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ia801505.us.archive.org · 2021. 1. 16. · sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l’ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po’ in dialetto, un po’ in italiano. Ha detto che s’era

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  • ElenaFerrante

    L’AMICAGENIALE

    Infanzia,adolescenza

  • Edizionie/oViaCamozzi,[email protected]

    I fatti e i personaggi rappresentatinella seguente opera e i nomi e idialoghiivi

    contenuti sono unicamente fruttodell’immaginazione e della liberaespressioneartistica

    dell’autrice. Ogni similitudine,riferimento o identificazione confatti,persone,nomio

  • luoghi reali è puramente casuale enonintenzionale.

    Copyright©2011byEdizionie/o

    Grafica/EmanueleRagniscowww.mekkanografici.com

    Foto in copertina © AnthonyBoccaccio/GettyImages

    ISBN9788866320951

  • ILSIGNORE:Masì,fattivederequandovuoi;nonhomaiodiatoituoisimili,dituttiglispiritichediconodino,ilBeffardoèquellochemidàmenofastidio.L’agiredell’uomosisgonfiafintroppofacilmente,egliprestosiinvaghiscedelriposoassoluto.

    Perciòglidovolentieriuncompagnochelopungolieche

    siatenutoafarelapartedel

  • diavolo.J.W.GOETHE,Faust

  • INDICEDEIPERSONAGGI

    La famiglia Cerullo (lafamigliadelloscarparo):FernandoCerullo,calzolaio.NunziaCerullo,madrediLila.RaffaellaCerullo,datuttidettaLina,LilasoloperElena.RinoCerullo,fratellomaggiorediLila,scarparoanchelui.RinosichiameràancheunodeifiglidiLila.Altrifigli.

  • La famiglia Greco (lafamigliadell’usciere):ElenaGreco, dettaLenuccia oLenù.Èlaprimogenita,dopodileiPeppe,GianniedElisa.Ilpadrefal’uscierealcomune.Lamadre,casalinga.

    La famiglia Carracci (lafamigliadidonAchille):Don Achille Carracci, l’orcodellefavole.MariaCarracci,mogliedidonAchille.StefanoCarracci, figlio di donAchille, salumiere nellasalumeriadifamiglia.

  • Pinuccia e Alfonso Carracci,glialtriduefiglididonAchille.

    La famiglia Peluso (lafamigliadelfalegname):AlfredoPeluso,falegname.Giuseppina Peluso, moglie diAlfredo.Pasquale Peluso, figliomaggiore di Alfredo eGiuseppina,muratore.Carmela Peluso, che si fachiamare anche Carmen,sorella di Pasquale, commessadimerceria.Altrifigli.

  • La famiglia Cappuccio (lafamigliadellavedovapazza):Melina, una parente dellamadrediLila,vedovapazza.Il marito di Melina, chescaricava cassette al mercatoortofrutticolo.Ada Cappuccio, figlia diMelina.Antonio Cappuccio, suofratello,meccanico.Altrifigli.

    La famiglia Sarratore (lafamiglia del ferroviere-

  • poeta):DonatoSarratore,controllore.Lidia Sarratore, moglie diDonato.Nino Sarratore, il più grandedei cinque figli di Donato eLidia.Marisa Sarratore, figlia diDonatoeLidia.Pino,CleliaeCiroSarratore, ifigli più piccoli di Donato eLidia.

    La famiglia Scanno (lafamigliadelfruttivendolo):NicolaScanno,fruttivendolo.Assunta Scanno, moglie di

  • Nicola.EnzoScanno,figliodiNicolaeAssunta, anch’eglifruttivendolo.Altrifigli.

    La famiglia Solara (lafamiglia del proprietariodell’omonimo bar-pasticceria):SilvioSolara, padrone del bar-pasticceria.Manuela Solara, moglie diSilvio.Marcello e Michele Solara,figlidiSilvioeManuela.

  • La famiglia Spagnuolo (lafamigliadelpasticciere):IlsignorSpagnuolo,pasticcieredelbar-pasticceriaSolara.Rosa Spagnuolo, moglie delpasticciere.Gigliola Spagnuolo, figlia delpasticciere.Altrifigli.

    Gino,ilfigliodelfarmacista.

    Gliinsegnanti:Ferraro, maestro ebibliotecario.LaOliviero,maestra.

  • Gerace, professore delginnasio.La Galiani, professoressa delliceo.

    Nella Incardo, la cugina diIschiadellamaestraOliviero.

  • PROLOGOCancellareletracce

  • 1.

    Stamattina mi ha telefonato Rino,hocreduto chevolesse ancora soldie mi sono preparata a negarglieli.Inveceilmotivodellatelefonataeraun altro: sua madre non si trovavapiù.«Daquando?».«Daduesettimane».«Emitelefoniadesso?».Il tono gli dev’essere sembrato

    ostile,anchesenoneronéarrabbiatané indignata, c’era solo un filo di

  • sarcasmo.Haprovatoaribatteremal’ha fatto confusamente, inimbarazzo,unpo’indialetto,unpo’in italiano. Ha detto che s’eraconvinto che lamadre fosse in giroperNapolicomealsolito.«Puredinotte?».«Losaicom’èfatta».«Lo so, ma due settimane

    d’assenzatisembranonormali?».«Sì. Tu non la vedi da molto, è

    peggiorata:nonhamaisonno,entra,esce,faquellochelepare».Comunque alla fine si era

    preoccupato. Aveva chiesto a tutti,aveva fatto il girodegliospedali, siera rivolto persino alla polizia.

  • Niente, sua madre non era danessuna parte. Che buon figlio: unuomo grosso, sui quarant’anni, mailavorato in vita sua, solo traffici esperperi. Mi sono immaginata conquantacuraavessefatto le ricerche.Nessuna. Era senza cervello, e acuoreavevasoltantosestesso.«Non è che sta da te?» mi ha

    chiestoall’improvviso.La madre? Qui a Torino?

    Conosceva bene la situazione eparlava solo per parlare. Lui sì cheeraunviaggiatore,eravenutoacasamia almeno una decina di volte,senza essere invitato. Sua madre,che invece avrei accolto volentieri,

  • noneramaiuscitadaNapoliintuttalasuavita.Glihorisposto:«Nochenonstadame».«Seisicura?».«Rino, per favore: t’ho detto che

    nonc’è».«Ealloradov’èandata?».Ha cominciato a piangere e ho

    lasciatochemettesseinscenalasuadisperazione, singhiozzi chepartivano finti e continuavano veri.Quandohafinitoglihodetto:«Per favore, una volta tanto

    comportaticomevorrebbelei:nonlacercare».«Machedici?».«Dico quello che ho detto. È

  • inutile. Impara a vivere da solo enoncercarepiùnemmenome».Horiattaccato.

  • 2.

    La madre di Rino si chiamaRaffaella Cerullo, ma tutti l’hannosemprechiamataLina.Iono,nonhomai usato né il primo nome né ilsecondo.Dapiùdi sessant’anniperme è Lila. Se la chiamassi Lina oRaffaella, così, all’improvviso,penserebbe che la nostra amicizia èfinita.Sono almeno tre decenni che mi

    dice di voler sparire senza lasciaretraccia,esoloiosobenecosavuole

  • dire.Nonhamaiavutoinmenteunaqualchefuga,uncambiodiidentità,ilsognodirifarsiunavitaaltrove.Enon ha mai pensato al suicidio,disgustatacom’èdall’ideacheRinoabbiaachefarecolsuocorpoesiacostretto a occuparsene. Il suoproposito è stato sempre un altro:voleva volatilizzarsi; volevadisperdere ogni sua cellula; di leinon si doveva trovare più niente.Epoiché la conosco bene, o almenocredodiconoscerla,doperscontatoche abbia trovato il modo di nonlasciare in questomondo nemmenouncapello,danessunaparte.

  • 3.

    Sono passati i giorni. Ho guardatonella posta elettronica, in quellacartacea, ma senza speranza. Io hoscritto spessissimo a lei, lei nonmihaquasimairisposto:questaèstatasempre laconsuetudine.Preferiva iltelefono o le lunghe notti dichiacchierequandoandavoaNapoli.Ho aperto i miei cassetti, le

    scatole di metallo dove conservocose di ogni genere. Poche. Hobuttatovia tanta roba, inparticolare

  • ciòchelariguardava,eleilosa.Hoscoperto che non ho niente di suo,non un’immagine, non un biglietto,nonunregalino.Misonosorpresaiostessa. Possibile che in tutti questianninonmiabbia lasciatonientedisé, o, peggio, io non abbia volutoconservare alcunché di lei?Possibile.Ho telefonato io a Rino, questa

    volta, l’ho fatto a malincuore. Nonrispondeva né sul fisso né sulcellulare. Mi ha chiamato lui inserata, con comodo. Aveva la vocecon cui cerca di stimolare un sensodipena.«Ho visto che hai chiamato. Hai

  • notizie?».«No.Etu?».«Nessuna».M’ha detto cose sconclusionate.

    Voleva andare in tv, allatrasmissione che si occupa dellepersone scomparse, fareunappello,chiedere perdono per tutto a suamamma,supplicarladitornare.Sono stata a sentire

    pazientemente, poi gli ho chiesto:«Haiguardatonelsuoarmadio?».«Perfareche?».Naturalmente non gli era mai

    venutainmentelacosapiùovvia.«Va’aguardare».C’è andato e si è reso conto che

  • non c’era niente, nemmenouno deivestiti di sua madre, né estivi néinvernali, solovecchie grucce.L’homandato in giro a frugare per casa.Sparite le scarpe. Spariti i pochilibri. Sparite tutte le foto. Spariti ifilmini. Sparito il suo computer,anche i vecchi dischetti che siusavano una volta, tutto, ogni cosadella sua esperienza di stregaelettronica che aveva cominciato adestreggiarsi coi calcolatori già sulfinire degli anni Sessanta, all’epocadelle schede perforate. Rino erastupefatto.Glihodetto:«Prenditi il tempo che vuoi ma

    poi telefonami e dimmi se hai

  • trovatoanchesolounospilloche leappartiene».Mi ha chiamato il giorno dopo,

    eraagitatissimo.«Nonc’èniente».«Nienteniente?».«No. S’è tagliata via da tutte le

    foto in cui stavamo insieme, anchequellediquandoeropiccolo».«Haiguardatobene?».«Dappertutto».«Anchenelloscantinato?».«T’hodettodappertutto.Èsparita

    persino la scatola con i documenti:che so, vecchi certificati di nascita,contratti telefonici, ricevute dibollette.Chesignifica?Qualcunoha

  • rubato tutto? Cosa cercano? Chevoglionodamiamadreedame?».L’ho rassicurato, gli ho detto di

    stare tranquillo. Soprattutto da lui,era improbabile che qualcunovolessequalcosa.«Posso venire a stare un po’ a

    casatua?».«No».«Per favore, non riesco a

    dormire».«Arrangiati, Rino, non so che

    farci».Ho riattaccato e quando lui ha

    ritelefonato non ho risposto. Misonosedutaallascrivania.Lila come al solito vuole

  • esagerare,hopensato.Stava dilatando a dismisura il

    concettodi traccia.Volevanonsolosparire lei, adesso, a sessantaseianni, ma anche cancellare tutta lavitachesieralasciataallespalle.Misonosentitamoltoarrabbiata.Vediamo chi la spunta questa

    volta, mi sono detta. Ho acceso ilcomputerehocominciatoascrivereogni dettaglio della nostra storia,tuttociòchemièrimastoinmente.

  • INFANZIAStoriadidonAchille

  • 1.

