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Ready4AfricaNews - ANNO III, N.9 Lunedì 25 LUGLIO 2011 Operazione Mathare ANNO III N.9 HAPA TUKO + LEO-MAJOR MATURIPERL’AFRICA NEWS READY4AFRICA 19 volontari Per 25 banchi Pagina 2 Lunga discussione Al ritorno Pagina 5 Operativi! 19 all’opera Pagina 3-4 Sister Assunta Intervista Pagina 6 Ammalarsi in Kenya Edoardo docet Pagina 7 L’aria di Nairobi Edoardo Pagina 8 Tempo di strudel Pagina 9 Ritratti per un viaggio Ultima parte Pagina 10

25 luglio

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aggiornamenti dal Kenya

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Ready4AfricaNews - ANNO III, N.9

Lunedì 25 LUGLIO 2011

Operazione Mathare

ANNO III N.9

HAPA TUKO+L E O - M A J O R

MATURIPERL’AFRICANEWSREADY4AFRICA

19 volontariPer 25 banchiPagina 2

Lunga discussioneAl ritornoPagina 5

Operativi!19 all’operaPagina 3-4

Sister AssuntaIntervistaPagina 6

Ammalarsi in KenyaEdoardo docetPagina 7

L’aria di NairobiEdoardoPagina 8

Tempo di strudelPagina 9

Ritratti per un viaggioUltima partePagina 10

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19 volontariPER 25 BANCHI

HAPA TUKO+L E O - M A J O R

Stamattina con la Claudia ad accompagnare a scuola le bambine. Arriviamo e lei distribuisce le arance per il break delle 10.30 A cinque no, in punizione: hanno parlato fino a tardi con la compagna in camerata, temo la nostra presenza le ecciti un po’ troppo. Torniamo indietro, è tempo di colazione e di preparare rapidamente quanto occorre per dare avvio all’operazione Banchi per Mathare. Daniele si occupa di pale picconi e della cassetta degli attrezzi, le ragazze di marmellate e caffè. Alle otto arriva anche Semplice che viene ad aiutarci e alle otto siamo operativi come preventivato. Edoardo è meno operativo. E’ da ieri sera che ha un paio di linee di febbre ed è un po’ mogio, ragion per cui lo dotiamo di computer, film, medicine, cellulare e lo lasciamo a dormire: meglio prevenire che curare dopo… In cinque minuti siamo al Kenyuatta Hospital ma sembriamo un gruppo di carpentieri in trasferta e la gente ci guarda un po’perplessa: uno ha in spalla il sacco delle pale, l’altro a tracolla due seghe: e le battute si sprecano con l’aiuto di certe omonimie. Ormai siamo dei dirottatori di matatu e non ci mettiamo molto a farci portare a destinazione senza cambi intermedi da un matatu di linea, di quelli da venticinque posti. In meno di una settimana siamo entrati perfettamente nello spirito keniano e non arretriamo neanche davanti alla corruzione. Philip è incredibilmente puntuale e ci troviamo alle otto e quaranta davanti all’ingresso dello slum, alla ormai mitica pompa di benzina che anticipa l’inferno, fermata Uadi. L’operazione Banchi può avere inizio: la squadra è sul posto, il progetto c’è, gli stanziamenti anche. Non resta che proceder all’acquisto del materiale e alla messa in opera.

