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Un'ipotesi su una questione controversa IL NON DETTO DELLA PSICOANALISI Una professione che implica un processo analitico senza fine, un continuo fare i conti con l'ombra del proprio disagio Aldo Carotenuto lcuni pazienti, all'approssimarsi di una possibile fine degli incontri analitici, esprimono il desiderio di diven- tare allievi di una determinata associazione analitica. Il pro- blema resta sostanzialmente identico anche nel caso di indi- vidui che fin dall'inizio dell'analisi mostrano il desiderio di diventare analisti. In questa circostanza però, tanto l'analista che il paziente sono consapevoli che il desiderio rappresenta solo un sintomo di cui va compreso soprattutto il significato. Vorrei chiarire che all'espressione "fine dell'analisi" è darò un senso molto ampio: non si allude soltanto alla scadenza temporale in cui il terapeuta e il paziente prendono realmen- te commiato l'uno dall'altro, ma alle modalità di conclusione del processo analitico. In alcuni casi esso coincide con il completamento di un'esperienza profonda e importante vis- suta dai due partner, in altri invece ha un esito più tormenta- to, costituendo una vera e propria negazione del processo terapeutico e culminando in un insieme di vissuti negativi da parte del paziente che considera l'analista come traditore e nemico. Nel chiarire come ciò possa avvenire è necessario sapere che coloro che intendono diventare analisti devono continuare il loro iter maturativo con altri analisti, membri della stessa associazione. Tutte le società analitiche nazionali, tra loro consociate in un organismo internazionale, riconoscono e sottoscrivono questa regola, non consentendo ai propri al- lievi di condurre analisi al di fuori del primitivo clan di ap- partenenza. Prima di delineare cosa avvenga in quella delicata fase di passaggio tra la conclusione della prima analisi e l’avvio della successiva, passo necessario all'interno del training a- nalitico, vorrei aprire una parentesi di carattere storico. Se facciamo riferimento allo sviluppo del movimento psico- analitico dall'inizio ai nostri giorni, giungiamo alla conclu- sione che la crescita del movimento è anche il racconto di come si diventa analisti. È ai padri della psicologia del pro- fondo che bisogna innanzitutto guardare per capire ciò che è avvenuto in seguito. Sulla scia dei suoi interessi personali e spinto dal desiderio di trovare nuove vie per la cura dei A

A Carotenuto - Il non detto della psicoanalisi usati/A Carotenuto - Il... · Aldo Carotenuto lcuni pazienti, all'approssimarsi di una possibile fine degli incontri analitici, esprimono

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Un'ipotesi su una questione controversa

IL NON DETTO DELLAPSICOANALISI

Una professione che implica un processoanalitico senza fine, un continuo fare i conti

con l'ombra del proprio disagio

Aldo Carotenuto

lcuni pazienti, all'approssimarsi di una possibile

fine degli incontri analitici, esprimono il desiderio di diven-

tare allievi di una determinata associazione analitica. Il pro-

blema resta sostanzialmente identico anche nel caso di indi-

vidui che fin dall'inizio dell'analisi mostrano il desiderio di

diventare analisti. In questa circostanza però, tanto l'analista

che il paziente sono consapevoli che il desiderio rappresenta

solo un sintomo di cui va compreso soprattutto il significato.

Vorrei chiarire che all'espressione "fine dell'analisi" è darò

un senso molto ampio: non si allude soltanto alla scadenza

temporale in cui il terapeuta e il paziente prendono realmen-

te commiato l'uno dall'altro, ma alle modalità di conclusione

del processo analitico. In alcuni casi esso coincide con il

completamento di un'esperienza profonda e importante vis-

suta dai due partner, in altri invece ha un esito più tormenta-

to, costituendo una vera e propria negazione del processo

terapeutico e culminando in un insieme di vissuti negativi da

parte del paziente che considera l'analista come traditore e

nemico.

Nel chiarire come ciò possa avvenire è necessario sapere che

coloro che intendono diventare analisti devono continuare il

loro iter maturativo con altri analisti, membri della stessa

associazione. Tutte le società analitiche nazionali, tra loro

consociate in un organismo internazionale, riconoscono e

sottoscrivono questa regola, non consentendo ai propri al-

lievi di condurre analisi al di fuori del primitivo clan di ap-

partenenza.

Prima di delineare cosa avvenga in quella delicata fase di

passaggio tra la conclusione della prima analisi e l’avvio

della successiva, passo necessario all'interno del training a-

nalitico, vorrei aprire una parentesi di carattere storico. Se

facciamo riferimento allo sviluppo del movimento psico-

analitico dall'inizio ai nostri giorni, giungiamo alla conclu-

sione che la crescita del movimento è anche il racconto di

come si diventa analisti. È ai padri della psicologia del pro-

fondo che bisogna innanzitutto guardare per capire ciò che è

avvenuto in seguito. Sulla scia dei suoi interessi personali e

spinto dal desiderio di trovare nuove vie per la cura dei

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disturbi nervosi, procedendo per tentativi ed errori, Freud

approda dal primitivo metodo ipnotico e da quello catartico

alla psicoanalisi. Egli promuove una modalità di trattamento

avente come sostanziale caratteristica l'esame e la scoperta

della dimensione oscura e ignorata della vita psichica: l'in-

conscio.

Il metodo freudiano consiste nel ricercare e trovare qualcosa

che si e allontanato dalla coscienza. Nella messa a punto di

questo sistema di esplorazione che scandaglia la parte som-

mersa della psiche, di fatto Freud si autodetermina psi-

coanalista. Tale autodeterminazione, giustificata dal fatto

che egli era lo scopritore del metodo di trattamento, non po-

teva a rigor di logica essere generalizzata. Con l'istituzione

delle società psicoanalitiche, a partire da quella viennese, le

regole vengono cambiate e gli aspiranti analisti devono a

loro volta sottoporsi a trattamento analitico.

Soltanto molto tempo dopo, Lacan, nel porsi ancora una vol-

ta in modo critico il problema di come si diventa analisti,

sostiene la tesi dell'autolegittimazione. Si tratta di un punto

fondamentale e gravido di conseguenze. Da Freud in poi

comunque, e sotto l'influsso determinante di Jung, si struttu-

ra una concezione per la quale diventare analisti implica

sperimentare su se stessi l'identico procedimento che servirà

poi a trattare e curare i pazienti. Si parte cioè dall'ipotesi che

si può imparare a diventare analisti a patto che si seguano

cene modalità di formazione, in modo particolare che ci si

sottoponga ad una o più analisi. Inizialmente si pensava in-

fatti che fosse necessario un numero molto limitato di incon-

tri terapeutici, ma in seguito viene ammessa da più parti e

inserita negli statuti delle diverse associazioni analitiche la

necessità di una moltiplicazione di questi incontri, una mol-

tiplicazione sempre più elevata fino quasi a coincidere con

l'interminabilità del processo analitico, interminabilità su cui

già Freud riflette nei suoi ultimi anni di vita.

