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Bill Clegg 90 giorni Traduzione di Sarah V. Barberis

90 giorni

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Bill Clegg90 giorni

Traduzione di Sarah V. Barberis

90 giorni

A Polly, Annie, Jack, Asa e a tutti quelli che contano i giorni

Mentre la neve copre i luoghidove hai di certo camminato,riprendi da dove tutto ha inizio:il luogo che ti prepari ancora a lasciare.Solo e caldo, ancora integro, ricominci.

Daniel Halpern, White Field

Dimentica te stesso.

Henry Miller

Indice

In prestito 9

Casa 29

Un microbo da marciapiede 34

Ri-entro 42

Un giorno 53

Le stanze 63

Il giacimento materno 78

Consumo 112

Spacciati 121

Fatto 133

Nuvola rosa 147

Spalla a spalla 156

Vicino 169

Ringraziamenti 183

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Consumo

Polly ha otto giorni e io cinque. Anche se nessuno dei due riesce a mettere insieme più di due settimane parliamo di cosa faremo quando avremo novanta giorni. Polly potrebbe tornare a insegnare o lavorare con gli animali. Io non ho idea di cosa farò, mi sembra di avere poche possibilità e mentre il mio conto in banca si assottiglia e il mio debito si gonfia, l’unica soluzione sembra quella di andare a vivere con mia sorella Kim nel Maine. Non riesco a immaginare cosa potrò fare là. Non riesco neanche a immaginare con chiarezza quanto a lungo lei e la sua famiglia riuscirebbero a sopportarmi. Polly ha una situazione difficile diversa. Sua sorella Heather ha avuto il colpo di fortuna con l’apparta-mento a fitto bloccato su Saint Mark’s Place mentre stu-diava all’università e l’affitto, per gli standard di New York, è praticamente gratuito. Quindi Polly ha meno urgenza di guadagnare, ma se Heather non si ripulisce è un posto in cui né lo sponsor di Polly né chiunque altro alla Biblioteca le consigliano di restare. Il suo attaccamento a Heather è

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forte – sono gemelle, si drogano insieme – e fino a poco tempo fa, ogni volta che io o chiunque altro le suggerivano di trasferirsi altrove, Polly si pietrificava e cambiava argo-mento in fretta. Ma Heather continua a tirare strisce di coca e a guardare tutta la notte dvd di Law & Order. Polly mette insieme qualche giorno e, questa volta, è più disponibile a parlare del trasloco. A metà maggio inizia a vagheggiare – con cautela, con esitazione – l’ipotesi di dare un’occhiata su Craigslist per vedere annunci di appartamenti nel Queens, dove ha sentito che gli affitti sono bassi.

E poi Polly scompare. Non si fa vedere né alla riunione delle 12.30 né a quella delle 2. Telefono e lascio messaggi sulla segreteria del cellulare, ma non ricevo risposte. Va avanti così per giorni fino a quando la segreteria è piena e smette di ricevere messaggi. Cammino giù per Saint Mark’s e indugio di fronte al suo palazzo, nella speranza di vedere lei o Heather. Jack mi dice di non suonare al campanello perché sono pulito da nemmeno una setti-mana e nell’appartamento di Polly potrebbe esserci co-caina ovunque. Per quanto condivida del tutto la sua lo-gica, non c’è parte di me che trovi invitante l’idea di con-sumare droga con Polly. Non c’è niente nella prospettiva della cocaina nell’appartamento di Polly che scateni una compulsione. Ma seguo le regole di Jack, anche se ho il terrore che Polly abbia avuto un’overdose. Chiamo la sua sponsor, che dice di non aver sentito Polly, ma che qual-cuno della riunione in Biblioteca ha visto Heather in strada, e lei ha detto che sta bene e di lasciarla in pace.

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E così faccio. Le riunioni alla Biblioteca nel resto della settimana sembrano strane senza Polly. I pomeriggi sono più dilatati. Qualche volta vado a prendere un caffè con Annie dopo la riunione delle 2, ma è strano non andare al giardinetto dei cani, è strano tornare a casa ogni giorno in tempo per l’inizio del programma di Oprah alle 4. Ar-riva il fine settimana, e sabato mattina, spinto da un im-peto improvviso, chiamo Polly. Per miracolo risponde. Ciao drogato, mi dice senza la solita audacia, e io rispondo fiacco, Se non è questo il bue che dice cornuto all’asino, allora

non so cosa lo sia. Ride, ma la sua voce è roca e debole. Stai

bene? le chiedo, e dopo una lunga pausa risponde, No. Accetta di incontrarmi al giardinetto dei cani e quando finalmente si presenta con quarantacinque minuti di ri-tardo vedo che indossa ancora, come spesso accade quando ricomincia con la droga, il suo pigiama. Una felpa copre il suo pigiama leggero e non lavato, ma si vedono le ossa della clavicola e i suoi movimenti sono faticosi. Sembra che abbia perso cinque chili, e già prima non c’e-rano questi chili da perdere. Ha il guinzaglio del cane di Essie in una mano e una sigaretta nell’altra, e quando si siede di fianco a me mi colpisce una forte zaffata di alcol, sudore e fumo di sigaretta. Mi sforzo di non reagire, ma puzza ed è difficile far finta di niente.