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Fase uno acquisto legname: Si entra in un deposito a venti metri dal distributore e lo spazio ingombro di legname risulta incredibilmente grande in rapporto alle rivendite minuscole cui siamo abituati. Tre ragazzi stanno demolendo dei bancali perché qui si recupera tutto e credo che anche le assi che da noi vengono regolarmente eliminate dopo l’uso qui diventino materiale da costruzione. Si contratta un po’ poi ci scegliamo le tavole che ci servono alla fine sono tavoloni da tre metri di un legno che non saprei definire, pesantissime e tagliate al massimo l’altro ieri. A piantargli i chiodi letteralmente vedremo uscire l’acqua tanto sono ancora zuppe di linfa. Tagliate irregolari, il loro spessore oscilla fra due e quattro, ma per fare banchi andranno benissimo. Si misura a piedi, ci servono cinquanta pezzi e si forma in breve una catena umana di studenti neodiplomati che fa la spola come formiche dal magazzino a Why not. Si aggregano anche tre quattro studenti della scuola e in un quarto d’ora le tavole sono nel cantiere. Il venti e Daniele con il loro progettino organizzano i gruppi di lavoro: c’è chi sceglie le tavole per qualità, chi segna le misure, chi taglia con le seghe, chi inchioda il pezzo A e il pezzo B con il pezzo C1 in un puzzle che inquieta più di qualcuno meno pratico di carpenteria. Intanto una parte si dà da fare con picconi e rastrelli a raddrizzare certi dossi che occupano il campo davanti alla scuola per trasformarlo in un campo di calcetto. L’impresa si rivela improba come si era immaginato perché l’immondizia non sta solo in superficie ma per qualche metro è così: tiri un pezzo di plastica che sporge e ti viene su un sacco intero. Non sai neanche bene cosa può contenere, ed è meglio che non lo immagini neanche. Da una parte c’è un cumulo enorme di immondizia coperta di terra. Dovremmo metterla nei sacchi ma ne

occuperemmo almeno quindici e qualcuno della scuola ci propone di bruciarla. Il nostro animo di occidentali ecologisti si ribella ma alla fine dobbiamo cedere: per oggi ci limitiamo a stendere tutta questa schifezza in modo che si asciughi bene, domani procederemo all’auto da fè, al falò epifanico che dovrebbe ridare dignità di campo a questo mucchio di schifezza… La diossina raggiungerà livelli di guardia ma qui non si va tanto per il sottile. Ed ecco che di nuovo ci adeguiamo a ritmo senza nemmeno accorgerci.I banchi intanto procedono e dopo un paio d’ore di tagli e misure proviamo con i prototipo, anche per dare soddisfazione e nuovo stimolo ed entusiasmo agli scettici manovali della catena di montaggio. Se al pezzo A + B + C assembli piano e seduta, ovvero D + E e rinforzi il tutto con opportuno elemento F eccoti davanti il banco finito. Pesantissimo, ancora gonfio d’acqua come appena uscito dalla foresta ma pur sempre banco vivaddio. E in confronto alle schifezze senza sesto che vediamo nelle aule possiamo perfino definirlo un signor banco. Una piallata qua, a smussare gli spigoli (perché siamo dotati anche di pialla, non sia mai), una task force di disoccupati armati di carta vetrata a spianare almeno il piano d’appoggio e voilà, il banco è pronto. Intanto nelle classi continuano a fere lezione, oggi non credo i risultati siano felicissimi in termini di attenzione visto il caos di martelli e seghe che c’è fuori. Alla ricreazione il cantiere è invaso di bimbi allegri che si siedono attorno ai mzungu martellatori e ai segaioli: stanno appiccicati a rischio di prendersi una martellata come se non avessero mai visto niente di simile, le ragazze si distraggono e ne vedo più di una mettere già il martello per coccolarsi un bambino vestito di stracci e col nasco che cola moccio: a vederle nei corridoi del liceo non avresti mai detto, ma vuoi

Operativi!

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l’ACR, vuoi gli scout vuoi i punti verdi, vuoi lo slum e l’aria africana hanno fatto miracoli. La sosta dura mezz’ora, noi continuiamo e tre quattro dei più grandi si offre perfino di aiutarci a rastrellare l’immondizia. Poi rientrano, ritorna la pace e il lavoro riparte spedito. Preso dalla foga come sempre continuerei a segare e piantar chiodi per ore ma decido che devo mettere da parte per oggi la mia smania operativa per puntare sulla didattica: segno di vecchiaia o di maturità sarà da decidere. Mi metto a spiegare alle giovani pulzelle l’uso della sega, della squadra e del martello con risultati inizialmente preoccupanti: hanno paura che i chiodi si facciano male, battono con una delicatezza tutta femminea che quanto a risultati pratici mi preoccupa. Ma insistiamo e nel giro di mezz’ora ecco trasformate dieci virginali ricamatrici in altrettanti bruti carpentieri. Finisce che io, Carlo e Daniele restiamo al reparto seghe, qui per noi non si batte un chiodo e la cosa dal punto di vista metaforico non ci piace per niente! Lo dico per dare un’idea del clima godereccio che regna nella catena di montaggio, fra battute che si sprecano e giochi di parole continui. La Marta a un certo punto tira fuori il coltellino scout e inizia a incidere sui banchi le sigle dei nostri sponsor, deformazione occidentale peraltro altamente simbolica. Ecco il banco CGN, il Leomajor, l’Hapa Tuko, ecc. La Annalisa la incrocio a un certo punto con due chiodi in bocca e un martello in mano: la femminilità è azzerata ma ha una grazia tutta nuova e una bella luce negli occhi. La Anna e la Valeria ci danno dentro di raspa, l’Angela e la Martina sono addette

