d’esecuzione definitiva, molto dettagliato, delle stesse dimensioni della lastra e in controparte rispetto ad essa. Ancora da chiarire sono i rapporti con il grande dipinto di Filippo Napoletano, conservato al Pitti di Firenze, che aveva adornato gli appartamenti del Granduca Cosimo II, ritratto con la moglie Maria Maddalena d’Austria, appena sceso da una carrozza. Esiste secondo la Fumagalli il ricordo di un disegno all’acquerello dello stesso soggetto che Filippo avrebbe fatto per il Callot e che sarebbe poi passato nella collezione di Leopoldo de’ Medici, ma che sembra andato disperso (cfr Marco Chiarini, Teodoro Filippo di Liagno detto Filippo Napoletano 1589-1629, 2007, pag. 264). La grande fortuna di questa stampa è testimoniata oltre che dalle numerose copie derivate anche in pittura, dal fatto che Callot una volta tornato a Nancy, probabilmente in seguito all’usura del rame fiorentino, ne eseguì la replica, qui presentata, con pochissime varianti.

Lieure, 1924-1927 (1989), tomo II, pagg. 15-16, n. 478 | Choné-Ternois, 1992, pag. 247, n. 236 | Mariani in Jacques Callot, 1992, pagg. 186-187, n. 19

29 La fiera dell’Impruneta

Nancy 1592 - ivi 1635

Jacques CALLOT

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Acquaforte e bulino mm 375x312. Primo stato su tre, con il monogramma “IL” sul muro ai piedi del Cristo, prima dell’aggiunta di vari dettagli, come i gruppi di arbusti che scendono dal bordo della grotta in alto a sinistra ed i ritocchi delle ombreggiature in alcuni punti; nel terzo stato il monogramma “IL” è sostituito dalla firma dell’incisore seguita dall’excudit dello stampatore van den Wijngaerde “I Liuens fecit / Fran.c Vand en Wijngaerde ex.”.Superba prova ricca di contrasto e dai vellutati toni di fondo completa all’impronta del rame con filo di margine visibile a tratti. Piega centrale orizzontale visibile al verso ed alcuni difetti minori, nel complesso in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore 0,12 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 23 mm, con filigrana “Corno da caccia in uno stemma con lettere BB”, 70x38 mm (fil. n. 21). L’incisione è in controparte rispetto a un dipinto, l’opera forse più significativa ed innovativa del periodo di Leida di Lievens, attualmente al Royal Pavillon and Museums, Brighton & Hove. Il dipinto fu particolarmente apprezzato da Rembrandt che lo acquistò dall’amico per la sua collezione e ne trasse anche un disegno in sanguigna conservato al British Museum. Dipinto e incisione vennero realizzati da Lievens contemporaneamente nel 1631. Nel XVII° secolo il tema della Resurrezione di Lazzaro ebbe vasta popolarità, oltre che per le sue implicazioni teologiche, in virtù dell’impatto emotivo che questa narrazione, tratta dal Vangelo di Giovanni, suscita nello spettatore sbigottito di fronte al “dramma” del miracolo. La maggior parte degli artisti barocchi, tra cui Rembrandt e Castiglione, rappresentano il momento culminante della narrazione in cui Gesù fa rivivere il morto gridando “Lazzaro vieni fuori”. Nell’incisione Lievens focalizza un tempo appena anteriore, quando Gesù con le mani congiunte alza gli occhi al cielo in un intenso momento di preghiera. Cristo si trova isolato sul bordo di un muro ai piedi del quale è il sepolcro di Lazzaro; è avvolto tutto da un alone di luce che illumina, di riflesso, il gruppo di persone che sulla sinistra assistono sbigottite all’evento e che viene riverberato dal drappeggio candido, retto dalla donna in primo piano, verso il sepolcro. E’ un’immagine austera e pacata anche se sono sottolineate le reazioni emotive degli astanti al miracolo che dall’alto vedono il sepolcro con il corpo di Lazzaro che sta riprendendo vita, mentre lo spettatore, da una prospettiva frontale e ribassata, può vederne solo le spettrali braccia che si alzano fuori dalla tomba. Mentre gli artisti cattolici di solito rappresentano un Lazzaro in buona forma fisica che viene aiutato ad uscire dalla tomba da alcuni discepoli di Gesù, a sottolineare l’importanza dei Santi quali intercessori verso Cristo, qui Lievens affronta il tema da una prospettiva protestante secondo la quale Cristo è l’unico mezzo attraverso il quale Dio ha concesso una nuova vita e ritrae Lazzaro che risorge dalla morte senza alcuna assistenza di altri e Cristo non come una rembrandtiana figura dominante con il braccio drammaticamente alzato che ordina a Lazzaro di uscire dal sepolcro, ma quasi come un fragile tramite attraverso il quale scorre il potere di guarigione di Dio.

Hollstein, Dutch and Flemish, vol. XI, pag. 8, n. 7 | Dickey in Jan Lievens a Dutch Master Rediscovered, 2008, pagg. 204-205, n. 73

Leida 1607 - Amsterdam 1674

Jan LIEVENS

30 Resurrezione di Lazzaro

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Acquaforti mm 112-120x256-260. Secondo stato su due con il numero progressivo in basso a destra su ciascuna incisione. Suite completa di dodici fogli, il primo dei quali funge da frontespizio con il titolo e la dedica a Luigi II di Borbone, duca d’Enghien “Diuerses Pajsages / Mis en lumiere / Par / Israel Dedie / A / MON-SEIGNEVR / ET TRES ILLVSTRE PRINCE LOUIS DE BOVRBON DVC D’ANGVIEN” sul monumento adorno di una statua ai piedi della quale compare lo stemma del dedicatario. Nel bordo bianco inferiore di ciascuno degli altri fogli l’excudit dello stampatore Israel con il privilegio reale, mentre in nessuno compare il nome dell’incisore. Magnifiche prove omogeneamente stampate con delicato tono di fondo, con margine di ca. 15 mm su tutti i lati, in perfetto stato di conservazione.Carta dello spessore di 0,12 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 24 mm, con filigrana “Stemma coronato con tre fiori di giglio e sottoscritte lettere G e M”, 48x72 mm, Lieure n. 50 (identica) presente nei fogli 3,4,5,10 e 11 (fil. n. 22). Con il loro formato allungato ed i soggetti trattati queste incisioni non possono non ricordare i dieci paesaggi incisi per Giovanni de’ Medici da Jacques Callot, che sicuramente hanno fornito al Fiorentino una importante fonte di idee ed ispirazione ed in tal senso richiami particolarmente evidenti vi sono per alcuni soggetti, come la caccia al cervo, i porti con le navi ancorate dalle quali vengono scaricate le merci o le battaglie navali con le galere a vele spiegate ed i cannoni fumanti. Qui Della Bella, rispetto al Callot, dà una interpretazione del paesaggio molto meno teatrale ed artificiale, trattandolo secondo un approccio maggiormente naturalistico, ma come in Callot realizza una divisione dello spazio, in cui con estrema naturalezza sono inserite le figure, in piani progressivamente degradanti fino a tenui sfondi, spesso appena accennati. Stefano viaggiò a lungo in Italia ed in Francia, da Firenze a Roma e viceversa, poi da Roma a Parigi e poi di nuovo a Firenze, attraversando probabilmente per la maggior parte a cavallo gli ampi spazi, pianeggianti e montuosi, delle campagne italiane e francesi, guadando fiumi, al galoppo nei tratti aperti, inerpicandosi sulle colline e montagne, per giungere poi anche al mare. Greggi di pecore e mandrie al pascolo, viandanti e mendicanti lungo la via o che si riposano ai piedi di un albero, mulini a vento, casolari e ponti appena un po’ diroccati, villaggi con camini fumanti in lontananza, gruppi di cavalieri al galoppo che risalgono scarpate o guadano torrenti, la caccia al cervo e la pesca con la rete nel fiume, si può pensare che almeno alcuni di questi scenari, immersi tutti in una atmosfera di pacifica armonia, illustrati nei paesaggi siano stati presi direttamente dal vero. Infatti anche con un bagaglio leggero c’era sempre spazio per un album da disegno ed è probabile che gli schizzi veloci tratti durante questi viaggi abbiano costituito prezioso materiale carico di enfasi naturalistica per questa come per altre serie di paesaggi. Sembra discostarsi dai contenuti ricorrenti l’ultima lastra che illustra il tema delle rovine, tema caro a molti artisti del XVII° secolo, dove l’immagine serena del disegnatore che lavora en plain air, seduto di fronte alla tomba di Cecilia Metella, richiama idee già trattate per esempio da Caude Gellée e da Swanevelt (cfr Caroline Joubert in Stefano Della Bella, 1998, pag. 62), mentre addirittura in contrasto con il resto dell’opera appare la prima lastra che funge da frontespizio dove viene rappresentato un monumento in un parco francese con nobili che passeggiano. Tre disegni appartenenti ad un album datato 1636, che l’Artista avrebbe portato con sè a Parigi e che attualmente è conservato agli Uffizi, sono serviti probabilmente da pro-memoria per la quarta e l’ultima lastra, incise quasi dieci anni dopo, nel 1643; mentre un disegno della Collezione Rothschild rappresenta, con alcune varianti, il tema della prima lastra.

