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8. LA VALUTAZIONE D’AZIENDA 8.1. Aspetti generali. Sin dai primi capitoli è emerso chiaramente come il bilancio d’esercizio non abbia la finalità di esprimere il valore economico dell’impresa, ovvero il valore della stessa ai fini di un’ipotetica operazione di cessione o fusione: il patrimonio, infatti, viene stimato adottando il postulato della prudenza, considerando altresì che la gestione si svolga in normali condizioni di funzionamento. Ciò significa che molte delle regole cui ci si ispira nella redazione del bilancio d’esercizio vengono meno quando le finalità della stima mutano: quando, cioè, si valuti il patrimonio in condizioni che non rappresentano il normale funzionamento dell’impresa. La valutazione di un bene dipende sempre, in effetti, dalla finalità del processo di stima: ad esempio, la valutazione di un immobile ai fini fiscali risulterà certamente diversa rispetto a quella realizzata in vista della sua cessione. La valutazione di un bene - materiale o immateriale - o di un complesso di beni organizzati costituenti un’azienda o un ramo di essa (art. 2555 c.c.: l’azienda è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa) rappresenta un processo piuttosto complesso. Chi si occupa di valutazioni utilizza criteri e metodi che, se a volte possono convergere nei risultati, spesso portano a esiti alquanto diversi. L’approccio soggettivo del valutatore può influenzare il risultato, in considerazione soprattutto dell’esperienza accumulata: valutare non significa semplicemente prendere un modello matematico ed applicarlo ad un caso specifico. È necessario partire dal fine valutativo, dalle caratteristiche dell’oggetto da stimare e dall’orizzonte temporale nel quale la stima si va ad inquadrare. Inoltre, il valore che viene realizzato al termine della negoziazione spesso si discosta in misura considerevole dai risultati raggiunti nel processo di stima. Le motivazioni che si pongono alla base di un processo di stima possono essere di varia natura: valutare non è utile solo all’interno di un processo di acquisizione/vendita. Si pensi al caso in cui si dia vita ad un’operazione di natura straordinaria: il conferimento di un ramo d’azienda o di una partecipazione, la fusione tra due o più società, la scissione di una società con attribuzione delle parti oggetto di scissione a diversi soggetti giuridici, la quotazione delle azioni di una società sul mercato di borsa (italiano o estero) per reperire nuove risorse finanziarie, la necessaria determinazione del valore di una società/azienda in caso di lite tra soci, di esercizio del diritto di recesso ai sensi degli articoli 2437 e

8. LA VALUTAZIONE D’AZIENDA · Dall’analisi delle poste contabili, inoltre, si possono ottenere numerose informazioni in merito, ad esempio, all’esistenza di crediti di dubbia

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Page 1: 8. LA VALUTAZIONE D’AZIENDA · Dall’analisi delle poste contabili, inoltre, si possono ottenere numerose informazioni in merito, ad esempio, all’esistenza di crediti di dubbia

8. LA VALUTAZIONE D’AZIENDA

8.1. Aspetti generali.

Sin dai primi capitoli è emerso chiaramente come il bilancio d’esercizio non abbia la finalità di

esprimere il valore economico dell’impresa, ovvero il valore della stessa ai fini di un’ipotetica

operazione di cessione o fusione: il patrimonio, infatti, viene stimato adottando il postulato della

prudenza, considerando altresì che la gestione si svolga in normali condizioni di funzionamento. Ciò

significa che molte delle regole cui ci si ispira nella redazione del bilancio d’esercizio vengono meno

quando le finalità della stima mutano: quando, cioè, si valuti il patrimonio in condizioni che non

rappresentano il normale funzionamento dell’impresa. La valutazione di un bene dipende sempre, in

effetti, dalla finalità del processo di stima: ad esempio, la valutazione di un immobile ai fini fiscali

risulterà certamente diversa rispetto a quella realizzata in vista della sua cessione.

La valutazione di un bene - materiale o immateriale - o di un complesso di beni organizzati costituenti

un’azienda o un ramo di essa (art. 2555 c.c.: l’azienda è il complesso di beni organizzati

dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa) rappresenta un processo piuttosto complesso. Chi si

occupa di valutazioni utilizza criteri e metodi che, se a volte possono convergere nei risultati, spesso

portano a esiti alquanto diversi. L’approccio soggettivo del valutatore può influenzare il risultato, in

considerazione soprattutto dell’esperienza accumulata: valutare non significa semplicemente prendere

un modello matematico ed applicarlo ad un caso specifico. È necessario partire dal fine valutativo, dalle

caratteristiche dell’oggetto da stimare e dall’orizzonte temporale nel quale la stima si va ad inquadrare.

Inoltre, il valore che viene realizzato al termine della negoziazione spesso si discosta in misura

considerevole dai risultati raggiunti nel processo di stima.

Le motivazioni che si pongono alla base di un processo di stima possono essere di varia natura: valutare

non è utile solo all’interno di un processo di acquisizione/vendita. Si pensi al caso in cui si dia vita ad

un’operazione di natura straordinaria: il conferimento di un ramo d’azienda o di una partecipazione, la

fusione tra due o più società, la scissione di una società con attribuzione delle parti oggetto di scissione

a diversi soggetti giuridici, la quotazione delle azioni di una società sul mercato di borsa (italiano o

estero) per reperire nuove risorse finanziarie, la necessaria determinazione del valore di una

società/azienda in caso di lite tra soci, di esercizio del diritto di recesso ai sensi degli articoli 2437 e

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2473 del codice civile, di successione generazionale che coinvolga alcuni o tutti i discendenti da

regolare con donazioni e patti di famiglia, costituzione di Trust e via discorrendo.

La stima del valore economico dell’azienda è un utile parametro di misurazione anche per le

performance del management: con sempre maggiore frequenza, chi ha ruoli di direzione si vede

assegnare una parte del compenso in funzione dell’incremento di valore che lui/lei stesso/a ha

contribuito a generare attraverso le decisioni prese.

Sono molti i soggetti, i cosiddetti stakeholders (letteralmente: «titolare di una posta in gioco » o «

portatori di interesse »), interessati alla misurazione del valore economico generato (o distrutto)

dall’impresa:

- i soci mirano alla crescita del valore delle loro quote/azioni, in vista del realizzo futuro delle

stesse attraverso la vendita o la quotazione;

- fornitori e clienti guardano con estrema attenzione ai dati aziendali per comprendere

l’affidabilità nel tempo del loro interlocutore: se l’azienda genera valore, ne restituisce una parte

a tutto l’ambiente circostante e, in particolare, ai partner commerciali;

- i dipendenti sono più motivati se vengono responsabilizzati su obiettivi condivisi che si ritiene

possano portare ad una crescita del valore generato. Sono sempre più diffusi sistemi di

remunerazione premiale (Welfare aziendale), che hanno nell’incremento del valore aziendale,

misurato mediante l’utilizzo di parametri preconcordati, un riferimento imprescindibile;

- gli enti creditizi (in genere le banche) e gli investitori istituzionali e non (fondi di private equity,

investment companies), considerano il tema del valore da un duplice punto di vista: da un lato,

il valore del patrimonio rappresenta una fonte di garanzia per i terzi creditori. Dall’altro, il valore

economico viene considerato (soprattutto dai portatori di capitale come i fondi di private equity)

in un’ottica previsionale: la crescita dell’impresa viene attentamente pianificata, ponendo precisi

obiettivi di redditività e di generazione di liquidità, per accertarsi di una corretta e remunerativa

allocazione del capitale erogato, con la certezza della sua restituzione oltre che di un ritorno

adeguato per il rischio in termini di tasso di interesse.

Al di là della prospettiva particolare adottata da ciascuno stakeholder, è necessario che i sistemi di

valutazione si fondino su principi comunemente accettati e riconosciuti, al fine di giungere a risultati

quanto più condivisi e condivisibili. La corretta redazione del bilancio di esercizio e di tutti i documenti

ad esso correlati rappresenta, comunque, una base imprescindibile per la valutazione dell’impresa: non

di rado la proprietà tende ad esprimere valutazioni che, prescindendo da dati empirici, non trovano poi

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riscontro nelle stime dei professionisti incaricati della valutazione. L’analisi preventiva del bilancio

consente di evitare sorprese di questo genere.

8.2. Logiche di misurazione del valore Nel gergo comune a volte si tende spesso a sovrapporre i concetti di “valore” e “prezzo”. Tuttavia,

mentre il processo attribuzione del valore - pur venendo quest’ultimo stimato sulla base di formule e

modelli condivisi - è influenzato da aspetti anche emotivi, quali l’attaccamento dell’imprenditore

all’azienda o l’ambizione del potenziale acquirente a realizzare una rapida crescita, il prezzo viene

invece definito con certezza nel momento in cui il valore percepito da chi vende si incrocia con il

sacrificio monetario che l’acquirente è disposto a sopportare.

Creare valore per l’impresa è un obiettivo imprescindibile: se essa distrugge valore nel lungo periodo,

la sua attività è destinata a cessare. Necessariamente, in assenza di performance economiche positive

(utili) non può esservi creazione di valore: tuttavia, non è sufficiente che sussistano adeguate condizioni

di redditività nel breve periodo per poter affermare che l’impresa sta creando valore. Né, d’altra parte,

il fatto che l’impresa abbia prodotto una perdita in un singolo esercizio significa necessariamente che la

gestione aziendale distrugge valore: è possibile, in altri termini, che condizioni particolari abbiano

determinato per quell’esercizio l’impossibilità di coprire i costi. Si pensi, ad esempio, agli effetti della

crisi generata dall’epidemia da coronavirus.