Il suo odore è ovviamente la cosa più lontana dai suoi pensieri ora. Ho visto varie volte Polly dopo che ha con-sumato droghe, ma questa volta qualcosa è diverso. Sembra spaventata da qualcosa di più del solito orrore di

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essere ricaduta. Le chiedo cosa sia successo e mi dice che lunedì sera Heather è tornata a casa con due palle di coca e hanno consumato senza fermarsi fino a giovedì sera. Venerdì lo spacciatore di Heather è passato con un’altra palla di coca su cui entrambe si sono tuffate. Dopo qualche pista Heather comincia a lamentare dei dolori al cuore e si sdraia sul sofà. Polly è preoccupata, ma si fa ancora un paio di strisce. A un certo punto, Heather sviene e Polly tenta, senza successo, di svegliarla. La scuote, le spruzza acqua sulla faccia e la chiama ad alta voce, ma nulla fun-ziona. Le controlla il polso e sente il cuore di Heather battere nel petto, e almeno capisce che è viva. È in over-dose, pensa Polly, mentre tira una lunga striscia per an-nientare il panico montante. Siccome non ha effetto, ne tira un’altra. C’è quasi un’intera palla di coca sul tavolino e quando pensa di chiamare un’ambulanza, si rende conto che quando arriverà qualcuno, lei dovrà andare con Heather all’ospedale. E smettere di farsi. Continua a tirare una striscia dopo l’altra, pensando che sta per chiamare il 911, ma ogni volta l’effetto non dura e ha bisogno in fretta di un’altra pista. Continua a pensare che chiamerà dopo essersi fatta la prossima pista. Dopo due ore e mezza passate così, la palla non è ancora finita, Heather è ancora incosciente e Polly impazzisce e finalmente chiama il 911. Arrivano i paramedici, portano Heather al pronto soc-corso, le ripuliscono l’organismo con una lavanda ga-strica e la tengono per la notte. Polly lascia Heather in ospedale dopo che il dottore le ha detto che starà bene. Torna all’appartamento, finisce la palla, beve vodka e

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butta giù sonniferi finché non perde i sensi. Più tardi, quella mattina Heather torna a casa, e poco dopo chiamo io. Ed eccoci qua, nel giardinetto dei cani. Qualcosa deve

cambiare, dice, scuotendo la testa. Ho preferito la coca alla

vita di mia sorella.

Di punto in bianco, mi ricordo di un piccolo centro di recupero chiamato High Watch, a Kent, nel Connecticut, e che è un vecchio punto di ritiro per gruppi dei Dodici passi dove ci sono riunioni tutto il giorno, e che è – qual-cuno me lo ha detto una volta, se non ricordo male – eco-nomico. Sulla panchina dei giardinetti chiamiamo per avere informazioni e parliamo al telefono con una per-sona. C’è un letto disponibile da lunedì e la tariffa gior-naliera, con l’aiuto dei genitori di Polly, è accessibile. Pre-nota il posto, si impegna a stare due settimane e la telefo-nata successiva è a mia madre. Senza pensarci un minuto di più, digito il suo numero, e quando risponde le spiego la situazione. Accetta di incontrarci alla stazione dei treni vicino a Kent, lunedì mattina. Quando mi chiede se pas-serò la notte là, mento e dico che ho una riunione quella sera e che devo tornare in città. Tra la telefonata al giardi-netto e la partenza del treno lunedì mattina, Polly telefona ai suoi genitori e racconta loro che cosa è successo. Ven-gono a sapere per la prima volta che fa uso di droghe, ed è pure la prima volta che vengono a sapere di Heather. Vivono in California e non vedono spesso le loro figlie. Per qualche motivo l’anno di disoccupazione di Polly non ha fatto suonare l’allarme abbastanza forte da spingerli a

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pensare che ci fosse un problema serio. Polly chiede loro di aiutarla a pagare la parcella del centro di recupero e loro acconsentono. Ovviamente parte un grosso litigio con Heather, che nega ogni cosa con i genitori e dice a Polly che una volta partita per il centro di recupero può restare là o tornare in California, ma che non è più la benvenuta nel suo appartamento. Polly parte comunque.