De Vesme, 1906, pagg. 199-201, nn. 757-768 | De Vesme-Massar,1971, pagg. 117-118, nn. 757-768 | Joubert in Stefano della Bella, 1998, pag. 62, n. 16 | Schäfer in Stefano della Bella - Ein Meister der Barockradierung, 2005, pagg. 122-126, n. 33

Firenze 1610 - ivi 1664

Stefano DELLA BELLA

31 Diversi paesaggi

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Acquaforte mm 222x169. Stato unico. Bellissima prova stampata con tono in eccellente stato di conservazione con filo di margine oltre l’impronta del rame sui quattro lati. Carta di 0,13 ± 0,01 mm di spessore, distanza tra i filoni di 30 mm.Il tema a spiccata impronta naturalistica e descrittiva del Riposo durante la fuga in Egitto con la raccolta di frutti che vengono poi porti al Bambino in grembo alla Madre, conosciuto anche come “il miracolo della palma” tratto dal Vangelo apocrifo dello pseudo Matteo (XX), fu tema caro al Cantarini che lo trattò graficamente in almeno due incisioni ed in numerosi disegni correlati. Nella presente stampa è l’Angelo, posto in un piano più arretrato, a cogliere i datteri tirando in basso i rami di palma mentre, in primo piano, Gesù bambino in grembo cerca di prendere un frutto dalla mano della Vergine. E’ in relazione con due disegni: il primo, in sanguigna e in controparte, è conservato nella collezione privata C.L.Loyd a Lockinge; il secondo, nello stesso verso, si trova nel Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi. In una seconda incisione (Bartsch n. 2) San Giuseppe ai piedi del tronco della palma, mentre due angioletti ne tirano verso il basso i rami, porge direttamente al Bambino il dattero appena colto; Gesù, in grembo alla Vergine, tende le manine verso il frutto per afferrarlo. Diversi disegni sono correlati con questa incisione pur con varianti evidenti, ma in base alle conoscenze attuali il modello più probabile dovrebbe essere identificato con un disegno estremamente fedele a gesso rosso e con quadrettatura funzionale al trasferimento, venduto da Christie’s, Londra, nell’asta del 8 luglio 1975 ed attualmente presso la National Gallery of Art di Washington (inv. n. 1975.113.19). In relazione con i due precedenti è un altro Riposo in Egitto inciso (Bartsch n. 3) nel quale un angelo domina il centro della composizione trascinando in basso il ramo di palma, pur senza cogliere apparentemente alcun frutto, mentre la Madonna allattante il Bambino e San Giuseppe, quasi accasciati ai suoi piedi, gli rivolgono uno sguardo sorpreso. Il tema poi è sviluppato in un bel disegno abbozzato a penna ed inchiostro bruno a linee ingrossate, ma completamente compiuto dal punto di vista scenico, facente parte del corpus dei disegni del Pesarese conservato presso la Pinacoteca di Brera. E’ qui ancora San Giuseppe, posto più indietro, a cogliere i frutti da un albero, questa volta non una palma, mentre in primo piano l’Angelo li offre in un piatto alla Vergine e al Bambino.

Bartsch, vol. XIX, pagg. 125-1226, n. 5 | Bellini, 1980, pagg. 86-88, n. 19 | Massari, 1985, pagg. 236-237, n. 1 | Massari, 1993, pag. 62, n. 52 | Ambrosini Massari in Simone Cantarini detto il Pesarese 1612 1648, 1997, pagg. 333-334, n. III.17

Pesaro 1612 - Verona 1648

Simone CANTARINI detto Il Pesarese

32 Riposo in Egitto

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Acquaforte mm 193x128. Stato unico. Bellissimo, fresco e nitido esemplare stampato con leggero plate-tone, in perfetto stato di conservazione con margini di circa 10 mm oltre la battuta del rame su tutti e quattro i lati. Carta di 0,15 ± 0,01 mm di spessore, distanza tra i filoni di 30 mm, con filigrana “Quadrupede in un cerchio con lettera P delimitata da doppia linea sopra il cerchio”, Ø mm 50 ed altezza totale mm 70 (fil. n. 23). E’ da segnalare che Paolo Bellini (1980), seguito da Ambrosini Massari (1997), considera questa prova come copia molto ingannevole nello stesso verso e con misure identiche rispetto all’originale, riconoscibile, oltre che per alcune differenze nei tratteggi della nuvola sul lato sinistro, perchè l’aureola sotto il polso destro del santo è completa mentre nell’originale mancano gli ultimi tratti incisi. Non concordano invece con tale asserzione importanti musei come, per esempio per citarne alcuni, il British Museum di Londra (cfr inv. n. u.3.154 e n. 1876.0212.33), il Metropolitan Museum di New York (cfr inv. n. 26.70.4 (120)), la National Gallery of Art di Washington (cfr inv. n. 1971.37.28), il Philadelphia Museum of Art (cfr inv. 1985-52-28337), la Pinacoteca Nazionale di Bologna (cfr inv. n. 3838 (1590)), che continuano a considerare come autografa la nostra prova che, del resto, viene riprodotta nel The Illustradet Bartsch, vol. 42, pag. 95, n. 24, come originale, mentre al successivo numero 24 copy, pag. 96, è riprodotta come copia la prova considerata originale da Bellini. Sempre secondo Bellini, seguito ancora una volta da Ambrosini Massari, il rame relativo al San Sebastiano conservato presso la Calcografia Nazionale di Roma non sarebbe quello dell’incisione originale, bensì della copia: sembra quantomeno sospetto che tra le 21 matrici del Cantarini qui presenti, poco meno della metà tra tutte quelle incise dal Maestro, l’unica copia sia proprio quella in questione.

Bartsch, vol. XIX, pag. 136, n. 24 | Bertelà-Ferrara, 1973, n. 114 | Bellini, 1980, pagg. 106-108, n. 25 | T.I.B., vol. 42 (Spike), 1981, pag. 95, n. 24 | Ambrosini Massari in Simone Cantarini detto il Pesarese 1612 1648, 1997, pag. 329, n. III.14

33 San Sebastiano

Pesaro 1612 - Verona 1648

Simone CANTARINI detto Il Pesarese

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Acquaforte mm 295x200. Stato unico. In basso a destra nella parte figurata la firma del Loli “Laur.s Lo. I. F.”. Nel margine inferiore di 20 mm la dedica in latino, in due linee su due colonne, a Monsignor Antonio Albergati, il cui stemma si vede al centro, che dal 1627 al 1632, avendo rinunciato al vescovado di Bisceglie fu a Bologna come coadiutore del cugino cardinale Ludovico Ludovisi, arcivescovo di quella città. Magnifica prova con ancora ben visibili le tracce di allineamento delle lettere, in perfetto stato di conservazione con margine di ca. 1 cm oltre l’impronta del rame su tutti i lati. Carta dello spessore di 0,20 ± 0,02 mm, distanza tra i filoni 35 mm, con filigrana non completamente leggibile “Figura in un cerchio sormontato da fiore di giglio”, Ø 45 mm, altezza totale 62 mm (fil n. 24 ). Provenienza: collezione Kupferstichkabinett der Staatlichen Museen di Berlino, al verso timbro ovale in nero, Lugt n. 1606 e timbro rotondo in violetto di vendita; collezione W.H.F.K. Graf von Lepell (1755-1826), al verso timbro ovale in nero, Lugt n. 1672.Al centro la Vergine in gloria con le mani giunte e ai suoi piedi in ginocchio sulle nuvole a sinistra Sant’Antonio da Padova e a destra il certosino beato Niccolò Albergati, cardinale arcivescovo di Bologna dal 1417 beatificato da Benedetto XIV° nel 1744. Sant’Antonio porta in braccio il bambino Gesù che con la manina tiene un fiore di giglio, attributo iconografico del santo; il beato Niccolò, dalla parte opposta contempla il Bambino, tenendo la mano destra sul petto, mentre con la sinistra regge un libro; ai suoi piedi la mitra e il cappello con cordoni e fiocchi verdi, emblema della dignità episcopale.

