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In Italia, a partire dagli anni Ottanta, si è sviluppato un importante movimento culturale, che ha coinvolto la grafica e in generale il progetto di comunicazione. Il testo che appare qui, apparso finora solo in francese, e che va a esplorare le radici storiche del fenomeno, rappresenta la tappa centrale di un processo, che ha preso inizio con la Biennale della Grafica di Pubblica Utilità, tenutasi a Cattolica nel 1983, e che ha avuto la sua massima espressione programmatica nella Carta del Progetto Grafico, pubblicata ad Aosta (presso Franco Balan) nel1989. Una tappa, questa parigina, che, avendo preso la forma di una grande mostra al “Centre Pompidou”, rappresenta il riconoscimento internazionale degli sforzi del gruppo di progettisti e teorici italiani, anzi si può dire che la mostra parigina abbia rappresentato un importante segnale di un risveglio degli interessi per le tematiche del public design nel quadro dell’intero panorama mondiale. Il gruppo, che all’inizio aveva scelto come nome di battaglia “L’altra grafica”, nel senso di una grafica antagonista non solo nelle modalità espressive autre ma anche antagonista della centralità e del quasi monopolio della tradizione milanese nell’ambito del design della comunicazione, ha poi deciso di segnalarsi come “Grafica di Pubblica Utilità”, cioè come una grafica pubblica che considera il proprio utente non più come un suddito ma come un concittadino. Il gruppo ha sviluppato una ricca stagione di manifestazioni e un intenso contesto di elaborazioni culturali, rivitalizzando l’AIAP (l’associazione professionale dei designer della comunicazione) e arrivando a esprimere una rivista di teoria, storia e metodologia intitolata “Grafica”, pubblicata a Salerno. Di Salerno sono Pino Grimaldi e Gelsomino d’Ambrosio, di Bari è Beppe di Liso, di Pesaro Massimo Dolcini, di Roma Elena Green, Giovanni Lussu e Daniele Turchi, di Firenze è Andrea Rauch, di Venezia Gaddo Morpurgo, Enrico Camplani e Gigi Pescolderung, di Torino Gianfranco Torri, Paolo Derobertis e Tiziana Erbetta, di Milano Roberto Pieracini, Gianni Sassi, Lica Steiner e Giovanni Anceschi. La stragrande maggioranza di queste figure di autori e di progettisti, se non lo erano già a quei tempi, sono oggi attivi come docenti nell’Università Italiana. Prima di abbozzare un’analisi delle immagini della pubblica utilità, è necessario dare qualche definizione, perchè non c’è storia senza teoria e chiunque produce storia possiede, più o meno inconsapevolmente, una teoria tassonomica o tipologica che sia, foss’anche rudimentale. Insomma va creata una mappa con la sua toponomastica. Va creata una terminologia. La rappresentazione lineare della storia ci guadagnerebbe ad essere sostituita da una mappatura, suddivisa in aree diverse a seconda dei caratteri tipologici o tematici. Sappiamo bene che la sequenza temporale è solo un espediente narrativo che privilegia certi nessi. Una griglia o una mappa di relazioni soggette a periodici cambiamenti potrebbe essere un modello più adatto. È questo cinetismo metamorfico che bisognerebbe tradurre. E potrebbe funzionare come programma per quegli studi (che non ci sono né per la storia della produzione grafica, né nel campo del visual design), garantendo una periodizzazione più analitica di quella ovvia dei grandi cicli: dalle origini alla Scriptura Artificialis, e poi da Gutenberg sino alla fine dell’Ottocento con il diffondersi dei libri e dei periodici, e ancora sino al boom della pubblicità e del manifesto. Ed è inoltre possibile entrare più nel dettaglio distinguendo i pionieri degli inizi del secolo, legati alle avanguardie storiche, dai professionisti attivi a partire dagli anni Trenta. Questo processo ha finito per creare una koinè, una 1

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1 sorta di gergo grafico che è anche uno stile internazionale, il quale ha saputo però generare diverse scuole nazionali: inglese, americana, svizzera, tedesca, polacca, italiana, giapponese, ecc.; ed ha anche prodotto una grafica alternativa, l’anti-grafica o l’“altra grafica”, a partire dagli anni Sessanta. Noi qui ci limiteremo pertanto a tracciare un quadro dei diversi tipi di “immagine” del settore pubblico. 2 3 4 5 poco più coercitivo nei confronti dei suoi sudditi. 6

