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4 QUANDO LECCE ERA STALINGRADO
Raffaele nacque a Lecce durante la Grande Guerra. Il Salento era una terra tanto bella quanto
povera. La gente si riuniva la sera intorno al focolare, nelle corti o sotto le volte in pietra,
mangiando ciò che aveva offerto la giornata, mentre le lucciole svolazzavano fuori le case, per le
campagne che circondavano i borghi. La maggioranza delle famiglie tirava a campare come poteva.
Raffaele era un fornaio, faceva il pane, ed era fra i pochi che poteva portare abbastanza cibo a casa
per vivere bene. Era giovane, ma si era già sposato, con una ragazza che era partita con la sua
famiglia da San Procopio, uno sperduto villaggio sull’Aspromonte, per fare la tabacchina nel
Salento. Si chiamava Iolanda, e aveva i tratti fisici arcigni e pronunciati degli albanesi che si
stanziarono in Puglia e Calabria nel 1500, per sfuggire ai turchi. Restò incinta proprio allo scoppio
della Seconda Guerra Mondiale. Raffaele dovette partire per il fronte.
Era un ragazzone alto e vigoroso, buono come il pane
che faceva, ed era il più benvoluto fra i suoi camerati.
Con la sua faccia simpatica e il suo eterno baffetto,
pareva un attore americano di quelli che ti rubavano il
cuore. Scriveva sempre a casa sua, brevi ma intense
letterine, associate a fotografie, per far vedere che
stava bene. Ma la guerra prendeva per le lunghe. Era
un ragazzone alto e vigoroso, buono come il pane che
faceva, ed era il più benvoluto fra i suoi camerati. Con
la sua faccia simpatica e il suo eterno baffetto, pareva
un attore americano di quelli che ti rubavano il cuore. Scriveva sempre a casa sua, brevi ma intense
letterine, associate a fotografie, per far vedere che stava bene. Ma la guerra prendeva per le lunghe.
Anche nel Salento suonavano spesso le sirene, per avvisare del pericolo di bombardamento. In una
di queste occasioni, nella confusione della fuga generale verso i rifugi antiaerei, a Iolanda cadde
dalle fasce la sua figlioletta appena nata, fortunatamente senza conseguenze. Intanto, Raffaele fu
fatto prigioniero dai nazisti e chiuso in un campo di concentramento. Il giovane conobbe ogni tipo
di orrore concepibile. Ad ogni sortita dei partigiani italiani che causava morti nazisti, nel suo campo
portavano al muro i suoi amici. Per ogni morto tedesco venivano fucilati 10 italiani. Una volta finì
anche lui al muro. Il boia li passava in rassegna, selezionando chi veniva fucilato e chi rinviato. “Tu
si, tu no, tu si, tu no”…Capitò in mezzo a due “si”, e se la cavò. Ma la guerra continuava, insieme
alle rappresaglie. Per un’altra volta fu messo al muro e poi scartato dalle esecuzioni. E intanto
lavorava come una bestia. Erano tre anni ormai che non poteva mandare lettere a casa, e l’inferno
gli pareva senza fine. Ma anche quella guerra finì, e verso la fine del 1945 Raffaele rientrò a Lecce.