A determinare questo sostanziale mutamento nelle regole

della formazione è l'essersi scontrati con un problema di

fondo spesso occultato anche se in buona fede, la consape-

volezza cioè che non si può insegnare a diventare analisti.

Ritornerò su questo punto esplicitando i requisiti che, a mio

avviso, sono necessari per svolgere questa professione.

L'interminabilità dell'analisi finalizzata a fini didattici può

essere compresa a vari livelli. Essa sembra implicare l'idea

che per quanto approfondirò possa essere stato il procedi-

mento analitico, il compito di venire a patti con la propria

dimensione nevrotica è di fatto interminabile. È lo stesso

Freud — come si è detto — a suggerire che il futuro analista

si impegni a pensare alla propria analisi proprio nei termini

di un'analisi senza fine, ricavando in tal modo da questo

sforzo prolungato indefinitamente nel tempo degli indiscuti-

bili vantaggi nell'affrontare le difficoltà nevrotiche dei futuri

pazienti. Questo ragionamento conduce però a un'inevitabile

contraddizione. Da una parte infatti si sostiene che

la professione analitica, come qualsiasi altra disciplina, può

essere insegnata e soprattutto appresa, mentre dall'altra si

mette in evidenza l'interminabilità di questo apprendimento,

che aderiva dall'impossibilità di venire a patti con la propria

sofferenza psichica. Per uscire da quest'impasse bisogna, a

mio avviso, chiedersi onestamente e con coraggio che cosa

renda in effetti interminabile un processo analitico il cui fine

è quello di preparare e formare il futuro analista. La mia ri-

sposta potrà apparire a questo punto paradossale e provoca-

toria, perché io ritengo che la vera ragione dell'interminabi-

lità di questo tipo di analisi sia data dal fatto che la profes-

sione analitica, così come è comunemente concepita dai

training delle diverse associazioni, non esiste.

gli inizi della psicoanalisi, il trat-

tamento analitico viene concepito e descritto come un pro-

cedimento il cui fine è quello scoprire qualcosa, un quid che

l'individuo cela sepolto nelle zone più buie della psiche, e

del quale non è cosciente. L'analista indaga ed esplora un

terreno che nelle sue linee particolari — quelle che riman-

dano alle variabili soggettive di ciascun paziente - appare

sconosciuto, ma che in realtà è noto nella generalità di com-

plessi e dinamiche psichiche che appartengono a ciascun es-

sere umano. Ad esempio il complesso edipico. Tuttavia nel

corso del secolo che ci separa dalla nascita della psicologia

del profondo, gli analisti sono giunti alla sconcertante sco-

perta che questo scavare e tornare al passato per scoprire

traumi ed eventi rimossi serve a poco, se non a nulla, alme-

no su un piano terapeutico. Al di là del puro piacere intellet-

tuale che si prova nel ricostruire o reinventare il proprio pas-

sato, gli obiettivi clinici che si raggiungono nel corso

dell’analisi sono in realtà il frutto di un altro processo, pro-

cesso molto spesso sottovalutato. Questo fattore terapeuti-

camente efficace è costituito dalla relazione fra paziente e

analista, rapporto grazie al quale è possibile inserire

dei.nuovi elementi nella vita del paziente così da ristutturar-

la. Si noti allora la differenza fondamentale. Non è lo sco-

prire ma è l’inserire, il fatto determinante di un mi-

glioramento analitico. Un disturbo nevrotico non può gua-

rire se a parte la nuova consapevolezza, tutto rimane come

prima. Una tale visione dell'analisi implica necessariamente

la modifica della concezione del ruolo dell'analista e dei re-

quisiti essenziali richiesti in questa professione. Infatti, men-

tre risulta relativamente facile scoprire gli eventi cruciali

della vita del paziente e costruire una versione coerente della

sua scoria, molto più difficile appare invece per l'analista il

momento del nuovo, l’inserimento di quel nuovo fattore che

può modificare la condizione nevrotica in cui è imprigionato

il paziente. Questo atto non richiede tanto lunghi studi, co-

noscenze teoriche e tecniche, e un altrettanto lungo adde-

stramento professionale, quanto invece delle qualità

A

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Raffaello, Le nozze di Amore e Psiche, Palazzo della Farnesina, Roma

umane e un'attitudine - artistica, nel senso alchemico che

Jung conferiva a questo termine. Ciò sposta il problema

della formazione dall'addestramento, e quindi da un pro-

cesso di insegnamento-apprendimento, al, possedere delle

caratteristiche, che non possono essere culturalmente tra-

smesse.

Se, come io ritengo, queste qualità costituiscono i

tratti peculiari di un buon analista, e se esse non possono

venire insegnate, si comprende come il training analitico,

e quindi l'analisi mirante a questo fine, sia un processo in-

terminabile, il cui protraisi in eterno deriva appunto dal-

l'impossibilità di affrontare tale cruciale problema. Capire

ciò significa anche valutare diversamente quei percorsi

analitici che si prolungano indefinitamente nel tempo, pri-

gionieri di una sostanziale immobilità, ed essere anche

consapevoli dei rischi in cui si incorre assumendo tale at-

teggiamento. Si tratta ovviamente di pericoli spesso invi-

sibili agli occhi tanto dell'analista che del paziente e che

possono essere paragonati ai danni subiti dai primi radio-

logi ignari della pericolosità delle radiazioni a cui si espo-

nevano. In quel caso però se le radiazioni erano invisibili

agli occhi umani, ben visibili erano 1 loro letali effetti. Ri-

spetto all'analisi invece tanto i rischi, quanto gli effetti ne-

gativi restano per il momento misconosciuti. Anzi la sta-

gnazione nella quale si è bloccato l'addestramento non so-

lo non è riconosciuta come tale, e quindi come un falli-

mento dell’addestramento stesso, ma è addirittura conside-

rata un segno che il training sta seguendo e rispettando le

modalità di un processo che richieda del tempo. Sembra

così esistere sempre una giustificazione per un trattamento

che nella sostanza è invece erroneo. Ma perché questo ac-

canirsi con metodi inefficaci? La risposta appare sem-

plice. In effetti l'abilità che si richiede dall'analista è del

tutto elementare se il suo lavoro si deve limitare a sco-

prire, mentre il compito diventa estremamente difficile e

quasi Immane se viene assimilato al creare, dal momento

che la creatività non può essere insegnata. Il problema del

termine dell'analisi va così acquisendo una fisionomia più

chiara.

