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SE VUOI ESSERE CONTEMPORANEO LEGGI I CLASSICI

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SE VUOI ESSERE CONTEMPORANEO LEGGI I CLASSICI

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GABRIELE LAVIA

SE VUOI ESSERE CONTEMPORANEO LEGGI I CLASSICI

A cura di Stefano GenoveSe

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Redazione: Edistudio, Milano

ISBN 978-88-566-5801-9

I Edizione 2017

© 2017 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2017-2018-2019 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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Prima PartePERCHÉ ABBIAMO ANCORA

BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

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L’INFINITO PRESENTE DI UN CLASSICO 7

L’Infinito Presente di un Classico

Pare che il tempo passi. Hanno inventato apposta il “pas-satempo”. Per farlo passare, affinché il tempo non si possa fermare. Il tempo fermo fa paura. Ma il “tempo” può dav-vero “passare”? O siamo “noi” che passiamo nel tempo? Ci passiamo per un po’, per poco. E dopo? E dopo, il no-stro passaggio nel tempo finisce. Ma il tempo rimane. In-finito. Presente.

Nel tempo, però, possiamo muoverci. Possiamo andare su e giù nel tempo. Non con il corpo ma con la mente. Basta aprire l’Odissea e sin dal primo verso…

Àndra moi ènnepe, musa, polutropon os màla pollà…Narrami, o musa, dell’eroe multiforme, che tanto

vagò…

…siamo là con Ulisse, l’uomo dai “molti modi di es-sere”, in quel tempo lontanissimo. E mentre siamo col pensiero in quel tempo lontanissimo, il mondo accade ora, istante dopo istante, e noi stessi accadiamo nel mondo. Magari sta piovendo, sentiamo il rumore delle gocce con-tro i vetri della stanza, il mondo si dà, ora e qui. E men-tre si dà, il mondo, ora e qui, siamo altrove, in quell’al-tro mondo, in quell’altro tempo, sulla nave di Ulisse. E

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8 I. PERCHÉ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

quel tempo lontanissimo di Ulisse scorre dentro… ora…qui… Dentro dove? Non si sa. Dentro. In fondo. Giù. Giù in fondo. Quanto giù? Quanto in fondo? Più giù. Più in fondo. Nel fondo del fondo.

Un discorso, o meglio, una chiacchierata sui “Classici” della letteratura non può astenersi da alcune considera-zioni e domande preliminari. Che cos’è un Classico? Che cosa ci fa riconoscere un Classico? Perché un Classico è importante?

La prima caratteristica che si attribuisce solitamente a un Classico è quella di essere “qualcosa del passato”. Ma che cosa è passato? Che cosa è presente? Che cosa è fu-turo? Il discorso sui Classici conduce quindi, fatalmente, sulla strada di una riflessione intorno a un certo pensiero che abbiamo del “tempo”. Prima di dire “passato”, “pre-sente” e “futuro” abbiamo anteposto il verbo “è”: terza persona singolare del presente indicativo. Ed è giusto, per-ché – almeno dal punto di vista concettuale – “passato” e “futuro” sono, indiscutibilmente, tutti e due legati al pre-sente. Non è cosa di poco conto che il “tempo” si dia, nel pensiero, solo al presente. D’altra parte, potrebbe essere diversamente? Noi siamo “nel presente”. È solo il pen-siero che può andare, su e giù, nel tempo.

Quel fenomeno complesso che “trasferisce” al pre-sente il passato e un certo “fantasticato” futuro (che nel momento in cui è fantasticato non è più futuro) ha un nome preciso: “tradizione”. Un vocabolo usato spesso, forse abusato e poco “pensato”. Tuttavia è indubbio che, senza il fenomeno della tradizione, nessuno potrebbe pro-nunciare le tre parole “presente”, “passato” e… “futuro”.

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L’INFINITO PRESENTE DI UN CLASSICO 9

Intorno alla parola “tradizione” corrono molti equivoci: talvolta viene considerata come qualcosa di sorpassato o antiquato. Eppure, senza tradizione l’Uomo sarebbe pri-gioniero in un Presente immobile senza riferimenti e, quindi, senza significati.

L’affermazione «io vivo il presente» è vuota. La vita è solo passata. Infatti l’abbiamo davanti. Noi usiamo il vocabolo “anteriore” sia per indicare qualcosa di passato – cioè avvenuto prima – sia per indicare qualcosa che ci sta davanti. Questo dovrebbe farci riflettere. Invece il “futuro” è posteriore, che vuol dire anche “dietro”. E se è “dietro” non possiamo vederlo perché la vita va sem-pre avanti, cioè verso l’anteriore. Il futuro può solo so-pravvenirci e sorprenderci ma, quando questo accade, è già il “presente”.

