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Storie di soldati di Mantova a cura di Costanza Bertolotti Storia di Giovanni Azzali (1894) Dati anagrafici: Nome e cognome: Giovanni Azzali Data di nascita: 11 maggio 1894 Luogo di nascita: Curtatone (Mantova) Luogo di residenza: Porto Mantovano (Mantova) Professione: chierico seminarista Statura: 1,67 m Capelli: castani e lisci Occhi: grigi Fondi di riferimento: Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg. 448, n. 2; Albo d’Oro degli Italiani Caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918, vol.11, Lombardia, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria, 1932 p. 39; lettere di Giovanni Azzali pubblicate in «Il cittadino», 9 luglio, 20 agosto, 3 ottobre 1915. Azzali Giovanni di Angelo e Maria Farina, nasce l’11 maggio 1894 a Curtatone. Alla visita di leva, tenutasi il 19 marzo 1914, viene mandato rivedibile per oligoemia. Qualche mese dopo, nel novembre, viene dichiarato abile di seconda categoria. 165

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Storie di soldati di Mantova a cura di Costanza Bertolotti

Storia di Giovanni Azzali (1894)

Dati anagrafici: Nome e cognome: Giovanni Azzali

Data di nascita: 11 maggio 1894

Luogo di nascita: Curtatone (Mantova)

Luogo di residenza: Porto Mantovano (Mantova)

Professione: chierico seminarista

Statura: 1,67 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: grigi Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg.

448, n. 2; Albo d’Oro degli Italiani Caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918,

vol.11, Lombardia, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria, 1932 p. 39;

lettere di Giovanni Azzali pubblicate in «Il cittadino», 9 luglio, 20 agosto, 3

ottobre 1915.

Azzali Giovanni di Angelo e Maria Farina, nasce l’11 maggio 1894 a Curtatone.

Alla visita di leva, tenutasi il 19 marzo 1914, viene mandato rivedibile per

oligoemia. Qualche mese dopo, nel novembre, viene dichiarato abile di seconda

categoria.

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In una lettera del 29 giugno 1915 indirizzata a don Celestino Battaglia di

Cittadella, egli esordisce rassicurando il parroco della propria salute: «Nulla

di male mi accadde nemmeno quando il dovere mi spinse alla pugna e ad

espormi al fuoco nemico. Io, dopo aver passato un momento di agitazione

non ebbi più paura. Su, coraggio, gridai ai compagni vicini, Dio sempre ci

accompagna».

Egli stesso si dice stupito della propria forza d’animo: «Ma come tanto

coraggio in me? Io sono piuttosto timido, un’arma da fuoco mi rabbrividisce,

eppure lo comprendo. Dio, al quale mi ero consacrato interamente mi ha dato

la forza, mi ha accompagnato sempre, mi ha salvato la vita. Qui si comprende

ciò che è l’uomo: un nulla. Dio solo è il signore di tutte le cose […]. Ridano gli

altri finché vogliono. Poveri infelici! Io ne vidi di questi esseri che vogliono

schernirsi da Dio, qui sotto il fuoco, dinnanzi alla morte imporsi ai compagni

e gridare: Guai a chi bestemmia, qui non si scherza!».

Queste righe attestano un fenomeno, che anche altri giovani di cui sono qui

raccolte le biografie ebbero a constatare e sui cui avremo modo di ritornare:

il risveglio spirituale che aveva portato molti soldati, allontanatisi dalla

religioni o ad essa indifferenti, a riaccostarsi alla fede in Dio.

Il mese successivo Azzali scrive al proprio compagno seminarista Giuseppe

Bergamini di Castelgoffredo:

Mio Giuseppino,

ora che tace il cannone e non odo più il crepitio della fucileria mi trovo più

calmo e contento. Ti mando quatto scarabocchi giacché tutti vogliono mie

notizie e il tempo per me è limitato assai; infatti quando il sole scompare e

l’oscurità si distende nella valle, bisogna dormire e non accendere lumi perché

si sarebbe visti e allora: sentiresti come fischiano le palle.

Tu credi che sia a riposo in un paese abitato, bello, con Chiesa, sacerdoti, ecc. e

invece… se vedessi ove sono io! Non c’è nessuno: solo la bellezza della natura, il

rumorio incessante dell’acqua che scende limpida e scintillante dalle rocce,

sollevano il mio spirito come una preghiera.

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Quello del conforto che viene ai soldati dalla contemplazione della natura è

un altro tema che ricorre spesso negli scritti dei soldati. Questi ultimi si

soffermano spesso nei loro scritti anche sull’esperienza della prossimità con

la morte e dell’impossibilità di soccorrere i caduti o di rendere ai morti i

dovuti onori: «se vedessi – scrive Azzali – come ti fa compassione chi ti

muore ai piedi senza che tu gli possa portare un aiuto, anzi forse sei costretto

a calpestarlo per passare avanti. Un giorno all’assalto di una trincea uno che

strisciava al mio fianco per non farsi vedere veniva trapassato al petto da una

palla. Io lo guardai, credevo fosse ferito perché gli uscivano rantoli angosciosi

e proseguii… Più tardi, quando la trincea era nelle nostre mani, io mi

rammentai del soldato caduto, rifeci il cammino sotto una pioggia torrenziale

e tra un pantano insanguinato e lo scossi, lo chiamai più volte, cercai di

sollevarlo, ma il poverino era cadavere…».

Egli informa quindi l’amico della Messa che viene celebrata «ogni mattina

sotto i rami di un albero gigantesco, in mezzo a un tappeto verde, scintillante

di migliaia i goccioline di rugiada che rifrangono i primi raggi del sole

nascente. […] Mai come ora – egli aggiunge – sentii la bellezza della nostra

Fede che qui sul campo di battaglia è la sola mia forza».

Il 23 settembre 1915 Azzali scrive a don Enrico Buzzacchi di Bonizzo,

scusandosi di non aver scritto prima, ma «qui – egli si giustifica – non si è

sicuri di stare in pace due ore». Infatti, egli prosegue:

un bel giorno venne un ordine, zaino in spalla e via… per dove? Per la trincea.

Per fortuna che ormai ci sono abituato e perciò non ho provato grande

impressione. Dunque di nuovo al fuoco, ma sempre allegri sao, perché insomma

io sono fatto così. Tolto quel breve tempo quando balza alla mente il tetto

nativo, le lagrime d’una madre troppo tenera, i sospiri del padre mio, un

avvenire che splende bello perché desiderato dopo lunghi anni di stenti e dopo

tante prove, allora sì sento quanto sia pesante la croce che Gesù mi pose sulle

spalle ma poi…oh, mio caro, anche il Calvario, la croce ha le sue attrattive e io

soffro volentieri perché forse il cielo è lì vicino, vicino assai… Ma tu lo sai qual è

il mio scudo… Come si combatte e si muore volentieri con una visione bella,

paradisiaca davanti agli occhi.

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Egli conclude facendo le sue congratulazioni ai compagni di Seminario, che

erano stati appena ordinati sacerdoti, e aggiunge: «Eh quella stola la sogno…

ma anch’io arriverò a portarla come te; me lo dice il mio cuore e la mia

fiducia nell’Immacolata».

Ad Azzali non sarà dato di realizzare la propria vocazione sacerdotale. Il 28

agosto 1917 (egli prestava allora servizio come aspirante ufficiale nel 254°

reggimento fanteria) cadrà in combattimento, sull’Altopiano della Bainsizza.

Il suo corpo non fu mai ritrovato.

Storia di Giulio Azzolini (1890)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Azzolini Giulio

Data di nascita: 6 settembre 1890

Luogo di nascita: Viadana (Mantova)

Luogo di residenza: Viadana (Mantova)

Professione: negoziante

Statura: 1,72 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: grigi

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

418/225; Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli

militari, matricola 1811; lettere di Mario Bertoni pubblicate ne «Il cittadino»,

31 luglio, 11 settembre, 17 settembre, 17 novembre 1915.

Giulio Azzolini, di Vittorio e Ernesta Avosani, nasce a Viadana il 6 settembre

1890. Alla visita di leva, effettuata il 26 aprile 1910, è dichiarato abile e

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arruolato di prima categoria. Il 30 ottobre 1910 è chiamato alle armi e

arruolato nel 5° Reggimento Fanteria. Richiamato alle armi in seguito alla

scoppio della guerra, il 4 novembre 1916 si trova presso il Deposito Fanteria

Parma Nord-Est.

Egli si trovava peraltro al fronte sin dall’estate del 1915, in località che non è

stato possibile precisare. Il 20 luglio di quell’anno egli invia infatti una lettera

al prevosto di Buzzoletto, scusandosi per non aver dato proprie notizie prima

di allora: «creda pure – si giustifica – ce qui del tempo libero ce n’è ben poco;

e non appena viene concesso, si sente più di ogni altra cosa il bisogno di

riposare, per l’incessante fatica». Dalla lettera si apprende che egli si trovava

in prima linea: «c’è da stare avanti all’aperta molti giorni e notti, essendo

sempre in pericolo – egli scrive – ; che la trincea è il nostro alloggio». Azzolini

chiede quindi al prevosto di rassicurare i propri cari al paese,

raccomandandosi in particolare «di non credere alle chiacchiere che possono

uscire sul conto dell’uno o dell’altro reggimento, che il più delle volte non

sono vere. Per esempio io so che di un reggimento si diceva che era decimato,

invece io posso assicurare che la notizia è priva di fondamento».

In una lettera del 28 agosto 1915 è lui stesso a rassicurare i genitori, che gli

avevano indirizzato una lettera dalla quale trapelava «una grande

inquietudine»: «non vi dovete lasciare vincere da certi tristi presentimenti

che alle volte assalgono, ma abbiate sempre fiducia che la fortuna mi segua,

come la fece fin qui. Forse fu la lettera di P. che vi turbò, come anche quella di

M.? Eppure vi dissi che non è vero niente, sono pure esagerazioni. […] Io non

mi so spiegare con qual gusto certuni mandano a dire simili sciocchezze.

Credete pure solo a ciò che vi dico io – egli ammoniva i genitori – che è la

pura verità e non vi tengo celato nulla».

Queste notazioni di Azzolini sulle false notizie che circolavano a proposito

dell’andamento della guerra sono assai significative. Com’è noto, su questo

fenomeno appuntò l’attenzione il grande storico Marc Bloch nelle sue

Riflessioni sulle false notizie della guerra (1921). La circolazione di false

notizie, che egli stesso aveva potuto constatare, partecipando al conflitto

come sergente di fanteria, è da Bloch interpretata come un sintomo del

«rinnovarsi prodigioso della tradizione orale, madre antica delle leggende e

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dei miti», che creò un ambiente favorevole alla fabbricazione e diffusione

delle «false notizie» che hanno circolato nelle trincee. Bloch ne svela i

percorsi, individuando nei grandi stati d’animo collettivi il sostrato che

consente ai pregiudizi di trasformare una cattiva percezione in leggenda.

Tornando ad Azzolini, egli prosegue la lettera narrando ai genitori quanto era

accaduto la notte precedente. Svegliati nel cuore della notte, la compagnia era

partita per ignota destinazione. Dopo due ore circa di cammino, giunse ai

piedi di un monte occupato dai tedeschi e «con movimento rapido» lo

accerchiò. Poi cominciò l’ascesa silenziosa «fin sotto le trincee nemiche; i

soldati si arrestarono «a pochi metri dalla linea degli avamposti». Nel

frattempo «con una cautela e un sangue freddo incredibili» alcune pattuglie,

che precedevano le truppe, erano riuscite a catturare i «piccoli posti

tedeschi», senza sparare un colpo, in modo tale che i nemici che stavano al di

sopra non si accorsero di nulla. Alcuni fuggirono lasciando le armi per

correre ad avvertire i propri compagni, ma furono attaccati dai fanti italiani,

appostati tra i cespugli. «Fra i diversi prigionieri fatti – racconta Azzolini – mi

capitò fra le mani uno stretto parente dei F. di Viadana, il quale tremava come

una foglia, temendo della vita […] Se vorrete dirlo ai F., credo che sarà bene

dicendo loro che è sano e salvo».

Il 29 agosto 1915, in una lettera indirizzata alla moglie Ernestina, così

esordisce: «Cara Ernestina, ti scrissi ancora giorni addietro, ma non so se ti

sia giunta, e ora ho trovato per combinazione un po’ di tempo libero e mi

diverto a scrivere, essendo questo il mio unico divertimento». Riemerge qui,

come in altre testimonianze prese in esame, il tema del ruolo

importantissimo che la scrittura di diari e di lettere rivestiva per i soldati: per

alcuni, come per Giulio Azzolini, essa costituiva uno dei pochi momenti di

svago, per altri un’occasione di meditazione e intimo raccoglimento da cui

era dato trarre consolazione e conforto.

Nella lettera alla moglie torna quindi a parlare del prigioniero parente dei F.

di Viadana, che Azzolini e un amico erano andati a trovare per confortarlo,

poiché sapevano che era molto impaurito. Queste notazioni sono assai

significative, perché attestano che i sentimenti dei soldati italiani nei

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confronti dei nemici non erano solo di odio o al ostilità, ma erano spesso

anche di vicinanza, comprensione e compassione.

Rievocando nuovamente l’episodio dell’accerchiamento del monte P., egli

descrive poi alla la natura dei fatti d’arme a cui egli aveva partecipato: «Qui la

guerra non è come sugli altri fronti; di stragi, ma è una guerra di tranelli, di

appostamenti, insomma è fantastica e romantica». Ciò lo porta a riflettere

sulla mutazione, si direbbe antropologica, che la vita a stretto contatto con la

natura, in luoghi solitari e impervi, costantemente esposti al pericolo, aveva

determinato nei i soldati: «Noi qui siamo già cambiati in modo incredibile.

Sembriamo tanti indiani già abituati a vivere nei boschi e non ci par vero che

ci debba essere ancora una vita tranquilla nei paesi e nella società. Se tu ci

vedessi di giorno su e giù per queste cime infinite, per viottoli non mai

praticati che dai camosci e lupi, sempre cogli occhi fuori dall’orbita, temendo

di un agguato, di un tradimento! […] Non esistono più comandi, si va avanti

coi soli cenni e non si sbaglia: si ha l’attività di una bestia ammaestrata».

L’analogia con gli animali o con i «selvaggi» viene ripresa nelle righe

successive: Azzolini dice che nottetempo «si striscia come serpi fra gli abeti

colle orecchie irte al minimo scuoter di frasche o di cespugli e colla sagacità

di una tribù di Pelle Rossa quando dà la caccia ai binachi». «È una guerra

fantastica davvero – egli conclude – romantica nel modo più strategico e

specialmente è la nostra vita che ha del brigantesco».

Il 4 novembre Azzolini narra ai famigliari una battaglia a cui aveva

partecipato: «durante una lotta così accanita si perdono i sentimenti. Si

vedono compagni che cadono da tutte le parti feriti o fulminati, i gemiti dei

moribondi, il fragor delle armi. E vi dirò che in un momento di a terra durato

circa un’ora, senza sparare mentre fischiavano le pallottole, granate, bombe

da ogni lato (cosa incredibile ma pur vera) io mi son addormentato). […] Io

credo che sia stato l’effetto dello sbalordimento o della stanchezza». Emerge

anche da questa lettera la passione per la narrazione che anima Azzolini. È lui

stesso del resto a osservare: «volendo narrare minutamente ogni cosa si

potrebbe fare un romanzo; ma invece – egli aggiunge – vi racconterò

esattamente ogni cosa a bocca se avrò la fortuna di tornare».

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Egli sarebbe tornato sano e salvo dai campi di battaglia, ma non prima di

altri quattro anni trascorsi sotto le armi.

Il 26 marzo 1917 è dichiarato disertore per essersi allontanato dal corpo la

sera del 25 marzo 1917. Denunciato al tribunale militare di Piacenza, viene

arrestato e incarcerato. Non sappiamo se fu condannato e quale l’entità della

pena; il procedimento giudiziario fu probabilmente sospeso. Nel 1934 egli

verrà infatti dichiarato esente da pena perché rientrato spontaneamente al

corpo nei termini stabiliti dal D.L. 10 dicembre 1917.

Il 19 aprile 1917 è incorporato al 48° Reggimento Fanteria e inviato al fronte.

Tra il luglio e il novembre 1917 egli passerà dal 62° Reggimento Fanteria al

248°, quindi al 150° e successivamente al 31°. Il 2 febbraio 1918 è

incorporato al 1° reparto mitraglieri e il 12 maggio nella 2102a compagnia

mitraglieri. Il 19 agosto 1919 viene infine inviato in congedo illimitato.

Storia di Alfredo Barbieri (1893)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Alfredo Barbieri

Data di nascita: 11 gennaio 1893

Luogo di nascita: Viadana (Mantova)

Luogo di residenza: Viadana (Mantova)

Professione: studente

Statura: 1,66 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: grigi

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg.

444/18; lettere di Alfredo Barbieri pubblicate ne «Il cittadino», 15 luglio, 19

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settembre, 28 ottobre 1915; Archivio storico diocesano di Mantova, Indice

dei sacerdoti 1868, vol. I A-L.

Alfredo Antonio Barbieri di Angelo e Luigia Savazzi nasce a Viadana l’11

gennaio 1893. Alla visita di leva, effettuata l’8 maggio 1893, viene dichiarato

rivedibile di prima categoria per debolezza di costituzione. Successivamente

è arruolato soldato di prima categoria con la classe 1899.

Non è stato possibile reperire ulteriori notizie sulla carriera militare di

Alfredo Barbieri, ma di lui ci restano tre lettera inviate dal fronte e pubblicate

sul giornale cattolico «Il cittadino» di Mantova il 15 luglio, il 19 settembre e il

28 ottobre 1915. Da esse apprendiamo anzitutto che, quando fu chiamato alle

armi, Barbieri studiava presso il seminario vescovile di Mantova e serviva

come chierico nella parrocchia di San Matteo delle Chiaviche (Mantova).

Dalla lettera del 15 luglio 1915, indirizzata al prevosto don Chinali di San

Matteo delle Chiaviche, apprendiamo che Barbieri era partito da Piacenza il

21 maggio alla volta di Udine, da dove, dopo «varie tappe brevi e lunghe» era

giunto alle «antiche frontiere». Qui si fermò venti giorni, durante i quali ebbe

modo di terminare la lettura del trattato De Iustitia et Iure. «Ora – scrive il 15

luglio – sono tre settimane che mi trovo in vera guerra: le sezioni di sanità si

fermano a poca distanza dalla linea del fuoco. Ho avuto una settimana

terribile»: par dunque di capire che Barbieri – come già Ulderico Fulghieri,

anch’egli chierico teologo del Seminario – prestasse servizio nei corpi

sanitari. «Ora – egli prosegue – mi trovo da tre giorni in un bel paesello

italiano che dista tre ore di automobile da Cividale. Si rivede un po’ di

formaggio, di vino, salame, cioccolatte, ecc. Qui possiamo fare i bagni nel

fiume vicino e lavarvi la biancheria: ci sembra di rivivere. Il soldato in guerra

che arriva in questi paesi prova delle consolazioni che nessuno può

immaginare. Abbiamo una tenda circondata e coperta di rami frondosi

tagliati nel bosco e sul davanti abbiamo piantato, o meglio improvvisato un

tavolino per mangiare e scrivere. Questi paraggi sono totalmente messi a

frutta, ma essendo ancora acerbe, per ora scaviamo patate e le cuociamo

nelle nostre gavette». Egli informa inoltre don Chinali che al seguito della

compagnia vi era un cappellano militare, ciò che consentiva ai soldati di

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«udire la S. Messa ogni mattina». La messa veniva celebrata nella cappella del

cimitero, perché – egli precisa – «la bella chiesetta è cangiata in infermeria».

Il 19 settembre 1915, come apprendiamo da una lettera da lui indirizzata a

un compagno, Barbieri ha lasciato il campo e si trova da un mese in alta

quota: infatti, «non potendo sostenere la fatica di porta feriti, ho avuto un

impiego che mi tiene sempre sul monte». Egli non specifica quali mansioni gli

erano state affidate ma descrive il lavoro dei reparti di sanità, incaricati di

portare i feriti dai campi di battaglia al campo, posto a valle, scendendo per

sentieri sassosi a strapiombo sui burroni. Talvolta, prima di scendere,

toccava loro salire più in alto «fino alle trincee di prima linea»,

arrampicandosi sulle rocce nel fuoco nemico. Poi Barbieri prosegue nella

descrizione delle gioie e dei dolori della «vita da alpino» che egli andava

conducendo:

«nostri amici sono le aquile e i corvi, che oramai accorrono alle esalazioni dei

cadaveri umani sparsi in alto sul monte. Spesso siamo avvolti da fitte nubi e

in un solo giorno proviamo tutte e quattro le stagioni dell’anno. è un grave

disagio quando piove o nevica perché allora non valgono a ripararci neppure

le tende, piantate su piazzette scavate nel sasso. Del resto siamo abbastanza

coperti con abiti invernali.