In città mancava tutto, ma lui si diede subito da fare, riprese a fare il pane nel suo forno, e in breve
tutta la sua famiglia si riprese alla grande. Come tutti i fornai aveva l’abitudine di un bicchiere di
vino ad ogni infornata che faceva. A chi gliene chiedeva la ragione, rispondeva: “Eeeh, li guai de la
pignata li sape la cucchiara!”. Il problema di quel mestiere era che chi lo faceva, per via del gran
calore della bocca del forno, soffriva spesso di bassa pressione. E per il dottore l’unico rimedio era
una bella sorsata di rosso. A fine giornata, i fornai barcollavano un po’. Ma tutto procedeva bene
per Raffaele. Purtroppo, in un banale incidente capitatogli mentre andava al lavoro col motorino,
cadde e batté la testa. Non morì, ma da allora il suo cervello non si riprese più. Alternava momenti
di pacata “assenza”, ad altri in cui beveva furiosamente. Iolanda gli doveva nascondere il vino, e
allora lui beveva l’aceto. E ne combinava di tutti i colori, come un bambino faceva la pipì nei
cassetti. E la sua mente rievocava in solitudine forzata il dramma che aveva vissuto nella solitudine
assoluta della Germania. Erano gli anni ’50, l’Italia stava pian piano ripartendo, ma in quella casa
ripiombò la povertà più nera. Raffaele non poteva più lavorare, Iolanda si barcamenava come
poteva, ma continuava a fare figli, per “tenerlo buono”, specie quando Raffaele si ingelosiva dello
zio Girolamo (che veniva per aiutare lei e i nipotini), credendolo il suo amante. Aveva momenti di
nebbia in cui non riconosceva nemmeno i figli. Nemmeno suo fratello. “Chi è quell’uomo? Che ci
fa a casa mia? Che cosa vuole da te?”, urlava. E Iolanda cercava di calmarlo, struggendosi in
silenzio. Da allora cominciò a restarle sul viso una smorfia, un ghigno, dopo che scuoteva il capo
fra sé. E non sapeva più come fare, certi giorni, a crescere i suoi 6 figli. Si era venduto tutto il suo
corredo, i suoi splendidi ricami, gli uncinetti, per quattro soldi, portatigli via anche dai suoi stessi
parenti. Non le importava più niente di tutto quel suo solitario lavoro alla finestra…
L’importante era vestire quei bambini,
“strazzati ma puliti”. L’importante era tirare
fuori quel gigantesco filone di pane che li
faceva schizzare su come molle, mentre famelici
se lo consumavano con le lacrime agli occhi. Il
più svelto fra loro era Giuseppe, “lu Pinu”, per
tutti gli abitanti del degradato quartiere di
Stalingrado, a Lecce, che si estendeva oltre il
bastione grande delle mura, in direzione della
chiesa della “capu de Santu Ronzu”. Era un
piccolo agglomerato di casupole vecchie e
basse, costruite lungo la strada che portava al
mare. Per i suoi abitanti era quella, la città, c’era
un po’ di tutto. E Pino la conosceva meglio
delle proprie tasche. C’erano i bagni turchi, la
baracca dei ferrivecchi e dell’arrotino. La
bottega di suo nonno materno, “lu mesciu
Peppinu”, energico falegname con la faccia e i
modi di Mussolini. La rivendita dei carboni,
dove c’era un biondo craunaru che sarebbe
sembrato un pallido tedesco se non fosse stato
sempre unto di nero dalla testa ai piedi: ogni
volta che la mamma lo mandava da lui restava
impaurito a vedere uscire quel colosso nero dal
suo minuscolo antro bottega.
Il personaggio più simpatico era “lu Napoleone”, un barilotto tondo più che un uomo, che
attraversava Stalingrado con la mano nel panciotto, spingendo un carretto, coperto da un grande
ombrellone, sotto cui era appesa ogni sorta di cianfrusaglia. I bambini gli correvano intorno,
sfottendolo come un sempliciotto. Qualcuno diceva che egli fosse una grande mente, un genio
incompreso, ma che alla fine si fosse rimbambito, bruciando il suo talento con il vino. Lui reagiva a
quelle pesti lanciandogli dietro bottiglie e tante male parole. Poi c’era la casetta della famiglia
Petrachi, dove il giovane Bruno suonava sempre una vecchia fisarmonica, accompagnato da tutti i
suoi, che, un po’ con i bicchieri, le posate, le pentole e un tamburello, allietavano continuamente il
quartiere con le loro canzonette, che trascinavano gli abitanti per un po’ lontano dalla miseria. La
sera, Bruno andava sempre a suonare la serenata sotto casa della Giuseppina, bellissima ragazza
color castano, che voleva tanto bene ai bambini del quartiere. Quando incontrava Pino lo prendeva a
due braccia, sollevandolo in aria contenta: “Mamma ce si beddru, cu dri occhi de ulia!”. Il bimbo
era felice di quei bacetti affettuosi. La Giuseppina era la più bella ragazza del quartiere. Ogni tanto
veniva un uomo importante, con la carrozza, per parlarle. Dicevano fosse un nobile. Le faceva la
corte, mentre tutto il vicinato restava affascinato dai suoi cavalli, e il sontuoso calesse tutto coperto.