La capacità dell’impresa di creare valore è, dunque, una condizione da verificare in una prospettiva di

lungo periodo. Gli indicatori introdotti nel capitolo 7, con riferimento all’analisi di bilancio (ROE, ROI),

non rappresentano misure adeguate della capacità dell’impresa di creare valore nel lungo termine,

poiché derivano da dati di bilancio che riflettono implicitamente una logica di breve periodo. Basti

considerare, a tale riguardo, che per aumentare il ROI (e il ROE) sarebbe sufficiente tagliare i costi di

ricerca e sviluppo, o quelli di manutenzione degli impianti: queste politiche produrrebbero certamente

ricadute positive sulla redditività nel breve termine, ma avrebbero ripercussioni molto negative nel

lungo termine, finendo col rendere l’impresa meno competitiva e col ridurne il valore economico

(economic value). I modelli di misurazione del valore prodotto dall’impresa si basano sull’assunto che

la gestione debba generare un ritorno sul capitale investito superiore al costo medio (ponderato) del

capitale raccolto: in tale costo è ricompreso, oltre agli oneri finanziari connessi ai finanziamenti da terzi,

anche il ritorno atteso dai soci che hanno investito nel capitale aziendale. In altri termini l’impresa, per

creare valore nel lungo periodo, deve essere in grado di far fruttare il capitale investito netto in misura

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tale da remunerare adeguatamente tutti i finanziatori, ivi inclusi i soci, conservando altresì un margine

per la propria crescita.

Si è già avuto modo di dire che - in economia aziendale - l’azienda è concepita come l’insieme

organizzato dei beni dell’impresa (materiali e immateriali), nonché delle risorse umane e finanziarie

disponibili. Il processo di valorizzazione delle singole componenti e del valore che le stesse generano

venendo utilizzate in modo sinergico, sfocia nella teoria della valutazione d’azienda: l’insieme

organizzato delle risorse aziendali assume un valore diverso – spesso molto superiore, altre volte

inferiore - rispetto alla sommatoria dei valori attribuiti a ciascuna risorsa di cui l’impresa dispone.

Utilizzando una metafora calcistica, si potrebbe dire che i risultati di una squadra composta da giocatori

non di elevatissimo talento potrebbero superare le aspettative proprio per le dinamiche di gioco avviate

dal tecnico disponendo i giocatori sul campo in modo strategico; al contrario, squadre dotate di stelle di

gran fama potrebbero non ottenere i risultati previsti per mancanza di organizzazione del gioco. Nel

primo caso, il valore della squadra risulta superiore alla sommatoria del valore dei suoi giocatori; nel

secondo caso, invece, il valore complessivo è inferiore alla somma dei singoli elementi. Nel seguito si

cercherà di illustrare le diverse logiche utilizzabili nel processo di valutazione, senza necessariamente

entrare nella formulazione matematica delle stesse.

È necessario, anzitutto, cogliere alcuni aspetti di fondo del processo di valutazione. Si immagini di voler

stimare un macchinario o un altro bene materiale utile all’attività dell’impresa: certamente, l’onere

sostenuto per il suo acquisto (o per la sua produzione) rappresenta un primo riferimento nel processo di

stima. Questo valore andrà poi rettificato per tener conto della progressiva riduzione della vita utile

residua del bene, a causa dell’utilizzo dello stesso nel processo produttivo o per fenomeni di

obsolescenza tecnologica. Il valore di mercato è un altro parametro fondamentale cui fare riferimento

nel processo di stima. Non sempre, però, esiste il valore di mercato di un bene: si pensi, ad esempio, ai

titoli delle aziende non quotate, o ai marchi. Inoltre, se il bene è stato costruito appositamente per

l’impresa α (potrebbe anche essere stato autoprodotto o essere il risultato di un profondo processo di

modifica dell’esistente per adattarlo alle esigenze dell’azienda) su specifiche tecniche ben definite e

circoscritte, avrà per essa un valore particolare: per la sua rilevanza sul piano strategico, il bene potrebbe

risultare addirittura insostituibile. Lo stesso bene per un’altra impresa potrebbe risultare, invece, inutile.

La stima del valore del macchinario in questione sarà, perciò, completamente diversa a seconda dei

soggetti che si pongono nella prospettiva del suo utilizzo: il bene può essere strategico per alcuni,

marginale per altri. Queste considerazioni consentono di comprendere che l’esame del contesto in cui

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ci si muove è fondamentale per inquadrare la disciplina delle valutazioni: non è sufficiente considerare

l’oggetto della valutazione tout court.

Le riflessioni appena fatte con riferimento al singolo bene possono essere estese all’azienda nel suo

complesso: il valore di un’azienda potrebbe aumentare di molto allorchè, a seguito di una cessione,

l’acquirente fosse in grado di inserirla in un nuovo contesto, dando vita a sinergie e integrazioni sia a

monte che a valle del processo di produzione e vendita. Nel processo di stima dell’impresa occorre

dunque tener conto del contesto in cui essa opera: è necessario considerare la tipologia di beni prodotti

(o servizi erogati), il suo posizionamento sul mercato, la situazione macroeconomica dei mercati di

sbocco, il mercato finanziario di riferimento utile per ottenere le risorse necessarie. Dall’analisi delle

poste contabili, inoltre, si possono ottenere numerose informazioni in merito, ad esempio, all’esistenza

di crediti di dubbia esigibilità o di passività potenziali non espresse o, ancora, di rischi e garanzie che

possono tramutarsi in perdite di valore; va considerata, inoltre, l’esistenza di know-how e brevetti

fortemente innovativi e di notevole valore strategico e la possibilità di tutelarne lo sfruttamento.

Una prima metodologia valutativa prevede di esaminare le singole voci di bilancio, operando rettifiche

in aumento o in diminuzione allo scopo di riesprimere il patrimonio netto a valori correnti. La differenza

tra attivo e passivo rettificati porterà a riesprimere il patrimonio netto a valori correnti (c.d. Patrimonio

Netto rettificato). Il patrimonio, esaminato secondo questa modalità, diventa il fulcro del processo di

valutazione; per tali motivi il metodo in questione è definito metodo patrimoniale. Come si vedrà più

avanti, esistono due modalità di applicazione di questa metodologia. Di fatto, il valore ottenuto viene a

coincidere con il capitale necessario per partire con una nuova attività con caratteristiche strutturali e

patrimoniali corrispondenti a quelle dell’impresa analizzata.

Un approccio alternativo consiste nello stimare l’impresa sulla base dei flussi che essa sarà

prevedibilmente in grado di generare negli esercizi futuri: secondo questa impostazione, il valore del

patrimonio dipende – più che dal valore dei singoli elementi che lo compongono - dal ritorno ottenibile

dallo stesso sotto forma di redditi futuri o, alternativamente, di flussi di liquidità. Questo approccio viene

utilizzato per valutare la convenienza degli investimenti nel lungo periodo: si tratta di confrontare il

valore dei flussi di cassa attesi dall’investimento –attualizzati al tempo t0 inteso come il momento in cui

si effettua l’investimento - con quello del capitale da investire.

Da questo punto di vista, la stima può essere diversa a seconda che si dia rilevanza al flusso economico

espresso attraverso la differenza tra ricavi e costi previsti (grandezze di natura economica), piuttosto che

a quella tra flussi di cassa in entrata e uscita: si parlerà perciò di «metodo reddituale» nel primo caso e

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di «metodo finanziario» nel secondo. In generale, qualsiasi investimento può essere valutato tenendo

conto dei flussi che ci si attende da esso.

A differenza del metodo patrimoniale, in quest’ottica valutativa quanto accaduto nel passato serve quale

base di partenza per prevedere le performance future e comprendere se le ipotesi effettuate poggino su

solide basi. Una costanza di comportamento e di risultati raggiunti nei periodi precedenti più prossimi

può costituire un valido supporto per ritenere raggiungibili gli obiettivi espressi nei piani aziendali.

Quando ci si trova di fronte a situazioni in cui è utile considerare cosa accadrà in futuro, ma è necessario

al tempo stesso partire da una base storica per tenere conto della situazione attuale, si utilizza un metodo

di valutazione che pratica e dottrina hanno denominato come metodo misto patrimoniale-reddituale: in

pratica, si tiene in considerazione sia l’elemento statico di partenza, di dotazione patrimoniale, che

quello dinamico di sviluppo futuro.

Da ultimo, un’azienda potrebbe essere valutata anche attraverso il confronto con altre realtà che possano

avere un adeguato grado di comparabilità. La logica di fondo di questo approccio è abbastanza facile da

comprendere: dovendo valutare un’azienda, si potrebbe far riferimento al valore stabilito in precedenti

negoziazioni per aziende del medesimo settore e in situazioni simili a quelle riscontrate dal valutatore.

Se vengono rispettate determinate condizioni di comparabilità, è possibile immaginare che il valore

dell’azienda oggetto di valutazione non si discosti molto da quello definito in passato per casi simili. Il

valore dell’impresa è ottenuto, perciò, attraverso opportuni moltiplicatori: frequentemente si moltiplica

un elemento desunto dal bilancio o da situazioni contabili aggiornate più prossime possibile alla data

della stima (fatturato, EBITDA o EBIT o altro ancora) per un coefficiente, ottenuto per ipotesi,

attraverso la definizione di un insieme statistico costruito con ragionevolezza. Ad esempio, se viene

riscontrato con assidua frequenza che il valore di un’impresa per un settore e in una determinata area

geografica è in media pari a due volte il fatturato, si può ritenere che tale multiplo possa essere applicato

a tutti i soggetti operanti nel medesimo settore e con caratteristiche simili. I coefficienti generalmente

applicati possono derivare da studi su analisi delle performances nei mercati azionari delle Società

quotate, dall’esame di transazioni che hanno avuto ad oggetto società simili per caratteristiche

dimensionali, di mercato, di prodotto ecc. In questo caso si parlerà di metodo dei multipli o delle

transazioni comparabili.