Quando non ci sono feriti e tace il cannone, passiamo il tempo contemplando

questo panorama, sempre nuovo: monti d’ogni specie, delle colline che si

confondono con la valle verdeggiante, dove scorre il torbido Isonzo, fino alle

vette sublimi coperte di neve: in fondo la penisola d’Istria, l’Adriatico col

golfo di Venezia e le foci del Po e poi la vasta distesa della pianura veneto-

lombarda. È una bellezza di giorno e una è pace infinita nelle notti illuminate

dalla luna. Ma non durano troppo queste contemplazioni perché il cannone

nemico vien spesso a turbarci e anche adesso che ti scrivo i proiettili passano

spaventosamente nell’aria. Per quanto pensi che sono al sicuro non posso

impedire il tremito che mi assale».

Anch’egli, come Fulghieri, sottolinea che la fede in Dio «infonde coraggio e

consolazione in questi estremi pericoli» e osserva che le circostanze della

guerra avevano alimentato in molti soldati un rinnovato fervore religioso:

«molti di questi giovani spavaldi – nota Barbieri – ora che sono in pericolo

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non hanno alcuna difficoltà a rispondere al Rosario e venire ad udire a S.

Messa».

Circa un mese dopo, in data 11 ottobre 1915, egli scrive alla propria zia

informandola che, dopo quindici giorni trascorsi in montagna, quella mattina

era disceso al paese: «non per vantarmi, ma vi assicuro che sono divenuto un

alpino in piena regola. Col mio alpenstock facevo la strada a salti, passando

per burroni, valicando cime, attraversando boschi e sbucando di tra le piante

come l’uomo del bosco […]. Che paesaggio e che splendide viste a ogni

istante! La bella stagione ci porta vigoria e contentezza, infondendoci forza e

coraggio nei nostri doveri». Come già nella lettera precedente afferma che il

suo «più gran conforto e sostegno nelle fatiche inerenti a questa vita di

guerra» è il poter assistere alle funzioni religiose: «Oltre alla S. Messa

abbiamo ogni sera la recita del S. Rosario con la benedizione di quel Povero

Gesù Sacramentato, che si umilia a rimanere sempre rinchiuso in quella

cassetta da campo senza nessun indizio della sua presenza». Egli fa infine

cenno alla zia del ritardo che la guerra aveva imposto alla realizzazione della

propria vocazione religiosa: «Io vivo – egli aggiunge – col corpo in questi

luoghi di guerra, ma con l’anima e col pensiero fra i miei cari e in Seminario».

Alla conclusione del conflitto, Barbieri poté riprendere gli studi in Seminario

e infine coronare la propria vocazione. Il 20 maggio 1920 fu ordinato

sacerdote. Il suo primo incarico fu di coadiutore nella parrocchia di Sermide.

Nel 1934 fu nominato parroco della parrocchia di Portiolo, ove sarebbe

rimasto sino alla morte, avvenuta il 1 ottobre 1955.

Storia di Arnaldo Berni (1894)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Arnaldo Berni

Data di nascita: 2 giugno 1894

Luogo di nascita: Mantova

Luogo di residenza: Mantova

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Professione: studente

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Diari di Arnaldo Berni e lettere da lui inviate alla famiglia durante la guerra.

La documentazione è conservata dal nipote Arnaldo Piccinini, residente a

Milano. Cfr. Il capitano sepolto nei ghiacci. Vicende della guerra 1915-18 sui

monti tra Stelvio e Gavia, a cura di Giuseppe Magrin, Bormio, Alpinia Editrice,

2001.

Arnaldo Berni nasce a Mantova il 2 giugno 1894 da Archinto e Lucia Menozzi.

Il padre era professore e personalità nota nell’ambiente intellettuale della

città. Poiché la madre morì quando Arnaldo era ancora in fasce, egli fu

cresciuto dalla nuova compagna di Archinto, Bice Catalani. Nel 1912 Arnaldo

consegue il diploma di ragioniere presso il Regio Istituto Tecnico di Mantova.

Grazie a una borsa di studio dell’Istituto Franchetti, poté frequentare la

Scuola Superiore di Commercio di Genova. Nella primavera del 1915, quando

è ormai prossimo all’esame di laurea, è chiamato alle armi e destinato alla

Scuola militare di Modena. Dopo pochi giorni si dice già stanco della vita

militare: «troppo lavoro, troppa disciplina», una «porca vitaccia d’inferno», a

cui però finisce poi per abituarsi.

Nell’ottobre 1915, conseguito il grado di Sottotenente, viene assegnato alla

46a compagnia alpini del battaglione “Tirano” del 5° Reggimento, che si

trovava sul Filon del Mot presso lo Stelvio. Durante l’inverno trascorso sul

Filon, Arnaldo scrive alla famiglia quasi quotidianamente, descrivendo la vita

in alta quota, dove «un vero paese [è stato] scavato e costruito nella roccia,

con le comodità che si possono avere». In un’altra lettera Aldo descrive il

campo come «un castello con le dipendenze sopra una rocca». A causa del

rigore del clima, le operazioni militari si riducono a ispezioni, perlustrazioni e

piccole scaramucce con gli austriaci. I soldati trascorrono molto tempo

rinchiusi nei rifugi a dormire, mangiare, cantare, giocare a carte. Regna tra gli

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ufficiali un’atmosfera di tipo goliardico. Aldo e altri ufficiali catturano un

corvo e lo addomesticano. Ricorre nelle lettere di Berni l’ammirazione

stupefatta per i paesaggi montani: «Ieri notte ho assistito al magnifico

spettacolo di una notte serena e lunare sui ghiacciai. Meritava di essere alla

guerra solo per vedere questo!», scrive il 17 ottobre. Ma anche i bei panorami

finiscono per venirgli a noia: «Per quanto la montagna sia bella ed

imponente, a lungo andare la stufa, specialmente quassù, dove non ci si può

muovere a proprio agio. […] Qui non fai altro che camminare avanti e indietro

per scaldarti i piedi».

Aldo trascorre a Mantova le feste natalizie e rientra al campo il 7 gennaio. Nei

primi mesi del 1917 si susseguono le valanghe, in cui perdono la vita decine e

decine di alpini. È il primo contatto di Berni con la morte ed egli ne è molto

scosso: «Pace all’anima loro e speriamo che queste disgrazie non abbiano più

a rinnovarsi. Intanto imparo a fare il becchino e il fabbricante di casse da

morto», scrive alla fine di febbraio.

Nel marzo 1916 passa alla 43 a compagnia del battaglione “Aosta”, restando

sempre stanziato sul Filon del Mot. Il 14 aprile 1916 prende parte

all’operazione che porta alla conquista dello Scorluzzo (2937 metri),

meritandosi due encomi solenni. Così rievoca la battaglia in una lettera del 17

aprile: «La sera del 14 ho provato proprio che cosa sia una battaglia con forze

considerevoli impegnate. Si avanza sotto un grandinare di pallottole e tra un

frastuono di cannonate veramente impressionante. Io non so ancora come sia

sano e salvo. […] Abbiamo avuto numerosi casi di congelamento […]. Io ho

fatto il possibile per migliorare la situazione per i miei uomini, facendo

costruire di notte e sotto la tormenta un ricoverino nella neve onde poterci

riparare un po’ ed alleviare le sofferenze». E aggiunge: «Il solo pensiero di

compiere un alto dovere per il bene della patria, il pensiero di farmi forte per

infondere tranquillità e sicurezza a’ miei soldati, mi fa sopportare, direi quasi

con gioia, ogni sacrificio!».

Il 18 giugno Berni è incaricato di spostarsi dal Filon del Mot al vicino passo

dell’Ables e da qui di salire e presidiare il Monte Cristallo (3500 metri), che

da pochi giorni è stato strappato agli austriaci. In una lettera Berni descrive la

propria ascensione al Cristallo: «una vera ascensione quale non ho mai fatto

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[…]. Mi sono arrampicato con corde fino a quasi 3500 metri, sempre su pareti

rocciose o di ghiaccio a picco sul versante della valle Zebrù». Sul Cristallo egli

trascorre la seconda metà del 1916 e il 1917, alternando periodi trascorsi in

vetta – con temperature che oscillavano tra il 20 e i 30 gradi sotto zero – ad

altri trascorsi sull’Ablès, a brevi periodi di riposo a Bormio. L’8 aprile, di

ritorno da un turno in vetta scrive ai famigliari: «su sei giorni ne o avuti

cinque di tormenta e sono stato sempre costretto a rimanere chiuso in

gallerie di ghiaccio. Coi patatucchi [gli austriaci] siamo andati abbastanza

d’accordo. Ora ci siamo avvicinati ancora di più: saremo a sessanta metri. Vi

garantisco io che le pallottole più pietose passano al massimo ad un metro

dalle orecchie e le altre rimbalzano tutte negli scudi d’acciaio da cui siamo

validamente protetti. Dunque niente paura. Quel poco di imprudenza che

avevo una volta, ho creduto metterla da parte per ora». I nemici li descrive

come «bestie, sporchi, tra il passamontagna, i capelli lunghi, la barba incolta e

la sporcizia, non si può capire – conclude – se siano uomini o scimmie». La

stanchezza ha ormai preso il sopravvento. Il 23 aprile, appresa la notizia della

chiamata della classe 1899, a cui apparteneva il fratello, commenta: «Così

anche Arturo ha finita la sua borghesia. Lui sarà contento, ma se ne accorgerà

quanto prima».

Nel novembre 1917 è promosso capitano: da una parte si rallegra perché

sollevato dai servizi più gravosi, dall’altra osserva che per quanto «la vita da

subalterno fosse più disagiata e faticosa», la preferisce «a quella attuale di

comandante, sul quale pesano troppe responsabilità!». Trascorre il Natale

1917 lontano da casa: «Io ardo dal desiderio di rivedervi e riabbracciarvi –

scrive ai genitori e alla sorella – . Quando torneranno i giorni lieti? […] Quante

volte penso a voi, miei cari, quante volte penso che si potrebbe essere uniti e

contenti…».

Il 9 gennaio 1918 assume il comando della 307a compagnia del Battaglione

Skiatori “Monte Ortler”, di nuova costituzione. Tra in 20 gennaio e il 10

febbraio trascorre alcuni giorni a Mantova in licenza.

L’11 maggio Berni scende con il suo reparto a Santa Caterina Valfurva: «Ho

lasciato i ghiacciai sui quali ho passato quasi due anni consecutivi, per venire

a trovare un po’ di verde… Si sente subito il beneficio del riposo, sotto tutti gli

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aspetti», così scrive il 12 maggio. Il 10 luglio egli si trova al Rifugio del Gavia e

comanda la linea che va dal Tresero al Corno dei Tre Signori. Le lettere

inviate ai famigliari in questo intenso periodo preparatorio che precedette

l’offensiva del San Matteo sono brevi e interlocutorie. «Se sapeste come sono

occupato. Né di giorno né di notte ho un momento di quiete. Ci prepariamo

febbrilmente!», scrive il 29 luglio. Nell’agosto riparte con l’intero battaglione,

per andare a occupare il San Matteo (3678 metri), nel Gruppo meridionale

dell’Ortles. Alla vigilia dell’azione, prevista per il 13 agosto, raccomanda ai

famigliari di non impensierirsi se nei giorni successivi non avessero ricevuto

sue notizie. Dopo un lungo bombardamento di preparazione, cinque colonne

di alpini iniziarono la scalata ai sue monti e riuscirono a occuparli. Ad azione

conclusa comunica a casa che «tutto è andato bene».

Alla compagnia di Berni è ora affidato l’incarico di presidiare la vetta del San

Matteo , presidiando trincee ricavate nei ghiacciai. Il 31 agosto 1918 scrive

l’ultima lettera alla famiglia. Oltre ai «disagi imposti dalla natura, c’è il

continuo tormento da parte del nemico», che cerca di costringere gli alpini

italiani ad abbandonare la posizione. Aldo descrive lo stupendo panorama di

cui si gode da quell’altezza: «è una ridda fantastica di cime nevose, di

ghiacciai, di vette rocciose, di vallate verdi popolate di ameni paeselli». Infine

da voce al proprio stato d’animo: «Dai primi di questo mese ho lavorato e

faticato molto, ho dato gran parte delle mie energie e, in molti momenti, era

solo il mio entusiasmo (che non è mai venuto meno) e lo spirito di compiere

tutto il mio dovere che mi hanno sorretto. Non importa se tutto quello che ho

fatto, se tutto quanto ho sofferto non è stato o non sarà riconosciuto. Io sono

egualmente contento. Fra poco avrò la Croce di Guerra. Magra ricompensa

invero! Pari a quella che hanno coloro che, stando a qualche comando, hanno

fatto talvolta qualche capatina dietro la prima linea! Pazienza. Quando verrò

a casa, avrò tante cose da dire e mi sfogherò…». Ma il capitano Berni non

avrebbe più fatto ritorno a casa.

Il 3 settembre 1917 gli austriaci si lanciano al contrattacco e infine riescono a

recuperare le posizioni perdute. Nel corso della battaglia, un violento colpo

dell’artiglieria nemica colpisce la caverna di ghiaccio entro la quale si è

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riparato Berni, che vi rimane sepolto. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e

giace ancora inviolato a 3700 metri di altitudine.

Storia di Giusto Bertazzoni (1893)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Giusto Bertazzoni

Data di nascita: 26 febbraio 1893

Luogo di nascita: Mantova

Luogo di residenza: Mantova

Professione: calzolaio

Statura: 1,64 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

441/27; lettera di Giusto Bertazzoni pubblicata ne «Il cittadino», 16 ottobre

1915.

Giusto Bertazzoni, fu Francesco e Caterina Vecchia nasce a Mantova il 26

febbraio 1893. Alla visita di leva effettuata il 17 marzo 1915 egli viene

dichiarato abile e arruolato di prima categoria.

Di lui non ci restano altre notizie, all’infuori di una lettera inviata ai genitori

nell’ottobre 1915. Dalla lettera si desume che egli era soldato di fanteria.

Nella lettera esordisce esprimendo la consolazione che gli arreca il poter

scrivere, dopo vari giorni che non dava proprie notizie, ai genitori che egli

immagina stessero in angoscia per lui. Non potendo palesare le ragioni di tale

silenzio, perché era proibito dalla censura dare troppo precisi ragguagli sulle

operazioni militari, egli si limita a comunicare: «siamo vittoriosi e ora mi

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trovo in riposo, con perfettissima salute». Egli parla quindi del cognato. Per

quanto dispiaciuto nell’apprendere la notizia che presto anch’egli sarebbe

stato chiamato alle armi, egli invita a sopportare il duro sacrificio nel nome

della patria: «se la Patria chiama all’appello, bisogna andare con buona

volontà a salvarla da ogni pericolo e fare conoscere che cosa è il sangue

italiano». Del coraggio e del valore degli italiani lui stesso e i propri

commilitoni sono un fulgido esempio: «noi non temiamo le pallottole e posso

dirvi che sul campo di battaglia, sotto il fuoco micidiale dei cannoni e delle

mitragliatrici, non abbiamo indietreggiato un passo: invece abbiamo

conquistato terreno e l’abbiamo saputo mantenere, quantunque il nemico

continuasse a bombardarle trincee con cannoni di grosso calibro». Al fragore

del combattimento, fa da contrappunto il silenzio della notte rischiarata dalla

luna: «Terminato il combattimento – egli prosegue – alla sera sono rimasto in

vedetta con un bel cielo sereno, con una luna che faceva una luce quasi come

quella del giorno: non un colpo di fucile, non un colpo di cannone: silenzio

perfetto; era uno spettacolo straordinario».

Il pensiero va infine ai danni provocati dalla guerra e alla desolazione dei

villaggi bombardati e dei campi devastati: «mi piangeva il cuore nel vedere

un sì bel paese distrutto quasi completamente dai cannoni nemici: che non

vollero lasciarlo intatto per la paura che gli italiani se ne servissero per le

truppe! Una bellissima campagna coltivata che pareva un giardino, tutto

abbandonato».

Infine, l’esperienza della prossimità del nemico, che si palesa quando, nel

silenzio del notturno lunare, viene intonato «un bel coro». Sono gli austriaci

che cantano canzonette. «Ascoltai con attenzione che parole pronunciavano:

l’unica che intesi fu quella di dire che degli italiani non hanno paura». Rivolto

al compagno che stava di vedetta con lui, Bertazzoni bisbiglia sotto voce:

«Senti gli uccellini in gabbia che cantano!».

Storia di Mario Bertoni (1895)

Dati anagrafici:

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Nome e cognome: Mario Bertoni

Data di nascita: 9 settembre 1895

Luogo di nascita: Virgilio (Mantova)

Luogo di residenza: Virgilio (Mantova)

Professione: muratore

Statura: 1,61 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: cerulei

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,

matricola 1811; lettere di Mario Bertoni pubblicate ne «Il cittadino», 24

agosto, 26 agosto, 9 ottobre, 11 novembre 1915.

Mario Bertoni di Leonzio e Angela Beduschi nasce a Virgilio il 9 settembre

1895. Alla visita di leva, tenutasi il 30 novembre 1914, è dichiarato abile e

arruolato di prima categoria e lasciato in congedo illimitato. Chiamato alle

armi il 12 gennaio 1915, è incorporato nell’86° reggimento Fanteria. Il 15

febbraio 1915 è nominato caporale. Il 24 maggio 1915, con la 9a compagnia

del 86° fanteria mobilitato, giunge in territorio dichiarato in stato di guerra.

Il 24 agosto 1915 invia al parroco di Pietole, Evaristo Mambrini, una lettera

in cui descrive la propria vita al fonte: «Noi combattiamo vicino a G. Gli

austriaci dalle loro posizioni dominanti vedono e seguono le nostre mosse, i

nostri progressi e sentono gradualmente e sempre più intenso il peso della

nostra forza e sanno che questa ineluttabilmente finirà per soverchiarli. Ma

resistono. Hanno sgombrato G. forse per risparmiarla o per farla risparmiare,

ne han fatto uscire, si dice, tutte le truppe e tutta la popolazione. La città

dunque appare deserta e parrebbe indifesa e pronta ad accoglierci. Essa è lì

con a lusinga di un’offerta.Ora qua è già incominciata una stagione brutta:

tutti i giorni piove e l’acqua scorre lungo alle trincee, ma ora non sentiamo

più né acqua né freddo e mi sono già abituato a qualunque intemperie. Ora è

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già quasi un mese che bisogna mangiare una volta al giorno per non farci

vedere e anche alla notte; ora ci siamo e dobbiamo compiere il nostro

dovere».

Il 9 ottobre scrive ancora a don Mambrini: «Ora sono già passati 25 giorni di

riposo ed ora è arrivato quel giorno che io e tutti i miei compagni dobbiamo

ancora un’altra volta andare a compiere il nostro dovere e sempre coraggiosi

e con la grazia di Dio e della Madonna di ritornare sani e salvi tutti come nella

prima lotta fatta. Mentre io sto scrivendo siamo in attesa per la partenza […]

dobbiamo andare a dare il cambio a due battaglioni dello stesso nostro

reggimento […]». Il giovane affronta la prova che lo aspetta con coraggio: «il

soldato italiano – egli scrive – non deve avere paura di nulla, perché si è

sempre mostrato forte e sempre forte continuerà». Infine conclude

ricordando inoltre che il 20 settembre un frate aveva tenuto un discorso alla

truppa: «ci ha detto e raccontato tanti fatti antichi delle guerre e tante belle

cose e se noi continueremo a mantenere sempre la nostra fede in Gesù Cristo

saremo i vincitori e più presto arriveremo alle nostre porte dei confini

d’Italia».

L’11 novembre egli scrive di nuovo al parroco di Pietole, a cui racconta un

fatto d’ami verificatosi il 21 ottobre precedente:

«Il giorno 21 ottobre abbiamo fatto una avanzata ed è riuscita benissimo:

niente meno che siamo usciti fuori dalla prima linea gridando: «Avanti

Savoia!» combattendo fino alle ore 7 di sera e dopo il lungo combattimento

siamo riusciti a cacciar via i nemici dalla loro prima trincea, facendo molti

prigionieri, dei quali ne ho presi parecchi anche io. […] Non può immaginare

qual grande bombardamento ci sia stato i questi giorni: non si poteva

nemmeno muoversi dalla trincea […] ma del resto sempre colla grazia di Dio

ho avuto la fortuna di essere salvo e vittorioso e spero ora fra poco di avere il

cambio e chissà di avere anche la sorte di venire a casa qualche giorno in

licenza».

Il 7 dicembre 1915 Bertoni parte per l’Albania: imbarcatosi a Taranto, l’8

dicembre sbarca a Valona. Il 15 giugno 1916 si imbarca a Valona per essere

rimpatriato e sbarca a La Spezia. Il 10 dicembre 1916 è promosso caporale

maggiore zappatore. Il 4 giugno 1917 è fatto prigioniero nel fatto d’armi

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dell’Ermada. Il 14 dicembre 1918 è rimpatriato in seguito all’armistizio e

trattenuto alle armi (nel 72°, poi nel 53°, quindi nel 112° reggimento

fanteria). Il 15 novembre 1919 è mandato in congedo illimitato.

Storia di Alceo Bombonati (1899)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Alceo Bombonati

Data di nascita: 1 maggio 1899

Luogo di nascita: Bagnolo San Vito (Mantova)

Luogo di residenza: Bagnolo San Vito (Mantova)

Professione: perito agrimensore

Statura: 1,70 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: grigi

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,

b. 1 (1896-1900). Si veda anche il breve profilo biografico contenuto in

Riccardo Belfanti, L’architettura del consenso nel Mantovano: dalla città alla

Casa del Fascio. Uomini, progetti, tecniche, realizzazioni, tesi di laurea,

Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, a.a. 2008/2009, pp. 427-428.