Viveva in una delle masserie più belle di tutta la zona, aveva pure le colombaie sui suoi muri, ed era
circondata da un imponente muretto a secco. Nessuno avrebbe immaginato di vederla, 50 anni
dopo, abbandonata fra i rovi, dimenticata nei pressi del grande centro commerciale di Surbo.
Comunque, Giuseppina preferì il più povero, Bruno, che le cantava sempre le serenate.
Stalingrado era un borgo in mezzo a una grande campagna, un microcosmo con le ore contate, dove
un giorno avrebbero costruito una superstrada e un imponente albergo di lusso. C’era un piazzale
dove si organizzava un mercato della frutta. E questo era preda delle scorrerie di Pino e i suoi
amichetti, che, mezzi morti di fame, arraffavano qualche mela e sparivano nelle campagne. Quando
il bottino era importante, cioè qualche grossa patata, Pino li portava lì vicino, dove c’era uno
stabilimento dove spremevano l’uva, e se la sua altissima ciminiera emetteva fumo voleva dire che
era in funzione. Così, scavalcati i cancelli, penetravano all’interno, esattamente nello spiazzo dove
buttavano una montagna di acini bollenti: dentro, vi ci ficcavano le patate. Aspettavano per un po’,
fregandosi le mani e sbavando avidamente, quindi strafucavanu le patate cotte come una leccornia.
Nonostante tutte le difficoltà, a casa, mamma Iolanda teneva vive le tradizioni di sempre, e prima
fra tutte la preparazione al periodo del Natale e della Befana. Chiedeva sempre a Pino, pure che era
il più mingherlino, di arrampicarsi su qualche albero e tagliare il ramo più bello, per addobbarlo poi
in casa. A Pino piaceva molto questa cosa. Una volta si caricò sulle spalle un enorme e bellissimo
ramo, che però, per quanto era pesante, aveva dovuto trascinarlo strisciandolo per terra. Arrivò a
casa che l’albero aveva l’odore di certi escrementi di cui proprio non s’era accorto. Così dovette
tornare a cercarne un altro. Adorava le feste. Aspettava Pasqua per mangiare le puddriche di
mamma Iolanda. E la festa di S.Oronzo, per vedere la città tutta colorata. Un anno, che proprio non
aveva in tasca nemmeno una moneta per godersi la festa, si decise, e ordinò al fratello maggiore,
Vittorio: “Vieni con me”. Si diresse dietro il grande bastione delle mura, dove c’era la caserma dei
vigili e gli uffici comunali. Approfittando della confusione, per via del mercato che si istallava lì
intorno, si introdusse da una finestra in uno di questi uffici. Aprì i cassetti di una grande scrivania di
legno, e trovò un grosso sacco pieno di monete. Ci affondò le mani, e prese quanto bastava a
riempirsi le tasche. Poi si calò giù dal fratello, e col malloppo si godettero i tre giorni di festa dei
patroni della città. La nonna li vide. Lei, con quella lunghissima chioma di capelli bianchi legati a
cesto all’insù, curava i bagni pubblici, e li scorse trionfanti: “Ehi! Che avete fatto? Mo ni la dicu a
mesciu Peppinu!”. Ma loro sfuggivano a tutto, famelici e ribelli, opportunisti come volpi. Quando
andavano a scuola, entravano in città, e superata la vecchia chiesa di S. Francesco di Paola,
arrivavano alla scuola elementare “De Amicis”. Dagli altri compagni di classe venivano guardati
con sospetto: “De du siti?”. “De Stalingradu”. E seguivano occhiate di pena. Pino faceva finta di
non vederle. Non era affatto ferito, si convinceva, “loro se la sognano la fiera degli animali, che