alla carta vetrata, i maschi sono stati opportunamente addestrati da Daniele all’uso delle seghe e il cantiere potrebbe andare avanti da solo senza i sovrintendenti. La Beacco si ingegna e recupera da qualche parte in baraccopoli altri due rastelli sicchè nessuno è con le mani in mano. Ci secca un po’ qualche adulto che ci guarda un po’ divertito e sorridente senza alzare le chiappe per darci una mano ma è così: qui siamo proprio nel punto di incontro di due culture, nell’interfaccia degli stili di vita diversi. Un terreno pericolosissimo in cui devi armarti di pazienza e procedere con delicatezza. A mezzogiorno è pausa pranzo anche per noi e tiriamo fuori in due turni i panini dagli zaini. Pausa meritata ma garantisco che il clima e il fetore dello slum rendono difficile mandare già il panino e la banana, e le mani cragnose di tutto non aiutano a risvegliare gli appetiti sopiti. Gli assemblaggi continuano fino alle tre e alla fine possiamo contemplare in bell’ordine sette esemplari finiti della serie Mathare desk® firmati dal designer Marcuzzi. Imprevisto grave ma opportuno: i chiodi da sette sono finiti, quelli da sei servono a poco con questo tavolame e occorre chiudere per oggi la produzione visto che tutte le tavole sono state opportunamente segate a misura. Foto di rito finale con i carpentieri seduti sui banchi nuovi, sfondo baracche, e subito a seguire foto con bambini seduti sui medesimi banchi, giusto per il collaudo. Soddisfacente. Posso dire che usciamo dalla baraccopoli stanchi morti, sporchi all’inverosimile, magari anche soddisfatti. I nostri ragazzi hanno concluso la scuola da dove l’hanno cominciata, dal primo banco.

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Il viaggio in matatu richiede una contrattazione complicata perché ormai i dirottati nelle ore di punta sono diventati esosi: millecinquecento scellini per portarci a casa senza fermate e cambi, qui è un furto ma i lusso si paga. A casa controlliamo per prima cosa Edoardo: la febbre un po’ gli è salita ma non pare poi tanto malmesso, ha solo bisogno di dormire e del resto le amorevoli cure della Claudia e all’affetto di dieci avvenenti compagne pare che lo tirino su immediatamente. E’ tempo di doccia per tutti e la compagnia sparisce nelle camere immediatamente: la disinfezione post-slum sarà roba lunga e accurata: anche p3r una diciottenne rimettersi in sesto dopo un’esperienza simile richiede il suo tempo. Mentre aspettiamo i turni fra Daniele la Tamara e me parte una discussione che tocca il problema che ci ha tormentato per la giornata intera: difficile formularlo correttamente ma potremmo riassumerlo così: come dobbiamo porci noi davanti alla situazione che abbiamo visto? Ovvero, perché gli africani degli slums accettano questo? Ovvero abbiamo diritto noi di tentare di modificare una situazione che loro per primi accettano passivamente? Ovvero, dov’è il confine fra ciò che è differenza culturale e ciò che è inaccettabile? Fra la mia casa non pulitissima, la mania iper-igienizzante di certi ricchi nostrani e la mancanza

di ogni elementare norma igienica di uno slum, qual è il criterio per definire una fascia accettabile? Perché qualche insegnante della scuola portava una maglietta armani, era impeccabile ma continuava a vivere in un letamaio simile? Forse ciascuno cerca di presentare un aspetto positivo di sé nella parte bene della città, quando si muove, quando è in centro a Nairobi ma non ha interesse a cambiare il luogo dove vive proprio perché lo considera un dormitorio e poco più.. Lo slum ti spoglia anche di mezzi termini per cui finiamo anche per farci domande “cattive”: se uno venisse a casa mia a pulire non mi sentirei offeso? non darei almeno una mano? O è colpa nostra che non ci sforziamo di coinvolgerli abbastanza? Che futuro ha questa gente?La discussione va avanti un’ora e come è ovvio non concludiamo niente: non hanno concluso molto di più persone che sono vissute qui per quarant’anni e lo stesso Gigi Caccia alla partenza ci aveva detto di guardare, di non giudicare niente perché la situazione è troppo complessa e sarebbe presuntuoso voler capire in pochi giorni. Per fortuna arriva anche per noi il tempo della doccia che lava via la sporcizia ma non lava via la collana di domande che finiremo per portarci in Italia.