Alceo Bombonati nasce a Bagnolo San Vito (Mantova) il 1 maggio 1899 da

Giuseppe e Amalia Mazzocchi.

Soldato di leva di prima categoria lasciato in congedo illimitato il 12 maggior

1917, il 14 giugno viene chiamato alle armi per mobilitazione in forza del

regio decreto 22 maggio 1915. È incorporato al 2° Reggimento Genio

(Zappatori) di Bologna. Il 15 ottobre è ammesso alla Regia Accademia

Militare di Torino quale allievo aspirante Ufficiale di complemento. Il 4 aprile

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1918 è nominato aspirante Sottotenente di Complemento, arma del Genio, ed

assegnato al 6° Reggimento Genio (Ferrovieri). Il 14 luglio 1918 è nominato

Sottotenente di complemento. Il 13 ottobre 1919 è ricoverato all’Ospedale

Militare di Bologna, perché affetto da itterizia catarrale (la malattia verrà

riconosciuta dipendente da cause di servizio). Il 28 ottobre è inviato in

licenza di convalescenza per sessanta giorni. Rientrato al corpo il 27

dicembre. Il 1 agosto 1920 è collocato in congedo temporaneo.

In una nota del 27 maggio 1919 il capitano della 12a Compagnia ferrovieri del

Genio descrive il sottotenente Bombonati come «dotato di intelligenza e di

iniziativa, attivo, di buona volontà; è arrendevole verso i superiori – continua

il capitano – ed autorevole con gli inferiori, che sa comandare proficuamente

e da cui è benvoluto. Ha carattere buono, serio e leale». In una relazione del

novembre dello stesso anno il comandante della compagnia capitano Osvaldo

Bolzino lo ritrae come un giovane animato da «molto amor proprio». «Di

fronte a difficoltà e responsabilità – prosegue la nota – sa mantenersi calmo e

tranquillo. […] è ben voluto e rispettato dai propri dipendenti sui quali ha

ascendente morale per la fiducia che loro ispira. Ha molto senso pratico.

Possiede buona cultura generale […], conosce abbastanza bene i regolamenti

militari e meglio le istruzioni della specialità ferrovieri».

Nel 1920 Bombonati è decorato della Medaglia commemorativa nazionale

della Guerra 1915-1918 e della Medaglia interalleata della Vittoria.

Già diplomato perito agrimensore presso l’Istituto Tecnico di Mantova, l’11

settembre 1923 si laurea in Ingegneria Civile presso il Politecnico di Milano.

Nel 1929 realizza la propria abitazione a Bagnolo San Vito e nel 1934

ristruttura la locale chiesa parrocchiale. Nel 1935 redige il progetto per la

Casa de Fascio di Bagnolo, mai realizzato per ragioni finanziarie. Negli anni

Tenta ricopre la carica di Podestà a Bagnolo San Vito. Il 14 novembre 1939 è

ammesso all’esonero per la durata di tre mesi dalla data di richiamo alle armi

per mobilitazione in quanto ingegnere direttore del Consorzio di bonifica del

Medio Mantovano e pertanto indispensabile al funzionamento di tale

Consorzio.

Muore a Bagnolo San Vito il 13 maggio 1991.

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Storia di Luigi Castagna (1894)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Luigi Castagna

Data di nascita: 8 settembre 1894

Luogo di nascita: Cesole, comune di Marcaria (Mantova)

Luogo di residenza: Cesole

Professione: ortolano

Statura: 1,80 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg.

445, n. 28; Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli

militari, matricola 4283; due cartoline indirizzate alla famiglia conservate

nell’Archivio del signor Amedeo Farina di San Cataldo (Mantova).

Luigi Castagna nasce a Cesole l’8 settembre 1894 da Mauro e Vitala

Mazzocchi. Sul registro di leva, in data 13 maggio 1914, è dichiarato

renitente. Il 30 maggio è revocata la nota sulla renitenza e viene dichiarato

abile ed arruolato di seconda categoria, quale unico figlio di padre non

entrato nel 65° anno d’età. Il 10 novembre 1914 è chiamato alle armi e

incorporato nel 9° Reggimento Artiglieria da Fortezza. In seguito allo scoppio

della guerra, è trattenuto sotto le armi. Nel febbraio 1916 è incorporato al 2°

Reggimento Artiglieria da Fortezza. Il 13 settembre 1916 è ammesso alla

Scuola di tiro per bombardieri.

Il 23 aprile precedente egli si trovava a Bagni di Sella (Alta Val Sugana), da

dove inviava una cartolina ai famigliari:

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Cari miei di famiglia,

sono sano come spero anche in voi tutti.

Oggi la stagione si è cambiata. Sono un paio di giorni che non si spara più, a noi

sembra di non essere più neanche in guerra. Sul biglietto che vi ho tagliato

nella lettera trovate la posizione ove mi trovo io. In questi giorni poi avrete

sentito le gravi battaglie in valle Sugana, fu il bombardamento che vi scrissi io

di tutta quella giornata. Ma non pensate che per noi artiglieri da fortezza non

fu nulla. Ora poi i tedeschi sono andati un po’ lontano. Spero di non aver più a

combattere.

Ancora spero nell’avvenire nel mio felice ritorno tra voi miei cari affetti.

Salutandovi vi bacio tutti con tanto affetto.

Vostro figlio Luigi

Scrivetemi sempre.

In un successivo biglietto scriveva:

Miei cari di famiglia,

sono sano come voglio così pure sperare in voi.

Oggi ricevetti una lettera della cugina Matilde, a quale mi diceva della sua

buona salute, ma mi annunciava la morte di un suo cognato e la partenza di

suo marito per il fronte. Si vede in generale che tutte le famiglie ora mai hanno

il loro dolore. Sarebbe tempo che finisse!

È da alcuni giorni insomma che qui non si ha un po’ di quiete. La stagione fa

potentemente soffoccante. Mai non piove. Se pur che l’uva non coltivata se

vedete quanta che ce ne. Se può venire matura allora sì che scorpacciata che mi

faccio.

Il biglietto non è datato, ma dai riferimenti alla calura e alla maturazione

dell’uva possiamo desumere che fosse il principio dell’estate. Quanto

all’anno, potrebbe essere il 1916 o il 1917. Le due cartoline danno voce al

sentimento di fatica e stanchezza che pervadeva allora il giovane Luigi, che

aveva all’epoca 22 o 23 anni. Tali documenti, e lo stato d’animo che esse

riflettono, ci permettono di farci un’idea delle ragioni che spinsero

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successivamente Luigi a cercare di fuggire da una situazione, che

probabilmente era divenuta per lui ormai insostenibile. Apprendiamo infatti

dal ruolo matricolare che il 13 luglio 1917 fu dichiarato disertore e

denunciato al Tribunale di guerra «perché l’8 luglio passava volontariamente

al nemico». Con sentenza del 15 agosto 1918 del Tribunale di guerra

dell’Intendenza della 7a Armata, venne condannato in contumacia alla pena di

morte mediante fucilazione alla schiena previa degradazione e al pagamento

delle spese processuali. Nel giugno 1919 la sentenza fu commutata nella pena

dell’ergastolo e nel 1920 confermata dal Consiglio di revisione del Tribunale

supremo.

Storia di Francesco Flisi (1892)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Francesco Flisi

Data di nascita: 7 ottobre 1892

Luogo di nascita: Viadana (Mantova)

Luogo di residenza: Viadana (Mantova)

Professione: contadino

Statura: 1,60 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

437/62; lettera di Francesco Flisi pubblicata ne «Il cittadino», 17 ottobre

1915.

Francesco Flisi, di Carlo e Luigia Sanfelici, nasce a Viadana il 7 ottobre 1892.

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Alla visita di leva, effettuata il 31 maggio 1912, è dichiarato rivedibile per

oligoemia. Nuovamente riformato per oligoemia con la classe 1894, il 16

ottobre 1915 è dichiarato abile e arruolato di prima categoria con la classe

1892.

Di lui non ci resta che una lettera, indirizzata al prevosto di Buzzoletto

(frazione di Viadana) e pubblicata sul giornale cattolico «Il cittadino» di

Mantova il 17 ottobre 1915.

Dalla lettera apprendiamo che Flisi si trovava al fronte da 60 giorni e che era

stato promosso al grado di caporale. «Ho fatto parte di diversi combattimenti

– egli scrive – ma per Grazia di Dio non mi è ancora accaduto niente di danno;

vivo sempre di speranza e fiducia nella divina provvidenza». Il suo pensiero

va quindi al giorno precedente la sua partenza e rievoca il dolore originato

dall’imminente distacco dagli affetti famigliari e dal pensiero dei rischi a quali

sarebbe andato incontro: «Mi rammento sempre, signor Prevosto, quelle

raccomandazioni fattemi il giorno che venni a trovarlo e salutarlo, che era la

vigilia della partenza; ricordo i baci e le calde lacrime di quel giorno

pensando alla famiglia che doveva abbandonare e ai pericoli che doveva

incontrare».

Nella seconda parte della lettera Flisi descrive al prevosto l’opera dei

cappellani militari, «i quali appena che un ferito è in condizioni gravi, sono

pronti ad avvicinarsi mettendo a loro il crocifisso sul petto e colla stola,

compie [sic] il dovere che spetta al sacerdote, e quando muore, prima di

sotterrarlo il Cappellano gli recita le preghiere dei defunti e gli dà la

benedizione. Tutte le feste e tutti i giorni il Cappellano celebra la Santa Messa

e quelli che possono appena, vanno ad ascoltarla e così si fa sul campo di

battaglia».

Poi Flisi viene a parlare dei rigori della stagione autunnale e delle condizioni

di vita dei soldati: «la stagione presentemente è bella, ma abbiamo passati 13

giorni di pioggia giorno e notte e ci toccava riposare su di un sasso; oh quanto

erano lunghe e penose quelle ore».

Infine egli chiede al prevosto di inviargli «qualche giornale» e nel congedarsi

si scusa della propria grafia «scritta un po’ in fretta» e che il prevosto

«sfortunato che ci vede poco» farà forse fatica a decifrare; al contempo egli

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prega il prevosto: «quando mi userà la gentilezza di scrivere, scriva più

chiaro perché capisco poco la sua calligrafia». Una notazione che permette di

farci un’idea delle difficoltà che dovettero affrontare, come Flisi, molti altri

soldati, costretti, per comunicare con famigliari e amici, a servirsi di uno

strumento quale la scrittura, con il quale, pur non essendo analfabeti, non

avevano certo dimestichezza.

Storia di Ivanoe Fossani (1894)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Ivanoe Fossani

Data di nascita: 9 settembre 1894

Luogo di nascita: San Biagio di Bagnolo San Vito (Mantova)

Luogo di residenza: San Biagio di Bagnolo San Vito (Mantova)

Professione: meccanico

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

G. Longo, Giornalisti della rivoluzione. Ivanoe Fossani, Roma, Palombi, 1933:

Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 2135; Archivio di

Stato di Mantova, Pretura di Mantova, Registro sentenze, anno 1913, b. 72, n.

44 del 15 marzo 1913; Archivio di Stato di Mantova, Questura di Mantova,

Casellario politico centrale, b. 66; Archivio di Stato di Verona, Registro fogli

matricolari, f. 4101. Ivanoe Fossani, Una lettera di Ivanoe Fossani, in «Il

combattente mantovano», 6 novembre 1919; Archivio di Stato di Verona,

Tribunale di Guerra di Verona, procedimenti penali, anno 1916, fasc. 691;

Riccardo Fera, Ivanoe Fossani. Dirigente e storico del fascismo mantovano, tesi

di laurea, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, A.A. 2003-2004.

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Ivanoe Fossani nasce il 9 settembre 1894 a San Biagio, una frazione del

comune di Bagnolo San Vito. Suo padre Angelo, nato a Mantova nel 1864,

era contadino e muratore. La madre, Lucia Benetti, nata a Bagnolo San Vito

nel 1870, era casalinga. Ivanoe è il primo di quattro figli. Dopo di lui Elisa,

morta a soli tre anni, Odorina, nata nel 1900 e Achille Edoardo, nato a

Mantova nel 1903, dopo che la famiglia, nell’ottobre del 1902, si era trasferita

dal paese al capoluogo.

A dodici anni Ivanoe Fossani deve lasciare la scuola perché il padre non può

più mantenerlo. Si offre come aiuto di un meccanico e viene assunto. Nel

1912 è iscritto nello schedario della Prefettura in quanto militante anarchico.

La polizia dice di lui: «È di mediocre condotta morale e civile, nell’opinione

pubblica riscuote mediocre fama, di carattere burbero ed ha poca

educazione, intelligenza e coltura. Frequentò la 3ª classe elementare, e non

ha titoli accademici. È fiacco nel lavoro dal quale ne ritrae il sostentamento.

Frequenta con assiduità la compagnia degli anarchici […]. È anarchico

convinto e fanatico di essere tale. È ascritto al partito anarchico nel quale

ha poca influenza». Il 15 marzo 1913 Fossani, che era stato sin dal

1911 un oppositore accanito della guerra di Libia, è condannato dalla

Pretura di Mantova a una settimana d’arresto per grida sediziose.

Come risulta dalla sentenza, il 18 agosto 1912 Fossani, insieme ad un gruppo

di compagni, aveva disturbato un corteo di reduci della Libia che sfilavano

per le vie della città tra il tripudio della folla gridando: «Abbasso la guerra!

Abbasso l’esercito! Abbasso gli ufficiali!». Il pretore, riferendosi a questi

giovani anarchici, aggiunge anche: «I prevenuti presenti hanno confessato di

avere gridato soltanto “Abbasso la guerra” e che «ciò si erano creduti in

diritto di fare, perché offesi nei loro sentimenti di pacifisti da quella

dimostrazione, che qualificarono una pagliacciata».

La militanza anarchica e la persecuzione che ne consegue costringono

Fossani, che non ha ancora vent’anni, ad abbandonare l’Italia. Come ricorda

il suo biografo Longo: «Valicata la frontiera svizzera [Fossani] va a piedi a

Lugano, in compagnia della sua grande miseria. Partecipando a comizi,

frequentando le università nelle quali si insegna la storia e la filosofia e la

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sociologia da grandi maestri egli conosce i più grandi agitatori europei, da

Kropotktin a Lenin a Mussolini». In base alle carte di polizia, è possibile

affermare che, prima di riparare in Svizzera, Fossani si era recato in Austria,

dove subì una condanna a sette giorni di reclusione per lesioni in rissa,

comminatagli con sentenza dell’11 ottobre 1912 dal tribunale di Werfen. Il

fatto contestato si era verificato a Innsbruck ed era originato da un

«diverbio» tra Fossani e un «un italiano che [aveva dato] ragione agli

studenti austriaci».

Dopo un breve rientro in Italia, Fossani si porta in Svizzera, dove risiede

prima a Lugano e poi a Berna. Ritorna di certo a Mantova prima del 28

febbraio 1914, data nella quale è sottoposto alla visita di leva presso il locale

distretto militare, come risulta dal suo foglio matricolare. Da quest’ultimo

risulta inoltre che Fossani è incorporato nell’80° fanteria per il servizio di

leva il 13 novembre 1914, e quindi da quella data in poi risiede sicuramente

in Italia, visto che non è dichiarato renitente alla leva. Quando l’Italia entra

in guerra nel maggio del 1915, Fossani viene chiamato alle armi e giunge in

territorio di guerra il 23 maggio. È vero dunque, come sostiene Longo, che

Fossani fu tra i primi a giungere al fronte, ma non certo – come pretende il

suo biografo – che egli si fosse arruolato volontario. Longo sostiene inoltre

che Fossani avesse rifiutato i gradi di ufficiale e che avesse militato nel

corpo degli arditi, tuttavia tali affermazioni non risultano confermate dal

foglio matricolare, che non ne fa menzione.

Dal foglio matricolare apprendiamo invece che il 18 maggio 1916 il fante

Fossani è ricoverato in ospedale in seguito ad una ferita riportata in

battaglia. L’8 giugno viene trasferito nel Deposito convalescenza e tappa di

Verona. L’11 giugno si allontana dal luogo di cura e viene dichiarato

disertore. Quattro giorni dopo si costituisce, ma questo non lo salva dalla

denuncia, dal carcere militare e dal processo di fronte al Tribunale Militare

di Verona, davanti al quale giustifica così il suo agire: «Avevo richiesto il

permesso per andare a casa ma mi fu risposto che ciò era impossibile; erano

tredici mesi che non vedevo mia madre che è sempre sofferente, non

potevo resistere al desiderio di rivederla ora che mi trovavo a 40 km da lei.

Il giorno 11 sera presi il treno e andai a Mantova. Rimasi lì quattro giorni e

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il giorno 15 mi presentai spontaneamente a questo deposito». Il tribunale

lo condanna a tre anni di reclusione per diserzione, ma sospende la sentenza

e lo rimanda al fronte, dove arriva il 3 settembre 1916.

Tornato al fronte, Fossani cambia più volte reggimento. Il 16 maggio 1917

viene nuovamente ferito e ricoverato nell’ospedale da campo. Di questo

episodio Longo dà un lunghissimo resoconto. Dalla biografia ufficiale si

apprende che durante l’offensiva sul Monte Cucco Fossani è con i primi, in

testa alla sua compagnia, nonostante le ferite che ha già riportato in battaglia.

La consegna è sgominare un covo di austriaci che spara con un cannone

sulle trincee italiane. Mentre avanza carponi sul terreno viene avvistato dai

nemici che aprono il fuoco su di lui e solo per miracolo riesce a salvarsi in

una buca prodotta da una granata. Da questa posizione l’eroico soldato

riprende la sua battaglia e comincia a lanciare le sue bombe contro il nemico:

«Il fante non ha paura. Non può avere più paura la sua volontà è tesa come

sono tesi i suoi nervi. Volontà e nervi hanno vinto l’istinto di conservazione.

Egli lancia le sue bombe. I nemici rispondono. Tutto è ridotto a una semplice

azione meccanica. A un tratto uno scoppio… nella buca. La gamba… scarpa e

fascia, carne e stoffa volano via in pezzi. La carne si è lacerata, si è

sbrindellata, dal piede alla coscia. Come una vecchia bandiera. Le schegge

sono conficcate ovunque. Il combattente vede tutto rosso. Non s’accascia,

s’inebria. Con più furore egli lancia le sue bombe. Sulle labbra gli erra un

ululato di dolore e di rabbia. Un altro scoppio nella buca. Il corpo del fante è

proiettato in alto, tre metri. E ricade pesantemente più in là. Egli non ha

ancora perduto i sensi ma non sente più il peso della carne martoriata. Sente

un urlo: lontano? Vicino? Savoia!» (Longo, op. cit., pp. 15-17).

L’episodio sul Monte Cucco segna la fine dell’esperienza bellica di Fossani.

Infatti egli verrà ricoverato successivamente negli ospedali di Udine, Milano,

Benevento e Caserta e non tornerà più al fronte. Gli verrà assegnata la

medaglia di bronzo con la seguente motivazione: «Si lanciava animosamente

nella trincea avversaria per scacciare un mucchio di nemici che ancora si

difendeva con una mitragliatrice e con bombe a mano. Rimasto ferito

incitava i suoi dipendenti ad avanzare».

Il 21 febbraio 1918 Fossani è ammesso ad usufruire dell’amnistia per il

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reato di diserzione; l’8 aprile del 1920 viene posto in congedo illimitato e

gli vengono concessi 6 anni di pensione di guerra; nel 1928 ottiene una

pensione privilegiata di guerra a vita perché riconosciuto permanentemente

inabile al servizio militare per infermità proveniente da cause di guerra.

Infine, nel 1934, riuscirà a far cancellare dal suo foglio matricolare la

condanna per diserzione subita nel 1916, considerata ormai una macchia

infamante da Fossani, che nel frattempo aveva aderito al fascismo.

In effetti Fossani, che, a dispetto della scelta interventista, negli anni della

guerra aveva continuato a frequentare gli ambienti anarchici, nel

dopoguerra si era avvicinato ai gruppi nazionalisti, a supporto dei quali

aveva militato nell’imminenza delle elezioni del 16 novembre 1919. Dopo le

elezioni non si hanno più notizie di lui sino al 12 aprile 1920, allorché lo

ritroviamo tra i venti fondatori del Fascio mantovano di combattimento. Nel

giugno 1920 si impiega come redattore presso il quotidiano fascista «La

Voce di Mantova», di cui diviene in breve tempo direttore. Viene nominato

segretario del fascio di Ostiglia e quindi federale provinciale. Dopo

l’assassinio Matteotti a la conseguente riscossa dell’ala intransigente del

fascismo, Fossani, che negli anni precedenti si era avvicinato al gruppo

revisionista, è allontanato dal potere e costretto ad abbandonare la città. Si

trasferisce a Salsomaggiore e si impiega alla neonata «Voce di

Salsomaggiore», ma il settimanale ha vita breve e Fossani fa ritorno a

Mantova. A quest’epoca intraprende la stesura della sua opera principale,

La storia del fascismo mantovano, che sarà pubblicata…. Il libro è un fiasco

editoriale e non agevola il rientro del suo autore nell’ambiente politico

mantovano.