fanno solo nel nostro quartiere”. Lì, infatti, si radunavano periodicamente animali da tutto il
Salento, per fare un grande mercato di cavalli, vacche, galline e un po’ tutto. Il mercato vero e
proprio era sotto i bastioni. Pino e gli altri vi ci scorrazzavano, fino all’obelisco, dove si
organizzava il solito giochino: uno di loro in mezzo, gli altri quattro in cerchio che non dovevano
farlo uscire. In giro non si vedevano mai auto, le strade erano loro. Facevano continuamente scherzi
alle signore del loro quartiere, le più bersagliate fra tutte, la Memè e la Chicchina: con la fionda
buttavano i tronetti nel loro addrinaru di casa, facendo scoppiare col loro botto un pandemonio fra
le galline dell’orto. Se non era abbastanza svelto lo vedevano, “lu Pinu è statu, lu Pinu!”, e lo
inseguivano tutti insieme, come un pericolo pubblico. Col fratello e gli altri si eclissavano nelle
campagne, superando la macina che spaccava le pietre, e imboscandosi nei campi dove i contadini
avevano delle grandi vasche da cui prendevano l’acqua. Qui, Pino e gli altri facevano il bagno
insieme alle rane. Si godevano il loro trionfo, e poi tornavano a Stalingrado, verso il cimitero, dove
c’erano tanti giardini pieni di alberi da frutta. Ne scavalcavano i muri, per fare merenda. E spesso si
facevano gli scherzi pure fra di loro. Così, un giorno Pino gridò agli altri, per farli spaventare:
”Arriva lu padrunu!”. E quello più lento, che stava ancora sul cancello, per la paura fece un
movimento sbagliato, e una scheggia di legno del portone gli perforò i testicoli. La sera, quando
tornava a casa, quasi sempre Pino le doveva buscare. Così, capita l’antifona, si rifugiava al suo
posto segreto, fra le colonne, le statue e i capitelli antichi, che il comune accumulava a Stalingrado
in attesa di una sistemazione. Qui infatti le autorità avevano iniziato a scavare nel terreno per
preparare il posto ad una grande autostrada: per caso, erano venuti alla luce dei cunicoli sotterranei,
completamente lastricati, che si perdevano nel buio, nel ventre della terra. Si diceva che portavano
all’anfiteatro romano, e sotto la villa comunale. Però Pino non si era mai deciso ad attraversarli,
perché c’erano grossi massi che scricchiolavano. Comunque, erano il suo rifugio sicuro, il posto
dove veniva a piangere da solo quando volevano punirlo a tutti i costi. E di piangere fra statue e
capitelli antichi, non si vergognava. Quando non andava a scuola, Pino iniziò a lavorare presso il
nonno falegname. Finché, lo zio Girolamo gli trovò lavoro in un’officina, perché di studiare non se
ne parlava neanche. Crescendo, cambiò zona. Iniziò a frequentare il centro. Il bellissimo mercato
coperto, “quello dei leccesi”, che stava fra il castello e il palazzo delle poste. Viveva alla giornata.
Non si poneva neanche, le questioni del ’68, o della “guerra” che insanguinava l’Italia allora,
durante i primi anni di piombo. Passeggiando in via Trinchese gli interessavano solo le ragazze.
Con la camicia aperta sul petto vigoroso, la collana col Cristo cui non aveva mai dato gran tempo,
un cesto di capelli come i Beatles. Tutte le ragazze andavano bene. Mamma Iolanda lo chiamava “lu
puttanu”. Era una fissazione per lui. Nel branco si aveva gran prestigio ad essere stati con tante
ragazze. Così, quasi per sfregio, manco fosse una missione da compiere. Poi, incontrò Maria.
Questa ragazza era una peste, un vero
maschiaccio, turbolenta come poche.
