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Guido Ottolenghi Abbiate fede nella Romagna Valori e riflessioni di un confindustriale di provincia LONGO EDITORE RAVENNA

Abbiate fede nella Romagna - Guido Ottolenghiguidoottolenghi.com/1/upload/abbiate_fede_nella_romagna... · 2016. 1. 25. · Presentazione di Stefano Folli p. 7 Introduzione di Antonio

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Guido Ottolenghi

Abbiate fede nella Romagna

Valori e riflessionidi un confindustriale di provincia

LONGO EDITORE RAVENNA

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In queste pagine si avverte un sentimento positivo, direi quasi ottimi-stico. Deriva dalla coscienza che ognuno può dare qualcosa alla comu-nità, aggiungere un piccolo mattone alla conoscenza collettiva, sentirsiparte di uno sforzo più ampio che proviene dalle generazioni prece-denti e si proietta verso quelle future. Ecco allora il valore della culturanon astratta o accademica, bensì calata nel mondo della prassi. Unacultura che coglie il valore della società aperta, cioè liberale, capace dicoinvolgere e integrare.

Stefano Folli

Negli scritti di Ottolenghi qui riuniti si analizzano le strategie d’uscitadalla Grande Crisi. E si esprime la lucida consapevolezza di come l’af-fermarsi della centralità dell’ “economia della conoscenza” abbia postooramai da tempo agli attori politici ed economici, al pensiero econo-mico e alle imprese, l’obbligo di riconsiderare radicalmente i paradigmidella produzione e del consumo, della costruzione del profitto (neces-sario, ma da programmare come sostenibile, nel tempo lungo) e dellaredistribuzione. E nel ritorno alle ragioni e ai valori dell’economia reale,dopo la sbornia della finanza d’assalto e nel recupero, tutto italiano, delnostro “orgoglio industriale”, si afferma la necessità di considerare pro-prio le risorse umane d’eccellenza, le persone che “fanno” l’impresacome principale leva competitiva.

Antonio Calabrò

Guido Ottolenghi, nato a Bologna nel 1966, è sposato e ha tre figli. Dopola laurea alla Bocconi ha lavorato come analista finanziario per MorganStanley e ha poi conseguito un MBA alla Columbia University di NewYork. È amministratore delegato della Petrolifera Italo Rumena, gruppo dilogistica portuale attivo in Italia e all’estero. Dal 2002 ricopre incarichi inConfindustria Ravenna: nel corso della sua presidenza, iniziata nel 2011,è nata Confindustria Romagna.

ISBN 978-88-8063-839-1

€ 18,00

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Guido Ottolenghi

Abbiate fede nella Romagna.Valori e riflessioni di un confindustriale di provincia

Storia

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Non spetta a te portare a termine il lavoro, maneppure sei libero di esentartene

(Massime dei Padri, Cap. II v. 16)

Quando tutto sarà finito non ricorderemo le pa-role dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostriamici

(Martin Luther King Jr, da Lettera da una pri-gione di Birmingham, 1963)

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Guido Ottolenghi

Abbiate fede nella Romagna

Valori e riflessionidi un confindustriale di provincia

Presentazione diSTEFANO FOLLI

Introduzione diANTONIO CALABRÒ

Longo Editore Ravenna

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Crediti fotografici

Giampiero Corelli

Foto di copertina e p. 46Archivio PIR

Giorgio Biserni

ISBN 88-8063-839-1

© Copyright 2016 A. Longo Editore sncVia P. Costa, 33 – 48100 Ravenna

Tel. 0544.217026 – Fax 0544.217554e-mail: [email protected]

www.longo-editore.itAll rights reserved

Printed in Italy

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INDICE

Presentazione di Stefano Folli p. 7

Introduzionedi Antonio Calabrò » 11

Guido OttolenghiPrologo – Cinque anni da presidente » 15

I. RIFLESSIONI SUI GRANDI TEMI » 19

1. Impresa e libertà » 212. Impresa e classe dirigente » 253. Aeroporto “Mussolini”, un’offesa a Forlì e a Confindustria » 314. Impresa e comunicazione » 335. Lo scenario energetico internazionale: Israele e il Mediterraneo » 396. Impresa e ambiente » 457. Intervista su «Ravenna In Magazine» » 558. Intervista su «La Voce di Romagna» » 599. Impresa e giustizia » 61

II. CULTURA E LEGALITÀ » 69

1. L’importanza del coraggio » 712. Il merito » 733. Il senso civico » 754. Il violinista sul tetto » 795. La cultura anticrisi » 816. Cultura, religione e legalità » 837. I magnifici anni Sessanta e l’entusiasmo del cambiamento » 858. L’utilità delle regole » 899. Non incartiamoci da soli » 93

10. La scelta più importante » 11311. I dieci comandamenti » 11512. Cooperazione e legalità » 11913. Riforme fiscali » 12314. Essere coerenti per essere liberi » 12515. Identità e immigrazione » 127

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Indice

III. LA CONVIVENZA A RISCHIO » 131

1. Sull’orlo del baratro » 1332. La strada anticrisi » 1353. Crisi, la politica ristabilisca l’equità » 1374. Imu e spesa pubblica » 1395. A ognuno la sua parte » 1416. Fiducia persa e ritrovata » 1437. La responsabilità del primo voto » 1458. Euro e lira » 1479. Debito e crescita » 149

10. Illusione e cambiamento » 151

4. LAVORO E VIRTÙ BORGHESI » 153

1. Mercato del lavoro, riforma urgente » 1552. L’etica del lavoro » 1573. Il lavoro da difendere » 1614. Fabbrica di carta » 163

5. CREDITO E FINANZA » 165

1. Il Vecchio Continente ha un futuro? » 1672. Euro, Europa, Italia: crescita o declino? » 1693. L’intelligenza del denaro » 1714. L’insostenibile potere delle regole » 1735. Comunicare bene per crescere » 1756. Nuovi strumenti finanziari per le piccole imprese » 1777. Come la Cina è diventata capitalista » 179

Guido OttolenghiEpilogo – Lavoro e impegno civile in tempi incerti » 183

Ringraziamenti » 188

Indice dei nomi » 189

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Presentazione

Esistono molti modi di essere imprenditore. Il più complesso, ma anche ilpiù stimolante, consiste nel restituire alla società ciò che essa ti ha offerto intermini di opportunità. Qui è l’essenza della cultura d’impresa quando la si vo-glia intendere nel senso più ampio, ossia come cultura civile fondata sul valoree la nobiltà del lavoro. Il che implica ulteriori riflessioni che conducono al-l’origine stessa e allo sviluppo della democrazia in occidente, cioè nell’unicaparte del mondo dove essa dispone di antiche e ben ramificate radici, a garan-zia di pericoli peraltro sempre incombenti.

In breve, il sistema economico fondato sull’impresa è la condizione forsenon sufficiente, ma necessaria, per l’affermarsi e poi il consolidarsi della li-bertà politica e quindi degli istituti democratici. Può sembrare ovvio, ma nonlo è mai stato nel corso della storia. Per cui il rapporto fra l’imprenditore e lasocietà in cui egli opera è essenziale: comporta una consapevolezza e dunqueuna responsabilità che si rinnova ogni giorno. Fino a configurare – ma pur-troppo non sempre avviene – un circuito virtuoso in cui l’impresa si ampliatrasformandosi, mentre il lavoro via via creato forma i nuovi cittadini. Nonsolo lavoratori, ma cittadini consci dei propri diritti non meno che dei propridoveri: secondo l’equazione fondamentale che in Italia fu propugnata da Giu-seppe Mazzini in antitesi alla predicazione marxiana. Con alterna fortuna, comegli eventi poi hanno dimostrato.

Le pagine che seguono nascono dalla penna di un imprenditore che credeprofondamente in questi principi e vi si è sempre ispirato nel corso della suavita professionale, nonché negli anni al vertice dell’organizzazione confindu-striale a Ravenna e in Romagna. Sono altrettanti tasselli che compongono unatestimonianza personale da cui discende un messaggio molto chiaro, almenoper chi ha voglia di ascoltarlo. Abbracciano gli scenari di cui le cronache nonci risparmiano i drammatici dettagli, a cominciare dalle tensioni che si river-sano nel Mediterraneo; investono tutti i problemi in parte irrisolti della nostracondizione di europei e di italiani; toccano i nodi concreti riguardanti l’area diRavenna e dell’Adriatico.

I cambiamenti nel mondo sono tumultuosi e per non esserne travolti laprima regola è evitare la retorica dei luoghi comuni. Servono in primo luogogli strumenti culturali per capire e, se possibile, padroneggiare le sfide del

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tempo. Parliamo di cultura ricevuta e di cultura trasmessa agli altri arricchitadall’esperienza. Dove la prima lezione è la tolleranza, ossia la piena adesionea valori di fondo che rappresentano un patrimonio irrinunciabile. La storia èsempre “complessa e complicata”, diceva Benedetto Croce che pure la vedevacome un cammino contorto ma sicuro verso la libertà. Oggi questa certezzasembra appannata da minacce sconvolgenti, ma tutti sanno che il secolo scorso,il Novecento, è stato segnato da tragedie immani dalle quali la democrazia oc-cidentale è emersa vittoriosa e più solida. Tanto è vero che il connubio con ilmodello economico liberale ha dato nel dopoguerra frutti senza precedenti:basti pensare allo Stato sociale, prodotto eccezionale dell’intreccio fra libertàd’impresa e diffusione del benessere e delle garanzie previdenziali.

Certo, le differenze fra le nazioni, in particolare in Europa, in questocampo sono vistose. Hanno pesato la qualità delle classi dirigenti, gli errori ei condizionamenti della politica, lo stesso retaggio storico. Ottolenghi spiegabene la spirale del crescente indebitamento, per cui oggi sfortunatamente è ir-ragionevole attendersi quello che cinquant’anni fa era possibile. Ma al fondodi tutto in queste pagine si avverte un sentimento positivo, direi quasi ottimi-stico. Deriva dalla coscienza che ognuno può dare qualcosa alla comunità, ag-giungere un piccolo mattone alla conoscenza collettiva, sentirsi parte di unosforzo più ampio che proviene dalle generazioni precedenti e si proietta versoquelle future.

Ecco allora il valore della cultura non astratta o accademica, bensì calatanel mondo della prassi. Una cultura che coglie il valore della società aperta, cioèliberale, capace di coinvolgere e integrare; opposta alla società chiusa e mera-mente identitaria che si ritiene più forte e invece è storicamente destinata a soc-combere, in genere dopo aver provocato gravi lutti. È chiaro che oggi si trattadi difendere le caratteristiche del nostro vivere proteggendolo dall’assalto deifondamentalismi. Società aperta non è sinonimo di disintegrazione o di resa,tutt’altro. Ma proprio per questo occorre riconoscere quanto sia importante ilritorno a forme di pedagogia civile in un’epoca in cui gli apparati ideologicisono finiti (ed è ovviamente un bene), ma con essi sono talvolta tramontatianche gli ideali (ed è un male di cui cominciamo a misurare le conseguenze).

Ottolenghi ha ben presente – e ne ha parlato a lungo in articoli e interventipubblici – quanto ci sia d’instabile e quindi in apparenza di precario nell’eco-nomia aperta. Ma proprio l’instabilità è garanzia di dinamismo, cioè di inno-vazione. E l’innovazione apre le finestre, fa circolare aria fresca, accende glientusiasmi. Viceversa, la stabilità delle economie stagnanti genera immobili-smo anche sociale e politico, determina il decadimento delle stesse istituzioni.L’ultima parte del Novecento ha offerto significativi esempi al riguardo. Cosìoggi, di fronte alle inquietudini esterne, non c’è che ritornare in modo convintoalle origini culturali del mondo occidentale. Per cogliere i nessi e non dimen-ticare le lezioni della storia. Una sorta di umanesimo integrale da riscoprireogni giorno.

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Stefano Folli

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Ottolenghi ha fatto della difesa a oltranza della legalità, ossia della moralitàpubblica a ogni livello, il motivo conduttore del suo impegno nella Confindu-stria e non solo. Non a caso il premio Guidarello a Ravenna è diventato più chemai sotto la sua guida un’occasione per ribadire quei principi civili che qui horichiamato. “Una società che riconosce il valore del lavoro – ha detto in unodegli interventi riuniti in questo libro –, che premia il merito, che attraverso lalegalità assicura che il frutto delle fatiche di ciascuno non possa essere espro-priato, si regge su un sistema morale sul quale non dobbiamo cessare di riflet-tere, perché esso può sempre essere rapidamente smontato. In un momentodelicatissimo e incerto, di profondo cambiamento non solo economico maanche politico e religioso come quello che sta vivendo il Paese, credo sia im-portante trovare conforto nella natura del proprio lavoro, che per noi impren-ditori si realizza nell’amore per ciò che si fa, nell’umiltà di continuare aimparare, nell’ascolto di chi lavora con noi”.Sono le basi su cui settant’anni orsono nacque la Repubblica, in una fusione

straordinaria di convinzioni laiche e sentimenti religiosi. La Repubblica figliadella lotta contro la dittatura, certo, e prima ancora della grande epopea risor-gimentale. La Repubblica fondata sul lavoro in cui le spinte ideologiche sistemperavano nella forza delle istituzioni e convivevano nella cornice demo-cratica. Ottolenghi è un erede di quella storia che non è finita, ma continua – èla speranza comune – in forme adeguate al nuovo secolo. Una storia di cui oc-corre dimostrarsi degni, come ne furono degni i protagonisti della ricostru-zione post-bellica pur all’interno di durissime battaglie politiche.

Stefano Folli«La Repubblica»

Presentazione

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Terra di buone imprese, l’Italia. E di bravi imprenditori, consapevoli che lechiavi dello sviluppo stanno non solo nell’efficienza e nella produttività delleaziende, ma anche nel rafforzamento di quelle virtù economiche e civili, diquelle capacità di crescita e d’inclusione sociale, di quell’originale miscela traricchezza e solidarietà che hanno caratterizzato le stagioni migliori della re-cente storia italiana. In quella “capacità competitiva” che cerca giustamente ilsuccesso imprenditoriale ma non dimentica le origini stesse della parola “com-petizione”, in una preposizione e in un verbo latino: cum e petere, muoversi in-sieme verso un obiettivo comune, partecipato, condiviso.

Di queste qualità sono ottimo specchio gli scritti di Guido Ottolenghi, im-prenditore capace, che sa coniugare intraprendenza, cultura, spirito di servizioe acuta sensibilità sociale e civile. Discute di concorrenza e qualità della ma-nifattura, di energia ed equilibri internazionali, di legalità come condizione peruna cultura del mercato aperto e ben regolato, del merito e della competizionetrasparente, dei valori di responsabilità e partecipazione, della dignità del lavoroben fatto e di quelle “virtù borghesi” su cui vale la pena continuare a riflettere.Sa bene cosa voglia dire essere “classe dirigente”. Conosce e denuncia tutti ivincoli politici, legislativi, burocratici e fiscali che rallentano la crescita, i “laccie laccioli” che ostacolano la “voglia di fare” per premiare invece burocrazie,corporazioni, ceti sociali protetti ispirati solo da spirito di negativa conserva-zione. E sa tenere insieme le questioni locali, d’una Ravenna e d’una Roma-gna che vogliono stare sul palcoscenico dell’Europa migliore e i grandi temidel Mediterraneo.

Sono fatti così, d’altronde, i bravi imprenditori: cultura del profitto, pas-sione per l’innovazione e robusto senso civico. Di cui essere fieri.

Negli scritti di Ottolenghi qui riuniti si analizzano le strategie d’uscita dallaGrande Crisi. E si esprime la lucida consapevolezza di come l’affermarsi dellacentralità dell’ “economia della conoscenza” abbia posto oramai da tempo agliattori politici ed economici, al pensiero economico e alle imprese, l’obbligo diriconsiderare radicalmente i paradigmi della produzione e del consumo, dellacostruzione del profitto (necessario, ma da programmare come sostenibile, neltempo lungo) e della redistribuzione. E nel ritorno alle ragioni e ai valori del-l’economia reale, dopo la sbornia della finanza d’assalto e nel recupero, tuttoitaliano, del nostro “orgoglio industriale”, si afferma la necessità di conside-

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Introduzione

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rare proprio le risorse umane d’eccellenza, le persone che “fanno” l’impresacome principale leva competitiva.

Lo sguardo si sposta dalla crescita allo sviluppo. Dalla quantità misurata dalPIL alla qualità degli indicatori da Bes (lo sviluppo equo e sostenibile calcolatodall’Istat, secondo una nuova cultura che ha valenze internazionali). E c’è daraccogliere la sfida, posta anche dal Papa con la sua recente enciclica, Laudatosi’, per una “economia giusta” e rispettosa dell’ambiente e delle persone.

Come muoversi, dunque, in un mondo che cambia? Ottolenghi fornisce in-teressanti indicazioni, che trovano giusta collocazione in un buon dibattito piùgenerale sulla cultura d’impresa e sulla “responsabilità sociale” e di cui Con-findustria, sia a livello nazionale sia nelle sue più vivaci realtà territoriali, comeappunto Ravenna, fornisce stimolanti testimonianze.

Dal punto di vista delle imprese, insomma, si può insistere su due parole:green e steam. Partiamo da steam, l’acronimo d’una strategia, rilanciata da As-solombarda: le iniziali di science, technology, engineering, arts e manifactu-ring. E cioè tutte le componenti dell’innovazione che spinge la crescita, con unasottolineatura netta: l’insistenza sulla “a” delle culture creative e umanisticheche si aggiunge e potenzia la formula stem cara all’innovazione hi tech madein Usa. Un’attitudine tutta italiana. Che fa da base innanzitutto alla straordinariacompetitività di Milano metropoli, con la sua “cultura politecnica” che legaumanesimo e scienza e che si avvia a diventare paradigma di tante altre realtàproduttive fondate sulla manifattura più innovativa e su un sofisticato sistemadi servizi legati alle imprese.

Tutto in chiave, appunto, di “economia della conoscenza” e d’innovazione,nel senso più ampio del termine: prodotti e produzioni, materiali, relazioni in-dustriali, governance delle imprese, linguaggi del marketing e della comuni-cazione, rapporti con i territori. Steam, insomma, è un motore che può valereanche per altre aree italiane forti della sintesi tra manifattura e cultura, con lasfida della “morale del tornio”: l’importanza del lavoro ben fatto, della mani-fattura d’eccellenza, la conferma di quell’abitudine degli italiani «a produrrefin dal Medioevo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo»,per citare quell’essenziale definizione dell’imprenditorialità data da CarloMaria Cipolla, geniale storico dell’economia europea.

Di questa tendenza fa parte anche la sempre più diffusa attitudine green delleimprese, cui anche Ottolenghi dedica pagine di grande interesse su ambientee competitività sostenibile. «L’Italia è leader in Europa per eco-efficienza delsuo sistema produttivo», sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola. Egrazie a quest’attitudine, modificando produzioni e prodotti in chiave di so-stenibilità ambientale, sono stati ottenuti, per il sistema Paese e la sua strutturaproduttiva, forti vantaggi competitivi, che si manifestano in tutti i settorid’avanguardia della manifattura italiana: le “4A” tradizionali del miglior madein Italy (automazione meccanica, arredamento, abbigliamento e agro-industria)ma anche l’automotive, la chimica, la farmaceutica, la gomma, la plastica, il ce-

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Antonio Calabrò

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mento, la domotica, la meccatronica, la metalmeccanica legata all’energia, ecc.Buoni prodotti, risultato di processi a basso impatto ambientale. E molto ap-prezzati sui mercati internazionali.

Sta qui, l’eccellenza italiana. Stanno qui anche le chiavi perché l’Italia, no-nostante i suoi limiti ancora forti e i vincoli alla crescita, possa sperare, comesostiene Ottolenghi, in un migliore futuro.

Antonio CalabròVicepresidente di Assolombarda

e Responsabile Cultura di Confindustria

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Introduzione

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PrologoCinque anni da presidente

L’azienda che dirigo si chiama La Petrolifera Italo Rumena ed è stata fon-data nel 1920. È sempre appartenuta alla mia famiglia. Si occupa di logisticaportuale, cioè di movimentare merci nei porti, metterle in magazzini specia-lizzati e restituirle nella giusta quantità e qualità ai proprietari. Ci occupiamodi prodotti petroliferi per conto dei principali operatori del settore: da lì vieneil nostro nome, legato al fatto che la società fu avviata con soci rumeni e chela Romania era a inizio Novecento un grande produttore di petrolio. Poi i socirumeni lasciarono, e la società crebbe, prima a Ravenna, dove subì le devasta-zioni della guerra e dove poté ripartire, poi a Genova, e più recentemente in Al-bania e Tunisia. Oltre ai prodotti petroliferi abbiamo cominciato negli anniCinquanta del Novecento a ricevere cereali e prodotti secchi, poi prodotti chi-mici e alimentari, consolidando la nostra specialità in un lavoro soggetto a re-golamentazioni e procedure stringenti, e ad alto contenuto di capitale, alservizio delle industrie di trasformazione.

Siamo sempre stati vicini a Confindustria. Mio nonno Guido, di cui portoil nome, fu tra i fondatori di Confindustria Ravenna nel 1945, ma era indiret-tamente legato a Confindustria da molto prima, poiché sua sorella Mimmiaveva sposato Gino Olivetti, primo direttore e animatore dell’associazione na-zionale fin dal 1910. Mio padre Emilio ha partecipato sempre attivamente allavita associativa a Ravenna. Non sempre siamo stati d’accordo sulle scelte del-l’associazione, sia a livello nazionale che a livello locale, ma abbiamo semprecreduto nel valore, e direi quasi nel dovere, per un’impresa di sostenere l’as-sociazione, salvo gravissime questioni di principio. Questa idea si incardinasu due constatazioni: la prima è che serve un luogo dove condividere, e se ne-cessario difendere i valori d’impresa, dove confrontarsi con colleghi, aiutarsia capire le sfide e le opportunità che ci circondano e dove coordinare le nostreiniziative istituzionali. La seconda è che, soprattutto per le imprese piccole emedie, un’associazione capace di analisi e di proposte è l’unico veicolo per farsentire la propria voce a chi ci governa. Perciò è un po’ un dovere essere asso-ciati: anche quando non si è d’accordo con le posizioni che assume l’associa-zione, essa è il posto giusto per esprimersi. È vero che i risultati di questaattività possono non soddisfare appieno, e poi beneficiano anche chi non è as-sociato, ma se tutti fossimo così opportunisti non vi sarebbero una voce e unastruttura tecnica capaci di difenderci, nemmeno parzialmente.