Fossani riesce tuttavia a rientrare in gioco proponendosi alla polizia come

informatore segreto presso la comunità italiana in Germania. Nel marzo

1927 si trasferisce perciò a Berlino per svolgervi il suo nuovo incarico. Di lì

a poco, a seguito della liquidazione dell’ala intransigente del Pnf, Fossani

viene reintegrato nella sua carica di direttore della «Voce di Mantova». Da

questo momento comincia la sua scalata ai vertici del partito: dapprima

nominato commissario del Fascio mantovano, egli entra quindi a far parte

del Direttorio Federale; assunta la carica di vice-federale, diviene il n. 2 del

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partito a Mantova. Nel 1929 è nominato federale Zelindo Ciro Martignoni. Il

nuovo capo del fascismo mantovano opera un ricambio di classe dirigente,

in seguito al quale Fossani è nuovamente emarginato. Costretto ad

allontanarsi da Mantova, si trasferisce a Messina dove assume la direzione

della locale «Gazzetta», che manterrà sino al maggio 1943, quando la sede

del giornale è distrutta in un bombardamento aereo.

Dopo l’8 settembre 1943, Fossani aderisce alla Repubblica Sociale Italiana.

Al termine del conflitto viene arrestato e sconta alcuni mesi di carcere,

probabilmente per il reato di collaborazionismo con il nazifascismo.

Scarcerato, si stabilisce a Roma. Abbandonata la militanza politica, si dedica

all’attività artistica e consegue una certa notorietà come incisore di

monotipi.

Muore il 29 giugno 1961 ad Assenza di Brenzone, sul lago di Garda,

investito da una motocicletta nei pressi della sua casa.

Storia di Ulderico Fulghieri (1895)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Ulderico Fulghieri (o Fughieri)

Data di nascita: 2 dicembre 1895

Luogo di nascita: Gonzaga (Mantova)

Luogo di residenza: Gonzaga (Mantova)

Professione: studente

Statura: 1,70 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: verdi

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,

matricola 741; lettera di Ulderico Fulghieri alla redazione del «Il cittadino»,

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in «Il cittadino», 2 settembre 1915; lettera di Ulderico Fulghieri a don Enrico

Buzzacchi, pubblicata in «Il cittadino», 23 ottobre 1915.

Ulderico Fulghieri, di Domenico e Adele Bianchini nasce a Goito il 2 dicembre

1895. Il 19 novembre 1914, in seguito a visita di leva, è dichiarato abile e

arruolato di prima categoria, quindi inviato in congedo illimitato. Il 15

gennaio 1915 è chiamato alle armi e incorporato nella 4a Compagnia Sanità.

Il 21 marzo 1915 parte con la sezione sanità della 72a Divisione Fanteria

Reparto Someggiato di Sanità per gruppo alpino A. Il 23 marzo è dispensato

dal frequentare la scuola elementare perché munito di certificato di

promozione al terzo Liceo. Prima di partire per il fronte, egli studiava infatti

presso il Seminario vescovile di Mantova. Un frammento dell’esperienza

bellica vissuta dal giovane chierico e dei suoi commilitoni, ci è restituito da

due lettere che nel 1915 egli inviò dal fronte rispettivamente alla redazione

de «Il cittadino», il giornale dei cattolici mantovani, e all’amico don Enrico

Buzzacchi di Bonizzo.

Nella prima, datata 29 agosto 1915, egli descrive la speranza, il coraggio e

l’entusiasmo che la parola di Dio, predicata al fronte dai cappellani militari,

poteva infondere in soldati che erano stati strappati dai loro affetti più cari e

lanciati in un’esperienza terribile e luttuosa.

«oggi l’eco dei cannoni che si ripercuote giorno e notte nelle valli profonde

coll’impeto d’una bufera improvvisa, risuonò per noi meno triste e lugubre; i

giorni innanzi impauriva e ci faceva sognare, amaramente, nell’attesa febbrile

d’ogni scarica, la famiglia lontana, gli amici senza godere il sorriso d’un padre

che ci fosse accanto coll’affetto, col cuore e colla voce confortatrice,

risvegliasse ancora il caldo bacio della madre, la speranza, la pace perduta.

Oggi il nostro cuore esulta […]. Passò lo sgomento, si rasserenò la fronte

mesta e pensosa; il cannone tuonava ancora forte e nell’animo nostro

rinacque la speranza, il coraggio; le parole del padre ci commossero; egli pure

piangeva, dinanzi ad un povero altare da campo, dove Iddio degli eserciti

appariva nella luce più fulgida a benedir i nuovi figli».

Poche settimane dopo, il 13 ottobre 1915, egli scrive all’amico don Enrico

Buzzacchi di Bonizzo:

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«Quanto mi torna caro rinnovare l’intima famigliarità dei giorni di Seminario!

Allora la croce era meno pesante; ora il sacrificio ci accompagna giorno e

notte e talvolta è grave. Sul diario notai le mie avventure; le raccolgo in un

notes ogni sera, su di un sasso informe, nell’ora del tramonto, quando il cuore

sente più forte la nostalgia della patria lontana e la preghiera esce dalle

labbra più fervorosa. Come si prega bene sull’Alpi! E se tu udissi i nostri

alpini nel silenzio della sera, inginocchiati nelle profonde cavità delle rocce

mormorare la preghiera del soldato, colla persona attratta ad un crocifisso,

ingiallito, prezioso ricordo della madre, della sposa all’ora tremenda

dell’addio, resteresti commosso fino alle lagrime».

Emerge anche da queste righe l’importanza che il giovane chierico attribuiva

al conforto della fede; ma, accanto alla religione, un’altra esperienza rivela in

questa pagina il proprio potere rasserenante: la scrittura. Non sappiamo se il

diario di Ulderico Fulghieri si sia conservato. Nella lettera a don Buzzacchi

egli ne trascrive un brano, ove rievoca un’avventurosa spedizione a cui aveva

partecipato il 16 agosto precedente per portare in salvo due soldati feriti

(come si ricorderà, Fulghieri faceva parte dei reparti sanitari):

La notte del 16 agosto era discesa sull’Alpi;[…] quella notte fu calma; il campo

aveva perduto l’aspetto terrificante del giorno innanzi; si dormiva sull’Alpi

come viaggiatori in attesa dell’alba, spinti là per contemplarvi uno spettacolo

nuovo, a godere di quella pace tutta singolare […]. A mezzanotte un rumore

leggiero di passi si avvicinò: una parola, uno sguardo fuggitivo rivolto al primo

che si affacciò fuori della tenda ci fece avvertiti di tutto; un istante dopo

eravamo già pronti per partire. […] il piccolo paese di B. che nella luce della

luna spiccava bene in tutte le sue capanne rovinate in gran parte dalle granate

nemiche. Là ci attendevano due nostri alpini feriti in un combattimento e

abbandonati dai nemici. L’impresa era difficile e richiedeva tutta la prudenza

possibile; partimmo incoraggiati dalla speranza di poterli salvare. Con noi

scesero giù due squadre di alpini armati; l’oscurità della notte per fitte

boscaglie che non lasciavano vedere un raggio di luce, la via angusta e

sconosciuta fu il primo ostacolo da superare […] Quando riapparvero le

capanne gli alpini in un gran semicerchio di prepararono alle ricerche. Si

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temeva però una sorpresa ed ogni rumore, ogni cespuglio, richiamava la nostra

attenzione. Si giunse così agli ultimi casolari e nessuno si presentò; da ultimo

echeggiò nella valle una scarica di fucili; si vide un’ombra fuggire lontano e poi

nulla. Passò la notte, apparve l’aurora e i due eroi dormivano fra le nostre

braccia.

Questa non fu la sola avventura, ne ho altre ma per ora basta.

Non abbiamo altre notizie di Ulderico Fulghieri per il periodo che va dalla

fine di agosto del 1915 al 17 maggio 1918, quando, come si apprende dal

ruolo matricolare, è promosso tenente di complemento di fanteria. Dopo di

questa data si perdono nuovamente le sue tracce. Il suo nome non risulta

dell’Albo d’oro dei caduti lombardi della prima guerra mondiale, né pare

d’altra parte, da ricerche effettuate nello stato del clero della diocesi di

Mantova, che dopo la guerra egli avesse ripreso gli studi in Seminario e

abbracciato la professione sacerdotale.

Storia di Aldo Ganzerla (1892)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Aldo Ganzerla

Data di nascita: 23 febbraio 1892

Luogo di nascita: Revere (Mantova)

Luogo di residenza: Revere (Mantova)

Professione: ortolano

Statura: 1,70 m

Capelli: castani e ricciuti

Occhi: neri

Fondi di riferimento:

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Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

436/18; lettera di Aldo Ganzerla pubblicata ne «Il cittadino», 23 ottobre

1915.

Aldo Ganzerla, di Emidio e Teofila Frigeri, nasce a Revere il 23 febbraio 1892.

Alla visita di leva, effettuata l’11 maggio 1892, viene dichiarato abile e

arruolato di prima categoria.

Non abbiamo altre informazioni sulla carriera militare di Ganzerla (non è

stato rinvenuto il ruolo matricolare). Notizie sulla sua esperienza di guerra si

possono desumere da una lettera che egli inviò l’8 ottobre 1915 al proprio

cugino don Buzzacchi di Bonizzo.

Caro cugino ed amico carissimo,

non ti puoi immaginare quanto fu grande il piacer mio nel vedere in mie mani,

ieri, un tuo scritto, aspettato da tempo con ansia. Sentii che è già la seconda

volta che mi scrivi, ma non ho avuto il bene di ricevere che l’ultima. Ti rispondo

subito, perché voglio leggerne spesso delle tue lettere, tanto care e gradite in

momenti così critici; tu poi compatirai le mie mal scritte. Che cosa vuoi, io non

ho studiato tanto, ma abbastanza però per esprimere più o meno bene i miei

sentimenti.

In queste righe d’esordio emergono anzitutto l’ansia e la trepidazione con cui

i soldati attendevano di ricevere missive da parte di famigliari ed amici o di

poter scrivere loro per dare notizie di sé, ma, ciò che è forse più interessante,

si affronta il tema, che abbiamo visto ricorrere di frequente negli scritti dei

soldati, della relazione che essi intrattenevano con una pratica comunicativa

a cui, anche i più istruiti, non erano adusi.

La lettera del cugino fa tornare alla memoria di Ganzerla gli anni spensierati

dell’infanzia, che si contrappone ad un tempo presente dominato dai dolori e

dagli orrori della guerra: «Faccio senza dirti – scrive Ganzerla – che ieri nel

leggere la tua lettera mi venivano in memoria tante cose passate in

compagnia, specialmente quando eravamo bambini, che ci stavamo sì

volentieri e ci divertivamo un mondo, quando ci raccontavamo l’un l’altro le

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nostre storielle infantili. Quello era il tempo della spensieratezza, ma che

pure ci rendeva felici e contenti come Pasque. Quanta differenza ora!».

Ganzerla esprime in seguito la propria riprovazione la guerra e la speranza

che torni presto a regnare in Europa la pace:

Mi erano venute le lagrime agli occhi nel leggere in certi punti la tua cara

lettera e ti ringrazio con tutto il cuore delle preghiere che elevi al buon Dio

perché abbia presto a rispendere fra noi quell’iride di pace che da tempo è

desiderata dall’intera Europa. Oh si venga presto quel giorno fortunato e cessi

una buona volta questo conflitto europeo che è causa di tante lacrime che

copiose sgorgano dagli occhi di tutti. […] Se posso ritornare dalla guerra in

seno alla mia famiglia sano e pieno di vita come sono ora, per grazia del buon

Dio che fino adesso mi ha sempre protetto, ti assicuro che appena avrai la

grazia di ascendere per la prima volta l’altare per immolarvi l’agnello di pace,

verrò anch’io a farti corona e sarò ben lieto di passare in tua compagnia una

giornata allegra e dimenticare così tanti giorni passati in angosciosa

trepidazione. Oh dev’essere pur bella la calma dopo si procellosa tempesta!

Il ritorno della pace non potrà peraltro che dipendere dal trionfo della

giustizia, che per Ganzerla sarà fatta solo quando il nemico austro-germanico,

che egli ritiene il principale responsabile del conflitto, sarà sconfitto:

In quanto alla nostra situazione non posso dirti di più di quello che t’ho detto

altre volte. La giustizia deve trionfare ed è per questo che io spero tanto che i

tedeschi quanto gli austriaci presto o tardi saranno sconfitti completamente e

così loro che sono stati la rovina dell’Europa intera, finiranno una buona volta

col domandare essi per primi la pace.

Storia di Aldo Goldstaub (1898)

Dati anagrafici:

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Nome e cognome: Aldo Goldstaub

Data di nascita: 27 giugno 1898

Luogo di nascita: Mantova

Luogo di residenza: Mantova

Professione: studente

Statura: 1,56 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,

b. 1 (1896-1900).

Aldo Goldstaub nasce a Mantova il 27 giugno 1898 da Zevolun, detto Cino,

agente di negozio, e Pasqua Basevi, casalinga. All’epoca la famiglia Goldstaub

risiedeva a Mantova, in via Pomponazzo n. 12.

Soldato di leva di prima categoria lasciato in congedo illimitato il febbraio

1917, il 26 febbraio è chiamato alle armi per mobilitazione con R.D. 29

maggio 1915. Il 22 aprile inizia a frequentare la Scuola di Applicazione di

Fanteria di Parma, quale allievo Ufficiale di complemento. Il 3 ottobre 1917 è

aspirante Ufficiale di complemento nel Deposito del Reggimento Fanteria di

Mantova. Il 21 ottobre 1917 è incorporato al 113° Reggimento di Fanteria

Brigata Mantova. Il 16 gennaio 1918 è promosso Sottotenente di

complemento arma di Fanteria con anzianità 22 novembre 1917 e assegnato

al Deposito Fanteria di Verona. Il 27 aprile 1918 è incorporato al 6° Reparto

d’assalto (Deposito 66° Fanteria). Il 12 giugni 1918 è trasferito al 70° Reparto

d’assalto. Il 30 gennaio 1919 è promosso Tenente. Il 19 settembre 1919 è

incorporato al 79° Reggimento Fanteria e, a decorrere dalla stessa data, cessa

di trovarsi in territorio dichiarato in stato di guerra. Incorporato quindi nel

25° Reggimento Fanteria e successivamente nell’8° Reparto d’assalto, il 27

novembre 1920 rientra al Deposito del 79° Reggimento Fanteria. Il 13

dicembre 1920 viene collocato in congedo. Nel giugno 1921 chiede di essere

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riassunto in servizio e viene assegnato al 72° Fanteria a Mestre. Il 30 maggio

1923 è inviato in congedo. Nel 1936 viene richiamato in servizio per due

settimane, per frequentare un corso di addestramento ai fini

dell’avanzamento di carriera. Il 17 settembre 1936 è promosso capitano. Il

27 luglio 1939 è collocato in congedo assoluto ai sensi dell’art. 5 del R.D.

dicembre 1938 n. 2111, che stabiliva che gli ufficiali in servizio permanente

del Regio esercito, della Regia marina, della Regia aeronautica, della Regia

guardia di finanza e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale,

appartenenti alla razza ebraica fossero dispensati dal servizio e collocati in

congedo assoluto.

Dopo l’8 settembre 1943 Goldstaub non presta servizio militare né collabora

con i nazifascisti nelle formazioni della RSI e pertanto nel dopoguerra non è

sottoposto a giudizio di discriminazione che nel dopoguerra colpì i militari

italiani che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si erano arruolati nelle

forze Armate della Repubblica Sociale, sia volontariamente, sia perché

militari di leva e/o richiamati.

Anzi, il 18 ottobre 1944, ai sensi dei decreti legge del 6 e del 20 gennaio 1944,

nn. 9 e 25, viene reiscritto nel ruolo del complemento con il grado e con il

posto di anzianità che aveva prima del congedo assoluto. Decorato della

Croce al Merito di Guerra, della Medaglia Interalleata della Vittoria, della

Medaglia commemorativa nazionale della guerra 1915-1918.

Dal fascicolo personale si apprende inoltre che aveva fatto parte delle Milizie

volontarie fiumane.

Dalla documentazione archivistica si desume infine che nel 14 giugno 1933

aveva sposato a Grosseto Jessie Padovani e che il 23 agosto 1934 era nato il

figlio Alfredo. Nel 1952 risultava residente a Bologna, ove era impiegato

presso la Delegazione del Tesoro della Banca d’Italia.

Storia di Cesare Grazioli (1897)

Dati anagrafici:

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203

Nome e cognome: Cesare Grazioli

Data di nascita: 1897

Luogo di nascita: Goito (MN)

Luogo di residenza: nel 1921 risulta residente a Rodigo (MN)

Professione: contadino

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Archivio dell’Associazione nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, Sezione

provinciale di Mantova, serie “24. Mantova. Deceduti”, busta “da Grandelli a

Gusberti”, fascicolo “Grazioli Cesare”; cartolina inviata da Cesare Grazioli al

padre Giovanni il 12 marzo 1918 dal campo di concentramento di Somorja in

Ungheria, conservata nell’Archivio di Amedeo Farina di S. Cataldo (Manova).

Cesare Grazioli, di Achille e Biolchi Margherita, nacque a Goito (Mantova) il

12 aprile 1897. Grado di istruzione: elementare. Grado militare: soldato.

Arruolato in data non nota nel 70° Reggimento Fanteria con deposito ad

Arezzo. Il 19 agosto 1917 sul Carso viene ferito ad entrambe le braccia. Viene

curato ad Ancona e a Urbino. Il 12 marzo 1918 è rinchiuso nel campo di

concentramento di Somorja in Ungheria, da dove invia la seguente cartolina

al padre Giovanni:

Carissimo Padre,

dandovi mie notizie che io mi trovo Prigionero [sic], dalla salute sto benissimo

come spero di avi e famiglia. Vi raccomando di favorirmi con più che potete di

un vaglia telegrafico, con qual pacchi di pane, e vi raccomando di non pensare

a me, più di pensare di mandarmi quello che vio [sic] chiesto più presto

possibile, io mi trovo in scieme [sic] con Martelli della Volta [di Volta

Mantovana]. Per tanto vi saluto e più saluti a tutti. Addio.

Il 4 gennaio 1920 Cesare Grazioli viene sottoposto a visita medica collegiale a

Verona per il conferimento di una pensione di guerra. Essendo riconosciuto

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204

«affetto da callo osseo dell’avambraccio destro con limitazione di movimenti

di pronazione», viene assegnato alla nona categoria di invalidità e gli viene

riconosciuta una pensione di guerra per la durata di sei anni,

successivamente rinnovata. Il 23 gennaio 1921 si iscrive all’Associazione

Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, sezione di Mantova. Dalla scheda di

associazione egli risulta residente a Rodigo. Il 7 dicembre 1976 inoltra

all’Associazione domanda di «assistenza natalizia». Dalla richiesta si evince

che egli viveva solo e che la sua pensione di guerra ammontava a sole 36 mila

lire mensili (corrispondenti a circa 150 euro, al valore odierno della moneta).

Muore a Porto Mantovano (MN) nel 1979.

Storia di Iginio Marchini (1897)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Iginio Marchini

Data di nascita: 29 settembre 1897

Luogo di nascita: Sermide (Mantova)

Luogo di residenza: Puerto Limón (Costa Rica)

Professione:

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Gli italiani nell'America Centrale, a cura di Ermenegildo Aliprandi e Virgilio

Martini, Santa Tecla (El Salvador), Escuela Tipogràfica Salesiana, 1932 e

Dizionario biografico degli italiani in Centroamerica, a cura di Dante Liano,

Milano, Vita e Pensiero, 2003, ad vocem.

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205

Iginio Marchini è nato a Sermide, in provincia di Mantova, il 29 settembre

1897. Dopo pochi mesi dalla sua nascita, i suoi genitori emigrarono in Costa

Rica, dove si impiegarono nei cantieri di costruzione della ferrovia.

Nell’aprile del 1916 Marchini partì da Puerto Limón, sul piroscafo Europa,

per arruolarsi come volontario nell’esercito italiano e partecipare così alla

Prima Guerra Mondiale. Appena giunto a Mantova venne arruolato nel 65°

Reggimento Fanteria “Brigata Valtellina” di Cremona. Tre mesi più tardi fu

inviato sul Monte Croce e nel febbraio del 1917 fu trasferito alla 150a

Compagnia Mitraglieri “Regina” col grado di caporale e inviato a combattere

sul fiume Isonzo. Tra i suoi compagni d’armi vi era Giuseppe Angelo Roncalli,

il futuro Giovanni XXIII, del quale Iginio divenne grande amico.

Promosso sergente, prese parte ai combattimenti sul monte Smerli, a

Tolmino e a Caporetto (nell’attuale Slovenia), dove rimase ferito e fatto

prigionieri dai tedeschi. Venne trasferito al campo di concentramento di

Oberhoffen, in Alsazia. Il primo di ottobre del 1918 l’avanzata degli alleati

giunse fino a Strasburgo e Iginio Marchini riuscì a fuggire con alcuni

compagni dal campo di concentramento, grazie alla ritirata dei soldati

tedeschi. Fu raccolto dalle truppe francesi e trasferito in un ospedale militare

a causa di un trauma alla colonna vertebrale, conseguenza delle bastonate e

dei colpi ricevuti dai tedeschi durante la prigionia.

Marchini fu insignito della Croce di Guerra, della medaglia Interalleata e della

medaglia Reggimentale.