e si riconosce la veridicità della mia

ipotesi si comprendono anche gli equivoci, i malintesi, le

inevitabili disillusioni e quindi anche le violente contesta-

zioni di alcuni di quei pazienti che hanno deciso di diventare

analisti. Sia che l'abbiano deciso all'inizio dell'analisi, sia

che invece siano giunti a tale scelta solo alla fine di questo

processo, di fatto questi pazienti intendono cominciare una

professione di cui vedono soltanto un aspetto, quello del ri-

cercare, aspetto che in un certo qual modo può essere inse-

gnato. Si genera in tal modo un fatale equivoco, perché la

futura professione non si basa - come ho già detto - sul ri-

cercare che può essere imparato ma sull'inserire che invece

non può essere insegnato. Se fossero lucidamente consape-

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voli di questa situazione, le associazioni dovrebbero struttu-

rare i training analitici in maniera da offrire sì all'allievo uno

spazio di studio e di confronto con gli altri membri, ma da

renderlo anche cosciente che le qualità fondamentali neces-

sarie a questa professione non possono venire apprese all'in-

terno del training. L'allievo dovrebbe pertanto poter guarda-

re profondamente dentro se stesso per riconoscere la sua

idoneità o inidoneità a svolgere l'attività di analista, accom-

pagnando con un .processo di autolegittimazione quell'abili-

tazione, quella sorta di consacrazione ufficiale fornita

dall’associazione stessa alla fine del training. Per una serie

di ragioni invece — non ultima l'insicurezza delle associa-

zioni stesse, che credono di autolegittimare la loro esistenza

investendo i loro membri di crismi che non hanno — questa

scomoda verità sul training non viene rivelata a chi si avvia

a una professione analitica di farro inesistente se così mal

concepirà. Una spiegazione è offerta dal costante confronto

delle discipline psicoterapeutiche con quelle mediche, dove

la possibilità di curare le malattie scaturisce soltanto da un

lungo apprendimento teorico e tecnico. Secondo una conce-

zione della medicina, per fortuna superata dall'approccio oli-

stico e psicosomatico, come sono inesistenti le cause psichi-

che della malattia, così non deve essere prestata dal medico

alcuna attenzione a questo aspetto. Per esercitare la sua pro-

fessione non gli è richiesta nessuna particolare qualità uma-

na, nessuna attitudine psicologica. Per inciso, il risultato di

questa sconsiderata visione è fin troppo manifesto nella di-

sumanizzazione dei nostri ospedali e di ogni altra struttura

sanitaria del paese. Tenuto conto di ciò e considerato che al-

meno la metà degli allievi e dei didatti delle associazioni a-

nalitiche è costituita da medici, apparirà comprensibile la

difficoltà di mettere in discussione la formazione analitica

come risultato non dello sviluppo di alcune qualità umane,

ma unicamente come frutto di studi e del lungo investigare il

proprio passato personale. Appare impossibile dire all'allie-

vo che la professione analitica come è tradizionalmente con-

cepita non esiste e che invece il suo futuro potere tera-

peutico si basa sulla capacità creativa. È questa però la con-

clusione a cui giunge anche Perer Breggin nel suo ultimo li-

bro, Toxic Psychiatry.

Non si tratta qui di mettere in discussione che certe per-

sone siano capaci di riprogrammare un paziente sofferente

per la presenza di mappe mentali che lo sviano e lo confon-

dono nella vita di tutti i giorni, ma di capire quale tipo di

persona sia capace di svolgere questo compito.

Non basta essersi sottoposto per rutta la vita ad un'analisi,

né conoscere alla perfezione tutti i testi di psicoterapia, né è

sufficiente possedere dei sani principi, essere saggio ed e-

quilibrato. Al di là di questi requisiti ne esistono altri che

sembrano non avere alcun diretto riferimento con la terapia,

ma che invece ne costituiscono la conditio sine qua non. Mi

riferisco appunto alla capacità creativa di colui il quale

Romanino, La fortuna. Castello del Buonconsiglio, Trento

intende essere terapeuta. E questa dote ad accomunare tutti i

terapeuti in qualsiasi ambito, tempo e cultura essi abbiano

svolto la loro attività, costituendo quel filo che lega la mo-

derna psicoterapia alle antiche forme di guarigione, filo che

H. Ellenberger ha ampiamente illustrato nei suoi scritti. I

training analitici, specie nei colloqui di ammissione e di pas-

saggio alle varie fasi, cercano di basare i loro criteri sulla

necessità per l'aspirante analista di far maturare il proprio

livello di personalità e di integrare aspetti lontani dalla co-

scienza. Questi obiettivi apparentemente legittimi nascon-

dono una notevole oscurità e nebulosità, derivata sia dalla

loro generalità, sia dalla soggettività e quindi dalla discuti-

bilità della valutazione da parte dell’esaminatore riguardo

all'effettivo raggiungimento da parte del candidato di tali

fini. Il limite intrinseco a questi presunti criteri tradisce la

reale impotenza delle associazioni discriminare chi potrà

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essere un terapeuta e chi no. Il pro-

blema, naturalmente, non si pone per

quegli allievi che vengono allontanati

o che non vengono neppure accettati,

perché una volta che questi ultimi ini-

ziano a fare gli analisti non si distin-

guono affatto da coloro che invece

hanno avuto il riconoscimento ufficia-

le dell'associazione. Il vero e grave

problema, spesso assai doloroso nei

suoi esiti, nasce per quegli allievi per i

quali il crisma dell'accettazione all'in-

terno di un'associazione suona come

una consacrazione. Questa con-

sacrazione è inesistente in quanto tale,

poiché si basa su requisiti che di fatto,

a mio avviso, non determinano la ca-

pacità di essere degli analisti. Al con-

trario, sia l'associazione che l'allievo

stesso al momento dell'ammissione

sembrano sostenere che, essendo que-

sti meritevole di entrare a far parte di

un gruppo e successivamente di so-

stare al suo interno, sarà anche capace

alla fine dell'addestramento di svol-

gere la professione analitica. Il sillogi-

smo accettazione e quindi capacità di

fare l'analista si regge però su di un

falso che l'allievo sconterà per molto

tempo.