8.3. L’individuazione del metodo di valutazione.

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Poiché come si è visto, i metodi di valutazione normalmente non portano a risultati univoci, ci si deve

porre il problema dell’individuazione del metodo più adatto nel caso specifico. Quelli comunemente

utilizzati e riconosciuti dalla Dottrina e dalla pratica, come accennato nel precedente paragrafo sono:

1. metodo patrimoniale (semplice e complesso);

2. metodo dei flussi attesi (reddituale o finanziario);

3. metodo misto patrimoniale-reddituale con stima autonoma dell’avviamento (goodwill);

4. metodo dei multipli.

Un metodo non esclude l’altro: è nella scelta del metodo che la figura del valutatore con la sua esperienza

e capacità gioca un ruolo fondamentale. La decisione, infatti, è fortemente influenzata dal contesto e dal

momento in cui si attua la valutazione. Dipende dal mercato di riferimento, dalle variabili interne ed

esterne, dalle ragioni della valutazione.

Se si dovesse valutare un’impresa per l’intervento in capitale di un fondo di equity – tipicamente

orientato ad ottenere un ritorno importante con una way out dopo 5/6 anni - il metodo più efficace

sarebbe quello dei multipli o, in alternativa, il metodo dei flussi attesi con orientamento verso i flussi

finanziari. L’obiettivo sarebbe infatti quello di presentare agli investitori un’ottica prospettica del loro

investimento, al fine di comprenderne la convenienza in termini di possibile crescita di valore nel

periodo di tempo considerato.

Se, invece, si volesse procedere alla valutazione di una società con investimenti fissi molto significativi

- si pensi ad una società immobiliare ove l’elemento degli immobili detenuti ai fini di investimento

stabile è quello rilevante – la scelta ricadrebbe indubbiamente su una valutazione col metodo

patrimoniale. Il professionista che si occupa della valutazione deve partire dagli elementi che gli

vengono messi a disposizione: bilanci, situazioni contabili, business plan. La stima deve procedere

attraverso una valutazione generale che va al di là delle forze in campo: non deve essere influenzata da

domanda ed offerta. Il risultato deve essere razionalmente spiegabile e dimostrabile, oltre che stabile

rispetto a influenze derivanti da fatti sporadici e difficilmente ripetibili.

8.4. Il metodo patrimoniale Come premesso, con il metodo patrimoniale si stima il patrimonio netto aziendale esprimendolo a valori

correnti o di mercato, in un’ottica ovviamente più continuativa che liquidatoria (in quest’ultimo caso le

considerazioni sarebbero di ben altra natura).

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Il risultato della stima è l’espressione, a valori correnti, delle singole attività e passività alla data di

riferimento della valutazione stessa. Il bilancio costituisce il punto di partenza delle analisi

(adeguatamente verificato con tutte le informazioni ritraibili dalla contabilità per una lettura coerente e

quanto più vicina alla realtà) dal quale, per mezzo di una serie di rettifiche e integrazioni in ordine alle

valutazioni in esso espresse, si giunge alla determinazione del valore corrente del patrimonio sociale. Il

valutatore procede all’esame delle singole poste dell’attivo e del passivo, tenendo in considerazione

anche eventuali elementi non desumibili direttamente dalla contabilità: ad esempio, i possibili rischi

patrimoniali esprimibili attraverso accantonamenti di fondi (vedasi a tal proposito il capitolo dedicato

alle poste di bilancio). Si passa così dall’espressione di valori patrimoniali a costo storico e contabilizzati

secondo il criterio di prudenza, alla loro riespressione al valore (corrente) atteso di realizzo, considerato

il mercato di riferimento dei beni - sia immateriali che materiali - posseduti dall’azienda e iscritti a

bilancio. Per le poste del passivo, generalmente rappresentate secondo il valore di estinzione, è

necessario verificare che non risultino sottostimate, a causa di errori o di scelte consapevoli di

rappresentare in modo distorto la realtà aziendale.

Il principale vantaggio offerto dal metodo patrimoniale è il maggior grado di certezza: le valutazioni

sono quanto più possibile oggettive (verificabili) e vicine alla realtà, poichè questa metodologia prende

a riferimento i valori di mercato, intesi come valori di realizzo (in normali condizioni di funzionamento

e non in stato liquidatorio/concorsuale). Se si utilizza il metodo patrimoniale non è necessario

predisporre stime di risultati e/o di flussi finanziari futuri prodotti dall’impresa; questo consente di

limitare l’aleatorietà di previsioni quanto mai complesse, in cui si dovrebbe tener conto dell’evoluzione

prevedibile del settore (o, per aziende più complesse: dei settori) di appartenenza dell’impresa (stima

della domanda, andamento dei prezzi…). Come si è detto, il metodo in oggetto è particolarmente adatto

per essere applicato a realtà fortemente patrimonializzate, che hanno nell’attivo di bilancio la fonte

produttiva del proprio reddito (immobiliari di gestione che affittano i loro beni ad esempio).

La dottrina non sempre è concorde sull’utilizzo del metodo patrimoniale. Caramiello reputa il questo

approccio insufficiente a fornire una valutazione completa ed efficace, riconoscendone però l’utilità

quale base di partenza per la valutazione vera e propria. Al contrario, Guatri e Onida riconoscono la

capacità dei metodi patrimoniali di fornire una valutazione completa, anche se solamente nei casi in cui

l’impresa benefici di flussi reddituali tendenzialmente costanti.

Il metodo patrimoniale viene applicato con due modalità differenti, a seconda che vengano considerati

o esclusi, nella valutazione, gli intangible assets (immobilizzazioni immateriali) non direttamente

desumibili dal bilancio: si parla di metodo patrimoniale semplice se all’interno della valutazione

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rientrano esclusivamente gli assets iscritti in bilancio (beni materiali, oneri ad utilità pluriennale, gli

intangibles acquistati e i beni dell’attivo circolante); di metodo patrimoniale complesso se si procede

anche alla valorizzazione dei beni immateriali non iscritti nello Stato Patrimoniale, perché sviluppati

internamente dall’impresa (marchi, know-how tecnologico e manageriale, brevetti, concessioni, ecc.).

La situazione patrimoniale di riferimento può essere il bilancio dell’ultimo esercizio chiuso, se

sufficientemente prossimo alla data della stima (solitamente si considera attendibile se non più vecchio

di 4 mesi); in alternativa, si deve utilizzare uno Stato Patrimoniale appositamente predisposto per la

valutazione, riferito ad una data più vicina. La nota integrativa può essere un valido supporto per

l’individuazione del contenuto delle singole voci e per cogliere ulteriori utili informazioni; la stessa

relazione sulla gestione, ove presente, può fornire spunti importanti mettendo in evidenza, ad esempio,

le attività legate a progetti di ricerca e sviluppo, o altre condizioni particolari che contribuiscono a

costituire il patrimonio intangibile (quale avviamento, know how…) dell’impresa valutata.

8.4.1. Metodo patrimoniale semplice Il bilancio non fornisce, di per sé, una stima corretta del valore economico dell’azienda: del resto, non

è questa la sua finalità. Non è possibile, attraverso una formula algebrica, tradurre il valore delle attività

e quello delle passività in una valorizzazione dell’impresa nel suo complesso: nel nostro ordinamento,

le poste di bilancio sono contabilizzate a valore storico o, per ragioni di prudenza, al valore di presunto

realizzo se inferiore al costo. Il processo di valutazione deve invece arrivare ad esprimere un valore

corrente, cioè il valore teoricamente riconoscibile tra parti indipendenti interessate ad una transazione.

Inoltre, se vi sono nel bilancio elementi atipici, che poco hanno a che vedere con l’attività esercitata

dall’impresa, vanno mantenuti distinti all’interno della valutazione. Si pensi, ad esempio, al caso della

gestione di un immobile – da parte di un’azienda meccanica - ai puri fini di investimento: un immobile

collocato in una posizione prestigiosa, di notevole valore, entrato a far parte del patrimonio aziendale

per un acquisto in tempi remoti o per qualche tipo di operazione straordinaria. Tale componente deve

essere isolata, per non inquinare il processo valutativo.

Per determinare il valore corrente si usano solitamente tre metodologie: il valore di presumibile realizzo

per elementi dell’attivo destinati ad operazioni di cessione (magazzino), il valore di

sostituzione/ricostruzione per le immobilizzazioni strumentali ovvero quelle utili al processo

produzione/vendita ed infine il valore di presumibile estinzione per gli elementi che compongono il

passivo patrimoniale (ad es. residui debiti bancari, debiti verso fornitori, dipendenti, erario).

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L’espressione 1.1 riassume questo metodo:

𝑊 = 𝐾! +(𝑅 − 𝐼)(1.1)

Dove I = R x t

Dove:

W Valore dell’impresa

Kt Valore del capitale non rettificato

R Rettifiche di valore (positive e negative)

I Effetto fiscale sulle rettifiche di valore

t aliquota d’imposta (tax rate)

L’effetto fiscale - misurato come t x R - va considerato, in quanto i plus/minusvalori latenti che vengono

fatti emergere nel processo di valutazione potrebbero produrre, in capo all’acquirente, un onere fiscale.