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Malgrado questa vicinanza la mia partecipazione associativa si è sempreconcentrata su temi settoriali, collegati all’attività aziendale. Ho cominciato adassumere ruoli di maggiore responsabilità a Ravenna solo una diecina di annifa, e quando nel 2011 alcuni amici e colleghi mi proposero di candidarmi allapresidenza fui onorato, ma sulle prime rifiutai. Ero impegnato col lavoro e conla famiglia, mi occupavo di alcune istituzioni morali pro bono, e poi a Ravennanelle ultime elezioni la corsa alla presidenza era stata aggressiva e spiacevole.Fui però infine convinto e mi candidai, correndo contro un collega, Antonio Se-rena Monghini, di grandi qualità imprenditoriali, ma anche umane, che seppetenere il confronto su toni molto civili e leali determinando un processo elet-torale in cui furono valorizzate le buone idee di entrambi. Il percorso della miapresidenza è stato però complesso, appesantito dalla crisi che non ci ha mai la-sciati, e ha stremato molte aziende, e reso gli imprenditori più esigenti versol’associazione, alle volte pretendendo l’impossibile da una struttura come la no-stra. Mi sono scontrato con forti personalismi. Mi sono reso conto che siamoun’associazione di capi, la cui idea di fare squadra consiste spesso nell’ideache gli altri debbano seguirci: una cosa stimolante in tempi di abbondanza, maun problema in tempi duri come quelli che ho attraversato. Ho visto idee con-solidate sulle aziende, sul credito e sui mercati sgretolarsi. Ho avuto tante fru-strazioni, e stanchezza, e talvolta mi sono detto che era stato un errore accettarel’incarico, ma ho anche imparato tantissime cose, conosciuto persone di grandelevatura, visitato aziende bellissime che non sapevo nemmeno di avere comevicini, e studiato tanti temi interessanti. Infine ho avuto la fortuna con colleghidi qualità a Forlì, Cesena e Rimini di approfondire l’opportunità di aggregarele nostre associazioni per dare un migliore servizio e un luogo di più ampioconfronto alle nostre imprese. Questa idea si è rafforzata e diffusa permetten-doci di riunire le assemblee di tutte le associazioni coinvolte a CastrocaroTerme il 28 ottobre 2014, dando così vita a una federazione di Romagna, chesta guidando le nostre associazioni alla piena fusione entro l’anno in corso.

In questo lavoro, che è volontario e gratuito, mi sono riproposto di nonusare l’associazione per me, ma di usare semmai le mie relazioni per l’asso-ciazione, e spero di avere mantenuto questo proposito. Ho insistito sui temidella responsabilità individuale, della conoscenza, della libertà e della valo-rizzazione dell’impresa, che si fonda proprio sul valore della responsabilità in-dividuale. Ho privilegiato interventi pubblici non frequenti, e cercato argomentiche stimolassero la riflessione e non il settarismo, cercando di parlare in modochiaro. Ho lavorato con i nostri uffici per introdurre nuovi modi di comuni-care, aggiornando il sito, e cominciando a produrre video messaggi invece delleconsuete circolari, aprendo un profilo Twitter e un canale You Tube. La nostraassociazione ha organizzato molti incontri con autorità e pensatori di qualità edi fama internazionale, per dare la possibilità ai nostri associati e alla cittadi-nanza di confrontarsi direttamente sui temi di attualità con figure che normal-mente non passano dal nostro territorio. Ho anche dedicato molta cura ad un

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Cinque anni da presidente

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bel premio di giornalismo, il premio Guidarello, che la nostra associazione ge-stisce e che ci ha permesso di prendere posizione sui vantaggi della legalità edella cultura, essenziali all’impresa per comprendere le sfide che affronta. Ab-biamo dedicato molte energie anche ai temi interni come una riforma del si-stema contributivo che riportasse equità e abbassasse i contributi del 13%,attuata nel 2012, e una riforma dello statuto che oltre ad accogliere le indica-zioni della riforma nazionale, ridesse un certo equilibrio al rapporto tra quotaassociativa e diritto di voto. Abbiamo tagliato i costi, rinnovato i sistemi in-formativi, sperimentato vari servizi alle imprese soprattutto nel campo del cre-dito. Abbiamo adottato un modello organizzativo 231 e abbiamo incoraggiatogli associati a fare lo stesso.

Nel corso della mia presidenza mi è parso prioritario tutelare le ragioni dellacategoria più che gli interessi singoli o dettati dalla difesa dell’esistente, per-ché questo dà maggiore credibilità ed è un modo più profondo di tutelare gliinteressi duraturi, anche se scalda meno i cuori. Alle volte ciò ha destato fru-strazione in chi chiedeva che l’associazione intervenisse su temi molto speci-fici. Ho anche cercato di rappresentare le ragioni degli assenti e dei più miti,perché alle volte da presidente ci si confronta con un collega che chiede qual-cosa all’associazione, e nel rispondere bisogna cercare di capire quanto il temapossa essere d’interesse generale, o se possa invece nuocere alla categoria. Hocriticato le istituzioni anche con durezza quando era necessario, ma ho sempreespresso rispetto per chi fa politica o ricopre ruoli istituzionali: è un compitoingrato e difficile, e chi lo fa con onestà intellettuale merita gratitudine. Ho re-sistito alle richieste che talvolta noi imprenditori facciamo, di limitare la di-screzionalità delle amministrazioni attraverso regolamentazioni sempre piùdettagliate, perché credo in generale che far fallire una cattiva legge è semprepiù importante che farne una buona: troppe regole, anche buone, confondonole idee e finiranno comunque per essere male applicate.

Ho cercato in modo trasversale le competenze. Mi pare che tra imprendi-tori e sindacalisti, politici e artigiani, giovani e vecchi, professionisti e ban-chieri vi siano persone di competenza e buon cuore che sanno trovare lesoluzioni ai problemi. Ho cercato di non farmi influenzare dalle ideologie (néla mia, né quelle degli altri) per trovare gli alleati con cui risolvere le difficoltà.Credo che indipendentemente dalle idee vi siano due grandi gruppi di personeal mondo, le persone perbene e quelle no, le persone che fanno qualcosa dibuono e quelle che fanno confusione. Mi sono tenuto lontano dalla maldicenza,convinto che sia meglio apparire ingenuo per avere ignorato un pettegolezzo,che esserne complice. Credo nella complessità della realtà e dunque rifuggodagli slogan e dedico tempo all’approfondimento, se posso. Ho cercato di ispi-rare le mie azioni a quel che mi sembrava la verità, evitando la dissimulazionee stimando che una mezza verità equivalga a una bugia intera. Non è merito delcapitano il bello o il brutto tempo, e nemmeno la qualità della nave, ma comela conduce durante il tempo che gli è concesso. Io ho avuto molto cattivo

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Cinque anni da presidente

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tempo, e i passeggeri possono pensare che non sia stato un buon viaggio, maspero possano giudicare benevolmente i molti scogli e tempeste che abbiamosuperato.

Se ci sono stati meriti in questi anni lo devo a tanti collaboratori leali, esono grato alle persone che si sono fatte avanti per risolvere i problemi e cam-biare in meglio. I veri leader si vedono nel momento di difficoltà: non si tiranoindietro, fanno quel che dicono, dicono quel che fanno, sono generosi e si pren-dono dei rischi, e in Romagna di gente così ce n’è, per fortuna.

Quando ho iniziato il mio mandato a Ravenna nel 2011 sono stato moltosollecitato dai colleghi a proporre significative innovazioni, e alcune idee leavevo in effetti suggerite da subito, ma mi sembrava che già tenere la casa inbuon ordine non fosse un obiettivo disprezzabile. Poi, nel tentare di tenere lacasa in ordine e di affrontare le difficoltà che si susseguivano per colpa dellacrisi, di cose ne abbiamo fatte tante io e i miei colleghi, e guardandomi indie-tro mi pare che sia stata un’esperienza bella e con qualche spunto interessanteda ricordare, almeno per gli amici e per il nostro territorio. A questo si sono ag-giunti i molti interventi che nel ruolo di presidente di una territoriale si finisceper fare, e che per me sono stati occasioni di riflettere su alcuni grandi temi inmodo non convenzionale. Questi interventi sono stati scritti da me, pur avendoun buon direttore e un buon ufficio stampa che mi hanno dato vari spunti. È perquesto che alla fine del mio mandato, alla soglia del mio cinquantesimo com-pleanno, e vicini spero al completamento del progetto di Confindustria Ro-magna, ho pensato di raccogliere e pubblicare le testimonianze di questaesperienza, che per me rimarrà un momento importante della mia vita. Èun’esperienza che consiglierei senza esitazione.

Guido Ottolenghi

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Cinque anni da presidente

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I.

Riflessioni sui grandi temi

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1.

Impresa e libertà(8 luglio 2011, Assemblea Confindustria Ravenna1)

Nell’assumere la responsabilità di guidare Confindustria Ravenna restaoggi da ricordare quanto lontano affondi il legame tra impresa e società e traimpresa e libertà.

Vorrei in particolare ragionare brevemente sul perché difendere l’impresavuole dire difendere la libertà, e poi richiamare i valori che l’impresa e il mondodel lavoro generano e garantiscono, e infine delimitare il ruolo dello Stato intutto questo, indicando cosa possiamo fare noi, nel nostro piccolo, per il be-nessere nostro e degli altri.

L’impresa è nata nella notte dei tempi, quando gli uomini smisero di orga-nizzarsi in piccoli gruppi famigliari autosufficienti, e cominciarono ad inge-gnarsi e specializzarsi nella produzione di oggetti da scambiare. Questi primiimprenditori rischiavano ben più di noi nello scommettere su un prodotto ouna produzione, e scoprirono ben presto che il sistema funzionava solo se loscambio era libero. E attorno al libero scambio svilupparono per necessità lebasi del diritto e dell’organizzazione dello Stato. Dunque, sebbene la cosa siabanale, ricordiamo con orgoglio che l’impresa, cioè la produzione e lo scam-bio volontario, insieme alla famiglia, ha plasmato la nostra società, e che senzaimpresa e senza mercato non vi sarebbero né benessere né libertà. In altre pa-role il problema economico del benessere materiale, e quello politico della li-bertà individuale sono indissolubilmente connessi, così come sono viceversatristemente collegate la tirannia, la servitù e la miseria2. Difendere i valori del-l’impresa e del mercato è dunque anche un modo di difendere la nostra libertà.Tra l’altro è un modo pacifico e operoso di difendere la libertà.

L’impresa è fonte di valori preziosi, quali la dignità del lavoro, l’amore perle cose ben fatte, il gusto del rischio e del merito, e del perfezionamento con-tinuo, il rispetto per la fatica e l’ingegno. L’impresa svolge un ruolo socialenel generare prosperità per le nostre famiglie e nel consentire alle amministra-zioni di mantenere un alto livello di servizi alla collettività. Spesso vediamo ifurbi, quelli che non seguono le regole, ottenere vantaggi e potere, ma vi è una

1 Ospiti Emma Marcegaglia (presidente di Confindustria) e Pietro Modiano (presidente diNomisma).

2 M. FRIEDMAN, Capitalismo e libertà, Torino, IBL Libri, 2010.

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3 L. ZINGALES, Ha prevalso l’indipendenza, «Il Sole 24 Ore», 7 aprile 2011.4 Il coraggio della libertà. Saggi in onore di Sergio Ricossa a cura di E. COLOMBATTO e A.

MINGARDI, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2002.5 L’11 marzo 2011 uno tsunami causato da un violentissimo terremoto al largo del Giappone

ha investito la centrale nucleare di Fukushima, danneggiando gravemente quattro dei sei reat-tori e provocando una fuga di materiale radioattivo.

diffusa parte sana del Paese che lavora sodo, paga le tasse, rispetta le regole3.È questa parte del Paese in cui noi ci riconosciamo, e che vogliamo rappre-sentare e motivare. In questa volontà abbiamo valori e interessi in comune coni rappresentanti dei lavoratori. Anche se vi sono naturali temi di opposizionecon i sindacati, nel mio mandato desidero tenere sempre presente che lavora-tori e imprenditori non solo hanno comuni interessi, «che siamo sulla stessabarca» come si dice sovente durante le trattative, ma anche e soprattutto che ab-biamo in comune i valori.

Vi è chi obietta che il libero mercato genera materialismo e vizi più che va-lori. Ma la responsabilità di questo è degli uomini. La morale sta negli uomininon nelle cose. «Tuttavia poiché non vi è morale senza libertà, non c’è moralesenza condizioni oggettive, le quali garantiscano la libertà di scegliere. Il mer-cato fa parte di queste condizioni oggettive»4.

Perché l’impresa possa operare, e il mercato funzionare, affinché cioè laproduzione e lo scambio avvengano su basi volontarie, è necessario che loStato (inteso come la somma di tutte le Pubbliche Amministrazioni) svolga ilsuo compito, fissando regole del gioco semplici ed efficaci, ed essendo arbitroimparziale. Lo Stato deve anche intervenire laddove i vantaggi o gli svantaggidegli scambi toccano la collettività, come per le infrastrutture, la difesa o l’am-biente, e nelle nostre società anche per l’istruzione e i servizi sociali. Per farequesto occorre una classe politica con una visione e una conoscenza generaledelle problematiche da affrontare, oltre che con una capacità di guida, ma pro-prio questo scarseggia.

Crisi economiche e disastri naturali, conflitti e tensioni sociali sono pur-troppo circostanze che possiamo sperare di governare, ma non di evitare. Edunque da chi ci guida ci aspettiamo sì la capacità di interpretare i sentimentie le paure della società, ma anche la capacità di reagire, e di preservare i mec-canismi di rinascita che le società libere hanno in sé, di fare scelte e non di vi-vere di slogan e demagogia.

Fatemi fare un esempio: subito dopo il disastro nucleare di Fukushima5 ilcommissario europeo per l’energia Günther Oettinger ha dichiarato che era-vamo di fronte all’Apocalisse, sottolineando l’appropriatezza del termine. Nelmentre eroici tecnici giapponesi affrontavano il disastro con dignità e deter-minazione. Ognuno di noi ha una legittima opinione su quel terribile evento,ma io vorrei che chi ci guida sapesse mantenere sempre viva l’idea che inge-gno e tecnologia sono le risorse cui dobbiamo rivolgerci prima di rassegnarcial panico e all’irrazionalità. Questo fanno le imprese di fronte alle difficoltà e

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Parte prima

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agli imprevisti: si ingegnano, rafforzano la loro struttura, affinano la capacitàdi analisi, correggono la rotta. Qualche volta non ce la fanno, ed è doloroso, maaccettiamo la legge del mercato. Nessun imprenditore invoca il destino o l’apo-calisse per poi restare con le mani in mano.

Nel nostro territorio le imprese hanno storicamente avuto accesso a pochiaiuti pubblici, e perfino le infrastrutture sono state talvolta realizzate dai privati.Le istituzioni hanno una tradizione di dialogo e non di ostilità con l’impresa,il mondo della scuola, per tanti anni distante, sta riscoprendo l’industria e ilsuo ruolo nella società. Io mi auguro durante il mio mandato di saper raffor-zare queste circostanze. Riconosco senza riserve la legittimità democraticadelle istituzioni e il loro diritto secondo la legge a dirci dei chiari no se non con-dividono le nostre idee. Naturalmente anche i “no” devono venire in tempicompatibili con le esigenze di programmazione delle aziende e con le oppor-tunità del mercato, perché le imprese impegnano soldi e intelligenza, e se unprogetto non si può fare devono andare oltre (anche in altri territori se appro-priato). Né i piccoli ma rumorosi comitati del “no” devono poter condizionaree travolgere il processo democratico, come anche di recente ha ricordato il Pre-sidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Nel riconoscere la piena legittimazione delle istituzioni, mi riservo dunquedi stimolare il governo locale e regionale e, quando potrò, anche quello nazio-nale, sapendo che se le regole sono buone, chiare e uguali per tutti starà poi anoi imprenditori, nella disciplina del mercato, trovare le idee che daranno lacrescita e il benessere. Mi è ben chiaro che Confindustria Ravenna ha un rag-gio d’azione limitato, ma possiamo assistere gli associati nel comprendere lecrisi e le opportunità. Possiamo dar loro strumenti per internazionalizzarsi eanalizzare nuove vie d’investimento e d’innovazione. Incitarli ad avere sem-pre una capitalizzazione adeguata, che consente di dialogare meglio con le ban-che e di rafforzare l’intero sistema economico. Possiamo condividere leesperienze e le reti di contatti che un’organizzazione come Confindustria offrein Italia e all’estero.

Ho parlato del fatto che difendere l’impresa vuol dire difendere la nostra li-bertà, di come impresa e lavoro garantiscono valori positivi, essenziali per ilnostro benessere materiale e spirituale, che dallo Stato vogliamo buone regole,ma ci assumiamo la responsabilità della crescita, ma infine cosa deve fare chiè in posizione di comando?

Fin dai tempi della Bibbia il monito a chi assume una posizione di respon-sabilità è sempre lo stesso: «Non siate pastori di voi stessi»6, chi guida nondeve ingrassare se stesso mentre lascia il gregge esposto ai pericoli. Questovalga per chi ci governa, per noi imprenditori verso le nostre aziende e chi vilavora, e naturalmente per me, mentre assumo la responsabilità di Confindu-stria Ravenna.

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Riflessioni sui grandi temi

6 EZECHIELE, 34, 1-11.

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7 Ospiti Giorgio Squinzi (presidente di Confindustria) e Corrado Passera (ministro delloSviluppo economico).

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2.

Impresa e classe dirigente (29 giugno 2012, Assemblea Confindustria Ravenna7)

Vorrei ricordare il dolore e la distruzione causati dal terremoto emiliano del20 maggio e dagli eventi successivi. In ogni assemblea di Confindustria dellanostra regione è stato osservato un momento di silenzio per rivolgere il nostropensiero alle vittime, e a chi affronta grandi difficoltà per riprendere la propriavita, il proprio lavoro o per rimettere in attività la propria azienda. Vi prego diunirci anche noi idealmente a tutte le altre imprese e alle persone di buona vo-lontà della regione in un momento di raccoglimento. Vi ringrazio.

È spesso uso nelle relazioni pubbliche di Confindustria elencare le cose chenon vanno nel governo locale e nazionale e spronare le amministrazioni a epo-cali cambiamenti, e questo è un esercizio utile al quale io oggi mi sottraggo prin-cipalmente perché è già stato svolto egregiamente dal nostro Presidente Squinzinel suo discorso programmatico di insediamento, in cui ha assai bene sintetizzatol’obiettivo di tutti noi nel chiedere un “Paese normale per imprese speciali”. Midedicherò dunque al tema della classe dirigente cercando di portare un contributoalle riflessioni che tutti noi quotidianamente facciamo su questa materia.

Ci troviamo oggi ad affrontare una congiuntura economica non solo difficile,ma anche piena di incertezze e minacce per il futuro: per fare bene il nostro la-voro abbiamo invece bisogno di una prospettiva, di sapere che i sacrifici ci con-ducono in una buona direzione. Abbiamo insomma bisogno di fiducia in chi ciguida. Ma è diffusa, e forse giustificata, una grande sfiducia nella classe diri-gente, nazionale ed europea. Ci diciamo che se siamo giunti qui, in una grandecrisi del debito, in cui modelli di produzione e di consumo consolidati vengonomessi radicalmente in discussione e in cui la nostra casa europea ad alcuni nonpare più confortevole, è colpa di chi ci ha guidati per tanti anni facendo come lacicala della favola, che non solo non costruiva per il futuro, ma pure derideva lapiù noiosa, ma più operosa formica.

Eppure non possiamo sottrarci alla considerazione che la classe dirigente è unprodotto della nostra società, e che siamo noi, cittadini, e corpi sociali, a sce-gliere e appoggiare chi ci guida, e anche di recente abbiamo sperimentato l’effi-cacia del giudizio del popolo sovrano in una democrazia, che si esprime proprio

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Parte prima

8 K. POPPER, relazione tenuta ad Alpbach il 25 agosto 1958 e pubblicata in Die Philosophieund die Wissenschaften, Meisenheim am Glan, Anton Hain editore, 1967, cap. VI.

9 Nell’estate 2011, a seguito di indagini condotte dalla Procura di Cremona nell’ambito del-l’inchiesta Last bet, lo scandalo del calcioscommesse coinvolse giocatori, dirigenti e società diserie A, serie B, lega pro e lega nazionale dilettanti, con l’accusa principale di associazione a de-linquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva.

10 Il 13 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia, comandata da Francesco Schet-tino, naufragò di fronte all’Isola del Giglio. L’incidente costò la vita a 33 persone, e fu causatodall’eccessivo avvicinamento alla terraferma per un cambio di rotta deciso da Schettino stesso,che abbandonò immediatamente la nave senza soccorrere i passeggeri e mentendo alla Capita-neria di Porto di Livorno sull’origine e sulla gravità dell’incidente. Schettino è stato condannatoin primo grado a 16 anni di reclusione per i reati di disastro colposo, omicidio plurimo colposoe abbandono di persone minori o incapaci.

11 Nel 2005 alcuni gruppi bancari stranieri cercarono di assumere il controllo delle banche An-tonveneta e BNL. Per impedirlo, alcuni banchieri e imprenditori italiani tentarono una scalataalle medesime banche, con manovre finanziarie che divennero oggetto di inchiesta giudiziaria. Tragli indagati per aggiotaggio ci furono anche immobiliaristi romani passati alle cronache come i«furbetti del quartierino», espressione in origine usata proprio da uno di loro, Stefano Ricucci, inriferimento ai concorrenti stranieri nel corso di una telefonata intercettata dalla Procura.

12 Nell'estate 2012 il capogruppo Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito, denunciò anoma-lie nei “documenti giustificativi delle spese effettuate” di vari consiglieri regionali. Da succes-sive indagini emerse un accordo per la ripartizione dei fondi di tutti i gruppi del Consiglioregionale: Fiorito stesso aveva fatto bonifici dal conto del Pdl al proprio per centinaia di mi-gliaia di euro spesi in feste, cene e spese personali.

