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PALA D’ALTARE DELL’INCORONAZIONE DELLA VERGINE Venezia, Gallerie dell’Accademia Tempera su pannello di legno, misure 283 x 490 cm. Ornati in pastiglia e in stucco dorato. La pala originariamente si trovava nella Cattedrale di Ceneda, frazione di Vittorio Veneto (TV).

6 retable du couronnement de la vierge pisani

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PALA D’ALTARE DELL’INCORONAZIONE DELLA VERGINE

Venezia, Gallerie dell’Accademia

Tempera su pannello di legno, misure 283 x 490 cm.

Ornati in pastiglia e in stucco dorato.

La pala originariamente si trovava nella Cattedrale di Ceneda, frazione di Vittorio Veneto

(TV).

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Il dipinto presenta vari danni e alcune fenditure in senso verticale. Dei restauri che

dovette subire ancora a Ceneda si ha soltanto notizia di quello che nel 1840 avrebbe

compiuto un certo Abate Nannini di Firenze cancellando pure la scritta in caratteri gotici

ch’era ai piedi del trono entro la fascia ondulata. Dopo il suo ingresso nelle Gallerie

venne nuovamente restaurato nel 1906 e nel 1948. In quest’ultima occasione si

constatarono ampie lacune soprattutto nelle vesti delle due figure maggiori e nel cielo,

mentre vennero messi in luce alcuni particolari ai limiti laterali della pittura (ali d’angeli e

corolle di gigli) già coperti dai precedenti restauri.

Degli elementi decorativi in stucco dorato sugli aggetti del trono furono lasciati solo

quelli originari: sopra gli stalli dove siedono i quattro evangelisti sono apparse le sagome

dei loro rispettivi simboli che dovevano esservi sovrapposti in stucco.

Nel ripiano sopra il primo gradino, in corrispondenza dei tre angeli di centro, è inoltre

riapparso il cartiglio dove doveva trovarsi la scritta ricordata, della quale però non vi è

traccia.

Iconografia.

Cristo incorona la Vergine su di un alto trono; negli stalli sottostanti vi sono i quattro

Evangelisti e gli angeli suonatori; ai lati del trono le gerarchie angeliche, a destra siedono

i Patriarchi e gli Apostoli, a sinistra i Profeti e i Martiri; in basso Santi e Vergini.

Inginocchiato in basso a destra è il committente, il vescovo Correr.

L’iconografia si ispira con grande approssimazione all’affresco del Guariento già nella

sala del Maggior consiglio a Palazzo Ducale dipinto fra il 1366 e il 1368 e vi sono

riportati su un cartiglio al centro del trono gli stessi versi che vi si leggevano:

L’AMOR CH MOSSE ZIA L ET’NO PADRE

PER FIGLIA AVER DE SUA DEITA’ TRINA

COLEI CHE FO DEL SO FIGLIOL POI MADRE

DE LUNIVERSO QUI FA LA REGINA.

I versi sono riportati dal Sanudo, all’inizio del 1500, nella sua Cronaca della Storia di

Venezia, e la tradizione li riferisce a Dante, quando giunge a Venezia per una ambasciata

per conto di Ravenna.

Il tema, di significato escatologico, si diffuse in occidente con il culto mariano e fu

protagonista tra i secoli XII e XIII in numerosi portali di cattedrali gotiche, spesso a

pendant con il Giudizio Universale.

Qui è presente la variante, ripresa nel Veneto e dallo stesso Guariento, in cui la Vergine,

chinata in atto di rispetto, è però già seduta in trono accanto al figlio, che le sistema sul

capo la corona.

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Di solito accanto ai protagonisti la composizione prevede almeno alcune figure di angeli,

a volte muniti di incensieri e fiaccole, altre raffigurati come musici o cantori o nell’atto di

reggere le cortine decorate del trono.

Nel tema dell’Incoronazione, la figura della Vergine è testimoniata da alcuni esempi

come tema privilegiato per le rappresentazioni religiose e politiche dei palazzi pubblici

italiani trecenteschi.

Nell’ancona che ornava l’altare maggiore della cattedrale di Ceneda si assiste a un vero e

proprio revival trecentesco nella puntuale ripresa del guarientesco Paradiso.

I frammenti recuperati nel 1903, a causa dell’incendio subito nel 1577, non permettono

di lodare a pieno la ricchezza cromatica dell’affresco lodata dal Savonarola, ma ci

consentono senz’altro di comprenderne la grandiosità.

L’opera dovette stupire per l’esuberanza degli ornati e l’infinita varietà dei tratti

fisionomici permeati di naturalismo. Oro e argento accompagnavano la ricchezza

disegnativa e fra le lagune il seguito di quest’affresco sarebbe stato enorme.

