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1 Password di vita o di morte Tematica e suggerimenti teologico-etici per il culto, proposto dalle tre Chiese nazionali in occasione della Giornata dei Diritti umani del 2017 Gli inventori della password «Gli uomini di Galaad, per impedire agli Efraimiti di fuggire, tennero sotto controllo i posti dove si poteva attraversare il Giordano. Qualcuno cercava di scappare e chiedeva di poter passare il fiume. Allora gli uomini di Ga- laad gli domandavano se erano Efraimiti. Se gli rispondeva di no, gli dicevano: „Pronuncia la parola ‚scibbolet’”. Quello rispondeva ‘sib- bolet’ perché non era capace di pronunciare correttamente quella parola. Allora lo prende- vano e lo uccidevano lì, sulla riva del Giorda- no. Quel giorno, furono uccisi quarantaduemi- la uomini della tribù di Efraim.» (Giudici 12,5– 6; [traduzione interconfessionale in lingua corrente]) I clan familiari sono ovunque motivo di divi- sione. La contesa tra Galaadiani ed Efraimiti degenera in guerra fratricida. Dopo una bat- taglia cruenta, i Galaadiani vincitori spingono gli sconfitti Efraimiti a fuggire al di fuori del lo- ro territorio, attraversando il Giordano. I vinci- tori come possono identificare gli sconfitti? Avevano le stesse origini, perciò era quasi impossibile distinguerli. Li tradiva però il loro dialetto: gli Efraimiti pronunciavano in un mo- do diverso dai Galaadiani la parola ‘spiga’ (= ‘scibbolet’). La sua pronuncia divenne il se- gno distintivo tra gli uni e gli altri. Significava per gli Efraimiti una condanna a morte certa. I Galaadiani sono stati gli inventori di quanto è definito password nei tempi della digitaliz- zazione universale. Di per sé, doveva trattarsi di un „codice di passaggio“, poiché stabiliva chi poteva entrare in un territorio protetto e chi no. ‚Sibbolet’ evoca oggi una procedura utilizzata ovunque in Internet, per eseguire l’autentificazione e l’autorizzazione. Ottiene l’accesso solo chi conosce la password. Tale procedura nasconde però delle insidie: inseri- re tre volte il codice sbagliato comporta il di- niego dell’accesso, indipendentemente dal fatto che la persona sia autorizzata o no. Ol- tre a ciò, oggi siamo confrontati con una si- tuazione sconosciuta allora: le password possono essere hackerate e, in questo modo, anche persone non autorizzate possono ac- cedere a spazi riservati. In un contesto più ampio, l’impietoso conflitto tra i due clan familiari dei Galaadiani e degli Efraimiti suggerisce una spiegazione biblica alla spirale della violenza umana. Nella Bib- bia, il primo omicidio, di Caino che uccide suo fratello Abele, ebbe luogo per gelosia. Allora il potenziale vortice della violenza poteva es- sere attenuato tramite il segno protettivo, ap- posto da Dio sulla fronte del fratricida Caino. La guerra intestina fra Efraim e Galaad cam- bia radicalmente le cose. Il fratricidio diventa un automatismo mortale. Una procedura neu- trale d’identificazione sostituisce la motiva- zione personale dell’omicidio. Un segno di- stintivo stigmatizzante rimpiazza il segno pro- tettivo di Caino, con conseguenze mortifere. L’appartenenza etnica sancisce la vita o la morte delle persone. Entrambi i racconti bibli- ci evocano il passaggio da un conflitto indivi-

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1

Password di vita o di morte Tematica e suggerimenti teologico-etici per il culto, proposto dalle tre Chiese

nazionali in occasione della Giornata dei Diritti umani del 2017

Gli inventori della password

«Gli uomini di Galaad, per impedire agli

Efraimiti di fuggire, tennero sotto controllo i

posti dove si poteva attraversare il Giordano.

Qualcuno cercava di scappare e chiedeva di

poter passare il fiume. Allora gli uomini di Ga-

laad gli domandavano se erano Efraimiti. Se

gli rispondeva di no, gli dicevano: „Pronuncia

la parola ‚scibbolet’”. Quello rispondeva ‘sib-

bolet’ perché non era capace di pronunciare

correttamente quella parola. Allora lo prende-

vano e lo uccidevano lì, sulla riva del Giorda-

no. Quel giorno, furono uccisi quarantaduemi-

la uomini della tribù di Efraim.» (Giudici 12,5–

6; [traduzione interconfessionale in lingua

corrente])

I clan familiari sono ovunque motivo di divi-

sione. La contesa tra Galaadiani ed Efraimiti

degenera in guerra fratricida. Dopo una bat-

taglia cruenta, i Galaadiani vincitori spingono

gli sconfitti Efraimiti a fuggire al di fuori del lo-

ro territorio, attraversando il Giordano. I vinci-

tori come possono identificare gli sconfitti?