Nel dicembre dello stesso anno venne nuovamente rincorporato e mandato a

combattere in Africa, a Bengasi. A causa delle sofferenze alla schiena venne

rispedito in Italia, a Piacenza, dove lavorò al Magazzino Sussistenza Viveri

fino al giugno del 1920.

In luglio fu avvisato dal Distretto Militare di Mantova che in settembre

sarebbe scaduto il diritto all’imbarco gratuito per la Costa Rica. Nel frattempo

Iginio si era sposato e, non potendo pagare il biglietto per la moglie Angela

Talassi, chiese al Governo Italiano un aiuto, che gli fu negato. Costretto a

ricorrere a un prestito, il 23 settembre 1920 a Genova si imbarcò con la

moglie sul piroscafo Europa, lo stesso che quattro anni prima lo aveva

portato in Italia per partecipare alla guerra.

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A San José Marchini aprì la macelleria “La Triestina”, che nel 1932, come

attesta un annuncio pubblicitario, era ancora aperta. Successivamente

impiantò anche una piccola fabbrica di insaccati.

Gli anni della Seconda Guerra Mondiale furono anni difficili per Iginio

Marchini e la sua famiglia, specialmente dopo il 1941, quando la Costa Rica

dichiarò guerra all’Italia fascista e alla Germania nazista. Durante una

manifestazione contro i due paesi europei il suo negozio venne saccheggiato

e bruciato e gli furono rubate le onorificenze che si era duramente

guadagnato sul campo di battaglia. Come molti altri italiani, lui e la sua

famiglia vennero deportati in un campo di raccolta e successivamente inseriti

in una lista “grigia” (la Costa Rica inseriva in una lista “nera” tutti gli italiani, i

tedeschi e i giapponesi che erano favorevoli ai loro regimi ed in una “grigia”

quelli che si dissociavano dalla Guerra). Solamente dopo molti anni riuscì a

ricostruire la sua attività, che seguì personalmente fino al 21 ottobre del

1977, quando morì. Le sue spoglie riposano in Costa Rica.

Storia di Renzo Massarani (1898)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Renzo Massarani

Data di nascita: 26 marzo 1898

Luogo di nascita: Mantova

Luogo di residenza: Mantova

Professione: musicista

Statura: 1,71 m

Capelli: castani ondati

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

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Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

484/177; Lara Sonja Uras, Massarani Renzo, in Dizionario Biografico degli

Italiani, volume 71, 2008, ad vocem.

Renzo Massarani, di Giulio e Gina Colorni, nasce a Mantova il 26 marzo 1898.

Discendente di una delle più illustri e facoltose famiglie della borghesia

ebraica mantovana, partecipa come volontario alla prima guerra mondiale.

Alla visita di leva, effettuata a Roma il 20 gennaio 1917 – Massarani non ha

ancora compiuto 19 anni – è dichiarato abile e arruolato di prima categoria.

Dopo la conclusione della guerra riprende gli studi di pianoforte e di

composizione: nel 1918 prende lezioni da F. Schalk a Vienna; l’anno

successivo si trasferisce a Roma per studiare presso il liceo musicale di S.

Cecilia, dove nel 1921 si diplomò in composizione sotto la guida di Ottorino

Respighi.

Fascista convinto, nel 1922 partecipa alla marcia su Roma. A quest’epoca

risalgono le sue prime composizioni musicali e l’esordio dell’attività di critico

musicale. Divenuto direttore musicale del teatro di marionette di Vittorio

Podrecca, compie numerosi viaggi, tra cui uno in Sudamerica. Dopo il

matrimonio con Elda Costantini si stabilisce definitivamente a Roma, dove si

impiega presso l’Ufficio plagi della SIAE (Società italiana degli autori ed

editori). Nel 1930 partecipa al Festival internazionale di musica

contemporanea di Venezia, presentando al teatro La Fenice il poemetto per

voce e pianoforte Chad Gadyà, ispirato a un canto della Pasqua ebraica. Ben

inserito, a dispetto delle proprie origini ebraiche, nel contesto delle

istituzioni musicali del regime fascista, da cui riceve prestigiosi incarichi,

Massarani riscuote un notevole successo di pubblico e di critica. Delle sue

composizioni quest’ultima esaltò in particolare gli aspetti legati al ritmo e alla

forma, il lirismo e gli spunti popolareschi delle melodie.

Nel 1938, in seguito all’introduzione delle leggi razziali, vengono meno il

prestigio e l’influenza di cui Massarani godeva presso il regime, che mette al

bando la sua musica (buona parte della quale verrà distrutta nel corso della

seconda guerra mondiale). Egli è costretto a lasciare l’Italia ed emigra in

Brasile. Stabilitosi a Rio de Janeiro, inizia a collaborare con la Radio nacional

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in qualità di orchestratore e con quotidiani e giornali come critico musicale.

Entra far parte dell’Academia brasileira de música.

Nel dopoguerra rifiuta la proposta di ritornare in Italia con la sua

riassunzione alla SIAE e impedisce l’esecuzione, la riedizione e l’accesso ai

manoscritti delle sue composizioni.

Muore il 28 marzo 1975 a Rio de Janeiro.

La maggior parte dei manoscritti di Massarani è custodita presso l’archivio

familiare e nel fondo a lui dedicato presso la Biblioteca nacional do Brasil.

Storia di Vittorio Mutti (1895)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Vittorio Mutti

Data di nascita: 13 luglio 1895

Luogo di nascita:

Luogo di residenza: Acquafredda (frazione di Mantova)

Professione: chierico seminarista

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Lettere dal fronte di Vittorio Mutti, pubblicate ne «Il Cittadino», 7 luglio e 9

agosto 1915; La morte del chierico Mutti, in «Il Cittadino», 16 gennaio 1916;

Gli imponenti funerali del chierico Mutti, in «Il Cittadino», 20 gennaio 1916.

Frammenti della storia di Vittorio Mutti, chierico teologo del Seminario di

Mantova, ci sono pervenuti attraverso due lettere che furono pubblicate sul

giornale cattolico di Mantova, «Il Cittadino», nell’estate 1915, e attraverso

due articoli, pubblicati sullo stesso quotidiano nel gennaio 1916.

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209

Il 7 luglio 1915, in una lettera indirizzata a don Tinelli di Acquafredda, egli

scrive:

M.R. Sig. Arciprete,

Deo gratias! Finalmente anche la posta militare è entrata nel suo giusto

binario! Ho ricevuto oggi due delle sue carissime lettere […]. Oh, quanta

consolazione, quanto coraggio mi infondono le sue nobili ed elevate espressioni!

Grazie, sig. Arciprete; anche qui alle trincee non de solo pane vivit homo. Però

mi fa meraviglia come ella, mentre di compiace del mio benestare, aggiunga: si

vera sunt exposita! Senta, è vero che non ci è concesso di dir tutto, ma le giuro

sul mio onore di soldato che quanto le scrivo di me corrisponde alla pura verità.

Forse le fa meraviglia la mia calma, la mia serenità, la mia costanza anzi il mio

entusiasmo?!... Veramente non so neppur io, come spiegare in me questo

fenomeno! Che vuole! Mi trovo proprio in grado di domandarle: ma quando

incomincia la guerra?!... Eppure tuona il cannone anche adesso, passano

cigolando sul capo gli shrapnel nemici, ma non mi scompongono. La mia

impassibilità desta meraviglia anche ai miei camerati e al mio tenente!... Del

resto per mantenersi in calma e nel morale non ci vuole una grande virtù. La

coscienza ed il sentimento del proprio dovere, Iddio poi fa il resto!

Sembra che i proiettili austriaci siano di carta pesta! Ci hanno sparati chissà

quanti colpi di cannone, senza mai cogliere nel segno e senza colpo ferire. Dal

primo sparo ci accorgiamo se il bersaglio siamo noi del Genio. Se sparano verso

noi andiamo a posto, in caso diverso si continua il lavoro di trincea osservando

e berteggiando con gioia i proiettili che scoppiano contro le rocce senza alcun

frutto. Stamane il cielo era nebbioso assai sotto di noi, giù per le valli sembrava

disteso un gran lenzuolo, e in alto avemmo la sorpresa di un aeroplano nemico.

Subito un nutrito fuoco di fucileria lo fece retrocedere in fretta ed io teneva

pronto, accarezzandolo, il mio moschetto, desideroso di forare un’ala a quella

poiana! Il cacciatore si trovava nel suo ambiente, ma non venne a tiro.

Noi lavoriamo quasi sempre di giorno, a fortificare e a far trincee, però nelle

posizioni in vista ai forti austriaci si lavora di notte e non vi è per noi del genio

nessun imminente pericolo. Ecco tutto. Mi affido però alle di lei preghiere,

mentre io ne sento e ne godo il frutto. Voglia far penetrare un po’ del di lei e del

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mio coraggio nel seno della mia famiglia; dica a mia mamma che sia calma,

rassegnata, tranquilla, che io ritornerò […]

Doveri ed affettuosi saluti dal suo dev. Vittorio.

Il 17 luglio egli scrive di nuovo a don Tinelli:

Carissimo sig. Arciprete,

è ormai tardi. L’ombra è scesa fitta sotto il bosco ove trovasi la mia tenda e

l’eco affannosa di Monte C. di P. non ripete più il rombo cupo e lugubre del

cannone, ma sembra riposare, come un gigante stanco. Tutto invita alla quiete,

ma il cannoniere e l’alpino audace vigilano attenti. […] Ma io non posso

aspettare il nuovo sole per rispondere alla sua carissima lettera del 12

corrente. Or quindi le scriverò da qui, appoggiato al fusto di un cannone che qui

mi vuol raccontare l’eroismo di cui fu spettatore. Scriverò mentre un mio

collega mi rischiara il foglio con cerini man mano accesi. Oh quanto è vero che

gli amici si conoscono nel momento del periglio! […].

La ringrazio signor Arciprete degli auguri fattimi in ricorrenza del mio

compleanno. Oh davvero! Se Lei non me lo ricordava qui in mezzo al fragore

della battaglia ed allo strepito delle armi mi sarebbe forse sfuggita, sarebbe

passata inosservata quella nota gentile! Eppure ho proprio compiuto, il 13

luglio, i miei vent’anni, compiuti qui in trincea, in un vespro rosso di sangue,

tragico, pensoso, col moschetto vibrante fra le mani! Ho compiuto i vent’anni

mentre le granate foriere di morte passavano sibilando sopra il mio capo! Ma

Iddio era con me!! È una realtà che in certi momenti non si ha nessun conforto

se non quello della Fede […].

Sono tentato talvolta di offrirmi volontario in alcune imprese arrischiate. Ma

poi penso ch’io non sono arbitro della mia vita, la quale è congiunta con altre

esistenze. Tuttavia tengo a dichiararle che se venissi comandato, non sarei io il

soldato pauroso che vorrebbe ritirarsi, ma ubbidirei fino al sacrificio!

E così fece. Il 6 settembre, mentre a capo di una squadra del Genio compiva

«una delicata e pericolosa mansione», rimase ferito da un proiettile dum-

dum. L’imperversare del fuoco nemico lo costrinse a restare tutto il giorno al

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suolo, tra i corpi dei compagni caduti. Appena poté, riuscì a trascinarsi

carponi in un luogo sicuro e a sottrarsi così alla mitraglia e a una pattuglia

nemica discesa per farlo prigioniero. La notte seguente restò accovacciato tra

i macigni, finché a giorno fatto venne avvistato e raccolto in fin di vita dalla

Croce Rossa. Fu ricoverato d’urgenza nell’ospedale di Padòla e poi a S.

Stefano di Cadore, da dove veniva trasferito a Milano nell’ospedale militare di

riserva. Apparentemente guarito dalle ferite riportate, fu dimesso e fece

ritorno a casa, ad Acquafredda. Morì il 14 gennaio 1920, a soli vent’anni, in

seguito a complicanze dovute ai frammenti di pallottola che non erano stati

estratti dal suo corpo. I solenni funerali di Vittorio Mutti si tennero ad

Acquafredda il 19 gennaio. Il parroco don Tinelli, con cui egli aveva

intrattenuto un’affettuosa corrispondenza dal fronte e che lo aveva assistito

amorevolmente durante la malattia, volle che fosse tumulato nella sua tomba

di famiglia.

Storia di Giuseppe Nardi (1896)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Giuseppe Nardi

Data di nascita: 17 maggio 1896

Luogo di nascita: Bozzolo (Mantova)

Luogo di residenza: Bozzolo (Mantova)

Professione: meccanico

Statura: 1,59 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,

matricola 4360; lettera di Giuseppe Nardi pubblicata ne «Il cittadino», 13

novembre 1915.

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Giuseppe Nardi, di Fausto e Clara Nardi, nasce a Bozzolo il 17 maggio 1896.

Alla visita di leva, effettuata il 24 settembre 1915 viene dichiarato abile a

arruolato di prima categoria. Il 21 novembre è chiamato alle armi e si

presenta al Distretto militare di Genova. È incorporato nel 94° Reggimento

Fanteria. Nell’autunno del 1915 egli scrive ai famigliari una lunga lettera

(pubblicata sul «Cittadino» di Mantova il 13 novembre), in cui descrive le

operazioni militari che tra al giugno e il novembre 1915 avevano visto

protagonista il 94° Fanteria nella zona di Plava (Slovenia). Plava fu infatti

teatro del Primo Balzo delle truppe italiane (il 5 giugno 1915 venne iniziato,

per opera della 3a Divisione, il passaggio dell'Isonzo) e della Prima battaglia

dell'Isonzo. Nei dintorni di Plava vennero poi combattute, tra il luglio e il

novembre del 1915 la Seconda battaglia dell’Isonzo e la Terza. Sono queste le

operazioni militari a cui Nardi fa riferimento nel proprio resoconto. Egli

scrive:

Genitori e fratelli carissimi,

mi perdonerete del mio lungo silenzio, tacendovi la mia vera posizione,

partendo dal confine per il fronte il 18 ottobre per portarci sotto il nemico per

l’avanzata generale sul Monte Cu[c]co. Non vi ho voluto dare questa notizia per

non rattristarvi di più, pensando a tante cose che mi potevano succedere.

Invece per grazia del buon Dio e della B.V. delle Grazie nulla mi capitò. Miei

cari, quando il giorno 17 ottobre vi domandai il pacco, credevo di rimanere

vicino a Cividale per un bel po’ di tempo, invece il giorno dopo partimmo,

portandoci a poco a poco vicino al nemico e il giorno 29 ottobre ci portammo,

passando l’Isonzo a Plava, subito in trincea di prima linea distante dal nemico

circa 100 metri. Il mangiare avevano paura di portarcelo, quindi mangiammo i

viveri di riserva e quelli dei caduti italiani e tedeschi. La razione era di mezza

pagnotta e una scatoletta di carne in conserva. Dei patimenti e sacrifici ne

abbiamo fatti abbastanza. La notte la passavamo nel fango o seduti su di un

sasso, tutti bagnati, continuando a far fuoco. Si dormiva poco essendo i

mangiasego a poca distanza e poi il freddo era abbastanza intenso. […]

Stamattina siamo sortiti dalle trincee sporchi e siamo andati a Plava e subito ci

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distribuirono la posta. C’erano tre cartoline, una lettera di Gino e il pacco. Ho

gradito tutto volentieri. Cara mamma, sono felice sapendo di essere scampato

ad un grave pericolo.

Dopo aver chiesto alla madre di far celebrare una messa alla B.V. delle Grazie,

una a S. Antonio da Padova e una alla Beata Paola Montaldi (di cui ella gli

aveva inviato «una reliquia») per esaudire un voto da lui fatto prima della

battaglia, Nardi prosegue:

L’avanzata che abbiamo fatto è stata iniziata coi… regg. Fanteria. Il nemico era

chiamato il reggimento di «Ferro» ed erano soldati quasi tutti decorati, per cui

era difficile andarci incontro e allora hanno pensato di mandarci due dei

battaglioni del mio reggimento che il 16 giugno ha fatto levare le gambe agli

austriaci nell’avanzata di Plava. Gli austriaci sono molto arrabbiati col mio

reggimento. Se potessero farne di prigionieri li maltratterebbero, ma di farli

prigionieri non hanno e non avranno mai la grazia.Il mio reggimento è formato

tutto di toscani, che sono tutti feroci cogli austriaci.

Alla mattina del lunedì 1 novembre alle 6 aprimmo il fuoco sul nemico e dopo

andammo all’assalto alla baionetta. Il primo battaglione andò davanti, poi

dietro il terzo; la mia compagnia fu l’ultima e quella che ebbe le perite

maggiori. […] Fatti circa cento metri incontrai i primi morti e feriti, ma via

sempre per portarci al coperto. Sotto alle trincee nemiche abbiamo riposato un

poco, poi con slancio piombammo con baionetta in canna nelle trincee nemiche,

facendo prigionieri tutti quelli che vi erano.

Saltai addosso subito ad uno anche io e di corsa lo portai giù, al comando e poi

pian piano mi portai nella trincea conquistata, riparandomi bene dalle

intemperie perché qui sempre piove.

In un punto ci rimasi 6 giorni e 6 notti per mantenere la buona posizione

conquistata. Ora non sono più nel pericolo partiamo ora non s per dove. Vi

mando tanti saluti e baci a voi tutti di famiglia. Se avrò la grazia di potervi

rivedere vi racconterò altre cose. Di nuovo tanti baci a tutti voi, vostro aff.mo,

Giuseppe.

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214

Il 7 dicembre 1915 scrive al fratello Gino, aggiornandolo sull’evoluzione della

situazione militare. I combattimenti che Nardi rievoca in questa lettera sono

quelli della Quarta battaglia dell’Isonzo (10 novembre-5 dicembre 1915), che

si concluse con la presa di Oslavia.

Mio carissimo Gino,

perdonami del mio ritardo nel darti notizie. La causa è questa: quando mi

trovavo nella zona di P… stavamo in attesa di cambiare posizione,

migliorandola, avendo bisogno di riposo. La sera del 22 novembre venne

l’ordine di partire all’istante per destinazione ignota. Noi soldati sapevamo di

andare in riposo ma invece si andava verso il nemico. Noi andavamo avanti lo

sesso contenti e arrivammo a S. F... Alla notte ci portammo sotto al nemico in

rinforzo a quelli davanti che stavano combattendo. Il giorno dopo ci portammo

in trincea distante qualche decina di metri dai mangia sego. Alle ore 11 circa il

nostro battaglione ebbe l’ordine di avanzare. Ci buttammo fuori e via al

galoppo per dare l’assalto alla baionetta. Fu subito una strage di tedeschi. La

posizione da prendere era difficile. Ci appostammo a circa dieci metri dal

nemico e riparandomi la testa dietro un sanno,cominciai il fuoco micidiale

insieme ai miei compagni. Le bombe a mano cadevano come la grandine ma

quasi tutte erano prese e rilanciate sul nemico, sicché si uccidevano con le loro

armi.

Combattemmo circa tre ore, poi con un magnifico assalto alla baionetta al

grido fatidico di «Savoia» piombammo sugli austriaci annientandoli.

Alla sera fummo ritirato per il freddo, ma il giorno dopo cominciò di nuovo

l’azione e riuscimmo di nuovo ad impadronirci delle trincee nemiche facendo

dei prigionieri.

Dunque come vedi, caro Gino, il tempo per scriverti era poco. Il paese che

abbiamo preso è O. ed ora siamo in attesa di andare in riposo e speriamo

questa volta sia riposo davvero.

Non abbiamo notizie di Nardi per il periodo compreso tra la fine del 1915 e

l’estate del 1918.

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215

Il 30 agosto 1918 il Tribunale militare di Ancona lo condanna per diserzione

a tre anni di reclusione. In virtù dell’articolo 12 del R.D. 21 febbraio 1919 è

amnistiato. Il 5 ottobre 1918 è incorporato nel 249° Reggimento Fanteria. Il

primo gennaio 1919 è trattenuto alle ami in forza dell’articolo 133 del testo

unico della legge sul reclutamento del Regio Esercito. Il 19 dicembre 1919 è

inviato in congedo illimitato.

Storia di Angelo Parrilla (1899)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Angelo Parrilla

Data di nascita: 1 maggio 1899

Luogo di nascita: Longobucco (Cosenza)

Luogo di residenza: Mantova

Professione: studente

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Le onoranze alla salma di Angelo Parrilla, decorato di Medaglia d’oro, in «Il

Giornale», Mantova, 25 novembre 1923; Roberto Mandel e Bruno Montanari

Storia popolare illustrata della Grande Guerra 1914-1918, volume V, Milano,

Armando Gorlini Editore, 1934; Federico Sacchi, Galleria dei Ricordi, in «La

Gazzetta di Mantova», 29 ottobre 1958; La M.O. Angelo Parrilla cadde nei

pressi di Conegliano, in «Fiamme Verdi», Periodico della sezione di

Conegliano dell’Associazione Nazionale Alpini, a. VIII, n. 5, settembre-ottobre

1968, pp. 1-2; Armando Rati, Dalle aule del Pitentino alle trincee. Storie di

Studenti Eroi nella Grande Guerra, Mantova, Sometti Editore, 2010, pp. 51-53.

