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pace solidarietà ambiente convivenza pollicino Reggio Emilia, n° 233 Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 – CN/RE – iscrizione al ROC n. 24782 del 13/08/2014 Ma la guerra No! Antimilitarismi alla vigilia della Grande Guerra inoltre » 13 gennaio 1914, Daniele Barbieri Uno zoo per umani, Barbara Spinelli ...e altro ancora! 2013 feb gen

233 - pollicino gnus · 2013 feb gen. 1 Sulle orme di Mario e Fermo 3 1914-18 5 Stringersi le mani da sorelle ... il 24 maggio. Molta di quella gioventù diventerà carne da macello

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Ma la guerra No!Antimilitarismi alla vigilia della Grande Guerra

inoltre » 13 gennaio 1914, Daniele Barbieri — Uno zoo per umani, Barbara Spinelli ...e altro ancora!

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1 Sulle orme di Mario e Fermo

3 1914-18

5 Stringersi le mani da sorelle

12 E l’Internazionale sarà...

25 Diserzioni mentali e antimilitarismi corporei

34 Ora e sempre No TAV

36 13 gennaio 1914 - Daniele Barbieri

38 Uno zoo per umani - Barbara Spinelli

42 Sproloqui - Romano Giuffrida

44 Pollicino No-Expo

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Nel febb\raio del 1915 quella che sarà ricordata come la “grande guerra” era già dilagata, in pochi mesi, in gran parte d’Europa. L’Italia era attraversata da un diffuso sentimento popolare pacifista e neutralista, che cercava di essere forzato dai fautori dell’interventismo, presenti – seppur minoritari – nel governo e nelle piazze. La “meglio gioventù” italiana si opponeva all’ingresso del nostro Paese nella “inutile strage” con manifestazioni e scioperi da Sud a Nord, culminate nello sciopero generale contro la guerra del 17 maggio, pochi giorni prima che il governo ne decidesse invece la partecipazione, il 24 maggio. Molta di quella gioventù diventerà carne da macello nelle trincee – come ha magistralmente raccontato anche Ermanno Olmi nel suo struggente e terribile film “Torneranno i prati” – uccisi dal fuoco “nemico” o dal fuoco “amico”, fatti passare per le armi dagli ufficiali italiani che si trovarono a fronteggiare quasi un milione di renitenze alla guerra.

Ma la mattanza della “meglio gioventù” italiana cominciò alcuni mesi prima, precisamente la sera del 25 febbraio a Reggio Emilia, quando i due giovanissimi operai Mario Baricchi e Fermo Angioletti furono uccisi dai carabinieri mentre partecipavano alla manifestazione pacifica contro il comizio interventista di Cesare Battisti, per urlare il loro No alla guerra. Di fronte al teatro Ariosto, nella piazza oggi beffardamente chiamata “della Vittoria”, dove una imponente statua di fascistica memoria ne ricorda beffardamente i “caduti”, mentre Mario e Fermo – che quei caduti volevano risparmiare e per questo caddero a loro volta – sono stati dimenticati per quasi un secolo.

Dal 2011 la Scuola di Pace di Reggio Emilia, insieme al fondamentale lavoro di ricerca storica dell’Istoreco e del Centro di Documentazione Storica di Villa Cougnet ed alla preziosa collaborazione culturale dell’ANPI e di Pollicino gnus, ha lentamente ma tenacemente recuperato la memoria di quelle tragiche vicende che possono essere considerate il punto di partenza novecentesco dell’impegno pacifista della Città. Lo ha fatto attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro che ha dedicato tre Seminari alla ricostruzione dei fatti ed alla loro lettura nel contesto geostorico e grazie al coinvolgimento di giovani storici e studiosi che hanno collaborato, con passione e gratuità, a questo importante progetto culturale di valore politico e formativo per l’oggi.

Un secolo dopo

Sulle orme di Mario e Fermoè una rivista associata all’Uspi

Direttore responsabileDaniele Barbieri

In RedazioneAnnalisa Govi, Leonardo Zen, Lollo Beltrami, Lorenzo Bassi, Marco Iori, Maria Monteleone, Mariangela Belloni, Matthias Durchfeld, Nicola Guarino, Renato Moschetti, Roberta Tondelli, Roberto Galantini, Silvia Iori, Tarsicio Matheus Rocha

ProprietarioAssociazione Pollicino Gnus

Redazionevia Vittorangeli 7/d42122 Reggio Emiliatel./fax: 0522 [email protected]

www.pollicinognus.it

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Grazie a questo lavoro preparatorio, quest’anno, esattamente un secolo dopo – e con la fondamentale collaborazione dell’Amministrazione comunale – Mario e Fermo saranno ricordati in Sala del Tricolore, come segno del riconoscimento della Comunità reggiana per il loro sacrificio, con un Convegno al quale sono invitati gli studenti delle Scuole secondarie della Città, per una riflessione collettiva nel Centenario della “grande guerra”. E sarà inaugurata una targa nei pressi dell’ingresso del teatro Ariosto, che contiene simbolicamente incise le loro orme, opera dello scultore Luca Prandini. Quelle orme – volte verso l’imponente statua guerriera – hanno per tutti un significato non solo di memoria storica ma di necessario impegno quotidiano per la costruzione delle alternative alla guerra.

Non a caso, così come il primo seminario del 2012 ha coinciso con la Giornata di mobilitazione nazionale della Campagna Taglia le ali alle armi, le iniziative per il Centenario si intrecciano con la Campagna per la difesa civile, non armata e nonviolenta Un’altra difesa è possibile. Ossia con la raccolta firme per la legge di iniziativa popolare per costituire anche in Italia un modello di difesa alternativo a quello fondato sulle armi e la guerra, ripudiata dalla Costituzione repubblicana. A cento anni dalla prima guerra mondiale e a settanta dalla fine della seconda, è tempo che il Paese ripudi davvero la guerra, con il disarmo e la costruzione di mezzi e strumenti alternativi e pacifici di intervento nei conflitti: un salto di civiltà che non prevede il sacrificio di giovani vite – “amiche” o “nemiche” – sacrificate sull’altare della guerra e della produzione di armamenti. Un salto di civiltà sulle orme di Mario e Fermo.

Quelle che seguono sono alcune delle relazioni presentate al Seminario storico dello scorso anno – terza edizione del ciclo “Ma la guerra NO!” di recupero della vicenda di Mario e Fermo e di ricostruzione del contesto in cui è maturata - svoltosi sabato 22 febbraio 2014, sul tema “gli antimiltarismi reggiani alla vigilia della grande guerra”.

Pasquale Pugliese Scuola di Pace di Reggio Emilia

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Gli episodi di contrasto alla guerra affrontati negli ultimi incontri del seminario storico permanente si collocano tutti in un periodo – il cinquantennio che separa l’Unità d’Italia dall’inizio della prima guerra mondiale – attraversato da conflitti brevi, circoscritti, lontani dal suolo europeo. L’idea che i pacifisti reggiani del XIX secolo avevano della guerra, di conseguenza, non era fondata su alcuna esperienza diretta; la stessa protesta di Mario Baricchi e Fermo Angioletti era indirizzata a un conflitto, la Grande Guerra, che non si era ancora estesa al territorio italiano.Tale contesto mutò radicalmente negli anni successivi; la guerra, che fino ad allora era stata soltanto uno spettro, si manifestò con un’intensità e un’estensione tali da superare ampiamente le aspettative tragiche di chi, nei decenni precedenti, l’aveva rifiutata in nome di riflessioni astratte o timore istintivo. Per quattro lunghi anni, la guerra irruppe e sconvolse la vita dei popoli europei, mobilitando milioni di uomini e stravolgendo assetti politici, economici e sociali consolidati.

Nessun conflitto del passato era stato così terribile; è sufficiente limitarsi al conteggio del numero dei morti al termine delle ostilità – circa 10 milioni solo tra i militari, 17 se si aggiungono le vittime civili – per comprendere tutta l’eccezionalità che la Grande Guerra rappresentò agli occhi dei contemporanei; l’ultima grande stagione bellica raffrontabile per

estensione, cioè le guerre napoleoniche, aveva lasciato sul campo una cifra significativamente inferiore, compresa tra i due e i tre milioni di morti, ma in un tempo molto più lungo, circa 12 anni.Gli stessi fautori della guerra, convinti della possibilità di una risoluzione rapida, non immaginavano, prima dell’inizio del conflitto, le tragiche conseguenze di ciò che avevano scatenato; sfuggivano loro, in particolare, gli effetti sul piano militare del progresso tecnico-scientifico compiuto nel secolo precedente in Europa. Tutte le scoperte tecnologiche della seconda rivoluzione industriale, impiegate fino ad allora a fini di produzione, vennero infatti per la prima volta assunte e dispiegate fino in fondo in un’opera di distruzione.L’incapacità diffusa a prefigurarsi correttamente quale forma avrebbe assunto la guerra nel XX secolo non deve stupire. Come indicato dal filosofo Günther Anders, il progresso tecnico della civiltà contemporanea è infatti troppo rapido perché l’uomo possa immaginare gli effetti dei suoi prodotti. Questa sincronizzazione mancata tra ciò che l’uomo contemporaneo sa costruire e ciò che è in grado di immaginare, definita da Anders dislivello prometeico, ha trovato proprio nella prima guerra mondiale una prima tragica conferma.

L’inedita combinazione tra il principio di efficienza del mondo industriale, da un lato, e quello di distruzione del mondo militare, dall’altro, non generò solo una crescita del potenziale distruttivo dei nuovi armamenti, ma anche una profonda ristrutturazione delle modalità di conduzione della guerra, rendendola particolarmente intollerabile, sia per i soldati sia per la popolazione civile. Al fronte, la potenza di fuoco, di cui erano diventati capaci gli eserciti, costringeva i soldati a evitare lo scontro in campo aperto. Cento anni prima, i moschetti delle guerre napoleoniche avevano una portata di cento metri e necessitavano di almeno mezzo minuto per essere ricaricate; le battaglie erano ancora risolte da rapide offensive. A inizio Novecento gli eserciti disponevano invece, oltre all’artiglieria pesante, di fucili e mitragliatori a ripetizione in grado di far centro a un paio di kilometri; di conseguenza, per difendersi dal fuoco nemico, i soldati

1914-18Quando la realtà (della guerra) supera l’immaginazionedi Marco Marzi, collaboratore Istoreco

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erano costretti a rifugiarsi nelle trincee, intrappolati in un universo claustrofobico, buio e sporco, in condizioni di vita disumane e altamente destabilizzanti.

Il fante di trincea era condannato, in primo luogo, a vivere un costante disagio sensoriale, costretto a muoversi nel buio della notte, assordato dai bombardamenti e disgustato dal tanfo della decomposizione dei commilitoni uccisi. In secondo luogo, le pulsioni aggressive – a cui i soldati erano stati addestrati e che si sviluppano naturalmente in una condizione di costante pericolo di vita – erano costantemente frustrate dall’impossibilità di attaccare frontalmente il nemico. Le reazioni a questa situazione logorante furono in alcuni casi fughe, diserzioni, ammutinamenti, ma nella maggior parte dei casi presero la forma della nevrosi, della più totale passività o della follia.

L’irrompere della tecnica moderna non comportò trasformazioni profonde solo sui campi di battaglia, ma rivoluzionò tutto ciò che ruotava intorno alla guerra, determinando un peggioramento delle condizioni di vita anche della popolazione civile: esaltò il ruolo dello Stato, come agente di mobilitazione di forze, sentimenti e immagini; riorientò l’economia alla produzione di armamenti ed estese le nuove forme di organizzazione del lavoro di fabbrica a categorie sociali che fino ad allora ne erano rimaste ai margini, come le donne e i contadini.Il trauma dell’incontro diretto con la violenza bellica modificò inevitabilmente anche le forme del rifiuto, introducendo modalità nuove rispetto al passato, istintive e irrazionali: nevrosi, autolesionismi, fughe, diserzioni e ammutinamenti; non più solo proteste di natura ideologica, ma anche reazioni disperate di chi nella guerra ha percepito una seria minaccia per la propria esistenza.

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Prima di affrontare il tema di questo intervento desidero ringraziare innanzitutto Francesca Campani per la sua collaborazione nella ricerca delle fonti e per la bella comunicazione nel precedente Seminario, che costituisce una premessa necessaria anche per il mio intervento di oggi. Per venire al merito. È ormai un dato acquisito dalla ricerca storica che la prima guerra mondiale ha modificato profondamente la vita delle donne nella quotidianità, ha cambiato radicalmente la loro collocazione sociale e il loro ruolo nella società e anche la rappresentazione e la coscienza di sé delle donne stesse.

Con il prolungarsi dei tempi della guerra, l’acutizzarsi del conflitto e la distruttività delle nuove armi, che producevano enormi perdite di vite umane, feriti e disabili permanenti, sofferenze inenarrabili alle popolazioni civili e alimentavano continuamente il bisogno di nuove forze al fronte, le donne sono state chiamate a sostituire in misura sempre maggiore gli uomini nella produzione, nelle fabbriche, nel lavoro dei campi, nelle diverse attività di servizio, ad esempio nei trasporti delle grandi città.

Devono imparare alla svelta i nuovi lavori, sommare i nuovi compiti alle tradizionali funzioni di cura e familiari, restano le uniche a provvedere al sostentamento delle famiglie, si devono assumere nuove pesanti responsabilità, di fatto diventano capofamiglia. I governi hanno assolutamente bisogno di loro. Le Circolari ministeriali nel 1916 prescrivono la presenza del 50% di donne, per poi raggiungere

Stringersi le mani da sorelle Le donne e la grande guerra, tra trasformazioni sociali e opposizione al conflitto

di Eletta Bertani, dell’Anpi di Reggio Emilia

l’80%, nella industria bellica leggera in sostituzione degli uomini che sono al fronte. Alla fine del 1915 le donne impiegate nell’industria bellica italiana ammontavano a 23.000, nell’ottobre del 1918 erano già 200.000.

Anche nella provincia di Reggio Emilia si assiste al fenomeno della femminilizzazione della produzione di guerra. Così descrive la situazione Giannetto Magnanini nella sua biografia su Egle Gualdi, tra le prime antifasciste e fondatrici del PDCI: “Su delega del prefetto il segretario della Camera del lavoro Arturo Bellelli, istituì un laboratorio per confezionare indumenti militari (il magazzeno era nell’attuale Piazza Scapinelli). Le donne con ogni mezzo di trasporto, sotto il controllo di un maresciallo dell’esercito ritiravano i pacchi di stoffa da lavorare a domicilio. Oltre 2000 donne del capoluogo e dei comuni limitrofi lavoravano percependo paghe inferiori rispetto ad altre ditte”. Egle Gualdi è ancora giovanissima e aiuta la madre a confezionare giubbe militari; nelle fodere delle maniche le donne scrivevano a matita auguri di pace per i militari al fronte. Il problema dell’ingresso delle donne si pone anche alle Reggiane, dove si passa da 2000 dipendenti alla vigilia del conflitto a 5000 alla fine. L’entrata delle donne, ricorda ancora Magnanini, “fu osteggiata dal giudizio sprezzante dei benpensanti” e provocò una resistenza generalizzata. Gli operai specializzati temevano la loro concorrenza per “gelosia del mestiere” e ci furono fenomeni di chiusura ad insegnare il lavoro alle donne. Resistenza vi fu anche tra gli imprenditori perché nelle aziende controllate dalle autorità militari era possibile tenere a freno gli operai maschi con la minaccia di spedirli al fronte, ricatto che non poteva valere per le donne ed i minori.

L’ingresso nella produzione delle donne avviene comunque in condizioni durissime di sfruttamento. Il loro lavoro è sottopagato, i carichi ed i ritmi sono pesantissimi, lavorano in ambienti malsani. In aggiunta, per la mentalità dell’epoca, il clima sociale attorno alle donne che lavorano fuori casa è di diffidenza ed ostilità, di pesante sanzione morale, anche nei confronti delle vedove bianche.

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Se è dunque certamente vero che, sostituendo gli uomini in guerra nelle loro attività da civili, le donne hanno dovuto assumersi responsabilità acquisendo così nuove competenze e una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità e del loro ruolo sociale, in realtà la grande guerra non ha certo “liberato” le donne, non ha accelerato la loro emancipazione, come alcune tesi, anche all’interno del movimento suffragista e femminista hanno sostenuto, non ha cambiato nella sostanza e in modo durevole i ruoli sessuali, la collocazione sociale e la rappresentazione simbolica del ruolo delle donne, anzi: la guerra ha bloccato il processo di conquista dei diritti politici, ha accentuato fatica e sofferenza e imposto loro prezzi pesantissimi. La loro entrata nel lavoro produttivo è stata considerata dalle classi dominanti e nella mentalità popolare, un fenomeno “transitorio ed eccezionale”, una sostituzione “temporanea “degli uomini. Alla fine della guerra tutto sarebbe tornato come prima, gli uomini al lavoro, le donne a casa, nella loro collocazione naturale. Così è accaduto in realtà nel dopoguerra, producendo uno scontro durissimo tra le donne che difendevano il loro lavoro e la loro nuova collocazione sociale con i reduci dal fronte che volevano riprendere i loro posti nella produzione e anche il controllo sulle donne.

In sostanza le donne, oltre a pagare al conflitto un prezzo pesantissimo di fatiche e di sofferenze, hanno anche pagato la brusca interruzione del percorso che aveva portato prima del conflitto il movimento di emancipazione e suffragista, dopo durissime battaglie, a porre all’ordine del giorno il tema del diritto al voto delle donne. Dopo la guerra l’avvento del regime fascista ha chiuso definitivamente la partita e si dovrà arrivare alla fine della seconda guerra mondiale, al 1946, perché le donne conquistino il diritto di voto.

Ma come hanno reagito le donne all’annuncio del conflitto planetario e alle conseguenze di quella immane carneficina? Non si manifesta una univoca reazione di opposizione al conflitto delle donne come tali, in ragione cioè della “differenza” di genere e della naturale avversione

femminile alla violenza. Una parte delle donne, in particolare quelle appartenenti alla borghesia e alle classi agiate, interiorizza o subisce il messaggio strumentale che affida loro una missione superiore per la difesa e l’onore della patria. Un esempio limite: una delle più note futuriste, Valentina De Saint Point arriva addirittura a questa delirante affermazione: “….Non bisogna dare alle donne nessuno dei diritti reclamati dal femminismo. La donna deve stimolare gli uomini alla guerra, alla lotta violenta, al gusto sadico della crudeltà, per farsi stuprare dai vincitori e procreare così degli eroi!...”