Avevano le stesse origini, perciò era quasi

impossibile distinguerli. Li tradiva però il loro

dialetto: gli Efraimiti pronunciavano in un mo-

do diverso dai Galaadiani la parola ‘spiga’ (=

‘scibbolet’). La sua pronuncia divenne il se-

gno distintivo tra gli uni e gli altri. Significava

per gli Efraimiti una condanna a morte certa.

I Galaadiani sono stati gli inventori di quanto

è definito password nei tempi della digitaliz-

zazione universale. Di per sé, doveva trattarsi

di un „codice di passaggio“, poiché stabiliva

chi poteva entrare in un territorio protetto e

chi no. ‚Sibbolet’ evoca oggi una procedura

utilizzata ovunque in Internet, per eseguire

l’autentificazione e l’autorizzazione. Ottiene

l’accesso solo chi conosce la password. Tale

procedura nasconde però delle insidie: inseri-

re tre volte il codice sbagliato comporta il di-

niego dell’accesso, indipendentemente dal

fatto che la persona sia autorizzata o no. Ol-

tre a ciò, oggi siamo confrontati con una si-

tuazione sconosciuta allora: le password

possono essere hackerate e, in questo modo,

anche persone non autorizzate possono ac-

cedere a spazi riservati.

In un contesto più ampio, l’impietoso conflitto

tra i due clan familiari dei Galaadiani e degli

Efraimiti suggerisce una spiegazione biblica

alla spirale della violenza umana. Nella Bib-

bia, il primo omicidio, di Caino che uccide suo

fratello Abele, ebbe luogo per gelosia. Allora

il potenziale vortice della violenza poteva es-

sere attenuato tramite il segno protettivo, ap-

posto da Dio sulla fronte del fratricida Caino.

La guerra intestina fra Efraim e Galaad cam-

bia radicalmente le cose. Il fratricidio diventa

un automatismo mortale. Una procedura neu-

trale d’identificazione sostituisce la motiva-

zione personale dell’omicidio. Un segno di-

stintivo stigmatizzante rimpiazza il segno pro-

tettivo di Caino, con conseguenze mortifere.

L’appartenenza etnica sancisce la vita o la

morte delle persone. Entrambi i racconti bibli-

ci evocano il passaggio da un conflitto indivi-

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duale a un meccanismo omicida, che nel cor-

so della storia umana è stato perfezionato in

forme sempre più barbare.

Doris Salcedo, The Unilever Series: Shibboleth, ottobre 2017-aprile 2018, Turbine Hall, Tate Modern, Londra 2017

L’artista colombiana Doris Salcedo ha chia-

mato ‚Scibbolet’ l’istallazione da lei allestita

nel 2007 nella Tate Modern Gallery di Lon-

dra. Una fessura larga 146 metri, che parte

dallo spessore di un capello e si allarga fino a

25 centimetri, s’incunea per mezzo metro nel

terreno e si estende sull’intera superficie della

hall. La frontiera raffigurata in modo artistico

all’interno della hall della Tate Gallery si col-

loca simbolicamente tra le moderne cattedrali

della finanza londinese e i quartieri

d’immigrati posti a sud del Tamigi. Le frontie-

re non garantiscono solo uno spazio di ap-

partenenza, definiscono pure le condizioni

d’entrata e le regole per l’esclusione.

L’ovvietà delle frontiere può ingannare facil-

mente sull’arbitrarietà della loro attuazione e

sulla disumanità dei fossati da esse imposti

agli uomini. In tal modo, le frontiere politiche

sono soltanto soluzioni di ripiego: quanto

meno gli esseri umani si sentono legati gli uni

agli altri, tanto più importanti diventano le

frontiere fissate artificiosamente. Esse sosti-

tuiscono la mancanza di senso

d’appartenenza esteriorizzando simboli di po-

tere.

In un mondo globalizzato come il nostro, tali

frontiere sono simili a una membrana di Go-

re-tex: la traspirazione dall’interno verso

l’esterno è possibile, ma la pioggia non riesce

a penetrare dall’esterno verso l’interno. Pos-

siamo consentire senza limitazioni che per-

sone e culture escano dalle nostre frontiere e

impedire loro, nel contempo e con la mede-

sima ovvietà, di soggiornare presso di noi. Le

frontiere si mostrano più o meno permeabili,

a seconda del lato in cui ci si trova.