In genere, si considera “Classico” un libro scritto molto tempo fa e diventato così importante da “fare epoca”. “Epoca” è una parola che nella sua etimologia greca (ἐποχή, traslitterato epochè) significa “trattenere”, “in-terrompere”, “sospendere”, “fermarsi”. Nel nostro caso “fare epoca” significa “un trattenersi in sé del tempo”. E in questo “trattenersi” dell’insieme del tempo (presente, passato o futuro) è (in quanto trattenersi, epochè) pre-sente a se stesso.

Dunque “fare epoca” potrebbe essere tradotto con “es-sere presenzianti nel tempo”, ovvero far sì che passato, presente e futuro coincidano in una sospensione del tempo lineare, ovvero nel Tempo dell’Uomo, che è sempre e solo (per la durata della sua vita) “presente” e “infinito”. Un Infinito… Presente.

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10 I. PERCHÉ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

In altri termini, un Classico è qualcosa che racconta l’Essere dell’Uomo attraverso il teatro, la letteratura, la pittura, l’architettura, la scultura… E, se vogliamo, an-che attraverso la cucina, il giardinaggio, il gioco, quando questi esprimono – nella tradizione – l’Essere dell’Uomo.

Per questa ragione “tradizionare l’epochè” (dal verbo latino trādĕre, “trasmettere”, “trasferire”), ovvero “cele-brare ciò che ha fatto epoca”, significa scoprire la pre-senza del passato nel nostro essere contemporanei; e non è escluso che anche il Presente Attuale possa essere Con-temporaneo, cioè “tempo sospeso” (passato, presente, fu-turo) quindi “con-tempo”, nell’epochè del nostro vivere. Anche il Presente Attuale ha bisogno di qualcuno che sia in grado di comprenderlo e di “tradizionarlo” proprio nel tempo sospeso. Prendiamo la canzone di Battisti: «Io la-voro e penso a te, chiudo gli occhi e penso a te, non son stato divertente e penso a te». L’epochè non è il lavoro, il chiudere gli occhi, il non essere divertenti, ma è la co-stante sospesa del tempo “penso a te”.

Dunque cosa può voler dire “Classico”? Un vestito clas-sico è un capo che non passa mai di moda, come il frac o lo smoking, perché vestono una cerimonia, la quale si tra-sforma attraverso il tempo pur mantenendo lo stesso fon-damento. L’abito bianco con il velo da sposa è un Clas-sico che veste un rito denso di significati.

Il concetto di “cerimonia” è molto importante per rico-noscere un Classico. E allora ci chiediamo: se in un ma-trimonio, una ricorrenza, un premio o una serata impor-tante si possono riconoscere i tratti della ritualità, dove si trova la cerimonia in un’opera letteraria o artistica? E

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L’INFINITO PRESENTE DI UN CLASSICO 11

soprattutto, chi prende parte a questo cerimoniale? Voglio rispondere così: in un libro la cerimonia è il racconto e ne prende parte l’umanità storica di cui ciascuno di noi fa parte in quel momento, nel momento in cui ciascuno di noi lo legge. Non Io, non Tu, non Egli, ma il Me Stesso, il Te Stesso e il Lui Stesso. Non sono io che mi identi-fico, ma è la mia essenza che, per esempio, corre attra-verso l’oceano burrascoso della vita a inseguire Moby Dick, la balena bianca di Melville. Ecco, potremmo dire che un Classico mi fa prendere coscienza del mio “essere storico”. Cioè di quel “me stesso” che è parte della Sto-ria ed è Storia. Questo vale anche per il teatro e per tutte le arti. Soprattutto per il teatro perché è l’arte più antica, originaria, nata prima della “parola”.

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L’INDICIBILE CONSAPEVOLEZZA DI “ESSERE UN CLASSICO” 13

L’indicibile consapevolezza di “essere un Classico”

Gli antichi Greci lo sapevano. Anche Shakespeare lo sapeva. Come Dostoevskij, del resto. E così Čechov. Sapevano di “essere Classici”, ed erano assolutamente consapevoli che stavano scrivendo dei Classici. Un autore contempora-neo, al contrario, salvo rare eccezioni, sa sempre, quando scrive un romanzo, che non sta scrivendo un Classico.