Partendo dalla convinzione che il

poter diventare analista si basa sul

modo nel quale porterà a compimento

la sua preparazione, ciascun allievo

cercherà di riuscire al meglio in questo

compito, studiando molto e tentando

di rubare ai colleghi più anziani i se-

greti del loro lavoro, il mistero del-

l'arte clinica, un po' come i pittori del

Rinascimento tentavano nelle botteghe

in cui erano apprendisti di impadro-

nirsi delle tecniche dei loro maestri.

Ma così come non si diventa artisti se

non si possiede autentico talento, è

impossibile diventare uno psicologo

clinico, mera alquanto ambita, se non

lo si è già, se cioè non si possiedono in

fieri quei requisiti. Il rischio di perse-

verare in questo equivoco è quello di

continuare ad addestrare degli indivi-

dui che non saranno mai degli analisti,

benché la fine del training certifichi la

loro abilitazione. L'allievo, completata

la sua formazione sulla base di questi

falsi criteri e diventato analista,

nell'accingersi ad esercitare la sua pro-

fessione, si troverà immediatamente a

confronto con situazioni che richie-

dono una capacità inventiva e una cre-

atività del tutto personali e che, non

potendo essere insegnate, sono ovvia-

mente sfuggite ai lunghi anni di adde-

stramento. Va tuttavia riconosciuto

che molti sono consapevoli dei limiti

del training e non pretendono ciò che

non può loro offrire. E nonostante il

training non li prepari ad affrontare

queste situazioni, trovandosi di fronte

al paziente ed alle sue necessità, sono

ugualmente in grado di adottare un

comportamento adeguato alla situa-

zione. In tal modo questi giovani ana-

listi dimostrano di aver compreso il

vero spirito dell'insegnamento di

Freud e Jung. Il primo infatti soste-

neva che i suoi suggerimenti avevano

un valore personale e che ogni medico

avrebbe dovuto trovare il suo sistema

di cura; mentre il secondo affermava

che se qualcuno fosse entrato nel suo

studio lo avrebbe sorpreso non legato

a un metodo ma a una procedura che

egli sentiva appropriata in quel caso.

iù recentemente Milton

Erickson dichiarava di inventare una

nuova teoria per ogni paziente. La dif-

ficoltà reale di insegnare questa pro-

fessione, difficoltà alla quale ho sem-

pre creduto, induce a focalizzare l'at-

tenzione su altre qualità indispensabili

agli allievi e in particolare alla profon-

da sensibilità che dovrebbe guidare la

loro formazione. Tale sensibilità, per

coloro che effettivamente riusciranno

ad essere degli analisti, si traduce in

un attento scrutare la propria anima e

la propria personalità, non tanto e non

solo per ricostruire il passato, per inte-

grare parti scisse, per diventare consa-

pevoli di zone rimosse dalla coscienza,

quanto per individuare e realizzare ciò

che essi stessi sono realmente e per

trovare un senso profondo sia in ciò

che sono, sia in quello che fanno.

Questi individui accompagneranno

agli anni di studio e di analisi lo svi-

luppo e l'affinamento di quelle dori

umane, di quella creatività che sono

già in loro possesso, che costituiscono

la base per l'autolegittimazione alla

professione e alla quale deve necessa-

riamente essere affiancata qualsiasi

certificazione da parte di un'associa-

zione.

Mi rendo conto della obiezione che

può scaturire da questa presa di posi-

zione, che comporta il pericolo di ave-

re dei terapeuti inflazionati i quali, in

preda a un attacco megalomanico, cre-

dono di possedere il misterioso potere

terapeutico degli sciamani. Chiarito

che, a mio avviso, le doti umane a cui

accennavo devono comprendere anche

una cena umiltà, un senso dei limiti,

un riconoscimento della propria Om-

bra - garanzie contro un'autolegit-

timazione che nasce dall'inflazione

psichica, dall'identificazione con l'ar-

chetipo del Guaritore e del Salvatore -

va sottolineato poi che da questo ri-

schio non sono esenti coloro che rice-

vendo dall'associazione l'abilitazione

ad essere analisti, a partire da questo

momento, si considerano gli unici de-

rentori del potere terapeutico. Un pote-

re terapeutico che, sulla base di quanto

ho finora sostenuto, non è comprovato

poiché la sua acquisizione non passa

attraverso un insegnamento.

Se dunque sensibilità, vigile atten-

zione a se stessi, capacità di introspe-

zione e di discriminazione di quelle

doti che effettivamente li preparano

alla loro futura professione, rendono

alcuni allievi in grado di comprendere

i limiti e i paradossi del loro training,

per molti altri questo non accade.

La numerosa schiera di allievi - che

purtroppo costituisce la media presen-

te all'interno delle associazioni - i qua-

li ritengono di poter fare gli analisti

alla fine del training, senza capire che

altre qualità consentono una tale effet-

tiva possibilità, va fatalmente incontro

al fallimento professionale. Sotto la

pressione di una lacerante frustrazione,

molti di loro svilupperanno quella che

può essere definita

P

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la sindrome del risarcimento. Ed è in questa fase che la fine

della prima analisi, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi

progressi e con i suoi errori, acquista un particolare signifi-

cato. A differenza della maggioranza degli altri pazienti, co-

lui che vuole diventare analista non termina mai il suo pro-

cesso analitico, ma cambia il suo analista in modo che, si

suppone, da venire in contatto con altre modalità psicologi-

che e di comportamento.

L'analisi iniziale, quella nella quale si è profilato e

vagheggiato il desiderio di diventare analista, rimane tutta-

via la fase più importante e delicata del lungo iter ed anche

il bersaglio principale verso cui l'allievo deluso, scontento

del training e che non riesce ad autolegittimarsi nella profes-

sione, indirizza le sue richieste di risarcimento. È come se

egli ritenesse responsabile il primo analista di quell'inganno

che non gli consente di divenire analista, inganno che come

ho sostenuto è intrinseco invece alla strutturazione del

training. Affermare ciò non significa naturalmente costruire

un castello teorico all'interno del quale occultare i propri

sbagli, l'essere stato, in cera casi e per svariati morivi sui

quali mi soffermerò più avanti, terapeuticamente inefficace.