Rifiuto, impedimento, espulsione

Il diritto internazionale e i diritti umani impedi-

scono agli Stati di diritto di chiudere a piaci-

mento le loro frontiere. Nell’unica famiglia

umana, a cui tutti apparteniamo, nessuno

può comportarsi come se non gli importi nulla

del destino di un suo qualunque altro mem-

bro. Alla base di tale convinzione si trova la

tradizione giudeo-cristiana dell’amore per il

prossimo, per il nemico e per il lontano. Essa

determina profondamente il pensiero giuridico

secolare del mondo occidentale. I diritti umani

e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati cer-

cano di tradurre in diritto imperativo l’ethos

biblico della fratellanza universale. A partire

da un legame solidale derivano gli obblighi, di

cui i membri dell’umana famiglia si sentono

vicendevolmente debitori. I ‚scibbolet’ nazio-

nali devono essere protetti da arbitri e abusi,

tramite apposite procedure giuridiche.

Esclusione, rifiuto di soggiorno o espulsione

riguardano fondamentalmente tutti gli esseri

umani che vivono in un territorio nazionale

senza esserne concittadini. Sono partecipi di

diritti senza disporre però di una garanzia il-

limitata di soggiorno. Tale autorizzazione di-

pende, da un lato, dagli interessi dello Stato

per queste persone – considerate come ap-

prezzate forze lavoro –, e d'altro lato dalle

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decisioni nazionali e internazionali. La diffe-

renza tra diritti nazionali e diritti umani segna

il limite tra ambito politico e umanitario. Chi

non dispone di nessun diritto politico come

cittadino di un preciso Stato, sa di essere

semplicemente una persona beneficiaria di

diritti umanitari.

Doris Salcedo, The Unilever Series: Shibboleth, ottobre 2017-aprile 2018, Turbine Hall, Tate Modern, Londra 2017

Sono considerate rifugiate e alla ricerca

d’asilo soltanto le persone, a cui è riconosciu-

to dallo Stato d’accoglienza una condizione di

pericolo nei Paesi d’origine. È lo statuto di

quanti corrono rischi, sono discriminati o per-

seguitati nelle loro patrie rispettive a causa

dei loro ‘dialetti’ religiosi, culturali, politici o

familiari. Il diritto internazionale e i diritti uma-

ni esigono una valutazione ben ponderata,

quale fondamento di una decisione di rimpa-

trio. Dovrebbero pertanto essere prese in

considerazione solamente le condizioni e le

prospettive esistenziali nel Paese d’origine,

non le conseguenze per la società

d’accoglienza. La valenza esistenziale delle

persone dovrebbe pesare più degli interessi

nazionali. Non devono essere le identità na-

zionali, etniche, culturali, religiose, politiche o

economiche a definire i criteri fondamentali

della protezione, bensì l’appartenenza frater-

na alla medesima famiglia umana.

Fratellanza al di là di ogni frontiera

L’idea di un’unica famiglia umana è in con-

trapposizione con il pensiero delle identità

statali e nazionali. I diritti umani dovrebbero

prevalere sugli interessi nazionali, quando

essi diventano ciechi di fronte alle condizioni

di necessità altrui. Sono come granelli di

sabbia negli ingranaggi delle mentalità nazio-

nalistiche e autoreferenziali. Nel contempo,

mostrano quanto irrinunciabili siano, ma pure

limitati, i regolamenti giuridici a carattere na-

zionale e internazionale. La solidarietà frater-

na non può essere prescritta sul piano politi-

co, né essere imposta giuridicamente. Al dirit-

to rimane il tentativo di una simulazione più o

meno riuscita. Chi non ha mai provato

l’ingiustizia sulla propria pelle, può a malape-

na immaginare né tanto meno giudicare

l’ingiustizia subita da un’altra persona. Ciò

malgrado, è la sola strada che anche la politi-

ca è tenuta a percorrere.

Le Chiese cristiane non possono acconten-

tarsi di una percezione disincantata. Sono te-

nute a chiedersi se sia sufficiente affidarsi

unicamente all’umanità del diritto internazio-

nale e dei diritti umani. Questi dispositivi giu-

ridici non devono forse essere rafforzati tra-

mite ulteriori elementi, che il diritto in sé non

riesce a garantire? Le Chiese dispongono di

altre possibilità e di altri strumenti, ben più so-

lidi della politica statale e internazionale.

Possono realizzare ed esigere con più effica-

cia e credibilità una forma vincolante di fratel-

lanza. Ben più che per i diritti umani, per le

Chiese il pensiero dell’unità dell’umanità non

è solo una metafora umanitaria. È espressio-

ne e nocciolo della comunità spirituale fonda-

ta in Gesù Cristo. L’unità della Chiesa non

può essere contrapposta all’idea

dell’universalità dei diritti umani. Eppure la

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fratellanza delle cristiane e dei cristiani non

finisce laddove il diritto si scontra con i propri

limiti.