Si immagini, ad esempio, che l’impresa oggetto di negoziazione sia proprietaria di un immobile stimato

ad un costo storico pari a a 1.000 e successivamente ammortizzato, alla data della stima per un valore

pari a 600: il valore residuo contabile ammonta, pertanto, a 400. Supponendo che dal valore della perizia

emerga che il valore corrente dell’immobile sia pari a 2000 (inteso come valore di presumibile realizzo),

il soggetto che acquista l’impresa potrà realizzare una plusvalenza pari a 1600 nel caso decidesse di

alienare l’immobile. Ipotizzando un’aliquota d’imposta del 30%, tale plusvalenza sconterebbe un carico

fiscale pari a 480. Di tale carico fiscale è necessario tenere conto nel processo di stima, in quanto le

imposte vanno a diminuire il valore per l’acquirente, producendo effetti sia in termini di oneri nel conto

economico che in termini di flussi di cassa. La dottrina, tuttavia, non è unanime sulle modalità di

individuazione della base imponibile di queste imposte latenti. Una parte sostiene che vadano applicate

alle singole plusvalenze, un’altra parte al valore complessivo delle rettifiche di valore, tenendo perciò

conto anche delle eventuali minusvalenze; in questo caso, il carico fiscale verrebbe calcolato su un

importo ridotto, risultando perciò inferiore.

8.4.2. Metodo patrimoniale complesso

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Il metodo patrimoniale complesso si differenzia dal metodo semplice per il fatto che nel processo di

valutazione vengono considerate anche le risorse immateriali: la stima include, in questo caso, il valore

delle risorse intangibili, anche se non iscritte in bilancio. Il valore di queste risorse può essere desunto

sia dai costi sostenuti in passato per il loro ottenimento, sia dai prevedibili benefici economici ottenibili:

in questo senso, il metodo patrimoniale complesso può affiancare alle sti purché identificabili

direttamente. Questa metodologia può quindi essere espressa con la seguente formula:

𝑊 = 𝐾! + (𝑅 −𝐼") + (𝐵 − 𝐼#)(1.2)

Kt Valore del patrimonio non rettificato

R Rettifiche di valore (positive e negative)

IR Effetto fiscale sulle rettifiche di valore

B Valore delle attività immateriali rilevate col processo di stima

IB Effetto fiscale sul valore delle attività immateriali emerse nel processo di valutazione

La stima include pertanto, oltre agli elementi patrimoniali iscritti nel bilancio, il valore delle attività

immateriali non rilevabili direttamente dallo Stato Patrimoniale dell’impresa, per le quali è comunque

possibile procedere ad una valorizzazione sulla base di elementi certi e misurabili. Ove possibile, per

valutare questi beni si fa riferimento al valore di mercato. Spesso, tuttavia, i beni immateriali presentano

caratteristiche che li rendono unici: in questi casi non esiste, pertanto, un vero e proprio mercato che ne

definisca il valore. Il metodo patrimoniale ora in disamina prevede l’utilizzo, per questi beni, di

procedimenti di stima alternativi:

a) Il primo procedimento è il costo di sostituzione o di riproduzione del bene oggetto di stima: si

tratta, in altri termini, di valutare quanto costerebbe -alla data della stima- ricostruire da zero il

bene, nell’ipotesi che esso non esistesse. Ad esempio, si potrebbe cercare di capire quanto

potrebbe costare la pubblicità per affermare un marchio o un prodotto;

b) Un secondo procedimento prevede la capitalizzazione di costi effettivamente sopportati in passato

per l’ottenimento della risorsa immateriale: pur essendo stati imputati tra i costi d’esercizio, questi

valori vengono estrapolati dai dati contabili per essere considerati alla stregua di investimenti, da

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rivalutare per tenere conto del periodo di tempo passato tra il sostenimento degli stessi e la data

della valutazione;

c) Il terzo procedimento è quello c.d. del costo della perdita o cost of loss: la stima del bene

immateriale deriva, in questo caso, dall’attualizzazione delle perdite che si prevede deriverebbero

dall’improvvisa indisponibilità della risorsa immateriale oggetto di stima (o, in alternativa, dal

prezzo che gli amministratori sarebbero disposti a pagare per disporre della risorsa);

d) Un quarto metodo si basa sull’attualizzazione dei benefici economici attesi dal bene immateriale:

il valore di un marchio potrebbe essere stimato, ad esempio, in base alle royalties ottenibili dai

terzi ai quali ne fosse concesso l’uso.

Il metodo patrimoniale complesso prevede che venga stimato anche l’avviamento, inteso come il

maggior valore attribuibile all’impresa per il contributo dato dall’insieme delle risorse immateriali non

separabili (cioè non cedibili separatamente dall’impresa) quali le competenze accumulate, la

fidelizzazione della clientela, la reputazione presso i fornitori, la capacità di innovare prodotti e

processi. Inserendo nel processo di valutazione queste risorse immateriali, si attribuisce all’impresa un

valore superiore alla somma dei valori degli elementi patrimoniali separabili, definendo così in via

indiretta il valore all’avviamento: non è da sottovalutare, tuttavia, il rischio di sovrapporre tra loro le

risorse intangibili oggetto di stima, finendo col sopravvalutare l’avviamento. Si pensi, ad esempio, alla

difficoltà di distinguere il valore del marchio (elemento di per sé separabile) da quello della reputazione

aziendale presso i clienti.

Per le immobilizzazioni immateriali (brevetti, marchi, know how, avviamento, software gestionale, ecc.)

il processo di valutazione è certamente complesso. È necessario considerare le caratteristiche del bene

immateriale ed in particolare la sua riproducibilità, la sua capacità di generare benefici economici e

l’eventuale esistenza di un mercato in cui lo stesso possa essere valorizzato, magari attraverso una

licenza d’utilizzo o cessione. Si pensi, ad esempio, ad un marchio molto noto, quale “Nutella” o “Coca

Cola”. Sono entrambi marchi in grado di generare flussi di cassa e ricavi di valore eccezionale rispetto

a marchi di minore diffusione. In questo caso, non essendovi un mercato di riferimento, si renderebbe

necessario lavorare sui flussi generabili attraverso il loro utilizzo. Si parlerebbe in questo caso di metodo

dei risultati attesi. Questo modo di procedere è molto utile anche per la valorizzazione dei brevetti. Ad

esempio, il brevetto di un nuovo farmaco: le vendite ritraibili dallo sfruttamento di quel brevetto

saranno, in termini di flussi attesi, la migliore base di valutazione.

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Si è accennato, sopra, alla possibilità di stimare le risorse immateriali anche considerando la

capitalizzazione dei costi sostenuti per l’ottenimento delle stesse: questa possibilità va vagliata

attentamente, verificando la futura utilità della risorsa immateriale. Analogo discorso va fatto per

eventuali oneri capitalizzati (iscritti a bilancio tra le immobilizzazioni immateriali): queste poste vanno

attentamente analizzate, per verificarne la presunta utilità futura. Se la verifica dovesse avere esito

incerto, è opportuno azzerarne il valore andando pertanto a decrementare il patrimonio netto per pari

importo.

Per le immobilizzazioni materiali è necessario fare riferimento ad informazioni ritraibili dalla

conoscenza del mercato di approvvigionamento o sostituzione; in alternativa, si possono valutare i costi

di ricostruzione interna del bene.

Per le immobilizzazioni finanziarie e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, in

genere partecipazioni, crediti finanziari immobilizzati, strumenti finanziari di varia natura, depositi

bancari ecc., si devono effettuare differenti tipologie di valutazione. In presenza di partecipazioni

immobilizzate, inevitabilmente la valutazione deve passare per un processo di stima delle società

partecipate: peraltro, in questa fase non si applica necessariamente lo stesso metodo che si sta applicando

per l’impresa oggetto di stima. Qualora non vi sia significatività (partecipazioni per quote molto piccole

del capitale e di valore modesto), ci si può limitare ad assumere il costo di iscrizione. In tutti gli altri

casi occorrerà considerare se la partecipazione è di controllo o di minoranza: nel primo caso vanno

applicati al valore di stima i c.d. premi di maggioranza, nel secondo caso gli sconti di minoranza. Una

partecipazione che assicuri un potere di controllo e direzione ha sicuramente un valore superiore rispetto

al rapporto proporzionalmente riferibile all'intero capitale: se il valore determinato per il 100% di una

società è pari a 1.000, al 51% di questa va certamente attribuito un valore superiore a 510, poichè il

possesso di quella quota consente il controllo e la direzione della società. Al tempo stesso tempo, la

quota di minoranza del 49% non varrà 490. Ai due valori si applicherà: un premio di maggioranza per

una percentuale che può oscillare intorno al 15-25% e, rispettivamente, uno sconto di minoranza nella

stessa misura. Chi volesse comprare il 51% dovà pagare un prezzo che si collocherà tra il valore di 586,5

e 637,5 mentre per il 49% si potrebbe oscillare su un valore di cessione tra 416,5 e 367,5.

Per quanto concerne gli strumenti finanziari e i crediti di natura finanziaria, questi elementi attivi del

patrimonio dovranno essere espressi al presunto valore di realizzo. Per gli strumenti finanziari occorrerà

distinguere tra quelli quotati sul mercato secondario e quelli che non lo sono. Per i primi normalmente

si fa riferimento ad una media dei valori di quotazione negli ultimi 30 giorni o, per i titoli detenuti a

mero scopo di investimento speculativo, alla quotazione alla data della valutazione.

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I crediti iscritti nell’attivo circolante devono essere valutati secondo il criterio di presunto valore di

realizzo/incasso. Il valutatore dovrà porre particolare attenzione alla vetustà degli stessi nonché alla

storicità del rapporto con i clienti, verificandone l’usuale rispetto delle condizioni di pagamento e

operando le dovute svalutazioni in presenza di crediti scaduti. Attenzione particolare dovrà essere

riposta a posizioni creditorie nei confronti di clienti sottoposti a procedure concorsuali (liquidazione

giudiziaria, concordati, amministrazione controllata …) in quanto l’incasso in tali casi diviene non

facilmente determinabile nei tempi e nell’importo. Per quanto concerne il credito per imposte anticipate,

si dovrà porre particolare attenzione alla verifica delle ipotesi di recuperabilità formulate dall’impresa.