Il Paradiso occupava per intero la parete di fondo della sala, monumentale sfondo per il

seggio dogale.

Apparirebbe qui nuova l’unione delle due tematiche, cioè del Paradiso e

dell’Incoronazione della Vergine, che andrebbe letta come un preciso riferimento allo

Stato veneziano.

La figura della Vergine, immagine stessa di Venezia, si lega all’origine mitica della città, e

l’Incoronazione figurerebbero come legittimazione trionfale della Madonna assistita da

tutto il Paradiso, la cui schiera di seggi rappresenterebbe in modo speculare le reali

assemblee che si svolgevano nella grande sala del Maggior Consiglio.

Le fotografie allegate si riferiscono alla più ampia composizione costituita

dall’Incoronazione della Vergine, al centro, entro un trono architettonico in forte

prospettiva e strutturante l’intera composizione con i nove cori angelici e coronato al lati

estremi dalla Vergine Annunciata e dall’Arcangelo Gabriele.

L’iconografia del Paradiso ha come testi ideologici di riferimento il de Coelesti hierarchia

dello Pseudo Dionigi l’Areopagita, ripreso poi da San Gregorio Magno (Homilia, II, 34)

fino a San Bernardo da Chiaravalle ( De Consideratione ad Eugenium papam).

In questi scritti si descrivono le gerarchie angeliche: Serafini, Cherubini, Troni,

Dominazioni, Virtù, Potestà, e infine Principati, Arcangeli, Angeli, disposte in una

successione ternaria.

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Guariento

(documentato a Padova e Venezia dal 1338 al 1336 – ante 1370)

Paradiso, affresco staccato ( Incoronazione già cm 800 x 2580)

Provenienza: palazzo Ducale, già nella parete principale (parte orientale) della sala del

Maggior Consiglio.

Venezia, palazzo Ducale, sala del Guariento.

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Nella ripresa di Ceneda si possono così riconoscere al centro l’Incoronazione della

Vergine, a destra i Serafini, a sinistra i Cherubini, ai piedi del trono i quattro Evangelisti,

con al centro i quattro versi riportati.

Al di sotto gli Angeli musicanti, che suonano, da sinistra a destra, un salterio, una viella,

un altro salterio, un organo portativo, un’arpa, un tamburo a cornice e un liuto piccolo o

“chitarrino”.Sotto i Serafini e Cherubini, si riconoscono i Troni, racchiusi entro la

mandorla e reggenti globo e scettro.

A destra dell’Incoronazione vi è la schiera dei Patriarchi, con il cartiglio che ne riporta il

nome: dal basso si legge Mosè, Noè Giacobbe, Isacco, Abramo, e gli ultimi due, un

personaggio femminile, e uno maschile, segnalato come Adamo. Alle loro spalle una

schiera angelica forse da identificare come le Dominazioni o Virtù. Seguono gli Apostoli,

con alle spalle una schiera angelica col giglio.

A sinistra, dopo i Cherubini, vi è il gruppo dei Profeti con il cartiglio che ne fornisce i

nomi: dal basso, Geremia, Salomone, Davide, Isaia, Simeone, Zaccaria e Giovanni

Battista. Accompagnata a questa schiera si vedono una serie di angeli con armature

“all’antica” e scudo crociato, da riconoscere forse nelle Potestà o Principati.

Di seguito un gruppo di Santi, alcuni con la palma del martirio, tra cui sono riconoscibili

San Cristoforo, San Lorenzo, San Pietro Martire e San Paolo, in ideale simmetria con

San Pietro, alla destra della composizione.

Alle loro spalle una schiera angelica, che reca in mano un giglio.

Ai lati inferiori della composizione siedono sui due lati una serie di Santi e Sante, in un

verdissimo prato fiorito, e sulla destra inginocchiato si nota la figura del committente, il

vescovo Correr, che, in segno di rispetto, depone ai piedi del trono la mitria vescovile.

Attribuzione e datazione.

Le due date riportate sul dipinto, note dalla documentazione critica, hanno di fatto

contribuito alla problematicità della datazione e dell’attribuzione della pala a Jacobello

del Fiore, che studi recenti riferiscono a diverse personalità operanti in territorio

lagunare nella prima metà del 1400.

Delle due scritte che stavano sulla tavola e sulla cornice resta solo il ricordo: quella sul

dipinto è riportata dal Caffi nel 1880 come gli fu riferita da persona che, egli scrive,

“indubbiamente se la ricorda”: “iac. de. flore p. 1438”, mentre quella riportata sulla

cornice è pure riportata dal Caffi, che però la poté vedere direttamente: “1438 a di 10

frever Christofalo da Ferrara intajo”.