Pensate forse che Melville nel suo Moby Dick volesse veramente parlare di balene e capitani? In realtà, come tutti i Classici, stava percorrendo la via per giungere ai con-fini dell’anima. Non sapeva forse Dostoevskij – quando stendeva il racconto La mite oppure Il sogno di un uomo ridicolo – che stava scrivendo un Classico? Pensate che non fosse cosciente e determinato a lasciare qualcosa di importante, dal suo punto di vista, per trarre fuori il let-tore dal “sottosuolo”?

Ne Il sogno di un uomo ridicolo insinua le parole «ama il tuo prossimo come te stesso», indicandole come il grande comandamento laico. E aggiunge: «È una ma-niera immortale di amare». Nel racconto La mite, la lai-cità emerge nella triste riflessione del marito, dopo la morte della protagonista:

Tutto è morto e ovunque vi sono cadaveri. Gli uomini, soli, e attorno a loro il silenzio: ecco la terra! «Uomini, amatevi l’un l’altro.» Chi lo ha detto?

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14 I. PERCHÉ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

«Chi lo ha detto?» In quel “chi” risiede tutta la lai-cità di Dostoevskij. Infatti, non fa dire al marito «come ha detto Gesù…», ma gli mette in bocca una domanda: «Chi lo ha detto?». E lo scrittore con quel “chi” intende sottolineare che l’ha detto un uomo. Dostoevskij trova in questo brano un modo magnifico per dire che il suo cri-stianesimo è essenzialmente umano e filosofico, e non religioso o rituale.

E forse che Shakespeare non sapeva quando scriveva Amleto che stava scrivendo il “testo dei testi”?

Non c’è alcun dubbio che Amleto sia il masterpiece, l’opera per eccellenza, perché affronta il dilemma del-l’«essere o non essere», cioè la domanda che si è posta da sempre la filosofia, da Parmenide a Heidegger, la do-manda chiave dell’esistenza, quella che non ha una rispo-sta, nel senso che non ne ha una unica e univoca.

Il filosofo non è quello che inventa una filosofia, ma è colui che cerca e definisce il fondamento su cui pog-gia l’uomo della sua epoca. Da Eraclito in poi, la filoso-fia non ha fatto altro che dare risposte diverse alla stessa domanda: «Cos’è l’uomo?». La domanda è una sola, le risposte sono quelle che ciascuna civiltà dà a quella do-manda. Shakespeare, per esempio, sostiene che il solo modo per “essere” è quello di “non essere”. C’è da chie-dersi se Shakespeare, drammaturgo, avesse una qualche sapienza filosofica. È probabile che l’avesse pur non es-sendone cosciente. In qualche modo l’intera sua opera teatrale anticipa la filosofia moderna di Cartesio. Shake-speare, in quanto Classico, è anche filosofo. Nel suo oriz-zonte poetico “sentiva” che è principalmente la coscienza a renderci vivi: «Sono quello che penso di essere».

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L’INDICIBILE CONSAPEVOLEZZA DI “ESSERE UN CLASSICO” 15

–––––Ogni mattina, quando ci svegliamo, abbiamo la per-

cezione di chi siamo e di stare nel mondo, solo che non ci pensiamo, non ci facciamo caso: mi alzo e so che at-torno a me c’è la mia stanza, che fa parte della mia casa, intorno alla quale c’è una città, e intorno c’è l’Italia, e poi l’Europa, e poi il mondo intero, intorno al quale c’è l’universo, che non so neppure quando e dove possa fi-nire. Tutti noi sappiamo queste cose, intuiamo di essere puntini minuscoli nell’infinito, solo che non ci badiamo. Viviamo di corsa. Affrontiamo il “mestiere di vivere” senza pensarci troppo e senza farci troppe domande. Gli autori classici, al contrario, sono quelli che ci riflet-tono. Sono semplicemente più acuti, più percettivi, più intelligenti e… più avanti di noi; è per questo motivo che, sebbene siano vissuti in secoli ormai lontani, sono tuttavia perennemente moderni. O meglio: sono nostri contemporanei. Bisogna fare pace con loro e accettare la nostra condizione inferiore di “superficiali cronici”. Leggendoli abbiamo solo da imparare, per attingere quanto più possibile al tesoro della loro grandezza. Lo confesso: mi sarebbe piaciuto essere bravo a scrivere come Dostoevskij, Tolstòj, Strindberg, ma non lo sono. La consolazione è che posso leggere Dostoevskij, Tol-stòj, Strindberg…

Sapere di essere un Classico non aiuta a vivere meglio, anzi. Un grande artista non vive bene: subisce la sua con-tinua ricerca, la sua inquietudine. La consapevolezza di essere sceso a un livello di profondità senza ritorno non può che amplificare questo malessere. Chi vive male con

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16 I. PERCHÉ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

se stesso, poi, non può vivere bene con gli altri: molte vite di autori celeberrimi raccontano di grandi tensioni e do-lori che ne hanno compromesso la felicità.