Bartsch, vol. XIX, pagg. 169-170, n. 8 | Bertelà-Ferrara, 1973, n. 750

Bologna 1612 - ivi 1691

Lorenzo LOLI

34 La Vergine con due santi

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Acquaforte, 482x726 mm. Secondo stato su due, dopo l’aggiunta in basso a sinistra dell’indirizzo dello stampatore de Rossi e della data “Gio Jacomo de Rossi formis Romae 1648 alla Pace”. In tre banderuole, in basso, i titoli di altrettante sezioni in cui è suddivisa la scena, a sinistra “AFFECTVS EXPRIMIT”, al centro “ARCVM MERETVR” e a destra “PARNASO TRIVMPHAT”. In una banderuola più grande, in basso a destra, la dedica in latino su sette righe a Girolamo Buonvisi. Bellissima prova completa all’impronta del rame con filomargine, piega centrale verticale visibile per lo più al verso e comune in fogli di queste dimensioni, angolo inferiore destro riattaccato, per il resto in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,27 ± 0,03 mm, distanza tra i filoni 35 mm. Provenienza: collezione Kunstsammlung Kasimir Hagen, Koeln, al verso timbro circolare in viola, non nel Lugt e altro timbro in viola non completamente leggibile. Nella parte di sinistra, AFFECTUS EXPRIMIT, sono descritti gli affetti ovvero i vari stati dell’animo umano che la Pittura può tradurre in immagine. Piacere e sofferenza, coraggio e paura, affetti contrapposti; Il Piacere viene personificato dai due giovani amanti in atteggiamenti affettuosi circondati da putti, mentre una fanciulla offre loro un canestro di fiori; davanti, un uomo tormentato, giacente sul terreno e avvinghiato da un serpente e subito dietro un altro uomo più anziano con le mani legate dietro la schiena incarnano la Sofferenza. Il Coraggio e l’Audacia sono rappresentate nell’uomo in primo piano che infila la mano destra nelle fauci di un leone e che è guardato con ammirazione dal vecchio insicuro in piedi alle sue spalle, immagine della Paura, mentre l’Invidia viene schiacciata sotto le ruote del carro della Pittura. La scena centrale, ARCUM MERETUR, effigia la Pittura come una giovane donna in trionfo su un carro adorno di fregi trainato da due cavalli, intenta a dipingere lo scudo con la stella dei Buonvisi, mentre alle sue spalle le tre Grazie la incoronano di alloro e, dietro lo scudo, due putti mescolano i colori. L’arcobaleno che si manifesta grazie ad un fascio di luce che proviene dal Parnaso, costituisce un iridato arco trionfale. Sulla destra, PARNASO TRIUMPHAT, le Muse accolgono l’arrivo della Pittura per introdurla nel Parnaso, montagna sacra ad Apollo e alle Muse. Nella parte più alta è raffigurato il tempio della fama immortale con alcuni poeti che hanno raggiunto l’immortalità e, sotto di esso, Pegaso fa scaturire dalla roccia l’acqua dell’Ippocrene, fonte di ispirazione artistica. Il secondo stato con l’indirizzo del de Rossi e la data 1648 indica che Testa ha venduto questa lastra, nella quale ha concentrato il suo massimo potere inventivo, due anni prima della sua morte, cioè quando la sua carriera ormai stava vacillando e Buonivisi non avrebbe coperto ancora a lungo a Roma una posizione che gli consentisse di aiutarlo.

Bartsch, vol. XX, pagg. 226-227, n. 35 | Bellini, 1976, pagg. 59-60, n. 29 | Cropper, 1988, pagg. 151-154, n. 73 | TIB Commentary, vol. 45 (Bellini-Wallace), 1990, pag.164, n. .35 | Montagnoli in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014, pagg. 288-289, n. V.3

35 Il Trionfo della Pittura sul Parnaso

Lucca 1612 - Roma 1650

Pietro TESTA detto Il Lucchesino

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Acquaforte 220x160 mm. Stato unico. Nel margine inferiore la dedica in latino su quattro righe a Marco Angelo Flavio Comeno “ILL.mo D.no D.no Comiti / Marco Angelo Flauio Comeno / Argumenthum obsequi opusculum / hoc Joseph Diamantinus inu. D∙D∙”. Magnifica e luminosa prova con ancora visibili le linee di allineamento delle lettere nella scritta inferiore, completa alla linea di inquadramento con filo di margine oltre la stessa al lato superiore; margine bianco di 22 mm al lato inferiore. In perfetto stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,15 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 30 mm, con filigrana “Corona sormontata da una stella sormontata da luna crescente”, 70x42 mm, Heawood n. 1133 (simile), Venezia prima metà del XVII° secolo (fil. n. 25). Provenienza: collezione Max Machnek, al verso timbro lineare in violetto con il nome del collezionista, Lugt n. 1775; al verso altro timbro con iniziali e circolare, in nero, di collezionista non identificato. Librato nell’aria su una nuvola entra da destra il dio Lucifero, con una torcia in ogni mano, per allontanare le tenebre personificate da una donna con due putti. La scena allegorica si rifà alla mitologia greco-romana; Il romano dio Lucifero, letteralmente portatore di luce, corrisponde al greco Eosforo, il dio della luce e della stella del mattino, figlio di Eos, l’Aurora, e del titano Astreo. Eosforo o Lucifero ed Espero sono le divinità legate al pianeta Venere, dapprima considerate come stelle distinte, la prima del mattino, la seconda della sera, poi come la medesima stella che viene chiamata Venere la sera e Lucifero la mattina: è lei, la più splendente tra le stelle, che sorge per prima al crepuscolo, ancor prima dell’avvento della notte ed è l’ultima a tramontare annunciando l’arrivo dell’aurora. Sembra quasi che Calabi avesse di fronte questo soggetto quando scriveva del Diamantini: “E’ assai felice sempre nella composizione della scena aerea, perché colloca il punto di vista nell’aria, all’altezza del personaggio, che vien così veduto da vicino e con direzione parallela: sa far vivere le sue figure sulle nuvolette, compiacenti al loro servizio, o addirittura nell’aria, che attraversano a volo librato con una naturalezza singolare. La famigliarità con la danza (aveva due fratelli calligrafi, suonatori e ballerini) e con la scenografia teatrale potrebbe in parte spiegarla” (cfr Augusto Calabi in Die Graphischen Künste, tomo I, 1936, pag. 26).

Bartsch, vol. XXI, pag. 277, n. 18 | Calabi in Die Graphischen Künste, tomo I, 1936, pag. 31, n. 24 | T.I.B. Commentary, vol. 45 (Bellini-Wallace), 1990, pag. 164, n. .0.35 | Ciacci, 2008, pag. 157, n. 18

36 Lucifero

Fossombrone 1621 - ivi 1705

Giuseppe DIAMANTINI

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Acquaforte mm 299x472. Quarto stato su quattro con la sigla “FF 2.” nel margine bianco in basso a destra. A sinistra la firma del Canaletto “A. Canal f.” e al centro il titolo “le Porte Del Dolo”. Bellissimo esemplare ben inchiostrato, con sottile margine oltre l’impronta del rame su tutti i lati; in perfetto stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,19 ± 0,02 mm; distanza tra i filoni 30 mm.