Va a questo punto anche ribadito che la scelta di diventare

analisti affonda in parte le sue radici su un'impossibilità di

affrontare in altro modo la propria sofferenza psicologica, su

una sorta cioè di inguaribilità del proprio disagio che costi-

tuisce il bene più prezioso dell'analista, poiché alimenta co-

stantemente la sua capacità terapeutica, la sua creatività ana-

litica, come ho ripetutamente sostenuto nei miei scritti.

Comprendere tanto i limiti del training, quanto i limiti

dell'analisi a cui ci si è sottoposti inizialmente se dovrebbe

immunizzare il paziente-allievo dalla sindrome del risarci-

mento, non può e non deve tuttavia fornire .all'analista un

comodo alibi nel quale occultare la propria Ombra,

quell'Ombra responsabile di sbagli, insuccessi ed agiti. Mi

sono a volte dovuto confrontare con situazioni di questo ge-

nere, situazioni nelle quali il paziente ora divenuto allievo, e

quindi in analisi con un altro terapeuta, ha sviluppato nei

miei confronti un atteggiamento alquanto negativo, rivendi-

cando una sorta di risarcimento per i danni che ritiene di a-

ver subito e soprattutto per la sua incapacità a svolgere la

professione analitica. A poco serve che, chiamati in causa da

questa richiesta, si tenti di dimostrare che la possibilità di

svolgere la professione analitica è imprescindibilmente lega-

ta alla presenza di certe caratteristiche personali, all'essere

profondamente dentro di sé dei terapeuti, prima ancora di

diventarlo. Al contrario, una tale argomentazione suscita

spesso nell'allievo, che la crede un comodo alibi per gli erro-

ri dell'analista, una rabbia incontenibile sulla quale si infran-

ge inutilmente qualsiasi ulteriore ragionamento. Se più a-

vanti mi soffermerò sull'incidenza che ha l'Ombra dell'anali-

sta nel determinare tali situazioni, vorrei prima cercare di

analizzare i possibili elementi intrapsichici che spingono il

paziente verso un atteggiamento ostile e rivendicativo. Un'i-

potesi è naturalmente quella della presenza di un'invidia pro-

fonda e primaria, un'invidia sulla quale Melanie Klein ha

puntato la sua attenzione. Vissuto inconsciamente come la

fonte di una bontà e di una capacità creativa che non si pos-

sono eguagliare ed avere per sé, l'analista-seno buono è fatto

oggetto di attacchi distruttivi che tentano proprio di annien-

tare questa sua bontà e creatività.

Mi sembra perfettamente calzante l'analisi di Socaridess

nel descrivere questa situazione: “Capita molto spesso che si

instauri un'identificazione con una figura potente e creativa,

[corsivo mio] sebbene questa figura venga al contempo an-

che invidiata. La persona che ha le migliori possibilità di

essere scelta per diventare particolarmente persecutoria è

una figura superegoica sulla quale è stata proiettata una forte

carica di invidia, e che viene sperimentata inconsciamente

come un oggetto che ostacola i processi di pensiero del pa-

ziente e tutte le attività produttive nelle quali egli ,si impe-

gna, ed infine anche

di vivere”. Confronta

quale proietta tutte le

che concerne il nostr

sere analista, il pazie

di ogni caratteristica

meccanismo di identi

egli immetterà nell'im

ostili e persecutorie

struttivo che gli impe

tivamente nei confro

menti questi basilari

rienza ho potuto con

essere risarcito va di

stato deprivato e co

contaminato e danne

mento nella professi

analitica si accompag

non poter più amare

zo per il sesso oppost

il suo senso di benessere e la sua gioia

to con un altro reale - l’analista - sul

parti buone di sé e soprattutto, per ciò

o discorso, la potenziale capacità di es-

nte-allievo si ritrova cosi depauperato

positiva e creativa. Attraverso lo stesso

ficazione proiettiva

ago dell'analista anche le proprie parti

, quella sorta di sbarramento autodi-

disce di essere creativo e di porsi posi-

nti dell'esistenza e degli altri, atteggia-

dell'attività terapeutica. Nella mia espe-

statare che il desiderio del paziente di

pari passo con la sensazione di essere

n il ritenere che tale deprivazione ha

ggiato la sua intera esistenza. Il falli-

one e l'abbandono di qualsiasi velleità

nano anche alla dolorosa percezione di

e talvolta anche a un profondo disprez-

o dal quale egli pensa di essere soltanto

Albero Alchemico

7

strumentalizzato, cosi come sente che gli è accaduto nel

rapporto analitico. Sospendendo per il momento il giudizio

sulla reale rispondenza di tale percezione e fermandoci in-

vece alla sua realtà psichica, ancora una volta si può cogliere

una dinamica di proiezione della propria Ombra. Nell'incon-

scio di molti di questi pazienti si cela un incoercibile ed in-

confessabile desiderio di derubare il prossimo, un desiderio

talvolta inconsapevolmente agito che li spinge a depredare

psicologicamente le persone circostanti, sfruttando qualsiasi

situazione che essi pensano possa arrecare loro un vantag-

gio. Pensando soltanto a loro stessi, ai loro problemi, ai loro

bisogni e carenze, appaiono incapaci nei rapporti interperso-

nali di atteggiamenti chiarivi e di un vero interessamento e

di una cura nei confronti di chi sta loro vicino. A tale con-

statazione bisogna tuttavia accompagnare un esame altret-

tanto lucido de! rapporto terapeutico.

Possiamo supporre che all'interno del campo analitico si

sia talvolta creata, all'insaputa dei due partner, una col-

lusione tra le loro parti d'Ombra, per cui anche nell'analista,

sollecitato dalla proiezione del paziente, è stato attivato un

atteggiamento predatorio. E possibile che proprio il possede-

re all'interno della propria psiche una sorta di zona cieca co-

stituita da alcuni tratti d'Ombra renda in questi casi l'analista

incapace di vedere la problematica del paziente e di neutra-

lizzarla in tempo con un comportamento opportuno. Se una

certa avidità e bramosia ranno parte dei problemi irrisolti del

terapeuta, delle sue ferite aperte, delle parti di sé che meno

riesce a controllare, nonostante egli sia legato a un ruolo di

madre e nutrice generosa, ecco che più facilmente può scat-

tare una patologica complicità nel tentativo di divorarsi re-

ciprocamente con richieste sempre più elevate, richieste che

mettono costantemente alle prova le regole del setting. Nella

mia esperienza il presentarsi di questi episodi rivela alcuni

tratti comuni. In prima istanza il paziente si mostra molto

seduttivo, nel senso che offre all'analista una sensazione di

insostituibilità che lusinga enormemente spingendo a svi-

luppare quel tipo di dedizione e di apertura che già Jung a-

veva sperimentato agli inizi del secolo nel suo rapporto con

la Spielrein.