Bellissima. Però, pareva un osso un po’ duro
da lavorare. Certo, lei si era innamorata persa
di lui, ma quel suo certo orgoglio mascolino
le faceva ricacciare le emozioni in gola,
quando lo vedeva passare in via
Trinchese. Schiattava, il cuore le scoppiava,
ma faceva finta di niente. Anche la sua
famiglia era cresciuta nelle ristrettezze, come
la maggioranza della popolazione salentina di
allora. Suo nonno materno si chiamava
Antonio Carmelo. Da giovane aveva il vizio di
andare per bettole. Un giorno, dei tizi gli
chiesero di portare un cavallo da una certa
parte. Gli offrirono una bottiglia. Poi lui si
incamminò. Lo fermarono i carabinieri, ma
essendo ubriaco non riuscì a spiegarsi tanto
bene. Gli fu affibbiata l’accusa di furto, di quel
cavallo, che per l’epoca era quasi un crimine,
accusato a gran voce da un uomo che lui
manco riconosceva. Si fece dieci anni di
carcere. Poi tornò a casa. Ma la guerra
incombeva, e dovette partire anche lui. Fu
catturato e fatto prigioniero in Sardegna.
Cessato il conflitto e rientrato a casa, conobbe sua figlia Anna, che aveva 12 anni e lo chiamava “lu
Tata”. Riuscì a riprendere il suo lavoro di intagliatore di tufo. Poi, per curarsi la bronchite, fu
costretto a ritirarsi a vivere a Trento. Da solo, perché non c’erano soldi. Guarì, però si ammalò di
cuore. Morì d’infarto, e fu sepolto lì, dove i familiari, in disaccordo, lo lasciarono. Cinquant’anni
dopo, la figlia Anna si dispiaceva ancora: “Chissà dove finì, poi, lu Tata”… Il suo accusatore, poi,
in punto di morte, confessò che Antonio Carmelo non aveva affatto rubato quel cavallo, e che
dovevano riabilitarne la memoria. Purtroppo, per una delle sue figlie, Tetta, era troppo tardi. La
ragazza era bellissima, una gran lavoratrice, e aveva una lunga fila di pretendenti. Solo che lei ne
voleva solo uno, il suo bravo innamorato, un agente della finanza, che la voleva sposare appena ella
avesse compiuto 17 anni. Il suo matrimonio non si fece per via della fedina penale sporca del padre:
l’Arma lo impedì, al suo uomo. Così, Tetta non volle più nessun altro. Si chiuse nella casa di una
ricca famiglia di Lecce, e vi fece la domestica per 60 anni, finché cominciò ad avere problemi con
l’Alzheimer e fu chiusa in ospizio. Da dove ancora continuava a chiedere alle infermiere perché non
poteva stare a casa sua. Anche sua sorella Anna era una gran lavoratrice. Viveva a Martano, tesseva
corredi, aiutava le tabacchine e faceva la domestica dai ricchi. C’era un bel ragazzo, Alfredo, che
stravedeva per lei. Finita la guerra, si ricominciava a costruire case, e Alfredo era muratore, e
lavorava sodo. Voleva metter su famiglia. Con Anna.
Per avvicinarla, doveva
aspettare che lei andasse alla
fontana. Solo per uno
sguardo, una parola. Mentre
lei gli sussurrava, “non ti
avvicinare!”. D’estate lei
lavorava a Castro, e lui
inforcava la bici e partiva da
Lecce, per vederla quei
pochi istanti. La fontana era
posta in un luogo
incantevole, incastonata fra
le rocce e il mare in un
panorama da cartolina. Più
di 50 anni dopo, un costone
di quella scogliera sarebbe
venuto giù, esausto per l’in-
curia del progresso. Ma in quell’epoca si
viveva nel sole del lavoro contadino, che
illuminava visi scavati, mani e membra
vigorose, occhi lucenti vibranti di vita, cuori
straripanti d’amore. Trent’anni prima, da
Castro era passato un poeta tedesco,
Hermann Hesse, che vi aveva vissuto per un
po’, frequentando clandestinamente una
brava ragazza del posto. La sua piccola,
curiosa, sovente gli domandava della sua
patria, la Germania così lontana e straniera,
e fiabesca e ridicola:
-Come vivete, laggiù?
-Assai peggio di voi.
-Come amate?
-Ah, non certo ardentemente come voi…
-Come danzate, e cantate?
-Non ne parliamo!
-E la vostra terra?
-E’ bella, ma fa tanto freddo…
-E questo è tutto?