Anche i vecchi scrittori Federici e Crico danno la data 1438, benché il primo aveva

sbagliato a decifrarle unendo i nomi dei due autori.

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Ma il Lanzi, senza parlare di scritte, aveva affermato che il dipinto era stato ordinato nel

1432 come si poteva apprendere da un manoscritto sulle vite dei vescovi di Ceneda, e

più tardi il Cavalcaselle riportava la scritta all’anno 1430, ritenendo d’altra parte

impossibile la data 1438, perché erroneamente credeva morto il vescovo Correr nel 1430.

Di tali dati discordanti coloro che successivamente parlarono del dipinto diedero varie

interpretazioni.

Rivedendo la fonte più antica rimastaci, il manoscritto dei vescovi cenedesi del 1785, si

trova che la data 1432 riferita dal Lanzi non è esplicitamente indicata per quest’opera, ma

egli probabilmente la dedusse dal fatto che l’altare maggiore venne costruito tra il 1430 e

il 1432.

Una lettura in questo senso ritiene di attenersi al 1438, in considerazione del fatto che il

Correr visse fino al 1445.

Diversamente si può pensare che l’ordinazione della pala avvenisse pure qualche anno

prima di quello indicato nella data, subito dopo il compimento dell’altare.

Quindi sulla base di questi dati già il Lanzi e il Cavalcaselle attruirono la pala a Jacobello

del Fiore, seguiti da Pallucchini, che assegna l’opera ad una fase tarda del pittore, e un

po’ stanca, dove si ripetono i moduli arcaicizzanti e bizantineggianti di Guariento e in

cui ravvisa ci possa essere l’intervento di un aiuto che egli identifica con l’autore del

polittico di Cellino Attanasio, (al Museo Nazionale d’Abruzzo, proveniente dalla

cattedrale di Cellino Attanasio, la cui attribuzione attualmente si lega alla figura di

Lorenzo da Venezia). Pallucchini aveva supposto si trattasse del figlio adottivo di

Jacobello, Ercole del Fiore, che muore nel 1483. Assegnando la pala al 1430, si lega ad

un suo momento giovanile, e quindi di una nuova generazione rispetto a Jacobello, in

grado di orientarsi verso un nuovo pittoricismo, legato alla figura di Giambono. In

particolare nei santi in basso nota una maggiore libertà, un chiaroscuro più molle e meno

tensione rispetto al Trittico della Misericordia .

Per il Planiscig esso sarebbe addirittura tutto della bottega, o, pensando ad un errore

nella indicazione della data, potrebbe appartenere alla prima attività di Jacobello.

Per il Bologna l’opera è di Jacobello, ma in un periodo di decadimento.

Gli studi di C. Huter del 1973 portano all’individuazione di una personalità che cresce

all’interno della sua bottega, responsabile in proprio di più opere, tra cui i polittici

abruzzesi. A lui si deve la esecuzione per intero della grande pala nei primi anni ’30, e da

essa ha ricavato il suo nome corrente di “Maestro di Ceneda”.

La tesi di un legame è ribadita dalla pubblicazione da parte di Muraro nel 1975 di una

tavola col consueto soggetto dell’Incoronazione della Vergine, chiaramente firmata e

datata: “M.° Loreço de iachomo da venexia a fato questo lavoro 1429 adi 8 agosto”, che

si trova alla Fondazione Cini, rimontata al centro di un polittico, con cui non ha alcuna

relazione.

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Il nome non è mai stato registrato dai documenti e dalle fonti, ma la relazione tra le due

opere è tanto forte da lasciare spazio a pochi dubbi.

Il Lucco afferma che il “de iachomo” potrebbe essere non un reale patronimico, ma che

si riferirebbe a Jacobello, in base a quei contratti di affiliazione che si stabilivano coi

lavoranti delle botteghe, e in tal modo si riacquisterebbe una maggiore coerenza interna,

stabilendo una migliore corrispondenza fra nome e dati di stile.

In anni recenti A. De Marchi riesamina l’iscrizione e scioglie i due nomi di Lorenzo e

Giacomo, pensando a quest’ultimo come all’intagliatore della cornice, e in Lorenzo vede

il pittore Lorenzo da Venezia. Egli afferma che questo pittore non ha rapporti

significativi con Jacobello e che la sua formazione va ricercata vicino a personalità come

Zanino di Pietro e Michele Giambono. Egli infatti appartiene alla generazione

successiva, cresciuta intorno al 1430. Riconoscendo forti affinità con il polittico di

Cellino Attanasio, cui dà paternità, conferma la data 1438.