Per concludere questa rapida disamina dei criteri di stima da adottare per gli elementi dell’attivo, occorre

considerare la valutazione delle rimanenze: la stima avviene al minore tra costo e presunto valore di

realizzo, ricordando comunque che possono essere utilizzati diversi criteri in relazione alle modalità con

cui vengono considerate le diverse partite d’acquisto o produzione (LIFO, FIFO o costo medio

ponderato). Spesso, politiche di bilancio non proprio conformi a criteri di trasparenza e correttezza

portano a situazioni di sovrastima o sottostima dei beni in magazzino: occorre pertanto procedere ad

opportune verifiche delle modalità di rilevazione, valorizzazione, carico e scarico nonché ad una verifica

fisica dell’esistenza e dello stato di conservazione dei beni.

Le passività normalmente sono espresse al valore nominale o, in alternativa, al costo ammortizzato.

Particolare attenzione dovrà essere posta alla verifica dell’insussitenza di passività potenziali ulteriori

rispetto a quelle rilevate dall’azienda, nonché alla probabilità del manifestarsi di quelle presenti a

bilancio. Per i fondi del passivo, sia per elementi certi che stimati, è prudente perciò richiedere un

confronto circa la congruità degli importi presenti in contabilità. Il valutatore dovrà esaminare con

attenzione eventuali accordi in essere, clausole di garanzia e l’applicazione delle stesse nel tempo, che

possono dare origine alla costituzione di fondi, oneri straordinari (ad esempio per riduzione di personale

in situazioni di crisi) o altre evenienze non immediatamente desumibili dai prospetti contabili.

Va sempre verificato l’assolvimento degli obblighi per i versamenti erariali e previdenziali al fine di

tenere conto di possibili fattispecie (ritardati od omessi versamenti, comportamenti elusivi sanzionabili,

errori di interpretazioni voluti o meno) oggetto di sanzioni e interessi, che incrementerebbero il debito

in essere (nonché conseguenze penali, oltre certi importi). Occorre infine considerare medesima le

eventuali garanzie prestate a favore di terzi ed eventualmente quelle insistenti su beni aziendali che,

qualora attivate, andrebbero ad incidere sulla possibile esigibilità dei beni stessi.

Operate tutte le opportune stime, valutazioni e rettifiche positive o negative, si giunge all’espressione

del patrimonio netto rettificato dell’impresa a valori correnti: attraverso un processo di riespressione dei

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valori di bilancio secondo i valori correnti, nonché attraverso l’evidenziazione delle risorse immateriali

non rilevate nel sistema contabile si perviene quindi alla determinazione del valore dell’azienda.

8.5. Il metodo basato sui risultati attesi Un soggetto che dedicasse la propria attività nella gestione di immobili al fine di ottenerne una rendita

locandoli, farebbe una serie di valutazioni in ordine alla tipologia (civile abitazione, fabbricato

industriale o commerciale, ufficio ecc.), alla posizione (centro città, area turistica, area industriale,

centro direzionale), nonché in ordine ai possibili utenti. Il valore di un investimento (nella fattispecie,

un immobile) dipende, in altri termini, dal ritorno economico che esso può garantire all’investitore:

l’idea di fondo, secondo questo approccio, è che il patrimonio non abbia valore in sé, ma tragga piuttosto

il proprio valore dai benefici economici che sarà in grado di generare nel tempo.

L’esempio della valutazione dell’immobile presenta però una significativa differenza rispetto all’ipotesi

della valutazione di un’impresa: infatti, mentre il canone di affitto è un importo mensile predefinito

contrattualmente o comunque prevedibile piuttosto agevolmente e tendenzialmente costante, i risultati

economici aziendali futuri sono soggetti, normalmente, a notevole variabilità e incertezza.

L’attività d’impresa è sempre caratterizzata da un certo grado di rischio: non vi è mai la sicurezza che i

risultati attesi possano effettivamente essere raggiunti. Se, dunque, per stimare il valore dell’impresa si

intende partire dai benefici economici attesi dalla gestione, è necessario predisporre anzitutto dei piani

economico-finanziari che, ragionevolmente, riflettano quanto potrà effettivamente avvenire. Al fine di

ridurre la componente aleatoria di stima e arginare pertanto eccessivi scostamenti tra i risultati attesi e

quelli che saranno effettivamente realizzati, è prassi partire dalle performance passate o da stime di

settore. Un’attenta analisi dei bilanci degli esercizi passati, nonché delle condizioni attuali di mercato,

contribuirà quindi a rendere più affidabili i piani economico-finanziari da utilizzare nel processo di

stima.

Nel piano occorre considerare le ipotesi sugli investimenti da effettuare, sull’approvvigionamento delle

risorse (materiali e umane, finanziarie) da utilizzare nonché, ovviamente, sui ricavi ottenibili dalla

gestione. La gestione futura potrà richiedere, sia in relazione agli investimenti di lungo periodo che in

relazione alle risorse del capitale circolante, un impegno finanziario immediato a fronte, invece, di un

ritorno nel medio/lungo periodo. La performance futura potrà essere espressa sia in termini di flussi

economici (ricavi, costi, margini) che in termini di flussi finanziari (entrate, uscite, flussi netti di

liquidità). Il documento che contiene queste informazioni è il Business Plan: esso raccoglie tutti gli

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elementi, sia quantitativi che qualitativi, utili alla valutazione dell’impresa (o del progetto

imprenditoriale), nonché le informazioni utili a comprendere la strategia programmata. Non sempre,

tuttavia, gli imprenditori sono spontaneamente portati a formalizzare in un documento le strategie che

intendono perseguire: spesso i piani di sviluppo restano nella testa di chi guida l’impresa, specialmente

nel mondo delle piccole/medie imprese.

Per le imprese già operative - non, dunque, per i progetti imprenditoriali - il business plan pone le proprie

premesse nella situazione aziendale espressa da stato patrimoniale, conto economico e rendiconto

finanziario con dati storici, per giungere alla stesura di analoghi prospetti in un’ottica previsionale

indicando, altresì, le azioni da avviare per ottenere i risultati previsti. Ai fini del processo di valutazione

i prospetti sono spesso riclassificati: lo Stato Patrimoniale più utilizzato è quello riclassificato col

metodo finanziario; il Conto Economico viene espresso a valore aggiunto e/o a margine di

contribuzione. Oggigiorno il business plan, contrariamente a quanto accadeva nei tempi passati, copre

archi temporali non eccessivamente lunghi: di solito si usa arrivare a 3/5 anni, considerando che le

previsioni riferite ad orizzonti temporali più lunghi risulterebbero poco attendibili, eccezion fatta per le

situazioni in cui ci si possa aspettare uno sviluppo standardizzato e costante del business (ad esempio,

le centrali per la produzione di energia).

Il metodo di valutazione basato sui risultati attesi può essere applicando secondo due modalità differenti,

a seconda che la grandezza utilizzata per stimare i flussi attesi sia il reddito (ricavi meno costi) o il flusso

di cassa (entrate meno uscite): in particolare, si parla di metodo reddituale quando si considerano, nel

processo di misurazione del valore, i risultati economici che si prevede saranno ottenuti dall’impresa. Il

margine di riferimento in questo caso è il risultato economico operativo (o l’EBIT) al netto delle imposte

(IRES e IRAP).

Se, invece, si procede nella valutazione sulla base dei flussi di cassa attesi, si parla di metodo finanziario:

secondo questo approccio è necessario attualizzare (cioè riportare indietro nel tempo sino alla data della

valutazione) i flussi di cassa attesi, determinati attraverso un apposito piano finanziario. Perlopiù, il

flusso di cassa atteso dalla gestione operativa viene stimato partendo dal MOL (margine operativo lordo)

di cui si è parlato nel capitolo 7. Considerando le variazioni attese nel capitale circolante netto operativo

(rimanenze, crediti e debiti operativi) e le imposte previste si perviene al flusso della gestione operativa;

per ottenere il flusso di cassa da utilizzare per la stima si dovrà tener conto altresì dei flussi connessi

agli investimenti e di quelli relativi ai finanziamenti (rimborsi e nuovi prestiti). Si perviene in questo

modo al flusso di cassa che si prevede risulterà disposibile per i portatori di capitale, il c.d. free cash

flow to the equity (flusso di cassa libero per il capitale, FCFE).

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In Europa ha prevalso, soprattutto in passato, l’impiego dei metodi basati sui flussi economici, poiché

si riconosce al reddito normalizzato una maggiore capacità di rappresentare le performance aziendali: il

criterio della competenza economica consente, infatti, di ridistribuire il valore degli investimenti nel

tempo (imputandone il valore pro-quota negli anni attraverso il processo di ammortamento),

consentendo così di ottenere minori discontinuità nei risultati annuali previsti rispetto a quanto avviene

nei medodi che considerano i flussi finanziari. Questi ultimi sono più diffusi nella comunità finanziaria

internazionale, perché considerando le tempistiche delle uscite finanziaria connesse agli investimenti e

quelle delle entrate che ne derivano, esprimono valori più conformi alle esigenze informative degli

operatori dei mercati dei capitali.

Gli approcci utilizzati nei metodi valutativi basati sui flussi, sia economici che finanziari, possono

seguire fondamentalmente due strade. Anzitutto, è possibile pervenire ad una stima del valore

economico dell’equity, cioè del patrimonio netto aziendale (c.d. approccio equity side) al netto, quindi,

del valore dei debiti di finanziamento e della remunerazione attesa dai terzi finanziatori.

Alternativamente, è possibile utilizzare un approcco c.d. asset side, che consente di pervenire alla stima

del capitale investito netto (CIN), da depurare successivamente sottraendo il valore della posizione

finanziaria netta.