    LavoltacheLilaeiodecidemmodisalire per le scale buie cheportavano, gradino dietro gradino,rampa dietro rampa, fino alla portadell’appartamento di don Achille,cominciòlanostraamicizia.Mi ricordo la luce violacea del

    cortile,gliodoridiunaseratatiepidadi primavera. Le mamme stavanopreparando la cena, era ora dirientrare, ma noi ci attardavamosottoponendoci per sfida, senzamai

  • rivolgerci la parola, a prove dicoraggio.Daqualche tempo,dentroe fuori scuola, non facevamo chequello.Lila infilava lamanoe tuttoil braccio nella bocca nera di untombino,e io lo facevosubitodopoamiavolta,colbatticuore,sperandochegliscarafagginonmicorresserosu per la pelle e i topi non mimordessero.Lilas’arrampicavafinoalla finestra a pianterreno dellasignoraSpagnuolo,s’appendevaallasbarra di ferro dove passava il filoper stendere i panni, si dondolava,quindi si lasciava andare giù sulmarciapiede, e io lo facevo subitodopo a mia volta, pur temendo di

  • cadere e farmimale. Lila s’infilavasotto pelle la rugginosa spillafrancesecheavevatrovatoperstradanonsoquandomacheconservavaintascacomeilregalodiunafata;eioosservavolapuntadimetallochelescavava un tunnel biancastro nelpalmo,epoi,quandoleil’estraevaemelatendeva,facevolostesso.A un certo punto mi lanciò uno

    sguardo dei suoi, fermo, con gliocchi stretti, e si diresse verso lapalazzinadove abitavadonAchille.Mi gelai di paura. Don Achille eral’orco delle favole, avevo il divietoassoluto di avvicinarlo, parlargli,guardarlo, spiarlo, bisognava fare

  • comesenonesistesseronéluinélasua famiglia. C’erano nei suoiconfronti, in casamiamanon solo,untimoreeunodiochenonsapevoda dove nascessero. Mio padre neparlava in un modo che me l’eroimmaginato grosso, pieno di bolleviolacee, furiosomalgrado il“don”,che a me suggeriva un’autoritàcalma.Eraunesserefattodinonsoqualemateriale, ferro, vetro, ortica,mavivo,vivocolrespirocaldissimochegliuscivadalnasoedallabocca.Credevochesesolol’avessivistodalontano mi avrebbe cacciato negliocchi qualcosa di acuminato ebruciante. Se poi avessi fatto la

  • pazzia di avvicinarmi alla porta dicasasuamiavrebbeuccisa.Aspettaiunpo’pervedereseLila

    ci ripensava e tornava indietro.Sapevo cosa voleva fare, avevoinutilmente sperato che se nedimenticasse, e invece no. Ilampioninonsieranoancoraaccesienemmenolelucidellescale.Dallecase arrivavano voci nervose. Perseguirla dovevo lasciarel’azzurrognolodelcortileedentrarenel nero del portone. Quandofinalmente mi decisi, all’inizio nonvidi niente, sentii solo un odore diroba vecchia e DDT. Poi mi abituaiallo scuro e scoprii Lila seduta sul

  • primogradinodellaprimarampa.Sialzòecominciammoasalire.Avanzammo tenendoci dal lato

    della parete, lei due gradini avanti,ioduegradini indietroecombattutatra accorciare la distanza o lasciareche aumentasse. M’è rimastal’impressione della spalla chestrisciavacontro ilmuroscrostatoel’idea che gli scalini fossero moltoalti, più di quelli della palazzinadove abitavo. Tremavo. Ognirumore di passi, ogni voce era donAchille checi arrivavaalle spalleoci veniva incontro con un lungocoltello, di quelli per aprire il pettoalle galline. Si sentiva un odore

  • d’aglio fritto. Maria, la moglie didonAchille,miavrebbemessonellapadellaconl’oliobollente,ifiglimiavrebberomangiato, luimi avrebbesucchiato la testa come faceva miopadreconletriglie.Ci fermammo spesso, e tutte le

    volte sperai che Lila decidesse ditornare indietro. Ero molto sudata,lei non so. Ogni tanto guardava inalto,manoncapivocosa,sivedevasolo ilgrigioredei finestroniaognirampa. Le luci si acceseroall’improvviso,ma tenui,polverose,lasciandoampiezoned’ombrapienedi pericoli. Aspettammo per capirese era stato don Achille a girare

  • l’interruttore ma non sentimmoniente, né passi né una porta che siapriva o si chiudeva. Poi Lilaproseguì,eiodietro.Lei riteneva di fare una cosa

    giusta e necessaria, io mi erodimenticataognibuonaragioneedisicuro ero lì solo perché c’era lei.Salivamo lentamente verso il piùgrande dei nostri terrori di allora,andavamo a esporci alla paura e ainterrogarla.Alla quarta rampa Lila si

    comportòinmodoinatteso.Sifermòadaspettarmi equando la raggiunsimi diede la mano. Questo gestocambiòtuttotranoipersempre.

  • 2.

    Erastatacolpasua.Inuntemponontroppo distante – dieci giorni, unmese,chilosa,ignoravamotuttodeltempo, allora – mi aveva preso labambola a tradimento e l’avevabuttata in fondo a uno scantinato.Orastavamosalendoversolapaura,alloracieravamosentiteobbligateascendere, edi corsa, verso l’ignoto.Inalto,inbasso,ciparevasemprediandare incontro a qualcosa diterribileche,puresistendodaprima

  • di noi, era noi e sempre noi cheaspettava.Quandosièalmondodapoco è difficile capire quali sono idisastri all’origine del nostrosentimentodeldisastro,forsenonsene sente nemmeno la necessità. Igrandi, in attesa di domani, simuovono in un presente dietro alquale c’è ieri o l’altro ieri o almassimolasettimanascorsa:alrestononvoglionopensare. I piccoli nonsannoilsignificatodiieri,dell’altroieri, e nemmeno di domani, tutto èquesto, ora: la strada è questa, ilportone è questo, le scale sonoqueste, questa è mamma, questo èpapà, questo è il giorno, questa la

  • notte.Ioeropiccolaeacontifattilamia bambola sapeva più di me. Leparlavo, mi parlava. Aveva unafaccia di celluloide con capelli dicelluloide e occhi di celluloide.Indossava un vestitino blu che leaveva cucito mia madre in un raromomento felice, ed era bellissima.La bambola di Lila, invece, avevauncorpodipezzagiallicciapienodisegatura, mi pareva brutta e lercia.Leduesi spiavano, si soppesavano,eranopronteascapparetralenostrebraccia se scoppiava un temporale,se c’erano i tuoni, se qualcuno piùgrandeepiùforteecoidentiaguzzilevolevaghermire.

  • Giocavamo nel cortile, ma comesenongiocassimoinsieme.Lilaeraseduta per terra, da un lato dellafinestrella di uno scantinato, iodall’altro. Ci piaceva, quel posto,innanzitutto perché potevamodisporre, sul cemento tra le sbarredell’apertura, contro il reticolo, sialecosediTina, lamiabambola,siaquellediNu,labamboladiLila.Cimettevamo sassi, tappi di gassosa,fiorellini, chiodi, schegge di vetro.Ciò che Lila diceva a Nu io locaptavo e lo dicevo a voce bassa aTina, mamodificandolo un po’. Seleiprendevauntappoelomettevaintestaallasuabambolacomesefosse

  • un cappello, io dicevo alla mia, indialetto: Tina, mettiti la corona diregina se no prendi freddo. Se NugiocavaacampanainbraccioaLila,iopocodopofacevofarelostessoaTina.Manonsuccedevaancoracheconcordassimo un gioco ecominciasse una collaborazione.Persino quel posto lo sceglievamosenza accordo. Lila andava lì, e iogirellavo, fingevo di andare daun’altra parte. Poi, come se nientefosse,midisponevoanch’ioaccantoallosfiatatoio,madallatoopposto.Lacosacheciattraevadipiùera

    l’aria fredda dello scantinato, unsoffio che ci rinfrescava in

  • primavera e d’estate. Poi cipiacevanolesbarreconleragnatele,il buio, e il reticolo fitto che,rossastro di ruggine, si arricciolavasia dal lato mio che da quello diLila, creando due spiragli paralleliattraverso i quali potevamo farcadere nell’oscurità sassi eascoltarne il rumore quandotoccavano terra. Tutto era bello epauroso, allora. Attraverso quelleaperture il buio poteva prenderciall’improvvisolebambole,avoltealsicuro tra le nostre braccia, piùspessomessedipropositoaccantoalreticolo ritorto e quindi esposte alrespiro freddo dello scantinato, ai

  • rumoriminacciosi chenevenivano,ai fruscii, agli scricchiolii, alraspare.Nu e Tina non erano felici. I

    terrori che assaporavamo noi ognigiornoeranoiloro.Noncifidavamodella luce sulle pietre, sullepalazzine, sulla campagna, sullepersone fuori e dentro le case. Neintuivamo gli angoli neri, isentimenti compressi ma sempreviciniaesplodere.Eattribuivamoaquelle bocche scure, alle cavernecheoltredilorosiaprivanosottolepalazzine del rione, tutto ciò che cispaventavaallalucedelgiorno.DonAchille, per esempio, era non solo

  • nella sua casa all’ultimo piano maanchelìsotto,ragnotrairagni,topotra i topi, una forma che assumevatutte le forme. Lo immaginavo aboccaapertaperviadilunghezanned’animale, corpodipietra invetriataed erbe velenose, sempre pronto adaccogliere in un’enorme borsa neratuttociòchelasciavamocaderedagliangoli divelti del reticolo. Quellaborsa era un tratto fondamentale didon Achille, ce l’aveva sempre,anche in casa sua, e ci mettevadentromateriavivaemorta.Lila sapeva che avevo quella

    paura,lamiabambolaneparlavaadalta voce. Per questo, proprio nel

  • giorno in cui senza nemmenocontrattare, solo con gli sguardi e igesti, ci scambiammo per la primavolta lenostrebambole, lei, appenaebbeTina,laspinseoltrelareteelalasciòcaderenell’oscurità.

  • 3.

    Lila comparve nella mia vita inprima elementare e mi impressionòsubito perché era molto cattiva.Eravamo tutte un po’ cattive, inquella classe, ma solo quando lamaestraOlivierononpotevavederci.Lei invece era cattiva sempre. Unavolta ridusse a pezzetti la cartaassorbente,primainfilòiframmentiaunoaunonelbucodell’inchiostro,poicominciòapescarli colpenninoealanciarceliaddosso.Iofuicolpita

  • duevolteneicapellieunavoltasulcolletto bianco. La maestra strillòcome sapeva fare lei, con una vocead ago, lunga e puntuta, che citerrorizzava, e le ordinò di andaresubito in castigo dietro la lavagna.Lila non obbedì e non parvenemmenospaventarsi,anzicontinuòa lanciare in giro pezzi di cartabagnati nell’inchiostro. La maestraOliviero, allora, una donna pesanteche ci sembrava molto vecchiaanchesedovevaessereappenasoprai quaranta, venne giù dalla cattedraminacciandola, inciampò non si sabenesucosa,nonriuscìatenersi inequilibrio e andò a sbattere con la

  • facciacontrolospigolodiunbanco.Restò sul pavimento che parevamorta.Cosa successe subito dopo non

    me lo ricordo, ricordo solo il corpoimmobile della maestra, un fagottoscuro, eLilache la fissavacolvisoserio.Ho in mente tanti incidenti di

    questotipo.Vivevamoinunmondoin cui bambini e adulti si ferivanospesso,dalle feriteusciva il sangue,veniva la suppurazione e a voltemorivano. Una delle figlie dellasignoraAssunta, la fruttivendola, sieraferitaconunchiodoederamortadi tetano. Il figlio più piccolo della

  • signoraSpagnuoloeramortodicrupalla gola.Unmio cugino, all’età divent’anni, una mattina andò aspalaremacerie e la sera eramortoschiacciato, col sangue che gliusciva dalle orecchie e dalla bocca.Il padre di mia madre era rimastoucciso perché stava costruendo unpalazzo ed era caduto giù. Il padredel signor Peluso non aveva unbraccio,gliel’avevatagliatoiltornioa tradimento. La sorella diGiuseppina, la moglie del signorPeluso, era morta di tubercolosi aventidueanni.IlfigliograndedidonAchille – non l’avevo mai visto,eppuremi pareva di ricordarmelo –

  • era andato in guerra ed era mortodue volte, prima annegatonell’oceano Pacifico, poi mangiatodai pescecani. Tutta la famigliaMelchiorre era morta abbracciata,urlando di paura, sotto unbombardamento. La vecchiasignorina Clorinda era mortarespirando il gas invece dell’aria.Giannino, che stava in quartaquando noi eravamo in prima, ungiorno era morto perché avevatrovatounabombael’avevatoccata.Luigina,concuiavevamogiocatoincortileoforseno,erasolounnome,l’aveva uccisa il tifo petecchiale. Ilnostro mondo era così, pieno di