Per parte loro i movimenti femministi e suffragisti in Europa si dividono: una parte prende atto del contesto che spinge inevitabilmente alla guerra, fa appello alle donne perché si assumano le loro responsabilità nella difesa della patria e nel sostegno ai combattenti e si mette a disposizione dei governi. Un’altra parte, invece (è ciò è doppiamente significativo e da sottolineare nel clima irrazionale e di isteria collettiva alimentato dalla propaganda nazionalistica) assume una posizione di netta opposizione alla guerra. Si sviluppa proprio allora un “femminismo pacifista” che si mobilita a livello internazionale ed europeo contro la guerra costituendo un vero e proprio movimento. Già nel 1914, alla vigilia della guerra, l’International Women’s Suffrage Alliance esce con un manifesto – appello che verrà consegnato alle diverse ambasciate e che si rivolge ai governi coinvolti invitandoli a compiere ogni sforzo per evitare il conflitto.

Il 28 aprile 1915 all’Aia in Olanda si tiene il Congresso internazionale delle donne (sono 1187 delegate provenienti da 12 paesi belligeranti). Per l’Italia è presente una sola donna, militante socialista, sartina e stilista affermata e poi tra le prime creatrici di moda femminile: Rosa Genoni. Il Congresso segna l’atto di nascita del femminismo pacifista. Il suo significato è riassunto dalla parole di una donna tedesca, Anita Ausburg: “Stringersi le mani da sorelle, al di là della guerra delle nazioni”. Presidente viene nominata la statunitense Jane Adams, una donna di eccezionale personalità, pacifista, emancipazionista, riformatrice sociale, fondatrice

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Abignani Momigliano, convinta pacifista e creatrice di diversi circoli di donne socialiste ed altre ancora.Scioperi e forti manifestazioni contro la guerra che coinvolgono in particolare le donne operaie si tengono in varie città italiane, in particolare a Torino e ad Ancona.Anche nella nostra provincia emerge il ruolo di alcune figure e nascono proteste. Un esempio: Adalgisa Fochi, la madre di Camillo Berneri, insegnante e scrittrice, impegnata da sempre sui temi dell’educazione, dell’infanzia, della salute delle donne e dei bambini, esponente del PSI e promotrice di un Circolo femminile, tiene comizi contro la guerra in varie località, come quello divenuto famoso tenuto a Prato di Correggio il 13 dicembre 1914. C’è notizia che una maestra a Campegine fece addirittura sfilare per le vie del paese, contro la guerra, i bambini della sua scuola, ma non abbiamo riscontri documentali.

Egle Gualdi prima della partenza del fratello per il fronte, scopre nel suo zaino volantini contro la guerra. E’ molto giovane e inizialmente cerca di dissuaderlo per i rischi che corre, ma dopo un lungo colloquio notturno con lui, matura la consapevolezza di doversi opporre alla guerra e da allora, per tutta la sua vita, si batterà per la pace ed i diritti dei lavoratori. Si sviluppa anche una forte reazione dal basso. Rio Saliceto (lo segnala Alfredo Gianolio nella sua storia del paese) è uno dei comuni dove la protesta fu più forte e sfocia il 18 maggio del 1915 in uno sciopero generale contro “l’infamia di una guerra ingiusta”, indetto dal Comitato delle associazioni operaie che, alla fine del manifesto di convocazione, si rivolgono in modo particolare alle donne in quanto madri, mogli, sorelle. Manifestano più di duemila cittadini di ogni età e sesso e “La Giustizia” riferisce che la “nota caratteristica fu data dalle donne operaie e contadine che abbandonarono in massa le loro case…”.

Nel 1916 la protesta delle donne si fa di nuovo sentire, malgrado i divieti. Il prefetto telegrafa al sindaco di Rio Saliceto per chiedere informazioni

della Chicago Hall, uno dei più importanti centri di accoglienza degli immigrati. La piattaforma politica del Congresso è chiara e lungimirante: Azione per la soluzione pacifica delle controversie internazionali, ricerca di ciò che accomuna i popoli dei differenti paesi, uguali diritti politici tra uomini e donne, impegno a convocare un altro congresso alla fine della guerra per fare sentire la voce delle donne rispetto alle condizioni della pace.

Ancora nel 1918, al termine del conflitto, le donne dell’International Women’s Suffrage Alliance fanno sentire la loro voce in un editoriale del periodico dell’associazione. Vale la pena citare una frase molto significativa: “…Ci è stato detto che gli affari esteri non riguardano le donne, ma in effetti erano trattati non solo come se non appartenessero alle donne, ma come se non appartenessero generalmente agli uomini e fossero affare solo delle corti e delle diplomazie. Tutto questo sta radicalmente cambiando: la democrazia, la massa delle genti, ha sofferto ed è morta obbedendo ai governi che hanno costruito politiche che hanno prodotto la più devastante guerra della storia, ma avendo pagato questo prezzo, la democrazia ora richiede il controllo dei propri destini”.Antimilitarismo e pacifismo sono una netta scelta di campo anche delle donne socialiste sin dalla vigilia del conflitto. Sull’Avanti il 7 aprile 1915 esce un Appello contro la guerra del Comitato Internazionale delle donne socialiste.“… Proletarie, lavoratrici, gli uomini dei paesi belligeranti sono stati ridotti al silenzio. La guerra ha sconvolto le loro coscienze, ha paralizzato la loro volontà. Ma voi donne che cosa aspettate per manifestare la vostra volontà, per protestare contro la guerra, per esigere che la pace sia conclusa? Che cosa ancora vi trattiene?...”

Un ruolo importante nella sensibilizzazione delle donne assume il giornale “La difesa delle lavoratrici”. Alcune donne socialiste sono in prima fila in questa lotta contro l’immane disastro: Anna Kuliscioff, Rosa Luxembourg, Clara Zetkin, Angelica Balabanoff, e in Italia Argentina Altobelli, Maria Goia, Maria Giudice, direttrice de “Il grido del popolo”, la lombarda Tilde

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Goia. Il Convegno non rinuncia però ad una presa di posizione sulla guerra e si chiude con un ordine del giorno sintetico ma chiaro: “Il convegno Nazionale delle donne socialiste delibera di intensificare la propaganda Pro Pace, pronto agli ordini della Direzione del partito per qualsiasi azione “.

Ma mentre nel PSI per il prolungarsi del conflitto e per le sue terribili conseguenze si accentuano le divisioni interne tra riformisti e massimalisti sulle posizioni da tenere e si rivela la oggettiva debolezza politica del Partito a fronte dell’enormità della tragedia, per tutto il 1917 si riaccende il movimento di opposizione ed esplode una reazione molto più radicale, una forte e diffusa ribellione alla guerra che vede protagoniste soprattutto le donne degli strati popolari. Le più intransigenti sono le donne che lavorano nelle campagne, le contadine. A muoverle sono soprattutto la fame, la miseria, le fatiche, le sofferenze, la solitudine, insomma le concrete e devastanti conseguenze della guerra sulla loro vita e su quella delle loro famiglie. È una esplosione di ribellione spontanea che si manifesta proprio nelle tradizionali roccaforti del socialismo riformista.

Traggo dal saggio di Mara Pellegrino “Tra le numerose province settentrionali che registrano dimostrazioni di protesta inscenate soprattutto da masse femminili, Reggio Emilia detiene il primato: il 20 dicembre 1916 “150 donne di Cavriago inscenano una manifestazione al grido di “Abbasso la guerra”, ” Vogliamo i mariti”. Nella stessa giornata esse si recano allo scalo ferroviario per impedire la partenza a Reggio delle operaie adibite alla fabbrica di proiettili”; nel gennaio 1917 50 donne di Villarotta di Luzzara si portano al locale pennellificio spingendo le operaie a scioperare; il primo gennaio a Lentigione di Brescello 100 donne rifiutano di ritirare il sussidio governativo per protesta….; 250 donne di Cadelbosco inscenano una dimostrazione rifiutando i sussidi al grido: “Vogliamo i nostri uomini”. A Reggiolo 50 donne protestano rifiutando il sussidio.” Questa è la cronaca scarna delle comunicazioni prefettizie, da cui emerge il quadro di un malcontento accumulato nel tempo che esplode in forme elementari e spontanee, ma sul cui significato è importante riflettere. Quella delle donne è una

su alcune mogli di richiamati al fronte che avrebbero intenzione di tenere un corteo e raccomanda il Sindaco di avvertirle delle conseguenze, anche l’arresto. Dopo pochi giorni, il 28 dicembre 1916 un gruppo di donne si rivolge al Sindaco per segnalare l’assoluta insufficienza del sussidio governativo e l’anno successivo, altre si rivolgono ancora al Sindaco per denunciare l’impossibilità a completare i lavori nei campi, per protestare contro il caroviveri e per chiedere la pace.Mara Pellegrino nel suo saggio su: “Il socialismo reggiano dal 1914 al 1918 (pubblicato anche su “Ricerche storiche) segnala però un cambiamento del clima subentrato nei mesi successivi: “Nel 1915 dopo i sussulti dei primi mesi, si manifesta una sorta di cupa rassegnazione, punteggiata da episodi di protesta incontrollata, ad esempio delle donne che si sdraiano sui binari per impedire la partenza dei convogli militari e dei richiamati che partono urlando “abbasso la guerra”.

La guerra è ormai in corso. Il gruppo dirigente riformista del PSI reggiano prende atto della realtà e decide di “non aderire e non sabotare”, concentrando gli sforzi nel tentativo di alleviare le sofferenze sempre più pesanti della popolazione. Attua in sostanza una sorta di “Croce Rossa civile”. La Camera del lavoro istituisce l’Ente autonomo dei consumi, che funge da calmiere dei prezzi e di sostegno alla popolazione civile anche in raccordo e collaborazione con il governo. Le donne del PSI, tuttavia, pur concentrandosi sulle conseguenze della immissione delle donne nella produzione bellica e quindi nella tutela del lavoro delle donne, nella rivendicazione della parità salariale, continuano ad opporsi alla guerra con chiare prese di posizione.Il 7 aprile 1917 si tiene a Reggio Emilia un importante Convegno Nazionale delle Donne socialiste che affronta soprattutto i temi legati al salario e alle condizioni di lavoro delle donne e mette a punto la battaglia per la parità salariale. Sono presenti molti dirigenti nazionali maschi che sul tema in discussione intervengono per puntualizzare e rispondere. Presiede il Convegno la nota pacifista Tilde Abignani in Momigliano. Relatrice è Maria

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La questione della “differenza” di genere è ricondotta dal PSI ad una pura questione di classe. Il PSI riformista la risolve in senso umanitario, nell’assistenza e nel sostegno materiale e nell’obiettivo della parità. La sinistra del PSI è su una posizione di più netta e radicale opposizione alla guerra, ma sostanzialmente si limita ad agitare parole d’ordine che si rivelano nei fatti inefficaci.Prende così piede il mito e l’illusione della Rivoluzione d’Ottobre, vista come palingenesi salvifica, perché non ci sono in Italia risposte politiche adeguate in grado di portare alla vittoria il movimento pacifista, che pure c’è stato, diffuso e forte.

La battaglia per fermare la guerra viene così perduta. Tuttavia l’esperienza drammatica che le donne vivono durante il conflitto cementa e rafforza un’avversione profonda alla guerra delle donne negli strati più popolari, che si tradurrà nel permanere di forti sentimenti antifascisti e antibellicisti durante il regime e sfocerà nella partecipazione di massa delle donne alla Resistenza durante la seconda guerra mondiale, originata, oltre che dall’ansia di libertà, innanzitutto e non a caso, dalla domanda del “pane e della pace”.Ma anche nel movimento femminista e in particolare nella Women’s International league” si svilupperà nel Congresso di Zurigo nel 1919 una riflessione culturalmente e politicamente più matura che andrà oltre quelle precedenti e proporrà con chiarezza nel documento finale il nesso tra donne, rifiuto della guerra, democrazia, governo dei propri destini e necessità di azioni concrete di difesa e costruzione della pace. Ma questa è materia del prossimo Seminario.

C’è dunque un filo rosso ininterrotto, una corrente sotterranea, che lega una grande parte delle donne dalla prima alla seconda guerra mondiale, passando attraverso il ventennio del fascismo, fino alla partecipazione diffusa alla Resistenza, e che le unisce in un sentimento comune e primario: “Mai più la guerra”, nella consapevolezza del ruolo primario e propulsivo che le donne hanno esercitato e possono e devono esercitare anche oggi in un nuovo movimento pacifista.

opposizione radicale e assume un significato politico, in nome del diritto alla vita, agli affetti, alla pace come bene supremo.

La reazione alla guerra trova una eco, con un ampio dibattito, anche nel giornale cattolico “l’Azione Cattolica”. Segnalo il forte e coraggioso intervento di una maestra, Teresa Righi, componente dell’Associazione maestri cattolici “Nicolò Tommaseo”, che nella pagina femminile afferma: “….. Guerra! Guerra! Chi lancia questo grido? Sono forse tutti i giovani che devono mettere a repentaglio la loro esistenza? Quasi tutti imprecano alla guerra, non ne comprendono la causa! Con che cuore ritornerebbero ai vecchi genitori che li attendono, alla sposa che li piange, alla fidanzata che li sospira? Ma chi lancia dunque questo grido, chi lo ripete? Sono coloro che, accecati da non so quale terrena felicità, da non so quale aureola di gloria, da non so quale miraggio di benessere sociale, non hanno tremato e non tremano a far spargere il sangue di fratelli! Sono coloro che faranno spargere sangue giovanile sino all’ultima stilla, pur di vedere appagato il loro volere! Ma… e la pace, la fratellanza, l’uguaglianza? Ma…e la scienza, il progresso, e la patria? Erano solamente dunque solamente belle parole? Sì purtroppo. Sotto ad esse covava un odio satanico!”

La ribellione alla guerra strettamente connessa alle condizioni sociali delle donne lavoratrici è anche una delle ragioni che determina l’eco e la popolarità immediata della Rivoluzione d’Ottobre e che spingerà non poche donne nel 1921 all’adesione al PCDI, diventandone anche fondatrici e promotrici (ad es. Egle Gualdi, Idea del Monte ed altre).Per concludere: l’intera vicenda del rapporto tra le donne e la prima guerra mondiale si può definire in qualche modo la storia di un mancato incontro tra le espressioni politiche del movimento operaio di quel tempo e il “pacifismo” delle donne. È innanzitutto un deficit culturale che rende difficile al movimento operaio di cogliere ed interpretare la spinta e la ribellione delle donne e dare ad essa uno sbocco politico, anche se non può essere negato il ruolo coerente di opposizione delle donne socialiste.

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Nel trattare l’antimilitarismo anarchico a Reggio Emilia negli anni 1914-1918 è necessario precisare che in merito mancano totalmente studi e analisi, se si escludono le biografie su singoli – e noti – militanti. Ci siamo così prefissi come primo obiettivo della ricerca di rintracciare tutte le informazioni possibili negli unici documenti disponibili: le carte di polizia. Altre fonti sono decisamente rare essendo passato un secolo, due guerre mondiali e repressioni varie.Il testo che segue dunque non vuole essere divulgativo quanto un primo, necessario, elenco di informazioni.

L’opposizione all’entrata dell’Italia nella Prima Guerra mondiale da parte nel movimento anarchico, e non, è strettamente collegata alle manifestazioni e alla cultura antimilitarista che si diffusero capillarmente in tutta la penisola fin dalle imprese coloniali di fine ‘800 e dei primi del ‘900, soprattutto in seguito alla guerra di Libia del 1911.Dopo i fatti di Sarajevo del giugno 1914 e la dimensione europea delle dichiarazioni di belligeranza che ne conseguirono, le ragioni alle base dell’antimilitarismo da un lato e dell’interventismo dall’altro si esasperarono e furono in molti a passare nelle file dei pro-Patria. Se le guerre coloniali infatti avevano toccato la sensibilità di quanti osteggiavano le imprese di conquista, opponendovisi, la nuova guerra, con il suo mito irredentista, annebbiò gli ideali internazionalisti e pacifisti di molti fra socialisti, sindacalisti rivoluzionari e cattolici.

Il movimento anarchico internazionale nel suo insieme – a parte un gruppo di “anarco-interventisti” – rimase coerente agli ideali antimilitaristi, anti-autoritari e contro la guerra dei signori, costituendo di fatto un’anomalia a livello mondiale.

In Italia, già nei mesi che precedettero l’attentato mortale all’arciduca Francesco Ferdinando e alla moglie Sofia, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914, si era riaccesa l’attività antimilitarista nei vari movimenti, ritenuta dai militanti in grado di far esplodere le tensioni che sobbollivano nella società. Le campagne contro le invasioni colonialiste, che avevano caratterizzato gli anni precedenti, infatti si erano raffreddate per le persecuzioni di cui furono vittime i loro portavoce. Le agitazioni e i comizi ripresero dunque con il ritorno in Italia, o in libertà, di alcuni esponenti di spicco dei movimenti rivoluzionari, del giornalismo militante e del sindacalismo come ad esempio Armando Borghi, dell’USI - Unione sindacale italiana, e Maria Ryger – a quel tempo ancora convinta antimilitarista –, vicina agli ambienti del sindacalismo rivoluzionario.

Nel 1913 l’attività riprese con forza dove si era arrestata: si rianimarono o crearono ex novo comitati in favore del soldato Augusto Masetti – in carcere per aver sparato ad un superiore mentre attendeva di partire per la Libia –, e del soldato Antonio Moroni, confinato nelle “compagnie di disciplina” in quanto anarchico.Temi e tensioni che si andavano sommando a quelli ‘tradizionali’ – sociali ed economici – vissuti dalle classi popolari. I primi di giugno 1914 infatti, da Ancona si propagò in tutto il paese il moto noto come Settimana Rossa, che si arrestò a causa dell’azione della CGdL, la quale ordinò a tutte le camere del lavoro italiane di interrompere lo sciopero.Seguì un’ondata repressiva che decapitò le fila dei movimenti e dei partiti rivoluzionari, i quali si ritrovarono così sguarnite degli oratori e scrittori più noti e carismatici proprio nei mesi che separarono Sarajevo dall’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale, periodo che vide i nazionalisti e gli interventisti innescare una violenta campagna pro conflitto in ogni ambito della vita italiana.