-Tutto, bambina mia. Solo una cosa abbiamo, che a voi manca. Ci freme nell’anima, quando
danziamo, fa dolci e beati i nostri rozzi canti, ci porta pellegrini nel vostro sud, che noi capiamo
come voi non capite, e che tuttavia mai ci fa felici…-
Solo uno straniero poteva afferrare la bellezza di quella terra, quel tempo, quelle ragazze con i
capelli al vento. Poteva scriverlo. Ma solo questo. Alfredo invece non lo sapeva neanche, ma voleva
viverlo. Doveva viverlo. A Lecce seguiva Anna con la bici, mentre lei scendeva dal tram, e
passeggiavano innocentemente. Per quattro anni ingenui. Finché un estate Alfredo le disse: “Se vai
di nuovo a Castro è finita: sposami. Non dare ascolto ai tuoi parenti. Non sopporto che davanti a me
ti parlino in greco così io non posso capirli. Vieni via con me!”. E lei andò. Si sposarono, e quando
restò incinta, Anna si chiese: “E adesso, da dove uscirà il bambino?”…Imparò alla svelta, e ne fece
cinque. La prima fu Maria.
A Maria piaceva troppo Giuseppe, “lu Pinu”, tanto che quando lo presentò finalmente a suo padre
Alfredo, questi poi le sbottò: “Me pensava tuttu stu grande personaggiu”… Non le diede il suo
benestare, come non lo aveva dato alla seconda delle figlie, Laura, che pur di stare col suo Gigi se
ne scappò di casa a 14 anni, e l’anno dopo era già madre e moglie. Senza sapere nulla della vita.
Che le riservò botte, divorzio e due figlie con tanti problemi d’amore. Ma Alfredo non sapeva
parlare, lui imponeva la sua legge, tanto sacrosanta quanto scorbutica. Così, anche Maria fuggì di
casa a 19 anni. Lo trovava proprio unico, Pino. Come Lucio Battisti. Era innamorata. Come succede
raramente. Quella donna era una madonna che urlava di piacere. Assomigliava alla “Linda” di
Battisti, e la cantava pure, ma non lo sapeva. Nulla sapeva. Solo che lo amava. Nel 1974, “Linda”
uscì dalla sua canzone e prese a ballare la vita. Sapeva che l’avrebbe amato per sempre. E chissà,
forse era davvero così. E quando si dice che in una coppia è finito il “mistero”, che non c’è più
intensità, né alcun velo o futuro, beh, forse è solo perché manca quel tipo d’amore che sentiva
Maria. Materno. Quello che ti ha visto nudo dalla nascita, che ti conosce senza parole o azioni.
Quello che ti amerà come il primo giorno, ma non perché sia conscio in qualche modo della propria
grandezza: perché conosce soltanto quel modo d’amare. Per qualcuno, certo, un privilegio.
Giuseppe e Maria non si mollavano un attimo. E una sera accadde l’inevitabile. Erano in un vecchio
stanzone che a quei tempi si adattava a “cinema”, e guardavano il film “Malizia”, con una splendida
Laura Antonelli e un ragazzino del tutto particolare come protagonisti. Erano in fondo alla sala, e
nella penombra si avvinghiarono per la prima volta. Concepirono il loro primo figlio, Alessandro.
Appena nacque, febbraio 1975, suo nonno Raffaele parve rinsavire, un vero miracolo, e rideva e se
lo giocava felice. Era il suo primo nipote. Ma durò poco. Sei mesi dopo, il suo fegato distrutto
protestò per l’ultima volta, e poi se lo trascinò via con sé. Aveva 58 anni. Alex non prese l’aura
solare da giovanottone americano del nonno, pareva l’indecisione, la timidezza fatta persona. Come
se ce l’avesse nel sangue. Tutti lo prendevano bonariamente in giro, e lui lasciava che lo facessero.
Perché di una sola cosa gli importava e credeva di sapere, con assoluta certezza (chissà come, poi):
l’Amore. Su quello, nessuno l’avrebbe preso in giro. Avrebbe fatto tutto da solo. “Coraggio”, si
disse, “…ce ne sono tante strade, ma questa è l’unica che voglio percorrere. O questa o niente”.