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Angelo Parrilla nasce a Longobucco, in provincia di Cosenza, il 1° gennaio

1899, da Giuseppe e Zeffira Catalani, primo di 7 fratelli, 6 maschi e una

femmina. Il 19 agosto 1916 la famiglia si trasferisce a Mantova, dove Angelo

già risiedeva da qualche tempo per frequentare il R. Istituto Tecnico “Alberto

Pitentino”: la madre infatti era originaria di Mantova; il padre era militare di

carriera (apparteneva a un reggimento di cavalleria) ed era anch’egli nato a

Longobucco nel 1865.

Si arruolò volontario qualche mese prima dell’arrivo della cartolina,

interrompendo gli studi. Seguì il corso Allievi Ufficiali presso la Scuola di

Fanteria di Parma. Nel 1917, nominato Aspirante ufficiale di complemento, fu

destinato al 113° fanteria della Brigata “Mantova”. Subito inviato al fronte,

sull’Altipiano dei Sette Comuni, combatté in Val Granezza, a Monte Melago e a

Pria dell’Acqua, riportando una ferita alla gamba destra. Dopo un breve

ricovero ospedaliero, rientrò al reggimento. Promosso Sottotenente, ai primi

di giugno raggiunse Carmignano di Brenta e quindi Selva del Montello e prese

parte alla battaglia del Piave, detta anche del Solstizio. Durante la battaglia,

scriveva alla madre: «Certo io non so come sia vivo; Tu mamma certamente

in quei momenti pensavi a me, e ciò mi ha salvato. Ho condotto i miei uomini

per ben sette volte all’assalto e tre al contrattacco! Abbiamo ancora salvato la

nostra Patria!».

Il giovanile entusiasmo lo spinse nell’agosto successivo a chiedere

l’assegnazione ai reparti “Arditi”, che ottenne: ai primi di ottobre fu destinato

al VI Reparto della 2a Divisione d’assalto. In un articolo pubblicato il 29

ottobre 1958 su «La Gazzetta di Mantova», Federico Sacchi, classe 1896,

ufficiale combattente della Brigata Mantova e invalido di guerra, così rievoca

il proprio incontro con Parrilla: «Ci stringemmo con effusione la mano e ci

abbracciammo. Mi accorsi subito che le sue mostrine non erano le verde-

giallo della Mantova, divisione alla quale anche lui avrebbe dovuto

appartenere. Erano bianche con il filetto verde del 72° Rgt. Gli chiesi: Sei del

113° e usi le mostrine deI 72°? - Mi rispose: La mia domanda è stata inoltrata

con parere favorevole al comando di divisione e spero che tra breve mi

assegneranno al Reparto divisionale degli Arditi.”

Il mattino del 24 ottobre ebbe inizio la battaglia di Vittorio Veneto con

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l’attacco al Grappa, di cui il cruento scontro in cui Parrilla perse la vita, viene

considerato l’ultimo episodio. Parrilla, che alle prime ore del mattino del 29

ottobre aveva attraversato il Piave con la propria pattuglia per poi puntare al

Castello di Susegana, cadde in località Costabella, frazione di Conegliano

Veneto (Treviso), nel corso di un assalto a una fattoria in cui era asserragliato

un manipolo di soldati austriaci. L’edificio è stato identificato nella casa

colonica di proprietà della famiglia Dal Col, adiacente alla villa padronale a

quel tempo di proprietà della nobildonna Antonietta Zandonella Dall’Aquila

vedova Del Giudice (sul muro est della casa è tuttora affissa una lapide che

ricorda il fatto d’arme).

Sulla base delle testimonianze pervenuteci, tra cui quella del signor Enrico

Bozzoli di Conegliano Veneto, raccolta nel 1968, è possibile ricostruire la

dinamica dello scontro e le circostanze della morte del giovane studente

mantovano. Bozzoli sostiene tra l’altro che l’episodio si verificò il 29 ottobre e

non il 28, come concordemente riportato da tutte le fonti ufficiali (compresa

la motivazione della Medaglia d’oro). Quel giorno Angelo Parrilla si era spinto

con i suoi cinque arditi verso Costabella. Giunti nell’aia della casa dei Dal Col,

gli arditi si erano portati dietro il pozzo e quando Parrilla alzò la testa per

accertarsi della presenza dei nemici, questi aprirono il fuoco dall’interno

dell’edificio; il giovane ufficiale scrisse rapidamente un biglietto con la matita

e lo diede a uno dei suoi uomini per l’immediato inoltro al comandante. Poi,

approfittando di un attimo di tregua del fuoco di fucileria, assaltò d’un balzo

la casa con i restanti quattro arditi; la lotta dei pochi valorosi fu disperata

contro gli avversari in superiorità numerica. Atterrata la porta, il

sottotenente irrompe innanzi a tutti, il pugnale levato. Un ufficiale lo affronta

e rimane ucciso. Ma Parrilla viene assalito a propria volta a colpi di pugnale e

cade. Sopraggiunsero di lì a poco i rinforzi, allertati dal biglietto del giovane

eroe, e l’avanzata riprese aprendo la strada alle brigate «Sassari» e «Bisagno»

che alla mezzanotte di quel giorno entrarono in Conegliano.

Bozzoli scrive: «La mattina del 30 ottobre resi visita di omaggio commosso al

caduto italiano, composto e sereno nella pace eterna, disteso sul pavimento, con

ai lati due soldati austriaci pur essi morti, composti. Nessuno dei caduti

presentava all’apparenza visiva lacerazioni o strazio delle carni o degli

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indumenti; le sembianze dei visi, della testa e delle mani, davano positiva

dimostrazione che la morte avvenne violenta per proiettile o scheggia di bomba

nel tronco la cui penetrazione difficilmente appariva negli indumenti, anch’essi

privi di rilevanti macchie di sangue».

Angelo Parrilla è una delle quattordici medaglie d’oro assegnate ai Ragazzi

del ’99. La motivazione della decorazione recita: «Chiesto ed ottenuto il

comando della pattuglia di punta, composta da cinque arditi, alla testa di essa

precedeva il proprio reparto d’assalto. Avuto sentore della presenza di

imprecisate forze nemiche in un fabbricato, dopo averne mandato sollecito

avviso al proprio comandante, risolutamente e per primo si slanciava nel

fabbricato stesso, affrontando ne con insuperabile audacia, a colpi di bomba a

mano, i difensori di gran lunga più numerosi. Alla violenta reazione di questi,

impegnava, insieme coi suoi, una accanita mischia, corpo a corpo, abbattendo

un ufficiale avversario. Pugnalato a sua volta, continuava disperatamente, coi

suoi arditi, nella strenua ed impari lotta, mettendo fuori combattimento

numerosi nemici, finché crivellato di colpi, gloriosamente cadde, fulgido

esempio di eroico valore. Castello di Susegana 29 ottobre 1918. Bollettino

uff.— disp. 91 del 1919».

Il 25 novembre 1923 la salma di Angelo Parrilla, proveniente dal cimitero di

Conegliano, fu traslata a Mantova. Un manifesto pubblicato dal Comune di

Mantova annunciava l’evento: «Cittadini! Dalla zona di guerra dove col suo

sangue segnò i nuovi confini della Patria, torna, esamine spoglia, il tenente

Angelo Parrilla , Medaglia d’oro al V.M. Studente del nuovo R. Istituto Tecnico,

Ufficiale degli Arditi, ebbe sempre vivo il culto dell’ideale, sempre ardente la

fede nel grande avvenire d’Italia. Oggi, accogliendo con rito solenne la Salma

del giovane generoso, piegando sul Suo feretro tutte le nostre bandiere, noi

riaffermeremo la gratitudine della Nazione verso uno dei più puri e nobili

eroi che alla Gran Madre nell’ora del supremo cimento, diede in olocausto la

vita. E questo omaggio reverente esprima l’anima di tutta la Patria che

rinnovellata da sacrificio, consacra nei secoli il nome e la gloria dei suoi figli

migliori».

La cittadinanza partecipò numerosa e commossa alla celebrazione, la cui

cronaca fu pubblicata dal «Giornale» di Mantova: «Il feretro, portato fuori dal

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tempio a spalle da decorati e da ex compagni di scuola del povero

“Angiolino”, era stato posto su un affusto di cannone tirato da sei cavalli

montati da artiglieri. Sopra la bara avvolta nel tricolore, era stato collocato il

ritratto di Parrilla, ornato di fronde di alloro. Nel piazzale dei giardini aveva

espresso l’accorato saluto della cittadinanza il Sindaco, quello delle forze

armate il generale che comandava il presidio. Il padre Giuseppe, trattenendo

a fatica le lacrime, si inginocchiò e abbracciò per l’ultima volta a bara».

Due anni dopo, la salma fu traslata per la definitiva sepoltura nel sacello che

veniva allora consacrato.

Storia di Aspero Diofebo Preti (1898)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Aspero Diofebo Preti

Data di nascita: 19 aprile 1898

Luogo di nascita: Sermide (Mantova)

Luogo di residenza: Sermide (Mantova)

Professione: portalettere

Statura: 1,63 m

Capelli: neri lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,

matricola 13245.

Aspero Diofebo Preti, di Vittorio e madre ignota, nasce il 19 aprile 1898 a

Sermide.

Alla visita di leva effettuata il 30 novembre 1917 è dichiarato abile e

arruolato di prima categoria. Chiamato alle armi per mobilitazione il 15

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gennaio 1918, è incorporato nell’80° Reggimento Fanteria. Denunciato per

reato di diserzione al Tribunale militare di guerra dell’Intendenza della

Quinta armata, il 16 maggio è condannato a due anni di reclusione.

L’esecuzione della pena è sospesa per la durata della guerra. Il primo giugno

1918 è incorporato nel 28° reggimento fanteria mobilitato. Il 18 giugno è

ferito in combattimento a Collalto,: per la precisione, è colpito da pallottola di

fucile al pollice sinistro. Viene ricoverato nell’ospedale di Bologna. Il primo

dicembre 1919 è inviato in congedo illimitato perché riconosciuto

permanentemente inabile al servizio militare. Il 20 dicembre 1922 sono

dichiarati cessati per amnistia l’esecuzione e gli effetti penali della condanna

inflittagli nel 1918.

Storia di Giuseppe Previdi (1896)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Giuseppe Previdi

Data di nascita: 20 febbraio 1896

Luogo di nascita: Castelbelforte (Mantova)

Luogo di residenza: Castelbelforte (Mantova)

Professione: contadino

Statura: 1,62 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, Sezione provinciale di

Mantova, serie “39. Mantova deceduti”, busta “da Ponzi a Priori”.

Giuseppe Previdi nasce il 20 febbraio 1896 a Castelbelforte (Mantova), da

Ariodante e Rosa Zanardi.

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Soldato di leva di prima categoria in congedo illimitato, il 23 novembre 1915

viene chiamato alle armi e incorporato nel 24°, quindi nel 212° Reggimento

Fanteria. Il 30 agosto 1917 viene ferito in combattimento a Hoje, nell’attuale

Slovenia. Riporta una ferita da pallottola e una frattura al braccio destro. È

ricoverato in luogo di cura, quindi inviato in licenza straordinaria di sei mesi.

Il 22 giugno 1918 rientra al Deposito. Il collegio medico di Chieti, che in data

18 luglio 1918 lo sottopone alla visita, riscontra una perdita della

funzionalità delle dita della mano destra, un’atrofizzazione dell’avambraccio

e una semianchilosi del gomito destro e gli assegna una pensione vitalizia di

terza categoria. Nel luglio del 1919 è congedato perché riconosciuto

permanentemente inabile al servizio militare. Nel dopoguerra è autorizzato a

fregiarsi del Distintivo d’onore istituito con circolare 182 G.M. 1917 e della

Croce al merito di Guerra e del Distintivo d’onore per mutilati.

Informazioni relative alle operazioni militari a cui Previdi prese parte in

qualità di ciclista e porta ordini nel 1916 sono desumibili da un rapporto

informativo redatto il 19 maggio 1936 dal colonnello Giulio Pirola, che nel

1916 comandava il 3° Battaglione del 212° Reggimento Fanteria. Pirola

asserisce che Previdi partecipò, tra l’altro, alla conquista del trincerone del

Sabotino situato tra il fortino e la valle ???? e alla conseguente cattura di 800

prigionieri (7 agosto 1916); al passaggio dell’Isonzo a sud di S. Marco sopra

una passerella costruita con materiali di fortuna (9 agosto); alla conquista

della posizione di Santa Caterina, avvenuta alle prime ore del mattino dell’11

agosto. Il colonnello ricorda inoltre che il Previdi lo accompagnò, con pochi

altri, «in una arrischiata ricognizione eseguita sulle pendici nord-ovest del

Sabotino e sul fondo valle dell’Isonzo tra S. Marco e Plava». In seguito al

trasferimento sul Carso del 212° Reggimento, «Previdi – attesta il colonnello

– partecipò con esso alle azioni per la presa di Nova Vas e Hudi Log».

Ulteriori dettagli fornisce il capitano di complemento Umberto Prato, che il

25 aprile 1936 indirizza alla Sezione provinciale di Mantova

dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra una dichiarazione

relativa al servizio prestato da Previdi nel 3° Battaglione del 212°

Reggimento Fanteria tra il giugno 1916 e l’agosto 1917. Egli descrive il

giovane soldato mantovano come un «giovane pieno di amor patrio, vivace,

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ardimentoso e molto preciso nel disimpegno degli incarichi a lui affidati». Il

capitano Prato ricorda in particolare che Previdi ebbe modo di dimostrare il

proprio valore in tre occasioni: dapprima «nelle epiche giornate della presa

di Gorizia (6-16 agosto 1916) specie per la conquista della collinetta di S.

Caterina, alle falde del monte S. Gabriele»; quindi «nei sanguinosi

combattimenti sul Carso, davanti alle posizioni di Oppachiosella [Slovenia]

(19 settembre-18 ottobre 1916); infine «nelle giornate di asprissime lotte

sostenute sull’altopiano della Bainsizza davanti alle posizioni di Hoje e di

Veternik dal 27 agosto 1917 in poi». Fu in quest’ultimo frangente – ricorda il

capitano Prato – che Previdi, incaricato di portare ordini del Comando di

Reggimento ai rispettivi Comandi di Battaglioni «noncurante del pericolo,

sotto nutrito fuoco nemico di artiglieria, mitragliatrici e fucileria, rimase

ferito da pallottola di fucile riportando frattura dell’osso del braccio destro,

che – scrive Prato – ricordo come se fosse ora, gli fasciai io stesso alla men

peggio facendo uso del suo e del mio pacchetto di medicazione». Prato

aggiunge infine: «Buono ed affezionato i ricordò nei primi tempi di degenza

in ospedali scrivendomi con mano sinistra, poi non ebbi più notizie».

Dal fascicolo conservato presso l’archivio dell’ANMIG non è dato sapere della

vita che Previdi condusse dopo la conclusione del conflitto. Sappiamo solo

che nel secondo dopoguerra egli risiede a Milano, in corso Roma n. 23, e

svolge la professione di impiegato. Nel fascicolo è inoltre contenuta una

lettera manoscritta che Previdi inviò inviata il 25 ottobre 1948 al presidente

dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invaldi. Previdi vi stigmatizza un

discorso tenuto pochi giorni prima (23 ottobre) dal deputato Ivan Matteo

Lombardo e riportato sul giornale «Avanti!». A parere dell’estensore della

lettera, Lombardo aveva espresso «giudizi offensivi che ledono l’onorabilità

dei mutilati di guerra e dei reduci là, ove precisamente dice che le aziende

sono gravate anche dalle imposizioni per l’assunzione obbligatoria dei

mutilati e dei reduci». Previdi sollecitava il presidente dell’ANMIG a levare

«formale vibrata protesta per questi insulti» nella convinzione che essa

sarebbe stata approvata «dalla gran massa dei mutilati e reduci».

Storia di Vittorio Renoldi detto Belòchio (1894)

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Dati anagrafici:

Nome e cognome: Vittorio Renoldi detto Belòchio

Data di nascita: 3 ottobre 1894

Luogo di nascita: Acquanegra sul Chiese (Mantova)

Luogo di residenza: Acquanegra sul Chiese (Mantova)

Professione: contadino

Statura: 1,69 m

Capelli: biondi e lisci

Occhi: grigi

Fondi di riferimento:

Testimonianza orale di Vittorio Renoldi raccolta da Gianni Bosio ad

Acquanegra l’11 dicembre 1965. Il nastro originale è conservato presso

l’Istituto Ernesto De Martino di Firenze, Fondo Ida Pellegrini; una versione

parziale del racconto è contenuta nel disco 33 giri Addio padre. La guerra di

Belochio, di Palma e di Badoglio, a cura di P. Boccardo, G. Bosio, T. Savi,

Milano, Edizioni del Gallo, 1966. La trascrizione del racconto in dialetto

acquanegrese e la traduzione in italiano si trovano in Gianni Bosio, Il trattore

ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, a cura di

C. Bermani, Bari, De Donato, pp. 45-56. Altre informazioni sulla

partecipazione di Belòchio alla guerra sono state desunte da: Archivio di

Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg. 447, n. 31;

Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,

matricola 33290; Tullio Savi, Vittorio Renoldi detto Belòchio, in «La Comune

di Acquanegra sul Chiese», Bollettino non periodico della Lega Culturale, 16

ottobre 1966, pp. 8-9.

Vittorio Renoldi nasce ad Acquanegra sul Chiese il 3 ottobre 1894 da Leandro

ed Erminia Facchinelli. Il 16 maggio 1914 viene sottoposto alla visita di leva

ed è dichiarato abile e arruolato di prima categoria. Dopo essere stato inviato

in congedo illimitato, nel settembre dello stesso anno è rinviato in congedo

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provvisorio in attesa del congedo del fratello Guglielmo della classe 1890. Il 5

novembre 1914 è chiamato alle armi per effetto del comma 2 della Circolare

1907 del Giornale militare 1914 ed arruolato nel 6° Reggimento Fanteria. In

seguito allo scoppio del conflitto viene trattenuto alle armi. Il 5 giugno 1917 è

incorporato nel 139° Reggimento Fanteria. Apprendiamo dalla testimonianza

di Gianni Bosio che Renoldi combatté sul Carso, a Cervignano, a Monfalcone

al Sabotino, a Seibusi, a Gradisca, a Grado, a Sagrado, a Doberdò, a Dosso Faiti.

Lo stesso Bosio riferisce che egli si distinse «per coraggio e astuzia anche fra

gli Arditi».

Nell’agosto 1917 viene mandato in licenza e fa ritorno ad Acquanegra. Il 31

agosto dello stesso anno è imputato del reato di diserzione e denunciato al

Tribunale di guerra. Pochi giorni dopo, il 7 settembre, si presenta

spontaneamente al corpo, ma il 23 ottobre viene comunque condannato a

due anni di reclusione. L’esecuzione della pena viene sospesa per la durata

della guerra. Il 13 novembre 1917 passa in forza al deposito del 10° Fanteria

perché ricoverato nell’Ospedale militare di Torino. Il 30 dicembre è inviato in

licenza straordinaria di convalescenza per giorni 11 e il successivo 16

gennaio rientra al corpo con giustificato ritardo. Dopo la conclusione della

guerra, il 3 luglio 1919, lo troviamo ricoverato all’Ospedale militare

principale di Verona. Nell’agosto successivo è inviato in licenza di

convalescenza di sei mesi. Rientrato al deposito nel febbraio 1920, alla fine di

marzo è ricoverato all’Ospedale militare di Torino. Gli viene concessa una

nuova licenza di convalescenza di sei mesi, al termine della quale rientra al

deposito. Il 26 ottobre 1920 è inviato in congedo illimitato.

Ricorda Gianni Bosio che ad Acquanegra sul Chiese negli anni del dopoguerra

i bambini trascorrevano le sere d’estate ad ascoltare le «interminabili storie»

narrate dai reduci: «non fatti, episodi, cronache, ma lunghe fabulazioni, come

per racchiudervi l’arco delle sofferenze. Fango e pidocchi, gelo e acqua, e la

fame, una grande fame, e la paura dei cecchini e il terrore dei tedeschi».

Belòchio, dotato dell’arte di raccontare, è tra questi cantori. Quando rientra

ad Acquanegra dopo il congedo, comincia a narrare ai compaesani le proprie

peripezie. «Ascoltate signori chi sono i vigliacchi colpevoli di questa guerra»:

così egli esordiva, apostrofando il pubblico. Dopodiché cominciava a cantare,

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accompagnandosi con l’organetto, la canzone Ascoltate o popolo ignorante

(sull’aria di Addio padre). L’11 dicembre 1965 Gianni Bosio registrò al

magnetofono la performance di Belòchio. Bosio registrò anche la narrazione,

fatta da Belòchio in dialetto acquanegrese, di quando egli fu imputato di

diserzione e mandato davanti al tribunale di guerra (una versione parziale

del racconto è compresa nel disco Addio padre).

Sappiamo dunque che nell’agosto 1917 Belochio, «che si era battuto dal

primo giorno sul Carso», viene mandato in licenza. Egli decide di prolungare

il soggiorno di qualche giorno per aiutare – egli dice – la famiglia nei lavori di

campagna (ma anche, puntualizza Bosio, «per stare con gli amici, andare in

giro a bere, cantare fino a notte tarda»). Alla fine si mette in viaggio, con altri

sette o otto compaesani, per far ritorno al fronte. Ma fa poca strada, perché al

ponte sul Chiese di Canneto una pattuglia dei carabinieri lo ferma e gli chiede

di esibire la licenza. Belòchio, sapendo che «gh’éra l’urden de Cadorna che

dopo ventiquatr’ure de ritàrt i’a tiràa iò de la sguasa [li fucilavano]»,

tergiversa per un po’, ma a fronte delle insistenze dei due carabinieri, li

aggredisce e li disarma. A questo punto dice ai compagni di scappare per la

strada che portava a Calvatone; quanto a lui si sarebbe diretto verso Piadena.