Le minacce, la discriminazione, la persecu-

zione, la violenza arbitraria e il rifiuto della

protezione statale di credenti cristiani, soprat-

tutto nei paesi a maggioranza islamica, sono

gravi offese contro l’unità

della comunità cristiana.

Riguardano le Chiese in

qualunque luogo del mon-

do. Le cristiane e i cristiani

nel loro insieme, tutti i mini-

stri della Chiesa, la Chiesa

intera non possono far altro

che intervenire a favore del-

la libertà, della sicurezza,

della protezione e del bene

delle sorelle e dei fratelli

credenti che soffrono. Sono

tenuti a essere solidali con

loro e a combattere a loro

favore, anche sul piano po-

litico. Tutto ciò include la

valutazione critica dei criteri statali per il rico-

noscimento dello statuto di protezione di ri-

chiedenti l'asilo e rifugiati, come pure un ac-

compagnamento ugualmente critico delle

procedure legali di rifiuto dell’asilo e di espul-

sione. La Chiesa di qui non può essere senza

la Chiesa di là! Una simile pretesa non è un

obiettivo politico, bensì un preciso compito af-

fidato all’unica Chiesa nel mondo, fondato sul

messaggio evangelico.

I ‚scibbolet’ della politica contemporanea ren-

dono brutto il mondo, poiché negano a molti

esseri umani un posto sicuro e dignitoso nella

Creazione divina. I diritti umani costruiscono

ponti sopra i fossati, senza riuscire però a

riempire questi ultimi di terra. Per raggiungere

tale obiettivo è necessaria una forma univer-

sale di solidarietà, uno spirito condiviso, non

prodotti dall’umanità, bensì testimoniati dalla

Chiesa come doni dello Spirito. La risposta

ecclesiale ai ‚scibbolet’ di questo nostro mon-

do è la Pentecoste – l’intesa nell’ascolto reci-

proco al di là delle diversità linguistiche. La

Pentecoste spezza la forza emarginante di

lingue e dialetti. Il miracolo

della Pentecoste appartiene

ai racconti fondatori della

Chiesa. La Chiesa è il can-

tiere aperto del Regno di

Dio e, in quanto tale, colma

i fossati di questo nostro

mondo. In tal modo, le stra-

de sono di nuovo aperte

per raggiungere le due

sponde del medesimo

cammino. La Chiesa stessa

diviene luogo d’incontro di

fratelli lontani e modello di

una possibile intesa, laddo-

ve politica e diritto non ba-

stano a risolvere le proble-

matiche qui evocate.

Suggerimenti al testo e molti altri spunti di riflessione si trova-no in Marianne Heimbach-Steins, Grenzverläufe gesellschaftli-cher Gerechtigkeit. Migration - Zugehörigkeit - Beteiligung [Li-mini di giustizia sociale. Migrazioni - Appartenenze - Parteci-pazione], Paderborn 2016

Impressum:

Giustizia e Pace, su mandato della Conferenza dei vescovi svizzeri info: www.juspax.ch

Consiglio della Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera info: www.kirchenbund.ch

Testo: Frank Mathwig

Traduzione: fraʼ Martino Dotta, cappuccino

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La Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera, la Chiesa cristiano-cattolica della Svizzera e la Conferenza dei vescovi svizzeri in occasione della Giornata dei diritti umani, 10 dicembre 2017

Ottobre 2017

Password di vita o di morte

Gentili signore e signori,

Cari fratelli e sorelle,

Migrazioni e spostamenti forzati mantengono il mondo con il fiato sospeso. Il calo del numero di coloro che

giungono da noi non deve disilluderci sul fatto che le loro tribolazioni non sono venute meno. Oggigiorno,

le conseguenze dei flussi migratori degli ultimi anni sono visibili nei profondi mutamenti cui è confrontata in

Europa la politica umanitaria in materia d'asilo. Vi si riflettono le ansie e lo smarrimento di molti cittadini e

cittadine, che si sentono presi alla leggera e messi fuori gioco dalla politica.