In questo dipinto constata che la materia si è ammorbidita e le strutture dei corpi

denotano una consistenza piena e tondeggiante e un relativo rassodamento dei volumi,

prime timide avvisaglie delle novità introdotte a Venezia dalla nuova generazione di

pittori come Michelele Giambono, Jacopo Bellini, Giovanni d’Alemagna e Antonio

Vivarini.

Provenienza.

Questa tavola venne fatta eseguire per l’altare maggiore del Duomo di Ceneda da

Antonio Correr, vescovo di quella città negli anni 1410-45. Da lì fu tolta nel 1797 e posta

nella sacrestia, donde poi nuovamente fu portata in chiesa verso il 1830 e collocata per

qualche anno in una cappella sopra un altare provvisorio, che fu detto di tutti i Santi, e

poi fu rimessa nella sacrestia.

Nel 1824 erano state iniziate pratiche, che non ebbero esito, per ottenere da Venezia la

cessione di un grande altare marmoreo in cambio della pala.

Nel 1874, l’anno seguente al grande terremoto che rovinò la cattedrale, si chiese il

permesso di vendita del dipinto per far fronte alle spese di restauro, ma soltanto nel 1882

si concludevano le pratiche con l’acquisto della tavola da parte del Ministero.

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Fortuna critica:

C. Lotti, Series Episcoporum Cenetensium. Pars I, Anno 1785. (Ms presso il Vescovado di

Vittorio Veneto; una copia è al Museo del Cenedese).

D. M. Federici, Memorie trevigiane sulle opere di disegno, I, Venezia, 1803, p. 201.

L. Lanzi, Storia pittorica della Italia dal Risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII

secolo, III, Bassano, 1809, p.20.

L. Crico, Lettere sulle belle arti trevigiane,Treviso, 1833, pp. 243-244.

F. Zanotto, Storia della pittura veneziana, Venezia, 1837, p.67.

J.A. Crowe – G.B. Cavalcaselle, A History of Painting in North Italy from the Fourteenth to the

Sixteenth Century, I, 1871, London, pp. 7-8.

M. Caffi, Giacomello del Fiore, pittore veneziano del sec. XV, in Archivio storico italiano, Serie 4°,

vol. 6°, Firenze,1880, pp. 402-413.

J. Lermolieff- G. Morelli, Le opere dei maestri italiani nelle Gallerie di Monaco, Dresda e Berlino,

ed. italiana, Bologna, 1886, p. 366, nota 1.

Catalogo delle Regie Gallerie di Venezia, Venezia, 1887, pp.99-100.

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L. Testi, La storia della pittura veneziana. Parte prima: le Origini, I, Bergamo, 1909, pp. 404 .

A. Venturi, Storia dell’arte italiana. La pittura del Quattrocento, parte VII, vol. I, Milano, 1911,

p. 296.

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G. Fiocco, Michele Giambono, in Venezia. Studi d’arte e storia, Milano-Roma I, 1920, p. 207.

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R. Pallucchini, Commento alla mostra di Ancona, in “Arte Veneta”, IV, Milano,1950, p.15.

A. Maschietto, La chiesa Cattedrale di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto, 1951, pp.42-48.

F. Bologna, Contributi allo studio della pittura veneziana del Trecento, I-II, in “Arte Veneta”, V-

VI, Milano, 1952, p.14.

S. Moschini Marconi, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Opere d’arte del secolo XVI,

Roma,1962, pp. 30-31.

I. Chiappini di Sorio, Per una datazione tarda della Madonna Correr di Jacobello del Fiore, in

“Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, 4, Venezia, 1968, pp. 10-25.

C. Huter, The Ceneda Master-I, in “Arte Veneta”, XXVII, Milano,1973, pp. 25-37.

M. Lucco, La pittura nel veneto. Il Quattrocento, vol. I, Milano, 1989, p. 33.

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I. Chiappini di Sorio, Appunti per la storia dell’arte veneta. Jacobello ed Ercole del Fiore, in “ Arte

Documento”, 3, Venezia, 1989, pp. 58-71.

M. Muraro, La pittura devozionale e la diffusione dello Squarcionismo, in “Ateneo veneto”,

Venezia, 1975, fig.13.

A. De Marchi, “Lorenzo e Jachomo da Venezia”. Un percorso da Zanino a Jacopo Bellini e un

enigma da risolvere, in “Saggi e Memorie di Storia dell’Arte”, 27, Venezia, 2003, pp.71-84.

G. Fossaluzza, Gli affreschi nelle chiese della marca trevigiana dal Duecento al Quattrocento. I/2.

Tardogotico e sue persistenze, Cornuda (TV), 2003, pp. 142-143, 173-174, nota 68.