E l’Internazionale sarà... L’antimilitarismo anarchico a Reggio Emilia durante la prima guerra mondialedi Gemma Bigi, con la consulenza di Gianandrea Ferrari della Federazione Anarchica Reggiana

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In questi anni Reggio Emilia, che ricordiamo aveva un’amministrazione socialista, era attiva e presente in questi confronti, come dimostrano i tragici fatti accorsi il 25 febbraio 1915 in occasione del comizio di Cesare Battisti, conclusosi con la morte dei giovanissimi Mario Baricchi e Fermo Angioletti. Reggio Emilia tuttavia non era mai stata guerrafondaia, tutt’altro, come prova l’intenso passaggio degli antimilitaristi più attivi e noti a livello nazionale nelle piazze della città e della provincia come Maria Goia e gli stessi Borghi e Malatesta, anche se non sempre graditi.

Il 1 dicembre 1913 ad esempio fu vietato dal prefetto Ferrara un comizio pubblico pro Masetti che avrebbe dovuto tenere la Ryger nel paesino di Cadelbosco Sopra; prefetto che nel gennaio 1914 venne ripreso direttamente dal ministro Giovanni Giolitti per aver prima vietato e poi concesso un comizio di Errico Malatesta, Maria Ryger e Armando Borghi contro la detenzione in manicomio del soldato Masetti.1

Ferrara rispose: “Dal gruppo anarchico locale era stata presentata domanda per comizio pubblico nel teatro Ariosto sul tema ‘Pro Masetti e contro compagnia disciplina’. L’ho proibito. Ieri fu presentata altra domanda per comizio pubblico nel teatro, limitato tema: Ragioni per cui si ritiene indebita detenzione di Masetti nel manicomio Imola, e per firmare istanza chiedente cessazione ricovero. Avevo saputo con certezza che in caso rifiuto comizio pubblico sarebbe stato tenuto ad ogni costo in piazza, avendo anarchici ottenuta la solidarietà partito socialista che sarebbe intervenuto in massa. Sarebbero certamente avvenuti disordini. Seconda domanda escludendo possibilità apologia reato e dissertazioni contro istituti militari, ho creduto permettere comizio in teatro impartendo disposizioni perché oratori siano mantenuti strettamente limiti tema”2.Il prefetto infine comunicò che il comizio si era svolto senza problemi, che Malatesta aveva parlato di fronte a 1200 persone ma “interrotto con abilità e fermezza” dal commissario di pubblica sicurezza e risultandone, stando ai verbali, disorientato, avrebbe interrotto il discorso facendo di fatto fallire il comizio, essendo lui l’oratore principale.

Fra i promotori del comizio figura Torquato Gobbi, il tipografo anarchico3.

A Reggio Emilia la presenza anarchica era diffusa su tutto il territorio provinciale, con gruppi e circoli presenti a Cavriago, Montecchio Emilia, Rubiera, Bagnolo in Piano, Novellara, Campagnola, Luzzara, Gualtieri, Viano, Baiso, Castelnovo Monti e Villa Minozzo. Un circolo particolarmente numeroso era quello del quartiere di Santa Croce, che integrerà il Gruppo ‘Spartaco’ delle Officine Reggiane. Altro circolo attivo in città, nel centro storico, era il ‘Francisco Ferrer’.

La città emiliana, nonostante le piccole dimensioni, ha prodotto in quelli anni alcuni “sovversivi” di ispirazione anarchica di importanza nazionale, se non mondiale, i quali vennero seguiti con attenzione dalla polizia. Accanto ai militanti più noti siamo riusciti parzialmente a ricostruire la traccia di un tessuto libertario attivo e costante su tutto il territorio provinciale. Nomi e storie passati nel dimenticatoio, anche a causa di una politica di rimozione attuata dal fascismo.Tuttavia negli anni compresi fra le imprese coloniali e la Prima Guerra mondiale perdiamo di vista la militanza attiva di alcuni di essi, che avevamo rintracciato nei verbali di fine ‘800 e degli anni della guerra di Libia, ed osserviamo invece in altri una sorta di preparazione in vista di una più accesa attività, che si prospettava al termine della guerra, come in Torquato Gobbi e Camillo Berneri.

Poiché, con l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915, ci fu un rifluire dell’antimilitarismo e del pacifismo nei movimenti sovversivi, soprattutto a

1. Nota del prefetto Ferrara di Reggio Emilia, n. 352A, del 31 gennaio 1914. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1914.2. Nota del prefetto Ferrara di Reggio Emilia, n. 367A, del 1 febbraio 1914, in risposta al telegramma n. 1923 del Ministero dell’interno. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1914.3. Torquato Gobbi di Angelo, Cpc, b. 2472 f. 4595, Ministero dell’Interno, direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione Affari generali e riservati.

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causa della pesante repressione, sembra esservi un maggiore impegno in chi rimane attivo e vigile nel creare coscienza e relazioni, a discapito di azioni di piazza, premature poiché necessitano di solidità organizzativa e di aderenti. Sabotare la guerra, propagandare un atteggiamento ‘disfattista’, diffondere stampa e idee antimilitariste sia fra le fila dei soldati al fronte sia fra le famiglie – specie fra le donne –, promuovere la renitenza o la diserzione accanto ad un pensiero critico contro le istituzioni militari, è l’azione principale svolta dagli anarchici (e non solo) in questo periodo; azione che diede i suoi frutti se in tre anni si ebbero circa 100.000 processi nei tribunali militari contro renitenti alla leva, più 370.000 contro emigrati mai rientrati; 60.000 a carico di civili disfattisti; 340.000 contro militari accusati per lo più di diserzione o insubordinazione.Tale impegno degli anarchici inoltre, a livello organizzativo, era volto a creare la rete che avrebbe fatto insorgere il paese una volta finita la guerra (come avvenne in Germania con gli Spartachisti e di fatto in Italia con il Biennio Rosso).Il movimento anarchico aveva fondamentalmente due modalità d’azione per contrastare l’arruolamento e il pensiero guerrafondaio: disertare o accettare la leva allo scopo di fare propaganda antimilitarista dall’interno dell’esercito, modalità quest’ultima sposata soprattutto dai sindacalisti rivoluzionari.

Per quanto riguarda la presenza e l’attività anarchica a Reggio Emilia in questi anni ci si rifà soprattutto a memorie orali. Altra fonte particolarmente preziosa sono ovviamente gli schedari del Casellario politico centrale (Cpc) e i fascicoli di Pubblica sicurezza (Ps) di quel periodo.Colpisce, sfogliando i verbali e le relazioni che descrivono la vita e l’attività di anarchici seguiti in epoca liberale e poi fascista – come Berneri –, l’assoluta continuità nella modalità e nel linguaggio di schedatura, dove l’unico elemento di discontinuità è dato dal termine ‘antifascista’.

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Fin dai moti contro le guerre coloniali di fine ‘800, Reggio Emilia è stata osservata con attenzione, come ogni capoluogo italiano, in particolar modo in seguito alle note diffuse dal Partito Socialista ai suoi circoli e sezioni di incentivare la propaganda antimilitarista che allarmarono i garanti dell’ordine costituito. Nel 1913 si ebbe così una maggiore vigilanza sulla città richiesta al prefetto direttamente dal ministero, e un maggior controllo dei contatti presi dai soldati nelle ore di libera uscita4. L’immagine che ricaviamo dai verbali è di sovversivi appostati fuori dalle caserme per intercettare i militari di leva. Se non propriamente appostati vi era sicuramente una particolare attenzione all’umore dei militari di complemento, come dimostra la nota del prefetto del 1912: “mi pregio riferire a codesto on. Ministero che verso le ore 19 di detto giorno, una sessantina di militari del 15° artiglieria qui di stanza, a cui si unirono altri cinque o sei soldati del 66° fanteria, tutti richiamati della classe 1889, si radunarono sotto il Municipio in questa Piazza Vittorio Emanuele certamente allo scopo di mostrare il loro malcontento per ritardato congedamento.L’assembramento insolito richiamò l’attenzione di numeroso pubblico e tra gli accorsi furono notati alcuni anarchici e soci del circolo giovanile socialista, antimilitarista, che si posero a conversare coi soldati. Quasi immediatamente intervenne, chiamato, il capitano di artiglieria signor Squilloni con un sottufficiale, il quale invitò i militari ad allontanarsi, ciò che essi fecero senz’altro, sbandandosi a piccoli gruppi accompagnati da borghesi. Contemporaneamente si recarono sul luogo i dipendenti funzionari di P.S. con agenti, i quali avendo visto che attorno all’anarchico Gobbi Torquato e ad altri giovani socialisti si erano formati sulla piazza diversi capannelli con evidente pericolo di propaganda antimilitarista, invitarono i diversi gruppi a sciogliersi e circolare, il che avvenne senza incidenti.”5

Il movimento anarchico, o meglio, il ‘partito anarchico’ come viene erroneamente e spesso menzionato nei verbali di pubblica sicurezza, veniva considerato dal prefetto di Reggio Emilia la mina vagante di eventuali situazioni a potenziale rivoluzionario, come si legge in una nota

del 1916, scritta in seguito al congresso semiclandestino di Firenze: “In relazione poi al deliberato del Congresso anarchico di Firenze, oggetto della nota contraddistinta, debbo significare che in questa provincia il partito anarchico ha parecchi aderenti specie tra il personale delle Officine meccaniche italiane. Però manca di un dirigente capace a tenerli disciplinati e quindi non vi è per il momento alcun indizio che possa far ritenere essere intervenuti accordi con la direzione generale del partito. [...]Indubbiamente però, in caso di una azione qualsiasi del partito socialista ufficiale, il gruppo anarchico locale ne seguirebbe l’indirizzo, e ciò conformemente a quanto sempre ha praticato in precedenti manifestazioni e disordini”6.

In questo documento, accanto all’evidente non comprensione del movimento anarchico e delle sue dinamiche organizzative – non facendo capo a dirigenti e, tanto meno, al partito socialista –, ritroviamo Torquato Gobbi, attivo nella sua città e presente a Firenze. Il tipografo reggiano è un nome importante dell’anarchismo non solo emiliano o italiano – essendo emigrato negli anni del fascismo a Montevideo, in Uruguay, dove aprì una libreria militante, punto di riferimento per gli antiautoritari del paese –; ed è un militante che avevamo già incontrato fra gli oppositori alle guerre coloniali, noto alle forze dell’ordine per aver affisso un manifesto pro Masetti nell’11.Nel periodo della Prima Guerra mondiale il fascicolo del Cpc su di lui prova una particolare attenzione da parte della pubblica sicurezza, poiché Gobbi al congresso di Firenze fu uno degli incaricati al coordinamento in Italia della lotta contro la guerra in corso e in cui, secondo i verbali di Ps, viene progettato un movimento rivoluzionario da attuare “appena scoppierà la rivoluzione in Germania”7.

4. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1913 b. 40 f. 54 ‘antimilitarismo’.5. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1913 b. 40 f. 54 ‘antimilitarismo’.6. Nota del prefetto di Reggio Emilia, n. 889, del 30 agosto 1916. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1917 b. 43 ‘Partito anarchico’.7. Nota della prefettura di Firenze, n.2806, del 27 aprile 1917. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1917 b. 43 ‘Partito anarchico’.

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Troviamo dunque messaggi del Ministero dell’Interno ai vari prefetti del Regno perché stiano all’erta. Nel suo fascicolo al Cpc il tipografo, nato a Bagnolo nel 1888, viene qualificato “anarchico pericoloso e propagandista instancabile”8 e così descritto nel 1912: “Riscuote discreta fama in pubblico, è di carattere impulsivo di poca educazione intelligenza e coltura (!). Ha compiuto gli studi elementari ma non ha conseguito alcun titolo accademico. È lavoratore assiduo e trae i mezzi di sostentamento dal mestiere di tipografo. Frequenta la compagnia anarchica e si comporta bene verso la propria famiglia. Non gli furono mai affidati cariche amministrative e politiche. È ascritto al partito anarchico e fa parte del locale Circolo Francisco Ferrer e fa propaganda alle sue idee nel ceto operaio, ma con poco profitto. Non risulta sia in corrispondenza politica con alcuno; non ha mai dimorato all’estero e non ha mai riportate condanne. Non è collaboratore di alcun giornale ma qualche volta ha inviato piccoli sussidi a giornali anarchici. Non è capace di tenere conferenze; si presta però a girare per conto del partito per distribuire stampati sovversivi. Colle autorità tiene contegno indifferente. Prende parte a tutte le manifestazioni del partito ed il 27 settembre ed ottobre 1911 prese pure parte allo sciopero generale ed alla manifestazione qui verificatasi contro la partenza delle truppe per Tripoli, ed il 10 dicembre successivo partì per Bologna per un congresso anarchico indetto pro Maria Reggier (!) e compagni. Non fu mai proposto per l’ammonizione né pel domicilio coatto. Come rapporti 14 e 25 novembre di detto anno fu denunciato all’Autorità Giudiziaria per aver distribuito manifesti antimilitaristi apologetici del soldato Masetti. L’8 marzo 1912 si fece promotore di un comizio anarchico pro vittime politiche qui tenutosi il successivo giorno 10”9.

Gobbi è strettamente sorvegliato ma riesce a svolgere molto attivamente il suo ruolo di collegamento e propaganda. Viene così sorpreso a ritirare nel ‘17 a Milano manifesti rivoluzionari antimilitaristi e viene denunciato per “eccitamento a delinquere a mezzo stampa”. “L’anarchico Torquato Gobbi [...] trovasi attualmente in carcere, essendo stato arrestato la sera del 28 ultimo, siccome ebbi a riferire col mio espresso

del 29 aprile u.s., mentre si recava alla tipografia Redaelli di Viale Vittoria 46 a ritirare i noti manifestini, dei quali questo Ufficio riusciva a sequestrare presso detta tipografia oltre 20mila esemplari. Il Gobbi, allontanatosi da Reggio Emilia ove risiedeva, per ignota direzione, venne nel novembre 1916 rintracciato a Sesto S. Giovanni, ove erasi occupato presso quella Casa Editoriale Pirolini. Dopo le feste natalizie da lui trascorse presso la famiglia a Reggio Emilia, si trasferì per ragioni di lavoro a Varese. In una perquisizione colà eseguita nel di lui alloggio, fra le carte si rinvennero alcuni scritti, fra cui uno a forma di lettera, a firma A. G. inneggiante all’Internazionale anarchica, all’azione da svolgere per far cessare la guerra, all’appello da rivolgersi ai lavoratori, specie alle donne, incitandole a scendere in piazza in dato giorno, alla redazione di un manifesto atto allo scopo ecc.”10

Nel suo fascicolo personale all’interno del Casellario politico tale verbale è arricchito con la seguente nota: “Nella prima decade del gennaio scorso intervenne al convegno anarchico lombardo tenutosi in Dergano, frazione d’Affori, nel quale fu relatore trattando della necessità di intensificare la propaganda anarchica per facilitare un eventuale movimento al termine della guerra”11. Ottenuta la libertà vigilata, a Torquato Gobbi viene imposto il rimpatrio coatto a Reggio Emilia per toglierlo da una piazza politicamente troppo importante quale Milano. Verrà comunque, su ordine del tribunale lombardo, arrestato, processato e condannato a dieci anni di reclusione

8. Torquato Gobbi di Angelo, Cpc, b. 2472 f. 4595, Ministero dell’Interno, direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione Affari generali e riservati.9. Prefettura di Reggio Emilia, n. 4595/8089, 11 marzo 1912 ‘cenno biografico’ in Torquato Gobbi di Angelo, Cpc, b. 2472 f. 4595, Ministero dell’Interno, direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione Affari generali e riservati. 10. Nota della prefettura di Milano, n.5131, dell’11 maggio 1917. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1917 b. 43 ‘Partito anarchico’.11. Prefettura di Milano, n. 1497, 21 maggio 1917. Torquato Gobbi di Angelo, Cpc, b. 2472 f. 4595, Ministero dell’Interno, direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione Affari generali e riservati.

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nel 1918 per “tradimento indiretto”. Uscirà per amnistia nel 1919 riprendendo immediatamente la propria attività nel movimento anarchico e nel sindacato USI.

In generale le note rintracciate al momento al Ministero dell’Interno sull’attività anarchica a Reggio Emilia riguardano fatti o considerazioni estemporanee. Molto più ricchi sono i fascicoli sui singoli militanti del Casellario politico centrale, da cui emergono attività nel territorio cittadino e provinciale connesse al fermento nel resto del paese, e scopriamo nomi e vicende di anarchici meno noti di un Gobbi o di un Berneri, attraverso cui ricostruire il filo sotterraneo di azioni quotidiane, che di fatto hanno tessuto quella rete che dall’antimilitarismo passerà direttamente all’antifascismo clandestino, dopo la parentesi degli Arditi del popolo.Non a caso già nel 1913 troviamo nei fascicoli di Ps il nome di Riccardo Siliprandi, il giovane di Luzzara, prima socialista poi anarchico, ardito nell’immediato dopoguerra, vittima dello squadrismo fascista nel 1921.12 La cosiddetta Bassa reggiana in quegli anni era particolarmente vivace dal punto di vista politico e così, grazie ai verbali, scopriamo altre figure interessanti che ruotano attorno al giovanissimo Riccardo.

Nel 1913 ad esempio venne erroneamente recapitata a un omonimo una lettera indirizzata a Siliprandi contenente insulti al re e al capo del governo13. La lettera, riporta il verbale, “firmata Ruggero è risultato essere il Ghiselli di Adamo, del 77° reggimento fanteria distaccato a Chiari nel bresciano, muratore di Luzzara, nato nel 1893”. Viene riportato che già prima dell’arruolamento Ghiselli era affiliato al Partito socialista riformista e al circolo giovanile socialista di Luzzara. Nella lettera, chiede a Siliprandi di inviargli giornali e opuscoli socialisti a un indirizzo diverso dal suo, non potendo ricevere materiale del genere in caserma. L’indirizzo fornito appartiene a Carlo Scalvini, anarchico del paese dov’è di stanza.

Di Siliprandi la nota riporta che è compagno di fede del Ghiselli, che non ha precedenti penali e che non pare essere stato in corrispondenza con l’anarchico Scalvini.