Bromberg, 1993, pagg. 66-71, n. 6 | Montecuccoli Degli Erri, 2002, pagg. 236-237, n. 6

“Nell’acquaforte le Porte del Dolo la figura umana acquista rilievo. L’elegante coppia, di dimensioni eccezionalmente grandi, spicca al centro, in primo piano, illuminata da un raggio di sole in contrasto con l’ombra del bacino della chiusa. I due personaggi sono insoliti nelle proporzioni e nella descrizione minuziosa rispetto a quelli, schizzati con pochi tratti, che incontriamo abitual-mente nelle acqueforti di Canaletto. L’uomo, sicuro della nostra attenzione, gira la testa e rivolge lo sguardo verso di noi. Anche altri personaggi, tutti indaffarati, popolano la scena. Vi sono il fruttivendolo, la merlettaia e il macellaio visto all’interno della sua bottega. Nel bacino seminascosto dal muretto è ormeggiato un burchiello. L’effetto chiaroscurale è drammatico; a sinistra, la casa con lo stemma, in ombra, contrasta con la facciata illuminata che le sta di fronte. I raggi del sole penetrano nella penombra della veduta per illuminare la coppia al centro e in parte anche gli altri personaggi. II tema chiaroscurale ha ottenuto qui il suo massimo effetto” (Ruth Bromberg in Canaletto, disegni-dipinti-incisioni, 1982, pag. 92). L’incisione è in rapporto con un disegno a penna ed inchiostro bruno su traccia di sanguigna già nella collezione di Lord Melchett, ora in collezione privata. Questo schizzo preparatorio di estrema concisione fornisce già un quadro d’insieme della veduta, bloccando con precisione le zone d’ombra che si ritroveranno poi puntualmente nell’incisione. In un altro disegno a penna ed inchiostro bruno su matita, conservato a Windsor Castle, Royal Library, sono riprodotte con sufficiente aderenza la chiusa e le case sulla destra dell’incisione. Canaletto ha inoltre riprodotto la stessa scena in un dipinto firmato, conservato a Budapest, abbastanza fedele rispetto all’incisione dalla quale differisce soprattutto nei personggi rappresentati. (Ruth Bromberg in Canaletto, disegni-dipinti-incisioni, 1982, pag. 93).

37 Le Porte del Dolo

Venezia 1697 - ivi 1768

Antonio CANAL detto Il Canaletto

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Acquaforte mm 299x472. Terzo stato su tre con la sigla “E 6.” nel margine bianco in basso a destra. Al centro la firma del Canaletto “A. Canal f.”. Prova brillante e nitida in ogni dettaglio, con sottile margine oltre l’impronta del rame su tutti i lati; in perfetto stato di conservazione.Carta dello spessore di 0,19 ± 0,02 mm; distanza tra i filoni 30 mm.

Bromberg, 1993, pagg. 88-93, n. 11 | Montecuccoli Degli Erri, 2002, pagg. 246-247, n. 11

“Un confronto tra l’ordinata costruzione grafica del Paese in riva al fiume e la Veduta fantastica di Padova conferma la tendenza ad un continuo rinnovamento. La gamma cromatica della veduta di Padova, di esecuzione successiva con procedimenti più complessi, porta la sperimentazione ad una nuova espressività. Il taglio compositivo con i vari piani di superficie accentua il gioco di luce ed ombra, il mezzo tecnico si fa più audace. A sinistra, la quinta scenografica dell’albero getta nell’ombra il primo piano, ma l’ombra è trasparente e ci sembra che stia per svanire. Il segno in primo piano è largo, ondulato e mosso; in certi punti, soprattutto a sinistra, è più simile a una pennellata che alla tecnica dell’acquaforte. Anche Canaletto è conscio dell’incongruità, tanto che incide l’angolo vicino con la più pura tecnica incisoria, quella del tratteggio incrociato, come per ricordare a se stesso e a tutti che è l’acquafortista che sta operando. Il primo stato della Veduta fantastica di Padova, conservato al Gabinetto Nazionale delle Stampe come unico esemplare, è servito a Canaletto come prova di stampa. Nel secondo stato l’artista ha apportato vari ritocchi alla lastra: il cambiamento più straordinario è quello davanti alla chiesa con la cupola, dove l’albero è stato trasformato in transetto” (Ruth Bromberg in Canaletto, disegni-dipinti-incisioni, 1982, pag. 92).

38 Veduta fantastica di Padova

Venezia 1697 - ivi 1768

Antonio CANAL detto Il Canaletto

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Acquforte, bulino, puntasecca e raschiatoio mm 391x536. Primo stato su quattro, con l’angolo del rame in basso a sinistra rotto e con rientro concavo e prima del suo arrotondamento. In basso a sinistra verso il centro “Piranesi inv; incise, e vende di rimpetto / all’Accademia di Francia in Roma”. Brillante e luminoso esemplare stampato con tenue tono di fondo, con ampi margini; in ottime condizioni di conservazione, con traccia di piega centrale verticale, come abitualmente si trova in fogli di queste dimensioni, apprezzabile per lo più al verso. Carta dello spessore di 0,27 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 26 mm, con filigrana “Balestra”, 120x55 mm, Robison n. 50 (identica), carta veneta 1747-1749 (fil. n. 26). Secondo alcuni studiosi Piranesi creò la serie dei Grotteschi per la sua ammissione all’Accademia degli Arcadi, nei cui ranghi fu accettato probabilmente nell’autunno del 1748. La tradizione prevedeva infatti che gli artisti che accedevano all’Accademia dedicassero un’opera alla Collezione dell’Associazione. Sembra verosimile quindi che i soggetti trattati in questa serie incisoria si incentrino su temi cari agli accademici che erano tesi a riacquistare lo spirito di un perduto stato di grazia e, una volta accettato questo assunto, Francesco Nevola ha identificato la fonte letteraria che soggiace a queste immagini nelle Opere e Giorni di Esiodo, VIII° secolo a.C., integrata da dettagli a connotazione più specificamente romana attinti dalla descrizione dell’Età dell’Oro Arcadica secondo il poeta Ovidio (cfr Francesco Nevola, Giovanni Battista Piranesi - I Grotteschi, 2009, pagg. 204-217). Questa interpretazione iconografica modifica l’ordine della progressione delle lastre, stabilito originariamente dal Focillon nel 1918 e successivamente accettato nei vari cataloghi dell’opera di Piranesi, in modo che La Lastra Monumentale apre la serie, trattando dell’Età dell’Oro e dell’Argento; seguita rispettivamente da Gli Scheletri ovvero Età del Bronzo e La Tomba di Nerone ovvero Età degli Eroi, per finire con L’Arco Trionfale ovvero L’Età del Ferro. La Lastra monumentale raffigura una scena trompe l’oeil disegnata su un foglio di carta che si arriccia all’angolo inferiore destro che, immagine nell’immagine, ricorda la pagina di un libro nel quale si entra dall’angolo opposto dove, su una pietra squadrata, una scritta per il resto indecifrabile si chiude con le parole “CHE SIENO / ALLEGRAMENTE”, mentre subito a destra una mano versa del vino da una caraffa in un calice accanto a un’infilata di botti che degrada in prospettiva: immagini e parole ricordano la prosperità e le feste durante l’Età dell’Oro. Le altre scene della lastra alludono alla caduta dell’uomo da tale stato di grazia passando all’Età dell’Argento. Il grande vaso situato al centro verso destra con le volute di fumo che da esso si levano allude al vaso di Pandora, spiegando in tal modo le ragioni della caduta. Secondo il mito, Prometeo rubò il fuoco per donarlo all’uomo e ciò scatenò l’ira di Zeus che concretizzò la sua maledizione attraverso Pandora alla quale gli dei dell’Olimpo donarono, ciascuno, una pena per gli uomini; Pandora inviata da Zeus sulla terra portò con sè il suo famigerato vaso che conteneva tutti i mali ricevuti come doni. Il fumo che sale dal vaso rappresenta la diffusione dei mali latori di distruzione in seno all’Umanità. La tromba, gli scudi, gli elmi piumati ammassati sull’altare di pietra evocano la presenza di Ares, signore della guerra irrazionale; la testa della Gorgone, effigiata sullo scudo in alto a destra, identifica la figura di Atena, dea della guerra giusta, mentre i teschi sulla destra sembrano anticipare la descrizione dei mali più ampiamente sviluppati ne Gli Scheletri. Nell’angolo superiore destro l’immagine di Pegaso, il cavallo alato di Perseo, richiama le imprese di questo eroe. La parte centrale ed inferiore della lastra si sofferma sulla descrizione dell’Età dell’Argento durante la quale i popoli trascurarono di offrire sacrifici in onore degli dei e degli eroi dell’Olimpo. Essa è dominata dalla Lastra Monumentale, da interpretare in realtà come un altare che viene in questo senso rappresentato con un aspetto di abbandono, solcato da crepe e coperto da ciuffi d’erba, mentre ai suoi piedi giacciono alcuni attributi delle divinità che gli uomini sembrano ormai trascurare: la falce di Cronos, Il caduceo di Ermes, la clava di Ercole ed il flauto di Pan.