Per il genio è difficile sopportare le persone, gli odori, i rumori, la fisicità del mondo. La sua arte – che sia scri-vere, dipingere, scolpire, comporre musica… – rappre-senta una fuga dal mondo. L’insofferenza alla realtà crea un corto circuito, per cui l’unico modo di ritrovare un equilibrio è quello di rappresentarsi. Nelle proprie opere, infatti, l’artista esprime essenzialmente se stesso. Ogni forma d’arte è rappresentazione di sé. Anche l’arte astratta. E il paesaggista che vuole dipingere con realismo non si limita a riprodurre quello che vede con gli occhi, ma nel suo paesaggio mette tutto se stesso. E se quel se stesso non c’è, non c’è arte.

Tolstòj, Shakespeare, Ibsen saranno stati allegri qual-che volta nella vita, ma ciò non significa che fossero felici, in pace con loro stessi. Non si può immaginare Čechov in pace con se stesso. Perfino Collodi non era sereno. La prima versione del suo capolavoro finisce con Pinocchio che viene impiccato. Poi qualcuno gli avrà detto che stava ricevendo tante lettere che chie-devano la salvezza di quel suo piccolo eroe e allora si sarà convinto a terminare la storia destinando Pinoc-chio a una fine pure peggiore: farlo diventare un essere umano! Tutti pensano a questa trasformazione come a una salvezza, e invece per Collodi non lo è. Non poteva esserci condanna peggiore che infilare il burattino tra-boccante di vita dentro una creatura che ha l’illusione di dominarla: un uomo.

Che essere miserevole è l’uomo. Collodi a suo modo

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L’INDICIBILE CONSAPEVOLEZZA DI “ESSERE UN CLASSICO” 17

ribadisce un concetto già esposto da Shakespeare nel modo più chiaro:

L’uomo non mi piace. E nemmeno la donna1.

In fondo, quello che racconta Shakespeare in tutte le sue opere è l’insensato grande amore che si prova per un essere tanto spregevole.

Che cos’è l’uomo se il suo maggior bene e il migliore impiego del suo tempo è, per lui, mangiare e dormire? Una bestia: niente altro2.

La stessa cosa è stata raccontata dai Greci e dagli al-tri Classici alla ricerca dell’essenza più pura dell’uomo e della donna: perché tutto questo amore disperato per un essere che non merita amore? Forse dovremmo gettarci sotto un treno come Anna Karenina.

1 William Shakespeare, Amleto, atto II scena 2, trad. di L. Squarzina, Newton Compton, Roma 1990.

2 William Shakespeare, Amleto, atto IV scena 4, trad. di C. Vico Lodovici, Ei-naudi, Torino 1963.

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“ESSERE UN CLASSICO” O “SCRIVERE UN CLASSICO”? 19

“Essere un Classico” o “scrivere un Classico”?

Prima ancora di capire chi sono i Classici, è importante ca-pire perché usiamo la parola “Classico” per indicarli. L’en-ciclopedia Treccani li definisce «appartenenti alla prima classe dei cittadini», e, riferito a scrittori, «di prim’ordine».

Ma è l’autore a essere Classico o è l’opera? Su questo non ho dubbi. Classico è l’autore, non la singola opera.

Quando un grande scrittore, o un filosofo, entra in quella sorta di “stato superiore di illuminazione” che è la via verso la psyché (ψυχή), verso la propria anima, tutto il suo lavoro e i suoi scritti corrono lungo quella strada.

Quando un uomo – uno scrittore – riesce a immagi-narsi scarafaggio, mostriciattolo che giace inerme rivoltato sulla schiena, non è La metamorfosi a essere un Classico, ma Kafka stesso. Quando leggiamo la vicenda di Gregor Samsa non possiamo dimenticare che c’è stato un ometto che l’ha concepito, elaborato e fatto vivere sulla carta at-traverso la scrittura.

Noi moderni abbiamo un’idea sbagliata dei Classici, li consideriamo come qualcosa che sta a impolverarsi sulle librerie, là, in alto: tomi voluminosi, lontani dalla nostra vita. Invece gli autori classici parlano di noi, della nostra esistenza, delle nostre storture, delle nostre mostruosità, ma anche della nostra bellezza e della nostra meraviglia.