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nella capacità di cambiare una classe dirigente in modo pacifico8. Non solosiamo in fondo individualmente responsabili della scelta di chi ci guida, ma ètanto più urgente ragionare su come si forma la classe dirigente e su come noi lascegliamo in questo momento, perché tra meno di un anno saremo chiamati a sce-gliere un nuovo Parlamento ed un nuovo Governo e già da oggi nelle impresesiamo chiamati a prendere decisioni, e scegliere collaboratori che ci preparino aun futuro diverso dall’attuale. Siamo dunque, all’esterno e all’interno delle no-stre imprese, in un momento in cui la classe dirigente farà la differenza. Chi ab-biamo scelto sino ad ora? Perché abbiamo fatto queste scelte? Possiamocondividere alcune idee su aspetti della leadership che ci diano metodo per lenostre scelte future?

Chi abbiamo scelto lo sappiamo: i nostri idoli del calcio truccano le partite9.A comandare le nostre navi siamo riusciti a selezionare Schettino10, simpatico,gioviale, di quelli che danno pacche sulle spalle e dicono sempre che va tuttobene. I grandi immobiliaristi del nostro Paese li abbiamo conosciuti attraverso leintercettazioni telefoniche11. In ogni posizione troviamo gente simpatica, che nonfa problemi, e ha relazioni o protettori, ma che di quel che sta facendo capiscepoco o nulla. Buona ad alzare la voce e dire parolacce, che deride i pignoli chesi affannano a fare bene il proprio lavoro. Siamo largamente un paese di pubbli-che relazioni, pieno di esperti a vendersi, ad ammiccare, ad adulare, e un po’scarso di gente che ha l’amore e la disciplina del fare. E della politica non parlo,non solo perché sarebbe troppo facile tirare fuori festini12 o patetiche lauree ac-

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Riflessioni sui grandi temi

13 In quel periodo era emerso che il figlio del fondatore della Lega Nord aveva conseguitoun diploma di laurea all’università privata Kristal di Tirana, senza essersi mai recato in Albania,ma acquistandolo per 77 mila euro sottratti ai rimborsi elettorali del partito.

14 Genesi III, 7

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quistate per corrispondenza13, ma perché della politica abbiamo bisogno, e per-ché accanto ad eletti che pure noi votiamo, ma che non ci sogneremmo di assu-mere come fattorini, ci sono ancora in politica forse più che altrove personeanimate da idealismo e speranza di contribuire al benessere della società. In que-sto la crisi ha almeno il malinconico merito di averci ancora una volta confermatoche il metodo dei furbi alla lunga porta rovina e ridicolo perfino a loro stessi.

Se chi abbiamo scelto in passato è abbastanza evidente, perché li abbiamoscelti credo sia qualcosa su cui oggi molti si interrogano con stupore. Spessoscegliamo il meno peggio, o ci esprimiamo a favore di una persona per evitaredi farci dei nemici. Indirizziamo le nostre preferenze a chi ha già una posizionedi potere, con istinto da sudditi più che da cittadini. Ma più di ogni cosa mi pareche nella scelta conti il desiderio di credere a promesse di cose belle, anche seirrealizzabili. È il medesimo istinto che rende affascinanti certe televendite oil gioco d’azzardo. Una tacita disponibilità a essere ingannati da chi ci fa so-gnare. Questa inclinazione va assai indietro nel tempo, e penso che ne troviamotraccia in uno dei miti fondanti della nostra civiltà, di cui vorrei proporre unalettura un po’ inconsueta. Si tratta della storia di Adamo ed Eva, che come notofurono indotti con belle parole a mangiare il frutto del bene e del male, si ac-corsero di essere nudi e si coprirono con foglie di fico14. Ebbene, questa storiasegna un po’ il confine tra un mondo senza pensieri, senza necessità di deci-sioni, in cui prevale la fisicità, e un mondo in cui intelligenza, riflessione e mo-rale sono necessari per sopravvivere alle difficoltà. In pochi versi la Bibbia ciricorda che la società umana si regge sull’ingegno e sulle regole, e che per farsì che a comandare sia chi ha maggior merito intellettuale e morale si deve inqualche modo coprire la fisicità. Finché essa prevale si scelgono le personepiù prestanti, ma non necessariamente quelle più adatte a comandare. Una si-mile riflessione la possiamo ripetere pensando al conflitto tra Sparta, che ab-bandonava i giovani gracili o deformi sul monte Taigeto, valutandosommamente la fisicità, e Atene che coltivava la conoscenza. Forse è per que-sto che le religioni, talora con eccesso, sono sempre state attente al senso delpudore. Anche oggi il nostro giudizio sugli altri, e su noi stessi, è diviso tra idue poli. I media spesso ci propongono modelli imperniati su bellezza e ric-chezza e questo ancora di più accende in ogni persona l’illusione di poter tor-nare a un mondo paradisiaco e senza problemi. È un inganno che spinge moltiad accordare il successo e la guida a chi predilige l’apparenza alla sostanza.Quando lo sperato paradiso non si materializza, anzi si manifesta in forma dicrisi economica e sociale, si rinnova in un numero crescente di persone la co-scienza che intelligenza, competenza e rigore morale potranno salvarci, ma

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Parte prima

15 K. POPPER, op. cit.

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sempre con un velo di illusione, perché si immagina che ciò possa avvenire infretta e senza problemi, e chi promette il paradiso in terra ha sempre molti se-guaci.

Insomma abbiamo scelto male la classe dirigente, e lo abbiamo fatto forseanche perché istintivamente preferiamo il sogno alla realtà. Ma noi impresesiamo parte della classe dirigente e concorriamo a formarla, e penso abbiamoancora qualcosa da dare alla società su questo fronte. Oggi siamo in crisi, maancora ricchi di idee e competenze e voglia di fare. I grandi cambiamenti eco-nomici portano anche opportunità, la prima della quali è che le grandi econo-mie emergenti a causa della crisi finanziaria, devono diventare consumatricioltre che produttrici, e il costo delle materie prime ed altri fattori già oggi fannosì che non sia più scontato produrre in Cina o in India per servire i mercati oc-cidentali, mentre un’inarrestabile tendenza all’urbanizzazione continua a offrireopportunità in molti settori economici. In altre parole la nostra attività mani-fatturiera e tutto ciò che le ruota attorno può salvarsi e vivere una nuova sta-gione di industrializzazione. Ma perché ciò accada dobbiamo anche sceglierebene chi ci governa, e consolidare i metodi di decisione all’interno delleaziende. Per questo tra tanti spunti possibili vorrei toccare tre aspetti dell’artedel comando che mi paiono utili in questo momento: lo sbaglio, il compro-messo e la decisione.

Lo sbaglio è quella cosa che non piace a nessuno, ma da cui nascono moltisuccessi.

Quando entrai in azienda uno stimato dirigente mi disse di aver sempre in-segnato ai suoi collaboratori: «quando sbagliate ditemelo, e quando sbaglio di-temelo». Io ho fatto tesoro di questo insegnamento, perché una cultura cheaccetta lo sbaglio, purché ragionevole e non ripetitivo, non solo evolve rapi-damente, favorisce la lealtà e coglie più successi, ma evita le falsità, le coper-ture e le lotte per la carriera tipiche dei luoghi dove non si ammette mai disbagliare. Lo sbaglio è alla base della cultura scientifica, che consiste nel met-tere continuamente alla prova le conoscenze e le teorie, per trovarvi una fallae migliorarle15. Questo metodo fu avviato dai nostri concittadini europei dicultura greca, e in particolare dalla scuola ionica guidata da Talete, quando perprimo nella storia esortò i discepoli a non attenersi alle sue teorie, ma a cercaredi migliorarle criticandole. Ciononostante nelle nostre pubbliche amministra-zioni si temono gli sbagli come la peste, cosa che porta a rifiutare le responsa-bilità, come tristemente accade alle imprese nelle aree terremotate che sivedono bloccate le riaperture. Anche per i nostri tribunali assai spesso lo sba-glio diventa immediatamente dolo. Chi comanda deve saper ammettere di sba-gliare, e deve far comprendere quali sbagli saranno tollerati. In azienda e inpolitica suggerisco di diffidare di chi non sbaglia mai, e di non farlo saliretroppo in alto nella gerarchia, perché certamente causerà grandi danni.

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Il compromesso è negli affari e nelle relazioni con gli altri uno strumentoimportante di convivenza e crescita, perché è l’essenza dei rapporti e della col-laborazione tra le persone. Esso giova finché è il ragionevole punto di incon-tro di obiettivi contrastanti, diventa però deleterio quando è esso stessol’obiettivo. Nella nostra società abbiamo una discreta passione per il conflitto,ma poi vogliamo sempre che ci sia un punto di incontro. Il comitato del no, ilgruppo di potere corporativo, il dipendente ricattatore, il burocrate ottuso sonofigure tipiche con cui le imprese si scontrano in uno schema fatto di conflittospesso esagerato, cui segue la fase in cui si deve trovare a tutti i costi un com-promesso o un consenso. Penso che si debba resistere a questo schema, e pre-tendere che chi ci guida sappia resistervi. Se un compromesso è possibile vacercato onestamente prima del conflitto. Se non lo è, e talora non lo è, bisognaavere la coerenza di difendere le proprie posizioni fino in fondo, sapendo cheun vero conflitto in genere è lungo e provoca danni, e semplicemente una partevince e l’altra perde. Margaret Thatcher condannava il fascino fraudolento delconsenso ricordando che nessuna battaglia è stata vinta nel suo nome16, e chechi vuole piacere è portato al compromesso, e perciò non raggiungerà mai gliscopi che si è prefissato.

La decisione è il prodotto principe dell’attività di leadership, è il motivoper cui affidiamo ruoli di responsabilità alle persone. Quando si deve prendereuna decisione non vi è mai il tempo sufficiente per studiare in ogni dettaglio lacosa e sentire ogni punto di vista, e perciò chi decide deve avere un bagagliodi conoscenze e di esperienze e di coraggio che gli permettano di valutare lasituazione al meglio, di percepire le aspettative delle persone per conto dellequali è chiamato a decidere, e di quantificare il rischio associato alla decisionee alle alternative. In poche parole deve avere una formazione, o meglio unaeducazione, adatta a decidere. Questa formazione è fatta di battaglie vinte eperse. Di disciplina e rigore. Di nozioni memorizzate. E infine e forse soprat-tutto è fatta di pensiero critico, di una volontà indomabile di porre domande,di mettere in discussione la cornice in cui ogni problema viene presentato. Edè fatta di punti di riferimento morali e metodologici, per scartare le argomen-tazioni ideologiche e futili e valutare quelle solide. Queste cose nelle scuole del-l’occidente si vanno perdendo. Noi che con Talete abbiamo scoperto il metodoscientifico a scuola ormai spingiamo per una omologazione dei cervelli e perun ribaltamento dei valori. Nulla vale perché tutto va messo sullo stesso piano.Il pendolo della cultura si è spostato da un odioso integralismo dei valori ad unottuso relativismo dei valori. Insegniamo a metter in discussione la nostra cul-tura (e va bene) ma non le altre. Una volta si insegnava il principio di autorità,che se trasmesso con equilibrio dagli adulti educava i giovani a esercitare aloro volta responsabilmente l’autorità: occorre in fondo imparare a obbedire perimparare a comandare. Oggi i bulli, invece di essere disciplinati ed aiutati, ven-

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16 M. THATCHER , The Downing Street Years, Londra, Harper Collins, 1993, p. 167.

Riflessioni sui grandi temi

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gono considerati come il risultato di dinamiche di gruppo sbagliate e dunquesi impongono alle classi corsi di affettività assistiti da psicologi, finendo per in-segnare di fatto a tutti che l’aggressività resta semplicemente impunita. Dob-biamo dunque dibattere di più su cosa si insegna a scuola e su come lo siinsegna e forse il mondo dell’impresa dovrebbe investire di più sull’educa-zione, cosa che in piccolo a Ravenna da qualche anno cerchiamo di fare.

Dobbiamo indicare chiaramente che il mondo dell’impresa sceglierà e so-sterrà persone che sono capaci di pensare da sole, e dire no quando serve, e am-mettere i loro sbagli e imparare da essi. Non solo nelle assunzioni, ma anchenella politica dobbiamo conoscere le persone cui ci affidiamo, chiedendo chisono e cosa hanno fatto nella vita. E tutti noi sappiamo che non è il titolo di stu-dio quel che ci rassicura, bensì le azioni, la voglia di imparare ed i principi vis-suti con coerenza.

Dal paradiso terrestre siamo stati cacciati ormai da qualche tempo, e dob-biamo rassegnarci che nessun politico o condottiero, per quanto affascinante opotente, ci riporterà là. Nel scegliere i capi del Paese, dei territori o delleaziende soppesiamo le promesse, impariamo a fare la domanda che poniamoogni giorno in fabbrica: “quanto costa?”. Valutiamo le effettive capacità, ap-prezziamo soprattutto chi senza farsi scoraggiare individua lucidamente i pro-blemi, analizziamo le qualità morali e intellettuali e non quelle effimeredell’apparenza.

Nella relazione dell’anno scorso ho avuto l’onore di ricordare come impresa,benessere economico e libertà siano indissolubilmente legati, così come sono tri-stemente legati la tirannia, la servitù e la miseria17. Vorrei aggiungere quest’annoche la cultura di impresa, che per necessità valorizza il merito, è anche baluardodei valori che caratterizzano una buona classe dirigente. La nostra esperienza ciinsegna che il futuro è aperto, lo costruiamo noi, ed abbiamo il dovere di essereottimisti. I problemi ci sono e ci saranno sempre, e si risolvono sempre, ma solocol libero concorso delle intelligenze, con studio e con fatica.

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17 M. FRIEDMAN, op. cit., p. 44.

Parte prima

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3.

Aeroporto “Mussolini”, un’offesa a Forlì e a Confindustria

(19 ottobre 2012, Assemblea Unindustria Forlì-Cesena)

Ho sentito la notizia della proposta di Massimo Balzani18 con grande stu-pore e tristezza, anche conoscendo le qualità umane e la storia di Balzani.

È una proposta che ingenera rabbia e disapprovazione. Ho apprezzato cheConfindustria nazionale, tramite il vice presidente Aurelio Regina, l’abbia de-finita una vergogna e ne abbia preso le distanze, così come apprezzo che Unin-dustria Forlì attraverso il suo presidente Giovanni Torri abbia chiarito che èuna proposta non condivisibile. Il fascismo, tra le tante colpe, umiliò ancheConfindustria e ne rimosse i capi sgraditi, stabilì un sistema corporativo che fa-voriva clientele e affarismo ma che disprezzava la libera impresa, nemica diogni tirannia. Forlì così ricca di uomini illustri da Melozzo a Pascoli, da Artusial mazziniano Aurelio Saffi, cui è intitolata la piazza centrale, sarà certo of-fesa di essere identificata con un dittatore crudele e grottesco.

I problemi dell’aeroporto non sono nel nome, facile fuga per chi non vuoleaffrontare i problemi veri. In uno spirito di sperata unità romagnola, pensereisemmai a un migliore coordinamento delle infrastrutture, e lascerei all’aero-porto il nome Ridolfi, che va benissimo, accanto a Baracca, asso degli assi del-l’aviazione, della vicina Lugo, cui è intitolato questo istituto19.

Le provocazioni le fanno i provocatori, e i provocatori di solito non rap-presentano Confindustria. Sono dispiaciuto che un’idea balzana getti discreditosu Forlì e su Confindustria.

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18 In un’intervista su «Il Resto del Carlino» dell’11 ottobre 2012 il direttore di UnindustriaForlì-Cesena, Massimo Balzani, ha proposto a titolo personale di intitolare l’aeroporto di Forlìa Mussolini per “garantire maggiore visibilità” allo scalo.

19 L’iniziativa si è svolta all’Istituto tecnico aeronautico “Francesco Baracca” di Forlì.

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4.

Impresa e comunicazione(4 luglio 2013, Assemblea Confindustria Ravenna20)

La comunicazione e in particolare i nuovi mezzi di formazione del con-senso sono stati protagonisti delle rivolte nel mondo arabo, dei moti di piazzain Turchia contro Erdogan, e fanno da sfondo a guerre informatiche tra le po-tenze mondiali. Nelle ultime elezioni politiche italiane il Movimento 5 Stelleha fatto una scommessa vincente sul web come catalizzatore del dissenso mo-strando a tutti la forza di aggregazione e di suggestione dei nuovi canali me-diatici.

Viviamo un momento di profonda crisi del nostro tessuto economico e so-ciale e credo sia naturale aprire questa relazione chiedendosi come mai, tra letante priorità e temi scottanti su cui parlare, Confindustria Ravenna abbia sceltodi dedicare questa assemblea al rapporto tra impresa e comunicazione e non atemi che ci sono pur vicinissimi come l’eccesso della pressione fiscale, la scar-sità del credito, la burocrazia, o al tema degli aiuti al lavoro e alle imprese. Eb-bene vi sono essenzialmente due motivi che cercheremo di approfondire oggi.Uno è di natura più ideale, sebbene con implicazioni profonde sulla vita delleimprese, e cioè che nei momenti di difficoltà e tensione sociale ed economicai valori di libertà e democrazia ed i processi politici ad essi connaturati vengonomessi a più severa prova dalla necessità di trovare vie di fuga (reali o illuso-rie) alla crisi. È in questi momenti che storicamente la libertà ha vacillato e chele dittature hanno avuto successo. A dare vigore alla democrazia, o potere allatirannide, sono anche i mezzi di formazione del consenso, in primo luogo imezzi di comunicazione. Dunque riflettere sulle loro dinamiche è utile ancheal mondo produttivo, soprattutto quando strumenti abbastanza nuovi come in-ternet giocano un ruolo crescente. L’altro motivo è più vicino all’industria ben-ché connesso al primo, e cioè che proprio nei momenti di crisi viene meno lafiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella politica, e i nuovi progetti delleaziende, e quelli di infrastrutturazione del territorio vengono facilmente bloc-cati da gruppi di interesse o di opinione, anche esigui, ma capaci attraverso imezzi di comunicazione di mobilitare l’interesse dell’opinione pubblica e dioscurare la legittimità democratica delle istituzioni politiche.

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20 Ospiti Giorgio Squinzi (presidente di Confindustria), Carmen Lasorella (presidente Rai-Net), Mario Virano (commissario governativo Tav) e Michele Sorice (docente di comunica-zione politica).

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Se possiamo dapprima concentrarci su questo secondo aspetto vorrei ra-gionare su come l’impresa generalmente comunica col suo territorio. Le nostreimprese sono per la maggior parte piccole o medie e non hanno una strategiadi comunicazione, né un ufficio stampa. Sono però in genere molto legate alloro territorio, e l’imprenditore incontra con regolarità cittadini e autorità, chespesso sono anche amici di scuola o vicini di casa, magari sostiene iniziativesociali o sportive, più per vero coinvolgimento personale o famigliare che percalcolo, creando nel tempo una reputazione e una condivisione delle informa-zioni che permettono di proporre alla comunità in cui vive nuovi progetti in-dustriali senza bisogno di sforzi particolari di comunicazione. È a questo livelloche vi è forse in modo massimo coincidenza tra la sostanza delle attività del-l’azienda e la percezione che ne ha il pubblico. A fungere da mezzi di comu-nicazione sono in fondo l’esempio, i contatti quotidiani, la storia personale.Ma anche a questo livello se il nuovo progetto si discosta molto da quanto lacomunità considera normale, o se il progetto è valido ma la reputazione nonunivoca, le difficoltà cominciano subito. A maggior ragione ciò succede per leimprese medie o grandi, che per la loro dimensione e struttura organizzativafanno più fatica a mantenere un pieno dialogo con le comunità in cui operano.Anche le imprese con grandi uffici stampa, relazioni con i media, o addiritturamedia di proprietà, faticano a trasmettere in modo credibile le ragioni dellaproprie iniziative industriali. Questo stato di cose forse contribuisce a spiegareanche la scarsità di investimenti esteri.

Tipicamente quando vi sono nuovi progetti si attiva un processo che provodi seguito a evocare sinteticamente, e che ognuno di noi ha qualche volta vis-suto sulla propria pelle. Si svolgono innanzi tutto le procedure di studio e con-sultazione pubblica previste dalla legge, che sono complesse, costose e moltodettagliate e alle quali raramente la gente partecipa. Solo quando il progetto siorienta e si consolida e la sua realizzazione appare imminente, cominciano adaggregarsi gli interessi contrari all’investimento. A interessi legittimi, o almenocomprensibili, come quelli di cittadini che temono effetti negativi sulla loroquotidianità, si accodano interessi meno meritevoli di difesa, come quelli diconcorrenti o altri interessi economici o di mera visibilità personale. È in que-sta fase che si formano i comitati del no, gruppi spesso contenuti numerica-mente, che cercano di attirare la simpatia dei media, e che sempre più siservono efficacemente dell’effetto moltiplicatore di internet. Nei blog, nei sitie nei gruppi online appaiono slogan ad effetto ed allarmanti, ma che sono in ge-nere frasi vuote, mezze verità che, come noto, equivalgono a bugie intere. Ilmeccanismo che invita il visitatore a esprimersi sulla posizione del blog bana-lizza questioni assai complesse a un semplice «mi piace». Con la pressione diun tasto ogni visitatore di quel sito, magari residente in aree lontanissime, puòidentificarsi con una causa e farle acquistare vigore.

Le istituzioni e le forze politiche, che rappresentano legittimamente gli in-teressi della collettività, dovrebbero essere coloro che dialogano con questi

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Parte prima

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gruppi, scegliendo anche all’occorrenza di ignorarli se il dialogo è sterile. Essedovrebbero dare voce alle molte persone che traggono direttamente e indiret-tamente benefici dalle nuove iniziative, e che spesso per indole non si espon-gono. Ma le istituzioni in tempi di crisi hanno meno forza e menoautorevolezza, e non sempre hanno la coscienza a posto, come non semprel’industria è priva di colpe. Per questo capita di assistere sgomenti allo spetta-colo di donne e uomini delle istituzioni che, votati da decine di migliaia di cit-tadini, arretrano di fronte alle decine di oppositori. Chi sono gli attori di questaopera ora tragica ora comica che attraverso un uso sapiente dei mezzi di co-municazione rallenta o blocca molte opportunità di sviluppo? Proverei a in-vestigare tre figure che tipicamente appaiono sulla scena e che dobbiamoallenarci a identificare bene in ogni confronto sui media: esse sono l’oracolo,il complotto, e la collettività che ad un certo punto sposa una causa abbando-nando ogni spirito critico.