La dipendenza del paziente, agganciandosi a problemati-

che infantili dell'analista, può suggerire in quest'ultimo il

desiderio e l'inconscia speranza di una sorta di risarcimento

per un profondo senso di inutilità, di inadeguatezza che il

terapeuta si porta ancora dentro. Posto al centro della vita

del paziente, » egli sente lenta la profonda e primaria caren-

za d'amore e per quanti sforzi faccia per impedirne l'interfe-

renza non riesce ne a colmarla ne a controllarla del tutto.

a è proprio in virtù di

questa dedizione, di quest'offerta incondizionata di affetto,

di questo continuo riconoscimento dell'importanza e dell'in-

sostituibilità del terapeuta, che il paziente comincia a sentire

il bisogno di qualcosa che lo contraccambi adeguatamente.

Egli comincia a mettere alla prova l'analista avanzando pre-

tese anche minime ma che sostanzialmente implicano l'ini-

zio di una manipolazione, dell'orario, del setting analitico e

di tutte quelle norme poste a fondamento del trattamento a-

nalitico. Si potrebbe tradurre questa manipolazione sempli-

cemente nel fatto che il paziente sia compulsivamente co-

stretto a pensare che tutto gli sia dovuto. Tanto la disillusio-

ne rispetto a queste richieste, quanto il loro accoglimento

che innesca un tragico gioco al rialzo, culminando a volte in

trasgressioni ed agiti, si traduce in un senso di frustrazione

del paziente. Comunque tradirò nelle inconsce aspettative a

causa dell'impossibilità di soddisfare i suoi bisogni arcaici e

senza che essi siano stati analizzati ed elaborati, invece che

agiti, egli inizia a sviluppare la sua sindrome del risarcimen-

to. Richieste e rivendicazioni si iscrivono ovviamente in una

dinamica vittima-carnefice che entrambi i partner finiscono

in molti casi per mettere in atto, in special modo quando il

terapeuta non è più in grado di gestire il rapporto analitico.

Sentendosi vittima dell'insufficiente interesse del terapeuta,

come dei suoi atteggiamenti predatori, il paziente si erge a

giudice dell'analista, dei suoi comportamenti, dimenticando

la segreta simmetria con la propria dimensione psichica e

con i propri comportamenti. L'atteggiamento vendicativo,

nell'accezione di Socaridess, cela allora un inconscio bi-

sogno di sostituirsi alla legge morale del terapeuta per di-

ventare egli stesso la legge, il Super-io. In tal modo il pa-

ziente ribalta la situazione, trasformandosi da perseguitato e

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sfruttato a giudice implacabile, vero e proprio persecutore.

Ma la dimensione tragica del problema si presenta in tutta la

sua ampiezza quando il paziente scopre di non essere adde-

strato a diventare analista come porrebbe esserlo un artigia-

no orologiaio al termine del suo periodo di apprendistato. A

questo punto la fine dell'analisi coincide prima con l'impres-

sione di essere stati traditi e defraudati e poi con il crescere

di quel processo che ho definito sindrome del risarcimento.

Naturalmente non bisogna perdere di vista il problema

relativo all'inesistenza della professione analitica come è tra-

dizionalmente concepita e del doloroso impatto con questa

constatazione da parte degli allievi legati più alla lettera che

non allo spirito dell'insegna-

mento analitico, quegli allievi

che credono di dover essere

consacrati analisti esclu-

sivamente in virtù del training

da loro svolto. Sono questi colo-

ro che con più difficoltà posso-

no comprendere ed integrare

all'interno della loro storia per-

sonale e delle loro esperienze le

ombre dell'analisi e le insuffi-

cienze del training, colmandole

con la loro creatività e con un

vero processo di crescita psico-

logica. Quando, per citare un

esempio, Eri Berne, dopo un

training psicoanalitico appro-

priato, prima con Federn e poi

con Erik Erikson, non fu accet-

tato dall'Associazione Interna-

zionale di Psicoanalisi, non eb-

be la reazione tipica dell'allievo

privo di fantasia e in preda alla

sindrome del risarcimento, ma

superando la frustrazione e il

senso di tradimento certamente

provati, inventò un nuovo modo di fare terapia: l'analisi

transazionale. Se non è possibile pretendere da tutti un simi-

le comportamento, è però utile cercare di capire - come ho

cercato di fare finora - perché alcuni reagiscono alle difficol-

tà in un modo sostanzialmente positivo e creativo, mentre

altri sviluppano un atteggiamento ostile e negativo che li

spinge a terminare con astio la loro analisi. Quando ciò ac-

cade si tratta, come è facile capire, di avvenimenti alquanto

penosi sia per l'analista che per il suo ex-paziente. A rendere

ancora più difficile la situazione interviene poi la struttura-

zione stessa del training. E nel rituale di passaggio da un a-

nalista ad un altro che il tradizionale riserbo che comune-

mente circonda l'analisi viene infranto. Il particolare campo

analitico createsi tra quel paziente e quel terapeuta viene

mostrato e svelato ad occhi estranei, a un terzo che non es-

sendosi trovato all'interno di quel temenos può difficilmente

intuirne le sfumature e quindi comprendere a fondo tutte le

motivazioni alla base di ciascun comportamento. Di solito la

vendetta del paziente che scopre la sua incapacità di svol-

gere la professione prende il via proprio mentre è in terapia

con un altro analista diverso da quello con il quale ha ini-

ziato, e questa vendetta collude con le dimensioni scoprofile

del nuovo o dei nuovi analisti. Per quegli strani tiri mancini

del destino, le confessioni analitiche degli allievi diventano

il buco della serratura dal quale alcuni analisti spiano la vita

dei loro colleghi. In tal modo abitudini, caratteristiche psico-

logiche del primo analista, debolezze, limiti e la sua stessa

Ombra nella sua dolorante interezza, portare a conoscenza di

altri analisti, nel migrare

del paziente da un terapeu-

ta all'altro, vengono poste

sono i riflettori dell'as-

sociazione. Quel tanto di

vita privata dell'analista

che il paziente ha potuto

conoscere durante la sua

prima analisi cessa così di

essere un fatto soltanto

privato. Naturalmente que-

sta regola è valida per ogni

fase dell'analisi, per ogni

trattamento a cui il pazien-

te si sottopone durante il

suo training.