Lunga discussione al ritorno

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In uno dei suoi pochi momenti liberi siamo riuscite a strappare qualche minuto a Suor Assunta, una delle figure centrali dell’orfanotrofio Maria Romero, per poterle fare qualche domanda.E’ nata in Italia, a Casarsa, ma all’età di diciotto anni la sua famiglia si è trasferita in Australia. All’età di ventidue anni ha preso i voti e ha deciso di intraprendere una vita da missionaria. Il suo lungo viaggio è iniziato nella missione di Makuyo, vicino a Nairobi, e dopo un grave incidente è stata trasferita a Embu, una scuola superiore dove si trovano trecento ragazzi. In seguito è stata nella missione di Namanga, un asilo gestito da un gruppo di suore, al confine con la Tanzania.Si trova ora, da sette anni, nell’orfanotrofio dove alloggiamo. Inizialmente doveva rimanere per un anno, ma l’amore per questa gente l’ha fatta restare fino ad ora. All’inizio l’orfanotrofio ospitava solo dieci bambine, mentre oggi ne accoglie trentasei: alcune

di queste sono state portate dai propri famigliari, mentre altre sono state cercate dalle suore per poter consentire loro di vivere in una situazione migliore. Suora Assunta, appena arrivata all’orfanotrofio, si era posta degli obbiettivi, che sono stati per la maggior parte raggiunti con molta soddisfazione. Dopo averci raccontato le sue esperienze, le abbiamo chiesto qualche parere personale sull’Africa.Secondo lei la cosa più difficile è riuscire a capire gli africani, perchè sono persone che tendono a non dire mai la verità. A suo parere ciò è causato dalla situazione in cui vivono, spesso di estrema povertà, che li conduce a non condividere, non si parla di esperienze o sentimenti ma dell’aspetto materiale, con le altre persone ciò che hanno. Le cose positive, che ha riscontrato negli anni trascorsi in missione, sono molteplici: la gente, i luoghi e il clima. Da quando ha iniziato questa

esperienza si è trovata subito bene, a suo dire, grazie al suo carattere aperto e amichevole ma anche forte e autorevole.Quest’anno per festeggiare il suo 50° anniversario della consacrazione religiosa raggiungerà la famiglia in Australia, dove rimarrà solo un paio di mesi. Nonostante i suoi 22 anni di permanenza in Africa, non sente il bisogno di tornare in Italia, dove è stata per l’ultima volta circa 4 anni fa, perchè considera il Kenya come la sua vera casa.Martina e Valeria

Sister AssuntaINTERVISTA

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Non riesco a dormire. Alessandro lancia un’altra offensiva nel tentativo di conquistare l’ennesima fetta di materasso. Io, senza farmi troppi problemi, lo spingo con forza verso Tommaso: nessuno dei due si lamenta, dormono come sassi, loro. Dormiamo in tre in un letto matrimoniale, ma il peggio è che questo è formato da due materassi singoli e che uno di questi due è abbondantemente più grosso dell’altro: ogni sera prego di potermi svegliare (il mattino seguente) con le anche intatte.Fuori dei ragazzi kenioti fanno baccano, come sempre: gente che canta, qualcuno che strilla, allarmi di auto che iniziano a suonare senza motivo… Comincio pure a sentirmi male, di nuovo. Strano, penso, oggi pomeriggio avevo un paio di linee di febbre ma verso sera mi ero sentito meglio. Cerco di non pensarci, cambio posizione una ventina di volte (non esagero) finché alle 4.30 decido di alzarmi per andare in bagno. Quando riprendo posizione a letto noto che Alessandro ha approfittato della mia assenza per occupare altro spazio: lo sposto (questa volta con delicatezza) e finalmente mi addormento. Come se non bastasse in quelle due ore di sonno riesco pure a fare due incubi. E’ mattino. Mi sveglio come al solito alle 6.30 con il brusio delle bambine che fanno colazione. Sento di avere la febbre, sono caldo e mi sento molto debole. Il programma di oggi è quello di iniziare i