L’oracolo è colui che anima e guida la comunicazione. Nell’antico Egitto erala persona che dominava la parola scritta. Infatti gli egizi erano consci del po-tere di trasformazione della realtà che aveva la scrittura (i nuovi media di queitempi) e la affidavano alla sola casta sacerdotale chiamandola “parola del dio”.La Bibbia è forse il testo più antico che tratteggia con realismo la potenza del-l’intellettuale, raccontando l’episodio di un re il quale ebbe l’intuizione che sele armi fallivano, si poteva efficacemente combattere e vincere con le parole.Egli convocò un certo Bilam, un grande parlatore dell’epoca, amato dall’opi-nione pubblica e capace di mettere in crisi tutti con attacchi verbali violentissimi.Bilam sapeva bene che i motivi per cui il re lo chiamava erano sbagliati, e sa-peva anche di rischiare l’insuccesso, ma non resistette alla tentazione econo-mica e montò una campagna mediatica che infine fallì, ma che fu temibile.Umberto Eco, nel suo libro Baudolino, tratteggia l’ascesa e il ruolo sociale del-l’intellettuale nel Medioevo, fino al punto di essere una figura forse più potentedel sacerdote e del guerriero. Non è dunque una novità il fatto che ci sia sem-pre un teorico, che sa servirsi bene della parola e dei media più moderni, chescalda il cuore delle persone e guida le coscienze, talvolta per la causa giusta,talaltra per quella sbagliata, ma dalla quale può trarre fama o vantaggio.

Il complotto è l’ingrediente di base di cui si serve chi contesta e vuole bloc-care un’iniziativa e di cui abusa l’intellettuale disonesto: immancabilmentedirà che dietro alle nuove idee che si propongono vi sono poteri oscuri, infor-mazioni celate, interessi inconfessabili. È questo un modo molto suggestivodi affrontare i problemi, e anche molto consolante, infatti non bisogna faticare,ma semplicemente smascherare, e talvolta annientare, chi complotta contro dinoi, e dopo tutto andrà bene. Tutti noi conosciamo almeno qualcuno a cui tuttova storto e che dà sempre la colpa agli altri. Per quanto possa essere sfortu-nato, guardiamo con un po’ di fastidio a persone così, perché ognuno di noi,anche nelle difficoltà, ha pur sempre un grado di libertà per reagire. Chi dà lacolpa solo agli altri rinnega questa libertà. È proprio questo il lato triste delle

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teorie della cospirazione: chi le sposa si è già privato della fiducia nella pro-pria libertà, non crede più nella responsabilità individuale e nel corso della sto-ria quasi sempre coloro che hanno spiegato la realtà coi complotti hanno poifinito per limitare o togliere la libertà anche agli altri. A braccetto col com-plotto viene sempre la calunnia, perché quando le argomentazioni sono deboligiova al comunicatore portare l’attenzione sul piano personale. Egli conosce lapotenza politica dell’insinuazione e della denigrazione, resa oggi ancora più fa-cile dall’anonimato e dall’impunità che offre il web, dove si svolgono attacchipersonali violentissimi, sia a personalità pubbliche, sia tra privati cittadini, so-prattutto adolescenti. La dinamica della calunnia fu descritta magistralmente inun’aria del Barbiere di Siviglia di Rossini (ricordo che Rossini ebbe un periodoformativo nel nostro territorio, dai fratelli Malerbi a Lugo, dove la sua fami-glia aveva una proprietà). E l’aria dice: «la calunnia è un venticello, un’aurettaassai gentile … che insensibile e sottile … nelle orecchie della gente s’intro-duce destramente» ma alla fine, quando il suo veleno si è diffuso, «il meschino,calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va acrepar».

Ora, l’intellettuale populista, con le sue tecniche, la sua maestria nell’uso deimedia, il suo uso della calunnia e delle teorie del complotto non concluderebbenulla se non avesse una collettività, cioè noi cittadini, disponibile a trasfor-marsi in massa, a perdere ogni senso critico, a far prevalere in ogni cosa il va-lore di conservazione (il no) rispetto alle opportunità del cambiamento (il sì)esercitando appieno la forza di interdizione che la nostra società esprime. Col-tiviamo poco la cultura scientifica e la conoscenza mnemonica, cioè queglistrumenti che ci aiuterebbero a cogliere le incongruenze di certe teorie e la lorofallacia. Tendiamo a credere alla narrazione coerente e a inferire il generaledal particolare e non il viceversa. In altre parole tendiamo sempre a credere auna bella storia che suona bene senza approfondire i fatti, e preferiamo ascol-tare solo gli “esperti” che confermano quel che già pensiamo. A me è capitatodi seguire un attacco alla gestione di una casa di riposo ad opera di un “comi-tato parenti” che lamentava il cattivo trattamento degli ospiti. I politici localisi interessavano alla cosa, i media davano risalto con simpatia alle accuse deiparenti. Poi qualcuno, dopo molto tempo, ha verificato che nessun membro ditale associazione, che aveva nel frattempo ottenuto un cospicuo potere, era maistato parente degli ospiti. All’estero ho conosciuto un’associazione che difendel’ambiente ed è finanziata dalla Comunità Europea, ma l’ho vista proteggerepalazzinari e interessi illegali. Ci sono regioni d’Italia dove l’ostilità a qualun-que gestione razionale dei rifiuti si trasforma in un aiuto alle ecomafie. E la co-municazione è il catalizzatore che dà forza al misto di ingenuità, paura,interessi, idealismo e rifiuto della razionalità che trasformano le questioni dadibattito civile su diversi modelli di sviluppo a confronto verbale, e talvolta fi-sico, violento.

Cosa si può fare quando si affronta questa dinamica? Non è facile, ma credo

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ci siano molte risposte sia a livello ideale, che a livello pratico. Al livello più elevato ricordiamo, come abbiamo fatto in apertura di questa

relazione, che i media e la politica sono strettamente connessi e che solo gra-dualmente il pubblico ne comprende i meccanismi e i trucchi ed è dunquemolto più influenzato dai nuovi media nella loro fase iniziale. Perciò quandomomenti di tensione economica e sociale hanno coinciso con innovazioni im-portanti nei mezzi di comunicazione si sono avuti grandi progressi o grandidisastri. L’invenzione della stampa favorì la riforma protestante. Napoleone futra i primi a capire l’efficacia dei giornali come strumento di governo pressouna borghesia che acquisiva crescente potere sociale, e fece ogni sforzo peravere un controllo esteso sulla stampa della sua epoca. Cavour intuì l’effettodella maggiore alfabetizzazione presso le classi medie che consentiva un usoancor più efficace, e più liberale, dei giornali. I grandi dittatori del Novecento,Mussolini, Hitler e Stalin, studiarono la potenza di radio, cinegiornali e ci-nema, i nuovi media dei loro tempi, e anche grazie ad essi, in un momento digrandi tensioni e trasformazioni poterono indirizzare il malcontento generalee poi soffocare ogni voce contraria, costruendo un consenso vastissimo al ser-vizio di ideologie assurde, prima che inumane. Friedrich von Hayek diceva chela possibilità di scegliere il proprio governo non garantisce necessariamente lalibertà, e un giurista liberale come Hans Kelsen rifletteva negli anni Venti che«non c’è democrazia liberale senza partiti politici, i quali raggruppano gli uo-mini di una stessa opinione, e garantiscono loro un influsso effettivo sulla ge-stione degli affari pubblici» e aggiungeva che «solo l’illusione o l’ipocrisiapuò credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici» . In altre pa-role il consenso non esiste in natura, e da 25 secoli chiamiamo politica il pro-cesso in cui esso si forma o si trasforma. Laddove le scelte sono semplificateall’estremo, e non vi è un luogo di dibattito aperto che consenta l’approfondi-mento, l’opinione pubblica non riesce più a percepire la complessità del reale.Ciò favorisce la polemica invece del confronto informato e civile, e la possi-bilità di scegliere i propri rappresentanti non basta più a garantire la libertà ela democrazia. Internet non ha necessariamente queste caratteristiche, ma ilfatto di non avere filtri e di favorire la semplificazione della realtà, in questomomento sembra far prevalere l’aspetto anonimo e polemico. Starà agli utenti,che siano cittadini, imprese o politici, adoperarsi con uno sforzo anche cultu-rale affinché la rete dispieghi il suo potenziale in modo da consolidare la libertàe la conoscenza e non di minarle.

Per contrastare la dinamica che abbiamo descritto ricordiamo anche, a li-vello più pratico, che l’interesse resta un potente e onesto motore delle scelteindividuali. Negli Stati Uniti nuovi metodi di estrazioni di petrolio e gas (shaleoil e shale gas) stanno cambiando lo scenario economico e sociale e innescanograndi investimenti in ogni campo, mentre da noi qualunque attività di ricercaè avversata. Tra le tante ragioni per questa differenza di atteggiamento dellagente ricordo che in America i proprietari dei terreni hanno diritto anche sul sot-

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tosuolo e dunque una scoperta può recare disagi, ma anche grandi ricchezze aisingoli cittadini. È per questo che essi guardano con più interesse a questa op-portunità e ne bilanciano rischi e benefici, mentre da noi il sottosuolo è delloStato e la ricerca arreca solo vantaggi indiretti ai cittadini. In generale gli in-centivi per i singoli a fronte di un investimento importante o a un’opera pub-blica sono poco percepiti da noi. Inoltre le comunità non avvertono appieno ilbeneficio generale che un buon tessuto industriale porta a un territorio e dun-que anche le istituzioni non sempre si spendono per questo. In termini tecniciil problema riguarda le esternalità che ogni nuova iniziativa può generare, e ilfatto che vanno individuate e condivise non solo le esternalità negative, maanche quelle positive. Noi proponiamo a questo proposito di avviare qualcheriflessione su uno schema di allocazione parziale dell’IRES (l’imposta sui red-diti delle società) alle amministrazioni locali, senza compensazioni o solidarietàtra territori, per rendere più forte la correlazione tra insediamenti produttivi ebenessere, e per depotenziare la forza suggestiva dei comitati del no.

Abbiamo dunque riflettuto sulla potenza dei mezzi di comunicazione e sullaforza maggiorata di internet nella sua attuale fase iniziale, e anche su artificicome la calunnia e la teoria del complotto che possono armare intellettuali set-tari o privi di scrupoli che sulla rete trovano spazio senza filtri. Abbiamo infineipotizzato che cultura e strumenti economici di allineamento degli interessipossano depotenziare gli effetti negativi di un certo tipo di comunicazione sullasocietà e sulle iniziative industriali. Quale provvisoria conclusione possiamotrarne noi imprenditori? Innanzi tutto bisogna che accettiamo, anche se ci è in-dubbiamente ostico, che comunicare è necessario, e lo è ancor più in tempi dicrisi, e che nel farlo ci confrontiamo con dinamiche anche dure, ma non pos-siamo ignorare i media e in particolare i nuovi strumenti di comunicazione of-ferti dal web. Possiamo forse dire anche che vi è un nostro ruolo per faremergere una cultura fattiva nel dibattito sulla rete, una capacità di non farsi il-ludere dagli slogan, un rigore mentale che ci abitui a rifiutare il contesto in cuiun problema ci viene confezionato, provando a vedere se il problema è sem-pre lo stesso dopo aver riformulato il contesto. E poi dobbiamo in qualchemodo investire di più nella cultura generale e scientifica, e nel suo piccolo Con-findustria Ravenna lo fa sostenendo istituti tecnici, centri di ricerca e il nostropolo universitario che va assumendo crescente importanza per il territorio.

Nella relazione di due anni fa ho avuto l’onore di ricordare come impresa,benessere economico e libertà siano indissolubilmente legati, così come sonotristemente legati la tirannia, la servitù e la miseria. L’anno scorso ho espressoil sentimento, condiviso nel mondo dell’industria, che la cultura di impresa,che per necessità valorizza il merito, è anche baluardo dei valori che caratte-rizzano una buona classe dirigente. Vorrei aggiungere quest’anno che i senti-menti di laboriosità e concretezza dell’impresa possono emergere e affermarsianche nei dibattiti senza filtri su internet, e che se il ceto produttivo saprà par-tecipare a questa sfida consoliderà la conoscenza e la libertà di tutti noi.

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Parte prima

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Lo scenario energetico internazionale: Israele e il Mediterraneo

(23 marzo 2014, Associazione di Cultura Ebraica Ovadyah Yare da Bertinoro)

Per parlarvi di energia nel Mediterraneo, toccando anche la situazione in cuisi trova Israele, vorrei prima fare alcune considerazioni su temi di fondo delconsumo di energia nel mondo, sul ruolo delle fonti fossili (il carbone, e gliidrocarburi, cioè petrolio e gas), alcune considerazioni sull’ambiente, e col per-messo di Rav Caro, anche qualche riflessione sull’idea ebraica di progressotecnologico e rapporto tra l’uomo e l’ambiente.

Innanzi tutto avrete sentito dire, perché è un’idea che ormai si dà per scon-tata, che l’energia da fonti fossili sia molto inquinante, causi l’effetto serra,cioè un fenomeno dove le emissioni di anidride carbonica operano un po’ comele pareti di una serra, facendo riscaldare di più il nostro mondo, e vada sosti-tuita con altre fonti cosiddette rinnovabili. Noi stessi siamo in qualche mododei motori inquinanti: mangiamo carboidrati (parola che ricorda da vicino il ter-mine idrocarburi...), li trasformiamo in energia, riserve (i grassi) ed emissionidi anidride carbonica. Non solo emettiamo anidride carbonica, ma ogni essereumano si porta dietro una catena di animali allevati che a loro volta produconoCO2. Dunque il nostro stile di vita, sia nei consumi energetici, sia semplice-mente nell’aumento della popolazione e del benessere, genera crescenti quan-tità di anidride carbonica. Tali emissioni possono rimanere nell’atmosfera otornare nel ciclo della vita, fissandosi nelle piante. Molti esponenti del pen-siero ambientalista sostengono che abbiamo avuto fin troppo sviluppo, e chela crescita sia ormai una malattia e non una cura21. D’altro canto un patriota epensatore importante della tradizione italiana, Carlo Cattaneo (1801-1862)amava ricordare che l’ambiente non esiste in natura, che cioè la vita e i paesaggiin cui viviamo sono opera millenaria dell’uomo. In natura vi sono deserti, pa-ludi e foreste. È l’uomo che ha addolcito le colline, piantato frutteti e gover-nato i flussi d’acqua, e l’abbandono di un’attività di governo del territorio ciriporterebbe rapidamente all’età primitiva.

Se la meritevole preoccupazione per l’ambiente spinge da quasi 50 anni22

a sviluppare le fonti alternative, che pure hanno un loro impatto sull’ambiente,ha ancora attualità parlare come facciamo oggi di petrolio, gas e altre fonti fos-

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21 Ad esempio Paul R. Ehrlich, Stanford University, USA, entomologo e demografo.22 Il rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo del Club di Roma è del 1972.

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sili di energia? Sì, possiamo rispondere, perché una percentuale significativadella nostra energia viene da esse, e perché per ora le fonti rinnovabili (sole,vento, maree ecc.) sono costose e non stabili. L’uomo per gran parte della suavita in questo mondo ha usato la legna per riscaldarsi e generare energia, ed havissuto vite brevi e faticose. Dalla rivoluzione industriale in poi ha usato fontifossili, migliorando enormemente la qualità della propria vita: si stima che nelventesimo secolo la temperatura globale del pianeta sia cresciuta di 0,7 gradi,mentre il prodotto interno lordo è cresciuto del 1700%. L’approvvigionamentodi petrolio, e in tempi più recenti, di gas è diventato strategico per ogni paese.Si è temuto molte volte che le fonti fossili dovessero cessare riportando ilmondo indietro, ma finora così non è stato perché nuove tecnologie hanno por-tato a nuove scoperte, e i prezzi sono saliti e scesi in funzione dell’evolversi siadella disponibilità fisica di prodotti, sia della loro collocazione geografica.L’Arabia Saudita ebbe un famoso ministro del petrolio, Ahmed Zaki Yamani,che svolse il suo incarico dagli anni Sessanta agli anni Ottanta e orchestrò at-traverso l’OPEC le due crisi petrolifere del 1973 e del 1979, cui si attribuisceuna frase assai efficace: «come l’età della pietra non finì per mancanza di pie-tre, l’età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio».

Un ultimo elemento di contesto che è bene conoscere è che in Europa i con-sumi di prodotti petroliferi calano da molti anni, a causa di fattori tecnologici(risparmio energetico, migliori motori) e politici (crescita demografica zero onegativa, fortissimi incentivi alle fonti alternative). Inoltre normative ambien-tali severe hanno fatto crescere il costo di raffinazione e distribuzione dei pro-dotti. Tutto ciò ha fatto sì che la nostra industria petrolifera si sia moltocontratta: in Francia da circa 50 raffinerie negli anni Sessanta ne sono rimastesolo nove operative oggi. Simili trend si hanno negli altri Paesi europei, e in Ita-lia negli ultimi anni hanno chiuso quattro importanti raffinerie (Cremona,Roma, Venezia, Mantova) e altre ne chiuderanno, dopo che nei decenni pre-cedenti avevano cessato l’attività numerosi siti, come ad esempio Ravenna nelnostro territorio, o Rho dove ora sorge la Fiera di Milano. Nuove grandi raffi-nerie sorgono invece in Paesi come l’Arabia Saudita, l’India, il Vietnam, laCina, e producono a prezzi più bassi (anche grazie ai minori vincoli ambien-tali) rifornendo poi i mercati europei.

Dunque ora sappiamo che le fonti fossili restano assai importanti per il no-stro benessere, che hanno una funzione geopolitica (il posto dove sono in-fluenza la politica e lo sviluppo delle nazioni), e che non vi è a breve timoreche esse cessino o siano insufficienti. È dunque per questo che sono impor-tanti le nuove scoperte (tecnologiche o fisiche) in aree diverse da quelle tradi-zionali di produzione. Infatti tali aree come la penisola arabica, l’Iran, l’Africa,sono ricche, ma politicamente guidate in modi non democratici, e da noi per-cepiti come meno stabili.

Volgiamo dunque ora il nostro sguardo al Mediterraneo dove tradizional-mente i paesi produttori sono quelli arabi, e quelli europei sono consumatori.

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Parte prima

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La prima cosa da sapere è che vanno trovandosi riserve di gas e di petrolioanche nel nord del Mediterraneo, e che anche l’Italia ha risorse che coprireb-bero oltre il 10% del proprio fabbisogno, ma che solo una piccola parte vieneestratta, per vincoli ambientali e giuridici, per la complessità del processo am-ministrativo e per il potere di veto molto forte nella nostra cultura. Il gas chec’è in Adriatico ad esempio viene estratto in minime quantità dal nostro Paese,essenzialmente a beneficio della Croazia che attinge pienamente agli stessi gia-cimenti operando dall’altro lato dell’Adriatico. Ma la scoperta di riserve più im-portante e interessante in questi ultimi anni è quella che riguarda la disponibilitàdi gas al largo delle coste di Israele, e probabilmente anche nelle acque terri-toriali di Cipro e del Libano. I due principali giacimenti già scoperti si chia-mano Leviatano, con una riserva di gas stimata in 540 miliardi di metri cubi digas, e Tamar con 240 miliardi di metri cubi di gas. Ad essi si affianca un terzogiacimento, Dalit. Israele è un Paese finora povero di energia fossile e dipen-dente dalle importazioni: si attribuisce a Golda Meir la battuta che Mosè portògli ebrei nell’unico paese senza petrolio del Medio Oriente. In seguito agli ac-cordi di Camp David nel 1979, Israele poté fare un contratto con l’Egitto perl’importazione del gas, accordo che ha operato con discontinuità e sotto in-fluenze politiche e ideologiche tipiche dell’area. Queste nuove scoperte in ter-ritorio israeliano, quando saranno messe in produzione, permetteranno al Paeseautosufficienza per oltre 25 anni quanto al consumo di gas per produzione elet-trica e altri usi, e consentiranno anche esportazioni verso l’Europa, che oggi di-pende molto da Algeria, Russia e in prospettiva Khazakistan. Ma soprattuttovedremo esportazioni verso la Giordania e l’Autorità Palestinese, con cui sonogià stati siglati importanti contratti. È questo forse uno dei temi più interes-santi di questa scoperta, perché le relazioni economiche continuative e la co-munanza di interessi possono fare per la pace nell’area quanto e più delle azionipolitiche e militari.

Un altro tema che è interessante toccare almeno brevemente è quello delloshale oil e shale gas di cui forse avrete letto qualcosa sui giornali. Si tratta ditecniche che permettono di estrarre gas e petrolio da scisti, cioè formazioni so-lide che vengono “sciolte” con una tecnica nuova denominata fracking. Suquesta tecnica ci sono posizioni controverse, vi è chi dice che è innocua e so-stenibile, e chi dice che causa danni alle falde acquifere, provoca terremoti ein ogni caso consente produzioni poco sostenibili nel tempo. Non entriamo inqueste discussioni, ma è bene sapere che negli USA, dove queste tecniche sonostate inventate e vengono diffusamente usate, la produzione di gas e petroliosta salendo e ci si attende che verso il 2020 il Paese superi la produzione del-l’Arabia Saudita. I prezzi del gas sono scesi nettamente (circa quattro dollarial metro cubo, contro i 12 in Europa e 18 in Giappone) e questo ha provocatouna nuova crescita industriale in America, forse proprio dovuta a queste sco-perte più che alle politiche monetarie e fiscali, infatti dai bassi prezzi del-l’energia trae beneficio tutta l’industria e il gas e il petrolio non sono solo fonti

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Riflessioni sui grandi temi

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energetiche, ma materie prime fondamentali per la chimica, l’agricoltura e lafarmaceutica. Tale dinamica si riverbera anche sull’Europa, che riceve ora dagliUSA flussi di prodotti, soprattutto chimici, a prezzi molto più bassi di quellidella produzione europea.