  • parolecheammazzavano: ilcrup, iltetano, il tifo petecchiale, il gas, laguerra, il tornio, le macerie, illavoro,ilbombardamento,labomba,la tubercolosi, la suppurazione.Facciorisalireletantepaurechemihannoaccompagnatapertuttalavitaaqueivocabolieaqueglianni.Si poteva morire anche di cose

    che parevano normali. Si potevamorire,peresempio,sesudaviepoibevevi l’acqua fredda del rubinettosenza esserti prima bagnata i polsi:succedeva che ti coprivi di puntinirossi,tivenivalatosseenonpotevirespirare più. Si poteva morire semangiavi le ciliegie nere senza

  • sputareilnocciolo.Sipotevamoriresemasticavi lagommaamericana eperdistrazionelaingoiavi.Sipotevamorire soprattutto se prendevi unabotta alla tempia. La tempia era unposto fragilissimo, ci stavamo tuttemoltoattente.Bastavaunasassata,elesassateeranolanorma.All’uscitadiscuolaunabandadimaschidellacampagna,capeggiatadaunochesichiamavaEnzooEnzuccio,unodeifigli di Assunta la fruttivendola,cominciò a tirarci le pietre. Sisentivano offesi dal fatto cheeravamo più brave di loro. Quandoarrivavanoisassiscappavamotutte,ma Lila no, seguitava a camminare

  • con passo regolare e a volteaddirittura si fermava. Era moltobrava a studiare la traiettoria deisassieascansarliconunmovimentocalmo,oggidireielegante.Avevaunfratello maschio più grande e forseaveva imparato da lui, non so,anch’ioavevofratellimapiùpiccolidimeedalorononavevoimparatoniente.Tuttavia,quandomirendevoconto che era rimasta indietro, puravendomolta paurami fermavo adaspettarla.C’era già allora qualcosa che mi

    impediva di abbandonarla. Non laconoscevobene,noncieravamomairivolte la parola pur essendo

  • continuamente in gara tra noi, inclasse e fuori. Ma sentivoconfusamente che se fossi scappatainsiemeallealtreavreilasciatoaleiqualcosadimiochenonmiavrebberestituitopiù.All’inizio restavo nascosta dietro

    unangoloemisporgevopervedereseLilaarrivava.Poi,vistochenonsimuoveva, mi costringevo araggiungerla,lepassavolepietre,letiravo anch’io. Ma lo facevo senzaconvinzione, ho fatto molte cosenellamia vitamamai convinta,misono sempre sentita un po’ scollatadalle mie stesse azioni. Lila inveceaveva, da piccola – ora non so dire

  • diprecisosegiàaseioasetteanni,o quando andammo insieme su perlescalecheportavanoacasadidonAchille e ne avevamo otto, quasinove –, la caratteristica delladeterminazione assoluta. Cheimpugnasse l’asta tricolore dellapenna o una pietra o il corrimanodelle scale buie, comunicava l’ideache ciò che ne doveva seguire –conficcare con un lancio preciso ilpennino nel legno del banco,dispensare pallottole intrise diinchiostro, colpire i maschi dellacampagna, salire fino alla porta didonAchille – l’avrebbe fatto senzaesitazione.

  • La banda veniva dal terrapienodella ferrovia, faceva provvista disassi tra i binari. Enzo, il capo, eraun bambino molto pericoloso,almenotreannipiùdinoi,ripetente,coi capelli cortissimi biondi e gliocchi chiari. Lanciava conprecisione pietre piccole dai borditaglienti, e Lila aspettava i suoi tiriper mostrargli come li scansava,farlo arrabbiare ancora di più erispondere subitocon tiri altrettantopericolosi. Una volta lo colpimmoalla caviglia destra, e dico locolpimmo perché ero stata io apassare a Lila una pietra piatta coibordi tutti scheggiati. La pietra

  • strisciòsullapellediEnzocomeunrasoio, lasciandogli una macchiarossa da cui subito uscì sangue. Ilbambino si guardò la gamba ferita,cel’hodavantiagliocchi:trapolliceeindiceavevailsassochestavapertirare,ilbraccioeragiàsollevatoperillancio,eppuresibloccòstupefatto.Ancheimaschisottoilsuocomandoguardarono increduli il sangue.Lilainvece non mostrò la minimasoddisfazione per il buon esito deltiroesichinòaraccogliereun’altrapietra.Iol’afferraiperunbraccio,fuilnostroprimocontatto,uncontattobrusco e spaventato. Sentivo che labandasarebbediventatapiùferocee

  • volevocheciritirassimo.Manoncifutempo.Enzo,malgradolacavigliasanguinante,si ripresedallostuporeelanciòlapietracheavevainmano.TenevoancorastrettaLilaquandolasassata la prese in fronte e me lastrappò via. Un attimo dopo eradistesa sulmarciapiede con la testarotta.

  • 4.

    Sangue.Ingenereuscivadalleferitesolo dopo che ci si era scambiatimaledizioni orribili e oscenitàdisgustose.Siseguivasemprequellatrafila. Mio padre, che pure mipareva un uomo buono, lanciava dicontinuo insulti e minacce sequalcuno, come diceva, non eradegno di stare sulla faccia dellaterra. Ce l’aveva in particolare condonAchille.Avevasemprequalcosadarinfacciarglieavoltemimettevo

  • le mani sulle orecchie per nonrestare troppo impressionata dallesuebrutteparole.Quandoneparlavacon mia madre lo chiamava “tuocugino”, ma mia madre rinnegavasubitoquel legamedi sangue (c’erauna parentela molto alla lontana) erincarava la dose degli insulti. Mispaventavano le loro rabbie, e mispaventava soprattutto che donAchille potesse avere orecchie cosìricettive da percepire anche gliinsulti detti da grande distanza.Temevochevenisseadammazzarli.Il nemico giurato di donAchille,

    comunque,noneramiopadrema ilsignor Peluso, un falegname

  • bravissimo sempre senza soldi inquanto si giocava tutto quello cheguadagnavanel retrobottegadelbarSolara. Peluso era padre di unanostracompagnadiscuola,Carmela,diPasquale,cheeragrande,edialtridue figli, bambini più miserabili dinoi,coniqualiinqualchecasoioeLila giocavamo e che a scuola efuoricercavanosempredirubarcilenostre cose, la penna, la gomma, lacotognata, tanto che tornavano acasa pieni di lividi per le botte cheglidavamo.Le volte che lo vedevamo, il

    signor Peluso ci pareva l’immaginedella disperazione. Da un lato

  • perdevatuttoalgiocoedall’altrosiprendeva a schiaffi in pubblicoperchénonsapevapiùcomesfamarela famiglia. Per ragioni oscureattribuiva a don Achille la propriarovina.Gliaddebitava il fattocheatradimento s’era preso, come se ilsuo corpo tenebroso fosse fatto dicalamita,tuttigliarnesiperillavorodi falegname, cosa che aveva resoinutile la bottega. Gli rimproveravache s’era preso anche quella el’avevatrasformatainsalumeria.Peranni ho immaginato la pinza, lasega, la tenaglia, il martello, lamorsa e mille e mille chiodi chevenivano risucchiati in forma di

  • sciame metallico dentro la materiache componeva don Achille. Peranni ho visto uscire dal suo corpo,grezzo e pesante di materieeterogenee, salami, provoloni,mortadelle, sugna e prosciutto,sempreinformadisciame.Fatti avvenuti in tempi bui. Don

    Achille doveva essersi manifestatoin tutta la sua mostruosa naturaprima che noi nascessimo. Prima.Lila usava spesso quella formula, ascuolaefuori.Maparevachenonleimportasse tanto ciò che eraaccaduto prima di noi – eventi ingenere oscuri, su cui i grandi otacevano o si pronunciavano con

  • moltareticenza–quantochecifossestato davvero un prima. Era questocheall’epocalalasciavaperplessaeanzi avolte la innervosiva.Quandodiventammo amiche me ne parlòcosì tanto di quella cosa assurda –prima di noi – che finì pertrasmettere il nervoso anche a me.Era il tempo lungo, lunghissimo, incuinonc’eravamostate;iltempoincuidonAchilles’eramostratoatuttiper ciò che era: un esseremalvagiodi incerta fisionomiaanimalminerale, che – pareva –levava il sangue agli altri mentre aluinonneuscivamai,forsenoneranemmenopossibilegraffiarlo.

  • Eravamo in seconda elementare,forse, e non ci parlavamo ancora,quandosisparselavocechepropriodi fronte alla chiesa della SacraFamiglia, all’uscita dalla messa, ilsignor Peluso aveva cominciato astrillare di rabbia contro donAchille,edonAchilleavevalasciatoil figlio grande Stefano, Pinuccia,Alfonso che era nostro coetaneo, lamoglie,emostrandosiperunattimonella sua forma più raccapricciante,s’era gettato addosso a Peluso, loaveva sollevato, lo aveva lanciatocontro un albero dei giardinetti el’aveva abbandonato lì, tramortito,col sangue che gli usciva da cento

  • ferite in testa e dappertutto, senzache il poveretto potesse anche solodire:aiutatemi.

  • 5.

    Non ho nostalgia della nostrainfanzia, è piena di violenza. Cisuccedeva di tutto, in casa e fuori,ognigiorno,manonricordodiavermai pensato che la vita che c’eracapitatafosseparticolarmentebrutta.Lavitaeracosìebasta,crescevamocon l’obbligo di renderla difficileagli altri prima che gli altri larendessero difficile a noi. Certo, amesarebberopiaciuti imodigentili

  • che predicavano la maestra e ilparroco, ma sentivo che quei modinon erano adatti al nostro rione,anche se eri femmina. Le donnecombattevano tra loro più degliuomini, si prendevanoper i capelli,si facevanomale. Farmale era unamalattia. Da bambina mi sonoimmaginata animali piccolissimi,quasi invisibili, che venivano dinotte nel rione, uscivano daglistagni, dalle carrozze in disuso deitreni oltre il terrapieno, dalle erbepuzzolenti dette fetienti, dalle rane,dalle salamandre, dalle mosche,dalle pietre, dalla polvere, edentravano nell’acqua e nel cibo e

  • nell’aria, rendendo le nostremamme, le nonne, rabbiose comecagne assetate. Erano contaminatepiù degli uomini, perché i maschidiventavano furiosi di continuo maalla fine si calmavano, mentre lefemmine, che erano all’apparenzasilenziose, accomodanti, quando siarrabbiavanoandavanofinoinfondoallelorofuriesenzafermarsipiù.Lila fu molto segnata da quello

    chesuccesseaMelinaCappuccio,

    unaparentedisuamadre.Eanch’io.Melinaabitavanellastessapalazzinadei miei genitori, noi al secondopiano,leialterzo.Avevapocopiùditrent’annieseifigli,macisembrava

  • una vecchia. Ilmarito era della suastessa età, scaricava cassette almercatoortofrutticolo.Meloricordobasso e largo, ma bello, con unafaccia fiera. Una notte uscì di casacome al solito e morì forseammazzato, forse di stanchezza. Cifu un funerale amarissimo a cuipartecipòtuttoilrione,ancheimieigenitori,ancheigenitoridiLila.Poipassòunpo’ditempoechissàcosasuccesseaMelina.Di fuori restò lastessa, una donna secca con ungrande naso, i capelli già grigi, lavoce acuta che la sera chiamava ifigli dalla finestra a uno a uno, pernome, con sillabe allungate da una

  • disperazione rabbiosa: Aaa-daaa,Miii-chè. In principio fu moltoaiutata da Donato Sarratore, cheviveva nell’appartamento propriosopra il suo, al quarto e ultimopiano.

    Donatoeraunfrequentatoreassiduodella parrocchia della SacraFamiglia e da buon cristiano siadoperò molto per lei raccogliendodanaro, abiti e scarpe usate,sistemandole Antonio, il figlio piùgrande,pressol’officinadiGorresio,un suo conoscente. Melina gli fucosìgratachelagratitudinesimutò,dentroilsuopettodidonnadesolata,inamore,inpassione.Nonsisapeva

  • seSarratoresenefossemaiaccorto.Era un uomo cordialissimo mamolto serio, casa, chiesa e lavoro,faceva parte del personaleviaggiantedelleFerroviedellostato,aveva uno stipendio fisso con cuimantenevadignitosamentelamoglieLidiaecinquefigli, ilpiùgrandesichiamavaNino.LevoltechenonerainviaggiosullatrattaNapoli-Paolaeritorno, si dedicava ad aggiustarequesto e quello in casa, andava afarelaspesa,portavaapasseggioincarrozzinal’ultimonato.Cosemoltoanomalenelrione.AnessunovenivainmentecheDonatosiprodigasseaquel modo per alleviare le fatiche

  • dellamoglie.No:tuttiimaschidellepalazzine, mio padre in testa, loconsideravano un uomo a cuipiaceva fare la femmina, tanto piùche scriveva poesie e le leggevavolentieri a chiunque. Non vennemaiinmentenemmenoaMelina.Lavedova preferì pensare che lui, pergentilezza d’animo, si fosse fattomettereipiediintestadallamoglie,e decise perciò di combattereferocemente contro Lidia Sarratoreper liberarlo e permettergli dicongiungersi stabilmente a lei. Laguerra che ne seguì all’inizio misembrò divertente, se ne parlava incasa mia e fuori con cattive risate.