lavori di pulizia e ristrutturazione nei pressi della scuola Why Not, nella baraccopoli di Mathare. Decido di andarci lo stesso, non voglio mancare di rispetto nei confronti degli altri diciotto “maturi”, non voglio pensino ch’io stia male apposta per non faticare, che “tiro il culo indietro”. Esco per far colazione e la Zia Claudia mi costringe a misurare la febbre: 38 e mezzo. Rimango sorpreso, non immaginavo fosse così alta. A questo punto lascio perdere le mie paranoie e seguo i consigli dei prof che mi dicono di rimanere in camera a riposare. Carlo e Zia Claudia? Beh, a voi (e a molti altri “maturi”) dico solo grazie per quello che fate. Vi preoccupate, mi passate i medicinali che non ho e siete sempre disponibili.Martina e Marta? Grazie per avermi preparato la colazione.Mamma e Giulia? Spero non leggiate questo articolo perché, conoscendovi, vi preoccupereste più del normale (ora sto meglio, il termometro di Tommaso dice 36.8°C).Paolo Venti? Paolo è il più contento. Dice che dovremmo ammalarci tutti almeno un giorno: si passerebbe la giornata in “redazione” a scrivere e a occuparsi del diario.

Edoardo

Ammalarsi in Kenya

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Ostruzioni nasali di enormi dimensioni e di colori mai visti, voce rauca, tosse, sangue di naso, bronchite… Ecco alcuni dei tanti “protagonisti” di questi primi sette giorni passati a Nairobi. E’ stata una settimana rovinante, per alcuni di noi, e visto che questi “protagonisti” sono tutti in stretto rapporto con l’apparato respiratorio, a chi possiamo dare la colpa se non all’aria inquinata della capitale keniana?Quando ho deciso di diventare un “Maturo per l’Africa” credevo sarei andato nella vera natura, quella incontaminata, pura e pulita. Quando pensavo al Kenya mi venivano in mente i bambini e i loro sorrisi, i leoni e le giraffe, le banane e gli ananas. E infatti ci sono, non mi sbagliavo, però ora so che l’elenco continua: ci sono le grandi città, ci sono i grattacieli, ci sono le auto e i Matatu (dei minibus), c’è il traffico (e che traffico) e soprattutto c’è il tanto odiato smog. Smog diverso dal nostro, smog che si vede nell’aria, smog che con il buio e con le luci delle auto pare nebbia, smog che ti fa’ dire “da domani faccio come i giapponesi: mi compro la mascherina e giro per Nairobi con quella”. Parlando con Susan, una

giovane ragazza volontaria che aiuta le Suore dell’orfanotrofio, ho scoperto che qui in Kenya viene usato un petrolio diverso da quello che usiamo noi. Il mio inglese non mi ha permesso di scoprire il perché di questa sua diversità (probabilmente una quantità diversa di ottoni? Sparo, non ne ho idea), ma ciò che conta è che inquina molto di più del carburante che usiamo noi. Inoltre bisogna ricordare che non esistono né leggi sulle emissioni di CO2 né leggi sull’obbligatorietà delle marmitte catalitiche, e che i Matatu sono tutti risalenti agli anni ottanta (e quindi inquinano di più rispetto ai nuovi mezzi di trasporto).Per fortuna il problema del “forte” inquinamento, che a noi “maturi” pare rilevante poiché l’orfanotrofio in cui risiediamo è vicino al centro di Nairobi, è piuttosto irrilevante perché le grandi città, qui in Kenya, sono poche, e perché a poche decine di chilometri dal centro la situazione

diventa proprio quella che immaginavo io prima di partire: le auto scarseggiano, lungo la strada si vedono donne che camminano portando vasi sulla testa....