L'ultimo analista entrerà,

volente o nolente, nei

mondi privati dei suoi col-

leghi. È purtroppo un fatto

inevitabile che tutti coloro

che rimangono in un'asso-

ciazione analitica sono co-

stretti a sopportare. La ge-

neralità di questa situazio-

ne potrebbe apparire una

sorta di garanzia, dal momento che si sa sempre tutto di tutti.

Si dimentica però che queste conoscenze acquisite attraverso

le confessioni degli allievi spesso si mutano in un'arma che

alimenta le rivalità, le ostilità, i giochi di potere presenti

all'interno di tutte le associazioni analitiche.

orse un giorno, se qualcuno ne

avrà voglia, si porrà addirittura scrivere una storia della psi-

coanalisi facendo riferimento soltanto agli intrighi, agli in-

cesti, alle parentele sotterranee ed evidenti che vivono all'in-

terno delle comunità analitiche. Basterebbe pensare al suici-

dio di Tausk e a quello di Honegger. Ad aggravare la portata

di queste rivelazioni interviene poi il farro che molte di esse

vengono compiute sulla spinta di un atteggiamento psicolo-

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gico sostanzialmente negativo ed ostile, quando cioè l'allie-

vo è afferro dalla sindrome del risarcimento. E se la vendi-

catività del paziente, invece di essere contenuta ed analizza-

ta all'interno del nuovo setting nel tentativo di rispettare il

segreto di quel primo temenos, con le sue atmosfere e i suoi

accadimenti, insondabili a qualsiasi giudizio ad esso esterno,

collude con un'inconscia ostilità del nuovo analista nei con-

fronti del collega, si creano delle situazioni alquanto spiace-

voli e certamente poco analitiche. Al di fuori di quel vas

hermeticum con cui gli analisti junghiani, con una metafora

alchemica, indicano il setting analitico, luogo di misteriosa

trasformazione, tutto si banalizza e perde significato. Colui

il quale si presta alla rottura di questo vas mostra di non aver

compreso il senso della sua professione. Guardando sempli-

cemente alle apparenze, egli tradisce profondamente l'essere

analista, comportandosi in modo rozzo e meschino, vittima

della propria Ombra non meno di quell'analista di cui insie-

me al paziente si erge a giudice. Questo fermarsi alle evi-

denze, intessuto di luoghi comuni, di giudizi e opinioni mas-

sificati, nulla ha di psicologico. Per il volgo il sole gira in-

torno alla Terra perché il ratto è evidente, così come la mela

genera il verme perché così è. Ci si trova di fronte in questi

casi a delle presunte conoscenze che, per analogia con un

particolare genere musicale, la Pop Musica, possono essere

definire Pop Astronomy oppure Pop Biology. Nei paesi an-

glosassoni la Pop Music— contrazione di Popular Music —

indica la musica leggera, quella musica di diffusione di mas-

sa che, a differenza del Folk, non attinge le sue radici da una

cultura musicale etnica e quindi autentica espressione di un

popolo. E anche in Italia, del resto, con questo termine si è

voluto indicare una musica leggera di tipo tradizionale net-

tamente opposta alla ricerca originale dei cantautori. Adope-

rando la stessa metafora anche per coloro i quali credono di

conoscere la psiche umana guardando attraverso il buco del-

la serratura, potremmo definirli Pop Psychologists e Pop

Psychology la disciplina di cui sono maestri. Complici di

questi Pop Psychologists, che sembrano avidamente ricerca-

re un patrimonio di conoscenze costruito sulle indiscrezioni

dei loro allievi, questi ultimi nella loro ricerca di risarcimen-

to diventano delle vere e proprie mine vaganti. Mentre que-

sta mina vagante (l'allievo che cerca vendetta e risarcimen-

to) e il Pop Psychologist rompono il vaso ermetico e attin-

gono a pieni mani nei risultati della putrefactio, portando

all'esterno il conflitto e trascurando il fatto elementare che

tutto nasce da un'esperienza soggettiva degli eventi, il primo

analista, colui contro il quale si scaglia la mina vagante, ha

soltanto una possibilità di scelta, vale a dire il silenzio asso-

luto. Infatti il silenzio soltanto può proteggere quello che è

rimasto del vas hermeticum. Ogni parola, ogni ammicca-

mento significano tradire ulteriormente e inutilmente una

verità che trova il suo senso solo all'interno del campo anali-

tico in cui è stata generata. È nel silenzio che l'analista può

confrontarsi con la propria Ombra, con quell'Ombra che è

stata perennemente evocata all'interno del setting e che ora il

paziente cerca di comprendere non in un confronto con l'an-

tico partner, ma in un luogo ad essa estraneo e da cui non

può giungere adeguata comprensione.

Se tante sono le forme con cui l'Ombra si attiva all'interno

del trattamento analitico e se queste forme sono specifiche

di ogni singolo rapporto terapeutico, di certo le dinamiche

incestuose vi hanno un ruolo importante. Non si dimenti-

chino le accorate parole di Jung su questo argomento, quan-

do suggerisce che è proprio in questa dimensione incestuosa

che prendono vita i sentimenti mirati a tormentare l'anima,

sentimenti di cui bisognerebbe vergognarsi ma che si rico-

noscono poi essere anche i più santi. Essi “Configurano la

somma indescrivibile e inesplicabile dei rapporti umani e

attribuiscono loro una forza perentoria, coercitiva". Natu-

ralmente questa particolare fenomenologia della relazione

ha un senso e un contenuto solo nell'ambito di quel vas her-

meticum costituito dal rapporto analitico dal quale le sfuma-

ture dei fatti e delle parole non possono essere estrapolate.

La lettura che Jung fa dell'aspetto incestuoso del rapporto

analitico, usando le illustrazioni del Rosariùm philo-

sophorum, illustra l'archetipicità di questa situazione e anche

dell'Ombra che in essa si manifesta. Confrontato dolorosa-

mente con la sua Ombra attivata dal temenos analitico, il

terapeuta che è chiamato dalla sua interiorità e non solo da

consacrazioni esterne a svolgere la sua professione, sa rico-

noscerla ed ascoltarla, anche quando quest'ascolto sembra

giungere troppo tardi per riparare ai propri sbagli. Consape-

vole che quest'Ombra, in quanto parte ferita e dolente, è an-

che la sua alleata, colei che gli permette di capire e di par-

lare al cuore di altre persone, l'analista può usare la sua voce

e la sua consapevolezza per rivolgersi forse al cuore di quel-

le persone che, per un destino non del tutto chiaro, hanno

tradito, sotto l'urgenza delle apparenze, il rapporto Io-Tu,

quell'unico luogo deputato ad essere l'alveo naturale del con-

fronto e della spiegazione. Ed è tentando di parlare a queste

persone che mi sembra giusto cercare di capire cosa può si-

gnificare l'intrusione dell'Ombra dell'analista all'interno del

rapporto terapeutico.