  • Lidiastendevalelenzuolafreschedibucato eMelina saliva in piedi suldavanzaleeglielesporcavaconunacanna che aveva bruciato apposta,alla punta, sul fuoco;Lidia passavasotto le finestre e lei le sputava intesta o le rovesciava addossosecchiate d’acqua sporca; Lidiafaceva rumore di giornocamminandole, insieme ai figliindemoniati, sopra la testa, e lei siaccaniva per tutta la notte a batterecontro il soffitto con la mazza perlavareaterra.Sarratorecercòintuttii modi di mettere pace, ma era unuomo troppo sensibile, troppocortese.Così,didispettoindispetto,

  • le due donne cominciarono aprendersi a male parole se solo siincrociavano per strada o per lescale, suoniduri, feroci.Fudaquelmomento che cominciarono a farmipaura.Unadelletantesceneterribilidella mia infanzia ha inizio con leurla di Melina e di Lidia, con gliinsulti che si lanciano dalle finestree poi sulle scale; continua quindiconmiamadre che si precipita allaportadicasa,l’apreesiaffacciasulpianerottoloseguitadanoibambini;e finisce con l’immagine, per meancoraoggiinsopportabile,delleduevicine che rotolano avvinte giù perle scale e la testa di Melina sbatte

  • sul pavimento del pianerottolo, apochi centimetri dalle mie scarpe,come un melone bianco che ti èscappatodimano.

    Mi è difficile dire perché a queitempi noi bambine fossimo dallaparte di Lidia Sarratore. Forseperché aveva lineamenti regolari ecapellibiondi.O

    perché Donato era suo e avevamocapito che Melina glielo volevalevare. O perché i figli di Melinaerano cenciosi e sporchi, mentrequelli di Lidia erano lavati, benpettinatieilprimo,Nino,cheavevaqualcheannopiùdinoi,erabello,ci

  • piaceva. Lila soltanto propendevaper Melina, ma non ci spiegò maiperché. Disse solo, in una certacircostanza, che se Lidia Sarratorefiniva ammazzata ben le stava, e iopensai che la vedesse così un po’perché era cattiva nell’anima e unpo’perchéleieMelinaeranoparentiallalontana.

    Un giorno tornavamo da scuola,eravamoquattroocinquebambine.

    Connoic’eraMarisaSarratore,chedi solito ci accompagnava nonperchécifossesimpaticamaperchésperavamo che, tramite lei,avremmo potuto entrare in contatto

  • con suo fratello grande, vale a direNino.Fuleichesiaccorseperprimadi Melina. La donna camminavadall’altro lato dello stradone conpasso lento, portando in una manoun cartoccio da cui, con l’altra,prendeva e mangiava. Marisa ce laindicò chiamandola la zoccola, masenza disprezzo, solo perchéripetevalaformulacheincasausavasuamadre.

    Lila,subito,ancheseerapiùpiccoladistaturaemagrissima,lediedeunoschiaffocosìfortechelamandòperterra, e lo fece a freddo come erasolita fare in tutte le occasioni diviolenza, senza gridare prima e

  • senzagridaredopo,senzaunaparoladi preavviso, senza sbarrare gliocchi,gelidaedecisa.

    Io prima soccorsiMarisa che giàpiangevael’aiutaiarialzarsi,poimigirai per vedere cosa faceva Lila.Era scesa dal marciapiede e stavaandandodaMelinaattraversando lostradone, senza badare ai camionche passavano. Le vidi,nell’atteggiamentopiù chenel viso,qualcosa chemi turbò e che tuttoramièdifficiledefinire, tantocheperadessomiaccontenteròdidirecosì:sebbene si muovesse tagliando lostradone, piccola, nera, nervosa,sebbene lo facesse con la sua solita

  • determinazione, era ferma. Fermadentro ciò che la parente di suamadre stava facendo, ferma per lapena,fermadisalecomelestatuedisale.Aderente.Tutt’unoconMelina,cheavevasulpalmoloscurosaponetenero appena acquistato nelloscantinato di don Carlo, e neprendeva con l’altra mano e se lomangiava.

  • 6.

    Il giorno che la maestra Olivierocadde dalla cattedra e andò asbattere con uno zigomo contro ilbanco, io, come ho detto, laconsiderai morta, morta sul lavorocome mio nonno o il marito diMelina, e mi sembrò che diconseguenza sarebbe morta ancheLila per il castigo terribile cheavrebbe ricevuto. Invece, per unperiodo che non posso definire –breve,lungo–,nonaccaddenulla.Si

  • limitarono a sparire entrambe,maestraealunna,dainostrigiorniedallamemoria.Ma tutto eramolto sorprendente,

    allora. La maestra Oliviero tornò ascuola viva e cominciò a occuparsidi Lila non per castigarla, come cisarebbe sembrato naturale, ma perlodarla.Questa nuova fase cominciò

    quando fu chiamata a scuola lamadre di Lila, la signora Cerullo.Una mattina bussò il bidello el’annunciò. Subito dopo entròNunziaCerullo, irriconoscibile.Lei,che come la gran parte delle donnedelrionevivevaarruffatainciabatte

  • evecchiabiticonsunti,comparveinabito da cerimonia (matrimonio,comunione, cresima, funerale), tuttascura, una borsetta nera luccicante,scarpe con un po’ di tacco che letormentavano i piedi gonfi, e offrìalla maestra due sacchetti di carta,unoconlozuccheroeunocolcaffè.Lamaestraaccettòdibuongrado

    il dono e disse a lei e a tutta laclasse, guardando Lila che invecefissava il banco, frasi il cui sensogenerale mi disorientò. Eravamo inprima elementare. Stavamo appenaimparando l’alfabeto e i numeri dauno a dieci. La più brava in classeero io, sapevo riconoscere tutte le

  • lettere, sapevo dire uno due trequattro eccetera, ero di continuolodata per la calligrafia, vincevo lecoccarde tricolori che cuciva lamaestra. Tuttavia la Oliviero, asorpresa,sebbeneLilal’avessefattacadere mandandola all’ospedale,disseche lamigliore tranoiera lei.Verocheeralapiùcattiva.Verocheaveva fatto quella cosa terribile ditirare pezzi di carta assorbentesporchidi inchiostro addosso anoi.Vero che se quella bambina non sifosse comportata cosìindisciplinatamente, lei, la nostramaestra, non sarebbe caduta dallacattedraferendosiallozigomo.Vero

  • che era costretta a punirla dicontinuoconlabacchettadilegnoomandandola in ginocchio sul granodurodietro la lavagna.Mac’eraunfattoche,inquantomaestraeanchein quanto persona, la riempiva digioia, un fatto meraviglioso cheaveva scoperto qualche giornoprima,casualmente.Qui si fermò, come se le parole

    nonlebastasseroocomesevolesseinsegnareallamadrediLilaeanoiche quasi sempre, più delle parole,contano i fatti. Prese un pezzo digessoescrisseallalavagna(oranonmi ricordocosa, non sapevoancoraleggere:quindi laparola la invento)

  • sole.PoichieseaLila:«Cerullo,chec’èscrittoqui?».Nell’aula cadde un silenzio

    incuriosito. Lila fece un mezzosorrisetto, quasi una smorfia, e sigettò di lato, tutta addosso alla suacompagnadibanco,chediedemoltisegnidi fastidio.Poi lessecon tonoimbronciato:«Sole».NunziaCerulloguardòlamaestra,

    e il suo sguardo era incerto, quasispaventato. La Oliviero lì per lìsembrò non capire come mai inquegli occhi di madre non c’era ilsuo stesso entusiasmo. Ma poidovette intuire che Nunzia non

  • sapevaleggereochecomunquenonera sicura che alla lavagna fossescritto proprio sole, e si accigliò.Quindi un po’ per chiarire lasituazione alla Cerullo, un po’ perlodare la nostra compagna, disse aLila:«Brava,c’èscrittopropriosole».Poilecomandò:«Vieni, Cerullo, vieni alla

    lavagna».Lila svogliatamente andò alla

    lavagna,lamaestraleporseilgesso.«Scrivi»ledisse,«gesso».Lila, molto concentrata, con una

    grafia tremolante, collocando lelettere una più su, una più giù,

  • scrisse:geso.La Oliviero aggiunse la seconda

    “s”e lasignoraCerullo,vedendolacorrezione,dissedesolataallafiglia:«Haisbagliato».Malamaestrasubitolarassicurò:«Nonono:Lilasideveesercitare,

    questo sì,ma sa già leggere, sa giàscrivere.Chilehainsegnato?».La signora Cerullo disse a occhi

    bassi:«Iono».«Ma a casa vostra o nel palazzo

    c’èqualcunochepuòaverlofatto?».Nunzia fece energicamente di no

    conlatesta.AlloralamaestrasirivolseaLila

  • econgenuinaammirazionelechiesedavantiatuttenoi:«Chitihainsegnatoaleggereea

    scrivere,Cerullo?».Cerullo,piccola,scuradicapellie

    di occhi e di grembiule, col fioccorosa al collo e sei anni di vitasoltanto,rispose:«Io».

  • 7.

    SecondoRino,ilfratellopiùgrandediLila,labambinaavevaimparatoaleggereintornoaitreanniguardandole lettere e le figure del suosillabario. Gli si metteva sedutaaccanto in cucina mentre faceva icompiti,eapprendevapiùdiquantoriuscisseadapprenderelui.Rino aveva quasi sei anni più di

    Lila, eraun ragazzocoraggiosochebrillavaintutti igiochidelcortileedella strada, soprattutto nel lancio

  • dello strùmmolo. Ma leggere,scrivere, fare i conti, imparare lepoesie a memoria, non erano coseper lui. A meno di dieci anni ilpadre, Fernando, per insegnargli ilmestiere di risuolatore di scarpeaveva cominciato a portarselo ognigiorno nel suo bugigattolo dicalzolaio in una viuzza oltre lostradone. Noi bambine, quando loincontravamo, gli sentivamoaddosso l’odore dei piedi sporchi,della tomaiavecchia, delmastice, elo prendevamo in giro, lochiamavamo solapianelle. Forse perquesto lui si vantava di essereall’origine della bravura di sua

  • sorella.Ma in realtànonce l’avevamai avuto, il sillabario, e non erastato seduto nemmeno un minuto,mai, a fare i compiti. Impossibiledunque che Lila avesse imparatodallesuefatichescolastiche.Erapiùprobabile che avesse capitoprecocemente come funzionaval’alfabetograzie ai fogli di giornaledentro cui i clienti avvolgevano lescarpe vecchie e che certe volte ilpadreportavaacasaperleggereallafamiglia i fatti di cronaca piùinteressanti.Comunque, che le cose fossero

    andate in un modo o nell’altro, ildatodi fattoeraquello:Lilasapeva

  • leggere e scrivere, e di quellamattinagrigiaincuilamaestracelorivelò mi è rimasto in mentesoprattuttoilsensodidebolezzachequellanotiziamilasciòaddosso.Lascuola, findalprimogiorno,mierasubito sembrata un posto assai piùbello di casa mia. Era il luogo delrioneincuimisentivopiùalsicuro,ci andavo molto emozionata. Stavoattenta alle lezioni, eseguivo con lamassimacura tuttoquellochemisidiceva di eseguire, imparavo. Masoprattutto mi piaceva piacere allamaestra, mi piaceva piacere a tutti.Acasaerolapreferitadimiopadreeanche i miei fratelli mi volevano

  • bene. Il problema era mia madre,conleilecosenonandavanomaiperil verso giusto. Mi pareva che, giàallora che avevo poco più di seianni, facesse di tutto per farmicapire che nella sua vita erosuperflua. Non le ero simpatica enemmenoleierasimpaticaame.Mirepelleva il suo corpo, cosa cheprobabilmente intuiva. Erabiondastra, pupille azzurre,opulenta.Ma aveva l’occhio destroche non si sapevamai da che parteguardasse.E anche lagambadestranon le funzionava, la chiamava lagamba offesa. Zoppicava e il suopassomiinquietava,speciedinotte,