Robison, 1986, pag 122, n. 24 | Ficacci, 2000, pag. 125, n. 108

39a Grotteschi - La lastra monumentale

Mogliano Veneto 1720 - Roma 1778

Giovanni Battista PIRANESI

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Acquaforte, bulino, puntasecca e brunitoio mm 390x542. Secondo stato su cinque, dopo l’aggiunta a bulino di 15-20 fili d’erba, corti e dritti, sul bassorilievo a sinistra della lastra, subito sopra la testa del guerriero situato più a destra, di alcuni tratteggi sulla guancia del soltanto visto di profilo e posto al centro del bassorilievo stesso ed il rinforzo delle linee diagonali e parallele sulla sua corazza e di alcune aree di brunitoio nella vegetazione sopra la testa di Ercole, ma prima della comparsa dell’area triangolare molto scura tra l’anca destra di Ercole ed il cranio posto sul piedestallo, ottenuta con pesanti linee diagonali a bulino e l’annerimento con lo stesso strumento di parte dell’area posta subito dietro all’omero destro dello scheletro al centro in basso, caratteristiche del 3° stato. In basso verso destra subito sopra la linea di inquadramento la firma del Piranesi “Piranesi F”. Straordinaria prova stampata con toni vellutati, con ampi margini; in ottime condizioni di conservazione, con traccia di piega centrale verticale, come abitualmente si trova in fogli di queste dimensioni, apprezzabile per lo più al verso. Carta dello spessore di 0,27 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 26 mm, con filigrana “Balestra”, 120x55 mm, Robison n. 50 (identica), carta veneta 1747-1749 (fil. n. 26). Dopo l’Età dell’Oro e dell’Argento, ne Gli Scheletri Piranesi descrive la terza generazione dell’Umanità, l’Età del Bronzo, dominata dalla natura bellicosa dell’uomo e dalle devastazioni della “guerra ingiusta”, sviluppando la tematica della mortalità già accennata nella tavola precedente (cfr Francesco Nevola, opera citata). La forza dell’Uomo dell’Età del Bronzo è espressa, sulla sinistra della lastra, nella figura muscolosa di Ercole che, ricordando l’antica scultura dell’Ercole Farnese, è rappresentato di schiena, mentre davanti a lui un’alta erma di satiro con una smorfia sul volto sembra schernire la tracotanza dell’eroe. Più a sinistra su un bassorilievo tre guerrieri con corazze ed armi di bronzo alludono alle guerre portatrici di devastazione. L’Età del Bronzo è qui evocata anche dai vari manufatti che sembrano fusi in bronzo come il recipiente capovolto ai piedi di Ercole, il colossale vaso finemente cesellato che, posto sopra l’altare di pietra davanti ad una stele funeraria, domina dall’alto l’intera scena e la colossale conchiglia posta un po’ più in basso rispetto ad esso, sulla destra. La macabra e rovinosa devastazione prodotta dalle guerre è incarnata dagli scheletri che incombono trionfanti, non senza alcune note di comicità; due sono più lontani, l’uno aggrappato sul grande vaso centrale alza la mano destra verso il cielo, l’altro giace riverso di fronte alla grande conchiglia, entrambi ricoperti da brandelli di carne putrefatta e ciuffi di capelli; quello in primo piano giace disteso appoggiato su un gomito con posa arrogante e guarda verso l’osservatore con un agghiacciante luccichio nel fondo delle orbite cave, mentre i ciuffi di capelli ancora adesi alla sommità del cranio gli conferiscono un aspetto comico. Nel complessivo spirito cupo e tenebroso, l’unico indizio di speranza sembra poter essere scorto nei segni invernali dello Zodiaco, Sagittario e Scorpione, incisi nell’angolo superiore destro in ordine inverso, quasi a voler suggerire il volgersi del tempo verso l’estate. Appena intuibile invece, nascosto dal tronco spezzato, è il segno della Bilancia, attributo tradizionale della Giustizia, significativamente oscurata nell’Età del Bronzo.

Robison, 1986, pagg 116-117, n. 21 | Ficacci, 2000, pag. 124, n. 105

39b Grotteschi - Gli scheletri

Mogliano Veneto 1720 - Roma 1778

Giovanni Battista PIRANESI

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Acquforte, bulino, puntasecca e raschiatoio mm 389x544. Secondo stato su sei, con la presenza di circa venti sottili linee orizzontali e parallele nello spazio triangolare bianco tra il tronco appuntito, posto diagonalmente sulla sinistra della stampa all’altezza del basamento dell’urna quadrata, e la sottostante vegetazione e di altre piccole variazioni negli alberi e nel fogliame, ma prima dell’arrotondamento dell’angolo inferiore destro della lastra, caratteristica del terzo stato. In basso a sinistra “Piranesi invento’, ed incise” e a destra “Ap.° Piranesi dirimpetto l’Accademia di Francia in Roma”. Straordinario esemplare stampato con tenue tono di fondo e numerosi segni di pulitura della lastra, con ampi margini; in ottime condizioni di conservazione, con traccia di piega centrale verticale, come abitualmente si trova in fogli di queste dimensioni, apprezzabile per lo più al verso.Carta dello spessore di 0,27 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 26 mm, con filigrana “Balestra”, 120x55 mm, Robison n. 50 (identica), carta veneta 1747-1749 (fil. n. 26). La Tomba di Nerone, nella quale prevale un’atmosfera più luminosa, corrisponde alla quarta generazione umana che Esiodo descrive come “stirpe divina, detta di semidei, anteriore alla nostra sulla terra” (cfr Francesco Nevola, opera citata). Ma l’ambiente idilliaco, lontano dagli uomini, ove vivono gli eroi, è qui rielaborato, secondo riferimenti forniti dal poeta latino Ovidio, con vari richiami alla Città di Roma, intesa come luogo i cui dimorano i semidei. Un ammasso centrale di rovine antiche con una colonna corinzia, un altare riverso, un vaso decorato con motivi intrecciati, un’anfora decorata da un cammeo con la testa di Giano bifronte attorno alla quale si attorcigliano serpenti, un sarcofago finemente istoriato con bassorilievi e, più lontano, una piramide tronca riempie la scena centrale catturando l’occhio dell’osservatore. Come detto vari sono i riferimenti che consentono di identificare l’ubicazione della scena nella Città Eterna. Innanzitutto la tomba di Nerone che in posizione rialzata constituisce il motivo centrale della composizione e che recando nella scritta scolpita sulla faccia anteriore il nome dell’imperatore romano, inequivocabilmente richiama il sarcofago posto sull’antica via Cassia dove, secondo una credenza popolare sorta nel medioevo, era stato sepolto Nerone; ma l’ubicazione è anche suggerita dal pino marittimo, comune a Roma, che si staglia al centro su uno sfondo che sembra sfumare verso il mare evocato dalla presenza del delfino. Altri simboli presenti sulla tomba sono i due fasci, senza ascia, evocanti unità ed emblemi della Giustizia di Roma e le mani che si stringono, emblema di amicizia, in questo caso riferito al regno di felicità che governa l’Età degli Eroi. La quarta generazione secondo Esiodo fu costituita da semidei e Nerone fu il primo imperatore romano ad essere adorato come divinità e ad essere considerato come semidio in vita. Ma in questa stirpe eroica Piranesi sembra includere anche gli uomini che ottennero in vita onore e gloria, valori simboleggiati dalla Vittoria alata effigiata sul fianco della tomba, introducendo nella composizione una serie di attributi che alludono alle attività della vita in grado di condurre gli uomini alla fama, innalzandoli allo status di eroe, come la tavolozza con i pennelli, presente in basso a destra, per i pittori o i libri e i fogli che traboccano dal sarcofago aperto per i poeti e gli studiosi.