Infine vorrei fare una riflessione ebraica richiamandomi a una storia bennota, e cioè la storia della torre di Babele. Dopo la fine del diluvio la Terra siripopolò, e tutti gli uomini erano fratelli tra loro e vivevano di quel che la na-tura offriva loro generosamente. Gli uomini però si ingegnarono e si organiz-zarono e scoprirono come fare i mattoni e decisero di fare una torre che salissefino al cielo. Si misero a lavorare alacremente, e Dio decise di confondere leloro lingue (tutti parlavano la stessa lingua fino ad allora) per porre fine a que-sto progetto. Ora forse vi sarete chiesti qual era mai la colpa di costruire un edi-ficio imponente. La tradizione ebraica crede che l’uomo sia associato a Dionel compito di perfezionare la creazione. Pertanto costruire, usare il proprioingegno e lavoro, e organizzare la convivenza sociale sono azioni viste con fa-vore e la Genesi si apre con la raccomandazione di «riempire la terra ed as-soggettarla»23. Perché dunque ai tempi della torre di Babele gli uomini furonopuniti, perdendo l’unità dell’umanità e dividendosi in tante lingue diverse?

Gli uomini avevano appreso con ingegno e tecnologia a fare nuove cose, maconfusero subito il potere di raggiungere grandi risultati, con l’idea di onnipo-tenza (Benno Jacob). Sapevano costruire edifici, ma fecero forse case per pro-teggersi, luoghi di riunione o studio, rifugi per i bisognosi? No, fecero una torrealta fino al cielo, un edificio che desse loro un nome. Un midrash (Pirkei De-rabi Eliezer) dice che la torre aveva una gradinata a est da cui venivano portatele pietre, ed una ad ovest, da cui scendevano le persone. Se un uomo cadeva emoriva nessuno si preoccupava, se cadeva un mattone si sedevano e piange-vano per il rallentamento dei lavori. Un commentatore italiano, Umberto Cas-suto, fa notare che mentre altre storie bibliche hanno un parallelo nelle altreculture dell’antichità, questa si trova solo nella tradizione ebraica, perché es-senzialmente rappresenta una protesta contro le idee degli altri popoli e dei lorotiranni egiziani, assiri e babilonesi: edifici giganteschi, piramidi, torri e rocca-forti servono a idolatrare la potenza umana, e a nascondere la miseria morale.

Potrei forse proporre tre conclusioni di questa chiacchierata, avvalendomianche dei valori che la Bibbia ci propone:1. Il progresso e la tecnologia non sono male, e noi dobbiamo rispettare il

creato, ma considerarci partner del Creatore nel proseguire la Sua opera.2. L’ambiente va tutelato in modo non ideologico, con cultura scientifica (cioè

critica e aperta alla possibilità di errore): dal Paradiso terrestre siamo staticacciati, e vi potremo tornare solo alla fine dei tempi, dunque nel frattemponon crediamo a soluzioni meravigliose o a promesse fantastiche, ma ac-cettiamo i pro e i contro dello sviluppo.

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23 Genesi 1, 28.

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3. Il benessere dello sviluppo non deve essere usato “per farci un nome”, perilluderci di essere onnipotenti, ma bensì per perseguire il bene, la cono-scenza e la pace.

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Riflessioni sui grandi temi

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6.

Impresa e ambiente(27 giugno 2014, Assemblea Confindustria Ravenna24)

Per parlare di ambiente desidero cominciare dal porto di Ravenna. Cometutti sanno, il nostro porto ha urgente bisogno di lavori di dragaggio e appro-fondimento che sono paralizzati da norme contraddittorie e illogiche, dalla pas-sione per il cavillo, dal dialogo non sempre fluido tra le istituzioni, dalla bulimiagiuridica del nostro Paese. Ma non è del porto attuale che voglio parlarvi, bensìdi quello che inaugurammo nel 1963, ed è alle emozioni e alle speranze che su-scitava allora che vi chiedo di tornare. Uno speciale porto de «Il Resto del Car-lino» a dicembre del 1962, mostrando le foto del nuovo impianto petrolchimicoANIC condivideva la gioia della comunità ravennate poiché «là dov’era la pa-lude sorge oggi una vasta distesa di impianti industriali» ed esaltava la ricercadel metano «elemento propulsore della espansione industriale ravennate, anchein alto mare». I moli guardiani di tre kilometri erano quasi completi, e i dra-gaggi procedevano spediti. L’anticipazione per ciò che questo immenso inve-stimento infrastrutturale avrebbe portato alla nostra città, le opportunità dilavoro e di crescita, l’occasione di agganciarci all’industrializzazione del NordItalia in un’area ancora percepita come essenzialmente agricola traspirano dagliarticoli di quel tempo. La politica colse questo spirito e seppe esprimere una vi-sione lungimirante che permise a Ravenna di diventare un polo industriale e ilpiù importante porto italiano per i cereali, mantenendo così il legame con la suastoria agricola.

Evocare l’atmosfera di quegli anni è importante perché ci ricorda un mododecisamente più positivo di vedere l’industria, forse il modo con cui la vedonooggi le popolazioni dei paesi dell’estremo Oriente: essa era l’ingrediente chetrasformava le vite, che portava speranza e benessere, che dava nuovi prodottiimpensabili appena pochi anni prima. Un imprenditore di grande successo miha raccontato di come in quegli anni nel suo paese ai piedi dell’Appennino fucostruito per la prima volta un bagno in casa, e di come si discutesse se facevabene o male. Cambiò l’alimentazione, la vita media cominciò ad allungarsi, illusso del tempo libero, con le gite fuori porta grazie alla diffusione delle mo-tociclette e delle automobili, fu accessibile a sempre più persone. La politicasi sentiva investita della missione di guidare la crescita, più che da quella di ga-

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24 Ospiti Giorgio Squinzi (presidente di Confindustria) e lo scrittore francese Pascal Bruck-ner, autore del libro Il fanatismo dell’apocalisse. Salvare la Terra, punire l’Uomo, Milano,Guanda, 2014.

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rantire la conservazione dell’esistente. Furono anni di riscatto per milioni di ita-liani, che costruirono per sé e per noi un benessere mai conosciuto dalle gene-razioni precedenti: nemmeno gli uomini più ricchi e più potenti del passatohanno sperimentato una qualità della vita come quella di cui godiamo noi oggiad ogni livello sociale nel mondo industrializzato.

Ma questo sviluppo non fu privo di costi sia ambientali sia sociali, come ab-biamo capito in seguito, e se l’euforia per il miglioramento della condizione diognuno dominava il dibattito pubblico vi erano già voci che si focalizzavanosui rischi ambientali. Ad esempio nel luglio del 1961 apparve sul «Corriere»un articolo che si scagliava contro l’orrendo sviluppo delle città voluto dai pa-lazzinari con la complicità o la trascuratezza di sindaci e commissioni edilizie,e col debole baluardo di pochi «cittadini benemeriti e vigili associazioni», e so-prattutto raccontava della proposta di ampliamento di un grande stabilimentodell’ILVA, quello di Bagnoli a Napoli, raccontando come gli impianti già ope-rativi producessero grandi nubi di fumo che oscuravano la vista del golfo da Po-sillipo, depositando strati di cenere sulle foglie «dei mirabili alberi» delconvento di Camaldoli. L’autore di questo articolo non era un contestatore cheanticipava lo spirito del ’68, ma un grande studioso e politico liberale, già Pre-sidente della nostra Repubblica, e cioè Luigi Einaudi25. E proseguiva rivol-gendosi alle autorità con una domanda: «non hanno mai riflettuto che laproduzione del fumo e della polvere è un costo dello stabilimento produttore,che i consumatori di acciaio e di cemento sono scorrettamente avvantaggiatiperché nel calcolo del costo dell’acciaio e del cemento non si tiene conto delcosto di rimangiarsi il fumo e la polvere…?» e offrendo una soluzione che an-cora oggi coglie a mio avviso il cuore del problema ricordava che è dovere dichi amministra: «costringere i produttori del danno a sostenerne i costi». Di-remmo con termini più usuali oggi che vi sono esternalità nelle attività umane,alcune delle quali possono essere contenute con maggiori investimenti e altreindennizzate, e che lo sviluppo industriale di allora non ne tenne sufficiente-mente conto ponendo le radici per un disagio e una sfiducia verso l’industriache è cresciuto nel tempo.

Ma Einaudi non diceva che dovessimo vivere senza le fabbriche, e altrovericordava che vi sono anche esternalità positive. Infatti gli insediamenti pro-duttivi forse portano disagi, ma anche benessere: con le loro tasse permettonodi mantenere scuole e ospedali, fanno crescere la cultura tecnica e professio-nale del territorio, stimolano le università, creano contatti con altri territori, in-nalzano il tenore di vita. Nei territori dove l’industria non ha potuto insediarsio svilupparsi vediamo molti più problemi politici, sociali e forse anche am-bientali rispetto alle comunità che hanno sempre creduto alla capacità del-

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Riflessioni sui grandi temi

25 L. EINAUDI, Le Ciminiere di Napoli e la pubblica salute, «Corriere della Sera» 30 lu-glio1961, pubblicato in L. EINAUDI, Le prediche della domenica, Torino, Giulio Einaudi Editore,1987, pp. 105-108.

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l’uomo di fecondare operosamente la natura. Per questo oggi vogliamo pro-porre riflessioni non convenzionali su come si guarda al rapporto tra industriae ambiente, e su cosa pensiamo che sia l’ambiente. Come un pendolo che in-stancabile oscilla tra i suoi punti estremi, soffermandosi solo un attimo nel suopunto di equilibrio, così la nostra società sembra esprimere un dibattito che dàspazio principalmente agli estremi dello sviluppo ad ogni prezzo o dell’am-bientalismo catastrofista e nemico della libertà26, e oggi il pendolo sembra an-cora trovarsi sul lato ostile alle nuove iniziative, ma l’industria esprime ingenere un punto di vista più equilibrato ed empirico, pronto a riconoscere icosti dello sviluppo, ma ansioso di far sì che anche i costi del mancato svi-luppo siano resi conoscibili e non occultati come accade spesso oggi nei di-battiti. Questo è un tema molto importante, e il migliore esempio vicino a noiè proprio il dragaggio del porto, i cui vantaggi sono enormemente maggiori diogni possibile svantaggio, peraltro indennizzabile. L’industria vuole che sia ri-conosciuto lo sforzo fatto in questi anni nel migliorare la propria sensibilitàambientale, la capacità di ascoltare e indennizzare le comunità laddove appro-priato. L’industria avrebbe anche bisogno di regole certe e stabili, perché un in-vestimento, quando è avviato, deve potersi completare e deve poter permanerenel tempo, anche crescendo. In altre parole la comunità, per evitare di attiraresolo investimenti effimeri o che hanno un ritorno molto breve, deve garantirenon solo le condizioni per l’insediamento, ma anche per la sua crescita futura,perché nessuna impresa può restare ferma.

Per approfondire queste idee vorrei attirare la vostra attenzione su alcuniconcetti che ci stanno a cuore, e precisamente che: 1) l’ambiente non esiste innatura, 2) le esternalità negative e positive sono conoscibili solo in parte, malo sviluppo riduce sempre quelle negative ed esalta quelle positive, 3) la cre-dibilità della classe dirigente è fondamentale per l’ambiente e per l’industria.

La prima riflessione, cioè che l’ambiente non esiste in natura, può sembrareparadossale, ma ci viene da Carlo Cattaneo, patriota e politico federalista, chenella prima metà dell’Ottocento, parlando della sua amata Lombardia ricor-dava che: «ogni regione civile si distingue dalle selvagge in questo, ch’ella èun immenso deposito di fatiche. La fatica costrusse le case, li argini, i canali,le vie. […] Chi potrebbe fare estimazione dei tesori che vi stanno invisibil-mente incorporati? […] Quella terra per nove decimi non è opera della natura,è opera delle nostre mani»27. Lo stesso possiamo dire delle colline della To-scana coperte di vigne e uliveti, e di poggi e castelli, ma anche del nostro ter-ritorio ravennate: Ravenna, come Aquileia e Venezia, non è stata costruita su

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26 W. C. DENNIS. “Il miglior ambiente per l’uomo è quello della libertà” in Liberty and theplace of man in nature, «Journal of Markets and Morality», III, 2, 2000, pp. 190-203.

27 C. CATTANEO, Allocuzione alla Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, 15 maggio1845, pubblicato per la prima volta in «Atti della Società di incoraggiamento d’arti e mestieri»,Milano, Bernardoni, 1845, pp. 3-11.

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una palude, con palafitte, palizzate e ponti, magari interferendo con la biodi-versità e i beni paesistici? La pineta che amiamo e proteggiamo lungo le no-stre coste fu piantata dall’uomo, e precisamente dai Romani che ne ricavavanoil legname per la flotta stazionata a Classe. Ci lamentiamo dell’erosione dellecoste e della subsidenza, ma dimentichiamo che le coste sono instabili dal-l’antichità, che il porto di Classe è ora interrato, che Ravenna ha poi spostatoil suo scalo ai Fiumi Uniti, prima di doverlo abbandonare per Porto Corsini, eche furono i monaci camaldolesi, di San Vitale e di Classe a volere estenderela pineta sul litorale, anche per arginare l’erosione erratica delle coste. Insommaforse non è così paradossale dire che l’ambiente non esiste in natura, chel’uomo fa parte dell’ambiente ed ha un rapporto dialettico con la natura. Ri-cordiamoci dunque che l’uomo con fatica millenaria cerca di creare un habi-tat adattato al proprio sviluppo e benessere, e che molte cose belle e grandiosele ha fatte in epoche in cui non erano richieste Valutazioni di Impatto Am-bientale, e non vi erano comitati del no né sovrintendenze. Ci è assai chiaro checon l’aumento delle capacità tecniche è anche aumentato il nostro potere difare danni e di causare troppe di quelle esternalità negative di cui ben parlavagià Einaudi, ed è dunque necessario che vi siano regole e autorità che vigilinosu quanto facciamo, ma il nostro auspicio è che non siano solo presidio di con-servazione, ma anche che sposino la visione di Cattaneo, e cioè che senza la no-stra opera assidua quello che chiamiamo ambiente regredisce in pochegenerazioni ridiventando natura ostile.

Il secondo concetto che vogliamo sviluppare è più economico che culturale,e cioè che è evidente che le iniziative industriali (come ogni altra attività) ge-nerano esternalità positive e negative, e che esse devono essere valutate e com-prese sia dalle autorità che dai cittadini, che è giusto introdurre elementi dimitigazione, ma che è illusorio e dannoso immaginare di poterle misurare ebilanciare per intero e con precisione. Quando l’industrializzazione in Europaportò milioni di persone dalle campagne alla città, riscaldate col carbone e cir-condate da fabbriche alimentate a carbone, probabilmente non si conoscevanogli effetti negativi che l’esposizione di lungo periodo alle polveri sottili portaall’apparato respiratorio, ma si sapeva che l’aspettativa di vita era più bassa incampagna che in città, per il freddo, la fatica, la diffusione della tubercolosi ela lontananza da ogni assistenza medica. Pur con tutte le miserie ben descritteda tanti autori dell’Ottocento, l’industrializzazione portò progresso medico etecnologico, e un benessere sempre più diffuso. Ma non solo: aggregando i la-voratori e le classi sociali più povere favorì la difesa dei diritti del lavoro, la cir-colazione delle idee, ampliò il principio di uguaglianza e libertà e provocò unprogresso politico e democratico delle nostre società. Insomma pur non avendopotuto, o voluto, calcolare appieno le esternalità generate dall’industrializza-zione, e pur ammettendo molte e profonde ingiustizie, essa portò così tanti be-nefici da trovare i rimedi per i danni che aveva causato. Anche oggi possiamovalutare le negatività di un progetto, e cercare di stimare che danni potrà cau-

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sare di qui a trent’anni e imporre mitigazioni. Ma dobbiamo ricordare che inqualche modo quel progetto (anche solo con le tasse che pagherà) contribuiràad un progresso tecnico e scientifico che potrà ovviare a quei danni. Noi nonsiamo in grado di stimare in quale grado ciò avvenga nei trent’anni di vita delprogetto, ma l’esperienza ci mostra che è sempre prevalente il contributo po-sitivo. Ad esempio trent’anni fa meno di una persona su mille possedeva unpersonal computer, nessuno aveva il telefonino, non esistevano la Tac o la mi-crochirurgia, si pensava che il petrolio stesse finendo, si ascoltava la musica suinastri magnetici e si facevano i filmini col VHS: chi avrebbe previsto corret-tamente se il mondo di oggi sarebbe stato migliore o peggiore, chi cancelle-rebbe oggi quello sviluppo perché nel 1980 taluni investimenti sembravano osi rivelarono in seguito dannosi? Un noto ambientalista ed entomologo ameri-cano nel 1970 predisse che l’Inghilterra sarebbe stata sommersa dalle acque acausa del riscaldamento globale entro l’anno 200028, il Club di Roma predissenel 1972 catastrofi mai realizzate29, l’IPCC30 (organismo dell’ONU) dal 1990a oggi ha cambiato (in modo erratico) a ogni suo rapporto la stima di innalza-mento dei mari al 2100. Insomma persino sul tema centrale del dibattito am-bientalista, cioè quello del riscaldamento globale, assistiamo a una produzionecontinua di dati allarmisti e inaffidabili. Quindi non solo abbiamo la difficoltàdi prevedere quanto lo sviluppo possa da solo curare i danni che provoca, maabbiamo anche la difficoltà di partenza di capire quali siano effettivamente idanni di cui preoccuparsi seriamente. Lo vediamo anche nella nostra vita quo-tidiana, quando gli operatori turistici, non senza ragione, minacciano di farcausa ai meteorologi che non riescono a prevedere il bel tempo a pochi giorni(e non fino al 2100 come vuole fare l’IPCC), ma i meteorologi temono anchele cause legali contrarie per non avere dato tempestivi allarmi meteo, così comegli scienziati, dopo essere stati condannati in tribunale per non aver previsto ilterremoto dell’Aquila31, sono ormai condannati per prudenza a “non esclu-dere” la possibilità di ogni catastrofe alimentando l’allarmismo. Forse do-

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28 P. EHRLICH, The population bomb, New York, Ballantine Books, 1968, e coautore con R.HARRIMAN di How to be a survivor: a plan to save spaceship earth, New York, Ballantine Books,1971, citato da V. KLAUS in Pianeta blu e non verde. Cos’è in pericolo: il clima o la libertà, To-rino, IBL Libri, 2009, pp. 37 e 48, da cui ho liberamente preso altri concetti espressi in questoparagrafo.

29 Rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo, Club di Roma, 1972.30 IPCC – Intergovernamental Panel on Climate Change: ha stimato nel 1990 che i mari si

sarebbero innalzati di 66 cm al 2100, nel 1996 in un secondo rapporto ha ridotto la stima a 49cm, nel 2001 ha proposto (sempre per il 2100) un range tra 9 e 88 cm, nel 2007 da 14 a 43 cm.Nel più recente rapporto di quest’anno ha rialzato il range a 52 -98 cm, sottacendo che secondoi geologi i mari vanno innalzandosi da circa 18.000 anni (circa 120 metri di innalzamento dal-l’ultima glaciazione).

31 Sentenza del Tribunale dell’Aquila del 21 ottobre 2012 che ha condannato a sei anni imembri della commissione Grandi Rischi. La sentenza in realtà è motivata da una errata infor-mazione sui rischi di un possibile terremoto.

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vremmo far riemergere nel dibattito pubblico la constatazione che la natura èpiù potente di noi e che c’è un po’ di arroganza nel pensare di governarla com-pletamente. Questo è bene ricordarlo perché l’uomo pur nel suo incessante la-voro secolare, ha sempre temuto la potenza della natura, riconoscendo di nonpoter controllare ogni cosa e affidando alle divinità, ai miti ed ai riti la consola-zione per le catastrofi che ha sempre subìto. È solo nell’ultimo secolo che il po-sitivismo ci ha convinti di poter dominare col progresso tecnologico i rischi acui ci consideravamo inevitabilmente esposti. Così ora viviamo in una tempe-rie culturale che ci illude di avere la forza di eliminare ogni rischio, e perfino dipoter influire sul clima (in un senso o nell’altro). Ma i ghiacciai si ritiravanoanche ai tempi dei Romani (Annibale non sarebbe riuscito a passare le Alpi) e deiVichinghi (che trovarono la Groenlandia abbastanza verdeggiante da chiamarlaappunto terra verde), i terremoti avvenivano anche quando non si facevano letrivellazioni, e la costa si erodeva anche nel Medioevo, ed è solo lo sviluppo eco-nomico che ci permette di ridurre, ma non di eliminare, quei rischi32. È dunquenecessario rispettare l’ambiente, comprendere i rischi e le esternalità dei nuoviinvestimenti, comprese le esternalità positive, ma anche ritrovare la fiducia ed ilgusto per lo sviluppo che leggiamo nel «Carlino» del 1962.

Se siamo capaci di riconoscere che anche l’opera dell’uomo è parte dell’am-biente, e se concordiamo che la miglior tutela dell’ambiente risiede nel progressoscientifico e nella capacità degli uomini e della natura di adattarsi ai cambia-menti, allora siamo pronti per affrontare il terzo dei concetti che vogliamo ap-profondire, e cioè come la credibilità della classe dirigente, a partire da noiimprenditori, sia l’ingrediente essenziale nell’esaminare e condividere con le co-munità locali i nuovi insediamenti produttivi o le infrastrutture, e sia anche l’unicobaluardo contro l’egoismo e la prepotenza di comitati spesso esigui, privi di sensodi responsabilità collettivo e spesso portatori di interessi personali.