  • quando non poteva dormire e simuovevaper ilcorridoio,andava incucina, tornava indietro,ricominciava. A volte la sentivoschiacciare con colpi rabbiosi ditacco gli scarafaggi che arrivavanodalla porta d’ingresso, e me laimmaginavoconocchi furiosicomequandoselaprendevaconme.Disicurononerafelice,lefatiche

    di casa la logoravano e i soldi nonbastavanomai.Siarrabbiavaspessocon mio padre, usciere al comune,gli urlava che doveva inventarsiqualcosa, che così non si potevaandare avanti. Litigavano. Mapoichémiopadrenonalzavalavoce

  • nemmeno quando perdeva lapazienza, ioparteggiavosempreperluicontrodi lei,ancheseavolte lapicchiava e con me sapeva essereminaccioso.Era stato lui enonmiamadre a dirmi, il primo giorno discuola: «Lenuccia, fa’ la brava conlamaestraenoitifacciamostudiare.Ma se non sei brava, se non sei lapiùbrava,papàhabisognodiaiutoevai a lavorare». Quelle parole miavevano spaventato molto, eppure,pur pronunciandole lui, le avevosentite come se fosse stata miamadre a suggerirgliele, aimporgliele. Avevo promesso aentrambi cheavrei fatto labrava.E

  • lecoseeranoandatesubitocosìbenechelamaestramidicevaspesso:«Greco, vieniti a sedere vicino a

    me».Era un gran privilegio. La

    Olivieroavevaaccantoasé,sempre,una sedia vuota dove chiamava lepiùbrave,perpremio. Io,neiprimitempi, le sedevo accanto incontinuazione. Lei mi esortava conmolte parole incoraggianti, lodava imieiboccolibiondiecosìrafforzavain me la voglia di far bene: tutt’alcontrariodimiamadreche,quandoeroacasa,micoprivacosìspessodirimproveri, a volte di insulti, dafarmi desiderare di rincantucciarmi

  • inunangolobuioesperarechenonmi trovasse più. Poi successe chevenne inclasse lasignoraCerulloelamaestraOlivierocirivelòcheLilaera molto più avanti di noi. Nonsolo:chiamòpiùspessoleichemeasederle accanto. Cosa mi causassedentroqueldeclassamentononloso,trovodifficile,oggi,direconfedeltàechiarezzaciòcheprovai.Lìper lìforseniente,unpo’digelosiacometutte. Ma di sicuro proprio in quelperiodo mi cominciò unapreoccupazione.Pensaiche,sebbenele mie gambe funzionassero bene,corressi di continuo il rischio didiventare zoppa. Mi svegliavo con

  • quell’ideaintestaemialzavosubitodallettopervedereselemiegambeeranoancora inordine.Perciòforsemi fissai con Lila, che avevagambettemagrissime, scattanti, e lemuoveva sempre, scalciava anchequando era seduta accanto allamaestra, tanto che quella siinnervosiva e presto la mandava aposto.Qualcosamiconvinse,allora,che se fossi andata sempre dietro alei,allasuaandatura,ilpassodimiamadre, che mi era entrato nelcervello e non se ne usciva più,avrebbe smesso di minacciarmi.Decisi che dovevo regolarmi suquellabambina,nonperderlamaidi

  • vista, anche se si fosse infastidita emiavessescacciata.

  • 8.

    È probabile che questa sia stata lamia maniera di reagire all’invidia,all’odio, e soffocarli. O, forse,travestii a quel modo il senso disubalternità, la fascinazione chesubivo. Certo mi addestrai adaccettare di buon grado lasuperioritàdiLilaintutto,eanchelesueangherie.Perdipiù lamaestrasicomportò

    inmanieramolto accorta. Vero chechiamava spesso Lila a sedersi

  • accanto a lei, ma pareva che lofacessepiùpertenerlabuonacheperpremiarla. Continuò, di fatto, alodare Marisa Sarratore, CarmelaPeluso e soprattutto me. Mi lasciòbrillare di una luce vivida, miincoraggiò a diventare sempre piùdisciplinata, sempre più diligente,sempre più acuta. Quando Lilausciva dalle sue turbolenze e misuperava senza sforzo, la Olivierolodavaprimameconmoderazioneepoi passava a esaltare la bravura dilei. Sentivomaggiormente il velenodella sconfitta quando a superarmieranoSarratoreoPeluso.Se invecerisultavo seconda dopoLila, facevo

  • un’espressionemite di consenso. Inquegliannicredodiavertemutounasola cosa: non essere più abbinata,nelle gerarchie stabilite dallaOliviero, a Lila; non sentire più lamaestra che diceva con orgoglio:Cerullo e Greco sono le più brave.Se un giorno avesse detto: lemigliori sonoCerulloeSarratore,oCerullo e Peluso, sarei morta sulcolpo. Perciò impiegai tutte le mieenergie di bambina non perdiventare laprimadellaclasse–miparevaimpossibileriuscirci–mapernon scivolare al terzo, al quarto,all’ultimo posto. Mi dedicai allostudio e amolte altre cose difficili,

  • lontane da me, solo per restare alpassoconquellabambinaterribileesfolgorante.Sfolgorante per me. Per tutti gli

    altri scolari Lila era solo terribile.Dalla prima alla quinta elementarefu, per colpa del direttore e un po’anche della maestra Oliviero, labambinapiùdetestatadellascuolaedelrione.Almeno due volte all’anno il

    direttore obbligava le classi agareggiare tra loro, in modo daindividuaregli alunnipiùbrillanti edi conseguenza i maestri piùcompetenti. Alla Oliviero questacompetizione piaceva. In conflitto

  • permanenteconisuoicolleghi,coniquali a volte sembrava prossima avenire alle mani, la maestra usavaLilaemecomelaprovalampantediquanto era brava lei, la più bravamaestra della scuola elementare delnostrorione.Perciòaccadevaspessocheciportassenelle classi, ancheaprescindere dalle occasioni volutedal direttore, a gareggiare con altribambini, femmine e maschi. Io, disolito, eromandata in avanscopertapersondare il livellodicompetenzadel nemico. In genere vincevo, masenza esagerare, senza umiliare némaestrinéalunni.Erounabambinacon i boccoli biondi, bellina, felice

  • di esibirmi ma non sfrontata, ecomunicavo un’impressione didelicatezzacheinteneriva.Sequindirisultavo la più brava a dire lepoesie,a recitare le tabelline,a farele divisioni e le moltiplicazioni, aelencare che le Alpi eranomarittime, cozie, graie, pennineeccetera, gli altri insegnanti mifacevanocomunqueunacarezza,gliscolarisentivanoquantafaticaavevofatto per mandare a memoria tuttaquella roba e perciò non miodiavano.DiversoerailcasodiLila.Giàin

    primaelementareeraaldilàdiognipossibile competizione. La maestra

  • anzi diceva che con un po’d’impegno sarebbe stata pronta adare subito l’esame di seconda e amenodisetteanniandareinterza.Inseguitoildivariocrebbe.Lilafacevaamentecalcoli complicatissimi,neisuoi dettati non c’era nemmeno unerrore, parlava sempre in dialettocome noi tutti ma all’occorrenzasfoderava un italiano da libro,ricorrendo anche a parole comeavvezzo, lussureggiante, benvolentieri.Sicché,quandolamaestramandavaincampoleioadiremodie tempi dei verbi o a risolvereproblemi, saltava per aria ognipossibilitàdifarebuonvisoacattivo

  • gioco,gli animi si inasprivano.Lilaeratroppoperchiunque.In più non offriva spiragli alla

    benevolenza. Riconoscere la suabravura significavaper noi bambiniammettere che non ce l’avremmomai fatta e che era inutilegareggiare,perimaestrielemaestreconfessarsi di essere stati bambinimediocri. La sua prontezzamentalesapevadisibilo,diguizzo,dimorsoletale. E non c’era niente nel suoaspettocheagissedacorrettivo.Eraarruffata,sporca,alleginocchiaeaigomitiavevasemprecrostediferiteche non facevano mai in tempo arisanare.Gliocchigrandievivissimi

  • sapevano diventare fessure dietrocui,primadiogni rispostabrillante,c’era uno sguardo che pareva nonsolo poco infantile, ma forse nonumano. Ogni suo movimentocomunicava che farle delmale nonservivaperché,comunquesifosseromesselecose, leiavrebbetrovatoilmododifartenedipiù.L’odiodunqueeratangibile,iome

    ne accorgevo. Ce l’avevano con leisia le femmine che i maschi, ma imaschi più scopertamente. Per unmotivo suo segreto, infatti, lamaestra Oliviero godeva a portarcisoprattutto nelle classi dove sipotevanoumiliarenon tanto scolare

  • emaestre, quanto scolari emaestri.E il direttore, per motivi suoialtrettanto segreti, favorivasoprattutto gare di quel tipo. Inseguito ho pensato che nella scuolasiscommettesserosoldi,forseancheparecchi,suqueinostriincontri.Maesageravo: forse era solo un modoper dare sfogo a vecchie ruggini oper consentire al direttore di teneresottoiltaccoimaestrimenobraviomeno obbedienti. Fatto sta che unamattinanoidue,chealloraeravamoin seconda, fummo portatenientemeno in una quarta, la quartadel maestro Ferraro, dove c’eranosia Enzo Scanno, ilmalvagio figlio

  • della fruttivendola, che NinoSarratore,ilfratellodiMarisacheioamavo.Enzo lo conoscevano tutti. Era

    ripetente e almeno un paio di volteera stato trascinato in giro per leclassiconalcollouncartellosucuiil maestro Ferraro, un uomo coicapelli grigi a spazzola, lungo emagrissimo, il viso piccolo emoltosegnato, occhi allarmati, avevascritto asino. Nino invece era cosìbuono, così mite, così silenzioso,cheeranotoecarosoprattuttoame.Naturalmente Enzo era meno chezero, scolasticamente parlando, lotenevamo d’occhio solo perché era

  • manesco. I nostri avversari, nellecosedi intelligenza,eranoNinoe–scoprimmo lì per lì – AlfonsoCarracci,terzofigliodidonAchille,un bambino molto curato, uno diseconda come noi, che pareva piùpiccolodei sette anni che aveva.Sivedeva che il maestro lo avevachiamato lì in quarta perché facevapiù affidamento su di lui che suNino,diquasidueannipiùgrande.Ci fu un po’ di maretta tra la

    Oliviero e Ferraro per quellaconvocazione imprevista diCarracci, poi la gara cominciòdavantialleclassi riunite inun’aulasola.Cichieseroiverbi,cichiesero

  • le tabelline, ci chiesero le quattrooperazioni,primaalla lavagnaepoia mente. Di quella particolarecircostanza mi sono rimaste inmente tre cose. La prima è che ilpiccolo Alfonso Carracci misgominòsubito,eracalmoepreciso,maavevadibuonochenongodevaasopraffarti. La seconda è che NinoSarratore, a sorpresa, non risposequasi mai alle domande, restòimbambolato come se non capissecosa gli chiedevano i due maestri.La terza è che Lila tenne testa alfigliodidonAchillesvogliatamente,come se non le importasse chepotesse batterla. Il quadro si animò

  • solo quando si passò ai calcoli amente, addizioni, sottrazioni,moltiplicazioniedivisioni.Alfonso,malgradolasvogliatezzadiLilacheavoltesenestavazittacomesenonavessesentitoladomanda,cominciòaperderecolpi,sbagliavasoprattuttole moltiplicazioni e le divisioni.D’altra parte, se il figlio di donAchille cedeva, anche Lila non eraall’altezza e quindi sembravano piùo meno pari. Ma a un certo puntosuccesse un fatto imprevisto. Perben due volte, quando Lila nonrispondeva o Alfonso sbagliava, sisentì piena di disprezzo la voce diEnzo Scanno che, dagli ultimi

  • banchi,dicevailrisultatogiusto.Questostupìlaclasse,imaestri,il

    direttore, me e Lila. Com’erapossibile che uno come Enzo,svogliato, incapace e delinquente,sapesse fare calcoli complicati amente meglio di me, di AlfonsoCarracci, di Nino Sarratore? Dicolpo fucomeseLila si svegliasse.Alfonsofinìfuorigiocorapidamentee, col consenso fiero del maestro,che cambiò prontamente campione,cominciòunduellotraLilaedEnzo.I due si tennero testa a lungo.A

    un certo punto il direttore,scavalcando ilmaestro, chiamò allacattedra, accanto a Lila, il figlio

  • della fruttivendola. Enzo lasciòl’ultimobancocon risatellenervosesue e dei suoi accoliti, ma poi sidispose accanto alla lavagna, difronte a Lila, cupo, a disagio. Ilduellocontinuòconcalcoli amentesemprepiùdifficili.Ilbambinodavailrisultatoindialetto,comesestesseper strada e non in un’aula, e ilmaestro gli correggeva la dizione,ma la cifra era sempre giusta. Diquel momento di gloria Enzosembrò fierissimo, lui stessomeravigliato di com’era bravo. Poicominciòacedere,perchéLilas’erasvegliata definitivamente e oraaveva quegli occhi a fessura,molto

  • determinati, rispondeva conprecisione. Enzo alla fine perse.Perse ma senza rassegnazione.Cominciò a bestemmiare, a gridareoscenità terribili. Il maestro lomandò dietro la lavagna, inginocchio, ma lui non ci volleandare.Fupresoabacchettate sullenocche e poi trascinato per leorecchie nell’angolodel castigo.Lagiornatascolasticafinìcosì.Madaallora labandadeimaschi

    cominciòalanciarcilepietre.