Poiché la stima del valore è legata ai risultati attesi, il valutatore deve essere attento nell’utilizzare i dati

che gli vengono forniti: è fondamentale che chi effettua la valutazione resti indipendente, per poter

esprimere un giudizio in assenza di condizionamenti di sorta sull’affidabilità delle previsioni. È

P.NETTO (EQUITY)

POS.FIN. NETTA

CIN

METODO REDDITUALE:

Reddito Operativo dopo le Imposte

METODO FINANZIARIO: Flussi finanziari

da gestione operativa e da

investimento (Free Cash Flow to the

Firm)

METODO REDDITUALE: Reddito Netto

METODO FINANZIARIO: Flussi finanziari netti per i soci

(Free Cash Flow to the Equity)

Figura 1 Sintesi dei metodi di valutazione basati sui flussi previsionali

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necessario, perciò, che il piano venga redatto da un soggetto terzo. In una prospettiva di analisi storica,

ad esempio, se un’impresa ha sempre mantenuto un fatturato stabile e un margine operativo nell’ordine

del 10%, difficilmente si potrà ritenere affidabile una previsione di crescita, nel successivo triennio, che

stravolga quanto accaduto in passato. Diverso il caso in cui siano prevedibili, con una buona dose di

certezza, importanti cambiamenti (investimenti su nuove linee, mercati, acquisizioni di altre realtà) che

certamente modificheranno le attuali condizioni di gestione.

Il metodo reddituale esprime il valore dell’azienda sulla base della capacità della stessa di generare redditi

negli esercizi successivi. Operativamente, occorre scegliere la configurazione di reddito, l’orizzonte

temporale di riferimento e il tasso da utilizzare per l’attualizzazione.

Con riferimento all’orizzonte temporale di riferimento, teoricamente sarebbe possibile immaginare un

flusso di reddito costante per un periodo di tempo illimitato. Si consideri comunque che i flussi attesi di

reddito hanno un effetto via via più ridotto sul valore attuale dell’impresa, quanto più sono temporalmente

lontani dalla data di stima: ad esempio, se 1,05 € ottenibili tra un anno valgono 1€ alla data attuale venendo

attualizzati ad un tasso del 5%, il valore attuale di 1,05 € ottenibili tra 10 anni si colloca ben al di sotto di

1 € (0,64€) per effetto del valore finanziario del tempo. Se si fa riferimento, quindi, ad un flusso reddituale

atteso di durata indefinita, il valore economico dell’impresa (W) equivale al valore attuale di una rendita

perpetua di rata costante (R), calcolata al tasso (i), determinato in base alla seguente formula:

(1) Valore attuale del reddito medio atteso: W = R / i

dove (i) rappresenta il tasso di capitalizzazione ed (R) è il reddito medio atteso. Questo procedimento

tende quindi a individuare un reddito atteso normale, volto ad esprimere la capacità reddituale

dell’impresa a regime, depurata da ogni componente straordinaria, nonché da ogni interferenza riferibile

a mere politiche di bilancio.

Il tasso di capitalizzazione (i) utilizzato incorpora il rendimento legato al trascorrere del tempo e dipende

da considerazioni legate al rischio insito nell’investimento in alternativa ad investimenti considerati a

rischio minimo e solitamente identificati negli investimenti in titoli di Stato. Il tasso di interesse utilizzato

dovrebbe anche tenere conto del tasso di inflazione, per basare la valutazione dell’azienda su un tasso

depurato da tale effetto, denominato tasso reale.

Se, per ipotesi, il reddito medio atteso fosse 200.000 € e il tasso utilizzato fosse pari all’8%, il valore W

sarebbe pari a 200.000/0,08= €2.500.000. Nel valutare il grado di rischio dell’investimento vanno

considerati sia il contesto socio-economico in cui è inserita l’impresa (il settore di appartenenza, i mercati

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su cui opera, le condizioni sociali e politiche) sia altri fattori che caratterizzano l’impresa oggetto di

valutazione (la composizione del patrimonio, la posizione finanziaria netta, i valori degli intangibles,

ecc.).

Più spesso si preferisce stimare i redditi attesi su un orizzonte temporale di 3-5 anni, sommando poi al

valore così ottenuto il valore atteso dell’impresa al termine del periodo considerato, stimato come rendita

perpetua. Questo approccio si basa sull’assunto che le previsioni riferite ai primi 3-5 anni a venire possano

risultare sufficientemente affidabili, mentre oltre questo arco temporale ogni previsione risulta velleitaria:

cionondimeno, non si può prescindere dall’attribuire all’impresa un valore (c.d. Terminal Value) al

termine del periodo considerato nel piano economico. Questa variante del metodo reddituale poggia

dunque sulla stima di due addendi:

i. il valore attuale dei flussi reddituali attesi, sistematicamente individuati all’interno di un orizzonte

temporale definito, diversamente da quanto previsto considerando la rendita perpetua analizzata

sopra;

ii. il valore attuale del valore finale o Terminal Value (TV) dell’azienda al termine del periodo

considerato nel piano economico, inteso come valore attualizzato di quello che potrebbe essere, a

regime, il risultato economico atteso medio dell’impresa.

La formula che esprime questo modo di applicare metodo reddituale è la seguente:

(2)𝑊 =/𝑅$

(1 + 𝑖)$ +𝑇𝑉

(1 + 𝑖)%

%

$&'

dove

W è il valore del capitale economico dell’impresa;

Rj è il reddito relativo al j-esimo anno dell’orizzonte temporale di previsione esplicita;

i è il tasso di attualizzazione per i redditi compresi nell’orizzonte di previsione esplicita;

TV è il Terminal Value, intesto come rendita perpetua corrispondente a R/i

m è il numero di esercizi considerati nelle previsioni analitiche (normalmente tra 3 e 5)

Il primo addendo rappresenta, dunque, la sommatoria del valore attuale dei redditi previsti nei primi

anni successivi alla data di stima; viene poi considerato, nel secondo addendo, il Terminal Value

attualizzato alla data della stima. Per comprendere il significato economico dell’operazione di

attualizzazione, basti considerare che il tempo ha di per sé un valore finanziario: in altri termini, un euro

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oggi vale di più di un euro domani. Ne consegue che il valore di un beneficio economico (reddito o

flusso di cassa) atteso a una data futura, riportato indietro nel tempo alla data attuale ha un valore

inferiore. L’operazione di attualizzazione consente di esprimere il valore attuale di benefici economici

futuri: per ottenere questo risultato si applica un fattore di sconto che è, di fatto, un tasso di interesse.

Per comprendere questo concetto basti pensare al valore che assume un capitale iniziale investito ad un

certo tasso, dopo un certo periodo: se si investe in data t0 un capitale C pari 100 € potendo ottenere dallo

stesso un rendimento annuale pari al 5%, dopo un anno in data si potrà disporre di un capitale M

(chiamato montante) pari a 105€, ottenibile come segue:

(3)M=C×(1+i)

L’operazione di attualizzazione consente di ottenere l’effetto opposto: si riporta indietro nel tempo un

capitale, considerando un tasso di interesse che consente di tener conto del valore finanziario del tempo.

Dall’espressione (3) si può agevolmente ricavare il fattore di attualizzazione:

(4)𝐶 = 𝑀 ×1

(1 + 𝑖) =𝑀

(1 + 𝑖)

Questa semplice formula consente di riportare indietro di un anno il valore in data t1 del capitale M,

ottenendone così il valore attuale al tempo t0. Nel nostro esempio, il montante M – pari a 105€ -

moltiplicato per il fattore di attualizzazione 1/(1+i) porta – al tasso i=5% - al capitale C pari a 100.

Estendendo questo metodo a periodi temporali superiori all’anno, considerando che il capitale continua

ad avere un rendimento col passare del tempo, si può esprimere il fattore di attualizzazione (V) con la

formulazione generica:

(5)𝑉 =1

(1 + 𝑖)(

dove n indica il numero di anni per i quali si intende attualizzare (cioè riportare indietro nel tempo) il

capitale. La formula (5) consente di comprendere meglio l’espressione (2).

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Nel processo di valutazione dell’impresa, allo scopo di individuare il tasso di attualizzazione da

utilizzare, si tiene conto - se rilevante - anche dell’effetto dell’inflazione. Inoltre, il tasso di

attualizzazione deve esprimere il livello di rischio insito nell’attività dell’impresa, nelle sue

caratteristiche strutturali (ad esempio, la struttura del capitale raccolto espressa attraverso il rapporto di

leva finanziaria) e nel contesto in cui essa si muove: per tener conto di questi fattori si applica un c.d.

premio per il rischio che viene sommato all’interesse ottenibile da investimenti a rischio inferiore

(generalmente titoli di stato). Non è obiettivo di questo testo entrare nei dettagli dei modelli adottati in

finanza aziendale per la misurazione del premio per il rischio.

Come indicato nella figura 1, se nella stima dei due addendi si utilizza il reddito operativo previsto al

netto delle imposte (NOPAT: net operating profit after taxes), si perviene alla stima del Capitale

Investito Netto, cui è necessario sottrarre la Posizione Finanziaria Netta (PFN)1 per ottenere il valore

economico dell’impresa (equity). Togliendo o aggiungendo la PFN a seconda che il valore sia negativo

(eccesso di passivo finanziario rispetto all’attivo) o positivo, si entra nell’ottica del soggetto che,

valutando una possibile acquisizione valuta anche il fatto di addossarsi i debiti esistenti alla data

dell’acquisto. Se, invece, si considera nella formula il valore del reddito netto previsto (normalizzato),

si perviene direttamente ad una stima del valore economico dell’equity.