Segue una certa corrispondenza della prefettura reggiana con la prefettura di Brescia per raccogliere informazioni circa il sovversivo Ghiselli e i suoi contatti con anarchici locali.Ruggero Ghiselli lo ritroviamo in un verbale di pubblica sicurezza con oggetto ‘Propaganda antimilitarista’: “Il sottoprefetto di Guastalla mi riferisce che il 28 settembre u.s. furono distribuiti in Luzzara, ritiensi per opera dei dirigenti quel Circolo Giovanile Socialista, una quantità di manifesti conformi al qui unito. Il manifestino è firmato Ruggero Ghiselli, di cui tratta da ultimo il rapporto di questo ufficio in data 12 febbraio 1914 n. 148, soldato del 70° Fanteria che trovasi attualmente alla Compagnia di Disciplina a Francavilla Fontana.Ho richiamato tutta l’attenzione del sottoprefetto di Guastalla su quanto procede, ed ho disposto che siano intensificate le indagini per il più rigoroso servizio di vigilanza e per la identificazione e denunzia degli autori della diffusione del manifesto di cui trattasi mi riservo ulteriori comunicazioni.Firmato il Prefetto”14.

Le autorità seguiranno questa pista per individuare gli antimilitaristi attivi nella Bassa reggiana dove erano diffusi circoli socialisti, anarchici e, a Guastalla, anche una sezione dell’USI.“Sciogliendo la riserva contenuta nel mio rapporto del 3 andante n. 1600, mi pregio riferire a codesto On. Ministero che dalle indagini esperite è risultato che realmente Ghiselli Ruggero, soldato del 70° Reggimento Fanteria scrisse un articolo intitolato ‘I lavoratori e la guerra’ che fu inserito nel n. 35 anno 5° del giornale ‘Avvenire anarchico’ edito a Pisa presso la tipografia Germinal. Interrogato dal suo Comandante, il Ghiselli, pur ammettendo di essere l’autore dell’articolo, assicurò di non averlo fatto riprodurre, ma di avere spedito solamente un numero del giornale al fratello Serafino Consigliere comunale di Luzzara. È risultato altresì che autore della distribuzione del manifesto sequestrato, che in originale unisco, fu certo Bernaroli Mentore di Luigi, d’anni 19, bracciante, da Luzzara; questi interrogato, dichiarò di essere stato incaricato della distribuzione da un giovane a lui sconosciuto in Guastalla mentre traversava quell’abitato per ritornare al suo paese.

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Il Questore di Pisa, interessato da questo Ufficio, assicura che non è stato possibile accertare da chi fu data la commissione per la stampa dei manifestinio di cui trattasi, ne a chi sia stato dato il pacco che li conteneva.Intanto, mentre assicuro che il Bernaroli Mentore fu denunziato per contravvenzione allo Art. 65 della legge di P.S., ho disposto siano proseguite le indagini onde accertare se siano altri individui che concorsero alla divulgazione del manifesto sequestrato”15.

Il testo dell’articolo, riportato dal verbale denota un pensiero libertario, nonostante Ruggero Ghiselli – classe 1893, muratore che emigrerà in Francia – risulti schedato nel Cpc dal 1913 al 1939 come comunista, partito nato comunque nel 1921: “Dobbiamo noi disperare? No! È una bufera che passa; domani i borghesi sapranno che il socialismo rivoluzionario e l’Anarchia non sono morti, finchè lo sfruttamento esisterà, finchè il capitalismo soffocherà il lavoro degli umili. Oggi il proletariato in guerra si è lasciato sopraffare dai governi borghesi, da vecchi sentimentalismi patriottici, ambientali, e dalla condotta dei loro capi; ma domani, quando la morte avrà mietuto milioni di vite umane, avrà seminato la miseria ovunque, esso rialzerà la testa indomita a domandare le giustizia, l’uguaglianza, la fratellanza per tutti. E l’Internazionale sarà; mentre gli uomini, senza patria, saluteranno per patria il mondo intero. R. Ghiselli”16.Solo nel fascicolo del Cpc dedicato a Siliprandi Ghiselli viene definito anarchico: “È ascritto al partito anarchico, precedentemente appartenuto al partito socialista riformista. Ha poca influenza sul partito circoscritto al luogo ove risiede. Ha tenuto corrispondenza con l’anarchico Ghiselli Ruggero di Luzzara, mente costui trovasi sotto le armi e con l’anarchico Scalvini Carlo, residente a Chiari, per eseguire una propaganda antimilitarista nelle file dell’esercito”.

È interessante in questo caso notare il cambio di tono nelle schede dedicate a Siliprandi fra quando era socialista a quando si professò anarchico.

In una nota della prefettura di Reggio Emilia del 20 dicembre 1913, Riccardo viene descritto nel seguente modo: “Esercita il mestiere di turacciolaio e di infermiere. Professa idee socialiste ed è ascritto al partito socialriformista di sinistra. È di carattere umile ed assiduo lavoratore, ha scarsa educazione [...] avendo compiuto solo gli studi elementari”.Aggiungono inoltre che, sebbene partecipi alle manifestazioni, non è da ritenersi soggetto pericoloso. Diverso il tenore degli appunti nella scheda della prefettura di Reggio Emilia del 1920, dove oltre ai connotati – era guercio da un occhio –, alla professione e a eventuali incarichi – da qualche anno era presidente della cooperativa braccianti di Luzzara – e alla solita dicitura che compare in molti fascicoli di libertari “si comporta bene con la famiglia”, viene definito prepotente e lavoratore fiacco, “...Fa propaganda fra gli operai con discreto profitto. Non è capace di tenere conferenze. Verso le autorità tiene contegno superbo ed altezzoso”. Non risulta collaboratore di giornali sovversivi né risulta spedirne. Militante attivo e presente nelle manifestazioni, allo scoppio della guerra “fu fortemente neutralista”. Apprendiamo così che, entrata l’Italia in guerra, propagandando un’azione violenta per affrettare la fine del conflitto.

Oltre a Siliprandi e a Ghiselli, nel Cpc troviamo un fascicolo su Benilde Giuseppina Ghiselli, casalinga di Luzzara e sorella di Ruggero, classe 1891, schedata come anarchica dal 1923 al 1942... ma quegli anni raccontano un’altra storia.

12. Busta 4804 fascicolo 109311,Casellario Politico Centrale, Ministero dell’Interno, direzione generale Pubblica sicurezza.13. Nota del prefetto di Reggio Emilia del 9 dicembre 1913. Roma, Ministero dell’Interno, Ps, anno 1913 b. 40 f. 54 ‘antimilitarismo’.14. Documento della Prefettura di Reggio Emilia, n. 1600, del 3 ottobre 1914. Roma, Ministero dell’interno, Pubblica Sicurezza, anno 1914, b. 34 ‘Antimilitarismo a Reggio Emilia’.15. Documento della Prefettura di Reggio Emilia, n. 1639, del 12 ottobre 1914. Roma, Ministero dell’interno, Pubblica Sicurezza, anno 1914, b. 34 ‘Antimilitarismo a Reggio Emilia’.16. ibidem.

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Un fatto curioso che emerge dai verbali di Ps conservati all’archivio centrale dello Stato sugli anni della Prima Guerra mondiale è costituito da un paio di lettere anonime, indirizzate al direttore generale dell’ufficio di Roma, firmate “Patterson”. La prima risale al 29 giugno 1914, il giorno dopo “l’eccidio di Sarajevo” – i tempi in cui le reazioni non si contavano in ore e forse nemmeno in giorni –, in cui si preannuncia un ‘imminente sollevazione della città di Reggio Emilia: “… il piano – vi si legge – è di far sollevare per prima tutta la provincia di Reggio Emilia, dove le masse sono già organizzate, si è certi della loro resistenza mentre le truppe residenti colà sono numericamente impotenti..”17.Segue una lettera del prefetto a Roma: “Oggetto: Per un anonimo riguardante possibili turbamenti dell’ordine pubblico nella provincia di Reggio Emilia: ‘Ho letto la seconda lettera anonima proveniente da Patterson, riferibile alla probabilità di una sommossa in questa Provincia’. Qui il prefetto richiede rinforzi di cavalleria in caso si avveri quanto indicato nella lettera e aggiunge: “Codesto On. Ministero, quindi, potrà, con la saggezza, valutare, data la speciale organizzazione proletaria (unica in Italia) di questa Provincia, l’urgenza e l’opportunità di mettere questo Presidio Militare in condizioni di poter rispondere a quei bisogni impellenti di tutela dell’ordine pubblico e delle Istituzioni, nel possibile caso di sommossa”18.“L’anonimo – prosegue il prefetto in un’altra nota – prospetta con una certa esattezza le condizioni di questa Provincia. Le organizzazioni socialiste sono numerosissime, disciplinate e forti e seguono ciecamente l’indirizzo dei propri capi. È appunto

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tale disciplina che ha finora evitato gravi perturbamenti dell’ordine pubblico, perché è bastato il buon tatto usato verso i dirigenti per evitare il trascendere delle masse.Se l’organizzazione reggiana, o previ accordi con altre organizzazioni nazionali o spontaneamente decidesse di scendere in piazza, certamente si avrebbero delle masse compatte, di fronte alle quali bisognerebbe adottare mezzi molto energici per poterle infrenare”.

Seguono protocolli con il piano di difesa di locali, istituzioni e banche, e di presidio del territorio. Senza voler risolvere il mistero dell’identità di Patterson, tali documenti sono utili per sottolineare quanto l’analisi del prefetto, in seguito anche ai fatti di Ancona e della Settimana Rossa, sia lucida: sono i partiti istituzionali che stanno offrendo le classi popolari al macello della Prima Guerra mondiale, contenendone non tanto la forza distruttrice quanto la possibilità di opporsi ai progetti della nobiltà, della borghesia intellettuale e imprenditoriale, e dei nazionalisti.La Settimana Rossa passò anche da Reggio Emilia, la quale aveva recepito l’ondata insurrezionale che doveva accendersi attraverso una manifestazione antimilitarista generale in tutta Italia il 7 giugno, in occasione dell’anniversario dello Statuto Albertino, festeggiato con parate militari e celebrazioni della monarchia. Centro carismatico della sollevazione proletaria fu Ancona, scelta da Errico Malatesta, il noto pensatore e militante anarchico, per il suo comizio.

Durante la manifestazione le forze dell’ordine spararono sugli scioperanti in piazza, uccidendone tre. Da lì la rabbia esplose dilagando in tutto il paese.A Reggio Emilia, nella notte fra il 6 e 7 giugno, guardie in borghese e carabinieri piantonarono le vie cittadine per impedire l’affissione di manifesti antimilitaristi e anti-parate. Dalla prefettura vennero registrati diversi episodi di colluttazione con gli agenti e diversi fermati.19

Sull’onda della mobilitazione nazionale anche qui la locale Camera del lavoro proclamò lo sciopero generale il 9 giugno. In base al telegramma

redatto dal capitano Ferrari per il Ministero dell’Interno, vi aderirono 2.000 lavoratori, a cui va aggiunto lo sciopero dei ferrovieri protratto per giorni, senza tuttavia alcun turbamento dell’ordine pubblico.Nel telegramma inviato dal prefetto Rossi a Roma, sempre il 9 giugno, in merito al comizio svoltosi in protesta per l’eccidio di Ancona si può notare quanto sia i socialisti che gli anarchici presidiassero piazze e organizzassero comizi, e di quanto le piazze fossero piene: “Intervento circa 4000 persone oratori sono stati assessore avvocato Curtini Alberto direttore didattico Saccani Virginio anarchico operaio Albieri Edoardo e professore Zibordi Giovanni direttore giornale socialista Giustizia. Nessun incidente e finora ordine pubblico inalterato”.

La situazione era strettamente monitorata e questi sono i dati riportati in un telegramma, sempre all’indirizzo di Roma, del 10 giugno: “Oggi parecchi gruppi operai officine con qualche anarchico si presentarono alla locale stazione ferroviaria con evidenti scopi di tentare fermata treni furono subito fatti allontanare senza incidenti. [...] Comizio ebbe luogo ore 17 in piazza Cairoli alla presenza di circa seimila persone punto parlarono diverse persone ma non fu necessario intervento funzionario presente per eventuali interruzioni punto”.E ancora, in un telegramma del 19 giugno: “Operai officine meccaniche che sono circa 1.400 fra i quali parecchi anarchici sono quelli che più facilmente tentano provocare disordini finora scongiurati”.

Tuttavia a Reggio Emilia non si registrarono particolari scontri o violenze, nonostante non mancassero, come nel novembre del 1914, comizi e attività di sostegno alle vittime politiche, contro la guerra e la disoccupazione.

17. Documento della Prefettura di Reggio Emilia, del 29 giugno 1914. Roma, Ministero dell’interno, Pubblica Sicurezza, anno 1914.18. Documento della Prefettura di Reggio Emilia, n. 1091, del 19 luglio 1914. Roma, Ministero dell’interno, Pubblica Sicurezza, anno 1914.19. Nota della Prefettura di Reggio Emilia, n. 5696, dell’8 giugno 1914, Ministero dell’interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, anno 1914.

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Questo fino al 25 febbraio 1915 quando, in scontri fra interventisti e antimilitaristi, vennero uccisi i ventenni Mario e Fermo. Quel 25 febbraio in piazza c’era anche lo studente Camillo Berneri, giovane militante socialista che, fra quei giorni reggiani e la successiva esperienza al fronte, maturerà il suo progressivo allontanamento dal partito del “né aderire né sabotare” per diventare uno dei principali pensatori dell’anarchismo del primo ‘900. Fondamentale in questa evoluzione fu l’influenza di Torquato Gobbi, a cui lo troviamo spesso affiancato nei verbali del Cpc.Berneri sperimentò l’esercito dal 1917, l’arresto per aver propagandato idee pacifiste e, come conseguenza, il fronte, ma sarà soprattutto dal primo dopoguerra che il suo pensiero e la sua penna si faranno più sicuri e affilati. Berneri diventerà una voce autorevole della politica internazionale e pagherà con la vita, nei giorni della Guerra civile spagnola, la sua schiettezza, ucciso dagli stalinisti a Barcellona nel 1937.

I principi di Camillo vengono definiti “ultramilitaristi” nel fascicolo del Cpc a lui intestato, a causa dei quali si sarebbe avvicinato all’idea anarchica dimettendosi dal Partito socialista rivoluzionario nel 1915. Leggiamo: “Da allora tentò di costituire in questa città in (un) gruppo giovanile anarchico”. Ha scarso successo presso i coetanei e studenti allora si spinge verso le masse operaie, con scarso successo perché qui prevale il pensiero socialista. Egli può considerarsi per la sua attività, intelligenza e fermezza elemento pericoloso.”20

Vari documenti attestano quanto fosse sorvegliato fin dai tempi della Federazione Giovanile socialista per il suo antimilitarismo e anche perché figlio “della nota propagandista socialista Adalgisa Fochi”, nota per i suoi comizi contro la guerra. È tuttavia con l’abbandono de “...il partito socialista per passare alla setta anarchica” che viene redatta per lui una scheda biografica – come segnalato dal direttore generale di Ps il 29 dicembre 191621 – e la documentazione su di lui, sui suoi contatti e spostamenti, aumenterà con l’intensificarsi del suo impegno e della sua influenza, parallelamente all’affermazione del regime fascista. Di fatto Berneri, sotto l’esercito, si dedicò soprattutto a mantenere una corrispondenza con diversi

compagni (“sovversivi”), a fare propaganda antimilitarista e a mantenere verso le autorità contegno indifferente, definizione che ritorna in diverse schede di anarchici del Cpc come Torquato Gobbi e Felice Vezzani.

Di Felice Vezzani abbiamo trattato in “L’anitimilitarismo anarchico a Reggio Emilia dalle guerre coloniali alla Grande Guerra”, pubblicato su Pollicino Gnus e, infatti, Vezzani fu attivo principalmente a cavallo fra ‘800 e ‘900 poi, sia per motivi di salute che politici, emigrò e ridusse progressivamente la sua militanza. Nato nel 1855 a Reggio Emilia, di mestiere pittore e decoratore, era noto in ambito anarchico soprattutto per i suoi articoli. Nel fascicolo al Cpc viene definito “conferenziere animato e vigoroso”.“In pubblico riscuote dubbia fama. È di carattere risoluto. Ha scarsa educazione, discreta intelligenza e non molta cultura. Ha compiuto gli studi elementari e di pittura. Non ha alcun titolo accademico. [...]Frequenta esclusivamente la compagnia di affiliati al partito socialista e alla setta anarchica. Verso la madre si comporta abbastanza bene.[...] Nella setta locale esercita molta influenza e strinse relazioni coi capi di Bologna e di altre località del Regno”22.

Durante i primi mesi della guerra mondiale fu infatti in contatto diretto con Errico Malatesta – che incontrò a Londra –, spostandosi fra il suo paese, Novellara e Reggio Emilia, Bologna, Parigi. Nella capitale francese svolse sempre il ruolo di contatto fra gli anarchici italiani – soprattutto emiliano romagnoli – che si stabilivano o transitavano oltralpe. Con l’avvento del fascismo Vezzani farà perdere le proprie tracce, tranne che per alcuni articoli pubblicati sotto pseudonimo, scritti spesso a sostegno del fuoriuscitismo italiano. Rintracciato ed arrestato a Parigi nel 1929, vi morirà l’11 febbraio 1930.23

Altro anarchico reggiano poco noto è Alfredo Gobbi. Lo avevamo incontrato nella precedente ricerca come uno dei responsabili dell’affissione di un manifesto antimilitarista nel novembre 1911 assieme a Torquato Gobbi. Nato a Reggio Emilia l’8 maggio 1861, tipografo, Alfredo era noto

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alle autorità da tempo, autorità che, nel 1896 lo condannarono al domicilio coatto a Ponza. Nel suo fascicolo leggiamo: “È il più fanatico degli individui riconosciuti come anarchici di quella provincia, esaltato all’eccesso e però talvolta altrettanto remissivo. Non manca di ingegno, però è molto disordinato al punto che da molti è ritenuto pazzo. In complesso è individuo pericoloso perché capace e facile a delinquere”.“È ascritto al partito anarchico al quale ha sempre appartenuto. Ha poca influenza e questa è circoscritta a questa città di Reggio Emilia ove riesce. Tiene corrispondenza anche con cifrario con compagni del partito sia nel Regno che all’estero dei quali si sconoscono i nomi, ad eccezione di Malatesta, Merlino, Parmiggiani. [...] Non ha collaborato a giornali sovversivi che però riceve e invia non si sa da e a chi. Non tiene conferenze non è capace.24”Dati i contatti intrattenuti Alfredo Gobbi era sicuramente un militante attivo del mondo

20. Ministero dell’Interno Direzione Generale di p.s. Divisione Affari generali e riservati/casellario politico centrale busta 537, fascicolo n.1/ 73478.21. Ministero dell’int. Prot. Gen. Num. 41150 ufficio riservato di Pubblica sicurezza. Documento riservato.22. Ministero dell’Interno Direzione Generale di p.s. Divisione Affari generali e riservati/casellario politico centrale busta 5392, fascicolo 026608. Nota del 10 settembre 1899 a cura del prefetto di Bologna.23. Dizionario biografico degli anarchici italiani, BFS Editori, 2003.24. Ministero dell’Interno Direzione Generale di p.s. Divisione Affari generali e riservati/casellario politico centrale busta 2471 fascicolo 54883. Documento 7998, Prefettura di Reggio Emilia, 23 febbraio 1898.