L’impresa deve recuperare appieno il suo ruolo di creatore di benessere, enel contempo deve accettare regole chiare e logiche e collaborare con le auto-rità nel gestire il tema delle esternalità dei propri progetti. Deve anche a mioavviso smettere di invocare più leggi e meno discrezionalità per gli organi tec-nici. La discrezionalità è sempre associata alla responsabilità. Sono propriotroppe leggi e il rifiuto di taluni tecnici di prendersi responsabilità ad aver pa-ralizzato i processi decisionali e forse hanno favorito la corruzione, come ve-diamo all’Expo o al Mose di Venezia. Il trentesimo presidente americano,Calvin Coolidge33, diceva che è molto più importante bloccare una cattiva

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32 La maggiore riduzione delle emissioni di CO2 nel mondo è avvenuta negli USA dal 2007al 2012, ma non per bontà d’animo, bensì grazie alla sostituzione del carbone con lo shale gas,divenuto più conveniente grazie allo sviluppo di nuovi progetti di ricerca e coltivazione petro-lifera – OECD International Energy Agency 2013. La temperatura media globale è aumentatadi 0,7 °C nel XX secolo, ma il PIL è aumentato del 1700%.

33 A. SHLAES, Coolidge, New York, Harper Collins, 2013, p. 110. «It is much more impor-

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legge, che passarne una buona, e che l’amministrazione ha bisogno di tempoper assimilare e consolidare l’applicazione di una norma.

Le istituzioni devono affermare il loro ruolo di credibilità e autorevolezza,che funge da contraltare all’ambientalismo emotivo e manipolativo che si servedi internet e delle teorie del complotto, come abbiamo discusso a fondo nellarelazione dell’anno scorso. Esse devono difendere il principio che dopo i di-battiti, che si devono svolgere nelle sedi e nei tempi previsti dalla legge, le de-cisioni vengono prese dagli organi eletti democraticamente e non dai comitaticittadini. Le autorità non devono mostrarsi deboli coi forti e forti coi deboli in-coraggiando così la prepotenza.

Le comunità locali devono ricordare che la retorica ambientalista è sempreimprontata a terrorizzare le persone giocando sulla complessità tecnica dei pro-getti e facendo balenare rischi remoti ma gravissimi, e a fare leva sul senso diemergenza e di sfiducia verso le istituzioni per imporre senza contraddittoriola propria agenda34. Ma in questo modo la comunità locale non è mai messa ingrado di percepire il costo di rifiutare lo sviluppo, e lo percepisce semmai moltotempo dopo.

Gli organi tecnici devono rendere conto delle proprie scelte, ma anche averequel grado di discrezionalità che permetta loro di valutare nella sua comple-tezza la pratica che affrontano, stimando per quanto possibili sia i costi che ibenefici incrementali per la collettività.

Infine la magistratura gioca sempre più un ruolo nel rapporto tra impresae ambiente e le notizie che leggiamo ci danno in effetti l’impressione di unruolo importate in un Paese che mostra profili di illegalità dovunque si guardi.Ma le imprese e anche le amministrazioni pubbliche nella maggioranza sonoserie e pulite, e nelle loro opere o attività si adoperano per rispettare leggi e re-golamenti complessi e spesso contraddittori e incomprensibili. Vorremmo averedi più la sensazione di una capacità di distinguere tra la gravità dei reati dolosie delle attività delle ecomafie, e il territorio più incerto dell’interpretazione edella infrazione colposa. Siamo anche sempre più disorientati dalla diffusa ap-plicazione del cosiddetto principio di precauzione, che dalla politica è passatoal pensiero giuridico e poi alla incorporazione nelle norme di legge. Esso ha de-terminato anche recentemente il sequestro temporaneo (ma con danni perma-nenti) di attività che, pur operando nei parametri di legge, non attuavanoappieno le cosiddette best available techniques (BAT), o che non superavano

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tant to kill bad bills than to pass good ones», e p. 123 «don’t hurry to legislate. Give admini-stration a chance to catch up with legislation».

34 Il noto scrittore e sceneggiatore Micheal Crichton (noto tra l’altro per Jurassic Park e ER,ma medico di formazione) ha scritto in Environmentalism as a Religion del 2003, a propositodella minacciosa retorica ambientalista: «La più grande sfida che l’umanità ha di fronte è quelladi distinguere la realtà dalla fantasia, la verità dalla propaganda. Percepire la verità è semprestata una sfida per gli uomini, ma nell’età dell’informazione […] assume particolare urgenza eimportanza».

Parte prima

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la diabolica prova negativa del dimostrare di non fare alcun danno.In conclusione l’impresa ha una responsabilità verso l’ambiente e non deve

scaricare sulla collettività i costi della propria attività, pur bilanciati dai van-taggi che essa apporta, ma crediamo che nei decenni passati abbia general-mente assimilato questa lezione. Le pubbliche amministrazioni dovrebbero oradotarsi di strumenti che lascino spazio anche al buon senso, perché a noi paretalvolta di essere in quella situazione che Manzoni35 descrisse a proposito dellapeste a Milano dicendo: «il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, perpaura del senso comune». Infine politici e comitati non devono poter incame-rare i vantaggi del dissenso e scaricare con leggerezza sulla collettività i costidel mancato investimento.

Nelle relazioni passate abbiamo sottolineato il ruolo dell’impresa nel favo-rire la libertà, nel selezionare una buona classe dirigente e nel cercare modi dicomunicare scelte complesse alla propria comunità. Quest’anno abbiamo cer-cato di analizzare l’interazione di questi tre temi nella relazione tra impresa eambiente, ricordando che l’ambiente esiste grazie all’opera dell’uomo, che illibero e responsabile sviluppo di tale opera lo preserva, e che la credibilità dellaclasse dirigente lo rende comprensibile alle comunità dove viviamo.

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35 A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. XXXII.

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7.

Intervista su «Ravenna In Magazine»(febbraio 2015)

Può riassumere il percorso professionale che l’ha portata al ruolo di pre-sidente dell’Associazione Industriali di Ravenna?

Ho fatto il liceo classico e poi ho studiato economia a Milano e gestioneaziendale alla Columbia University di New York, ho lavorato qualche anno al-l’estero, e poi dal 1994 ho cominciato il lavoro alla Petrolifera Italo Rumena,azienda presente sul porto di Ravenna dal 1920 nel settore dei servizi logisticiper i prodotti liquidi. Nel mio lavoro, come tutti coloro che lavorano con pas-sione, ho affrontato tanti problemi, piccoli e grandi, e certamente ho fatto qual-che errore. Gradualmente ho sperimentato come il contatto con altriimprenditori e la condivisione dei problemi aiutasse a capire meglio il mondointorno a noi. Ed ho anche compreso in quale modo l’unione delle forze con-senta di affrontare problemi troppo grandi per la singola azienda. Così l’espe-rienza di lavoro mi ha mostrato l’utilità della vita associativa, anche seanch’essa alle volte dà qualche dispiacere. Inoltre a fianco del lavoro ho sem-pre accettato impegni di tipo volontaristico per cause che mi parevano merite-voli, e sono tutte esperienze che mi hanno dato molto, sia in termini diapprendimento che di relazioni umane. Quando mi è stato proposto il ruolo dipresidente di Confindustria Ravenna sono stato onorato e cerco di farlo al me-glio delle mie capacità.

A che punto è il processo di unificazione delle associazioni provinciali perarrivare a Confindustria Romagna?

Oggi siamo un’unione federativa: dal 1° gennaio 2015 Confindustria Ro-magna affianca le tre associazioni territoriali ed è entrata nel vivo l’attività dicoordinamento e confronto sia a livello di servizi, tra le strutture, sia tra gli im-prenditori con incarichi di rappresentanza. Abbiamo due anni di tempo per ro-dare questa convivenza, e arrivare a un soggetto unico entro il 2017, con lapossibilità di fare anche prima, come ci suggeriscono vari associati romagnoli.Se riusciremo ad imprimere l’accelerazione data nel 2014 al progetto potremofarcela: ognuno ha i propri metodi e peculiarità, ma c’è grande sintonia, e imotivi che ci uniscono sono molti di più di quelli che ci dividono. Uno su tutti,l’unione delle competenze e delle professionalità di 1500 imprese che potrannoparlare con una voce sola su temi di interesse comune, come ad esempio la sa-nità o le infrastrutture. Dopotutto oggi il mondo è più piccolo: se cinquanta

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anni fa ci poteva apparire grande la dimensione provinciale, oggi crediamo chela Romagna sia la dimensione adatta per restare vicino alle imprese e allo stessotempo allargare i nostri orizzonti.

Il porto di Ravenna potrebbe tornare a essere il volano di gran parte del-l’economia, non solo locale. Cosa non sta funzionando e quali sono state, in-vece, le scelte “giuste” dell’ultimo periodo?

Speriamo che il 2015 sia l’anno di avvìo dei lavori di escavo, da tempo at-tesi e sostenuti da tutta la comunità: il porto è la prima industria del nostro ter-ritorio, e la sua attività è vitale per tutto il tessuto economico. È il medesimoauspicio espresso un anno fa, che oggi mi trovo a ripetere: nel frattempo, glialtri scali non sono rimasti a guardare. In Italia Livorno e Venezia hanno com-pletato importanti lavori, ma soprattutto nel Nord Europa stanno creando sem-pre migliori servizi di trasporto interno associato al servizio di sbarco: in talmodo le merci arrivano ormai convenientemente da Rotterdam a Milano, men-tre i porti nazionali perdono competitività. Anche zone del mondo in grandeespansione e con tenori di vita ormai superiori ai nostri, come Singapore, ri-conoscono la strategicità del porto, investono senza posa per svilupparlo e mi-gliorarlo con dragaggi e riempimenti (il porto di Singapore, che copre migliaiadi ettari, è interamente costruito sull’acqua con sabbie dragate o importate).Tali esperienze convivono con alta qualità della vita, sono a pochi chilometrida attrazioni turistiche e residenziali e rispondono alle esigenze di sviluppo inpochi mesi, mentre se noi partissimo domani avremmo il porto rinnovato solotra quattro o cinque anni. La scelta giusta è stata ridare priorità ai fondali nel2012, ma ora bisogna darvi concretezza.

In questo contesto si inserisce anche il tema della riqualificazione dellaDarsena di città: come ci si potrà muovere nell’anno appena iniziato?

Lo sviluppo della Darsena è strettamente collegato alla ripresa dell’edilizia,e tarda non perché manchi la pianificazione, ma perché mancano i soldi. Quandoriprenderà il mercato immobiliare, ripartiranno gli investimenti e allora emer-gerà anche il nuovo volto della Darsena, che potrà disegnare un tratto importantedella Ravenna del futuro. Su questo tema si parla con passione da anni, anchecol contributo delle associazioni. Il mutare del contesto economico e delle esi-genze della città può forse giustificare un ulteriore spazio al dibattito e alle idee,per pensare insieme ai proprietari le forme migliori di sviluppo per quelle aree.

Nel suo intervento all’Assemblea di Confindustria del 27 giugno 2014 haanalizzato il rapporto fra impresa e ambiente. Arrivando a proporre un para-dosso: l’ambiente non esiste in natura. Ma come si può conciliare un nuovoprogresso industriale con la necessità di non “consumare” un territorio, comequello italiano, già ferito da uno sviluppo non proprio equilibrato?

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Cercando di far prevalere la razionalità sull’emotività, e in questo la cono-scenza è un ingrediente fondamentale: è il motivo per cui proponiamo – suquesto ed altri temi – dibattiti di una certa levatura. Credo sia uno dei compitiprincipali delle associazioni come la nostra: un confronto franco e aperto su ar-gomenti anche scomodi, che ci portino punti di vista inediti e lontani, per ca-pire come nel resto del mondo reagiscono e affrontano le difficoltà che a noipaiono a volte insormontabili. Nel caso dell’ambiente, già nel 2013 avevamosuggerito di rendere più percepibile la correlazione tra insediamenti produttivie benessere, per depotenziare la forza suggestiva dei comitati del no, eviden-ziando per ogni nuovo progetto i vantaggi diretti per i cittadini: l’interesse restaun potente e onesto motore delle scelte individuali. Da noi invece gli incentiviper i singoli a fronte di un investimento importante o a un’opera pubblica sonoassai poco evidenti. In termini tecnici il problema riguarda le esternalità cheogni nuova iniziativa può generare, e il fatto che vanno individuate e condivisenon solo le esternalità negative, ma anche quelle positive. Invece la passioneper il cavillo, il dialogo non sempre fluido tra istituzioni, la bulimia giuridicadel nostro Paese hanno preparato il terreno per le opposizioni dei comitati, tal-volta fatti di cittadini onestamente disorientati e preoccupati, talaltra solo da in-teressi di visibilità individuale o peggio di tornaconto.

Da giugno 2014 è presidente del museo ebraico di Bologna, un’istituzioneculturale di grande prestigio. Quanto impegno le richiede questo ruolo e comepotrebbe riverberarsi anche nella realtà ravennate? Perché, ad esempio nonallestire anche a Ravenna la mostra “A lezione di razzismo”, a Palazzo Ra-sponi dalle Teste?

Palazzo Rasponi è un bellissimo esempio di recupero e uno spazio molto in-teressante, che si presta a molteplici destinazioni: in quella stessa sede Con-findustria Ravenna ha infatti proposto al Comune la realizzazione del museodell’industria, una delle iniziative per celebrare nel 2015 i 70 anni dell’asso-ciazione.

Il museo ebraico è in effetti una istituzione che si è conquistata un ruolo si-gnificativo per il suo alto lavoro culturale coi cittadini, con le scuole e con con-vegni che hanno toccato molti temi importanti della contemporaneità. È anchestato ed è un punto di riferimento per il dialogo interreligioso. Tutto ciò è me-rito dei miei predecessori che hanno lavorato con passione per questi risultati,delle istituzioni che partecipano alla fondazione del museo, e di chi vi lavora.Credo molto nel ruolo della cultura come antidoto alla violenza e ai conflitti,anche nella vita economica e politica, e questo incarico mi coinvolge su temiche sono attualissimi e ricchi di sfaccettature. Pur non volendo confondere iruoli, credo che sarebbe bello poter condividere alcuni eventi o mostre delMuseo col pubblico di Ravenna e approfondirò volentieri il tema.

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8.

Intervista su «La Voce di Romagna»

Guido Ottolenghi, presidente di Confindustria Ravenna e ConfindustriaRomagna: quali politiche ha adottato la sua associazione in questi anni dicrisi economica?

Accanto ai consueti strumenti di assistenza alle imprese, razionalizzati e po-tenziati dove possibile, Confindustria ha proposto in questi anni alla comunità nu-merosi dibattiti sull’economia nelle sue tante componenti, dal lavoro alla classedirigente, dalla legalità al credito, fino al confronto con l’Europa. Abbiamo son-dato anche aspetti meno usuali del fare impresa oggi, come la comunicazione eil dialogo con le scuole, e ci siamo chiesti come ci vedono dagli Stati Uniti ecome si è sviluppata l’impresa privata in Cina. L’assemblea dello scorso anno èstata dedicata al tema “Impresa e Ambiente”, quest’anno parleremo di “Impresae Giustizia”. Soltanto seguendo un percorso di riflessione sugli eventi economiciche ci circondano, possiamo offrire uno strumento di utilità concreta per gli im-prenditori che prendono decisioni e fanno piani per il futuro.

Quindi, prima analizzare la situazione e poi proporre correttivi?Penso che nell’animo di un imprenditore debbano convivere audacia e in-

tuito. L’audacia è quella dote che ci spinge a rischiare denari e reputazione perun’idea in cui crediamo, l’intuito è la capacità di selezionare una idea che ri-sponde alle esigenze del mercato. In tempi di crescita l’audacia è più impor-tante dell’intuito, in tempi di recessione prevale l’intuito, e gli strumenti che ciaiutano ad alimentarlo meglio comprendendo la realtà. Perciò dobbiamo capiregli eventi che possono disorientare e destabilizzare il nostro lavoro quotidianoin azienda, perché capendoli possiamo fare scelte migliori. La crisi è stata unmomento di ripensamento profondo del nostro tessuto industriale. Alcuni im-prenditori hanno reagito rifiutando la sfida e cercando nemici esterni. Altri, purnelle difficoltà evidenti, hanno potuto migliorare la loro attività e ampliare gliorizzonti. Dopo sette anni di crisi economica internazionale abbiamo molteimprese più sane, più competitive, più connesse al panorama europeo.

Confindustria ha sostenuto fin dall’inizio il progetto di escavo del fondale(il cosiddetto Progettone), ma quando ad esso si è affiancato il progetto di unapiattaforma logistica pagata con tasse portuali e altri soldi, pubblici da at-

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tuare con espropri, ne è nato un confronto con l’Autorità Portuale.Confindustria Romagna ha pubblicamente attirato l’attenzione sull’impo-

nente piano di espropri proposto dall’Autorità Portuale di Ravenna come unicasoluzione possibile al posizionamento delle sabbie di escavo dei fondali.L’escavo, da tutti auspicato da molti anni, non è mai stato realizzato, malgradogli annunci della stessa Autorità (sulla stampa ne è stato annunciato l’immi-nente avvio nel 2012 e poi nel 2013 e ancora nel 2014, ora si parla di 2017).Gli espropri costano ingenti somme di denaro pubblico e influenzeranno perdecenni lo sviluppo industriale di Ravenna, allo stesso tempo riducono i fondidisponibili per l’escavo. Purtroppo, i recenti annunci dell’Autorità Portualesullo slittamento dei tempi del Progettone, ma anche del più semplice escavoall’imboccatura del porto con i danni economici che ciò comporta, confermanoche la nostra posizione era ben fondata, e che un più ampio e informato dibat-tito prima di fare scelte di questa portata sarebbe onesto e utile.

Sono in corso grandi manovre in vista delle prossime elezioni amministra-tive a Ravenna e in numerosi altri Comuni provinciali. Confindustria comevede il momento politico?

Seguiamo il dibattito politico che, per ora non è ancora entrato nel vivo deiproblemi. Quello che abbiamo detto a Faenza, dove si vota adesso, vale ancheper Ravenna. Non c’è benessere diffuso senza impresa. Alle amministrazionicomunali chiediamo meno burocrazia e la cessione delle partecipazioni azio-narie in società come ad esempio Hera. Gestire aziende non dovrebbe essereil compito primario delle pubbliche amministrazioni. Riteniamo inoltre chedebba essere ripensato il modo di sviluppare gli strumenti urbanistici, che inquesti anni hanno sempre più limitato le aree a intervento diretto, quelle cioèdove una volta scelta la destinazione il proprietario può costruire. Si sono in-vece allargate le aree soggette a piani attuativi: ciò amplia eccessivamente ladiscrezionalità delle amministrazioni e frena i già scarsi investimenti (sia in-dustriali che immobiliari).

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9.

Impresa e giustizia (12 giugno 2015, Assemblea Confindustria Ravenna36)

Perché come imprenditori vogliamo parlare di giustizia? È certamente untema importante, che tocca nel profondo le nostre azioni, ma capiamo beneche ha un alto contenuto specialistico cui ci sottomettiamo. Ci sono però coseche possiamo utilmente dire, a partire dal riconoscere la sua centralità nei rap-porti umani, e il suo ruolo nel definire le identità e nel rafforzare una visionedelle relazioni tra persone favorevole alla libertà e all’impresa, cioè in qualchemodo alla modernità.

L’idea di giustizia, o almeno la ribellione contro l’ingiustizia, sembra essereuna forza assai potente nel nostro animo, una forza che fin dalla più lontana an-tichità ha plasmato le nostre idee e costituito la base per lo sviluppo sociale edeconomico degli uomini. I primi testi scritti del mondo antico parlano di legge.La letteratura greca, dall’Iliade in poi, racconta storie di torti, eroismo, giusti-zia umana e divina. Gli storici hanno a lungo spiegato gli eventi in termini ditorto e ragione, i filosofi si sono interrogati sulla giustizia e su quali sistemi lagarantiscano, le religioni con le loro soluzioni terrene o ultraterrene, affron-tano sempre il problema della sofferenza del giusto e dell’arroganza dei mal-vagi37. Forse persino le prime aggregazioni umane, tribù che si combattevanoper il controllo di un territorio e si depredavano tra loro, avevano un’idea di giu-stizia, da applicare però solo al loro interno. L’idea di giustizia si intersecaquindi con quella di identità e la tensione tra avere regole valide per un grupporistretto, piuttosto che avere leggi ad applicazione ampia, sussiste ancora oggi.L’identità a sua volta è una cosa complessa, e l’istinto ci spinge a definirla innegativo: siamo uniti da vari vincoli, ma sono più labili di quel che sembra, ealla fine ci riconosciamo e ci aggreghiamo soprattutto in contrapposizione aqualcun altro, a un nemico. Perciò i primi sistemi di giustizia, incluso il codicedi Hammurabi, valevano per il clan, ma non per gli avversari. Anche nel dirittoromano si contrappone lo ius civile e lo ius gentium. È la Bibbia il primo testoche propone l’idea di una legge unica per il cittadino e lo straniero, per il po-tente e per l’umile, e ciò rappresenta non solo un progetto etico ma, se ci pen-sate, anche economico. Una legge che si applichi a tutti, e tuteli tutti, che

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36 Ospiti Giorgio Squinzi (presidente di Confindustria), Michele Vietti (già vice presidentedel Csm), Cosimo Maria Ferri (sottosegretario alla Giustizia).

37 Salmo 11 (12) e 72 (73).

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protegga l’ingegno dall’esproprio del più forte o della collettività, è infattimolto importante per l’aggregazione degli uomini in città e mercati, per lo svi-luppo dell’industria e degli scambi. Questa sfida di una legge più condivisapossibile è sempre viva, anche oggi che l’idea di identità diventa più complessae articolata. Abbiamo idee politiche, religiose, passioni sportive e hobbistiche,un’identità nazionale, e una di campanile, apparteniamo ad un gruppo profes-sionale, e ad una classe sociale. Insomma non abbiamo un’identità sola, e ac-cettare di farci definire da un’unica identità favorisce l’integralismo e ladisgregazione sociale38, mentre l’accettazione della presenza di identità mul-tiple non solo nella società, ma perfino all’interno dell’individuo, accresce leoccasioni di interazione e di scambio, culturale e commerciale.