Il terminal value, come si è detto, rappresenta l’attualizzazione dei risultati che si ritiene l’impresa possa

realizzare oltre l’orizzonte temporale definito per il piano prospettico: a tal fine si considera un reddito

medio a regime, calcolato normalmente come media dei risultati previsti nel business plan.

Il metodo finanziario parte sostanzialmente dalle stesse logiche ora illustrate con riferimento al metodo

reddituale. Esprime il valore attribuibile all’impresa tramite l’utilizzo dei flussi monetari attualizzati che

sarà in grado di esprimere nel futuro. Anche qui la variabile fondamentale passa attraverso la certezza

che le previsioni siano effettuate su basi solide e misurabili.

8.6. Il metodo misto patrimoniale-reddituale I metodi di valutazione sino ad ora esaminati partono da presupposti diversi: il metodo patrimoniale fa

riferimento ad una valutazione statica, con una stima puntuale di attività e passività rilevate in un preciso

e concordato momento storico, la cui differenza porta a determinare il valore del patrimonio netto

rettificato; il metodo reddituale e quello finanziario poggiano invece sull’assunto che un patrimonio (o

un investimento) assume valore se e nella misura in cui è in grado di generare benefici economici nel

1 Si veda, a tale proposito, il capitolo 7 con riferimento alla riclassificazione funzionale dello Stato Patrimoniale.

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tempo. I metodi basati su piani economico-finanziari, seppure efficaci, sono soggetti a errori e

distorsioni dovuti alla stima dei risultati attesi: le previsioni implicano una componente aleatoria, perché

potrebbero avere basi non sempre solide e dimostrabili e perchè, in ogni caso, restano soggette alla

discrezionalità di chi predispone il piano prospettico. La stessa componente del Terminal Value, che

può assumere un valore molto rilevante, implicando una previsione a lunghissimo termine basata su un

risultato medio atteso normalizzato, può effettivamente far sorgere dubbi sulla capacità di tale metodo

di rappresentare correttamente il valore economico dell’impresa.

Le critiche cui sono soggetti i metodi sinora visti hanno fatto sì che venisse teorizzato (e poi applicato)

un terzo approccio, che si propone di superare i principali difetti dei metodi precedenti sfrtuttandone al

tempo stesso le caratteristiche positive: il metodo misto patrimoniale-reddituale coniuga il punto di vista

statico, analitico e oggettivo del metodo patrimoniale con quello prospettico del metodo reddituale.

Attraverso questo approccio, il valore economico dell’azienda scaturisce dalla somma tra il patrimonio

netto rettificato (K), già considerato nel metodo patrimoniale, e il valore dell’avviamento inteso come

insieme dei sovraredditi futuri attualizzati che l’impresa potrà verosimilmente conseguire, rispetto a

quelli medi ottenibili da imprese appartenenenti al medesimo settore. L’avviamento – che può risultare

positivo o negativo – viene stimato considerando la differenza tra il reddito medio-normale atteso

dall’impresa e la redditività mediamente richiesta (espressa in termini percentuali, come un tasso i%)

sul patrimonio netto rettificato K. Se l’impresa remunera il capitale investito dai soci meglio di quanto

facciano le imprese concorrenti, tanto maggiore sarà il valore del suo avviamento e quindi quello

dell’azienda stessa. Se, dunque, R rappresenta il reddito medio atteso dall’impresa, l’avviamento viene

fatto corrispondere al valore di una rendita costante pari a R-iK per un numero di esercizi limitato

(normalmente tra i 5 e gli 8 anni), dove iK rappresenta il rendimento annuo normalmente ottenibile nel

settore da un investimento di valore pari a K: la differenza R-iK sta perciò ad indicare il cosiddetto

sovrareddito, ovvero la capacità di un’impresa presente sul mercato di generare redditi futuri superiori

alla normale redditività del capitale investito. Quando questa differenza risulta negativa, si è in presenza

di badwill, cioè di avviamento negativo: il valore economico dell’impresa W è inferiore al valore del

patrimonio netto rettificato K. In questa situazione, l’acquirente dovrà essere consapevole che l’impresa

target necessiterà di una serie di investimenti per giungere ad un livello di redditività soddisfacente:

l’operazione di acquisizione potrebbe perciò concludersi a un valore nullo o irrisorio, proprio perché si

valuta che, appena acquisita, l’impresa necessiterà di un iniezione di capitali per far ripartire l’attività

ed invertire la rotta.

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Chiaramente, la scelta dei parametri quali il tasso di rendimento medio per la stima dell’avviamento o

il tasso da utilizzare per l’attualizzazione dello stesso o, ancora il numero di anni per cui si estende la

valutazione possono influenzare notevolmente il risultato finale. Chi effettua la valutazione deve essere

in grado, in base alla propria esperienza e sensibilità, di operare scelte che consentano di arrivare a valori

quanto più verosimili e verificabili.

8.7. Il metodo dei multipli Il c.d. metodo dei multipli viene utilizzato spesso per arrivare rapidamente ad un’ipotesi di espressione

del valore per aziende che sono oggetto di operazioni straordinarie (operazioni di acquisto/vendita,

conferimento, fusione ecc.). Il presupposto alla base del metodo dei moltiplicatori è che il valore di

un’azienda non dovrebbe discostarsi molto dal valore espresso dal mercato per aziende di dimensioni

simili, operanti nello stesso settore e nei medesimi contesti geografici: aziende, in altri termini, che

rispondono a requisiti di comparabilità rispetto a quella oggetto di stima. Diventa quindi determinante

la scelta delle imprese comparabili: alla semplicità e facilità di utilizzo di questo approccio si

contrappone perciò la notevole attenzione da riservare a questa fase del processo di stima, per non

vanificarne i risultati rendendoli eccessivamente approssimativi.

Questo approccio viene utilizzato spesso anche per imprese quotate sul mercato di borsa. In generale, il

capitale economico è ottenuto come prodotto tra un moltiplicatore di mercato (cioè: calcolato

empiricamente sulla base di dati forniti dal mercato) e una grandezza connessa al valore economico

dell’azienda oggetto di stima. Ad esempio, potrebbe risultare che un ristorante, in una determinata città,

possa essere stimato ad un valore pari al doppio del fatturato di un’esercizio, perché in media le

operazioni di acquisto avvenute in passato per aziende di quel settore in quella zona si sono concluse

intorno a valori di quell’ordine di grandezza.

W = moltiplicatore×Variabilerappresentativadelvalore

Il capitale economico viene quindi espresso come multiplo di una variabile che in qualche modo esprime

la capacità dell’azienda di generare valore. Il multiplo, quindi, è calcolato come determinante di una

frazione che ha:

- al numeratore l’Entreprise Value oppure l’Equity Value dell’azienda presa a campione;

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- al denominatore una variabile in grado di sintetizzare la capacità di un’azienda di generare

valore: solitamente si tratta di grandezze contabili come EBITDA, Utile, Patrimonio netto

contabile…

In via generale sono individuati due approcci principali:

- approccio delle società comparabili: viene utilizzato un campione di società quotate

comparabili, da cui si deducono i multipli per valutare l’impresa oggetto di valutazione;

- approccio delle transazioni comparabili: fa riferimento ai prezzi definiti in negoziazioni

riguardanti il pacchetto di controllo (o, comunque, quote rilevanti di capitale) di società

comparabili.

Questo metodo viene anche utilizzato quale parametro di confronto per stime ottenute con i metodi

introdotti precedentemente: immaginando, ad esempio, di aver ottenuto un valore di stima con

l’applicazione del metodo misto patrimoniale-reddituale, quest’ultimo potrebbe essere validato o,

viceversa, riconsiderato qualora dall’utilizzo del metodo dei multipli - in presenza di dati

sufficientemente validi – scaturisse un valore vicino al primo o, al contrario, molto lontano da esso. Se

la forbice tra valori ottenuti con metodi diversi è contenuta, si può ritenere di aver raggiunto una stima

corretta; in caso di forbice molto ampia tra i valori, invece, si rende necessario indagare le ragioni che

possono aver portato a uno scostamento così significativo.

Il processo di applicazione del metodo in oggetto può essere sintetizzato in quattro fasi:

1. scelta del campione di società comparabili;

2. scelta dei moltiplicatori;

3. calcolo dei multipli medi;

4. elaborazioni e scelte finali.

Nella scelta delle società comparabili occorre essere sufficientemente certi che i dati disponibili non

siano inquinati da politiche di bilancio e che siano stati predisposti sulla base degli stessi principi

contabili, che le società possano dirsi al medesimo stadio di maturazione (è diverso, cioè, valutare una

start – up rispetto a una società presente sul mercato da molti anni), che non siano soggette a particolari

influenze (si pensi a società controllate da altre società che ne guidano l’approccio al mercato o ne

influenzino i risultati attraverso addebiti intra-gruppo). È opportuno, inoltre, che le società comparabili

siano dotate di risorse, materiali e immateriali (anche non espresse dai bilanci), e tecnologie

paragonabili. Altro aspetto da tenere in considerazione, poi, è l’ampiezza del campione di società

comparabili: quanto più è numeroso, tanto più si può ritenere che sia rispondente alla ricerca di

comparabili significativi.