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In Italia, a partire dagli anni Ottanta, si è sviluppato un importante movimento culturale, che ha coinvolto la grafica e in generale il progetto di comunicazione.Il testo che appare qui, apparso finora solo in francese, e che va a esplorare le radici storiche del fenomeno, rappresenta la tappa centrale di un processo, che ha preso inizio con la Biennale della Grafica di Pubblica Utilità, tenutasi a Cattolica nel 1983, e che ha avuto la sua massima espressione programmatica nella Carta del Progetto Grafico, pubblicata ad Aosta (presso Franco Balan) nel1989.Una tappa, questa parigina, che, avendo preso la forma di una grande mostra al “Centre Pompidou”, rappresenta il riconoscimento internazionale degli sforzi del gruppo di progettisti e teorici italiani, anzi si può dire che la mostra parigina abbia rappresentato un importante segnale di un risveglio degli interessi per le tematiche del public design nel quadro dell’intero panorama mondiale.Il gruppo, che all’inizio aveva scelto come nome di battaglia “L’altra grafica”, nel senso di una grafica antagonista non solo nelle modalità espressive autre ma anche antagonista della centralità e del quasi monopolio della tradizione milanese nell’ambito del design della comunicazione, ha poi deciso di segnalarsi come “Grafica di Pubblica Utilità”, cioè come una grafica pubblica che considera il proprio utente non più come un suddito ma come un concittadino.Il gruppo ha sviluppato una ricca stagione di manifestazioni e un intenso contesto di elaborazioni culturali, rivitalizzando l’AIAP (l’associazione professionale dei designer della comunicazione) e arrivando a esprimere una rivista di teoria, storia e metodologia intitolata “Grafica”, pubblicata a Salerno.Di Salerno sono Pino Grimaldi e Gelsomino d’Ambrosio, di Bari è Beppe di Liso, di Pesaro Massimo Dolcini, di Roma Elena Green, Giovanni Lussu e Daniele Turchi, di Firenze è Andrea Rauch, di Venezia Gaddo Morpurgo, Enrico Camplani e Gigi Pescolderung, di Torino Gianfranco Torri, Paolo Derobertis e Tiziana Erbetta, di Milano Roberto Pieracini, Gianni Sassi, Lica Steiner e Giovanni Anceschi. La stragrande maggioranza di queste figure di autori e di progettisti, se non lo erano già a quei tempi, sono oggi attivi come docenti nell’Università Italiana.

Prima di abbozzare un’analisi delle immagini della pubblica utilità, è necessario dare qualche definizione, perchè non c’è storia senza teoria e chiunque produce storia possiede, più o meno inconsapevolmente, una teoria tassonomica o tipologica che sia, foss’anche rudimentale. Insomma va creata una mappa con la sua toponomastica. Va creata una terminologia. La rappresentazione lineare della storia ci guadagnerebbe ad essere sostituita da una mappatura, suddivisa in aree diverse a seconda dei caratteri tipologici o tematici. Sappiamo bene che la sequenza temporale è solo un espediente narrativo che privilegia certi nessi. Una griglia o una mappa di relazioni soggette a periodici cambiamenti potrebbe essere un modello più adatto. È questo cinetismo metamorfico che bisognerebbe tradurre. E potrebbe funzionare come programma per quegli studi (che non ci sono né per la storia della produzione grafica, né nel campo del visual design), garantendo una periodizzazione più analitica di quella ovvia dei grandi cicli: dalle origini alla Scriptura Artificialis, e poi da Gutenberg sino alla fine dell’Ottocento con il diffondersi dei libri e dei periodici, e ancora sino al boom della pubblicità e del manifesto. Ed è inoltre possibile entrare più nel dettaglio distinguendo i pionieri degli inizi del secolo, legati alle avanguardie storiche, dai professionisti attivi a partire dagli anni Trenta. Questo processo ha finito per creare una koinè, una

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sorta di gergo grafico che è anche uno stile internazionale, il quale ha saputo però generare diverse scuole nazionali: inglese, americana, svizzera, tedesca, polacca, italiana, giapponese, ecc.; ed ha anche prodotto una grafica alternativa, l’anti-grafica o l’“altra grafica”, a partire dagli anni Sessanta. Noi qui ci limiteremo pertanto a tracciare un quadro dei diversi tipi di “immagine” del settore pubblico.