Rientrato al reparto, il capitano, che gli voleva bene, (mentre il maggiore non

lo poteva vedere a tal punto che – dice Bèlochio – «’ulie cupàal, ma ghe lo mai

caada» [volevo ammazzarlo ma non ci sono mai riuscito]) lo interroga sulle

ragioni del ritardo. «G’ò la famìa, l’è en disàster, i gh’ìa bisogn» - risponde

Vittorio. Due giorni dopo viene arrestato e informato da un caporale che

sarebbe stato processato: «o vaca madona!» esclama Belòchio, che confessa:

«g’ò ciapàt ‘na püra e sè che sie iü de quèi spiritùs». In attesa del processo,

Vittorio sconta ventiquattro giorni di carcere a Sacileto [forse Saciletto i

provincia di Udine]. Il giorno del processo – egli racconta – «i ne tira fora d’en

suteràneo en quatòrdes […] ligàt cu la cadena cusè du per du». Vittorio viene

interrogato per dodicesimo (i primi dieci imputati erano stati condannati alla

fucilazione e l’undicesimo all’ergastolo). Un colonnello, puntandogli addosso

un «canüciàl» (Belòchio allude forse a un monocolo), sentenzia: «a casa avete

fatto i vostri porchi comodi e qua li sconterete». Lo salva dalla condanna a

morte la «buonacondotta» che egli aveva tenuto sino ad allora, confermata

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dal suo capitano, che nel proprio rapporto aveva assicurato che il soldato

Renoldi si era sempre distinto negli attacchi. Viene condannato a vent’anni,

poi commutati a due. Nei mesi successivi alla sentenza, ogni qual volta si

teneva una fucilazione di un soldato condannato a morte, Belòchio viene

chiamato a presenziare: «se te gh’ìet mia mangià, te ‘egniet a casa te mangiaet

mia po’» , così egli commenta lo spettacolo raccapricciante a cui era costretto

ad assistere. Un giorno davanti al plotone di esecuzione passa un soldato di

Parma, che Belòchio conosceva:

«l’era lò sentàt su la scragna cusè, l’à saludàt toc i so pütei, l’à ciamàt el prim

pütèl – el ghe n’ìa tré u quater – so muiér so pader e so mader e po’ dòpu el

g’à dumandàt la gràsia de daga ‘na sigarèta, àrda la sént de forsa, la gente

forte, l’à tiràt do canade e po’ el gà dìt “sparate vigliacchi italiani”». Quando

fucilano un uomo, conclude Belòchio di fronte a tanto orrore, «la tèsta la vò

en taint tòc, en tanc tuchelì».

Storia di Mario Renzanigo (1898)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Mario Renzanigo

Data di nascita: 1898

Luogo di nascita:

Luogo di residenza:

Professione: studente

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

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Necrologio apparso su «La Provincia di Mantova», 17 giugno 1919; Caduti e

decorati di guerra mantovani, 1915-1918, Mantova, Editrice S.T.E.M., 1922, p.

98.

Mario Renzanigo, fu Luigi, classe 1898, studente del Regio Istituto Tecnico “A.

Pitentino” di Mantova, allo scoppio della guerra interruppe gli studi e si

arruolò volontario. Ciclista ad Ala, aspirante ufficiale dei Bersaglieri sul

Carso, fu ancora aspirante sul Monfenera, dove conquistò la medaglia

d’argento, quindi sottotenente a Zenzon. Promosso tenente, il 17 giugno 1918

«cadeva fra le opposte linee sull’Ecchele in quella mirabile difesa degli

altipiani e restava là nel tumultuare della battaglia con la spina dorsale

spezzata, senza soccorsi, finché lo riportava nelle nostre file il suo caporal

maggiore tra il fuoco infernale delle mitragliatrici. E aveva ancora tanto

animo da confortare il caporale: “Coraggio Tiberi, presto tornerò fra voi!”. Ma

non tornò». Quando giunse all’ospedale di Fontanella di Conco era già spirato.

Aveva 19 anni e mezzo.

Il suo nome è inciso sulla lapide collocata il 9 maggio 1937 nell’atrio

dell’Istituto Tecnico Pitentino in onore dei 35 studenti dell’ITES caduti nella

prima guerra mondiale. La lapide recita «Morti per la patria rivivono qui

donde mossero al sacrificio e alla gloria MCMVX-MCMXVIII».

Storia di Oliviero Sandri (1898)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Sandri Oliviero

Data di nascita: 6 aprile 1898

Luogo di nascita: San Giovanni in Persiceto (Bologna)

Luogo di residenza: Mantova

Professione: studente

Statura: 1,74 m

Capelli: castani e lisci

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228

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

484/239; Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli

militari, matricola; Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano (AR), lettere di

Oliviero Sandri alla famiglia (1915-1922).

Oliviero Sandri, di Luigi e Silvia Piazzi, nasce a San Giovanni in Persiceto il 6

aprile 1898. Il 3 febbraio 1917, egli viene dichiarato abile e arruolato di

prima categoria «senza visita perché arruolato volontario per la durata della

guerra nel 114° Reggimento Fanteria». Allo scoppio della guerra, nel 1915,

Sandri, infiammato da spirito patriottico, si era infatti arruolato volontario,

contraffacendo il proprio documento d’identità. Scoperta la sua vera età, egli

viene rinviato a casa. Riparte l'anno dopo per andare in trincea, vive la disfatta

di Caporetto e la resistenza sul Piave, fino alla vittoria. Della storia di Oliviero

Sandri sono straordinario documento le molte lettere che egli inviò dal fronte

ai famigliari tra il 1915 e il 1922. Non è stato possibile visionare la

documentazione, conservata presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano,

ma si è scelto comunque di redigere una brevissima biografia di Sandri, la cui

vicenda, in virtù della propria singolarità e della rilevanza della

documentazione pervenutaci, potrà essere approfondita nella prospettiva di un

ulteriore sviluppo del progetto Giovani 14.

Storia di Antonio Soldi (1896)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Antonio Giuseppe Francesco Soldi

Data di nascita: 7 novembre 1896

Luogo di nascita: Castel d’Ario (Mantova)

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229

Luogo di residenza: Castel d’Ario (Mantova)

Professione: studente in medicina

Statura: 1,70 m

Capelli: neri e lisci

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,

b. 1 (1896-1900).

Antonio Giuseppe Francesco Soldi nasce a Castel d’Ario il 7 novembre 1896

da Arnaldo Stefano Soldi e Teresa Maria. Soldato di leva di prima categoria

lasciato in congedo illimitato il 14 settembre 1915, nel no, il 23 novembre

dello stesso anno Soldi, allora studente in medicina, viene chiamato alle armi

e arruolato con il grado di caporale nella 4a Compagnia Sanità con la

mansione di aiutante. Il 22 marzo 1916 viene promosso sergente. Il 4 giugno

1916 viene inviato in zona di guerra in servizio presso il 35° Ospedaletto da

campo someggiato dislocato a Drezenca, zona Monte Nero di Caporetto. Il 25

ottobre 1917, in seguito alla battaglia e alla successiva rotta di Caporetto,

viene fatto prigioniero. Rimpatriato dalla prigionia il 20 ottobre 1918 e

trattenuto alle armi per mobilitazione in forza dell’articolo 133 del Testo

Unico delle leggi sul reclutamento del regio esercito, il 14 gennaio 1919 è in

servizio presso il Campo di concentramento ex prigionieri di guerra di

Mirandola. Il 7 febbraio 1919 gli è concessa una licenza speciale di sei mesi;

nel dicembre 1919 è inviato in congedo illimitato.

Il 3 luglio 1921 consegue la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università

di Bologna. Dal primo gennaio 1928 è Direttore Primario presso l’Ospedale

Civile di Gonzaga e, a decorrere dalla stessa data, a Gonzaga presta servizio

come medico chirurgo. Il 29 gennaio 1935 consegue il diploma di

specializzazione di Pediatria presso l’Università di Modena. Il 20 aprile 1939

è dispensato dal richiamo alle armi per mobilitazione in quanto medico

chirurgo di Gonzaga. Il 13 febbraio 1941 è destinato all’Ospedale Militare di

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Padova per servizio di prima nomina della durata di un mese, che espleta

effettivamente tra il maggio e il giugno 1941. Il tenente colonnello medico

Saverio Versori, che in data 1 primo settembre 1941 redige il profilo

caratteristico del tenente Soldi, lo descrive come un «esperto chirurgo, dotato

di buona coltura e di buona tecnica, agguerrito da lunga pratica. […] Modesto

– precisa il relatore – sa farsi rispettare ed amare dai colleghi e dal personale

dipendente per la sua attività, per la sua educazione e per i suoi sentimenti

patriottici».

Il 2 febbraio 1942 Soldi consegue la specializzazione in Ortopedia presso

l’Università di Milano.

Il 13 dicembre 1951, in forza della Circolare ministeriale n. 0/200/3 S.G.

aprile 1950, riceve un rimprovero da parte del Ministero della Difesa per

aver giurato fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana.

Storia di Maro Taraschi (1895)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Mario Taraschi

Data di nascita: 3 febbraio 1895

Luogo di nascita: Gazoldo degli Ippoliti (MN)

Luogo di residenza: Gazoldo degli Ippoliti (MN)

Professione: «impiegato avventizio» (all’epoca della sua associazione

all’ANMIG, nel 1921)

Statura:

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Relazione di Guerra del mutilato Taraschi Mario, in Archivio dell’Associazione

Mutilati e Invalidi di Guerra, Sezione provinciale di Mantova, Serie “Soci

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morosi 1863”, busta M-Z, fascicolo “Taraschi Mario”. La relazione non è

datata, ma sulla base di riferimenti testuali (riferimento al sistema

podestarile) e di altri documenti conservati nel fascicolo a lui intetstato,

possiamo supporre che sia stata redatta nel 1930 circa. La relazione consta di

27 pagine dattiloscritte.

Nato a Gazoldo degli Ippoliti (MN) il 2 febbraio 1895 da Taraschi Calpurnia e

da padre ignoto. Arruolatosi volontario nel Regio Esercito nel 4° Battaglione

Ciclisti-Torino del 4° Reggimento Bersaglieri, il 1 giugno 1915 partì per

Spilimbergo sul Tagliamento (Pordenone), ove rimase fino alla metà di

agosto del 1915. Il 4° Battaglione Bersaglieri Ciclisti fu quindi destinato a

Ronchi di Monfalcone (Gorizia): qui restò fino al 19 ottobre 1915. Nella sua

relazione Taraschi narra alcuni episodi di guerra, in cui trovarono la morte

propri commilitoni, tra i quali il bombardamento del palazzo del Comando di

Divisione in cui perse la vita il caporale Cesare Azzi (classe 1893) di

Castellucchio di Mantova. Un altro episodio ebbe luogo ai primi di settembre,

quando in prima linea «infierivano gli attacchi e i contrattacchi». Taraschi,

che era stato posto a capo della guardia che doveva prestar servizio al bivio

per Ronchi e Monfalcone, avvistò l’auto reale, con a bordo «S.M. IL RE

D’ITALIA», appressarsi al bivio: si affrettò a schierare la guardia e a ordinare

il presentat-arm in onore al sovrano, ma l’auto non era ancora arrivata al

bivio quando il sopraggiungere di un proiettile costrinse il drappello

capeggiato da Taraschi a rifugiarsi in un fossato vicino. Uscito dal rifugio, egli

vide l’auto reale «mentre faceva la curva della strada avendo così certezza

che nulla di grave era avvenuto».

Il 19 ottobre il battaglione a cui apparteneva Taraschi fu mandato in prima

linea, in località Cave di Seltz: «Partimmo con animo sereno – egli scrive – e

persuasi che l’ora era giunta per dar alla patria quanto chiedevaci». All’alba

del 21 ottobre partirono per andare a occupare la posizione loro assegnata:

«Si camminava curvi e quasi strisciano a terra per tenerci nascosti il più

possibile». Nell’ascesa furono superati da un reggimento di fanteria, di cui

faceva parte un soldato, il quale, sentendo Taraschi parlare in dialetto

mantovano, lo riconobbe quale suo compaesano: «mi chiese: di dove sei?

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Mantovano, di Gazoldo degli Ippoliti, Anch’io diss’egli e pronunciammo il

nome e cognome, ma non ci conoscevamo, egli abitava al capoluogo ed il

sottoscritto alla frascione [sic] e nulla più si disse perché il suo reparto

cominciò a salire. Questi era Corradini Otello, l’attuale podestà di Gazoldo

degli Ippoliti».

Il plotone, di cui Taraschi faceva parte, piazzato «in un punto di fronte al

monte Cosich», subì svariate perdite. Poiché i soldati semplici erano quasi

tutti feriti, il sergente mandò Taraschi di vedetta, sebbene quest’ultimo fosse

caporale. La postazione che egli occupava cominciò ben presto a esser colpita

dal fuoco nemico: «di quando in quando guardavo dalla feritoia – egli ricorda

– ed il nemico ben presto s’accorse che ero troppo imprudente e ciò a mezzo

degli apparecchi che dicevasi fosse provvisto e che certo è a ritenersi verità

perché subito venni fatto segno a fucilate». Alle fucilate seguirono le bombe;

la quarta andò a battere contro la mura costruita con sacchetti pieni di sassi,

che si trovava alle spalle di Taraschi: «Qui posso dire – egli osserva – che lo

spirito di presenza tante volte salva da morte certa»: portatosi istintivamente

il braccio dietro la nuca, a protezione di quella parte del capo che non era

coperta dall’elmetto, una scheggia gli colpì l’avambraccio sinistro. Dopo che

gli fu prestato un primo soccorso al Posto di medicazione, Taraschi fu inviato

all’ospedale di Terzo e da qui, con il treno ospedale, a quello di Cremona

Seminario, dove fu sottoposto a un’operazione chirurgica per l’asportazione

della scheggia. A Cremona ricevette la visita dei propri famigliari. Venne

quindi trasferito all’ospedale di Nocera Pagani, in provincia di Salerno. Dopo

dieci giorni di licenza, fece ritorno al Deposito del 4° Bersaglieri a Torino, ove

rimase per due mesi perché ritenuto «inabile alle fatiche di guerra». Ai primi

di luglio del 1916 fu inviato al fronte, a rinforzo del 2° Battaglione Bersaglieri

Ciclisti, schierato in Trentino. Dopo poco il 2° Battaglione fu trasferito sul

Carso. Nel corso del trasferimento Taraschi fu coinvolto in un incidente

ciclistico, riportando una contusione al ginocchio sinistro: passò quindi otto

giorni all’ospedale e dieci al convalescenziario. Dopodiché fu reintegrato al

2° Battaglione Bersaglieri e inviato a Gorizia per prestare servizi di retrovia.

In seguito ad un aggravamento dell’infiammazione del ginocchio fu spedito,

con treno ospedale, a Milano, ove rimase due mesi. Dopo ulteriori quaranta

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giorni di licenza, venne reintegrato al 2° Bersaglieri di stanza a Roma, quindi

al 70° Battaglione di marcia, infine al 20° Bersaglieri, che venne inviato in

Trentino. Il reggimento si accampò ai piedi del monte Cimone. Ai primi di

luglio del 1917 fu trasferito dal battaglione marciante alla compagnia ciclisti,

che partì per dar rinforzo al 4° Battaglione Bersaglieri Ciclisti, che si trovava

a Udine. Da Udine il battaglione avanzò verso il fronte, nei pressi di Sagrado,

ma fu poi nuovamente inviato in Trentino, nei pressi di Asiago, «dove

dicevasi – spiega Taraschi – che doveva iniziare una grande offensiva

nemica». Il 27 ottobre 1917, all’una di notte suonò l’allarme: i soldati si

prepararono per la partenza e, carichi di viveri e munizioni, inforcarono le

biciclette. Strada facendo, cominciarono a giungere loro notizie sugli

avvenimenti di Caporetto. Arrivati all’imbrunire nei pressi di Udine, la

mattina successiva ripresero il viaggio sotto la pioggia battente. A causa di un

guasto alla bicicletta, Taraschi, insieme con altri soldati, rimase attardato

rispetto al gruppo principale, di cui si perdettero le tracce. A questo punto

della relazione si colloca la narrazione di un’azione di guerra di cui Taraschi

fu protagonista: non essendo riusciti a ritrovare il proprio battaglione,

Taraschi e i soldati posti sotto il suo comando, nel timore di essere

considerati disertori, si presentarono a una compagnia del 2° Battaglione

ciclisti. Qui ricevettero l’ordine di andare di pattuglia. Mentre espletavano il

servizio di perlustrazione e vedetta, videro arrivare un’auto austriaca:

sospettando che «sulla macchina vi fosse qualche ufficiale che tentasse

entrare nella nostra linea per persuadere i militari ad abbandonare le armi

asserendo che la guerra era finita», Taraschi ordinò di aprire il fuoco contro

l’auto che, colpita, precipitò in un fossato. L’auto trasportava – a detta di

Taraschi – il Generale austriaco Beckman che nell’imboscata perse la vita.

A questo punto Taraschi, con i due o tre soldati rimasti con lui, venne

coinvolto nella caotica ritirata delle armate italiane conseguente alla rotta di

Caporetto. Dopo tre giorni di viaggio, durante i quali dormì sui fienili delle

cascine incontrate lungo la strada, giunse nei pressi di Treviso, dove si

trovava il Comando di divisione. Inviato di nuovo al fonte, sul Tagliamento, il

battaglione a cui Taraschi era stato assegnato fu costretto a una nuova

estenuante ritirata attraverso le montagne. Allontanatosi dal battaglione con

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alcuni compagni, per trasportare ad un posto di soccorso un compagno ferito,

dopo qualche giorni riuscì a rientrare al Comando di divisione. Il 27

novembre 1917 venne inviato in prima linea sul Piave, nella posizione Monte

Tomba Monfenera. Il 30 novembre, con cinque bersaglieri, fu collocato in un

punto della trincea, che egli giudicò assai pericoloso «perché per una trentina

di metri era piano ed in linea retta col Piave» e perciò facilmente

individuabile dal nemico: «consci della cattiva posizione scelta, – egli scrive –

rimanemmo fermi, ma melanconici perché dubitavasi assai e temevasi venir

presi di mira». Ciò che effettivamente accadde. Verso le 13 e 30, la trincea fu

colpita da una bomba, la cui esplosione provocò una carneficina. Taraschi,

gravemente ferito a un piede, ebbe la prontezza di spirito di fasciarsi la

gamba per arrestare l’emorragia, quindi si trascinò fuori dalla trincea. Fu

trasportato da un compagno al più vicino posto di medicazione e da qui in un

ospedale da campo di Possagno Veneto, dove subì l’amputazione della gamba

destra al terzo inferiore. Fu quindi trasferito all’ospedale di Vigevano. Mentre

si trovava a Vigevano un sabato mattina apprese dalla «Domenica del

Corriere» la notizia che i Regi Caranbinieri avevano ucciso il generale

Beckman, «quando invece ciò – puntualizza Taraschi – era avvenuto per

opera del sottoscritto colla propria squadra». Come si apprende dalla

documentazione contenuta nel fascicolo nominativo conservato nell’Archivio

dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra di Mantova, nel 1930 Taraschi

inviò copia della propria Relazione di guerra alla «Domenica del Corriere»

perché la pubblicasse e ristabilisse la verità. Tuttavia il giornale non

acconsentì alla pubblicazione.

Nel maggio 1919 Taraschi venne congedato e assegnato alla quarta categoria

delle pensioni di guerra. A conclusione delle proprie memorie egli precisa:

«Inscritto al Fascio dal 9-9-1921. Squadrista dalla prima formazione delle

squadre d’azione. Partecipò ai fatti di Volta Mantovana e alla Marcia su

Roma».

Storia di Luigi Trazzi (1897)

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Dati anagrafici:

Nome e cognome: Luigi Trazzi

Data di nascita: 23 agosto 1897

Luogo di nascita: Poggio Rusco (Mantova)

Luogo di residenza: (Mantova)

Professione: non nota (titolo di studio: diploma di ragioniere)

Statura: 1,68 m

Capelli:

Occhi:

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,

b. 1 (1896-1900).

Luigi Trazzi nasce a Poggio Rusco il 23 agosto 1897 da Luciano e Giuseppa

Belluzzi.

Soldato di leva di prima categoria lasciato in congedo illimitato dal 3 giugno

1916, il 26 settembre viene chiamato alle armi per mobilitazione in forza del

Regio Decreto 22 maggio 1915. Arruolato nel 7° reggimento Fanteria, il 17

novembre è Allievo Ufficiale di Complemento nella Scuola Militare di Modena.