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nel settembre scorso. Sebbene non possa considerarsi personalmente pericoloso pure è attentamente vigilato”.Iori era stato inizialmente esonerato dalla leva durante la Prima Guerra mondiale – dopo un periodo da soldato ad Ascoli Piceno – ed assegnato come operaio in un proiettificio poi, su proposta diretta del prefetto al ministero della guerra, richiamato al servizio militare, ed assegnato al 66° Fanteria. Probabilmente un opificio venne ritenuto un posto troppo strategico per un noto sovversivo, antimilitarista e anarchico.27

Ritroviamo poi alcune note rilevanti su di lui negli anni ‘30, dove apprendiamo della sua iscrizione al PNF per buona condotta morale e politica a cui seguirà la radiazione dal Cpc nel ‘39 per “ravvedimento”.Ma quella del dopoguerra e del fascismo è – come abbiamo già scritto – un’altra storia, anche se figlia di questa.

Nella nostra ricostruzione abbiamo tentato di dissotterrare alcune informazioni su persone e fatti reggiani passati nel dimenticatoio, nomi che emergono su una massa purtroppo di volti senza nome. Abbiamo così incontrato diversi militanti anarchici che in questa complicata stagione, o per tutta la loro vita, profusero un impegno costante contro l’autoritarismo.Potranno sembrare informazioni sconnesse, parziali o irrilevanti, ma per costruire un puzzle prima servono le tessere. Stiamo così procedendo in questo senso con il progetto, quanto prima, di fornire un quadro organico della presenza a Reggio Emilia dall’800 a oggi di un movimento libertario, attivo in tutti gli ambiti sociali e culturali della città, in tutte le lotte per la libertà e i diritti.

25. Ministero dell’Interno Direzione Generale di P.S. Divisione Affari generali e riservati- casellario politico centrale, busta 3740 fascicolo 67452.26. Ministero dell’Interno Direzione Generale di P.S. Divisione Affari generali e riservati/casellario politico centrale busta 2643 fascicolo 57613.27. Nota del ministero della guerra, sottosegretariato per le armi e munizioni, comitato centrale per la mobilitazione industriale, Roma 19 gennaio 1917, Cpc busta 2643 fascicolo 57613.

anarchico reggiano ma è normale, nei commenti della polizia, leggere di questi personaggi come o altamente pericolosi o macchiette senza arte né parte. Un dato che sicuramente emerge è l’incapacità dei pubblici ufficiali di monitorare realmente gli spostamenti e i contatti di chi si muoveva per l’Italia e l’Europa, come Gobbi, costantemente in viaggio fra Reggio, Genova, Borgotaro nel parmense.

Fra i contatti di Gobbi compare anche Luigi Parmeggiani, classe 1858, un personaggio dell’anarchismo reggiano sicuramente curioso quanto ambiguo, noto oggi a livello locale per la galleria d’arte da lui voluta e a lui intestata in pieno centro storico, accanto al Teatro Ariosto. Alla pubblica sicurezza era noto per furti e falsificazioni di oggetti artistici di un certo valore. Venne radiato dal Cpc sotto il fascismo, ormai ricco di una ricchezza ritenuta dalla stessa polizia di origini misteriose e considerato, da alcuni, un abile agente internazionale antifascista che dimostrava sentimenti favorevoli al fascismo per meglio agire, coprendo i suoi molti viaggi in Francia con il commercio antiquario.25

Parmeggiani era un anarchico individualista e contestava l’anarchismo organizzatore di Malatesta. Irrequieto e intraprendente dette vita, fra l’Italia la Francia e l’Inghilterra, a diversi giornali e volantini politicamente provocatori e polemici, al punto da venir considerato talvolta un agente infiltrato o una spia da altri militanti. Nel Cpc negli anni ‘40 veniva ormai classificato come ex-anarchico.

Un altro nome che abbiamo rintracciato nelle manifestazioni antimilitariste dell’11 e, di conseguenza, nei verbali di Ps, è quello del falegname e operaio presso le Officine Reggiane Vittorio Iori, classe 1887, nato a Pegognaga nel mantovano e residente a Reggio Emilia, quartiere Santa Croce, dal 1910.26

In una nota del 27 dicembre 1911 del prefetto di Reggio Emilia in merito alla condotta politica del Iori si legge: “seguace della teoria sindacalista, frequenta la compagnia di sindacalisti e anarchici [...].Legge assiduamente giornali sovversivi e specialmente l’Internazionale di Parma e prese parte alla manifestazione antimilitarista qui svoltasi

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Durante la Prima Guerra Mondiale si assistette per la prima volta – in maniera massiccia – allo sviluppo della cosiddetta “follia di guerra”: decine di migliaia di soldati vennero allontanati dal fronte perché manifestarono sintomi di squilibrio mentale.In questo mio breve intervento cercherò di vedere quale fu la lettura che ne diede la psichiatria dell’epoca e quali furono le connessioni che si stabilirono con la tematica che ci siamo prefissi di approfondire, ovvero i sentimenti, le idee, i gesti riconducibili ad una opposizione alla guerra, in questo caso la Prima Guerra Mondiale.Si tratta di una questione di cui la storiografia contemporanea si è occupata più volte e in questa sede il mio intento, sarà più che altro quello di illustrarne i vari aspetti, concentrandomi soprattutto su quelli culturali, cercando di darne una dimensione locale attraverso gli esempi tratti dalle cartelle cliniche dell’ex ospedale psichiatrico di Reggio, il San Lazzaro.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la psichiatria italiana si trovava in un momento di crisi, la pratica dell’internamento psichiatrico (in atto da almeno due decenni) non stava dando i risultati sperati. Già dai primi anni del secolo, la disciplina, che continuava nel suo tentativo di ampliare la sua la sua sfera d’influenza a tutti gli ambiti della società, aveva rivolto la sua attenzione alle forze armate, autocandidandosi come unica tra le scienze mediche in grado di individuare, isolare e infine eliminare gli elementi “di scarto”, gli inadatti all’esercito.1

Un ruolo, questo della psichiatria, che crebbe d’importanza durante la guerra, quando, al moltiplicarsi di disertori, autolesionisti e simulatori divenne sempre più urgente il loro allontanamento, per evitare il rischio contagi al resto dell’esercito2. La guerra però diede alla scienza psichiatrica un’ulteriore fonte di riscatto. La grande mole e varietà di patologie mentali (si parla di 40.000 militari ospedalizzati) che presero vita in quel periodo funse come una sorta di grande laboratorio a partire dalla quale si sviluppò un ampio dibattito. Dibatto che però non costituì una vera occasione di rinnovamento della disciplina la quale rimase per lo più ripiegata sulle vecchie categorie ottocentesche di predisposizione, ereditarietà, degenerazione3. Ciò significava che i medici, nonostante una tale esplosione di casi di follia (presunta o reale) furono pressoché tutti concordi nel non ritenere la guerra come un agente patogeno: “tutti coloro i quali avevano dato segno di squilibrio mentale sotto le armi [erano] sostanzialmente degli ‘anormali’ incapaci a vivere nella società civile, così come di reagire positivamente alle difficoltà della guerra”: non era guerra la causa della loro follia4.

Su queste posizioni la psichiatria rimase sostanzialmente per tutto lo svolgersi del conflitto nonostante l’inaspettata e incontenibile escalation di casi di follia. A cambiare fu invece lo scopo del suo intervento: se inizialmente l’obbiettivo era quello di identificare per allontanare, nel corso della guerra ci fu un importante cambio di prospettiva: lo scopo divenne all’opposto, una volta individuati i soggetti inadatti, bisognava cercare il più possibile di reinserirli, adattarli, omologarli, includerli5.

Diserzioni mentali e antimilitarismi corporeiRappresentazioni culturali dei “matti di guerra” durante il primo conflitto mondialedi Francesca Campani, giovane storica reggiana

1. Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra, a cura di Andrea Scartabellati, Marco Valerio, Torino 2008, p. 94. 2. Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 87-88. 3. Vinzia Fiorino, Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978), Pisa, ETS, 2001, p. 143; Bruna Bianchi, La follia e la fuga: nevrosi di guerra, diserzioni e disubbidienza nell’esercito italiano (1915-1918), Bulzoni, Roma 2011, pp. 71-72.4. Fiorino, Le officine…, cit., p. 143.5. Bianchi, La follia…, cit., p. 61 e pp. 65-66.

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Cos’era cambiato? Innanzitutto col passare dei mesi, l’esercito italiano subì una vera e propria emorragia di forze. Con Caporetto poi la situazione divenne drammatica: occorreva impedire, in tutti i modi, ulteriori defezioni. Questa inversione di tendenza si concretizzò con la creazione proprio qui a Reggio, del Centro di Prima Raccolta della zona di guerra, ovvero dell’unico centro in Italia verso il quale, da quel momento fino alla fine della guerra, vennero inviati tutti i militari che al fronte avevano dato segni di instabilità mentale. Lì i soldati venivano visitati e, una volta riconosciuta la malattia, smistati nei vari manicomi italiani in base alla zona d’origine oppure rispenditi al fronte.

In secondo luogo, gli psichiatri dovettero fare i conti con un’impasse da essi stessi creata. All’interno del meccanismo inesorabile del sistema militare gli unici che riuscivano a sfuggire dall’ombra lunga della morte erano proprio quelli che la disciplina stessa aveva dichiarato biologicamente e psicologicamente inadatti a combattere perché considerati anormali e quindi inferiori, mentre invece gli eroi, i sani, i buoni, gli onesti erano destinati al sacrificio. In poche parole l’inferiorità biopsichica assurgeva a privilegio. Che fare dunque? Esclusa l’ipotesi pedagogico-rieducativa, la tendenza fu quella di ridurre al minimo i riformati, dichiarando il maggior numero possibile di “abili al lavoro di guerra”. In questo modo però emerse un altro imbarazzante paradosso: il termine “terapia” perse la sua carica positiva, e ruolo della psichiatria divenne in sostanza quello di guarire i soldati per mandarli a morire.

Detto ciò proviamo a vedere un po’ meglio la figura del soldato folle: l’abbiamo già definito come “anormale” utilizzando un termine assai caro alla storia culturale contemporanea6. L’a-normale è da considerarsi chiunque non rientri all’interno di categorie considerate nella società come la norma. Nel corso dell’Ottocento i medici, gli psichiatri, gli antropologi individuarono tutta una serie di soggetti che vennero a vario titolo fatti rientrare nel grande calderone dell’anormalità: il delinquente, la prostituta, l’onanista, l’omosessuale, l’ebreo, il vagabondo, la virago ecc.

Tra essi anche il soldato folle che le scienze psichiatriche misero lungo una linea di continuità accanto alle figure dell’emarginato, del vagabondo, dell’emigrante, del fuggitivo e del disertore7. Ed in effetti, pur attraverso un’ottica distorta, la psichiatria colse qui un elemento di reale continuità tra queste tipologie di soggetto: e cioè “la fuga come risposta ad un accerchiamento coercitivo che si presentava [via via] sotto forme diverse: come stato, arruolamento, guerra, manipolazione, sorveglianza”8.

Il soldato folle in effetti fuggiva sì dalla guerra, ma non solo. Al di là dell’aspetto bellico, la Prima Guerra Mondiale ebbe un’importanza epocale anche dal punto di vista culturale segnando il tramonto definitivo del mondo ottocentesco e inaugurando – e per molti versi anticipando – il “secolo degli estremi”9, il Novecento.Si trattò innanzitutto della prima vera guerra di massa, attraverso la quale la modernità irruppe massicciamente nella vita delle persone, di tutte le persone, stravolgendone la dimensione e i punti di riferimento. Grandi masse di contadini chiamate alle armi si affacciarono per la prima volta al “mondo nuovo”, disegnato dalla tecnologia e dai sistemi organizzativi e coercitivi messi in atto dagli stati militarizzati10. Catapultati al fronte, si ritrovarono in un paesaggio a loro estraneo, privo dei punti di riferimento su cui avevano basato la loro esistenza: a saltare fu il tradizionale rapporto tra l’uomo e la natura, l’ordine naturale del giorno e della notte, venne stravolto il rapporto tra il tempo del lavoro e il tempo libero, tra giovinezza e vecchiaia, stravolto ovviamente anche il rapporto tra la vita e la morte (morte cessò di essere una possibilità per diventare una sorta di “virtualità permanente”, quasi un “accadimento già in corso”11).

6. Cfr. Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2000. 7. Gibelli, L’officina…., cit., p.78. 8. Ibid., p. 79. 9. Ibid., p. XIII. 10. Ibid., p. XI.11. Ibid., p. 196.

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L’intensità lacerante degli stimoli sensoriali creò una dissociazione e una scomposizione degli eventi percettivi12.

Fu però soprattutto il “paesaggio mentale” ad essere investito, non solo ed esclusivamente il mondo e il paesaggio mentale dei soldati resi “folli”, ma quello di tutti gli uomini che presero parte a quella sconvolgente esperienza13. Il confine tra il prima e il poi segnato dalla guerra fu prima di tutto un confine mentale. La guerra si configurò come un evento che “trascina via da se stessi” obbligando a una “ridefinizione della propria identità”. “Chi sono io?”14 si chiede eloquentemente in una lettera uno degli internati al San Lazzaro.

A favorire l’abbandono del proprio io dei militari, contribuirono la docilità al comando, la disponibilità a credere a quanto gli veniva raccontato, a imitare i comportamenti altrui15. Per effetto di questo lungo processo di spersonalizzazione, il soldato abbandonava progressivamente le sue idee, la propria vita, si creava una nuova identità personale, fino a perdere percezione di essere un individuo autonomo, e diventare parte di un tutto. Si trattò di un processo per nulla casuale e molto simile a quello che caratterizzava la società industriale: il soldato-massa (così come anche l’operaio-massa16) doveva essere forgiato in modo tale da funzionare come elemento standardizzato di un meccanismo.

Il punto è che se precedentemente la leva – che in epoca moderna rappresentò sempre un elemento d’attrito tra lo Stato e le grandi masse contadine, ma come qualsiasi altro tipo di ingerenza del potere statale inviso alla popolazione – poteva essere abbastanza facilmente elusa attraverso modalità quali la fuga, la diserzione, il vagabondaggio, all’epoca della prima guerra mondiale ciò divenne praticamente impossibile17. Il processo, già da tempo in atto dagli stati moderni, di razionalizzazione e standardizzazione delle proprie funzioni produsse una rete le cui maglie si strinsero sempre di più attorno alla popolazione tanto da coinvolgere anche le masse contadine che fino a quel momento erano riuscite a sfuggirvi, rimanendone ai margini: le liste di leva, i controlli della polizia, le

carte d’identità contribuirono a fissare l’identità anagrafica delle persone, in maniera inequivocabile.Accanto a ciò occorre considerare un altro elemento: e cioè un discorso pubblico che, in maniera coesa e martellante, portava avanti un modello sociale che esaltava il mito dell’esperienza di guerra18, il sacrificio per la patria e la “bella morte” in battaglia. Emblematica di questo discorso è la figura di Uncle Sam e il suo “I want you”: un’immagine che, con le sue infinite varianti, venne appesa ad ogni angolo delle strade, anche sotto forma di gigantografia, rendendone il messaggio sovrastante19.

Non solo. Per gli uomini dell’epoca l’imperativo alla guerra divenne ancora più pressante se si tiene presente anche il parallelo processo di militarizzazione della virilità: in questo periodo infatti, giunse a compimento il processo di sovrapposizione dell’essere maschio all’essere soldato. Ogni uomo aveva davanti a sé l’immagine del combattente – sicuro, sprezzante del pericolo, perfettamente padrone dei propri sentimenti, pronto al sacrificio – come modello al quale aderire in maniera univoca. Di fronte a uno scenario di questo tipo si capisce bene come la sensazione che provarono molti, e che emerge chiaramente dalle cartelle cliniche, fu quello di trovarsi incastrati in un meccanismo inesorabile dal quale non avevano via d’uscita: la risposta fu la messa in atto di surrogati ed espedienti di una “diserzione dagli imperativi materiali e morali del massacro tecnologico, divenuta nei fatti largamente impraticabile”20.

Di fronte ad una “fuga impossibile”21 unica via di fuga “possibile” divenne quella di “trincerarsi dentro se stessi”22. Incapaci di sostenere la situazione in cui vennero catapultati, questi soldati impoverirono la loro coscienza e rinunciarono ad udire, parlare, ricordare. Impossibilitati a sottrarsi, furono le loro menti a disertare. Abbandonati, i loro corpi smisero di obbedire ai comandi a cui erano stati abituati fino a quel momento, e si ribellarono. Si creò nel loro sistema di difesa psicologico, una sorta di breccia attraverso la quale dilagano i sentimenti: ad emergere fu il mondo degli affetti, della nostalgia, ma emerse anche l’odio, il rancore, l’insofferenza verso il loro ruolo all’interno del conflitto.