Vorrei ora parlare per un momento della modernità, intesa come un’idea diconvivenza in cui le persone possono cambiare la loro condizione in base alleloro capacità e aspirazioni. Ciò in opposizione a un’idea di società in cui leclassi dirigenti si selezionano essenzialmente per nascita o cooptazione. Co-gliamo immediatamente quanto una giustizia non identitaria sia costitutivadella modernità così intesa, perché permette di dare spazio al merito e al liberosviluppo dell’individuo e della collettività. Pur coi suoi evidenti benefici unasocietà che consente la mobilità in base al merito e all’iniziativa genera un di-sagio che non c’è nelle società dove ognuno ha il suo posto. Infatti nella societàfeudale, con tutte le sue miserie, la immobilità sociale eliminava alla radice ilquesito se la propria posizione fosse giusta e meritata. Per l’uomo moderno in-vece questa angoscia è il pane di ogni giorno e bisogna farci i conti, anche seè il prezzo della libertà. È un disagio accettabile solamente se pensiamo che ilprocesso di mobilità sociale sia in qualche modo giusto. Insomma non solo ilsenso dell’ingiustizia è profondamente connaturato all’animo umano e cispinge a ricercare il costante miglioramento dell’idea di giustizia, ma l’espe-rienza e la storia ci mostrano quanto la giustizia fondi la modernità, e quantosia legata alla libertà39 che con essa alimenta l’attività di impresa. È molto im-portante anche per il mondo industriale riflettere costantemente sulle regole ericonoscere quanto, pur ponendo dei limiti, esse ampliano gli orizzonti della no-stra attività40. È dunque naturale per le imprese dire qualcosa sulla giustizia eal contempo cercare continuamente di fare propria la cultura della legalità, cosache a Ravenna abbiamo voluto valorizzare in molti modi in questi anni41.

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38 A. K. SEN, La ricchezza della ragione. Denaro valori identità, Bologna, Il Mulino, 2000,pp. 26-27.

39 «La libertà è una sola, non c’è libertà economica senza libertà politica e viceversa», MarioVargas Llosa, Discorso Bruno Leoni, 13 ottobre 2014.

40 Le regole sui marchi e sui brevetti tutelano il frutto dell’ingegno e ne favoriscono lo svi-luppo, le regole sul lavoro permettono alle organizzazioni di prevedere e gestire i conflitti, senzaregole sul credito non vi sarebbe un sistema creditizio e le aziende avrebbero opportunità di svi-luppo assai più limitate, le regole sulla sicurezza limitano la concorrenza sleale e così di seguito.

41 L’annuale premio Guidarello per il Giornalismo d’Autore onora ogni anno una figura che

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Riconosciamo quindi che la giustizia è essenziale per le imprese, e ce ne oc-cupiamo notando che le idee di identità, modernità e cultura della legalità in-fluenzano ed orientano la nostra attenzione ai temi della giustizia. Come notoin questo momento i temi di maggiore impatto per le aziende sono quelli atti-nenti alla velocità e alla telematizzazione del processo, all’evoluzione del di-ritto fallimentare, all’esecuzione dei contratti e delle obbligazioni, alla materiafiscale, all’ambiente, alla sicurezza sul lavoro, alla class action e alla respon-sabilità penale delle imprese, che sta diventando un tema sempre più pervasivo.Su questi argomenti, che hanno un contenuto tecnico complesso, le imprese eConfindustria si sono espressi con un certo dettaglio e qui mi limito a dire chemolti passi in avanti sono stati fatti, ma che non poche nuove norme, col lorocrescente ricorso a pene sempre più gravi per reati che possono essere com-messi per errore, rischiano di indebolire i benintenzionati e rafforzare chi delleleggi non si cura un granché, cioè di generare dannosi processi di selezioneavversa. Invece dunque che suggerire, in presenza di insigni giuristi, cosa sidebba fare o non fare per migliorare il nostro sistema giudiziario, vorremmooggi approfondire il potenziale di tre idee che credo siano condivise dalle im-prese e che ognuno di noi può applicare il più possibile in azienda. Esse inol-tre potrebbero essere uno spunto di riflessione per le istituzioni quandomodificano e applicano le leggi. Le tre idee sono: 1) valore e tempi della cul-tura giuridica, 2) semplicità, 3) meno pene e più contrappesi.

Il primo tema attiene all’idea che le persone hanno bisogno di tempo per in-teriorizzare le idee e le norme. Una società è giusta se vi è un sufficiente nu-mero di persone oneste, che condividono l’idea di cosa è giusto e sbagliato, eper farlo non possono essere esposte a valori costantemente mobili. Solo dovevi è certezza del diritto le forze dell’ordine servono a dissuadere o perseguirequella minoranza della popolazione che rifiuta deliberatamente le regole.Quando però non c’è il tempo di appropriarsi delle norme nella quotidianità edesse non sono patrimonio collettivo, o peggio ancora quando dilaga l’illegalità,nessuna magistratura o polizia può fare da efficace argine e preservare un or-dine giuridico e sociale sul quale si saldi un senso di convivenza. Perciò unalegge che dichiara ingiusto ciò che per una comunità è giusto rischia di rima-nere lettera morta o di essere usata selettivamente contro qualcuno. Poichéleggi e comportamenti si interiorizzano lentamente, la legge è efficace quandoriflette, o favorisce, principi e convenzioni accettati e consolidati nel tempo. Èdunque necessaria prudenza da parte del legislatore, nel non fare troppe leggi,

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rappresenta varie declinazioni della legalità. Il ciclo di conferenze “In nome della legge” presentaogni anno temi di approfondimento giuridico e favorisce il dialogo tra impresa e amministrazionedella giustizia. Attraverso i programmi di formazione e assistenza alle imprese Confindustria Ra-venna favorisce l’adozione di modelli organizzativi, promuove la formazione giuridica e assi-ste le aziende associate nei principali adempimenti. L’Associazione coltiva il dialogo conl’Università a Ravenna.

Riflessioni sui grandi temi

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nel dare tempo alla pubblica amministrazione e ai cittadini di incorporarle nelleloro abitudini, nel preferire miglioramenti incrementali rispetto alla ricerca disistemi giuridici “perfetti”. Nei campi di attività dell’impresa sono utili leggiorganiche, o codici, che fungano da punto di riferimento unitario delle singolematerie ambientali, fiscali, eccetera, e che si arricchiscano appunto con pru-denza, coerenza e gradualità nel tempo. Credo che molte imprese anche medieo piccole abbiano acquisito maggiore coscienza di questo concetto attraversol’esperienza della internazionalizzazione. Chi ha fatto in questi anni quel per-corso si è dovuto confrontare con i paradossi che i sistemi giuridici dei paesiin via di sviluppo presentano anche a causa di un eccessivo balzo in avanti deiloro legislatori. Infatti, soprattutto in Europa dell’Est, è stato adottato in una die-cina d’anni l’intero corpus di norme europee. Anche quando ciò è stato fattocon coerenza42, i funzionari non hanno familiarità coi concetti e danno signi-ficati imprevedibili alla materia che la legge intende disciplinare, i cittadiniignorano per anni l’esistenza della norma, e i concorrenti la usano come unaclava proprio contro le imprese più virtuose. L’introduzione delle più avanzatenorme su concorrenza, ambiente, fiscalità hanno creato problemi profondi inculture che non avevano ben elaborato i mali che quelle norme vogliono cu-rare ed i metodi ad esse associati: le imprese che le hanno osservate secondogli standard europei si sono così trovate in svantaggio competitivo rispetto a chile ha ignorate, senza tuttavia essere immuni da interpretazioni aberranti, men-tre chi le ha ignorate si è esposto al ricatto della politica locale. Insomma ancheun buon sistema di leggi richiede tempi lunghi per essere fatto proprio, allevolte generazioni, e non si deve sottovalutare il pericolo sociale e concorren-ziale dell’interregno in cui la legge c’è, ma viene applicata approssimativa-mente. Una coscienza giuridica e una cultura della legalità sono dunque unenorme valore per la società, un valore che si forma però lentamente. Sonouna risorsa forse più produttiva delle materie prime o delle vie di comunica-zione e le imprese devono essere sensibili a questo bene intangibile, che ac-cresciamo ogni volta che difendiamo la legge e le persone perbene, ma cherafforziamo anche quando chiediamo che le leggi pongano obiettivi coerenticol comune sentire e siano attuabili dall’uomo medio.

Questo ci porta a toccare la seconda idea e cioè a fare l’elogio della sem-plicità: capiamo bene che la realtà è assai complessa e che non sempre è pos-sibile regolarla in modo semplice, ma è certamente possibile ogni volta che silegifera chiedersi se si è scelta la via più semplice, quali sono le modalità at-tuative che vengano più incontro ai cittadini, qual è il costo dell’adempimentoper loro, rispetto ai vantaggi collettivi. Se si introducono nuovi princìpi nel-l’ordinamento va progettata una gradualità nella loro diffusione perché ancheda noi assistiamo alle volte all’introduzione di norme molto esigenti e innova-

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42 Alle volte una legge è copiata dalla Francia, un’altra dall’Italia, e una terza mal tradottadal tedesco, creando ulteriori incertezze e contraddizioni.

Parte prima

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tive rispetto alla prassi. Abbiamo visto ad esempio che con l’introduzione dellenorme sull’analisi dei rischi nei luoghi di lavoro nel 1994 e con quelle sul-l’ambiente nel 2006 le aziende più strutturate si sono adeguate abbastanza ra-pidamente, mentre altre, pur sposandone le finalità, hanno messo molto tempoper comprendere appieno la norma, trovare modalità applicative compatibilicon la struttura, individuare consulenti ed interlocutori che a loro volta hannodovuto percorrere una curva di apprendimento. Anche i controllori all’inizioapplicavano la norma con un elevato grado di incertezza, e tendevano ad an-dare solo nelle aziende più avanzate (cui magari facevano prescrizioni e multe),ben sapendo che andando nelle altre sarebbero stati costretti a provvedimenticosì severi da mettere in gioco l’occupazione. Avere norme che perseguono lapurezza dei principi, ma pongono la maggioranza dei destinatari in posizionedi inadempienza o di illegalità non è saggio, crea forti distorsioni competitive,e infine non fa affatto crescere la cultura della legalità che ci sembra essen-ziale e di cui dicevamo prima. Però questo non è solo colpa del legislatore odel magistrato, anzi siamo spesso noi imprese ad alimentare per pigrizia o man-canza di coraggio questo approccio di rigore formale che distacca la normadalla realtà, con esiti sempre infausti. E in questo naturalmente non siamo soliperché per toglierci la responsabilità o la fatica affidiamo totalmente a consu-lenti esterni molte analisi essenziali per la vita dell’azienda, dai modelli orga-nizzativi alla sicurezza. Sposiamo l’idea che tali documenti sono tanto miglioriquante più pagine hanno. Ci lasciamo convincere che un operaio sia più sicurose deve seguire nel suo lavoro una procedura di venti pagine con termini astrusi(e spesso inventati), piuttosto che una di due pagine che lascia però anche unruolo al suo buon senso. Firmiamo documenti bancari di decine o centinaia dipagine, che nessuno riesce più a leggere. L’illusione di regolare tutto ci allon-tana dall’effettivo controllo dei processi e privilegia la verbosità causidica.Ogni attore, come nel dilemma del prigioniero43, non volendo o non potendocoordinarsi con gli altri, sceglie una strada non ottimale e complica la vita a sésenza reale vantaggio per la collettività. Dimentichiamo che il meglio è ne-mico del bene o, come dicono gli avvocati: summum ius, summa iniuria. Ab-biamo strumenti per incidere su questa deriva? Penso di sì, anche nelle scelteche fa ogni singola impresa possiamo difendere l’applicazione sostanziale dellenorme, e possiamo scegliere di adottare le soluzioni più semplici tra quelle am-messe dalla legge. In altre parole non dobbiamo limitarci a invocare semplifi-cazioni da altri, per poi incartarci con le nostre mani, perché anche lasemplificazione parte dalla diffusione di una cultura che sappia cogliere l’es-

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43 Il dilemma del prigioniero è un noto caso della Teoria dei Giochi, che tenta di spiegare ilcomportamento umano in termini matematici. Fu sviluppata da vari matematici ed economistia partire da Von Neumann e Morgenstern nel 1944. In particolare il dilemma del prigioniero fupresentato negli anni 1950 da Tucker per analizzare la corsa agli armamenti nucleari. Esso di-mostrava come senza volontà o possibilità di cooperazione i partecipanti non riuscivano a otte-nere un risultato ottimale.

Riflessioni sui grandi temi

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senziale, di cui per ora purtroppo noi non siamo protagonisti. Infine possiamoappoggiare con più entusiasmo processi di riforma della giustizia che incor-porino un potenziale di maggiore chiarezza, velocità e semplicità. Ne cito trea mo’ di esempio:

1) la specializzazione dei tribunali, processo avviato e meritevole; 2) la telematizzazione, anch’essa avviata, ma turbata dal proliferare delle

cosiddette copie cartacee di cortesia che in molte parti del Paese stanno di-ventando una sorta di obbligo;

3) una seria riflessione sulla prescrizione, perché non si può negare che essafavorisca i ricorsi e ogni tattica dilatoria del processo. Questo non influenzasolo i tempi del processo, ma anche la sua complessità formale, perché incen-tiva gli avvocati, soprattutto di chi ha torto, a trovare qualunque pretesto per al-lungare i tempi del procedimento col mero intento di sottrarsi al giudizio. Nellamaggioranza degli altri paesi evoluti la prescrizione cessa dopo il rinvio a giu-dizio o, con migliore bilanciamento tra accusa e difesa, dopo l’eventuale con-danna di primo grado, e ciò merita riflessione anche da noi.

Il terzo tema riguarda quel che abbiamo chiamato “meno pene e più con-trappesi” e che forse un matematico chiamerebbe “più convessità”44. Esso at-tiene alla constatazione che davanti al crescere dei reati economici, e inparticolare della corruzione, che è un cancro profondo, nemico delle impresee dei cittadini, si risponde quasi sempre aumentando le pene. Quasi che ag-giungere anni di galera assopisca il senso di ingiustizia e impotenza che ci per-vade, o freni il dilagare dei furbi. Ogni volta che uno scandalo viene scopertola politica reagisce proponendo di inasprire le pene e per un attimo tutti ci il-ludiamo che così il problema sia stato affrontato. Ma l’anestesia dura poco eallo scandalo successivo la rabbia è più grande. Se avessimo meno pene de-tentive, ma più efficacemente applicate, e un uso massiccio di pene alternativee di sanzioni avremmo credo una situazione migliore. Se poi le leggi riuscis-sero, per i reati economici e dell’impresa, a individuare una soglia di materia-lità proporzionale alla dimensione dell’azienda45, al di sotto della quale siapplicano solo sanzioni, eviteremmo di impegnare l’apparato pubblico per que-stioni che quasi sempre finiscono per distogliere la capacità investigativa daiveri problemi. Ma per controbilanciare l’illegalità, oltre a pene ragionevoli edefficacemente applicate, occorre stabilità delle regole nel tempo (se posso spe-rare continuamente in cambiamenti, sanatorie o indulti la deterrenza cessa), ed

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44 Il concetto è assai ben spiegato in N.N. TALEB, Antifragile, Milano, Il Saggiatore, 2013,cap. 18.

45 Credo che si possa concordare con l’idea che alcuni errori di fatturazione siano un indi-zio più grave in un’azienda che emette 100 fatture all’anno che non in una che ne emette 100.000,o che il reato ambientale abbia una diversa rilevanza se in un distributore di benzina si romperipetutamente una cisterna rispetto al caso di una rete di 1.000 distributori di cui due o tre hannoun problema: una soglia di materialità dovrebbe aiutare a distinguere tra rilevanza civile e am-ministrativa, e recidiva penale.

Parte prima

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è soprattutto utile pensare a meccanismi che rendano alla radice poco conve-niente, o dannoso, delinquere. Ciò in ambito economico è più facile che in altriambiti, e in genere più efficace. Ogni imprenditore onesto ha assistito allibitoai vantaggi che alcune norme generano a favore di concorrenti senza scrupoli,sia nel campo fiscale, dove le frodi sull’IVA hanno messo in ginocchio im-prese serie avvantaggiando quelle scorrette, sia soprattutto nel campo degli ap-palti che meritano una riflessione a sé, perché a quanto si legge quasi ogniepisodio rilevante di corruzione è associato proprio agli appalti. L’appalto èspesso un modo di comprare un prodotto concordando un prezziario per le sueparti. Si tratta di un metodo di acquisto che non accetteremmo per quasi nes-sun tipo di prodotto, semplice o complesso: se il panettiere mi dicesse che ilconto del pane me lo fa a fine mese sulla base della farina, dell’utilizzo delforno, della manodopera in economia, cambierei panettiere. Se quando com-pro un’auto mi facessero firmare un elenco prezzi per poi dirmi solo alla con-segna quante candele, quanto filo elettrico e quanta gomma ci hanno messo,preferirei andare a piedi. Anche i costruttori quando vendono villette su pro-getto sanno dire benissimo quale sarà il prezzo finale. Ma quando compriamoun’opera pubblica facciamo un progetto approssimativo, affidiamo l’appalto achi offre meno e poi permettiamo che il progetto sia rivisto e reso ben più co-stoso da riserve, imprevisti e lavori in economia che nessun panettiere o co-struttore di auto si sognerebbe di invocare. In questo modo i costruttori piùprecisi, con migliore capacità di stima e di progetto sono svantaggiati. Se in-vece l’appalto prevedesse la consegna di un prodotto finito, ad esempio unponte, ad un prezzo definito, l’onere di valutare bene i rischi di quel lavoro sa-rebbero dell’impresa edile e non della collettività come oggi. Forse non è cosìsemplice come in questo breve esempio, ma vi sono molti contesti in cui lastruttura della norma, o del contratto, remunera in modo crescente i compor-tamenti meno trasparenti: non ci si deve poi stupire se essi si manifestano. Seinvece si lavorasse sul codice degli appalti, in modo che gli incentivi andasseroa chi è efficiente e non a chi cavalca il contenzioso, penso che si avrebbero la-vori pubblici meno costosi e di qualità crescente, cioè più giustizia senza pas-sare né dagli avvocati né dalle aule dei tribunali. Ragionamenti simili sipotrebbero applicare a molti altri settori.

Ma c’è infine un campo in cui noi imprenditori potremmo contribuire dipiù a sanare quella sfiducia e senso di ingiustizia che pervade la società: bastasemplicemente, qualche volta, non tacere quando ci accorgiamo che qualcosanon funziona. E il coraggio maggiore, per fare questo, sta nel vincere l’inerziaimmensa della nostra società. Quando le persone raggiungono un posto di pre-stigio, che sia nella politica, nell’impresa o nella pubblica amministrazione,sembra che acquistino una specie di inamovibilità, un diritto divino a stipen-dio e onori anche se fanno danni, cioè il contrario della modernità fondata sulmerito, come l’abbiamo definita sopra. Il massimo che può capitare loro se sirivelano incapaci è che siano rimossi con una promozione, rifilando la loro in-

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Riflessioni sui grandi temi

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competenza a qualcun altro. L’unica forza in Italia che oggi rimuove le classidirigenti è la magistratura. Quando non sappiamo cosa fare davanti a un pro-blema, pur temendoli, finiamo per sperare proprio che intervengano i magi-strati. Ma forse affidiamo loro un compito ingiusto, perché nella maggioranzadei casi il problema riguarda la formazione e la selezione della classe dirigenteprima di riguardare le violazioni di legge. Rispetto a ciò noi imprenditori, seci sentiamo parte della classe dirigente, dobbiamo saper prendere posizione efavorire la rimozione di chi non è all’altezza. È un fallimento per tutti se nel no-stro Paese l’avvicendamento nelle posizioni di maggior prestigio della societàè assicurato principalmente dai giudici. La gente ha sempre meno fiducia chesiano davvero i migliori ad accedere alle posizioni di responsabilità, e si affidasempre più a reality show e gioco d’azzardo come residui strumenti di mobi-lità sociale. Questo, come dicevamo all’inizio, è un grande ostacolo a una so-cietà giusta e moderna, e cioè a una società dove l’impresa funziona bene.

Dobbiamo esercitare un po’ di impegno civico per far sì che il mondo in cuiviviamo avanzi e non arretri. Da soli non possiamo certo cambiare il mondo,ma senza di noi il mondo non cambia. Se non ci mettiamo in gioco quando ve-diamo qualcosa che non va, e se non ci esponiamo almeno qualche volta, quelche ci sembra quieto vivere sarà la base della nostra miseria. Dobbiamo se-guire una antica massima che dice più o meno: se non mi prendo cura io di ciòche è importante per me chi lo farà? E se mi occupo solo di me stesso che razzadi persona sono? E se non ora quando?

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Parte prima

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II.

Cultura e legalità

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1Tra i grandi temi affrontati in questi anni, abbiamo scelto di concentrarci molto sul temadella cultura e della legalità, valori fra loro strettamente intrecciati e che hanno fatto da filoconduttore della principale iniziativa culturale di Confindustira Ravenna. Si tratta del premioGuidarello per il Giornalismo d’Autore, nato nel 1972 su impulso di Walter Della Monica eorganizzato dal 1986 da Confindustria Ravenna, che ha creato nel 2007 anche il premio Gui-darello Giovani, coinvolgendo tutte le scuole superiori della provincia nei reportage inazienda.Il premio porta a Ravenna giornalisti e personalità della televisione di altissimo livello,in una serata di approfondimenti dei grandi temi dell’attualità e del costume condotta, du-rante il mio mandato, da Bruno Vespa e da Margherita Ghinassi.

1.