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La fase successiva consiste nella scelta del multiplo da utilizzare per la stima. Tra quelli più utilizzati,

senza pretesa di esaustività, si considerino i seguenti:

a) EV (enterprise value) / Sales (fatturato): tra i vari multipli utilizzati è, probabilmente, quello

meno soggetto a politiche di bilancio essendo basato sul fatturato raggiunto dalla società: dato,

quest’ultimo, facilmente verificabile. È intuitivo ritenere che quanto maggiore risulta essere il

fatturato di un’impresa, tanto maggiore possa risultare il valore economico della stessa: al tempo

stesso, tuttavia, si comprende che questo valore, limitandosi a considerare la dimensione delle

vendite, non coglie altri aspetti della gestione che condizionano certamente la capacità

dell’impresa di creare valore: in particolare, non considera le condizioni di efficienza

nell’utilizzo delle risorse, o la capacità di generare liquidità. Questo multiplo, conseguentemente,

può essere utilizzato con maggior efficacia per imprese (spesso di piccola dimensione)

caratterizzate da processi produttivi semplici, che si svolgono secondo condizioni standard, e

per le quali la prima misura del successo è rappresentata dal rapporto con la clientela e, in ultima

analisi, dal valore delle vendite;

b) EV (enterprise value) / EBITDA (Earnings before interests, taxes, depreciation and

amortization): questo rappresenta, probabilmente, il multiplo più utilizzato, per le proprietà

dell’EBITDA indicate nel capitolo 7. Questo margine rappresenta sia un parametro di efficienza

economica, sia una misura della capacità dell’azienda di generare liquidità. Inoltre, l’utilizzo

dell’EBITDA consente di isolare l’effetto di possibili politiche contabili volte a modificare i

piani di ammortamento ed esclude l’effetto del costo dei finanziamenti esterni e del carico

fiscale.

c) EV enterprise value / EBIT (Earnings before interests, taxes): questo multiplo viene considerato

come un’alternativa a quello calcolato con l’EBITDA. Tuttavia, va adottato con cautela perché

nel campione dei comparables potrebbero essere inserite imprese con differente incidenza di

capitale fisso sul valore complessivo del capitale investito netto, con la conseguenza che

l’impatto degli ammortamenti potrebbe risultare molto diverso. Al tempo stesso, poiché nel

calcolo dell’EBIT si prescinde dalla struttura finanziaria e dalla situazione fiscale della società,

questo multiplo può essere utile per confrontare imprese che presentano diversi rapporti di leva

finanziaria (indebitamento);

d) P (Price) /E (Earning): il multiplo confronta il prezzo corrente di un’azione, rilevato al momento

della valutazione, con l’utile netto per azione. Stimando il multiplo su un campione di aziende

comparabili nel settore, lo si può applicare all’azienda oggetto di stima per valutare se il titolo

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di quest’ultima è – ragionevolmente – sopravvalutato o sottovalutato. Se, ad esempio, il P/E ratio

medio delle aziende del settore risulta pari a 10, mentre quello dell’impresa oggetto di

valutazione ammonta a 8, è ragionevole aspettarsi che il corso del titolo di quest’ultima possa

salire. Il prezzo di un’azione incorpora le aspettative del mercato sull’azienda: un P/E pari a 10

significa che gli investitori sono disposti a pagare, per avere un’azione, un prezzo pari a 10 volte

il reddito realizzato. Un P/E pari a 15 rifletterebbe la disponibilità degli investitori a pagare un

prezzo superiore, in ragione delle aspettive ancor più positive sulla capacità dell’impresa di

aumentare gli utili in futuro. Quanto maggiore è il P/E, tanto più ottimistiche risultano essere,

quindi, le aspettative degli investitori sulle possibilità di crescita dell’impresa. Il P/E ratio,

dunque, può essere utilizzato come indicatore della sopra/sotto valutazione di un titolo per il

quale esista un mercato. Poiché al denominatore si considera il reddito netto, questo multiplo

incorpora l’effetto del grado di indebitamento nonché quello dell’imposizione fiscale sul valore

del titolo. Normalmente, nei settori in cui le dinamiche competitive sono più intense, il P/E ratio

risulta più basso rispetto a quei settori dove – ad esempio perché sono settori nuovi, con elevato

tasso di innovazione – la concorrenza è meno accentuata.

e) P (Price) /CF (Cash Flow): questo multiplo segue le medesime logiche che stanno alla base del

P/E ratio, ma ha il vantaggio di non risentire delle politiche contabili attuate sugli ammortamenti

e sugli altri costi che non comportano uscite finanziarie. Inoltre, considerando il flusso di cassa

anziché il reddito, questo multiplo consente di rendere comparabili anche aziende che operano

in Paesi diversi, ove trovano applicazione principi contabili differenti che renderebbero di fatto

non comparabili tra loro i redditi delle imprese stesse. Quanto maggiore risulta essere il peso

degli investimenti durevoli nell’attività dell’impresa e, dunque, quanto maggiore è l’incidenza

degli ammortamenti, tanto più significativo diventa questo multiplo rispetto al P/E ratio.

Vengono inoltre utilizzati altri multipli, specifici in relazione alla tipologia di attività esercitata e

rappresentati da un rapporto tra il valore dell'azienda e una variabile misurabile quale, ad esempio: il

numero di pezzi venduti, di accessi a un sito internet, il numero di clienti attivi. Si pensi, inoltre, a realtà

aziendali con più business units in diversi settori e la possibilità che solo uno di questi sia oggetto di

cessione e pertanto di stima: si tratterà di isolare l’attività oggetto di stima per valutarla come se fosse

una realtà a sé stante, applicando solo su di essa i criteri di valutazione.

Nella prassi, solitamente non si utilizza un solo multiplo come parametro di riferimento: è buona norma

far affidamento su una combinazione di multipli per garantire l’affidabilità e confrontabilità del risultato.

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Al fine di evitare di incorrere in facili errori dovuti a influenze contabili (volute o meno) sulle grandezze

prese a riferimento come ad esempio l’EBITDA, si è soliti operare degli aggiustamenti per arrivare al

cosiddetto EBITDA adjusted: questa misura viene depurata degli effetti relativi ad elementi che si

ritengono estranei alla valutazione (ad esempio: costi non direttamente inerenti all’attività esercitata

perché attinenti alla sola sfera personale dell’imprenditore).

Chiudiamo con un esempio facilmente intuitivo per migliorare l’assimilazione dei concetti sino a qui

riportati.

L’azienda Ω, che opera nel settore automotive, intende acquisire una sua concorrente, in modo da

migliorare la propria posizione strategica sul mercato. L’impresa concorrente ∆ oggetto di interesse da

parte di Ω presenta le seguenti caratteristiche:

- indebitamento netto (PFN: posizione finanziaria netta): € 9 mil.

- fatturato: € 24 mil.;

- EBITDA: € 6,5 mil..

Vengono presi a riferimento, per la valutazione, i valori di capitalizzazione di Borsa di alcune società

qualificabili come comparabili secondo i criteri sopra introdotti.

Azienda EV/EBITDA EV/Fatturato EBITDA/Fatt.

Impresa α 12.5 4 32 %

Impresa β 11 2.5 23%

Impresa π 10.75 5.25 49 %

Impresa µ 9.25 3.75 41%

Valore medio 10.88 3.88 36,25 %

Si procede quindi alla stima dell’ EV per l’impresa ∆, avente un rapporto EBITDA su fatturato pari a circa

il 27 %. Si può immaginare di scegliere due campioni: (a) il primo, contenete tutte e quattro le altre

imprese presenti nel mercato, selezionate andando a considerare come moltiplicatori i valori medi e (b)

un secondo campione che consideri solo le imprese aventi una redditività paragonabile a quella

dell’impresa ∆.

Utilizzando il primo campione, l’Enterprise Value di ∆ potrebbe essere stimato sulla base dei multipli

EV/EBITDA e EV/Fatturato:

𝐸𝑉 = M )*)#+,-.

𝑥𝐸𝐵𝐼𝑇𝐷𝐴Q − 𝑃𝐹𝑁 = (10,88𝑥6,5) − 9 =61,72 Milioni di Euro

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𝐸𝑉 = M )*/0!!120!3

𝑥𝐹𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜Q − 𝑃𝐹𝑁 = (3,88𝑥24) − 9 =84,12 Milioni di Euro

Vi è una forte differenza tra i valori ottenuti applicando i due multipli: il valore di stima risulta, pertanto,

molto incerto.

Ripetendo il medesimo procedimento per il secondo campione, contenente solo imprese con un livello di

redditività simile a ∆ si ottengono i seguenti valori:

𝐸𝑉 = M )*)#+,-.

𝑥𝐸𝐵𝐼𝑇𝐷𝐴Q − 𝑃𝐹𝑁 = (11,75𝑥6,5) − 9 = € 67,3 mil.

Dove il moltiplicatore pari a 11,75 viene determinato come media tra i moltiplicatori ottenuti dai dati delle

due imprese del campione: (12,5+11)/2.

𝐸𝑉 = M )*/0!!120!3

𝑥𝐹𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜Q − 𝑃𝐹𝑁 = (3,25𝑥24) − 9 = € 69 mil.

Dove il moltiplicatore pari a 3,25 risulta dalla media dei moltiplicatori ottenuti sulle imprese comparabili:

(4+2,5)/2. La stima ottenuta utilizzando il secondo campione fornisce valori più coerenti, che

ragionevolmente possono essere considerati più affidabili. L’esempio, seppur molto semplice, consente

di evidenziare quanto la scelta del campione e delle grandezze di riferimento possa influenzare il risultato

ottenuto.

In particolare, nel primo caso l’impresa Ω sarà disposta ad acquisire ∆ per un valore prossimo a 72,92

milioni di Euro (cioè la media dei due valori individuati), mentre nella seconda situazione il prezzo verso

cui i soci di ∆ cercheranno di spingere l’impresa Ω sarà quanto più vicino possibile a 68,15 milioni di

Euro. Tra i due valori vi è una differenza di Euro 4 milioni, una misura non così esigua considerata l’entità

dell’operazione. Al di là dei risultati ottenuti, resta in ogni caso fondamentale la fase di negoziazione tra

le parti, che porta alla fissazione di un prezzo basato sulle valutazioni fatte, ma influenzato altresì dalle

aspettative e dalla capacità negoziale delle parti coinvolte.