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Le forme attraverso le quali si manifestò questa fuga emerge chiaramente dalla verifica dei documenti. Le cartelle cliniche ci offrono due tipi di fonti: le fonti dirette ovvero le lettere scritte dagli internati ma mai inviate; e le fonti indirette ovvero le descrizioni cliniche dei pazienti da parte dei medici, che rappresentano ovviamente la parte più consistente.Nella maggior parte dei casi, la prima cosa che colpisce i medici è il distacco dalla realtà. Ricorrono termini quali “assente a se stesso”23, “stato sub onirico24”, “come estraneo alla vita”25.

Spesso i corpi dei pazienti vengono descritti come svuotati di ogni umanità. Riporto un esempio: “lento, con i piedi appena sollevati dal suolo, con il tronco ricurvo, con le braccia abbandonate ed inerti, le ginocchia flesse. Talora si ha l’impressione che deambuli come un automa26. Sui volti, quando non sono vuoti e catatonici, è dipinta la maschera della paura. Il soldato Romano, per esempio “si rifiuta di rispondere alle domande rivoltegli, volgendo altrove il capo e scoppiando in un dirotto pianto o meglio in grida di dolore. Egli dispone sul suo letto le fotografie dei famigliari e resta lungo tempo contemplandole con espressione dolorosa nel volto, la cui fronte è segnata da rughe disposte ad omega”27, un altro soldato invece “appare in preda a vivo spavento; con gli occhi sbarrati, i tratti mimici tesi, sembra assista a una visione terrifica”28.

Come ho già accennato, se la mente fugge, il corpo si ribella e obbedisce a comandi diversi. Spesso si tratta di atti di indisciplina e di insubordinazione verso i simboli della sua condizione di assoggettamento: i superiori innanzitutto, ma spesso anche i compagni, i medici e gli infermieri.

Capitano perciò episodi come quello del soldato Martinelli il quale – cito – “dalla finestra della sua camera ha versato un bidone di urina sopra la sentinella che passeggiava lungo il corridoio senza alcuna ragione né pretesto”29 oppure il soldato La Lingua che “sentiva un impulso irresistibile a sparare sui propri compagni”30 o il soldato Marzo che “si ribellava agli ordini di un suo superiore e lo minacciava con un bastone e con un sasso”31.

A volte invece il corpo continua ad obbedire ad ordini che non gli sono più imposti, e a compiere gesti tipici del contesto di guerra. Ci sono soldati che continuano ad assumere “pose rigidamente marziali” anche all’interno del manicomio32, altri invece si comportano come il soldato Briante che, dopo essere venuto a conoscenza della morte del fratello, “ripete con monotonia il gesto di chi si alza per vedere un cadavere e lo accenna con la mano esprimendosi con le stesse parole «povero frate mio, eccolo là quanto è bello»”33.

12. Si trattava di un bombardamento sensoriale del tutto inedito: si pensi per esempio all’esperienza visiva e a quella uditiva durante, appunto, i bombardamenti, ma anche gli odori dei cadaveri e delle latrine nelle trincee (Ibid., p. 168). 13. Ibid., p. XII. 14. Archivio ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia (da qui in avanti AexOPRE), Incarti militari, 1-15 settembre 1917, busta 354, c.c. Lulli Giovanni. 15. Gibelli, L’officina…, cit., p. 92.16. Ibid., p. 91. 17. Ibid., pp. 76-81.18. Ibid., p. 85. Sul mito dell’esperienza di guerra cfr. George Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari, 2005. 19. Gibelli, L’officina…, cit., p. 86. 20. Ibid., p. 8.21. Ivi. 22. Ibid., p. 127. 23. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. Ruzzi Giovanni. 24. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, cc. Grandi Giuseppe.25. AexOPRE, Incarti Militari, 2-14 novembre 1917, Busta 357, c.c. Gioia Rocco.26. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, c.c. Messina Silvestro.27. AexOPRE, Incarti Militari, 2-14 novembre 1917, Busta 357, c.c. Romano Niccolò.28. AexOPRE, Incarti Militari, 2-14 novembre 1917, Busta 357, c.c. Dubla Ciro. 29. AexOPRE, Incarti Militari, settembre 1918, Busta 377, c.c. Martinelli Augusto.30. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. La Lingua Libero.31. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. Marzo Gennaro. 32. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, c.c. Trotta Giuseppe.33. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, Briante Pasquale.

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Un fenomeno molto diffuso è l’autolesionismo che arrivava fino a tentativi di suicidio. Spesso questi soldati si ferivano volontariamente per essere ricoverati nell’infermeria. Il soldato Frigoni, per esempio, “si esplose un colpo di fucile al braccio sinistro” e domandatogli il perché del gesto rispose che era “convinto che era l’unica via d’uscita da una posizione diventata per lui insostenibile”34.

A volte però i confini sono labili e più che gesti frutto di una riflessione consapevole sembrano piuttosto l’esternazione di un sentimento di odio verso se stessi. Come nel caso del soldato Cavazzini che, raccontano i medici, “si è inferto dei colpi di coltello alle mani […] Si riscontrano i segni di 14 ferite sul dorso della mano destra e 4 al palmo. Al dorso del pugno sinistro segni di 14 ferite”35. Il soldato Marzo invece, sembra in preda a una forza distruttiva e autodistruttiva incontenibile: “rotta l’impalcatura della prigione e frantumati i vetri, sconquassata la porta, egli aveva tentato di accoppare nella sua furia improvvisa, il primo che gli si parò davanti e solo si era fermato di fronte ad un picchetto di soldati armati di fucile con baionetta innestata.

Preso e legato provvisoriamente, era stato adagiato nella stessa prigione. […] gli occhi iniettati di sangue, dominato ancora da influssi di violenza contro gli altri e contro di sé, risultati ben chiari dai frequenti tentativi di mordere i custodi, di battere la testa contro il muro e contro terra, e di divincolarsi dai lacci e dalla stretta tenace dei piantoni.”36 Numerosi sono anche i casi di tentato suicidio: c’è chi cercò di lanciarsi dalla finestra37, chi bevve “una bottiglia d’inchiostro”38, o ingoiò “pastiglie di sublimato39”. C’è poi il caso di tale Del Guerra che “si è allontanato dal reggimento per andare a trovare il padre. Poi […] aveva tentato l’avvelenamento […] e si era gettato in mare. Ricoverato […] nell’ospedale civile di Livorno, il 4 agosto fuggì nudo.”

Questo del “soldato che fugge nudo” è un aspetto curioso e interessante. Le cartelle cliniche e i racconti dei matti di guerra sono pieni di soldati

che fuggono nudi dal fronte, dagli ospedali, spogliati della divisa o anche completamente svestiti40. Questa pratica che, come dice Scartabellati, è “singolarmente frequente per essere solo un accidente statistico”, possiede una carica simbolica davvero potente. Spogliarsi della divisa è in un certo senso come liberarsi dal contesto bellico e da quel senso di costrizione che sentivano molti soldati, scappare nudi porta con se un senso di rinascita, di ritorno alla purezza, nel tentativo di scrollarsi di dosso le bestialità della guerra41.Questi dunque i corpi ribelli, corpi che, senza più una guida, compiono atti che, per la profondità e per la radicalità di opposizione che esprimono, possiamo – anzi dobbiamo – considerare al pari degli “episodi di ribellione aperta e collettiva”42. La guida che viene a mancare – lo abbiamo già detto – è la mente. La mente fugge perché tormentata dalla paura, dal dolore e dallo smarrimento. Ma fugge anche perché consumata, azzerata, disarmata dal processo di spersonalizzazione ad opera dell’esercito, dello stato e della società.

Il risultato di questa fuga si manifesta in un insieme di atteggiamenti molto diversi, che vengono interpretati dai medici in vario modo ma sempre sottintendendo la medesima convinzione che quelli che si trovavano di fronte erano sostanzialmente degli uomini a metà, degli esseri di sesso maschile che rinunciando a combattere – e cioè svolgere il loro compito di uomini – avevano tradito la loro virilità. Ma se non erano veri uomini allora

34. AexOPRE, Incarti Militari, 2-14 novembre 1917, Busta 357, c.c. Frigoni Filippo. 35. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. Cavazzini Pietro.36. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. Marzo Gennaro.37. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. Di tizio Giovanni.38. AexOPRE, Incarti Militari del 1915, Busta 333, c.c. Corti Eugenio. 39. Si tratta di bicloruro di mercurio, una sostanza che venne a lungo usato come disinfettante soprattutto contro la sifilide.40. Fiorino, Le officine…, cit., pp. 161-164. 41. Ibid., p. 163.42. Bianchi, La follia….cit., p. 15.

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cos’erano? Innanzitutto “la crisi d’identità del soldato […] lo retrocedeva al livello del genere secondario: quello femminile”43. Infatti i sintomi con cui spessissimo vengono descritti i soldati nelle cartelle cliniche sono i tipici sintomi di una malattia che fino a quel momento era stata quasi esclusivamente riferita alle donne, ovvero l’isteria. Il mutismo, la sordità, lo stato confusionale dell’affettività, i tremori, i pianti, sono tutti elementi che avevano caratterizzato le rappresentazioni dell’isteria femminile per tutto l’Ottocento. Tra tutti, quello che colpisce di più è sicuramente il pianto: nelle descrizioni delle cartelle cliniche questi uomini versavano fiumi e fiumi di lacrime. Il soldato Grandi per esempio “lancia un grido e […] scoppia in un pianto convulso chiedendo al vicino di letto «è morta la mia fidanzata»?”44. Anche se per certi versi è ancora viva nel nostro immaginario la figura del soldato tutto d’un pezzo, questa immagine suscita oggi una reazione certamente empatica. Non era così per i medici dell’epoca, i cui resoconti lasciavano trasparire spesso un mal celato disprezzo.

Ciò è particolarmente evidente nel caso del soldato Rizzo al quale, dato che stava piangendo convulsamente da parecchio tempo, gli domandarono: “Non puoi fermarti?” e lui rispose: “Mi devo sfogare perché se no mi scoppia il cuore”. Se pensiamo che i medici dell’epoca lo descrissero come “lagnoso”, “petulante”, “esigente”, “incontentabile”45, come se avessero a che fare con un bambinetta viziata, ciò ci dà la misura di quale fosse la loro prospettiva ma anche la distanza che ci separa da essi.Ho usato il termine “bambinetta viziata” non a caso perché l’altro ambito a cui venivano ricondotti i soldati folli era proprio il mondo dell’infanzia. In effetti una reazione piuttosto comune tra i soldati era quella di regredire “ad uno stadio elementare della vita”, assumendo “atteggiamenti fanciulleschi” come il soldato Benedetto che, sdraiato, presenta “una forte flessione della colonna vertebrale, flessione delle ginocchia, assume[ndo] così la siluette di una Z”46 che altro non è, che quella che noi oggi chiamiamo “posizione fetale”. Altre volte invece assumevano movenze e voci infantili”47: “Quando viene la mamma?” ripete con “tono lamentoso” il soldato Peluso48.

Che venissero ricondotti alla sfera femminile o a quella dell’infanzia, questi atteggiamenti denotano senza dubbio un rifiuto ad adeguarsi al modello di virilità che veniva imposto, secondo il quale il soldato – ma in generale tutti gli uomini – doveva dimostrare “la capacità di reprimere le emozioni, […] di restare impassibile di fronte alle atrocità, di cancellare il proprio mondo personale degli affetti”49. C’è chi ha parlato, in questo senso, di affermazione del “diritto alla debolezza e alla fragilità”50. Di sicuro siamo di fronte all’uscita allo scoperto e al dilagare dei sentimenti profondi di queste persone.Da questo punto di vista le cartelle cliniche ci restituiscono testimonianze anche piuttosto commoventi, come quella già citata del soldato Romano che “dispone sul suo letto le fotografie dei famigliari e resta lungo tempo contemplandole con espressione dolorosa”. Ma ce ne sono altre: il soldato Tozzi, per esempio, “Profondamente depresso se ne sta a letto concentrato e raccolto […]. Chiama con voce velata dal desiderio e tremante dallo spasimo i figli suoi: «Maria, Mari! Vieni da papà». […] da due giorni è in preda a vivaci allucinazioni […] Ha visto i figli miei! Eran tutti e tre fuori dalla porta della camerata [..] si tenevano per mano! Lo chiamavano! [qui il testo della cartella clinica passa dalla prima alla terza persona] Gli chiedevano la cioccolata! Egli non ne aveva. È balzato a sedere sul letto, più volte, più volte, inquieto, ansioso, angustiato, lo sguardo fuori dalla porta, nel cortile, ha cercato i figli suoi. È ricaduto giù sul letto, ancor più depresso e scorato”51.

Altri invece sentono il bisogno di esprimere sentimenti repressi, come questo soldato che scrive una lettera la padre: “Caro padre, ti scrivo, si ti scrivo, papà, ma perché? Non lo so neanche io! Vuoi tu sapere come sto io? Mi dici di esser tranquillo, ebbene questa cosa non troppo facile è per me. […] ho sofferto rimembranze meste […] ma migliorando non saprebbe improbabile dare un bacio a chi ora sento di amare con tutta l’effusione del mio animo, alla amabilissima mamma. […] L’animo mio si strazia sempre di più e sempre più corre verso la tenebri [sic] buia e fosca, e sento ora forte il bisogno di baciarti, mentre in altri tempi, insensato,

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43. Scartabellati, Dalle trincee... cit., p. 129.44. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, c.c. Giuseppe Grandi. 45. AexOPRE, Incarti Militari, 2-14 novembre 1917, Busta 357, c.c. Rizzo Domenico.46. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, c.c. Benedetto Giuseppe.47. Fiorino, Le officine….cit., p. 164. 48. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, Busta 354, c.c. Ciro Peluso.49. Bianchi, La follia…..cit., p. 78.50. Ivi. 51. AexOPRE, Incarti Militari, 1-15 settembre 1917, busta 354, c.c. Tozzi Michele. 52. AexOPRE, Incarti militari, 1-15 settembre 1917, busta 354, c.c. Lulli Giovanni. 53. Diversi studi ci raccontano anche di casi di internati che hanno manifestato apertamente il loro pacifismo, nella mia breve incursione all’archivio del San Lazzaro non ne ho trovati ma non è da escludere che un’analisi più approfondita possa farne emergere la presenza anche nella nostra realtà. Per questo rimando a Scartabellati, Dalle trincee… cit., p.52 e pp. 154-156; Bianchi, La follia…cit., p. 112.54. Fiorino, Le officine...cit., p. 155.

ti lasciai spasimare. […] Io amo il mondo, e la vita, la morte e la gloria, sento nel mio petto un cuore che pulsa e palpita di affetto per tutti, e intanto vado sempre più convincendomi di non poter più fuggire al soffio dell’affetto fraterno e solidale e mi glorio di essere quell’uomo che attraverso il soffrire e il benessere cerca il bene di tout le monde. Bacioni”52. Avviandomi a concludere, vorrei tornare sull’idea di partenza di questo intervento ovvero il nodo che lega le condizioni psico-fisiche di questi militati militari e ai sentimenti, le idee e i gesti riconducibili ad una generale opposizione alla guerra. Credo che gli episodi e le vicende riportate confermino l’idea che sia possibile intendere l’insieme delle reazioni fisiche e psicologiche che ebbero così tanti militari, come manifestazioni di un profondo – seppur intimo53 – rifiuto del contesto bellico e della società di guerra.

Ma non solo. Se per molti versi i medici dell’epoca videro nella malattia di queste persone il segno di una loro debolezza che si esplicitava in una carenza di volontà e una conseguente svalutazione del loro essere uomini, del loro essere umani, la prospettiva storica ci mostra invece come sia possibile interpretare questi atteggiamenti come l’espressione di un atto di volontà netto, di un rifiuto della guerra tale, da generare una manifestazione di resistenza così profonda da coinvolgere profondamente la mente e il corpo 54.

Saluti da Mario e FermoPer le spese militari l’austerity non esisteLe spese militari non conoscono austerità. All’interno del budget del ministero dello Sviluppo economico per il 2015, nel capitolo “Partecipazione al Patto atlantico e ai programmi europei aeronautici, navali, aerospaziali e di elettronica professionali”, sono stati stanziati 2 miliardi 800 milioni (200 milioni in più rispetto all’anno scorso) per i caccia Eurofighter e altri investimenti aeronautici (in totale 1,4 miliardi), per le fregate Fremm (778 milioni più 60 di mutui) e il programma di blindati Vbm.Nonché 140 milioni per il programma pluriennale da 6 miliardi per le nuove navi della Marina. Le organizzazioni Sbilanciamoci e Rete Disarmo hanno calcolato una spesa complessiva, per quest’anno, di 23 miliardi e mezzo.Dettaglio finale: il fondo per le missioni internazionali di pace, incrementato di 850 milioni (per 2015 e 2016), avrà un canale preferenziale. A differenza degli anni scorsi, infatti, i soldi arriveranno subito, senza bisogno dell’approvazione del Parlamento.

(L’espresso, 9 febbraio 2015)

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Una notte, in autostrada, in Val Susa....Tre compagne milanesi No Tav e un simpatico cane nero ieri notte, terminata l’assemblea del coordinamento Comitati in valle, rientravano verso il capoluogo lombardo. Casello di Torino, Falchera, posto di blocco della polizia. «No, no, no… dai che non fermano noi…».Paletta: fermano noi.«Documenti. Documenti del cane. Libretto. Ah, sì, signorina, mi dia anche la patente».E il collega: «Ha bevuto? Facciamo l’alcool test?».Facciamo l’alcool test. Negativo. Si chiudono in macchina, i due sbirri: controllo del terminale. Quasi pazientemente aspettiamo, in macchina, ché fa freddo. Aspettiamo 10 minuti, 15 minuti… alla fine 50 minuti ferme al casello e intanto le due volanti non fermano più nessuno. Almeno a qualcosa è utile la nostra attesa! Finalmente scende il capo, pieno di vanagloria da ometto in divisa si rivolge alla conducente: «Lei, è disponibile a seguirci a Torino, in un ospedale, per effettuare analisi antidroga?».Ehh??«Ma certo che no!».«Allora devo sequestrarle il veicolo».