Robison, 1986, pagg 120-121, n. 22 | Ficacci, 2000, pag. 125, n. 107

Mogliano Veneto 1720 - Roma 1778

Giovanni Battista PIRANESI

39c Grotteschi - La tomba di Nerone

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Acquforte, bulino, puntasecca e brunitoio mm 392x543. Primo stato su quattro, prima della comparsa del corto scratch orizzontale subito a destra del foro centrale nella sezione della colonna corinzia abbattuta, presente nella stampa al centro verso sinistra. In basso a sinistra “Piranesi inv; incise, e vende in Roma / in faccia all’Accademia di Francia”. Superbo esemplare stampato con calda tonalità di fondo, con ampi margini; in ottime condizioni di conservazione, con traccia di piega centrale verticale, come abitualmente si trova in fogli di queste dimensioni, apprezzabile per lo più al verso. Carta dello spessore di 0,29 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 30 mm, con filigrana “Giglio nel cerchio singolo”, Ø 50 mm, Robison n. 5 (simile), ca. 1748-1760 (fil. n.) (fil. n. 27). La quarta ed ultima lastra della serie de I Grotteschi, L’Arco Trionfale, corrisponde alla quinta ed ultima età umana secondo Esiodo, cioè l’Età del Ferro che, secondo il poeta, riguarda “quelli che ora vivono” dominati dalla violenza e dall’ingiustizia e sopraffatti dalla disperazione (cfr Francesco Nevola, opera citata). E’ l’unica scena della serie nella quale Piranesi inserisce delle figure umane che, a giudicare dalla foggia delle loro vesti, sembrano appartenere a diverse epoche storiche. Le stesse rovine, reperti archeologici di civiltà passate, appartengono ad ere diverse. Sulla sinistra una statua di leone visto di profilo, posta su un alto basamento, richiama la Civiltà Egizia, al centro una grande erma di satiro e più in basso un cumulo di ruderi antichi con colonne divelte, ritratti a forma di cammeo e sculture romane si mescolano ad ossa disotterrate. L’arco trionfale sullo sfondo a sinistra è interpretabile come monumento sia antico che barocco. Dietro la statua del satiro avanzano truppe dall’aspetto medievale munite di bandiere, lance ed alabarde evocando le invasioni delle truppe barbariche che hanno portato alla distruzione dell’impero romano, mentre nell’angolo in basso a destra si trovano abbandonati un elmo piumato, una tromba e una mazza che richiamano le figure di condottieri sconfitti del passato. Altre figure sembrano invece appartenere ad epoche più recenti. Piranesi allude quindi a diverse epoche storiche compresa quella egizia, romana, medievale e moderna, concetrandosi sulla bellicosa natura degli individui, causa di violenza ed ingiustizia.

Robison, 1986, pagg 118-119, n. 22 | Ficacci, 2000, pag. 124, n. 106

39d Grotteschi - L’arco trionfale

Mogliano Veneto 1720 - Roma 1778

Giovanni Battista PIRANESI

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Acquaforte e puntasecca mm 700x400. Secondo stato su due, con il numero “33” in alto a sinistra e l’iscrizione nel margine inferiore “Joannes Batta Tiepolo inv. et Pin. / Laurentius Tiepolo filius del. et inc.”, assenti nel primo stato. Nell’inciso in basso a destra sul tronco a puntasecca “ Gio. Batta Tiepolo f. / Lorenzo Tiepolo inc.”.Superba impressione ricca di toni vellutati con ottima inchiostratura su tutto il foglio, con margini di ca. 10 mm in alto e di ca. 25 mm nei restanti lati; piega centrale orizzontale visibile al verso, abituale in fogli di queste dimensioni, uno strappo riparato al margine superiore verso destra ed angolo superiore sinistro, non interessante la parte incisa, riattaccato, per il resto in ottime condizioni di conservazione. Carta dello spessore di 0,24 ± 0,03 mm, distanza irregolare tra i filoni di ca. 30 mm, con filigrana “Braccio con spadino in un grande stemma”, 170x115 mm e contromarca “Lettera V sormontata da corona”, 100x45mm e ulteriore contromarca “Tre mezzelune” 40x80 mm, Pellegrini n. 32, identica per la filigrana, ma non per le contromarche (fil. nn. 28a, 28b, 28c ). Delle nove acquaforti incise da Lorenzo, tutte derivate da soggetti paterni, la Santa Tecla universalmente è riconosciuta come l’apice qualitativo della sua produzione incisoria e, in assoluto, una delle più belle, se non la più bella, incisione di riproduzione. E’ tratta dalla grande pala dipinta da Giambattista per l’altare maggiore del duomo di Este, dove venne collocata nella notte di Natale del 1759. Lorenzo realizzò l’intaglio a breve distanza dal completamento della tela paterna, probabilmente già nel 1760, atteso che un esemplare ante litteram venne fatturato a £ 4 al mercante parigino Pierre Mariette tra il 1761 e il 1762 (cfr. Dario Succi in I Tiepolo - Virtuosismo e Ironia, 1988, pag. 274). Della tela Lorenzo riesce ad esaltare lo smagliante cromatismo attraverso una resa luministica graduata dal basso in alto che va da scuri intensi a chiari brillanti grazie anche all’uso diffuso della puntasecca. A destra su una terrazza, Santa Tecla è in ginocchio con lo sguardo rivolto al cielo, dove il Padre Eterno, sostenuto da angeli, si appoggia con la mano destra sul globo terracqueo. A metà altezza tre angeli mettono in fuga una figura alata che personifica la peste. A tergo di Santa Tecla è un vecchio con un turbante e davanti sulla sinistra, un po’ discosta, una bambina piange sul corpo della madre morta di peste, mentre una donna straziata, con le mani sul capo, osserva la scena. Più indietro un gruppo di persone trascina un cadavere e ancora dietro il panorama della città d’Este è chiuso, sullo sfondo, dal profilo dei colli Euganei.

De Vesme, 1906, pagg. 441-442, n. 2 | Rizzi, 1971, pag. 412, n. 244 | Succi in Da Carlevarijs ai Tiepolo - Incisori veneti e friulani del settecento, 1983, pag. 408, n. 536 | Succi in I Tiepolo - Virtuosismo e Ironia, 1988, pag. 274, n. 6 | Marini in Lorenzo Tiepolo e il suo tempo, 1997, pag. 144

Venezia 1736 - Madrid 1776

40 Santa Tecla implora il Padre Eterno in favore della città d’Este colpita dalla peste

Lorenzo TIEPOLO

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Acquaforte e puntasecca mm 65x100. Stato unico per Drake e per Harrington che considerano le prove tratte dalle due precedenti versioni della lastra come prove di stampa (trial states a, b). Terzo stato su tre dopo la riduzione della lastra e prima della biffatura per Schneiderman. Bellissima prova, in perfetto stato di conservazione, impressa su sottile carta vergellata antica con margini che variano da 4 a 5 tutt’intorno all’impronta della lastra. A matita in basso a destra la firma di Haden. Al verso timbro della collezione H. H. Benedict (Lugt 1298).Si tratta della parte destra della lastra utilizzata per la stampa di West London Rowing Club ( Schneiderman n. 108) che venne catalogata per la prima volta da Koehler nel 1891. Sconosciuta a Drake (1880), Harrington ne riproduce un esemplare incompleto e ciò dimostra la rarità delle prove tratte da questa prima tiratura con lastra intera e vendute a Hermann Wunderlich da Haden nel 1865. Sempre in questo stesso anno Seymour Haden procedette alla divisione della lastra in due lastre più piccole. La parte sinistra venne intitolata The Feathers Tavern ( Schneiderman n. 108a). La parte destra Thames Side ( Schneiderman n. 108b). Entrambi le lastre furono rielaborate e nello stato finale furono ridotte di alcune centimetri. Le prove precedenti a questa riduzione sono rare. Nel caso di Thames Side la lastra venne accorciata di circa 5 centimetri in altezza e di circa 4 centimetri in larghezza. Furono inoltre ombreggiate alcune aree precedentemente bianche.

Schneiderman,1983 (1997), pagg. 233-235, n. 108b

Londra 1818 - Alresford 1910

Francis Seymour HADEN

41 Thames side

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Acquaforte, vernice molle e maniera allo zolfo mm 245x345. Sesto stato su sei secondo la catalogazione di Jean- Roger Soubiran con in basso a destra i versi disposti su due strofe parallele in lingua provenzale e a sinistra il monogramma di Valère Bernard. Bellissima impressione tirata su carta Giappone sottile. Margini di 8 centimetri ai lati, di 4,5 centimetri in basso e 3 centimetri in alto A matita sul margine in basso a sinistra la scritta “Tiré à cent Exempl. n°. 53” e a destra la firma dell’Autore. In perfetto stato di conservazione. La lastra fa parte della serie intitolata Guerro costituita da quattordici pièces delle quali undici recanti ciascuna due strofe di versi in lingua provenzale, una recante il titolo e una il frontespizio e una lastra conclusiva recante l’iscrizione su sei righe ; “Aquesto guerro es estado coumpousado/Gravado e estampado/ per ieu/ Valère Bernard/Marsiho/ 1893-1895”. La lastra de Le répit venne incisa nel 1895. A tal proposito si puo’ leggere nel diario di Bernard: “29 juin - 4 juillet [1985]: tire du Répit; 7 au - 10 août [1985]; tiré épreuve du Répit; 12 août [1985]: gravé lettre du Répit”. Esistono sei disegni preparatori che riguardano sia l’intero soggetto sia i singoli componenti ovvero la Morte rappresentata con un osso di tibia in mano, il pipistrello, intento a succhiare la mammella della Morte, il pipistrello che avvolge il cranio della Morte e gli esanimi corpi umani raffigurati sullo sfondo. Esistono sei stati di cui quattro documentano gli interventi e le diverse modifiche apportati durante la lavorazione mentre il quinto stato è avanti lettera con lo spazio bianco in basso a destra dove furono incisi i versi sulla lastra definitiva del sesto stato.