L’aria di Nairobi

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Neanche finita la doccia e il gruppo rifornimenti deve uscire sotto la pioggia per andare a fare la spesa. Compriamo da caricarci un cammello e ci spacchiamo in due per riportare a casa la roba nonostante la pioggia, ma stasera è tempo di cuccagna perché ai fornelli si pone il duo Marcuzzi-Nassutti. Pasta al forno con ragù e strudel!! Il ragù è stato fatto due giorni fa e ha già avuto le sue avventure: dimenticato sul gas dalla Tamara ha rischiato la putrefazione notturna se nel cuore della notte non fossimo riusciti a scassinare la finestra della cucina, farlo passare miracolosamente fra le grate per porlo al sicuro in frigo (qui le suore chiudono tutto e questo a volte crea qualche problema…). Dalle sette parte l’operazione cucina gente che sbuccia mele, la Tamara che prepara besciamella, scalda sughi, tagliuzza formaggi e confeziona teglie di misture segrete. Intanto il Daniele mette un po’ di studenti a sbucciare mele, spiana pasta che sembra una casalinga perfezionista di Voghera, gli manca solo il grembiule a fiori. Sembra una crudeltà nei confronti delle bimbe che per tutta la settimana non vanno oltre l’ugali e i fagioli, ma stiamo facendo una prova per la kermesse di giovedì che prevede torte per tutte le bimbe: come reagirà lo strudel a queste latitudini è una verifica da fare prima di passare alla produzione industriale. Piccolo problema serio: manca la luce, qui in Kenya è normale, bastano due gocce di pioggia. Ma viene buio in pochi minuti, qui in Kenya anche questo è normale visto che siamo vicini all’equatore, appena 15 km a Sud. Fatto sta che tutte le operazioni da questo momento si svolgono al buio e il gentile lettori cerchi di immaginare l’atmosfera. Compaiono alcune candele, poche, e

ci si ingegna a costruire delle fiaccole a olio di semi riempiendo il bordo dei barattoli di pomodori e usando della carta attorcigliata come stoppino. Non so bene come ma funziona, ne mettiamo due per tavolo e si mangia romanticamente al lume di candela. Intanto il Venti provvede a tagliare dei travetti portati dalla baraccopoli e aggiusta il tavolo traballante della cucina e, non pago di ciò, si mette a sistemare due ombrelli circondato da una mezza dozzina di bimbe sedute sulle seggioline: mai pubblico fu può attento e curioso. Cena di pasta al forno, chiusura con strudel che condividiamo anche con qualche suora di passaggio incuriosita dal profumo, poi il gruppo si scinde: alcune stremati si rifugiano incamera, altri restano in piedi fino a tardi a giocare con il Carlo a un gioco che non so ma che deve farli divertire molto viste le risate che arrivano. Considerando però che ridono in refettorio e che io in refettorio devo dormirci non vedo l’ora che vadano via… Ma è destino che la mia notte sia travagliata: prima le zanzare che qui pungono in dieci quindici posti con punture dolorose ma che non fanno bolle, poi la luce che torna alle due. Mi sveglio perché parte una musica assordante, un rap afro-cubano che alle due di notte non è il massimo. Contemporaneamente si scatena la luminaria perché tutte le luci non spente al ritorno della luce hanno ripreso vita. In mutande mi faccio il giro del refettorio e del cortile a spegnere luci ma la musica viene dalla cucina, dallo stereo con cui lo staff di cuochi si dilettava mentre imbandiva i suoi manicaretti. La cucina è chiusa e lo stereo dovrà andare fino al mattino.. Riaddormentarmi è dura nonostante la parentesi baracche mi abbia prostrato.

Tempo di strudel

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RACCOGLITORE! PAGINA10

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Ritratti per un viaggio - ultima parteCI RACCONTIAMO A MANO LIBERA

Tommaso Martin

Eccomi qua! Da località Sile con furore ho deciso di partire per l’Africa con una valigia piena di aspettative elencarle tutte mi sembra poco importante e troppo lungo. Io mi sono avvicinato al volontariato grazie alla frequentazione della parrocchia, sì, uno dei pochi superstiti di quell’ambiente, anche se devo dire che Orcenico inferiore rappresenta un po’ un’isola felice da questo punto di vista. Ero in 5Bs prima di uscire dalle Superiori con molti dubbi sul mio futuro la mia più grande paura di questo viaggio è ammalarmi e perdere giorni importanti di questa esperienza. Voglio sperare di essere veramente utile e imparare qualcosa da queste tre settimane.