Nel passato recente, le Chiese si sono applicate seriamente a favore dei profughi ed il nostro grazie va in

particolare al lavoro coraggioso fatto dalle parrocchie alla base, spesso a braccetto con altri enti

assistenziali. Il documento delle tre Chiese nazionali per la Giornata dei diritti umani 2017 rammenta lo

speciale mandato delle Chiese, che oltrepassa l'impegno umanitario. La generosità verso le persone nel

bisogno ed in fuga non è solo questione di relazioni rispettose e umane con gli altri. Questi altri sono nostri

fratelli e sorelle, che vengono a trovarsi in condizioni miserabili, lottano per la sopravvivenza e rischiano di

finire in mare ed annegare. Quando soffre un membro della comunità, dice san Paolo, è tutta la comunità

che soffre. Con ogni canotto che si rovescia, è la Chiesa che prende acqua. Essa deve quindi sempre

attualizzare la sua missione primigenia: essere pescatrice di uomini, laddove questi rischiano di annegare

nei flutti della penuria, della miseria e dello scoramento.

Invitiamo le parrocchie ed i fedeli a salire con coraggio e speranza nella barca della Chiesa, che promette

la salvezza a tutti gli uomini.

In allegato troverete una dichiarazione su questo tema, una petizione e una raccomandazione per la colletta

dell'ACAT. Vi esortiamo a corrispondere generosamente a questa colletta.

Augurandovi un sereno Avvento e un felice s. Natale in famiglia e in parrocchia, vi porgiamo cordiali saluti.

Gottfried Wilhelm Locher Presidente del Consiglio della Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera

Vescovo Harald Rein Chiesa cristiano-cattolica della Svizzera

mons. Charles Morerod Presidente della Conferenza dei vescovi svizzeri

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Abiti ed effetti personali persi da migranti che compiono la traversata sui barconi dalla Libia alla Sicilia © Alessandro Rota, Oxfam

Giornata dei diritti umani – 10.12.2017

Tortura e migrazione

Tortura e migrazionee

È un fenomeno di cui si parla sovente ai giorni nostri: dalla Seconda Guerra mondiale in poi, non ci sono mai state così tante persone in fuga come ora. Alla fine del 2016, se ne contavano 65,6 milioni nel mondo intero. Di essi, 22,5 milioni erano minorenni. Sono le cifre più elevate finora registrate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR). I rifugiati che accogliamo in Europa ne costituiscono però una quantità infima, rispetto ai flussi migratori nel loro insieme. In effetti, 40,3 milioni di persone sono rifugiati all’interno dei loro Paesi d’origine, mentre molte altre cercano rifugio negli Stati confinanti.

Le persone in fuga corrono fortemente il rischio di essere vittime di tortura e di altre forme di trattamenti degradanti, poiché spesso non possono più ottenere protezione dal loro Stato di provenienza, sia perché questi non dispone più del monopolio del potere sul suo territorio, sia perché esso stesso è diventato autore di abusi. Tuttavia, la violenza e la guerra nel Paese d’origine delle persone in fuga non sono i soli pericoli a cui sono soggette. L’uso di itinerari pericolosi per giungere in Europa, ad esempio, comporta un elevato rischio di subire torture. Non esistono statistiche affidabili sul numero di persone sopravissute alla tortura nell’ambito mondiale della migrazione. L’Alto Commissariato stima che tra il 5 e il 35% dei rifugiati sia costituito da persone sopravissute alla tortura. Il Fondo di contributi volontari delle Nazioni Unite per le vittime della tortura (FCVNUVT) riferisce che i due terzi delle persone soccorse nel 2017 siano rifugiati e migranti.

Un’inchiesta condotta in Sicilia da Oxfam e MEDU (Medici per i Diritti Umani) presso 158 migranti sul loro vissuto in Libia mostra che violazioni dei diritti umani vi sono compiute in proporzioni terribili. Quasi tutte le persone interrogate hanno subito l’una o l’altra forma di trattamenti disumani. «Sono persone fuggite dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla povertà, che si sono ritrovate in un nuovo inferno in Libia», spiega Roberto Barbieri, Direttore di Oxfam Italia.

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Giornata dei diritti umani – 10.12.2017

Tortura e migrazione

Tra l’ottobre 2016 e l’aprile 2017, 31 donne e 127 uomini sono stati interrogati:

• tutte le donne, salva una, hanno subito violenze sessuali;• il 74% delle persone interrogate ha risposto di aver assistito alla tortura e/o all’uccisione di un compagno

di fuga;• l’84% ha dichiarato di avere subito trattamenti disumani o degradanti, una violenza estrema o torture in

Libia;• l’80% ha affermato di essere stato privato regolarmente di acqua e cibo;• il 70% ha sostenuto di essere stato incatenato.