Immaginate la scena: tre di notte, casello della tangenziale torinese, due volanti della polizia, quattro idioti in divisa, tre donne e un cane. Ne esce un’accesa discussione sul perché di questa ormai evidente provocazione. Uno spettacolo teatrale, teatro dell’assurdo, è chiaro.«Due di voi e il cane rimangono qui e lei viene con noi da sola in volante all’ospedale».«Ve lo scordate!». «Se non volete che la vostra amica venga da sola con noi chiamiamo un taxi per tutte e tre più il cane».«Va bene, paga la questura di Torino?». Al signor agente viene un dubbio… ritratta.Situazione di stallo.«Allora noi chiamiamo i nostri amici». E chiamiamo qualche compagno di Milano e di Torino… cosa che all’inizio rincuora i poliziotti incapaci di intendere e volere, ma un’ulteriore chiamata in questura per chissà quale accertamento fa accendere la lampadina del “ohi ohi qui se arrivano altri compagni delle tre si mette male”. Allora accettano la seguente proposta: guiderà l’auto un’altra delle tre compagne, diversa dalla conducente, che deve sottoporsi alle analisi.Notate bene che questo viene accettato su nostra garanzia verbale e senza ulteriore verifica di patente di guida della nuova conducente o accertamenti di alcooltest o altro, con due sbirri nel pallone più totale, ma cocciuti nel portare avanti gli ordini impartiti dalla questura.

Nel ribadire la solidarietà di Pollicino Gnus agli inquisiti No Tav, riportiamo qui sotto due articoli apparsi in rete in questo periodo su quanto sta accadendo nella Val di Susa.

Ora e sempre No TAV

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È il momento di togliere il velo e svelare l’arcano: «Siamo tre compagne No Tav e voi lo sapete che stiamo subendo tutto questo perché gli ordini che vi hanno impartito hanno questa causa». Da quel momento uno dei due sbirri, nonostante le paroline non sempre gentili che gli verranno rivolte nell’arco della nottata, non proferirà praticamente più verbo e il suo sguardo rimarrà goffamente fisso in basso. Pronto soccorso di un ospedale torinese nei pressi di corso Giulio Cesare, alle tre e mezza della notte, con alcuni compagni venuti a tenerci compagnia. La nostra compagna di sventura viene fatta entrare in codice verde, ma con la via preferenziale, davanti a malati, incidentati, feriti presenti in sala d’aspetto, per analisi del sangue e delle urine, pagate dalla questura di Torino. Il piantone muto rimane a far guardia silenziosa al gruppetto di compagni e amici a quattro zampe in attesa che finisca la pantomima. Il personale dell’ospedale è basito e sorpreso; qualcuno, in una pausa sigaretta, ci dice: «Mi dispiace, pensate che ho dovuto togliere l’adesivo No Tav altrimenti la polizia mi fermava sempre».Nel laboratorio delle analisi, un’attonita dottoressa, spiega allo sbirro che lei le analisi le può anche fare, ma di solito la procedura è differente. «E poi, lo sa che le analisi che faremo non avranno valore legale? Per avere quelle utili ci vorrà una settimana…». Non importa. Il solerte agente ribadisce solo: «Drug test».E facciamo queste analisi! E anche il drug test è negativo.Sconfortato, ormai, il povero sbirro fa la richiesta che lo seppellirà di ridicolo: «Almeno posso portare con me, come prova, il campione delle urine?».Sguardo basito della dottoressa. «Se vuole, ma le ho detto che non ha valore legale?».Non importa, lui vuole il tampone delle urine e se lo porta appresso tutto fiero in un sacchettino, seguito da un codazzo di persone che gli ricorda quanto sia feticista e guardone.

Prima di sgommare, coperti di vergogna, i due sbirri, rilasciano a due di noi un avviso di comparizione: «Da terminale risulta che bisogna notificare degli atti giudiziari e fare accertamenti. Presentatevi entro il 21 gennaio a Torino per ritirarli». Cinque di mattina, si torna a Milano e si traggono, ridendo, le seguenti conclusioni:- se sei No Tav e vieni fermato a un posto di blocco, hai le analisi del sangue e delle urine pagate dalla questura di Torino e salti pure la fila. Ma questo, attenzione, vale solo per il conducente.- un posto di blocco, all’uscita del casello della tangenziale torinese per barriera Milano e in più svincolo direzione Milano… mhm… a quell’ora, dopo un assemblea di coordinamento dei comitati No Tav in valle… mhm… è una bella rete per chi vuole pescare pesci che nuotano controcorrente- visto che da terminale risultava necessario notificare a due di noi degli atti… perché invece delle analisi ospedaliere non portarci in questura per le notifiche? Forse si sarebbe creato troppo casino alla notizia notturna? Magari volevano approfittarne per logorarci un po’ i nervi… in tal caso facciano attenzione ai loro: i nostri godono di ottima salute e sono abituati ad una buona e caparbia resistenza.- un amarcord: le stesse tre più cane, all’indomani degli arresti (9 dicembre 2013) di Mattia, Chiara, Niccolò e Claudio, furono fermate a un altro posto di blocco torinese, quella volta messo all’uscita dal casello autostradale di Chivasso. Allora, si arrivava da Milano, direzione Torino, e si era in modo palese attese. Finimmo in una caserma dei carabinieri per altro tipo di accertamenti: perquisizioni personali, perquisizioni degli oggetti in nostro possesso e dell’auto, rilasciate molte ore dopo con un pugno di mosche in mano per la questura torinese e attraverso la voce di chi ubbidisce agli ordini ci fu detto: «ci dicono che voi dite che la polizia nei Cie stupra e per questo vi portiamo dai carabinieri». La certezza è che continueremo a dirlo.

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13 gennaio

1914perché uccisero

Joe Hill

Mezzo Tunnel...L’Italia rinuncia a parte della Torino-Lione. Il Governo propone all’UE solo mezzo tunnel.Da: www.notav.info, 22 gennaio 2015

Pensavo fosse un treno invece è un calesse. Forse Massimo Troisi commenterebbe così l’incontro dei Sindaci della ValSusa con il Ministro delle Infrastrutture, questo pomeriggio a Roma. Svaniti i fumi della retorica governativa, resta solo la nuda sostanza. “La Tav si farà. O forse no.”. Ma andiamo con ordine.

Francia e Italia fanno la Tav solo nella speranza di acchiappare i soldi europei, è notorio. Non sono le uniche, molti progetti hanno la stessa ambizione. L’Europa ha sempre meno soldi per il gioco delle grandi opere. Tutto questo è arcinoto da tempo. Eppure, a dispetto di ogni logica, i governi Italiano e francese hanno continuato pervicacemente ad affermare la loro decisione di realizzare il Tunnel di Base della Torino-Lione.

Fino ad oggi. Davanti ad oltre 20 amministratori valsusini, Lupi e Virano hanno dovuto gettare la maschera. I soldi

non bastano. I finanziamenti disponibili nel settennato 2014-2020 (ovvero il mandato della Commissione Juncker) non saranno sufficienti a realizzare la tratta transfrontaliera della Parte Internazionale della Torino-Lione; in altri termini, per fare il Tunnel di Base.Quindi che si fa? Ecco la soluzione. Metà soldi? Metà tunnel! Basta trasformare la madre di tutte le grandi opere in uno spezzatino. Da “gustare” un boccone alla volta, nei secoli. L’opera infinita, sul modello della Salerno - Reggio Calabria. Perché la verità è che l’opera serve a spendere: un paradiso degli appalti con un brulicare di cantierini. Poi, al prossimo giro, dopo il 2020, si vedrà. Magari l’Europa offrirà altri soldi, oppure no. Nessuno può saperlo. A Lione non ci andremo mai? E chissenefrega.

Si sapeva già? Forse. Ma non lo ammetteva nessuno. Oggi i mandarini del Ministero non hanno più potuto fare la manfrina e l’hanno detta tutta, senza filtro.I francesi hanno già rinunciato alla loro tratta nazionale; per quella in territorio italiano non c’è nemmeno un euro. Ora il Tunnel a metà. Ormai è chiaro: la Torino-Lione non esiste più.

a/c di Daniele Barbieridanielebarbieri.wordpress.coms c o r -

d a t e Ora e sempre NOTAV

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13 gennaio

1914perché uccisero

Joe Hill

Lo arrestano – il 13 gennaio del 1914 appunto – per l’omicidio di un negoziante e viene processato su base indiziaria. Eppure Joe Hill quasi non si difende in tribunale forse perché rassegnato alla (in)giustizia di classe, forse perché – ipotizza qualcuno – in una difficile situazione: conosce gli assassini ma sono anche loro negli Iww e non vuole tradirli. Non ci sono prove eppure è condannato a morte. Parte una mobilitazione internazionale ma tutto è inutile: i padroni avevano deciso di eliminare a ogni costo i militanti più noti degli Iww e lo fecero, a volte con i tribunali in processi-farsa e altre negli scontri in piazza dove le loro “milizie” si presentavano armate o addirittura con esecuzioni mirate.

Il testamento politico di Joe Hill è degno della sua vita. Scrive e ripete prima di essere ucciso: “Don’t mourn for me: organize!” (Non piangetemi: organizzatevi!).E la sua memoria non si è persa. Nel 1969 Joan Baez, al festival di Woodstock, gli dedica “I Dreamed I Saw Joe Hill Last Night” (cantata anche da Paul Robeson, da Pete Seeger e altre/i). Nel 1971 il film “Joe Hill”, diretto dallo svedese Bo Widerberg, vince il premio della giuria al festival di Cannes. Ma soprattutto nei picchetti, anche oggi, c’è sempre negli Usa qualcuna/o che – rivolto a chi non partecipa allo sciopero – gli sussurra o gli canticchia: “Casey Jones, angelo del cielo / Casey Jones vola a testa in giù”.

Casey Jones è un macchinista crumiro. Quando i ferrovieri scioperano compatti lui è sempre lì a lavorare per maggior profitto del padrone e per indebolire i suoi compagni. Tutti lo odiano ma Casey Jones non molla, “ha una marcia in più”. Un giorno però il suo treno finisce fuori binario: un normale incidente per mancanza di sicurezza oppure una mano arrabbiata contro i crumiri; chissà. Casey Jones vola in paradiso ma anche lì le cose non vanno bene: gli angeli scendono in sciopero e anche stavolta Casey Jones fa il crumiro. Finché… lo buttano giù pure dalle nuvolette. Questa è una delle tante canzoni di Joe Hill, orecchiabile e su un ritmo travolgente: ancora oggi, 100 anni dopo, viene cantata nei cortei o negli scioperi (che i media rendono invisibili eppure ci sono) degli Stati Uniti.

Il 13 gennaio 1914 Casey Jones viene arrestato. Lo vogliono morto e così sarà. Era nato in Svezia, il padre era un ferroviere. Il suo vero nome era Joel Emmanuel Hägglund che poi – nel 1902 emigrò negli Usa – cambierà in Joseph Hillström e abbrevierà in Joe Hill (che suona quasi come Joel). Dietro il cambio di nome forse le prime denunce e persecuzioni politiche successive al 1905, alla sua militanza. È stato con Woody Guthrie (del quale si è spesso parlato in codesto blog) il più grande cantautore operaio oltre che militante,

agitatore, sindacalista. Ma del sindacato “orizzontale”, gli Iww cioè gli Industrial Workers of the World, i celebri Wobblies, che – contrariamente alla tradizione del sindacato negli Usa – vollero e seppero organizzare gente di ogni mestiere, razza e colore (al proposito consiglio i due romanzi di Evangelisti: Su “One Big Union” di Valerio Evangelisti trovate la recensione del secondo).

Quando cantava la rabbia (ma anche l’allegria) proletaria, Joe Hill sapeva di cosa parlava: era stato minatore, spaccalegna, operaio, scaricatore di porto. E a ogni crisi diventava hobo, cioè un vagabondo, viaggiando da clandestino sui treni merci (al riguardo consiglio il film “L’imperatore del nord” anche se si riferisce a un periodo storico successivo) e vivendo in accampamenti- a volte organizzatissimi, più spesso no – di senza casa. Su quei treni “illegali” Joe Hill attraversò l’America, per cercare lavoro ma anche per organizzare chi veniva sfruttato.Intanto scriveva canzoni che divennero famose negli Usa e poi in mezzo mondo: “Rebel Girl”, “The Preacher and the Slave” e appunto “Casey Jones”. Oggi a chi è giovane e non sa quasi nulla degli “altri” Stati Uniti, Casey Jones è ignoto (o conosciuto solo per essere un personaggio delle Tartarughe Ninja) ma negli Usa è quasi proverbiale: un giuda per 30 denari, traditore della sua classe.

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Uno zoo per umani, ma senza erba né alberi né rocce come quelli che oggi sono concessi ai non umani. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre d’acciaio che delimita e suddivide gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, fanno qualche passo nel corridoio centrale, anch’esso cintato da barriere. Le gabbie per animali rari che la Francia inventò in pieno Terrore, negli anni ‘90 del Settecento, erano proprio così – loculi e inferriate – solo che col tempo per le bestie andò un po’ meglio. Tutto resta invece grigio-ferro, qui a Ponte Galeria: le sbarre di recinzione, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori.

Il CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria, sobborgo di Roma, non finge nulla, anche se qualcuno forse ha ripulito alla meglio i cessi in occasione della visita di controllo dell’europarlamentare. L’osceno si disvela subito per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola col permesso di soggiorno, richiedenti asilo, stranieri che hanno scontato una pena carceraria ma sono senza documenti, ammucchiati e confusi gli uni con gli altri. L’Italia e l’Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore né memoria d’alcun genere, anche se non

senza frapporre ostacoli a chi viene da fuori – autorità parlamentari o associazioni della società civile che vogliono indagare, capire, denunciare.

Il venerdì 19 dicembre ero lì, in missione ufficiale come eurodeputata, accompagnata dalla mia assistente e portavoce Daniela Padoan e da una delegazione composta di amici difensori dei migranti e dei loro diritti. I gestori di Ponte Galeria avevano il dovere di aprirmi i cancelli, perché l’accesso non può esser vietato a un parlamentare e al suo assistente. Ma fin dall’inizio avevo chiesto di entrare con una delegazione, perché assieme ad essa avevo preparato la visita. Sono entrate, ma di straforo, solo l’avvocato Alessandra Ballerini, Gabriella Guido responsabile della campagna LasciateCIEntrare e Marta Bonafoni, consigliere regionale del Lazio. Gli altri sono stati tenuti fuori dai cancelli, per strada, e non perché il viceprefetto avesse dato ordini in tal senso. Il viceprefetto responsabile del CIE mi aveva personalmente dato il consenso, appena arrivata, ma la Questura ha messo il veto. L’organo inferiore ha scavalcato il superiore, abusivamente. Così gran parte degli amici sono restati fuori: l’antropologa Annamaria Rivera, Stefano Galieni responsabile nazionale immigrazione del Prc, Antonello Ciervo avvocato dell’Asgi (Associazione studi

a/c della Redazionei t a l i a n i b r a v a g e n t e

Unozooperumani

Il resoconto dell’on. Barbara Spinelli dal CIE di Ponte Galeria19 dicembre 2014

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gestione precedente hanno graffiato non si sa quando.

Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini e a destra le donne: qui s’accampa la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati (questo giorno di visita è un avvenimento)… chi sta aggrappato per la precisione, e come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi e delle forze d’ordine tentenna e scivola come fosse liquido, senza arrivare a solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o addirittura “utenti”, o “ospiti”; molto più di rado trattenuti. Capita anche che mettano in fila i due attributi: “detenuti-cioè-mi-scusi-trattenuti”. Annamaria Rivera, che aspetta inutilmente fuori dall’edificio, mi scriverà una email, dopo la visita: “Abbiamo discusso vivacemente con due gestori. Di loro, mi hanno impressionata, tra le altre cose, l’ideologia e il lessico da ‘banalità del male’: uno definiva gli internati “utenti” e affermava che erano lì, i custodi, per dovere civile, cioè per migliorare il “servizio””.

Prima di entrare nei recinti, chiedo ai custodi: “Si può parlare con loro?” – “Un momento, i capibanda per ora non ci sono, magari sono a mensa” – “I capibanda?”. Sì, i capibanda. Così vengono interpellati e descritti i rappresentanti dei detenuti. Il lessico di Ponte Galeria è impastato di parole prese in prestito dal crimine,

dalla malavita. “Comunque vi consigliamo vivamente di non entrare, sono molto agitati. Sono pericolosi.” Da lunedì mattina 15 dicembre il Centro è nelle mani di un nuovo ente, l’agenzia francese Gepsa, specializzata in amministrazione carceraria. L’agenzia ha vinto la gara perché il capitolato che ha presentato prevede tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: è un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel CIE: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, kit con spazzolino da denti e dentifricio per i nuovi arrivati, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono che ci vorrà del tempo, che qualche grave “inconveniente” sarà superato.

Ma nelle grandi linee le norme sono le stesse: questo è il regno del diritto emergenziale permanente, e nessuna miglioria cambia i dati di fatto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che le inghiottiscano e finiscano in ambulatorio. Non possono avere carta da scrivere, per motivi che non riescono a delucidare anche se chiedi molto. Hanno il telefonino, e tra noi visitatori e loro c’è un fitto scambiarsi di numeri, ma la connessione internet è preclusa. Non hanno accesso ai giornali. Nelle camerate in un angolo per terra è acceso un piccolo televisore, ma chissà quel che possono vedere e in che ore. I gestori smentiscono, ma tutti i detenuti

giuridici sull’immigrazione), Cinzia Greco attivista della campagna LasciateCIEentrare, l’avvocato Flavio Del Soldato, il giornalista Giacomo Zandonini. Solo nella seconda parte della visita ho temporaneamente lasciato l’edificio e vi sono rientrata riuscendo a farmi accompagnare da Giovanni Maria Bellu, direttore del giornale Left e presidente dell’associazione Carta di Roma.

Con Daniela Padoan e i pochi con cui sono entrata ho visto l’orrore del CIE romano, simile a quello di tanti CIE in Italia. Il Centro di Ponte Galeria ha sede nella periferia sud ovest della capitale, in una caserma, la Gelsomini, dove nel 2001 si addestrarono gli agenti della celere inviati a Genova per eseguire la macelleria messicana del G8. Fu ancora qui, nel dicembre 2013 e nel luglio 2014, che una decina di migranti si cucì le labbra: un segno di protesta estrema. Fuori dai cancelli, volanti e blindati delle forze d’ordine; oltre il cancello un cortile, ed eccomi nello spettrale caseggiato del CIE: un corridoio dove si susseguono alcune stanze, adibite via via agli incontri con i parenti, ai colloqui con i legali che convalidano le detenzioni ed espulsioni dei reietti, poi l’ambulatorio medico, poi la stanza dello psichiatra che però non c’è – per il momento è stato licenziato perché impiegato dalla vecchia gestione – infine il bagno del personale, le pareti costellate di scritte ingiuriose che gli impiegati della

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con cui parlo sono esasperati perché di notte le luci al neon sul soffitto sono ininterrottamente accese, e addormentarsi è difficile se non impossibile. Di qui – anche – l’alto uso di sonniferi. Ricorrente è anche la somministrazione di anti-epilettici o, per i tossicodipendenti, di metadone. Le tensioni si alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano più o meno numerose le forze d’ordine, manganelli bene in vista e grosse pistole alla cinta. La struttura contiene al momento 98 reclusi (76 uomini e 22 donne).