  • 9.

    Quellamattinadelduello tra lei edEnzo è importante, nella nostralunga storia. Lì si avviarono molticomportamenti di arduadecifrazione. Per esempio si videcon chiarezza che Lila poteva,volendo, dosare l’uso delle suecapacità.Eraciòcheavevafattocolfiglio di donAchille.Non solononaveva voluto batterlo, aveva anchecalibrato silenzi e risposte inmododa non farsi battere. Allora non

  • eravamo ancora amiche e nonpotevo chiederle perché avessetenutoquelcomportamento.Inrealtànonc’erabisognodi faredomande,la ragione ero in grado di intuirla.Comeme,ancheleiavevaildivietodi fare tortinonsoloadonAchille,maancheatuttalasuafamiglia.Era così.Non sapevamoda dove

    derivasse quel timore-astio-odio-acquiescenza che i nostri genitorimanifestavano nei confronti deiCarracciecheci trasmettevano,mac’era, era un dato di fatto, come ilrione,lesuecasebianchicce,l’odoremiserabile dei pianerottoli, lapolvere delle strade. Con tutta

  • probabilitàancheNinoSarratoreerarimasto muto per permettere adAlfonso di dare il meglio di sé.Aveva balbettato poche cose, bello,ben pettinato, le ciglia lunghissime,sottile e nervoso, e infine avevataciuto. Per continuare ad amarlo,volli pensare che le cose fosseroandate così. Ma sotto sotto nutrivodei dubbi. La sua era stata unascelta,comequelladiLila?Nonneero sicura. Io mi ero fatta da parteperché Alfonso era davvero piùbravo di me. Lila avrebbe potutobatterlosubito, tuttaviaavevasceltodipuntare alpareggio.E lui?C’erastatoqualcosachemiavevaconfusa,

  • forse persino addolorata: non unasua incapacità, nemmeno unarinuncia, ma, oggi direi, uncedimento.Quelbalbettio,ilpallore,ilviolachegliavevaall’improvvisomangiato gli occhi: com’era bello,così languido, e tuttavia quanto mieradispiaciutoilsuolanguore.Anche Lila a un certo punto mi

    era sembrata bellissima. In genereero io quella bella, lei invece eraseccacomeun’alicesalata,mandavaunodorediselvatico,avevaunvisolungo,strettoalletempie,chiusotraduebandedicapelliliscienerissimi.Maquandoavevadecisodi spazzarvia sia Alfonso che Enzo, si era

  • illuminatacomeunasantaguerriera.Leera salitoun rossorealleguanceche era il segno di una vampasprigionata da ogni angolo delcorpo, tanto che per la prima voltaavevo pensato: Lila è più bella dime.Erodunquesecondaintutto.Miero augurata che nessuno se neaccorgessemai.Ma la cosa più importante di

    quella mattinata fu la scoperta cheunaformulacheusavamospessopersottrarci alle punizioni custodivaqualcosa di vero, quindi diingovernabile, quindi di pericoloso.La formula era: non l’ho fattoapposta. Enzo infatti si era inserito

  • nondipropositonellagarainattoenon di proposito aveva sconfittoAlfonso. Lila di proposito avevasconfittoEnzoma non di propositoavevasconfittoancheAlfonsoenondi proposito lo aveva umiliato, erastatosolounpassaggionecessario.Ifattichenederivaronociconvinseroche conveniva fare ogni cosaapposta,premeditatamente,inmododasaperecosac’eradaaspettarsi.Infatti ciò che accadde in seguito

    ci investì in modo inatteso. Poichéquasi niente era stato fatto apposta,ci venne addosso una lava dimoltecoseimprovvise,l’unadietrol’altra.Alfonso tornò a casa in lacrimeper

  • via della sconfitta. Suo fratelloStefano, di quattordici anni,apprendista salumiere nellasalumeria (l’ex bottega delfalegname Peluso) di cui eraproprietariosuopadre,cheperònoncimettevamaipiede,ilgiornodopovenne sotto scuola e disse a Lilabruttissime cose, arrivando aminacciarla.Auncertopuntoleigligridòuninsultomoltoosceno,luilaspinse contro un muro e cercò diafferrarle la lingua, gridando cheglielavolevapungereconunospillo.Lila tornò a casa e raccontò tutto asuo fratello Rino, che più leiparlava, più diventava rosso e con

  • gliocchilucidi.NelfrattempoEnzo,mentreinseratatornavaacasasenzala sua banda della campagna, fubloccato da Stefano e preso aschiaffi, pugni e calci. Rino, almattino, andò a cercare Stefano efecero a botte, dandosele di santaragione in modo più o menoparitario. Qualche giorno dopobussò alla porta dei Cerullo lamoglie di donAchille, ziaMaria, efeceaNunziaunascenataconurlaeinsulti. Passò poco tempo e unadomenica,dopo lamessa,FernandoCerullo il calzolaio, padre diLila edi Rino, un uomo piccolo,magrissimo, accostò timidamente

  • donAchilleeglichiesescusasenzamaidireperchecosasiscusava.Ionon lo vidi, o almeno non me loricordo, ma si disse che le scuseerano state fatte ad alta voce e inmodo che tutti sentissero, anche sedon Achille era passato oltre comese lo scarparo non parlasse con lui.PocotempodopoioeLilaferimmoallacavigliaEnzoconunapietraedEnzo lanciòunsassochecolpìLilaalla testa. Mentre io strillavo dipauraeLilasirialzavaconilsangueche le gocciolavada sotto i capelli,Enzo venne giù dal terrapieno,anche lui sanguinante, e nel vedereLila in quello stato, in modo del

  • tutto imprevisto, e ai nostri occhiincomprensibile,simiseapiangere.PassòpocoeRino,ilfratelloadoratodi Lila, arrivò sotto scuola e diedemoltemazzateaEnzo,chesidifeseappena. Rino era più grande, piùgrosso e più motivato. Non solo:Enzo non disse niente delle bottericevute né alla sua banda né a suamadre né a suo padre né ai suoifratelli né ai cugini, che lavoravanotuttiincampagnaevendevanofruttae verdura con la carretta. A quelpunto, grazie a lui, finirono levendette.

  • 10.

    Lila andò per un po’ in giro,fieramente,conlatestafasciata.Poisi tolse la fasciatura e mostrò achiunque glielo chiedesse la feritanera,arrossataaibordi,chesbucavasullafrontedasottol’attaccaturadeicapelli. Infine si dimenticò di ciòcheleerasuccessoesequalcunoleguardava fisso il segno biancastrocheleerarimastosullapelle,facevaungestoaggressivochesignificava:cosa guardi, fatti i fatti tuoi. A me

  • non disse mai nulla, nemmeno unaparola di ringraziamento per lepietre che le avevo passato, percome le avevo asciugato il sanguecollembodelgrembiule.Madaquelmomento cominciò a sottopormi aprove di coraggio che non avevanopiùachefareconlascuola.Civedevamoincortilesemprepiù

    spesso. Ci mostravamo le nostrebambole ma senza darlo a vedere,l’unaneidintornidell’altra,comesefossimodasole.Auncertopuntolefacemmo incontrare per prova, pervedere se andavano d’accordo. Ecosì arrivò il giorno che stavamoaccantoallafinestradelloscantinato

  • col reticoloscollatoe facemmounoscambio, lei tenne un po’ la miabambolaeiounpo’lasua,eLiladipunto in bianco fece passare Tinaattraverso l’apertura nella rete e lalasciòcadere.Provai un dolore insopportabile.

    Tenevo alla mia bambola dicelluloide come alla cosa piùpreziosa che avessi. Lo sapevo cheLilaeraunabambinamoltocattiva,ma non mi sarei mai aspettata chemi facesse una cosa così malvagia.Permelabambolaeraviva,saperlain fondo allo scantinato, in mezzoallemillebestiechecivivevano,migettò nella disperazione. Ma in

  • quell’occasione imparai un’arte incui poi sono diventatamolto brava.Trattenniladisperazione,latrattennisul bordo degli occhi lucidi, tantocheLilamidisseindialetto:«Nonteneimporta?».Non risposi. Provavo un dolore

    violentissimo, ma sentivo che piùforte ancora sarebbe stato il doloredi litigare con lei. Ero comestrozzatadaduesofferenze,unagiàin atto, la perdita della bambola, eunapossibile,laperditadiLila.Nondissinulla, feci soloungesto senzadispetto, come se fosse naturale,anche se naturale non era e sapevoche stavo rischiando molto. Mi

  • limitai a gettare nello scantinato lasua Nu, la bambola che mi avevaappenadato.Lilamiguardòincredula.«Quello che fai tu, faccio io»

    recitai subito ad alta voce,spaventatissima.«Adessomelavaiaprendere».«Setuvaiaprenderelamia».Andammo insieme.Nell’ingresso

    della palazzina, a sinistra, c’era laporticina che introduceva agliscantinati, la conoscevamo bene.Scardinata com’era – uno deibattenti si reggeva su un sologanghero–, laportaerabloccatadauncatenacciochetenevainsiemein

  • malo modo le due ante. Ognibambino era tentato e insiemeterrorizzato dalla possibilità diforzare la porticina quel tanto cheavrebbe reso possibile passaredall’altro lato. Noi lo facemmo. Ciricavammo uno spazio sufficienteperchéinostricorpiesilieflessibilisgattaiolasseronelloscantinato.Unavoltadentro, primaLila, poi

    io,scendemmopercinquegradinidipietra in un luogo umido, malrischiarato dalle piccole aperture alivellostradale.Avevopaura,cercaidi tener dietro a Lila, che peròsembrava arrabbiata e puntavadiritto a ritrovare la sua bambola.

  • Avanzai a tentoni. Sentivo sotto lesuole dei sandali oggetti chescricchiolavano, vetro, pietrisco,insetti. Intorno c’erano cose nonidentificabili,massescure,puntuteosquadrate o tondeggianti. La pocalucecheattraversava ilbuioavoltecadeva su cose riconoscibili: loscheletro di una sedia, l’asta di unlampadario, cassette della frutta,fondi e fiancate d’armadi, bandelledi ferro. Provai un grande spaventoperquellachemisembròunafacciaflosciadaigrandiocchidivetrochesiallungavainunmentoaformadiscatola. La vidi appesa su untrabiccolino di legno con

  • un’espressione desolata e gridai, laindicaiaLila.Leisigiròdiscatto,siavvicinò piano voltandomi laschiena, allungò una mano concautela, lastaccòdal trabiccolo.Poisi girò. S’era messa la faccia dagliocchi di vetro sopra la sua e oraaveva un viso enorme, orbite tondesenza pupille, niente bocca, soloquellabazzanera che le ciondolavasulpetto.Sono attimi che mi sono rimasti

    bene impressi nella memoria. Nonnesonocerta,mamidovetteusciredal petto un vero urlo di terrore,perché lei si affrettò a dire conunavoce rimbombante che era solouna

  • maschera,unamascheraantigas:suopadre la chiamava così, ne avevauna identica nel ripostiglio di casa.Seguitai a tremare e mugolare dipaura, cosa che evidentemente laconvinse a strapparsela dal viso e agettarla in un angolo, con un granfracasso e molta polvere che siaddensò tra le lingue di luce deifinestrini.Micalmai.Lilasiguardòintorno,

    individuò l’apertura da doveavevamofattocadereTinaeNu.Ciaccostammo alla parete ruvida,grumosa, guardammo nell’ombra.Le bambole non c’erano. Lilaripeteva in dialetto: non ci stanno,

  • non ci stanno, non ci stanno, efrugava per terra con lemani, cosacheiononavevoilcoraggiodifare.Passarono minuti lunghissimi.