Fonte: Oxfam, 2017

Il principio di non respingimento

Art. 33 («Divieto d’espulsione o di rinvio al confine»), al. 1:«Nessuno Stato Contraente non espellerà o respingerà, in qualunque modo, un rifugiato verso i confini di ter-ritori in cui la sua vita o la sua libertà siano minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

Una proibizione esplicita o implicita di respingimento al confine è pure inserita nella Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (art. 3), nella quarta Convenzione di Ginevra, adottata nel 1949 (art. 45, al. 4), nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 7 e relativa giuri-sprudenza) e nella Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate (art. 16), come in altri accordi internazionali. Oltre a ciò, diverse convenzioni regionali relative ai diritti umani contengono la proibizione del rinvio al confine, come la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (art. 3 e relativa giurisprudenza), la Convenzione americana relativa ai diritti umani (art. 22), la Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità africana sui rifugiati (art. II) e la Dichiarazione del Cairo sulla protezione dei rifugiati e delle persone sfollate nel mondo arabo (art. 2).

Il principio di non respingimento è pertanto parte integrante del diritto internazionale ordinario. Tutti gli Stati sono quindi tenuti a rispettarlo, compresi quelli che non hanno ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Tale protezione riguarda sia i richiedenti asilo, sia i rifugiati riconosciuti.

Disposizioni internazionali sulla protezione dei rifugiati

I rifugiati non sono più sottoposti alla protezione dei loro Stati di provenienza. Nel loro caso, si applicano le disposizioni di protezione internazionale, stabilite per la prima volta nel 1951 dalla «Convenzione sullo statuto dei rifugiati». Questo testo fondamentale del diritto internazionale sui rifugiati («Convenzione di Ginevra sui rifugiati») è stato completato nel 1967 da un importante strumento legale internazionale: il «Protocollo relativo allo statuto dei rifugiati». Tali accordi garantiscono ai rifugiati un livello minimo di diritti nel Paese, nel quale cercano protezione. La maggioranza degli Stati, tra cui la Svizzera, ha sottoscritto i due documenti. Nel campo della protezione dei rifugiati contro la tortura, il principio di non respingimento («non-refoulement», in francese) è un elemento fondamentale. È ancorato nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati (Art. 33).

La questione del non respingimento nella procedura svizzera d’asilo

Il principio del non respingimento è inserito anche nella Costituzione federale, all’art. 25 («Protezione contro l’espulsione, l’estradizione e il respingimento»): « 2 I rifugiati non possono essere respinti verso il territorio di uno Stato nel quale sono perseguitati, né essere consegnati alle autorità di un tale Stato. 3 Nessuno può essere respinto verso il territorio di uno Stato, nel quale corre il rischio di essere torturato o subire qualsiasi altro trattamento o pena crudeli e disumani».

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Giornata dei diritti umani – 10.12.2017

Tortura e migrazione

Ciò malgrado, la Svizzera è talvolta rimproverata di non rispettare a sufficienza il principio del non respingimento. È stato in particolare il caso delle osservazioni conclusive del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (CAT), relativo al 7° rapporto periodico della Svizzera, formulate nel 2015. In quel documento, il Comitato si dice preoccupato per i rapporti a proposito della valutazione dei rischi di violazione del principio del non respingimento, che non prendono abbastanza in considerazione le informazioni sulla situazione politica nei Paesi d’origine. Dichiara che la Svizzera dovrebbe esaminare con maggiore minuziosità e più a fondo, qualunque caso specifico, compresa la situazione generale sull’uso della tortura nel Paese in cui è eseguito un rimpatrio. Nelle sue osservazioni conclusive del 24 luglio 2017, rivolte alla Confederazione, il Comitato dei diritti umani dell’ONU si dice preoccupato che «le analisi eseguite sulla base del […] Protocollo d’Istanbul non siano interamente riconosciute e prese in debita considerazione […] nel quadro dell’applicazione del principio di non respingimento».

Vale perciò la pena di verificare meglio se un Paese può in genere essere qualificato come «sicuro». Ma è ancor più importante verificare quali minacce possano pesare su ogni persona, come lo suggeriscono le raccomandazioni del CAT. Esaminare le diverse situazioni, anticipare i rischi potenziali e identificare le persone traumatizzate, per proteggerle da un respingimento e offrire loro un sostegno individualizzato, è un impegno non indifferente, reso ancor più complesso dal fatto che le persone traumatizzate per la violenza subita sono spesso incapaci di parlare del loro vissuto.

Tale realtà è stata confermata in occasione di un atelier di esperti, organizzato dal FCVNUVT sul tema «Vittime della tortura nel contesto migratorio: identificazione, riparazione e riabilitazione», tenuto in aprile. I migranti traumatizzati per le torture subite fanno talvolta fatica a riferire della loro situazione e chiedere di conseguenza un’adeguata protezione (contro il respingimento) o un sostegno psicologico del Paese d’accoglienza. A causa dei disturbi da stress post-traumatico e di altre conseguenze, quanti sopravvivono alla tortura faticano a fare rispettare i loro diritti e a cercare il giusto sostegno alle loro richieste. Le vittime tacciono non solo a causa della vergogna, ma pure per proteggersi, poiché evocare le torture subite può provocare incubi e nuovi traumi. La diffidenza nei confronti delle autorità è una ragione supplementare per tacere le proprie esperienze traumatiche nel corso della procedura d’asilo.