Ciò che notiamo subito è che la comunicazione pubblica è l’immagine di un’istituzione, di un “corpo artificiale”, di un organismo sociale. In Gran Bretagna si chiamano “public corporations”, in Francia “societées nationales”; la Bundesbahn ne è una in Germania, in Italia lo è (o meglio lo era) l’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi). Tali organismi sono un insieme di strutture produttive e di individui, fortemente organizzati. Del resto, quando parliamo di “corpo separato” per suggerire che un servizio lavora in modo troppo autonomo, ci si riferisce al carattere organismico dello Stato. Lo stesso vale quando si parla di “corpo d’armata” o di “spirito di corpo”. E questo corpo deve mostrare la propria identità, sia per distinguersi dagli altri sia per assicurare una buona coesione tra i propri membri. Senza voler risalire al totemismo o all’araldica in quanto sistemi di immagini che strutturano una società, possiamo affermare che gli organismi pubblici o sviluppano una relazione attiva verso l’esterno, per cui la loro immagine emana seduzione e prestigio o timore e rispetto, oppure sono concentrati sul controllo delle proprie strutture interne e vogliono che quegli stessi strumenti ispirino un sentimento di ordine, di gerarchia e di collaborazione. Ogni emblema è un elemento di identificazione e al tempo stesso di coesione (distintivo/uniforme). “Quando il bellipotens Boemundus, [Boemondo il bellicoso], venne a sapere che i Franchi stavano per mandare una consistente armata di cristiani, pronta a combattere i pagani per conquistare il Santo Sepolcro, egli fece una meticolosa inchiesta sul tipo di armatura che ciascuno di loro portava, sulla loro ostensio Christi, in altre parole sulla forma della croce riportata sui loro vessilli e sul loro signum, il loro urlo di guerra durante la battaglia”. Quindi, secondo il cronista dell’epoca, sembra che per l’organizzazione della prima crociata, Boemondo di Taranto conoscesse già le regole insegnate dai designers, ad es., da Gui Bonsiepe, uno dei teorici contemporanei dell’immagine coordinata, secondo il quale, un buon progettista deve “definire la situazione attuale dell’immagine”, preparando “una lista dei diversi elementi del progetto”, quali gli armamenti, le tipologie di croce, l’urlo.Non è di poco conto l’importanza qui accordata alle armi, ai segnali visuali e sonori in quanto indizi del comportamento dell’individuo all’interno del gruppo. Nell’immagine costruita artificialmente c’è un indubbio aspetto logistico e militare, e anche sicuramente una ricerca di conformismo. Mi ci soffermo solo per sottolineare la mia reticenza davanti ad un modello estremo di immagine coordinata che è stato realizzato da un “Boemondo” dei nostri tempi che ha scatenato una guerra mondiale e religiosa. La sua fu un’immagine totalizzante e totale che ha colpito tutto un popolo, imponendogli un marchio (la croce uncinata), un sistema coordinato di colori e di simboli, un’urbanistica (autostrade e Volksbauplan), un’architettura spettacolare e rituale per le grandi cerimonie, dei prodotti di consumo (la Volkswagen), il tutto con una minuzia ed un’efficienza agghiacciante che non risparmiavano né il lessico (il Nazideutsch), né i caratteri tipografici ufficiali (il Fraktur).Un delirio narcisistico vero e proprio dello Stato-nazione.Dopo aver visto tutto questo svilupparsi sino alle sue estreme conseguenze, potremmo pensare di essercelo lasciato alle spalle, per fortuna. (O non è successo invece, come suggerisce No logo, che è stata l’immagine aziendale a permeare tutta la società e