Soubiran,1988, pagg, 163-164, n. 136.

La serie di Guerro rappresenta certamente un picco creativo nell’opera incisoria di Valère Bernard. Indubbiamente l’Autore trae ispirazione da I Disastri della Guerra di Goya e dalle illustrazioni per La Divina Commedia fatte da Gustave Doré. Ma Bernard confeziona una suite molto originale, coerente e complessa con un’ampia ricchezza tematica dove si fondono abilità tecnica e ingegno creativo. Guerro venne esposto per la prima volta al Salon di Marsiglia nell’aprile del 1895. La produzione delle singole lastre della serie aveva impegnato Bernard fin dal 1893. Furono tirati 100 esemplari tutti su carta Giappone di cui 99 furono messi in vendita. Di questi: 4 esemplari contenevano tre tirature fatte durante la lavorazione quindi riunivano tre working proof (cioè tre stati precoci differenti) di ciascuna lastra per un totale di 42 tavole; 10 esemplari comprendevano sia le tirature avanti la lettera sia quelle dello stato definitivo per un totale di 28 tavole; infine 85 esemplari riunivano le 14 tavole nella loro tiratura definitiva con il testo.

42 Guerro - Le répit

Marseille 1860 - 1936

Valère BERNARD

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Puntasecca mm 160x120. Secondo stato su due. Sia il primo che il secondo stato sono descritti da M. R. Tabanelli come “très rare”. Esiste anche una lastra precedente intitolata ugualmente Types de trottoir la quale risulta essere non finita, più lunga in altezza ed estremamente rara (Tabanelli n. 18) . Anche quella puntasecca ritrae due donne sorridenti ma in piedi e in posa diversa. Molto probabilmente si tratta delle stesse donne che successivamente l’artista ha riprodotto in questa seconda lastra a mezzobusto. Il primo stato di questa seconda versione dei Types de trottoir presenta il fondo assai più chiaro; i tratti delle vesti delle due figure femminili appaiono più delicati e i contorni dei volti più definiti : l’insieme è luminoso come pervaso di luce diurna. Nel secondo stato invece il fondo e le vesti vengono rielaborati sempre utilizzando la puntasecca. I contorni dei volti appaiono decisamente più sfumati. L’autore immerge le due figure femminili nell’oscurità illuminando quasi esclusivamente i loro volti, che ci appaiono, nel buio della note, comunque meno definiti rispetto al primo stato. Incisa nel 1899 Types de trottoir si colloca fra le prime opera dell’artista quando, dal 1896 al 1899, egli faceva parte della Société des Artistes français.Esemplare perfetto impresso su carta vergellata di medio spessore con margini che variano da 5,5 a 9 centimetri tutt’intorno alla lastra. A matita, sul margine in basso a destra, la firma di Chahine.

Tabanelli, 1977, n. 20

43 Types de trottoir (deuxième planche)

Istanbul o Vienna 1874 - Parigi 1947

Edgar CHAHINE

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Puntasecca mm 460x335. Stato unico. A matita in basso a sinistra la firma dell’Artista. Bellissima impressione impressa su carta Giappone con l’uso di un solo colore, in perfetto stato di conservazione. Margini di 6 centimetri tutt’intorno alla lastra . Di questo soggetto esiste anche una lastra piccola realizzata nel 1906 (mm 80x138, Tabanelli n. 178) che ha le stesse dimensioni del disegno preparatorio. Probabilmente questa petite planche sarebbe dovuta essere utilizzata per una raccolta di illustrazioni mai realizzata. Nel 1907 Chahine incise la lastra grande de Le tonneau che secondo Tabanelli ha avuto una tiratura di 50 esemplari firmati e numerati più alcune prove d’artista firmate e stampate usando il solo colore nero oppure con l’utilizzo di due colori.

M. R. Tabanelli, 1977, n. 232.

44 Le tonneau

Istanbul 1874 - Parigi 1947

Edgar CHAHINE

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Penna, inchiostro, acquerello bruno, rialzi di biacca mm 310x240. In ottimo stato di conservazione. Carta dello spessore di 0,14 mm, distanza tra i filoni 25 mm, con filigrana “Corno da caccia con sottostanti lettere”, 50x47 mm, carta francese, inizio XVII° secolo (fil. n. 29). Provenienza: a penna in basso a sinistra il numero 90 o 900 seguito da due lettere intrecciate caratteristiche del marchio dell’ importante collezione di Antoine-Joseph Dezallier d’Argenville (1680-1765) precedentemente attribuito a Pierre Crozat (Lugt 2951). Poco sopra il timbro a secco del pittore londinese Thomas Lawrence (1769-1830) con le iniziali “TL” (Lugt 2445). Il foglio era incollato su un supporto di carta vergellata pesante al cui verso a penna e inchiostro bruno compare una scritta che menziona il nome di Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio.Il soggetto raffigura una donna con il seno scoperto mentre sta alattando due dei sei putti che l’accompagnano. Una costruzione architettonica compare sul fondo destro della composizione mentre a sinistra viene rappresentato un paesaggio semplificato. Il disegno può essere messo in relazione con un foglio di Niccolò dell’Abate presente nella collezione del British Museum (penna e inchiostro marrone e acquerello marrone con lumeggiature in bianco su carta marrone, inv n. 1900,0611.6 vedi figura n. 9 pag. 110 del presente catalogo). Esiste inoltre un dipinto su metallo firmato e datato 1631 del pittore francese Pierre Scalberge (1592-1640) venduto da Sotheby’s a New York l’8 gennaio del 1981 cat. n. 121 (vedi figura n. 10 pag. 110 del presente catalogo) la cui impostazione rimanda certamente al disegno di Dell’Abate pur differenziandosi in alcuni particolari. Considerata la quadrettatura, si è ipotizzato che il disegno fosse direttamente funzionale a una traduzione pittorica da parte del maestro modenese. Di questo possibile dipinto di Dell’Abate tuttavia non esiste traccia alcuna. Si è pensato inoltre che il dipinto di Scalberge possa essere una riproduzione abbastanza fedele di tale opera perduta. Esistono tuttavia diverse altre opere che derivano probabilmente dalla composizione di Nicolò Dell’Abate. Si ricordano due dipinti passati recentemente uno da Sotheby’s (2010) e un altro venduto a Nizza (Nice Riviera, 16 mai 2009 n. 199). Un disegno presente nelle collezioni del Cincinnati Art Museumin Ohio raffigura un’altra versione differente della composizione di Dell’Abate. Il foglio qui presentato si può considerare pertanto un’ulteriore riproduzione del disegno o del presunto dipinto di Niccolò dell’Abate eseguita da un artista francese pochi decenni dopo la morte del maestro modenese. L’esecuzione certamente è avvenuta con grande precisione di tratto e con una raffinata ricerca degli effetti luministici attraverso l’uso dell’acquerello bruno e dei rialzi di biacca. L’illustre provenienza conferma la notevole qualità e finezza di tale esecuzione.

Koshikawa in Italian 16th and 17th Century Drawings, 1996, pag. 28, n. 40 |Py, in Everhard Jabach Collectionneur (1618-1695), Les Dessins de l’Inventaire de 1695, 2001, pag. 70, n. 160 | Turner in Nicolò dell’Abate: storie dipinte nella pittura del Cinquecento tra Modena e Fontainebleau, 2005, pagg. 431-432, n 217 | Loire in L’ estampe au Grand Siècle, études offertes à Maxime Préaud : Pierre Scalberge (vers 1592-1640) et la Peinture italienne, 2010, cap. 9, pag. 196-197

45 Caritas Romana

Scuola francese del XVI-XVII secolo

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Matita rossa e rialzi a matita bianca mm 323x250. Ottime condizioni del foglio a parte una leggera piega centrale e qualche raggrinzimento della carta che presenta alcuni grumi e degli assottigliamenti visibili in controluce. Carta dello spessore di 0,18 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 25 mm, con filigrana “Stemma ovale con cappello cardinalizio”, 50x47 mm (fil. n. 30)Il disegno era precedentemente incollato su un supporto di carta vergellata spessa sul quale è presente la scritta a penna e inchiostro bruno Cant. Gio Lanfranchi 212. L’attribuzione del foglio a Giovanni Lanfranco può essere certamente messa in dubbio ma neanche del tutto esclusa. A nostro avviso esso va collocato nell’ambito della scuola bolognese della prima metà del XVII secolo che aveva assimilato e rimodulato il grande insegnamento dei Carracci. La raffigurazione del soggetto ricorda un certo gusto controriformistico di artisti come Bartolomeo Cesi. Le linee di contorno della figura non sono marcate e viene esaltato il gioco chiaroscurale tra le aree ombreggiate e quelle in bianco. Lo stile disegnativo di una certa finezza e delicatezza può certamente anche essere messo in relazione con alcuni studi di figure eseguiti dal Lanfranco.