    UnasolavoltamisembròdivedereTina e con un tuffo al cuore michinai a prenderla, ma era solo unvecchio foglio di giornaleappallottolato.Nonci stanno, ripetéLila e si allontanò verso l’uscita.Allora mi sentii persa, incapace direstare lì da sola seguitando acercare,incapacediandarviaconleisenonavessitrovatolabambola.Incimaaigradinidisse:«Sel’èpigliatedonAchille,sel’è

    messenellaborsanera».

  • E io inquellostessomomento losentii, don Achille: strisciava, sistrusciava, tra le forme indistintedelle cose. Allora abbandonai Tinaal suo destino, scappai per nonperdereLilachegiàsitorcevaagile,sgusciando oltre la portasgangherata.

  • 11.

    Credevo a tutto quello che lei midiceva. M’è rimasta in mente lamassa informe di don Achille checorre per cunicoli sotterranei abraccia pendule, trattenendo con leditalarghedaunlatolatestadiNu,dall’altro quella di Tina. Soffriimolto. Mi ammalai di febbri dicrescenza, guarii, mi ammalai dinuovo. Fui presa da una sorta didisfunzionetattile,certevolteavevol’impressione che, mentre ogni

  • essere animato intorno accelerava iritmi della sua vita, le superficisolidemidiventasseromollisottoleditaosigonfiasserolasciandospazivuoti tra la loro massa interna e lasfogliadisuperficie.Misembròchelo stesso mio corpo, a tastarlo,risultasse tumefatto e questo miintristiva.Erocertadiavereguancea palloncino, mani riempite disegatura, lobi delle orecchie cheparevano sorbe mature, piedi aforma di pagnotta. Quando ritornaiper le strade e a scuola, sentii cheanchelospazioeracambiato.Parevaincatenato tra due poli scuri, da unlato la bolla d’aria sotterranea che

  • premeva alle radici delle case, latorva caverna dentro cui eranocadutelebambole;dall’altroilgloboin alto, al quarto piano dellapalazzina dove abitava don Achillecheceleavevarubate.Leduepalleeranocomeavvitatealleestremitàdiuna sbarra di ferro, che nella miaimmaginazione attraversavaobliquamente gli appartamenti, lestrade, la campagna, il tunnel, ibinari, e li compattava. Mi sentivostretta dentro quella morsa insiemealla massa di cose e di personed’ogni giorno, e avevo un saporebrutto in bocca, provavo un sensopermanente di nausea che mi

  • sfiniva, come se il tutto, cosìcompresso, sempre più stretto, mimacinasseriducendomiaunacremaripugnante.Fu un malessere resistente, forse

    durò anni, fin oltre la primaadolescenza.Maproprioquandoeraappena incominciato,insperatamente ebbi la mia primadichiarazioned’amore.Io e Lila non avevamo ancora

    provatoasaliresudadonAchille,illutto per la perdita di Tina eraancora insopportabile. Ero andatasvogliatamente a comprare il pane.Mi ci aveva mandato mia madre estavo tornando a casa con il resto

  • ben stretto in pugno per nonperderlo e la palata ancora caldacontro il petto, quando mi accorsiche dietro di me arrancava NinoSarratore con il suo fratellino permano. La madre, Lidia, nei giornid’estate lo faceva uscire di casasempre in compagnia di Pino, cheall’epoca non aveva più di cinqueanni, con l’obbligo di non lasciarlomai. In prossimità di un angolo distrada, poco dopo la salumeria deiCarracci, Nino fece per superarmi,mainvecedipassareoltremi tagliòla strada,mi spinse contro ilmuro,appoggiò lamano libera alla paretecome una sbarra che mi doveva

  • impedirediscappare,econl’altrasitirò accanto il fratello, testimonesilenzioso della sua impresa. Dissetutto affannato qualcosa che noncapii. Era pallido, prima sorrideva,poi diventava serio, poi tornava asorridere. Alla fine scandìnell’italianodellascuola:«Quando ci facciamo grandi ti

    vogliosposare».Poimichiesesenelfrattempomi

    volevofidanzareconlui.Eraunpo’più alto dime,magrissimo, il collolungo, le orecchie un po’ scostatedalla testa. Aveva capelli ribelli,occhi intensi con ciglia lunghe.Eracommovente lo sforzo che stava

  • facendo per contenere la suatimidezza. Sebbene volessi sposarloanch’iomivennedirispondergli:«No,nonposso».Lui restòaboccaaperta,Pinogli

    diedeunostrattone.Scappaivia.Da quel momento cominciai a

    svicolare tutte le volte che lovedevo. Eppure mi sembravabellissimo.Quantevolteerorimastanei paraggi di sua sorella Marisasoloperavvicinarloefareinsiemealorolastradapertornareacasa.Maevidentemente mi fece ladichiarazione in un momentosbagliato. Non poteva sapere comemi sentivo sbandata, quanta

  • angoscia mi dava la sparizione diTina,comemilogoravalosforzodistar dietro a Lila, fino a che puntomi toglieva il fiato lo spaziocompresso del cortile, dellepalazzine, del rione. Dopo moltilunghi sguardi spauriti che milanciava da lontano, anche luicominciò a evitarmi. Per un po’dovette temerechedicessiallealtrebambine, e innanzitutto a suasorella,dellapropostachemiavevafatto. Si sapeva che GigliolaSpagnuolo, la figlia del pasticciere,si eracomportatacosìquandoEnzole aveva chiesto di fidanzarsi. EdEnzo lo aveva saputo e s’era

  • arrabbiato, le aveva gridato sottoscuolacheeraunabugiarda,l’avevaancheminacciatadiammazzarlaconuncoltello.Fuitentatadiraccontareogni cosa anch’io, ma poi lasciaiperdere, non lo dissi a nessuno,nemmeno a Lila quandodiventammoamiche.Pianopianoiostessamenedimenticai.La cosa mi tornò in mente

    quando, qualche tempo dopo,l’interafamigliaSarratoresitrasferì.Unamattina comparvero nel cortilela carretta e il cavallo cheappartenevanoalmaritodiAssunta,Nicola: con quella stessa carretta equello stesso cavallo vecchio

  • vendevainsiemeallamoglielafruttae la verdura girando per le vie delrione.Nicolaavevaunabellafaccialarga e gli stessi occhi azzurri, glistessi capelli biondi di suo figlioEnzo. Si occupava, oltre che divendere frutta e verdura, anche ditraslochi. E infatti lui, DonatoSarratore,NinostessoeancheLidiacominciarono a portar giù di tutto,carabattoled’ognigenere,materassi,mobili, e sistemarono ogni cosasullacarretta.Le donne, appena sentirono il

    rumore delle ruote nel cortile, siaffacciaronoallefinestre,anchemiamadre, anch’io. C’era una gran

  • curiosità.ParevacheDonatoavesseavuto una casa nuova direttamentedalle Ferrovie dello stato, neidintorni di una piazza che sichiamavapiazzaNazionale.Oppure– dissemiamadre – lamoglie l’haobbligato a traslocare per sfuggirealle persecuzioni di Melina, che levuole togliere il marito. Probabile.Mia madre vedeva sempre il maledove con mio grande fastidio siscopriva presto o tardi che il malec’era davvero, e il suo occhiostrabico pareva fatto apposta perindividuare i movimenti segreti delrione. Come avrebbe reagitoMelina? Era vero, come avevo

  • sentitosussurrare,cheavevafattounbambinoconSarratoreepoil’avevaucciso? Ed era possibile che sisarebbe messa a urlare bruttissimecose, tra cui anche quella? Tutte,grandiepiccole,eravamoaffacciateallafinestra,forsepersalutareconlamanolafamigliolacheseneandava,forse per assistere allo spettacolodella rabbia di quella donna brutta,seccaevedova.VidicheancheLilae sua madre Nunzia si sporgevanopervedere.CercailosguardodiNino,malui

    sembrava avere altro da fare. Mipreseallora,comealsolitosenzaunmotivo preciso, uno sfinimento che

  • rendeva debole ogni cosa intorno.Pensai che forse mi aveva fatto ladichiarazioneperchésapevagiàchesenesarebbeandatoeprimavolevadirmi ciò che sentiva per me. Loguardai mentre s’affannava atrasportare cassette zeppe di cose esentii la colpa, il dolore di averglidettono.Orasenefuggivacomeunuccellino.Allafinelaprocessionedimobili

    emasseriziecessò.NicolaeDonatocominciarono a passarsi corde perfissare tutto sulla carretta. LidiaSarratorecomparvevestitacomeperandare a una festa, s’era messaancheuncappellinoestivo,dipaglia

  • blu. Spingeva la carrozzella colfiglio maschio piccolo e di latoaveva le due femmine, Marisa cheaveva la mia età, otto-nove anni, eCleliadisei.Sisentìall’improvvisoun rumore di cose rotte al secondopiano. Quasi nello stesso momentoMelina cominciò a gridare. Eranogridaditalestrazioche,vidi,Lilasimiselemanisulleorecchie.Risuonòanche la voce addoloratissima diAda,lasecondafigliadiMelina,chegridava:mammà,no,mammà.Dopoun attimo d’incertezza mi tappai leorecchie anch’io. Ma intantocominciarono a volare oggetti dallafinestrae fu tale lacuriositàchemi

  • liberai i timpani, come se avessibisogno di suoni nitidi per capire.Melina però non gridava parolemasoloaaah,aaah,comesefosseferita.Non la si vedeva, di lei noncompariva nemmeno un braccio ouna mano che lanciava le cose.Pentoledi rame,bicchieri,bottiglie,piatti parevano volare dalla finestrapervolontàpropriaeinstradaLidiaSarratore filava a testa china, laschiena curva sulla carrozzella, lefigliedietro,eDonatos’arrampicavasulla carretta tra le sue proprietà, edonNicola tratteneva il cavallo peril morso e intanto le cose urtavanosull’asfalto, rimbalzavano, si

  • spezzavano schizzando schegge tralezampenervosedellabestia.Cercai Lila con lo sguardo. Vidi

    adessoun’altra faccia,unafacciadismarrimento. Si dovette accorgereche laguardavoe sparì subitodallafinestra.Lacarrettaintantosimosse.Rasenteilmuro,senzaunsalutopernessuno, sgusciarono verso ilcancelloancheLidiaeiquattrofiglipiù piccoli, mentre Nino parevasenza voglia di andarsene, comeipnotizzato dallo spreco di oggettifragilicontrol’asfalto.Per ultimo vidi volare dalla

    finestra una sorta di macchia nera.Eraunaferrodastiro, ferropuro: il

  • manico di ferro, la base di ferro.Quando ancora avevo Tina egiocavoincasa,usavoquellodimiamadre,identico,conlaformaaprua,fingendo che fosse una barca nellatempesta. L’oggetto venne giù inpicchiata e fece un buco per terracon un tonfo secco, a pochicentimetri da Nino. Per poco –pochissimo–nonlouccise.

  • 12.

    NessunbambinomaidichiaròaLilail suo amore e lei non mi ha maidetto se ne soffrì. GigliolaSpagnuolo riceveva di continuoproposte di fidanzamento e anch’ioeromolto richiesta.Lila invecenonpiaceva,innanzituttoperchéeraunostecco,sporcaesempreconqualcheferita, ma anche perché aveva lalingua affilata, inventavasoprannomi umilianti e pursfoggiando con lamaestra vocaboli

  • della lingua italiana che nessunoconosceva, con noi parlava solo undialetto sferzante, pieno di maleparole, che stroncava sul nascereognisentimentod’amore.SoloEnzofeceunacosache,senonerapropriouna richiesta di fidanzamento, eracomunque un segnale diammirazioneedirispetto.Parecchiodopoche leavevarotto la testaconlapietraeprima,mipare,diessererespinto da Gigliola Spagnuolo, luici rincorseper lo stradonee, sotto imiei occhi increduli, tese a Lila unsertodisorbe.«Checifaccio?».«Telemangi».