L'analisi è sicuramente uno di quei campi dove gli errori

professionali incidono più profondamente sulla vita dell'al-

tro - in questo caso del paziente - scavandovi un terreno di

dolore difficile da superare e trasformare. Questi errori e-

quivalgono per la loro bruciante intensità ai tradimenti subiti

all'alba dell'esistenza, quando si è troppo piccoli per di-

fendersi, quando il totale affidamento nelle mani dell'altro e

l'inesperienza rendono privi di strumenti idonei alla reazio-

ne, spesso cristallizzandola nelle tante forme di disagio psi-

chico. Responsabile di cali errori è proprio quell'Ombra di

cui ciascuno è portatore e che diventa per l'analista - qualora

egli ne sia inconsapevole o, pur essendone cosciente, non

sappia controllarne l'interferenza - una spina dolorosa, una

ferita aperta che rischia di infettare anche il paziente. Molte

possono essere le forme nelle quali quest'Ombra si proietta

in modo inquietante nel rapporto analitico e molte sono le

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cause che ne determinano l'agire. Sicuramente una delle più

frequenti e temibili è l'irrelazione dell'analista con i propri

complessi, l'irrelazione con parti di sé che, irrompendo nella

relazione, si conquistano un'area di espressione. Se l'analisi

si svolge sul terreno degli affetti, il rapporto che ciascuno

dei due partner intrattiene con esse costituisce la sintassi del

loro linguaggio, del loro comunicare.

ccade così che la difficoltà che

l'analista prova nell'entrare in contatto e nell'esprimere la

propria realtà interna possa mutarsi non nell'incomprensione

dell'altro, ma nel suo uso, più o meno consapevole. Brillante

nell'intuire i più segreti movimenti dell'animo del paziente, e

quindi nel rispecchiarlo in una risonanza empatica, questo

analista sembra mancare per sé di tale specchio. Ed è da tale

carenza che nasce per il terapeuta canto il bisogno del pa-

ziente, quanto la sua manipolazione. Una segreta ragnatela

di seduzione avvolge i due partner, una ragnatela filata da

entrambi e non solo, come di consueto, dal paziente che nel

suo transfert ripete modelli infantili, desideroso di conqui-

stare quell'affetto che non ha avuto o ha ricevuto in modo

inadeguato durante l'infanzia. Al filo di questa seduzione

l'analista è incapace di opporre una lettura che la decodifichi

e, in un sentire empatico, riesca ad accogliere e contenere il

desiderio dell'altro, utilizzando la sua energia per la trasfor-

mazione del paziente. Al contrario egli risponde alla richie-

sta di amore e comprensione formulata dal paziente con la

propria domanda, con un chiedere per sé affetto, conteni-

mento, rispecchiamento.

Questo sottile e inquietante gioco al rialzo è marcata-

mente più visibile e destabilizzante quando paziente e ana-

lista sono di sesso diverso, in particolare quando l'analista è

un uomo e il paziente è una donna. Sedurre la paziente, otte-

nerne l'affetto - un affetto che sia rivolto non al ruolo che

egli riveste, ma all'individuo dolente che dietro tale ruolo si

cela - significa creare finalmente un ponte con emozioni

sconosciute, inesprimibili perché da sempre private di un

codice di comunicazione, significa creare un ponte con la

propria infanzia e le sue ferite, significa soprattutto chiedere

alla paziente proprio ciò per cui è venuta in terapia. La ca-

pacità di dare dell'analista, la sua attenzione, la sua com-

prensione, in tal caso non puntano soltanto a creare le condi-

zioni nelle quali la paziente possa curare le sue parti ferite,

possa crescere e crescendo emanciparsi dal quel rapporto

che le è stato necessario, ma è un dare inconsciamente mi-

rato, un dare nelle segreta speranza di ricevere, di essere cu-

rati dalla paziente.

In un illuminante passo di una lettera a Sabina Spiel-

rein, Jung scriveva: "In questo momento Lei dovrebbe ren-

dermi un po' di quell'amore, di quel debito, di quell'interesse

spassionato che ho potuto darLe al momento della Sua ma-

lattia. Ora sono io l'ammalato". Il segreto di ogni seduzione

analitica è racchiuso in questo bisogno, in quest'aspettativa,

in quest'eleggere la paziente a propria salvatrice, non meno e

non diversamente da quanto faccia la paziente nei confronti

dell'analista. Ma invece che salvare ed essere salvati, molto

spesso si finisce non solo per incrinare irrimediabilmente e

distruggere il rapporto analitico, ma anche per imprigionarsi

in una complementare dinamica di rivendicazioni, di richie-

ste, sempre più crudelmente eccessive, una dinamica cieca

nella quale nessuno dei due partner può più veramente aiu-

tare l'altro. Solo pagando di nuovo amaramente il prezzo

della solitudine, solo ritornando dolorosamente a se stessi e

alle proprie ferite, cercando in se stessi il potenziale di cura

è possibile elaborare l'accaduto e, se non riparare l'errore,

riuscire almeno ad utilizzarlo all'interno del proprio cam-

mino di crescita. È all'interno di questa prospettiva che l'ana-

lista, guardando il proprio operato, può cercare di spiegarlo

a se stesso e alla partner, tentando un contatto profondo con

le proprie ferite, contatto che riallacciando con la coscienza

il filo delle emozioni può offrire ad entrambi l'uscirà dal de-

dalo e la via per la trasformazione. Ciò che di questo rap-

porto, delle sue luci e delle sue tante ombre, viene ratto. di-

pende da entrambi i partner. Talvolta essi, assumendosi il

peso doloroso dell'esperienza, possono leggerla come un

momento importante della loro scoria personale, un mo-

mento che sia pure nell'errore e nella sofferenza è divenuto

l'humus di una difficile crescita. In altri casi invece rancori e

delusioni possono costruire un muro che impedisce di la-

sciarsi alle spalle il passato, dopo aver elaborato, per quanto

possibile, ciò che si è vissuto e appreso. Purtroppo non si

comprende che l'odio e il rancore non hanno mai guarito

nessuno.

Aldo Carotenuto

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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