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20 I. PERCHÉ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

Gli autori classici sono i veri grandi rivoluzionari della storia, perché hanno la capacità unica di “rivoltarci”! Quando ci accostiamo a un loro testo con umiltà, sen-tiamo che la nostra più profonda interiorità è messa “in rivolta”, scossa nelle viscere. E quando parliamo di Clas-sici – lo ripeto – parliamo degli autori.

Per questo diciamo più frequentemente: leggo (o sto ri-leggendo) Dostoevskij, e non I fratelli Karamazov; leggo (o sto rileggendo) Joyce, e non Ulisse.

Perché li rileggiamo? Perché ci mettono in crisi, per-ché ci fanno pensare, costringendoci a riflettere sul senso della nostra esistenza.

Quando oggi uno gira per una libreria e apre a caso un saggio o un romanzo, anche di successo, e ne legge un paio di pagine, si accorge che non succede nulla, che non c’è scritto niente che lo metta in crisi o gli provochi al-cunché. La sua vita non cambia, il suo pensiero non muta. Se invece apre a caso Molière, troverà sicuramente qual-cosa che potrà cambiare la sua vita, smuovendo le sue certezze. E questo perché gli autori classici sono anche profondamente filosofi.

Quanto c’è di filosofico in Shakespeare? Tutto. Il grande drammaturgo, tra l’altro, scriveva in un conte-sto segnato fortemente dal pensiero di Francis Bacon, il quale sosteneva che l’essenza stessa dell’umanità si era trasformata completamente con la scoperta dell’America, della polvere da sparo e della bussola. Bacon aveva in-tuito che la téchne (τέχνη) sarebbe diventata una straor-dinaria forza trasformatrice dell’uomo. Per quell’epoca l’affermazione aveva certamente qualcosa di profetico, mentre oggi per noi è lampante: la tecnologia ci ha cam-

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“ESSERE UN CLASSICO” O “SCRIVERE UN CLASSICO”? 21

biato la vita, di fuori e di dentro. Fateci caso: se per un attimo vi capita di scostare lo sguardo dalle pagine di questo libro, è certo che nove volte su dieci poserete gli occhi sullo schermo di un cellulare o di un tablet. Tecni-camente riusciamo anche a cambiare sesso. L’uomo si è messo in contraddizione con l’idea stessa di creazione. È iniziata una “nuova” storia umana.

I filosofi puri sono più difficili da leggere rispetto agli autori letterari, ma i grandi romanzieri o scrittori di te-atro raccontano le stesse tesi, le stesse folgorazioni dei grandi pensatori. Forse ancora meglio e in modo più sug-gestivo. Quando Blaise Pascal dice che «il cuore ha ra-gioni che la Ragione non conosce», cosa dice di diverso rispetto a tutta l’opera di Molière? Il commediografo, nelle sue opere, prendeva in giro i medici e gli avvocati che indossavano parrucconi e pompose palandrane solo per mascherare la loro pochezza e ignoranza. E non lo faceva per sentito dire: era perennemente malato e aveva sperimentato sulla propria pelle quanto i medici sapes-sero poco della loro arte.

Deciso che “Classico” è l’autore – e non la singola opera – dobbiamo riconoscere che non tutta l’opera di un autore classico è sempre alla stessa altezza. Un esempio è Tolstòj: i suoi capolavori narrativi raggiungono vette inarrivabili, mai esplorate, mentre il suo teatro non in-nova. Dunque non tutto quello che produce uno scrittore è all’altezza del suo “essere Classico”, ma basta una sola opera a renderlo tale. A rendere sempre “vivente” un au-tore basta un’opera sola.

Dostoevskij ci è riuscito sempre, tutte le sue opere

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22 I. PERCHÉ ABBIAMO ANCORA BISOGNO DI LEGGERE I CLASSICI

sono classiche, anche se dobbiamo riconoscere che non ha mai scritto nulla per il palcoscenico. E questo è un vero peccato.

Poiché gli autori classici appaiono in Occidente nelle varie epoche – dagli antichi Greci in avanti – è lecito chiedersi: ci sarebbe mai stato Kafka se non fosse esi-stito Dostoevskij? Non credo. Lo stesso Dostoevskij, nel suo Memorie dal sottosuolo, a un certo punto scrive la frase: «Io sono uno scarafaggio». E non è affatto da escludere che Kafka, che sicuramente conosceva molto bene Dostoevskij, sia rimasto colpito, addirittura intriso, da quell’immagine.

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