Entriamo a questo punto nelle camerate, dove ci sono otto o dieci letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori, nel cortile recintato: il riscaldamento funziona a intermittenza, mi dicono, sempre che funzioni. I reclusi mi fanno vedere le poche cose che ricevono: lenzuola di carta che subito si sbrindellano sopra il materasso (“non ce le danno di stoffa perché temono che le attorcigliamo e le trasformiamo in corde”), e sopra una coperta militare marrone. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. La maggior parte calza ciabatte o sandali infradito di gomma, anche se fa parecchio freddo. Sono vietati i lacci, se hai le scarpe. Un detenuto ride dell’ordine insensato: i lacci no, ma uno spago che funge da cintura per i pantaloni troppo larghi, “quello sì

lo possiamo portare ed eventualmente impiccarci”.

Tutti sono angosciati dall’igiene: sono giorni che non ricevono sapone né dentifricio, che non possono andare alla “barberia” (da soli non possono usare lamette e rasoi). Si vergognano molto di quest’incuria e delle barbe non fatte. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: “Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo”. Sono angosciati anche dai gatti che circolano tra il fuori e il dentro le inferriate: “Vorremmo tanto dar loro da mangiare, ma non ne abbiamo la possibilità e allora chi ci pensa ai gatti?”.

Resto dentro il recinto sei o sette ore, ma quando ne esco ho l’impressione sia passato un anno. A che scopo son qui? Dico loro che in Europa mi batto contro i CIE, per i corridoi umanitari che legalizzino le fughe verso il nostro continente, per il riconoscimento reciproco del diritto d’asilo nell’Unione, per l’annullamento della Bossi-Fini. E per la revisione o l’abolizione dell’assurdo regolamento di Dublino, che obbliga i profughi a chiedere asilo nel primo Paese dove approdano, anche se non vorrebbero affatto restare in Italia ma andare in Svezia o Germania: lì l’integrazione sociale funziona, mentre in Italia nulla è garantito se non questi indecenti Centri. I relegati sono felici di parlare con un parlamentare. “Onorevole

Onorevole”, dicono a ogni piè sospinto, poi fortunatamente cominciano a chiamarmi per nome: Barbara. Ma continueranno a esser così eccitati e speranzosi quando la delegazione se ne sarà andata e li avremo lasciati lì, a passare altre notti senza sonno sotto il biancore del neon?

Tutti i buoni propositi di un parlamentare europeo vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica e disperazione semisorridente, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire da quest’inferno, in cui precipitano inspiegabilmente tutti, incensurati e non; avere informazioni precise (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte sono fuori Italia, a volte abitano qui vicino, a Roma stessa; poter usufruire di assistenza vera (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che le leggi europee almeno sulla carta vietano, il rimpatrio in Paesi dove sta in agguato la morte. Un pakistano, M.M., mi afferra le due mani, a mo’ di preghiera: è cristiano, teme di essere rispedito in Pakistan dove “di sicuro mi ammazzeranno”. Parlo anche con un recluso del Ghana che probabilmente è uno dei “capibanda”, con un colombiano mitissimo e con una strana pazienza, con il tunisino I.B. che mi dà il numero del suo cellulare, con l’egiziano M.A.: invariabilmente implorano aiuti

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concreti e immediati che non posso dare e tutti dicono: “Non ci dimentichi”. Nessuno mi chiede soldi. C’è un ex pregiudicato, S.G. Ha scontato una pena a Rebibbia e poi a sorpresa si è ritrovato qui: scrive romanzi e poesie, e ha vinto numerosi premi letterari. Ha studiato e si è messo alla scrittura in carcere. Molti hanno conosciuto lo stesso tragitto: la prigione (il più delle volte per spaccio o taccheggi), la pena scontata fino all’ultimo giorno, per poi ricadere inaspettatamente in questo Lager. I più domandano e ridomandano Perché. Datemi una ragione. Non capisco. Corrono in camerata e ti portano a vedere foglietti ormai sbrindellati che riportano le loro richieste di permesso di soggiorno. Molti sono nati in Italia, ma come sappiamo non hanno diritto alcuno perché da noi vige la legge tribale del sangue.

Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l’impressione che fosse un tempo sterminato, che t’invecchia rapido. Ero senza più parole. Infinitamente sconsolata. Ci si continuerà a battere per loro, questo è vero. Anzi è più vero che mai. Ma con quale prospettiva di essere ascoltati dalle autorità nazionali ed europee, di obbligarle a guardare in faccia quello che abbiamo visto?

Una cosa so: quale che sia la nostra azione, nel Parlamento dell’Unione europea e nelle associazioni, so che tutti ci stiamo macchiando di un misfatto di enormi proporzioni. È come se visitando i Centri ti spuntasse sulla pelle un marchio, una voglia: il marchio della colpa. Perché questo zoo per umani l’abbiamo fabbricato noi italiani, noi europei. Perché lo definiamo inaccettabile, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all’ultimo istante – insopportabile – in cui incroci i loro sguardi prima di partire. Ma lo sappiamo, gli amici con cui sono venuta e io: nello stesso istante in cui pronunci la parola “inaccettabile”, e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato quello che hai visto, quello che ha ferito i tuoi occhi. Già sei sceso a patti con il tremendo.

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a/c di Romano Giuffridas p r o l o q u i razionali facciano parte di quella grande

mistificazione mediatica nella quale siamo tutti immersi (ovviamente generalizzando), al punto tale da non accorgerci di quanto il Sistema utilizzi da sempre lo sproloquio per imporci il suo dominio.Narrando le “sue” verità, il Sistema rigenera se stesso e (grazie anche all’acquiescenza dei più che si “bevono” tutto senza filtri critici),costruisce giorno dopo giorno la realtà fittizia più consona al suo funzionamento.

Un esempio ormai paradigmatico di quanto il Potere (inteso nella sua accezione più ampia ossia finanziario, economico, militare e politico) governi, o tenti di governare, le parole e i loro significati, ce lo offre la famosa locuzione “guerra umanitaria” che dai tempi della prima Guerra del Golfo (1991) viene usata per trasformare, nell’immaginario collettivo, l’intervento militare in una sorta di soccorso che gli eserciti, quasi fossero gruppi scoutistici con il “cuore in mano”, portano alle popolazioni colpite da qualche flagello nemico. Ci sarebbe da ridere di fronte alla farneticazione denunciata dall’ossimoro “guerra umanitaria”, immaginabile, per chi ha un minimo di neuroni e sinapsi funzionanti, solo come sproloquio, appunto, conseguente magari ad abuso di alcol o di sostanze (pesanti). Ci sarebbe da ridere, ma non c’è: parafrasando un attore d’altri tempi, questa è l’ideologia (del capitale) bellezza! Nel senso che, in tempi di buonismo, di pacifismo parolaio, di “volemose bene” in stile G8, G20 o da talk show domenicale, la guerra, (ossia, come

spiegano i vocabolari, gli “atti ostili fra due o più stati, o popoli con il ricorso alle armi”) viene presentata come una scelta da barbari, da “stati canaglia” – secondo la sagace locuzione usata degli ex-presidenti USA Reagan e Bush, George I e George II – ai quali gli Stati “civili” si oppongono, sempre con la guerra ma, appunto, umanitaria, qualcosa di buono cioè, da intendere come il “braccio armato da Dio” delle organizzazioni come Emergency, Medici senza frontiere, ecc. Che poi quelle neo-crociate si impongano per il dominio di territori, di petrolio, di uranio e di qualsiasi altra ricchezza saccheggiabile, non viene detto.

Così come non si parla di torture, di stupri e di furti ai “danni del nemico” o di chi lo sostiene: la foto di rito mostrerà sempre i militari umanitari, armati fino ai denti, ma sorridenti e attorniati da bambini e bambine altrettanto sorridenti e felici per l’arrivo del neo-Settimo cavalleggeri in versione Star Wars. Guai a opporsi a una “guerra umanitaria”: si è “vigliacchi”, “traditori”, “amici del nemico”, in poche parole “disumani” in quanto contrari al gesto umanitario di soccorso. A volte tra le righe, altre volte in maniera esplicita, è questo il messaggio del discorso “ufficiale”: in quanti, imbevuti da mattina a sera dal mainstream mediatico lo fanno proprio?Un’altra locuzione, più recente, “Imprenditori eroi del nostro tempo”, anche se linguisticamente meno studiata e ricercata della precedente (bisogna essere copywriters preparati per inventarsi “guerra umanitaria”,

Sproloqui Romano Giuffrida, nostro collaboratore già da diversi anni, curerà, a partire da questo mese, una nuova rubrica, “Sproloqui”, che lui stesso presenta in questo primo articolo e che sostituirà così la sua precedente “Caratteri scomposti”

Il verbo “sproloquiare” non ha certo un significato positivo: basta andare a leggere i suoi sinonimi (blaterare, farneticare, vaneggiare, ecc.), per comprendere quanto il suo utilizzo sia esclusivamente dispregiativo. Sproloquiare significa, infatti, allontanarsi dal discorso sensato, quello, per intenderci, che con Socrate, Platone e Aristotele, fa riferimento al valore razionale del logos che, nel suo significato originario, unisce parola, discorso e ragione.Per quale motivo, allora, ho deciso di intitolare questa rubrica “Sproloqui”? Per dar libero sfogo a miei blateramenti, vaneggiamenti, farneticazioni, deliri in forma di parole stampate?No. La mia scelta nasce dal fatto che gran parte dei discorsi che ci “girano intorno” e che ci vengono spacciati come sensati, logici,

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lo si deve riconoscere), offre comunque un ulteriore esempio di come lo sproloquio ossia il cianciare inconcludente e, soprattutto, senza alcun legame con la lettura razionale della realtà, venga eletto a senso comune. L’Enciclopedia on line Treccani, alla parola “eroe” fa seguire il seguente significato: “Essere semidivino, al quale si attribuiscono gesta prodigiose a favore del gruppo che lo riconosce come tale [...] Agisce come un demiurgo, per esempio dando forma al paesaggio, creando fiumi o pozze d’acqua; un ordinatore del mondo, capace di trasmettere agli esseri umani conoscenze, arti [...] tecniche, istituzioni sociali, riti di iniziazione”.

Al di là dell’aggettivo “semidivino”, retaggio delle antiche culture mitologiche cui rimanda il termine “eroe” (anche se un imprenditore italiano “obbligato” alla politica per alcuni problemi di carattere giudiziario – mistificati per il “grande pubblico” nel desiderio di scendere in campo per salvare il Paese, altro esempio degli sproloqui fatti passare come discorsi seri e sensati –, in tempi nemmeno molto lontani dai nostri, sostenne di essere più o meno in “missione per conto di Dio” come Jake e Elwood, i mitici – loro sì – Blues Brothers), la spiegazione della più famosa enciclopedia italiana offre spunti di ilarità e riflessione, soprattutto alla luce dei più recenti eventi balzati al “disonore” delle cronache. Come non associare “le gesta prodigiose a favore del gruppo che lo riconosce come tale” ai fiumi di mazzette che sono la linfa vitale della corruzione da nord a sud e da

est a ovest del Pianeta Capitalismo e che, appunto, nel solito gioco del “do ut des” sostengono imprenditori e politici? Oppure, come non associare il riferimento al demiurgo che dà forma al paesaggio creando fiumi o pozze d’acqua con lo sconvolgimento del territorio operato dalla cementificazione, dall’inquinamento, dall’incuria e di cui le recenti alluvioni hanno mostrato, com’era evidente, l’origine nel connubio ormai strutturale tra crimine e profitto? Per non parlare poi del senso di fastidio (soggettivo, d’accordo), nello scorgere tra le righe di un’affermazione simile, un certo nonsoché di spregevole sarcasmo nei confronti di chi, nonostante questa classe imprenditoriale e nonostante questa classe politica, ogni giorno lavora non solo per uno stipendio (per molti oltretutto “da fame” a fronte dei profitti milionari degli eroi), ma cercando di essere altro e di costruire altro da ciò che sono e da ciò che fanno sfruttatori, schiavisti, truffatori, esportatori di capitali all’estero, in poche parole (anche in questo caso, generalizzando): gli eroi del nostro tempo.

La domanda sorge spontanea: chi sproloquia? Chi con il dito indica che il re è nudo o il re?Ecco, nelle poche righe di questa rubrica mi piacerebbe, di tanto in tanto, riuscire ad invertire il senso delle cose: mostrare lo sproloquio mascherato nelle parole del Potere e la molta razionalità che c’è in ciò che il Potere considera invece “sproloquio”. Per questo motivo e in questo contesto di “falso generalizzato”, di balle colossali regalate

a piene mani, di discorsi “seri e seriosi” che spesso spingono al riso (amaro però) come le vecchie comiche di un tempo, mi schiero con ciò che il Sistema giudica sproloqui: da qui la scelta d’intitolare così la rubrica. Insieme a chi avrà voglia di segnalarmi qualche “sproloquio ufficiale” spacciato per verità incontestabile, e ricordando così anche il ventesimo anniversario della scomparsa del filosofo Guy Debord (morto il 30 novembre del 1994 a sessantatré anni), mi piacerebbe insomma tentare di mostrare, attraverso la “lettura” di ciò che ci viene “venduto” come senso logico affidandoci il compito di trasformarlo in senso comune, quanto “il solo fatto di essere ormai indiscutibile ha fornito al falso una qualità del tutto nuova” grazie all’informazione “che ritorna continuamente su una lista brevissima di inezie sempre uguali, annunciate con passione come notizie importanti; mentre le notizie veramente importanti, su ciò che effettivamente cambia, passano solo di rado e brevi baleni” e arrivare così a stimolare qualche pensiero in più sul fatto che “il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano” (G. Debord – Commentari sulla società dello spettacolo, 1988).

Per chi volesse segnalarmi “sproloqui ufficiali”: [email protected]

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…tanti ci diranno, magari un po’ scocciati, “ma voi siete sempre contro a tutto!”, “non vi va mai bene niente”, “cercate sempre il pelo nell’uovo”, … ebbene forse proprio contro a “tutto” no, ma a “tanto” sì... ecco comunque perché Pollicino è NO-EXPO e aderisce al “Laboratorio No-Expo - per la città che vogliamo” che sta muovendo i suoi primi passi a Reggio Emilia.

Perché il modello di sviluppo del territorio di EXPO è quello solito del grande evento e della grande opera, che privatizza gli utili, le opportunità e i processi decisionali mentre socializza il debito, i costi sociali e i rischi ambientali, a cominciare dal consumo di suolo e dalla distruzione del territorio, alla faccia della tanto sbandierata “green economy”.

Perché EXPO si fonda sul lavoro gratuito e la precarietà come condizione normalizzata: 18.000 giovani sono reclutati per lavorare “volontariamente” gratis a servizio di un evento profit che riempirà le solite tasche.

Perché, dietro il paravento dello slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita” si cela l’ipocrisia dello sdoganamento degli OGM e delle pratiche economiche del più spinto neoliberismo con la presenza in prima fila di Monsanto, Nestlé, Mc Donalds, Coca Cola...

Perché l’EXPO è un acceleratore di quel meccanismo predatorio che ormai impera in tutta Italia e la sua cornice è quel capitalismo finanziario onnivoro che mangia territori e diritti scaricandone i costi

sulla collettività: pensiamo al Comune di Torino diventato il più indebitato d’Italia in seguito alle olimpiadi invernali, pensiamo al fatto che l’Italia ha finito di pagare i debiti per “Italia 90” solo poco tempo fa, pensiamo ai numerosi scandali che hanno toccato altri grandi eventi (il Mose a Venezia per esempio) senza scalfire minimamente quelle imprese costruttrici che sono tutte presenti anche all’Expo...

Perché, come per tutti i grandi eventi e le grandi opere, anche per l’EXPO l’opera di criminalizzazione del dissenso e di repressione dei movimenti sociali sarà grande, ed è già cominciata.

Perché questo dell’EXPO è l’ennesimo tentativo di espropriarci dei temi di cui ci occupiamo da sempre: il diritto al (buon) cibo, le filiere produttive, il rapporto produttori-consumatori, la relazione con la terra e l’ambiente ecc…Detto ciò, lungi da noi il voler fare i “bacchettoni” con chi, dall’interno dei nostri mondi alternativi e solidali, ha invece pensato sia meglio provare a partecipare a questo evento. Molte delle critiche che noi facciamo sono infatti condivise anche da chi ha deciso di “stare dentro”; diverge la conclusione operativa... ma quale sia la strada “migliore” lo si capirà forse in futuro.

Resta la convinzione che, anche in questo caso, la diversità fa ricchezza e, per noi di Pollicino, anche chi ha deciso di utilizzare questo grande evento per “agire il cambiamento dall’interno” resta un compagno di strada nella ricerca e nella costruzione di un altro mondo possibile, più equo e solidale.

Pollicino NOEXPO

Page 47: 233 - pollicino gnus · 2013 feb gen. 1 Sulle orme di Mario e Fermo 3 1914-18 5 Stringersi le mani da sorelle ... il 24 maggio. Molta di quella gioventù diventerà carne da macello

Stampato su carta riciclata dalla Tipografia San Martinocon inchiostri vegetali e matrici ecologiche prodotte senza bagni chimici

San Martino in Rio (RE) - tel. 0522 698968www.tipografiasanmartino.it

Il monografico è stato realizzato in collaborazione con il Seminario permanente Ma la guerra No!

al quale partecipano la Scuola di Pace di Reggio Emilia, il Centro di Documentazione Storica Villa Cougnet,

Istoreco, Pollicino Gnus e l'Anpi di Reggio Emilia.

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