Ci incontriamo lunedì mattina presto all’angolo tra la Quinta e la Quattordicesima, e Polly arriva con una pic-cola sacca da viaggio. Un amico ha accettato di tenere Essie e, mentre saliamo sul treno della linea Metro North per Wassaic, Polly dice di non essere mai uscita dalla città negli ultimi tre anni. All’andata mi racconta storie terribili ma divertenti di quando si devastava prima delle lezioni all’asilo e di come si stupiva che le altre insegnanti della scuola non volessero bere una cosa con lei all’angolo du-rante la pausa pranzo. Polly, come me, ha un paio di aned-doti sull’aeroporto. Uno dei ricordi più vividi risale ai tempi dell’università, quando esce da un bar nel pome-riggio, sbronza marcia, e si presenta all’aeroporto jfk senza alcuna idea di dove possa andare, ma solo sapendo che vuole andare da qualche parte, qualunque parte. Vede che c’è un volo per Sarajevo in partenza nel pomeriggio e lo prenota. Arriva là con pochi contanti, abbastanza per stare seduta nei bar tutto il giorno e farsi pagare da bere mentre il paese sta entrando in guerra. Ero seduta là e pen-

savo di essere così interessante, bevendo nei caffè di un paese

che stava entrando in guerra. Le persone stavano partendo per

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morire e io mi sentivo affascinante. Come se la guerra riguar-

dasse più me che loro. La sua storia fa scattare un mio ri-cordo della battaglia di mia madre contro il cancro. Mi ricordo che raccontavo ai miei amici che stava morendo mentre bevevo una vodka dopo l’altra, come se la sua malattia avesse un impatto maggiore su di me che su di lei. Mi contorco per la vergogna quando ripenso a quel momento e a quando, tempo dopo, mi sono presentato in ospedale il giorno della sua operazione, dopo aver pas-sato la sera prima a fumare crack.

Arriviamo alla stazione ferroviaria di Wassaic e l’unica automobile nello spiazzo è quella di mia madre. Riesco a vederla attraverso il cruscotto della sua station-wagon Honda. Solo quando esce dalla macchina per venire verso la banchina ad accoglierci, mi rendo conto che non la vedo da più di un anno. A sei anni dalla mastectomia radicale e a cinque da quando ha terminato il ciclo di radioterapia, i suoi capelli sono tornati, più sottili e chiari di prima. Mentre Polly raccoglie la sua sacca e dice con tono pe-sante, Eccoci, qualsiasi difficoltà io abbia con mia madre ora non conta.

Il centro di recupero è bellissimo, come nessuno di noi si aspettava. Sembra un bed and breakfast di lusso per chi vuole scappare dalla città nel fine settimana. Le donne che accolgono Polly sono gentili, e il centro sembra piut-tosto vuoto. Camminiamo attraverso lo stabile, diretti alla stanza dove dormirà Polly, e solo quando poggia la sua

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sacca sul letto mi viene in mente che Polly non sarà in città per due settimane. Due settimane senza passeggiata con il cane, senza Polly. Ho un attimo di panico da possibile ricaduta, temo che senza Polly nei paraggi sarò meno in grado di trattenermi dal consumare droga. Spero che nes-suno di questi pensieri sia visibile sul mio volto mentre saluto Polly e mi allontano cupo come se stessi lasciando mia figlia al college. Voglio che sia benvoluta, mi preoc-cupa il fatto che rimarrà da sola. Chiamami se hai bisogno,

a qualunque ora, dico con tono patetico uscendo dalla sua stanza.

Mia madre mi riaccompagna alla stazione per prendere il treno che riparte meno di due ore dopo che io e Polly siamo arrivati. Mentre guida, non parliamo dell’argento o di qualsiasi altra cosa possa creare attrito fra noi due. Mi racconta che mentre ero all’università aveva cacciato di casa mio padre dopo una scenata da ubriaco partico-larmente orrenda. Aveva accettato di riaverlo in casa solo a patto che completasse un soggiorno al centro di recu-pero in cui abbiamo appena lasciato Polly, cosa che appa-rentemente aveva poi fatto. L’aneddoto mi sorprende. Sapevo che le cose erano peggiorate tra loro quando io ero all’università, che mio padre beveva di più, ma non avevo idea che fosse andato in riabilitazione. La ascolto mentre mi descrive quanto fosse dura in quel periodo, ma sono restio a farmi coinvolgere troppo. Ho appena rico-minciato a parlare con mio padre dopo non avergli par-lato per quasi un decennio, perciò sto attento a non ritor-

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nare troppo dentro la vecchia e familiare dinamica in cui ascolto mia madre lamentarsi di lui. Mio padre si sveglia presto, da sempre, perciò nelle ultime settimane abbiamo sempre parlato al telefono di mattina. Incontro Elliot ai campi da tennis sull’autostrada West Side prima che vada al lavoro, così arrivo là presto per prenotare un campo e parlare con mio padre. Sembra che lo stia conoscendo per la prima volta durante queste telefonate. Più mia madre parla delle ubriacature di mio padre, più sono a disagio fino a quando non cambio discorso.

Arriviamo alla stazione dei treni e attendiamo nella mac-china con imbarazzo. Lei mi parla della sorella di Polly e della Biblioteca; prova, come ogni genitore, ad avere uno scorcio della vita di suo figlio. Rispondo con vaghezza, riluttante a renderla partecipe anche solo un po’ della mia vita, e alla fine dico solo, Grazie. C’è silenzio nella mac-china, per un po’. Sono felice di esserti stata d’aiuto, Billy.

Sono solo contenta di essere utile, dice con tenerezza mentre il treno frena e io faccio per aprire la portiera. Io, pure, penso mentre le bacio una guancia, esco dall’auto e vado a casa.