Daniele MarcuzziDaniele è partito con due beccanelle nella valigia, non si mai in Africa avessero bisogno della sua intima natura di idraulico. Nell’ordine ha aggiustato due docce, quattro scarichi di water, due tre lavandini, ha costruito tre stringifiamma con la saldatrice, girato sette negozi per trovare nell’ordine due martelli due seghe, tre chili di chiodi, due borse di sabbia, ha progettato i banchi della Why not e stabilità che serviranno 142 metri lineari di tavole e 20 metri di travetto da 6, ha definito le fasi della produzione in serie degli stessi con cinque squadre di operai neodiplomati. Forse lo faranno ministro dello sviluppo economico keniota ma non chiedetegli di scrivere… Quindi questa è la sua presentazione scritta per interposta persona. Adesso non ha tempo, la suora l’ha chiamato d’urgenza per l’ennesimo scarico che non va. Comunque vi saluta tutti.

Andrea SantinHabarii, Mimi ni mtu wa maajabu! Sono passati dieci giorni e le lezioni di swahili al supermarket ( grazie Daniel!!!) sembrano essere state fruttuose. Sono Andrea Santin, 18 anni, neodiplomato e (forse) neomaturo. Se qualcuno mi vedesse in ambiente africano, penserebbe che sono esattamente il negativo della foto di un kenyano…biondo, pelle chiarissima(che mi è costata un’ustione i primi giorni), occhi azzurri e capelli lunghi che hanno provocato equivoci sulla mia mascolinità. Che dire…sono arrivato qui in Africa un pò per spirito d’avventura, un po’ per voglia di conoscere nuove realtà. Per il momento le mie attese non sono state disilluse..e se il buongiorno si vede dal mattino, la sera si prospetta mrembo!

Nota del redattore: Tali presentazioni sono state estorte con continue

minacce date le scuse assurde con cui i 2 maturi (Super Daniele è giustificato) procrastinavano la stesura.

CBprof

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READY4AFRICA NEWS! PAGINA11

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READY4AFRICA NEWS

REDAZIONE:

JOLANDA BARRA ANNA BATTISTELLA CLAUDIA BEACCOSILVIA BURIOLLA

PAOLO VENTI CARLO COSTANTINO EDOARDO PICCININ

ANDREA SANTIN ALESSANDRO GIACINTA

TOMMASO MARTINVALERIA DE GOTTARDO

MARTA GREGO MARTINA DE FILIPPO

ANNALISA SCANDURRA CHIARA VENA

GIULIA LORENZON ANGELA BRAVO

TAMARA NASSUTTI DANIELE MARCUZZI

25 Luglio 2011 ANNO III N.9

INVIA A:

Parenti, amici e conoscenti!

Aneddoti

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Il Venti al trecentesimo chiodo mentre parla con la Beacco si dà una martellata su un dito. Non bestemmia neanche visto il contesto ma esce un po’ di sangue e qui è bene incerottarsi subito. Già nella mente frulla uno scenario inquietante. “Dottore, ho preso l’AIDS in Kenya”“Ma come è successo?” “Eh, con il martello”. “???... ma dove se lo è messo…?”

Il rapporto fra Suor Assunta e gli ospiti friulano merita una nota. Con noi parla friulano, ricorda la sua infanzia, parla di polenta e di “caldere”, torna adolescente. Fin qui commovente. Ma usa il friulano anche come efficace alternativa all’inglese con gli africani. Oggi ha fatto un sacco di corse per recuperare certi mattoni che servivano a un orfanotrofio confratello. Arrivata là coi mattoni le hanno detto che non erano della misura giusta e lei ha chiosato in perfetto stile di Casarsa. “Ca vadini a cagà”. Tanto lo swahili non assomiglia affatto al friulano e loro non capiscono.

L’eloquio di Suor Assunta merita una seconda nota a parte. La sua bontà missionaria si coniuga con un piglio molto pratico e diretto. “Daniele, se non mi finisci il lavandino ti ammazzo”. “Se non spegnete le luci vi strozzo tutti”. “Io queste bambine a volte le strozzerei”, nei momenti peggiori addirittura “Jo che i la coparès”. Dovrebbe essere una strage, invece le darei il Nobel, o almeno la farei santa. Per dire che a volte le parole servono solo a nascondere per pudore la sostanza delle cose.