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tutta la cultura?).Quando lo Stato non ha la pretesa di sostituirsi alla società, la comunicazione non proviene più da un solo “corpo” bensì, come dicono Henrion e Parkin, i due padri fondatori della teoria dell’“image”, dall’incontro tra diverse “persone artificiali”, ossia tra più organismi, attivi nel campo della comunicazione. Dobbiamo distinguere a questo punto le due funzioni fondamentali. Un primo ambito è quello della diffusione: un ente (Stato, ministero, municipio o altro ente pubblico territoriale) vuole consolidare o modificare una determinata situazione a proprio vantaggio. In questo caso intervengono argomenti di tipo persuasivo e seduttivo che hanno dei punti in comune con l’ideologia e la politica, l’educazione e la rivolta, la sensibilizzazione e la mobilitazione. Un esempio tipico di questo intreccio di volontà e di aspettative sono senz’altro le Vetrine della Rosta (di Maiakovski ma anche di Cheremnik e di Maliutin) progettate in Unione Sovietica all’inizio degli anni Venti, o ancora la propaganda sulla produttività rivolta alle industrie di Stato (i fantastici “ciucciotti” di Maiakovski e di Rodchenko del 1923) che sconfinavano nella pubblicità. Resta il fatto che lo slogan o il manifesto punta in questo caso, per mezzo di un’adeguata retorica verbale e visuale, all’educazione del cittadino, che partecipa alla lotta contro i “mali sociali”, come avviene nel manifesto “Salute Sobrietà. Una china pericolosa”, dove, vista l’urgenza del messaggio, la figura dell’ente produttore passa nettamente in secondo piano. Molti temi possono essere trattati con stili diversi: la lotta contro la poliomielite (“Polioresearch” 1950 di Herbert Bayer, proveniente dal Bauhaus e immigrato negli Stati Uniti), gli effetti dell’alcolismo (“Se i genitori bevono...i bambini affogano”, 1953), la lotta contro il rumore (“Weniger Larm” di Muller-Brockmann, 1960), l’incentivo a risparmiare energia (“Clik” del cubano Felix Beltran, 1968), i diritti dei bambini handicappati (“Un altro sguardo per altri rapporti” di Roman Cieslewicz, Montreuil). Sono al limite tra l’economico ed il militaresco: “America’s Answer: Production!” di Jean Carlu (1941), o “Keeps’em rolling” di Leo Lionni (1941), o ancora la croce uncinata infranta di Henrion (1943), uno dei rari manifesti senza testo verbale.Ma la retorica istituzionale non prende solo la forma di un delectando docere [insegnare divertendo] più o meno commuovente e vario, come lo voleva la Congregatio de propaganda fidei di Gregorio XV, il papa della Controriforma. Essa si richiama piuttosto alla definizione di Hobbes sull’autorità: “La legge civile, scrive nel suo Leviatano, è per ogni cittadino l’insieme di quelle regole che lo Stato gli ha imposto di rispettare per mezzo della parola, del testo o di qualsiasi altro mezzo che rifletta la sua volontà”. Una buona informazione del cittadino è dunque indispensabile, a differenza di quanto avviene nel diritto romano secondo il quale non è ammessa l’ignoranza della legge.Tra gli attributi dei corpi dello Stato, ci sono degli oggetti d’uso comune diffusi in tutta la società: il denaro in primo luogo, ma anche i francobolli. Non dobbiamo dimenticare che l’immagine del re, l’emblema dello Stato o la personificazione della repubblica hanno per scopo di trasformare in oro la vile materia della carta o del metallo. La leggenda del re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava, è un’allegoria di questo effetto magico prodotto dall’immagine. I Paesi Bassi hanno saputo istaurare una nuova tradizione in questo settore, grazie ad un programma attuato dal 1945 al 1985 grazie a L. O. Wenkebach e B. Ninaber van Eyben per le monete, e a Wim Crouwel per i francobolli e, soprattutto, a R.D.E. Oxenaar per le banconote. Ma bisogna anche soffermarsi sui supporti della comunicazione tra sovrani e sudditi, fra potere decisionale e cittadini. Qui il carattere unidirezionale e