Riconoscimento e utilizzo del Protocollo d’Istanbul in Svizzera

Nel corso dell’anno, un caso è stato evocato regolarmente dai media, poiché ha offuscato la reputazione della Svizzera: è quello relativo a Nekane Txapartegi. Le accuse di avere subito torture da parte della Spagna, formulate dall’attivista basca, non sono state riconosciute dalle autorità elvetiche, pur essendo state confermate sulla base di indagini svolte secondo le direttive del Protocollo d’Istanbul. La Signora Txapartegi correva il rischio di essere estradata in Spagna, a partire da ammissioni estorte sotto tortura. Le autorità svizzere le hanno rimproverato di avere stranamente tardato a invocare le accuse di essere stata torturata e a domandare in modo ufficiale l’asilo, come pure di non essere stata coerente nelle sue dichiarazioni. Eppure il Protocollo d’Istanbul è stato elaborato proprio per situazioni simili. Un esame indipendente delle accuse di tortura, svolto sulla base di una procedura standard, permette di mettere a fuoco questioni di questo genere. Tuttavia, per poter essere applicato, tale Protocollo deve essere riconosciuto senza esitazioni dalle autorità competenti.

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Giornata dei diritti umani – 10.12.2017

Tortura e migrazione

ACAT-SvizzeraSpeichergasse 29, Casella postale, 3001 Berna Tel. +41 (0)31 312 20 44 [email protected] - www.acat.chIBAN: CH 16 0900 0000 1203 9693 7

Protocollo d’Istanbul – Manuale per indagare efficacemente sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti

Il Protocollo d’Istanbul (PI) è un manuale elaborato negli Anni Novanta del secolo scorso da medici, medici legali, psicologi, avvocati e osservatori dei diritti umani. Definisce le linee direttive e i principi da applicare nelle inchieste sulle accuse di tortura, al fine di redigerne rapporti affidabili. Serve quindi a determinare la verosimiglianza di simili accuse.

È stato redatto da 75 esperti internazio-nali, provenienti da 40 organizzazioni di 15 diversi Paesi, prima di essere adot-tato tramite risoluzione dall’Assemblea generale dell’ONU, il 4 dicembre 2000. Quest’ultima ha raccomandato ai propri Stati membri di applicare i principi previ-sti dal Protocollo nel caso d’inchieste su accuse relative alle torture subite. Il PI non è un trattato, né una convenzione, soggetti a firma o ratifica da parte degli Stati. Tuttavia per essere applicato, deve essere accettato dagli Stati (ad esempio, tramite una dichiarazione del Governo, una legge di promulgazione, un decreto d’attuazione, ecc.).

Le indagini, eseguite secondo i metodi specifici del Manuale in questione, sono considerate d’ora innanzi come valore probatorio nelle accuse di tortura, per i Paesi che le utilizzano.Il PI è stato sinora adottato da un gran numero di organizzazioni implicate nella problematica della tortura, nel mondo intero, che considerano molto affidabili tali direttive e la metodologia proposta, in particolare nell’am-bito dell’asilo e delle procedure di estradizione. Ciò malgrado, fino a oggi, la Svizzera non ha riconosciuto la validità del Protocollo. Al momento attuale, il PI è assai poco noto a medici e giuristi, come pure alle autorità elvetiche confrontate con le denunce di tortura.

In risposta a un’interpellanza deposta nel marzo di quest’anno sul riconoscimento del Protocollo d’Istanbul, il Consiglio federale ha formulato un’accettazione di principio del valore probatorio delle indagini compiute secondo tale procedura, precisando però che: «al momento, non esistono istruzioni che si rifanno concretamente al valore probatorio delle inchieste eseguite in applicazione al Protocollo d’Istanbul. La Segreteria di Stato della migrazione (SEM) terrà conto di indagini sottoposte ad essa, purché siano pertinenti alla procedura d’asilo». Le autorità competenti non hanno evidentemente ritenuto che fosse il caso per quanto concerne la procedura d’estradizione della Signora Txapartegi.

Nella petizione indirizzata alla Consigliera federale, On. Sommaruga, chiediamo pertanto in particolare il riconoscimento incondizionato del valore delle indagini svolte secondo il Protocollo d’Istanbul.