Il 6 agosto 1917 prende servizio quale aspirante Ufficiale di Complemento

nella nona compagnia dell’8° Reggimento Bersaglieri di Verona. Il battaglione

eseguiva allora delle fortificazioni in seconda linea sul Col dei Stombi (nei

pressi di Cortina d’Ampezzo). Promosso Sottotenente di Complemento di

Fanteria, il 10 novembre 1917 viene fatto prigioniero in seguito al fatto

d’armi di Longarone. Nella battaglia di Longarone furono fatti prigionieri, dai

tedeschi e dagli austriaci, tra i nove ed i diecimila soldati italiani.

Gli italiani, in ritardo di quattro giorni rispetto al ritiro programmato, si

erano arresi di fronte a un nemico numericamente inconsistente, tanto che

l'episodio ebbe un vasto clamore a Roma e ci fu successivamente una

inchiesta promossa dallo Stato Maggiore, allo scopo di capire le motivazioni

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di tale resa di massa. È assai significativo a tal proposito che nel fascicolo di

Trazzi si ritrovi un attestato rilasciato dal Ministero della Guerra nel 1919,

che certifica che «Nessun addebito può esser fatto, tanto dal lato penale

quanto dal disciplinare, al Sottotenente di Complemento Trazzi Luigi, per le

circostanze della lui cattura avvenuta il 10 novembre 1917 e per il tempo

passato in prigionia di guerra».

Il 10 dicembre Trazzi 1918 viene rimpatriato e inviato al Campo di

concentramento per ex prigionieri di guerra di Mirandola. Centinaia di

migliaia di soldati italiani che avevano trascorso mesi o anni nei campi di

prigionia degli Imperi Centrali al loro rientro furono costretti a una nuova ed

ingiusta forma di detenzione: quasi 270.000 uomini furono trattenuti, per

diverse settimane, nei Campi di concentramento di Mirandola, Castelfranco

Emilia e Gossolengo4.

Il 27 gennaio 1919 Trazzi rientra al deposito dell’8° Reggimento Bersaglieri;

alla fine dell’anno viene promosso Tenente e nel maggio 1920 posto in

congedo.

Da una memoria redatta a Verona il 20 maggio 1919 dal maggiore Fidi, già

comandante del 38° Battaglione Bersaglieri, apprendiamo ulteriori

particolari relativi al carattere di Luigi Trazzi e agli eventi che precedettero la

sua cattura. Fidi descrive l’aspirante ufficiale con tali parole:

«Disciplinatissimo, dimostrò subito volontà, sveltezza, intelligenza

nell’esecuzione di lavori campali affidatigli sulla Linea Rossa, ma ammirevole

sotto il tiro dell’artiglieria avversaria, tendente a disturbare i nostri lavori.

Queste doti, miste ad una cura meticolosa dei propri uomini, gli valsero la

stima e l’affetto dei suoi subordinati. Verso la metà di settembre 1917 –

prosegue il maggiore – il Battaglione si recò in prima linea e al suo plotone fu

affidato un tratto difficile sulla posizione detta “Punta del Naso”. Quando la

sua posizione, verso i primi di ottobre, venne bombardata di fianco e alle

spalle da un rapido tiro d’artiglieria nemica, ebbi occasione di rilevare nel

prefato ufficiale una serenità di spirito che gli valsero anche l’ammirazione

degli altri suoi superiori immediati e dei suoi colleghi. Durante il periodo di

trincea ebbe ad effettuare utili pattuglie di ricognizione, molto difficili per la 4 Cfr. Fabio Montella, Prigionieri in Emilia. I campi di concentramento per i militari italiani liberati dal nemico alla fine della Grande Guerra, Il Fiorino, 2008.

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troppa vicinanza del nemico. Verso la fine di ottobre venne nominato sotto

tenente di complemento con anzianità 21 settembre 1917. Più lodevole la sua

condotta quando il 25 ottobre 1917 fu [il documento manoscritto è lacerato]

una rettificazione di linea con una ritirata sulla Linea Rossa. In detta

occasione la sua opera energica fu preziosa, come quella di tutti gli altri

ufficiali, mediante la quale tutto il Battaglione poté uscire completamente

illeso dalla zona battuta dal nemico. Fisicamente robusto e snello compì

lodevolmente la marcia di ritirata del 1917. Partecipò al combattimento di

Longarone e per quanto il suo comandante di compagnia cadesse gravemente

ferito, egli condusse più volte all’assalto il suo plotone con ammirevole

risolutezza e sprezzo del pericolo, finché sopraffatto dal numero superiore

dei nemici venne fatto prigioniero».

Trazzi fu decorato della medaglia commemorativa nazionale della guerra

1915-1918, istituita con R.D. n. 1241 in data 29 Luglio 1920. La decorazione

della Croce di Guerra gli fu invece negata. Nel luglio 1962 Trazzi inoltra al

Distretto militare di Verona un’istanza affinché, in virtù della sua

partecipazione al fatto d’armi di Longarone (10-11 novembre 1917), gli

venga rilasciata la Croce di Guerra, che aveva omesso di richiedere «nel

lontano 1919 dopo la smobilitazione e il congedo». Il riconoscimento del

servizio militare prestato gli avrebbe permesso di maturare «un utile periodo

ai fini della pensione relativa all’impiego in Istituzione di Pubblica

Beneficienza quale Segretario dell’Ospedale Civile di Poggio Rusco». Il

Distretto militare di Verona negò la concessione della decorazione,

informando Trazzi che «alla S.V. non compete la concessione della Croce al

Merito di Guerra, in quanto nel conflitto 1915-1918 non è stata in trincea per

un periodo minimo di un anno come stabilito dall’art. 3 circ. 171 G.M. 1918».

È deceduto a Piove di Sacco il 29 gennaio 1992.

Storia di Ruben Trotti (1898)

Dati anagrafici:

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Nome e cognome: Ruben Trotti

Data di nascita: 25 febbraio 1898

Luogo di nascita: Rodigo

Luogo di residenza: Rodigo

Professione: industriale

Statura: 1,69 m

Capelli: biondi e ondulati

Occhi: castani

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,

matricola 12929.

Ruben Trotti, di Luigi e Angela Questua, nasce a Rodigo il 25 febbraio 1898.

Nel febbraio 1917 viene dichiarato abile al servizio militare e lasciato in

congedo illimitato. Chiamato alle armi per mobilitazione in forza del R.D. 22

maggio 1915, il 28 febbraio 1917 si presenta al distretto militare di Torino. Il

9 marzo – ha da poco compiuti 19 anni – è ammesso al volontariato di un

anno e incorporato al 6° Reggimento Artiglieria da Fortezza. Il 20 giugno

1917 è promosso caporale. Il 4 novembre 1918 si trova «in zona

d’armistizio». Il 1 gennaio 1919 è promosso sergente. Il 16 settembre 1920 è

inviato in congedo illimitato. Il 25 agosto 1921 si presenta al Distretto

militare di Mantova. Il 6 ottobre 1924 è iscritto sul ruolo 71 B della forza in

congedo dell’Artiglieria pesante del Distretto Militare di Torino.

La biografia di Ruben Trotti riveste un interesse non tanto per la sua storia

militare, quanto perché nel dopoguerra egli divenne proprietario di una delle

più note e fiorenti industrie alimentari italiane, la Bertolini.

L’azienda “Antonio Bertolini” era stata fondata nel 1911 nella frazione Regina

Margherita a Collegno. Il fondatore, Antonio Bertolini, aveva stabilito il primo

nucleo dell’azienda in una casa – prossima alla Chiesa di SS. Monica e

Massimo – dove aveva collocato una ruota sulla Bealera Becchia per azionare

la “pista”, ovvero la macina per le spezie. Gradatamente l’azienda s’ingrandì e

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si trasferì nel sito di Corso Francia n.109. Nel 1935 alle redini della società

subentrò il Commendator Ruben Trotti, cognato di Antonio Bertolini, che

aveva sposato la sorella di Ruben, Adelaide. È peraltro assai probabile che già

prima della guerra Ruben fosse impiegato nell’azienda del cognato, come

lascia pensare la professione di «industriale» indicata sul foglio matricolare,

nonché il fatto che, quando, nel febbraio 1917, viene chiamato alle armi, egli

si presenta al distretto militare di Torino.

Abile imprenditore, nel corso degli anni Trotti riuscì a far diventare la

Bertolini un’azienda leader nel settore delle spezie e del lievito. Dal

matrimonio fra Ruben Trotti ed Emilia Chazallettes – esponente di un’altra

importante famiglia di industriali di Regina Margherita – nacque nel 1922

Carmi Trotti, che affiancherà nel corso degli anni il padre nella gestione

dell’azienda.

Storia di Luigi Zambelli (1892)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Luigi Zambelli

Data di nascita: 10 dicembre 1892

Luogo di nascita: Monzambano (Mantova)

Luogo di residenza: Ponti sul Mincio (Mantova)

Professione: contadino

Statura: 1,69 m

Capelli: castani e lisci

Occhi: grigi

Fondi di riferimento:

Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.

437/62; lettera di Luigi Zambelli pubblicata ne «Il cittadino», 26 ottobre

1915; Albo d’Oro degli Italiani Caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918,

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240

vol.11, Lombardia, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria, 1932, p.

904.

Luigi Pellegrino Zambelli, di Isidoro e Domenica Bompieri, nasce a

Monzambano il 10 dicembre 1892.

Viene dichiarato abile e arruolato di prima categoria alla visita di leva

effettuata il 7 giugno 1892.

Il 18 ottobre 1915 scrive ai genitori:

Genitori carissimi,

anche stamattina mentre infuria un intenso fuoco di artiglieria da parte nostra,

mi accingo a scrivere per darvi miei notizie.

Grazie a Dio, anche dopo un così lungo periodo di vita disagiata, la mia salute è

sempre florida e l’appetito tremendo. Come sapete è dal 21 di luglio che sono in

linea di fuoco sempre sul fronte Carnico, tranne dieci giorni di riposo avuti in

trincea. Ho incontrato dei pericoli terribili e, per fortuna di Dio, tutti li ho

scampati.

Vi vorrei raccontare tante cosette, ma la censura non mi permette. Solo vi dico

che affronto ogni disagio con animo sereno, con coraggio e con la speranza di

ritornare presto fra le vostre braccia sano e salvo, dopo aver combattuto per

mesi e mesi su queste vette nevose il tanto odiato nemico. E allora non avrò più

bisogno di far parlare la penna: a voce vi racconterò i giorni della mia più bella

gioventù trascorsa in grotte come conigli.

Genitori carissimi con piacere vi devo far noto una cosa. In questi luoghi lontani

dalle famiglie, dagli amici, dai parenti, quella religione che in tempi più pacifici

era stata abbandonata specialmente dalla gioventù, oggi, mentre tutto il

mondo è travolto in un immenso dolore, si è fatta sentire ed anche il più

incredulo soldato, oggi è un fedele cristiano.

Il nostro Cappellano di tanto in tanto ci viene a trovare e ieri, giorno di

domenica, qui in trincea abbiamo assistito ad una magnifica cerimonia

religiosa: la S. Messa, ed alla fine di questa, circa un centinaio di soldati,

compreso me, abbiamo fatto la S. Comunione ed assieme a questa lettera vi

mando il ricordo della comunione fatta sul Fraikofel.

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Come vi ho scritto in altre cartoline, attendiamo il cambio e circola la voce che

questa volta, se avrò grazia di ritornare giù, avremo un lungo riposo.

Termino col salutarvi affettuosamente tutti in famiglia. Vostro amato figlio

sergente,

Zambelli Luigi

Anche Zambelli, come altri soldati, attesta il risveglio religioso che si era

verificato al fronte, nelle trincee e sui campi di battaglia, e che aveva spinto

molti giovani a riavvicinarsi alla fede tradizionale, da cui si erano allontanati.

Possiamo immaginare per questi soldati la religione costituisse anzitutto una

fonte di conforto che permetteva loro di affrontare con animo più sereno i

cimenti quotidiani, proiettando in una prospettiva ultraterrena la precarietà

della propria vita, messa costantemente in pericolo; dalla lettera di Zambelli

emerge d’altro canto il ruolo della religione in quanto apportatrice di civiltà

in luoghi e tempi che parevano regrediti a una primitiva barbarie e tra

uomini ridotti a una condizione bestiale («in grotte come conigli» - scrive

Zambelli).

Il sergente Luigi Zambelli morirà il 20 settembre 1916 nell’ospedale da

campo n. 45 per ferite riportate in combattimento. Egli prestava servizio nel

145° reggimento fanteria.

Storia di Emilio Zappellini (1890)

Dati anagrafici:

Nome e cognome: Emilio Zappellini

Data di nascita: 12 novembre 1890

Luogo di nascita: San Benedetto Po (MN)

Luogo di residenza: San Benedetto Po (MN)

Professione: contadino

Statura:

Capelli:

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Occhi:

Fondi di riferimento:

Emilio Zappellini, Memoria Vita Militare, scritta su un taccuino da tasca di cm

7x12 con copertina in cartoncino nero. Il manoscritto occupa le prime

quindici pagine. Il taccuino è attualmente in possesso degli eredi di Emilio

Zappellini. La Memoria è stata pubblicata in Fabio Piccagli ed Emilio

Zappellini, Scritti di vita militare, di guerra e di prigionia, 1914-18, a cura di

Giancorrado Barozzi, San Benedetto Po, 2000. Da integrare con il ruolo

matricolare

Emilio Zappellini è nato il 12 novembre 1890 a San Benedetto Po, dove è

morto l’11 dicembre 1960.

Arruolato nel 4° Reggimento Bersaglieri ha partecipato alla guerra italo-turca

nel 1911, alla prima guerra mondiale e alla seconda come richiamato nella

riserva. Ha prestato servizio per complessivi 92 mesi.

Le prime 7 pagine del suo taccuino sono occupate da un elenco di luoghi tra

cui i Luoghi da Richiamato 8 agosto 1914 sino al 22 Novembre 1914 e i

Luoghi da Richiamato 10 maggio 1915 sino al 10 agosto 1919. A quest’elenco

di luoghi fa seguito la Memoria Vita Militare vera e propria, che non si

configura come una narrazione consequenziale, circostanziata e dettagliata

dell’esperienza militare dell’autore, bensì come un elenco di veloci

annotazioni e brevi, quasi lapidari, commenti, preceduti da una data. A

differenza di narrazioni lunghe e coerenti, scritte a molti anni di distanza dai

fatti narrati e che pertanto forniscono un resoconto rielaborato a posteriori

di tali fatti, la tipologia di narrazione autobiografica, di cui il taccuino di

Zappellini costituisce un esempio caratteristico, è il frutto di una

registrazione condotta in presa diretta, nel momento stesso in cui gli eventi si

producono o poco dopo, e per di più in una condizione precaria, come il

frangente bellico, che soprattutto ai soldati semplici, qual era Zappellini, non

lasciava tempo e agio per dedicarsi alla scrittura. In questa luce si può

comprendere il carattere estemporaneo e lacunoso degli appunti di

Zappellini, i quali peraltro, se da una parte permettono una ricostruzione, per

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quanto sommaria, della biografia del soldato – ad integrare la quale si

dovrebbe ricorrere al ruolo matricolare –, rivestono un’importanza rilevante

perché permettono di farsi un’idea dei giudizi e delle impressioni che un

giovane contadino ricavò dagli eccezionali eventi a cui ebbe a partecipare.

La memoria può essere suddivisa in tre parti: la prima riguardante gli

avvenimenti occorsi tra il 21 settembre 1914 (data della prima annotazione)

e il 9 novembre 1917, allorché Zappellini fu fatto prigioniero; la seconda

riguardante la prigionia in Ungheria, in Galizia e infine in Belgio, durata dal

novembre 1917 al novembre 1918; la terza, inerente il viaggio di ritorno in

Italia dopo la conclusione della guerra.

Nell’autunno 1914 Zappellini si trova ad Aviano (Pordenone), dove il

Reggimento di cui fa parte è impegnato – almeno così pare di comprendere –

in esercitazioni militari: «tattiche», marce, riviste. Di queste settimane egli

sottolinea soprattutto la fatica della vita militare: il 15 ottobre 1914 registra:

«Partiti dall’accantonamento tattica con Cavalleria e Artiglieria durata ore 8

ritornati ore 2 Faticosissima», mentre il 4 novembre, annotando che quel

giorno avevano marciato da Aviano a Caneva «con passo forzato», commenta:

«arrivato all’accantonamento più morto che vivo». Un altro aspetto che

emerge dalle note di Zappellini relative a questo periodo è la percezione del

contrasto tra le condizioni di vita dei soldati e quelle degli ufficiali. Il 18

ottobre, in una notte «burrascosissima con vento e pioggia», egli è di guardia

a Villa Policretti: mentre all’interno della villa «Signorine ed Ufficiali»

danzano allegramente sulle note di un’armonica, egli si sente « immerso nel

dolore facendo questa vitaccia».

Il 20 maggio 1915 Zappellini è a Brescia, da dove parte con due muli diretto a

Bugliacco. Tre giorni dopo, il 23 maggio, il suo reggimento partì a mezzanotte

da Siano (?) ed arriva alle ore sei del giorno successivo a Cadria (Brescia), che

si trovava allora in prossimità del confine austriaco. Il 1 giugno nuovo

trasferimento da Magasa (BS) a «Montagna Tremalla» (forse Zappellini allude

al Passo del Tremalzo, nei pressi di Tremosine, in provincia di Brescia) . Il 19

giugno trascorse l’intera giornata a caricare sacchetti per la trincea «sotto

gran pioggia»: «Memorabile», egli commenta. Dall’inizio di luglio del 1915

egli si trova a Storo, in provincia di Trento: qui egli ricorda di aver visto «Sua

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Maestà V.E. III». Nel luglio dell’anno successivo è a Tiarno in provincia di

Trento. Il 31 luglio racconta di aver assistito alla fucilazione di un artigliere il

quale, essendo ubriaco, aveva accoltellato l’aiutante maggiore e due altri

artiglieri. Un’altra annotazione riguardante la giustizia militare è del 23

settembre 1916: «Questa sera a Bezzecca furono fucilati 5 Bersaglieri ed un

Cap. Maggiore per aver abbandonato una quota sorpresi dal nemico».

Il 9 novembre 1917 Zappellini viene fatto prigioniero a Villanova di

Longarone. La sera stessa a lui e agli altri prigionieri «fecero passare il Piave

a guado con l’acqua che sopravanzava il ginocchio». Della reclusione nel

campo di concentramento di Ostffyasszonyfa in Ungheria Zappellini ricorda

soprattutto «gran fame e freddo memorabile». Il 9 dicembre registra: «Questa

notte […] da sentinella tedesca fu ucciso un nostro compagno perché dalla fame

si era avvicinato alla cucina per rubare un po’ di patate».

Il 6 gennaio 1918 Zappellini parte da Ostffyasszonyfa e, dopo 8 giorni di

viaggio «assai tribulato» a bordo di un caro bestiame», arriva a Bučač nella

Galizia asburgica (nell’attule in Ucraina). La fame lo attanaglia a tal punto che

l’11 gennaio è costretto a cedere un asciugamano, «l’unico ricordo della mia

cara Teresa», in cambio di un tozzo di pane. Il 18 marzo i prigionieri partono

da Bučač per Libramont in Belgio. Per sottrarsi alle disumane condizioni di

detenzione Zappellini si finge malato e viene ricoverato all’ospedale di Namur:

scoperta la simulazione di malattia, trascorre in prigione «11 terribili giorni».

Il 17 giugno Zappellini e altri undici prigionieri partono da Ampsin (oggi nel

comune di Amay) per Liegi. Egli ricorda le manifestazioni di solidarietà della

popolazione belga: «le dimostrazioni che si facevano i belga erano una cosa

commovente ci regalavano ogni cosa, fiori baci, una cosa da piangere». Il 23

giugno 1918, al convalescenziario di Liegi, Zappellini incontra un certo

«Tenedini dell’Ospedaletto (Mantova)», che apparteneva allo stesso reggimento

di suo fratello e gli parlò di lui. Pochi giorni dopo, ad Ampsin, tentò invano di

essere esonerato dal lavoro per malessere: «Da un sergente Ungherese pigliai

tante botte una cosa incredibile e ci dovetti andare». Nell’autunno del 1918 egli

riceve, dopo mesi di silenzio, notizie da casa: «mi arrivarono oggi – scrive il 28

settembre – 7 cartoline in una volta che gioia piansi dalla contentezza».

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Insieme alle cartoline arrivarono anche un vaglia, che gli fu pagato in marchi e

otto pacchi di cibo.

L’ultima parte della Memoria riguarda il viaggio di ritorno dal Belgio all’Italia,

dopo la conclusione della guerra (dal 2 novembre 1918 al 10 dicembre 1918).

Il 2 novembre 1918 Zappellini lascia Ampsin; tre giorni dopo arriva a

Libramont, da dove la sua compagnia d’appartenenza riparte il 10 novembre

diretta al confine germanico. La «grande rivoluzione che vi era in Germania»

(egli allude alla rivoluzione di novembre che seguì il tracollo dell’impero

guglielmino) impedisce loro di attraversare la frontiera e li costringe a

cambiare percorso, dirigendosi verso la Francia. Il 19 novembre è a Verton,

«dove finalmente – egli scrive – ci incontrammo con gli Americani». Il 5

dicembre arriva al campo di concentramento di Cala Galera, nei pressi di

Orbetello. L’ultima nota è del 10 dicembre: «Oggi da Orbetello venni

all’accampamento sopra un Biplano per poco non morii dalla paura. Mai più».