Schleier, Disegni di Giovanni Lanfranco, 1983 | Bakhuys-Berretti-Loisel, Le Génie de Bologne des Carracci aux Gandolfi, 2006 | Loisel, Inventaire general des dessins italiens, X, Dessins bolonais du XVII siècle, tome II, 2013.

Scuola bolognese del XVII secolo

46 Studio per una figura di giovane inginocchiato

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Matita rossa su foglio di forma irregolare mm 266x186. Conservazione ottima a parte una piega trasversale sulla destra. Carta dello spessore di 0,13 ± 0,01 mm, distanza tra i filoni 27 mm. Provenienza: Timbro della collezione Gustave Soulier (Lugt 1215a) sia al recto che al verso. Al verso, a matita rossa, un interessante studio per una figura maschile seminuda. Il soggetto non è definibile con precisione. Esso mostra verosimilmente sulla sinistra Cristo che viene rappresentato in piedi con un vassoio sul quale poggia un calice. A destra un figura di sesso indefinibile, probabilmente seduta a tavola, si mostra in un atteggiamento di stupore estatico. Nugoli di angeli e angioletti accompagnano i due protagonisti della scena. L’esecuzione coscienziosa di questo disegno fa pensare che abbia servito da modello per un dipinto. C’è una grande ricchezza di motivi lineari e non mancano gli effetti pittorici. L’insieme riecheggia una certa esuberanza barocca e la dolce espressività dei volti dei protagonisti, specie quello dell’indefinibile figura seduta, rimanda prudentemente all’introspettivo Maratta. La figura al verso presenta un garbato equilibrio tra improvvisazione grafica e realizzazione di un’idea ben precise. L’interesse dell’artista si concentra sul movimento della figura sottolienato dalla freschezza del ductus deciso ma anche disinvolto che conferisce all’insieme semplificazione e abbreviazione spontanea.

Czére, 17th Century Italian Drawings in the Budapest Museum of Fine Arts, 2004

47 Cristo con il calice (?) - Studio per una figura maschile

Scuola romana del XVII secolo

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REPERTORIO DELLE FILIGRANE e MICROFOTOGRAFIE DELLE FIBRE DI ALCUNE CARTE

Al numero progressivo segue il numero della scheda del catalogo nella quale è contenuta la descrizione della filigrana.

fil. n. 1 - cat. n. 1Albrecht Dürer: La Crocifissione

fil. n. 3 - cat. n. 6Marcantonio Raimondi:

Predica di San Paolo agli ateniesi

fil. n. 4 - cat. n. 7Agostino Musi:

Uomo con lo stendardo

fil. n. 5 - cat. n. 8Marco Dente:

Allegoria della Fortezza

fil. n. 6 - cat. n. 9Giacomo Caraglio:

Battaglia con armati di scudo e di lancia

fil. n. 2 - cat. n. 2Albrecht Dürer:

Paesaggio con cannone

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fil. n. 7 - cat. n. 10Giacomo Caraglio:

Ercole e Nesso

fil. n. 8 - cat. n. 14Niccolò Della Casa:

Cristo Giudice

fil. n. 9 - cat. n. 15Niccolò Della Casa:

La caduta dei dannati

fil. n. 10 - cat. nn. 16 - 17Niccolò Della Casa:

La resurrezione dei morti - Gli Angeli suonano la tromba

fil. n. 11 - cat. n. 18Giorgio Ghisi:

Sinone inganna i Troiani

fil. n. 12 - cat. n. 19Giorgio Ghisi:

I Dannati

fil. n. 13 - cat. n. 20Nicolas Beatrizet:

Baccaneria

fil. n. 14 - cat. nn. 21 -22Nicolas Beatrizet:

Il fiume Tevere - Il fiume Nilo

fil. n. 15 - cat. n. 23Federico Barocci:

Annunciazione

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fil. n. 16 - cat. n. 24Leon Davent:

Giove spreme le nuvole

fil. n. 17 - cat. n. 25Agostino Carracci:

Sacra Famiglia

fil. n. 18 - cat. n. 26Agostino Carracci:

San Girolamo penitente

fil. n. 19 - cat. n. 28 Aegidius II Sadeler:

La flagellazione di Cristo

fil. n. 20 - cat. n. 29Jacques Callot:

La fiera dell’Impruneta

fil. n. 21 - cat. n. 30Jan Lievens:

Resurrezione di Lazzaro

fil. n. 22 - cat. n. 31Stefano Della Bella:

Diversi paesaggi

fil. n. 23 - cat. n. 33Simone Cantarini:

San Sebastiano

fil. n. 24 - cat. n. 34Lorenzo Loli:

La Vergine con due santi

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fil. n. 25 - cat. n. 36Giuseppe Diamantini:

Lucifero

fil. n. 26 - cat. nn. 39a, 39b, 39cGiovanni Battista Piranesi:La lastra monumentale - Gli

scheletri - La tomba di Nerone

fil. n. 27 - cat. n. 39cGiovanni Battista Piranesi:

L’arco trinfale

fil. n. 28a - cat. nn. 40Lorenzo Tiepolo:

Santa Tecla implora il Padre Eterno in favore della città d’Este

colpita dalla peste

fil. n. 28b - cat. n. 40Lorenzo Tiepolo:

Santa Tecla implora il Padre Eterno in favore della città d’Este

colpita dalla peste(CONTROMARCA)

fil. n. 28c - cat. n. 40Lorenzo Tiepolo:

Santa Tecla implora il Padre Eterno in favore della città d’Este

colpita dalla peste(CONTROMARCA)

fil. n. 29 - cat. n. 45Scuola francese

del XVI-XVII secolo:Caritas Romana

fil. n. 30 - cat. n. 46 Scuola bolognese del XVII secolo:

Studio per una figura di giovane inginocchiato

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fig. n. 1 - cat. n. 1Albrecht Dürer: La Crocifissione

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110

fig. n. 2 - cat. n. 13Georges Reverdy:Caritas Romana

fig. n. 3 - cat. n. 23Federico Barocci:

Annunciazione

fig. n. 4 - cat. n. 35Pietro Testa:

Il trionfo della Pittura

fig. n. 5 - cat. n. 38Antonio Canal:

Veduta fantastica di Padova

fig. n. 6 - cat. n. 39aGiovanni Battista Piranesi:

La lastra monumentale

fig. n. 7 - cat. n. 39dGiovanni Battista Piranesi:

L’Arco trionfale

fig. n. 8 - cat. n. 40Lorenzo Tiepolo:

Santa Tecla

fig. n. 9Nicolò dell’Abate (1510 - 1570):

penna e inchiostro marrone e acquerello marrone

mm 278x212 BM n. inv 1900,0611.6

fig. n. 10Pierre Scalberge (1592-1640)

dipinto su metallo mm 560 x 420 Sotheby’s New York

8 gennaio 1981 cat n. 121

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INDICEALTDORFER AlbrechtBAROCCI FedericoBEATRIZET NicolaBERNARD ValèreCALLOT JacquesCANAL AntonioCANTARINI SimoneCARAGLIO GiacomoCARRACCI AgostinoCHAHINE EdgarDAVENT LeonDELLA BELLA StefanoDELLA CASA NiccolòDENTE MarcoDIAMANTINI GiuseppeDÜRER AlbrechtFANTUZZI AntonioGHISI GiorgioGOLTZIUS HendrickHADEN Francis SeymourLIEVENS JanLOLI LorenzoMUSI AgostinoPIRANESI Giovanni BattistaRAIMONDI MarcantonioREVERDY GeorgesSADELER AegidiusSCULTORI Giovanni BattistaTESTA PietroTIEPOLO Lorenzo

8-948-4942-4794-9560-6178-8168-7120-2352-5596-9950-5164-6730-3718-1976-77

4-724-2538-4156-5792-9362-6372-7316-1782-8910-1528-2958-5926-2774-7590-91

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Finito di stampare presso GRAFICHE FABRIS dicembre 2014

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2014

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