Il tema della migrazione e della tortura sarà approfondito nel prossimo numero di acatnews (in tedesco o francese) del mese di dicembre. acatnews può essere ordinato all’indirizzo: [email protected].

[traduzione italiana di fra Martino Dotta, Bellinzona]

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Weitere Unterschriftenzeilen auf der Rückseite

ACAT SUISSE SCHWEIZ SVIZZERA

Pour un monde sans torture ni peine de mort

Für eine Welt frei von Folter und Todesstrafe Per un mondo senza tortura né pena di morte

PETIZIONE all’On. Consigliera federale Simonetta Sommaruga

per la Giornata dei diritti umani del 10 dicembre 2017

Riconoscimento del Protocollo d’Istanbul: per una migliore protezione delle vittime

della tortura e di altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti

Onorevole Signora Consigliera federale,

il Protocollo d’Istanbul «Manuale per indagare efficacemente sulla tortura e su altre pene o trattamenti

crudeli, disumani o degradanti» definisce gli standard delle Nazioni Unite per le inchieste e sui

pronunciamenti relativi alla plausibilità delle accuse di tortura, nonché per la trasmissione dei risultati alla

giustizia e alle altre autorità competenti. Questo Manuale è stato adottato all’inizio degli anni 2000 dalle

Nazioni Unite. Esse ne raccomandano agli Stati membri l’applicazione dei suoi principi.

La Svizzera rimane molto prudente nell’applicare tale Protocollo, nonostante l’appello presentato nel dicembre

2016 dai Giuristi democratici svizzeri e da diverse ONG (tra cui l’ACAT-Svizzera). Come risposta a

un’interpellanza parlamentare del marzo 2017, il Consiglio federale ha designato un gruppo di lavoro per

studiare la questione. Pur apprezzando tale sforzo, esso non è ritenuto sufficiente.

Nelle procedure d’asilo o di estradizione, capita regolarmente che accuse fondate di tortura siano valutate

in maniera insoddisfacente dalle autorità amministrative e giudiziarie. Talvolta, esami condotti secondo gli

standard del Protocollo d’Istanbul non sono tenuti in debito conto. In altri casi, le vittime o i loro

rappresentanti non si appellano a questo strumento legale, poiché ne ignorano semplicemente l’esistenza.

Ne conseguono espulsioni dalla Svizzera, per cui il nostro Paese è stato condannato da diverse istanze

internazionali (CrEDH, CAT) o ha ricevuto raccomandazioni dalle medesime istanze per violazione del principio

di non rimpatrio, principio compreso in differenti strumenti giuridici vincolanti anche per la Svizzera. Uno di

questi è la Convenzione contro la tortura. Un riconoscimento senza riserve del Protocollo d’Istanbul da parte

della Svizzera e l’emissione di direttive specifiche d’applicazione dei suoi principi, all’indirizzo dei vari attori

istituzionali e delle autorità elvetiche, permetterebbe di chiarire simili casi problematici, proteggerebbero in

modo più efficace e umano le vittime della tortura ed eviterebbero alle autorità di dover riconsiderare dossier

gestiti in maniera inadeguata.

Noi sottoscritti, le domandiamo pertanto:

- di riconoscere ufficialmente e senza riserve la valenza probatoria delle inchieste eseguite, in applicazione

al Protocollo d’Istanbul, da esperti riconosciuti;

- di definire direttive chiare d’applicazione del Protocollo, all’indirizzo delle autorità amministrative e

giudiziarie competenti, sul piano federale e cantonale, affinché nei casi dubbi circa la fondatezza delle

accuse di tortura formulate nelle procedure d’asilo o di estradizione, le stesse promuovano adeguati

approfondimenti in applicazione del detto Protocollo;

- di garantire il finanziamento degli approfondimenti ordinati dalle autorità o raccomandati dal personale

sanitario;

- di assicurare la diffusione dei principi del Protocollo tra i Cantoni e di raccomandare formazioni

specifiche a largo raggio su questo strumento legale, come l’ha suggerito il Comitato dei diritti umani

nelle sue osservazioni conclusive del 24 luglio 2017 alla Svizzera.

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ACAT-Svizzera Petizione per il riconoscimento del Protocollo d’Istanbul – 10 dicembre 2017

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Qualunque persona può sottoscrivere la presente petizione indipendentemente da età, nazionalità e domicilio.

Vi ringraziamo se rispedite questo formulario firmato entro il 31 gennaio 2018 a:

ACAT-Svizzera, «Giornata dei diritti umani», Casella postale, 3001 Berna

Trovate maggiori informazioni e altri formulari per le firme su www.acat.ch.

Grazie di cuore per il vostro impegno e per il vostro sostegno!