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imperativo dell’“ordinananza” e del “proclama”, si ritrova persino nell’apparente bidirezionalità del “formulario”, tanto spesso inquisitoria. Il paradigma è la dichiarazione dei redditi.Lo stato è anche creatore di imprese: i servizi pubblici. In questo ambito la comunicazione visuale è qualcosa di più di un semplice strumento: è un mezzo al servizio di uno strumento. Fa parte integrate del servizio pubblico. Nei trasporti pubblici ad esempio, è indispensabile che il materiale messo a disposizione (infrastrutture, veicoli) sia dotato di un sistema di informazione, deve assolutamente prevedere un “interfaccia per la comunicazione”. Perchè il servizio pubblico sia efficiente è semplicemente ovvio che l’utente ha bisogno di orari e di mappe leggibili.A sua volta la segnaletica stradale si fonda su di una sorta di ideologia: quella dell “ergonomia della comunicazione”, la cui razionalità d’impronta fordista punta a ridurre gli errori di percorso e ogni altro disagio subito dagli utenti grazie ad un miglioramento qualitativo della comunicazione e sostanzialmente ad una sorta di lubrificazione dei comportamenti . Va citato a questo proposito il lavoro estremamente semplice, a fronte della complessità della problematica, che rappresenta ancora oggi un notevole standard per la segnaletica stradale, rappresentato dai “British Traffic Signs” di Jock Kinneir (1964).Per ciò che concerne gli spostamenti nella metropoli, legati al problema delle grandi concentrazioni di popolazione, l’archetipo di riferimento resta la ormai quasi centenaria attività di design coordination della Società dei trasporti e dell’Underground londinese. Dal 1907 l’innovazione tecnica è strettamente legata ad un’intenzionale strategia di comunicazione: nel 1913 fu adottato il famoso emblema, nel 1915 il carattere tipografico unico ed esclusivo, il “sans-serif” di Edward Johnston, nel 1931 la complessiva “design policy” di Franck Pick e Albert Stanley ed il prototipo di tutte le mappe diagrammatiche del sistema di trasporto, di Henry C. Beck per il “London Underground” (1933). Sono tutte tappe di un processo che ancora non si è concluso.Un’attenzione particolare viene rivolta a ciò che concerne la promozione; vi lavorano dei grafici come Austin Cooper (“Is is warmer down below”, 1924), Mc Knight Kauffer (“Power the nerve center of London’s Underground”, 1930), ed il pittore Man Ray con il suo straordinario “Keeps London going” del 1932. Il metrò con la sua successione di tunnels e di stazioni, di scale e sotterranei, è un luogo decisamente molto astratto, che pone dei problemi particolari di segnaletica: il senso di orientamento perde i suoi riferimenti ai monumenti e alle particolarità del tessuto urbano. Ciò ha suscitato l’interesse di Bob Noorda, un olandese naturalizzato italiano, che ha lavorato per il metrò di Milano (1964), prima d’intervenire con Massimo Vignelli sui metrò di New York (1970) e di Saõ Paulo (1974).Un altro sistema di trasporto “tubolare” sono le aerostazioni e gli aerei: un flusso costante di utenti penetra nello spazio labirintico dell’aeroporto (come quello di Gatwick disegnato da Kinneir negli anni Cinquanta) dove i pannelli con le indicazioni indirizzano ciascuno verso il proprio aereo, dal quale sbarcherà altrove per essere di nuovo consegnato ad una sequenza di segnalazioni che lo aiuteranno a uscire dall’aeroporto (Schiphol à Amsterdam, ad esempio, disegnato dall’agenzia Total Design, nel 1965).Lo slogan inventato da Villemot per la SNCF “Un servizio pubblico al servizio del pubblico” sembra fare allusione all’autismo della burocrazia che minaccia tali organismi. Ma anche il più pragmatico degli orientamenti deve venire a patti con la volontà di manifestare un’identità locale...Un’insegna municipale nuova può essere