  • «Acerbe?».«Lefaimaturare».«Nonlevoglio».«Buttale».Tutto qui. Enzo girò le spalle e

    corse a lavorare. Io e Lila cimettemmoaridere.Parlavamopoco,ma per ogni cosa che ci capitavaavevamo una risata. Le dissi solo,contonodivertito:«Amepiacciono,lesorbe».In realtà mentivo, era un frutto

    chenonamavo.Miattraevailcolorerossogiallastro di quando eranoacerbe, la loro compattezza cherisplendeva nelle giornate di sole.Maquandomaturavanosuibalconie

  • diventavano marroni e molli comepiccole pere vizze, e la pelle sistaccava facilmente mostrando unapolpa granulosa non di cattivosapore,ma disfatta in unmodo chemi ricordava le carogne dei topilungo lo stradone, allora nemmenole toccavo. Dissi quella frase quasiper prova, sperando che Lilame letendesse: tieni, prendile tu. SentiichesemiavessedatoildonocheleavevafattoEnzosareistatacontentapiù che semi avesse dato una cosasua. Ma non lo fece, e ricordoancora l’impressione di tradimentoquandoseleportòacasa.Leistessapiantòilchiodoallafinestra.Lavidi

  • mentreviappendevailserto.

  • 13.

    Enzononlefecemaipiùaltriregali.DopolaliteconGigliola,cheavevadetto a tutti della dichiarazione chelui le aveva fatto, lo vedemmosempre meno. Pur essendosimostrato bravissimo coi calcoli amenteeratropposvogliato,sicchéilmaestronon loproposeper l’esamed’ammissione alle medie e lui nonse ne rammaricò, anzi ne fucontento. S’iscrisse alla scuola diavviamentoallavoro,madifattogià

  • lavorava coi genitori. Si svegliavaprestissimo per andare col padre almercatoortofrutticolooagirareconla carretta vendendo per il rione iprodotti della campagna, e quindiconlascuolaprestochiuse.Anoiinvece,quandostavamoper

    finire la quinta, fu comunicato cheeravamo fatte per continuare astudiare.Lamaestrachiamòaturnoigenitorimiei,diGigliolaediLilaper dir loro che assolutamentedovevamo sostenere, oltre chel’esamedilicenzaelementare,anchel’esame di ammissione alla scuolamedia. Io le studiai tutteper fare inmodo chemio padre nonmandasse

  • dalla maestra mia madre,claudicante,conl’occhioballerinoesoprattutto sempre rabbiosa, ma civenisselui,cheerausciereesapevausare modi cortesi. Non ce la feci.Andò lei, parlò con la maestra etornòacasamoltocupa.«Lamaestravuolesoldi.Diceche

    le deve fare delle lezioni in piùperchél’esameèdifficile».«Ma a che serve questo esame?»

    chiesemiopadre.«Afarlestudiareillatino».«Eperché?».«Perchéhannodettocheèbrava».«Maseèbrava,perchélamaestra

    le deve fare queste lezioni a

  • pagamento?».«Per stare meglio lei e peggio

    noi».Discussero molto. All’inizio mia

    madre era contraria e mio padreincerto; poi mio padre diventòcautamente favorevole emiamadresi rassegnò a essere un po’ menocontraria; infine decisero di farmifare l’esame, ma sempre col pattoche se io non fossi stata bravissimami avrebbero tolto subito dallascuola.ALilainveceigenitoridisserodi

    no. Nunzia Cerullo fece qualchetentativopococonvinto,mailpadrenon volle neanche discutere e anzi

  • diede uno schiaffo a Rino che gliavevadettochesbagliava.Igenitoripropendevano addirittura per nonandare dalla maestra, che però lifece chiamaredaldirettore, e alloraNunziadovetteandareperforza.Difronte al timido ma netto rifiuto diquella donna spaurita, la Oliviero,arcigna ma calma, sfoderò i temimeravigliosi di Lila, le soluzionibrillantidiproblemiarduiepersinoidisegni coloratissimi che in classe,quando si applicava, ci incantavanotutte perché, rubacchiando pastelliGiotto, tratteggiava moltorealisticamente principesse conpettinature, gioielli, vestiti, scarpe

  • chenon s’eranomai visti in nessunlibro e nemmeno al cinemaparrocchiale.Quando però il rifiutofu confermato, la Oliviero perse lacalma e trascinò dal direttore lamadre di Lila come se fosseun’alunnaindisciplinata.MaNunzianon poteva cedere, non aveva ilpermesso del marito. Diconseguenza ripeté no fino allosfinimento suo, della maestra, deldirettore.Ilgiornodopo,mentreandavamo

    ascuola,Lilamidissecol tonosuosolito: tanto io l’esame lo faccio lostesso. Le credetti, proibirle unacosa era inutile, lo sapevamo tutti.

  • Sembrava la più forte di noibambine, più forte di Enzo, diAlfonso,diStefano,piùfortedisuofratello Rino, più forte dei nostrigenitori, più forte di tutti i grandicompresa la maestra e i carabinieriche tipotevanomettere inprigione.Sebbene fragile nell’aspetto, ognidivieto davanti a lei perdevaconsistenza.Sapevacomepassareillimite senzamai subirne veramentele conseguenze. Alla fine la gentecedeva e addirittura, per quanto amalincuore,eracostrettaalodarla.

  • 14.

    Anche andare da don Achille eraproibito, ma lei decise di farlougualmente e io le andai dietro.Anzi, fu in quell’occasione che miconvinsichenientepotessefermarla,e che anzi ogni sua disobbedienzaavessesbocchicheperlameravigliatoglievanoilfiato.Volevamo che don Achille ci

    restituisselenostrebambole.Perciòandammo su per le scale, a ognigradino ero sul punto di girare le

  • spalle e tornare in cortile. SentoancoralamanodiLilacheafferralamia,emipiacepensarechesideciseafarlononsoloperchéintuìchenonavrei avuto il coraggio di arrivarefino all’ultimo piano, ma ancheperché lei stessa con quel gestocercava la forza d’animo percontinuare. Così, l’una accantoall’altra,iodallapartedelmuroeleidalla parte della ringhiera, le manistrette con i palmi sudati, facemmole ultime rampe. Davanti alla portadi don Achille il cuore mi battevafortissimo, me lo sentivo nelleorecchie, ma mi consolai pensandochefosse il rumoreanchedelcuore

  • di Lila. Dall’appartamentoarrivavano voci, forse di Alfonso oStefano o Pinuccia. Lila, dopo unalunghissima sostamuta davanti allaporta, girò la chiavetta delcampanello. Ci fu silenzio, poi unciabattare. Ci aprì la porta donnaMaria, aveva una vestaglia verdestinto. Quando parlò, le vidi inbocca un dente d’oro moltobrillante. Credette che cercassimoAlfonso, era un po’ stupita. Lila ledisseindialetto:«No,vogliamodonAchille».«Di’ame».«Dobbiamoparlareconlui».Ladonnagridò:

  • «Achì».Altro ciabattare. Comparve dalla

    penombra una figura tarchiata.Aveva il busto lungo, le gambecorte,lebracciachescendevanofinoalleginocchiaelasigarettainbocca,si vedeva la brace. Chiese roco:«Chiè?».«La figlia dello scarparo insieme

    allafigliagrandediGreco».DonAchillevenneallalucee,per

    la prima volta, lo vedemmo bene.Niente minerali, niente scintillio divetri. Ilvisoeradicarne, lungo,e icapelli gli si arruffavano solo sulleorecchie, al centro della testa eratutto lucido. Aveva occhi lucenti,

  • con il bianco venato di torrentellirossi, la bocca larga e sottile, ilmento grosso con una fossa alcentro. Mi sembrò brutto ma nonquantomieroimmaginata.«Beh?».«Lebambole»disseLila.«Chebambole?».«Lenostre».«Qua non ci servono le bambole

    vostre».«Ve le siete prese giù allo

    scantinato».DonAchillesigiròegridòverso

    l’internodell’appartamento:«Pinù, tu ti sei presa la bambola

    dellafigliadelloscarparo?».

  • «Iono».«Alfò,telaseipresatu?».Risate.Lila disse ferma, non so da dove

    levenivatuttoquelcoraggio:«Velesietepresevoi,viabbiamo

    visto».Cifuunmomentodisilenzio.«Voiio?»chiesedonAchille.«Sì,e leavetemessenellavostra

    borsanera».L’uomo, nell’udire quelle ultime

    parole,corrugòlafronteinfastidito.Nonpotevocredercicheeravamo

    lì, davanti a donAchille, e Lila gliparlasseaquelmodoeluilafissasseperplesso, e nel fondo si

  • intravedessero Alfonso e Stefano ePinuccia e donna Maria cheapparecchiava la tavolaper lacena.Non potevo crederci che era unapersona comune, un po’ basso, unpo’calvo,unpo’sproporzionato,macomune.Perciòaspettavochedaunmomentoall’altrositrasformasse.Don Achille ripeté, come per

    capirebeneilsensodelleparole:«Io mi sono preso le vostre

    bambole e le ho messe nella borsanera?».Sentii che non era arrabbiatoma

    all’improvviso sofferente, come sestesse avendo la conferma di unacosachegiàsapeva.Dissequalcosa

  • in dialetto che non capii, Mariagridò:«Achì,èpronto».«Vengo».DonAchilleportòunmanogrossa

    e larga alla tasca di dietro deicalzoni. Noi ci stringemmo forte lamano,aspettandociche tirasse fuoriun coltello. Invece estrasse ilportafoglio, loaprì,guardòdentroeteseaLiladeisoldi,nonmiricordoquanto.«Compratevele, le bambole»

    disse.Lila arraffò i soldi e mi trascinò

    giù per la rampa. Lui borbottòaffacciandosiallaringhiera:

  • «E ricordatevi che ve le horegalateio».Dissi in italiano, attenta a non

    cadere per le scale: «Buonasera ebuonappetito».

  • 15.

    Gigliola Spagnuolo e io, subitodopo Pasqua, cominciammo adandare a casa della maestra perprepararci all’esamedi ammissione.La maestra abitava proprio di latoallaparrocchiadellaSacraFamiglia,le sue finestre affacciavano suigiardinetti e di lì si vedevano, oltrela campagna fitta, i tralicci dellaferrovia. Gigliola passava sotto lemie finestre e mi chiamava. Io erogià pronta, uscivo di corsa. Mi

  • piacevanoquellelezioniprivate,duea settimana,mi pare. Lamaestra, afine lezione, ci offriva dolcettisecchi a forma di cuore e unagassosa.Lilanonvennemai,isuoigenitori

    non avevano accettato di pagare lamaestra. Ma lei, visto che ormaieravamo molto amiche, continuò adirmi che avrebbe fatto l’esame esarebbevenutainprimamedianellamiastessaclasse.«Eilibri?».«Meliprestitu».Intanto però, coi soldi di don

    Achille, comprò un romanzo:Piccole donne. Si decise a farlo

  • perché lo conosceva già e le erapiaciutomoltissimo.LaOliviero, inquarta, aveva dato a noi più bravelibri da leggere. A lei era toccatoPiccoledonnecon laseguente frasediaccompagnamento:«Questoèperlegrandimapertevabene»,eameil libroCuore, senza nemmeno unaparola che mi spiegasse di cosa sitrattava.Lila si era letta siaPiccoledonne che Cuore, in pochissimotempo, e diceva che non c’eraconfronto, secondo lei Piccoledonne era bellissimo. Io non eroriuscita a leggerlo, a stento avevofinitoCuore entro i termini stabilitidallamaestraperlarestituzione.Ero

  • una lettrice lenta, tuttora sono così.Lila, quando aveva dovuto ridare illibro alla Oliviero, si erarammaricata sia di non poterrileggeredicontinuoPiccoledonne,sia di non poterne parlare con me.Perciò una mattina si decise. Michiamò dalla strada, andammo aglistagni, nel posto dove avevamoseppellito dentro una scatoletta dimetallo i soldi di don Achille,prendemmo il denaro e andammo achiedere a Iolanda la cartolaia, cheesponeva in vetrina chissà daquando una copia diPiccole donneingiallita dal sole, se bastava.Bastava. Appena diventammo

  • proprietarie del libro cominciammoavederci incortileper leggerlooamente, l’una vicina all’altra, o adaltavoce.Celoleggemmopermesi,così tante volte che il libro diventòsudicio, sbrindellato, perse il dorso,cominciò a cacciare fili, asgangherare i quinterni. Ma era ilnostro libro, lo