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creata traendo ispirazione dagli stemmi tradizionali, come è avvenuto con l’immagine di Urbino, disegnata da Albe Steiner e dai suoi studenti (1969). Si può scegliere anche la strada novissima del logotipo puramente verbale come nel caso del “Berlin Layout” di Anton Stankowski, o, in Italia, il pittogramma camuno della Regione Lombardia (disegnato da B. Noorda, R. Sambonet e P. Tovaglia sotto la direction di B. Munari nel 1974), mentre per l’immagine del comune di Pesaro si è espresso l’humour corrosivo di Massimo Dolcini (1971). Bisogna dire che, come nei Paesi Bassi, anche le città italiane dedicano particolare attenzione a questi problemi. Una legge degli anni Settanta le ha incoraggiate su questa strada assicurando loro l’autonomia finanziaria in diversi settori importanti tra cui quello della cultura. Ne è emersa una committenza pubblica diffusa che ha prodotto una molteplicità di immagini nelle quali compaiono nuovi tipi di offerte, in particolare quella turistica. Anche in questo quadro di promozione turistica, ci sono dei pionieri e degli innovatori che vanno indicati ad esempio: Herbert Matter e Walter Herdeg in particolare, con i loro manifesti del 1936 per l’Ufficio del turismo svizzero. Anche lo Stato, come i comuni, può promuovere intrattenimenti, manifestazioni sportive o eventi culturali. Due manifesti esemplari per esposizioni artistiche e culturali sono: quella per il Museo Etnografico del Trocadero, creata dall’illustratore Paul Colin (1930), l’altra per “Negerkunst” del “concretista” svizzero Max Bill (1931). Ma sono i Polacchi che hanno saputo sviluppare la più straordinaria “tradizione del nuovo”, per il teatro ed il cinema (Tomaszewski, Lenica, Staroweynski) oltre che per il “Cyrk!” [circo] (Urbanyec, Swieray, etc.). E come non ricordare la trascrizione “sinestetica” della musica realizzata da Muller-Brockmann in occasione del “Konzerte Junifestwochen” della Tonhalle Gesellschft a Zurigo nel 1969.Anche qui si tratta di propaganda, ma che non ha più nulla di ideologico. Alla funzione di “mobilitazione culturale” che riempie ad esempio il lavoro dei Grapus per i teatri, si assomma una funzione semplicemente pubblicitaria data dal fatto che i manifesti incitano all’acquisto dei biglietti, come nel caso del manifesto di Gunter Kieser per il jazz (1977-82). Ma i limiti tra la propaganda consensuale, la semplice pubblicità e la promozione della cultura diventano sempre più labili in una società che considera il museo come uno dei loisir. Pensiamo alle opere di Wolfgang Weingart per la Kunstmesse di Basilea (1980), di Italo Lupi per la Triennale di Milano (1984), e ancora dei Grapus per La Villette. Quando poi si tratta di sport, il disegno grafico tende allora nettamente al colossale ed il visual design alla messa in scena grandiosa. Lo specialista in comunicazione si vede affidare dei compiti che vanno dalla segnaletica all’intervento di autentici attori visuali, passando naturalmente anche dalla scenografia. Katsumie Masaru ha avuto l’incarico per le Olimpiadi di Tokyo (1964), E. Terrazas e L. W. Wyman hanno concepito l’“happening” del Messico (1968) e a Monaco (1972), Otl Aicher ha creato per le diverse discipline sportive una serie di pittogrammi che hanno avuto un enorme successo di diffusione internazionale.L’uso ricorrente del termine “immagine” non vuole, però qui, fare allusione a nozioni come immaginario collettivo e neppure ad uno particolare dei suoi aspetti. Per “immagine” si è inteso qui un surrogato mentale (e complesso) dell’organismo rappresentato, sapendo che come abbiamo visto esso discende da una “policy”, ovvero da un insieme articolato di misure.E parlando di “utilità pubblica”, ci si riferisce al bene comune, il quale può essere inteso in due modi, sia nella prospettiva “municipale”, tipica delle democrazie nordiche, attente alla convivenza e alla qualità della vita, sia nel quadro di un centralismo spettacolare e monumentale (che discende dal dispotismo illuminato) un

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poco più coercitivo nei confronti dei suoi sudditi.

In ogni modo tutti vanno a votare, convocati da manifesti e lettere di convocazione; tutti incollano francobolli sulla propria corrispondenza, pagano i propri acquisti con monete e banconote, osservano i manifesti culturali per le strade, e molti vanno allo stadio o al museo utilizzando a questo scopo i mezzi di trasporto pubblici e la loro indispensabile segnaletica. Tutti hanno in tasca la carta d’identità, gli abbonamenti e altri documenti rilasciati dallo Stato, dai comuni e dai servizi pubblici. Ovunque intorno a noi ci sono, più o meno visibili, bandiere, insegne, sigle che simboleggiano le autorità stesse o gli organismi che le rappresentano. È abbastanza sorprendente che questa grafica istituzionale quasi onnipresente sia stata sinora oggetto di studio solo da parte degli specialisti. Eppure rappresenta l’aspetto concreto di questa realtà evanescente ma sostanziale che costituisce l’insieme dei rapporti sociali organizzati e che determina l’intreccio dei comportamenti collettivi. Qualche opportuna critica alle inefficienze della grafica istituzionale compare sulla rivista francese “Arts et Mètiers graphiques” nel 1929 e, nel 1931, attacchi analoghi sono apparsi sulla rivista italiana “Campo Grafico”. Va citato anche l’articolo “Bad Forms” apparso nel 1980 in “Design” (UK). Ma la rarità di questo tipo di riflessioni resta sorprendente. Esiste però qualche pioniere in questo campo. Negli anni Sessanta, Herion e Parkin hanno proposto una teoria dell’immagine coordinata basandosi in parte sui risultati di un’inchiesta riguardante il settore pubblico. Nella stessa epoca, il lavoro condotto dalla compagnia aerea KLM (1958) apre la strada all’immagine sistematica della Lufthansa (concepita nel 1962 da Entwicklung 5 della Scuola di Ulm), che è stata a lungo considerata un modello. In Gran Bretagna, T. Crosby, A. Fletcher e C. Forbes hanno elaborato una metodologia, A Sign System Manual, mentre in Italia, Albe Steiner, oltre ad insegnare ad Urbino, promuoveva presso i professionisti il modello olandese. Sembra che si stia aprendo una nuova fase di cui questa mostra parigina è un segnale.

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