L’importanza del coraggio (10 novembre 2011, premio Guidarello Giovani)

Il Guidarello Giovani1 vuole non solo far conoscere le aziende a voi stu-denti, ma stimolare la curiosità per l’impresa, e se possibile per l’imprendito-ria, cioè per la voglia di costruire qualcosa di vostro. Voi vi confronteretesempre nella vostra vita col tema di come trasformare un’idea in realtà, che èpoi il tema dell’organizzazione e dell’impresa. Voi sarete lavoratori, managere imprenditori. È forse ancora presto per voi immaginare cosa farete nella vo-stra vita, ma di certo speriamo di avervi aiutato facendovi toccare con mano lavita di un’azienda, di uno stabilimento: come e quanto si lavora, cosa ne vienefuori alla fine, quali persone si impegnano per dare forma a un’idea, trasfor-mandola in un prodotto concreto e utile alla collettività. E anche facendovisentire come il mercato è l’unica misura neutrale, e alla lunga giusta, del va-lore di un’idea e di un prodotto. C’è una storiella che ho sempre sentito rac-contare in famiglia, e che mette un po’ in dubbio il mito dell’imprenditore chedal nulla crea un impero: «Suo nonno da bambino gli diede una mela, ma luinon la mangiò, e la vendette a un compagno di scuola per un soldo, col qualeandò in campagna e comprò due mele. Attraverso un paziente lavoro al liceoaveva già un carretto di mele, e all’università due. Poi morì suo nonno e gli la-sciò in eredità l’azienda…». Potete pensare che le imprese siano solo ereditate,che salvo rare eccezioni la possibilità di creare qualcosa di nuovo sia impossi-bile, che servano tanti capitali, che siano troppo difficili da ottenere. Non sem-pre è così. Avrete probabilmente letto e sentito della difficile situazioneeconomica che oramai da anni mette a dura prova il nostro sistema produttivoe che in questi giorni ci obbliga a scelte difficili. Sicuramente il momento ègrave, ma nel cambiamento si creano anche tante nuove opportunità, e noi im-prenditori la affrontiamo con preoccupazione, ma anche con speranza, perché

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finché c’è libertà ci saranno nuove forze che sapranno ricostruire e inventarenuove soluzioni. Queste nuove leve siete anche voi, la vostra fantasia, il vostroottimismo e il vostro entusiasmo. Noi vi abbiamo aperto le porte delle nostreaziende metalmeccaniche, dell’offshore petrolifero, della sanità, aziende che sidedicano alla produzione di energia tradizionale e da fonti alternative, o im-prese che si occupano di comunicazione o marketing. Come vedete, il nostroterritorio ha tanto da offrirvi, e ha voglia di offrirvelo. Non vi dico che è facilediventare imprenditore, né che è l’unico modo per costruire qualcosa ed es-sere soddisfatti di sé. Tutti avrete visto su You Tube la lezione che Steve Jobstenne a Stanford nel 2005. Quella è una bella lezione di umanità e di impren-ditoria. Di umiltà e di fiducia. Di passione per il lavoro fatto bene, anzi benis-simo. Di incoraggiamento a seguire le strade non battute, perché là si trovanole cose nuove e i tesori della propria vita. Ed è una lezione di coraggio. Il co-raggio è importante. Lo statista ateniese Pericle diceva più o meno: «il segretodella felicità è la libertà, il segreto della libertà è il coraggio» (orazione fune-bre di Pericle – 431 AEV). Questa frase a me è sempre piaciuta e mi ha inspi-rato nelle mie azioni. E poiché i tempi sono difficili, e osare vuole anche direaccettare l’insuccesso, almeno quello materiale, e imparare da esso, vorrei con-dividere con voi un’altra frase che mi è sempre piaciuta di Martin Luther King(discorso Strength to love, 1963): «Il criterio definitivo per giudicare il valoredi una persona non è il livello di benessere e di agiatezza che abbia raggiuntoin un momento qualsiasi della sua vita, ma il livello del suo impegno socialenell’ora della sfida e della controversia».

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Parte seconda

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2.

Il merito (13 novembre 2011, premio Guidarello2)

Il Premio Guidarello per il Giornalismo d’Autore festeggia oggi 40 anni. Trai molti premiati eccellenti voglio ricordare che nel 2006 abbiamo avuto il me-rito di consegnare il Guidarello ad honorem al professor Mario Monti, insigneeconomista e uomo delle istituzioni. Pochi minuti fa il professor Monti è statochiamato al Quirinale per ricevere l’incarico di formare un nuovo Governo cheaiuti il Paese ad affrontare la difficile crisi in atto e a ricostituire la sua credi-bilità sui mercati e nella comunità internazionale. Credo di interpretare il pen-siero e l’animo di tutti noi nell’esprimere speranza e fiducia in questa scelta delPresidente della Repubblica, costruita con rigorosa determinazione, e nel for-mulare un sincero augurio di successo al professor Mario Monti. Il prossimoGoverno avrà bisogno dei segni di sostegno della società e dei cittadini di frontealle scelte difficili che dovrà compiere. La manifestazione di oggi si svolge inun mondo in crisi: occasioni come questa, oltre all’opportunità di passare unabella serata insieme, ci danno la possibilità di condividere riflessioni sulle cir-costanze in cui viviamo e sui valori su cui possiamo fare affidamento. Il Pre-mio Guidarello riconosce il merito di giornalisti locali e nazionali che si sonodistinti per la qualità del loro lavoro, per l’approfondimento, per la capacità dicogliere l’essenza di una storia, per aver trasmesso la notizia con correttezza,ma anche per aver saputo indicare ai lettori le dimensioni più profonde dellanotizia, che risvegliano le nostre coscienze e ci chiedono di prendere una po-sizione. I giornalisti premiati questa sera non sono neutrali, ciascuno ci dicequalcosa e si appella ai valori che plasmano la nostra vita. Il merito che le giu-rie hanno premiato è dunque anche questo, e il merito è un valore fondamen-tale per l’impresa. Ma perché il merito possa emergere, è anche necessario cheil valore della legalità sia riconosciuto e sostenuto.La legalità ci dà la fiduciadi poter dare il meglio di noi sapendo che i frutti di questo sforzo, sia esso in-tellettuale o materiale, non saranno espropriati. Essa ci assicura che le regole

2 Premiati Luigi Giampaolino (ad honorem) Roberto Giardina (sezione nazionale/società),Maurizio Molinari (sezione nazionale/società), Mario Pirani (sezione nazionale/cultura), SimonaVentura (sezione nazionale/radiotv), Antonio Castronuovo (sezione Romagna/società), ValeriaMiniati (sezione Romagna/studi e ricerche), Armando Torno (sezione nazionale/cultura), FulcoPratesi (sezione turismo/società), Edoardo Raspelli (sezione turismo/radiotv), Andrea Zanzotto(alla memoria).

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entro cui ci muoviamo sono uguali per tutti. La legalità è un valore essenzialeper la nostra società, e per l’impresa, e lo sentiamo ancora più fortemente neitempi di crisi, in cui la tentazione di prendere scorciatoie diventa più forte, al-meno per alcuni. Dunque il Guidarello ad honorem ci ha consentito di espri-mere questo tema, l’anno scorso premiando il Presidente dell’Autorità Garantedel Mercato e Concorrenza, e quest’anno premiando il Presidente della Cortedei Conti, Luigi Giampaolino, magistrato di lungo corso e uomo di giustizia.Come sapete, la Corte dei Conti nasce per vigilare sulle amministrazioni delloStato, per prevenire ed impedire, quando possibile, sperperi e cattive gestioni.Così come la concorrenza, anche il buon funzionamento della burocrazia è es-senziale per la vita dei cittadini e delle imprese, e su questa idea complessiva dilegalità credo che vorremo tornare anche nei prossimi anni. Quando parliamo dilegalità non pensiamo solo al rispetto delle leggi, ma anche al tema di isolare l’il-legalità sul nascere: noi crediamo che la legalità si regga sul buon lavoro dellemagistratura e delle forze dell’ordine, ma che la prepotenza, l’abuso e la crimi-nalità si possono diffondere come un cancro incurabile, se non vengono arginateper tempo, e dunque Confindustria da tempo riflette su azioni per rafforzare lacultura della legalità. Permettetemi di citare il pensiero di un pastore luterano,Martin Niemöller, prima convinto nazionalista tedesco e poi oppositore del nazi-smo e deportato a Dachau, che ben descrive come l’arbitrio si diffonde facilmentese la società non è a fianco delle istituzioni a difendere il valore della legalità:

Prima vennero per gli ebreie io non dissi nulla perchénon ero ebreo.Poi vennero per i comunistie io non dissi nulla perchénon ero comunista.Poi vennero per i sindacalisti e io non dissi nulla perchénon ero sindacalista. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.

La legalità che vogliamo dunque promuovere è un’idea di fiducia nelle re-gole, e di loro tutela, che oltrepassa la pur fondamentale applicazione delle leggi,e che si rinsalda nella cultura. La cultura crea quella condivisione di principi evalori che prevengono i conflitti tra le persone, la cultura consolida la fiducianelle regole e la sensibilità al loro sovvertimento. È dunque motivo di orgoglioper Confindustria Ravenna sostenere il prestigioso premio Guidarello, ma èanche una scelta naturale per contribuire nel nostro territorio a sostenerel’espressione migliore del pensiero e dell’ingegno. La cultura che sosteniamoquesta sera porta dunque in sé l’idea di merito e di legalità.

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Parte seconda

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3.

Il senso civico (25 novembre 2012, premio Guidarello3)

Il premio Guidarello giunge alla sua 41a edizione in un anno di crisi e di ri-scossa. Di crisi perché le difficoltà economiche, nazionali e mondiali, hanno in-vaso le nostre vite rendendoci assai più attenti alle notizie economiche. Diriscossa perché nelle difficoltà crescono i germi del cambiamento, e perchépersone che si erano tenute lontane dalla vita pubblica oggi si rendono dispo-nibili a portare la loro visione e competenza. L’economia ha occupato le nostrevite e i nostri discorsi, abbiamo imparato a seguire lo spread e a interpretare lecomunicazioni dell’Unione Europea. Coglie dunque lo spirito dei tempi il pre-mio a due grandi economisti che dedicano molta energia a spiegare sui quoti-diani con parole semplici ed efficaci i grandi temi dell’economia e ad offrireanalisi e proposte ai dilemmi difficili che famiglie e aziende affrontano ognigiorno. Vediamo nella loro opera l’opportunità di riflettere ancora sullo strettolegame tra impresa e informazione. I mercati funzionano bene se vi è diffusainformazione e se gli operatori agiscono in modo abbastanza razionale. Que-ste condizioni, che gli economisti pongono alla base delle loro teorie, non sonosempre vere nella realtà. Ma una buona informazione economica, uno stimoloalla riflessione, una capacità di smascherare le ipocrisie di certi intrecci tra po-litica ed economia non sono solo un rispettabile lavoro dell’intelletto, ma ancheil prezioso contributo dell’informazione giornalistica al funzionamento delmercato. Ma il mercato ha anche bisogno di legalità e senso civico per fun-zionare. La legalità ci dà la fiducia di poter dare il meglio di noi sapendo chei frutti di questo sforzo, sia esso intellettuale o materiale, non saranno espro-priati. Essa ci assicura che le regole entro cui ci muoviamo sono uguali pertutti. La legalità è un valore essenziale per la nostra società, e per l’impresa, elo sentiamo ancora più fortemente nei tempi di crisi, in cui la tentazione diprendere scorciatoie diventa più forte, almeno per alcuni. Dunque il Guida-rello ad honorem ci ha consentito di esprimere questo tema, premiando il Pre-sidente dell’Autorità Garante del Mercato e Concorrenza nel 2010, il Presidentedella Corte dei Conti nel 2011, e siamo molto onorati di premiare quest’anno

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3 Premiati Paola Severino (ad honorem), Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (sezione na-zionale/cultura e società), Alice ed Ellen Kessler (sezione nazionale/radiotv), Mario Pierpaoli(alla memoria), Paolo Gambi (sezione Romagna/attualità), Anna Tonelli (sezione Romagna/so-cietà), Sveva Sagramola (sezione turismo).

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il Ministro della Giustizia, Paola Severino. Il premio intende innanzi tutto ono-rare la sua opera di riforma e riordino della giustizia di cui è stata ridisegnatala geografia, che risaliva agli interventi di Rattazzi del 1859 e ai seguenti diquell’epoca che si completarono con l’opera sull’autonomia della figura delgiudice voluta da Zanardelli. Insieme a essa ricordiamo gli interventi sul so-vraffollamento delle carceri, quelli sulla corruzione, e quelli in lavorazionesulla non candidabilità dei condannati, la sensibilità al tema della violenza con-tro le donne, al quale oggi tutto il Paese rivolge la sua attenzione. Ma vogliamoanche esprimere ammirazione per il senso civico che questa opera ci dimostra.Il Ministro Severino ha infatti messo le sue competenze al servizio di tutti noi,lasciando una vita professionale di straordinario successo, e devolvendo al benepubblico tempo ed ingegno. Credo che la vita delle persone pubbliche perbenesia difficile: faticano per fare al meglio delle proprie capacità quello in cui cre-dono, sono oggetto di critiche continue e talvolta in malafede. Non semprehanno il conforto e il sostegno dei cittadini, e nel momento della controversiachi dovrebbe o potrebbe aiutarle spesso non ha il coraggio di esporsi. Vi è dun-que un merito particolare nella scelta fatta dal Ministro Severino che inten-diamo onorare questa sera accanto al principio di legalità che rappresenta.

Ringraziamo anche chi in questa settimana ci ha severamente criticato, per-ché quello che è successo ci offre lo spunto per una riflessione più ampia sulcambiamento e sulla classe dirigente, che Confindustria Ravenna cerca di ap-profondire da qualche tempo: perché selezioniamo sistematicamente personemodeste, o meglio, guardando la cosa dal lato opposto, perché le molte personedi qualità che sempre di più in questo momento difficile e di svolta si sentonochiamate a maggiore impegno civico poi desistono?

Internet ha ampliato e amplificato la libertà di condivisione delle idee e lapossibilità di diffondere, ma anche di manipolare le informazioni. Qualunquegruppo oggi può facilmente attaccare o denigrare la più prestigiosa delle or-ganizzazioni e la migliore delle persone, confezionando mezze verità o estre-mizzando posizioni di principio, e acquisirne visibilità e vantaggio. I mediasono accessibili e danno risalto alla cosa, il pubblico assiste allo scontro senzasentirsi chiamato a una presa di posizione civica. Quasi nessuno approfondi-sce le cose o sa veramente di cosa parla, dunque tutto è vissuto a livello estre-mamente superficiale. Come diceva Mark Twain: una bugia riesce a fare il girodel mondo prima che la verità si sia allacciata le scarpe. Noi crediamo in unasocietà aperta, dove le idee si confrontano liberamente, dove si è disponibili amettere in discussione l’oggi per costruire il domani. In fondo è proprio que-sta anche la natura del processo imprenditoriale, che è connaturato alla libertà.Questa è infine la storia del nostro premio, che non è uguale a dieci anni fa eche tra dieci anni non sarà uguale a oggi. Ma poiché la rete amplifica gli spazidi dibattito senza filtro, sempre di più si contrappongono due approcci alla par-tecipazione che hanno esiti opposti sulla scelta della classe dirigente. Vi è il me-todo tutto sommato antico, quasi tribale, che fa leva sull’irrazionale, e aggrega

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Parte seconda

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le persone indicando un nemico che si frappone tra l’oggi e la soluzione di tuttii problemi. Vi è poi un metodo più faticoso, lento, fatto di approfondimento edi rinuncia alla superficialità, di dialogo senza delegittimazione. Non accendeugualmente gli animi, perché non offre certezze assolute, non ha nemici da di-struggere, ma solo ostacoli da superare, e richiede un’adesione cosciente, me-ditata, e dunque più faticosa.

Il primo metodo seleziona una classe dirigente con qualità movimentiste, re-torica integralista, e capacità di cambiare le cose pari a zero. Il secondo attirauna classe dirigente pacata, laboriosa, determinata, ma più debole, infatti il se-condo metodo non è carismatico come il primo, ma bensì è inerentemente de-mocratico e richiede il sostegno attento e costante dei cittadini. Questi dueapprocci sono sempre esistiti, e l’unica forza del secondo risiede nell’incon-cludenza del primo. Ma il crescente rischio di attacchi mediatici violenti e in-fondati scoraggia e dissuade le persone di qualità ad assumere ruoli diresponsabilità pubblica, proprio perché il metodo della denigrazione dell’av-versario ha sempre più facile accesso a un pubblico che coltiva la superficia-lità, l’aggressività verbale, e rifiuta la complessità della realtà. Osserviamodunque il paradosso di una benefica libertà che rischia però di rafforzare la se-lezione di una classe dirigente modesta. Lo statista ateniese Pericle ci ha inse-gnato che il segreto della felicità è la libertà, e il segreto della libertà è ilcoraggio4: dobbiamo dunque apprezzare e difendere la sempre maggiore li-bertà che ci offre internet, ma dobbiamo anche rafforzare il ruolo della cittadi-nanza attiva che ognuno di noi può svolgere, nel prendere posizione per l’unoo l’altro metodo. Se sapremo sviluppare gli strumenti per smascherare le am-bizioni personali e la militanza superficiale e sostenere l’impegno civico au-tentico avremo una migliore classe dirigente in una società più libera. Eccoperché il nostro premio è ancora attuale, e merita sostegno e adesione: perchél’informazione svolge un ruolo essenziale anche nel darci gli strumenti per di-stinguere tra demagogia e competenza, tra morale e moralismo, e perché pre-miamo chi ci offre opportunità di cambiamento attraverso la conoscenza e laprofessionalità, in tutti i campi della comunicazione.

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Cultura e legalità

4 «Possa tu dunque fare di questi uomini il tuo esempio, e considerare che la libertà è feli-cità, ed il coraggio è libertà», orazione funebre di Pericle, 431 AEV.

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4.

Il violinista sul tetto(7 marzo 2013, The Italian Academy of Columbia University)

It is a great pleasure to be here at the Italian Academy of Columbia University.Not only for the importance of the venue and of the distinguished public, but be-cause I was a student at Columbia and about 20 years ago I came to conferencesat the Italian Academy that had a momentous impact on my way of thinking. Oneof them was a conference held in this room in 1993 by Francesco Cossiga, whohad just recently completed his mandate as President of the Republic of Italy.

In those days Italy was going through a very difficult economic crisis, itscurrency had been devalued forcing the Country to temporarily leave the Eu-ropean Monetary System, most politicians were entangled in scandals, therewas widespread hostility towards traditional politics, and new leaders were ap-pearing on the scene. If this sounds familiar to you it is because Italy is in a sim-ilar situation today and has passed other times of change and instability in thepast. If you allow me to borrow an allegory from a famous Broadway show weare a bit like a fiddler on the roof. How do we keep the balance? This I can tellyou in one word: Culture!

Culture is built over centuries of experiments and intellectual debate. It is whatkeeps society together at a deeper level than laws and regulation. If people didn’tshare values and accept consolidated social conventions, no code of law or policeforce could keep communities together. This is in many ways one of the greaterstrengths of Italy and for the purpose of today’s speech, of our territory ofRavenna. You will hear from my colleagues on the podium today about the richhistory of our city, about its claim to be the European capital of culture in 2019,about the fundamental role it played in the classical and middle ages. You shouldknow that it was the home-port of the Roman fleet, that Teodorico ruled from it,Dante spent his last years in Ravenna, lord Byron enjoyed months of happinessin its palaces, Nobel laureate Montale wrote poetry walking along it canals. Mazz-ini and Garibaldi are greatly popular there to these days.

Culture has made the people of Ravenna fun loving and hard working. Theyare used to be greatly hospitable, and to talk directly. Love for art, even eccen-tricity, is widespread and not only reserved to the artsy elites. For many of youmaybe Ravenna is little known, and so I wish to take you to a visit of its economictexture and its potential. It is a little city by American standards, with its 160,000inhabitants, most of them own their homes, and are employed, even in these timesof crisis. 44,000 small and medium enterprises form the economic texture of our

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area, with 2,100 of them with a number of employees between 10 and 100, the restbeing very small. This is one important feature of our economy: widespread en-trepreneurship, small size. Mechanical manufacturing, engineering and construc-tion are important sectors, together with chemicals, offshore facilities (Ravennahosts the main world fair in this field, OMC, with 500 exhibitors from 24 Coun-tries), agro-industry and of course tourism. Our industry is open to internationalmarkets and our territory exports more than 4.5 billion USD, mainly towards otherEuropean areas, Russia and Arab countries, but with increasing exports to Northand South America.

Confindustria Ravenna is traditionally the association that represents the some-what larger companies on the territory, and with 700 associates, employing 23,000people and generating north of 12 billion USD of revenues, we embody the ex-cellences of our area. Myself and my colleagues in charge of running it are en-trepreneurs who offer their work to the Association for a period of time, and whoare assisted by a professional staff. We endeavor to be close to companies in theirdealings with everyday bureaucracy, we assist them in trade union matters, pro-vide training to their workforce, but we also strive to offer food for thought to ourentrepreneurs and share with them occasions to discuss broader issues of organi-zation, politics and economics, hosting guests like Edward Luttwak, Jacques At-tali, Tyler Cowen and other distinguished thinkers who would not otherwise cometo Ravenna. We also organize cultural events that bring the mentality and valuesof free enterprise to schools and to the public at large.

Let me now spend a few words on two industries that thrive on the sea and arepossibly little known: the Port and Tourism. Ravenna has an established portwhich employs more than 4000 people, is one of the main Mediterranean port foroily seeds and flours, is efficient, hasn’t had a strike in decades, is accessible 365days per year. Mr. Di Marco, of the Port Authority, will tell you much more aboutit, but he is the “public hand” and will surely tell you of public planning and per-spectives. I want to draw your attention to the fact that Ravenna is probably theonly port in Europe that was developed by private companies. All terminals arebuilt on their own land, they compete fiercely, and yet they cooperate on commonissues. Before the Port Authority was established often terminals built their ownquays and docks and even dredged the canals. So it is peculiarly entrepreneurial,and since it has always had to compete with major ports like Venice or Genoa, itdeveloped a culture of good service unequalled in the Mediterranean.

And now for tourism: Ravenna and its area have long sandy beaches, with allsorts of attractions for families, students, young professionals. It has beach volleytournaments, training in all sports, discos on the beach, shopping, partying, fam-ily entertainment and large amusement parks. Of course it also has extraordinarymonuments and museums. Most of all Ravenna has good people, who are look-ing forward to welcome you, whether it is for your next holiday or for setting upbusiness.

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Parte seconda

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5.

La cultura anticrisi (13 Giugno 2013, articolo sul «Corriere Romagna»)

Negli scorsi mesi molti autorevoli giornalisti e uomini d’impresa, col so-stegno di Confindustria, hanno scritto per ricordare che la cultura è una granderisorsa del nostro Paese da valorizzare e sostenere anche come antidoto allacrisi. Questa affermazione naturalmente ci ricorda quante bellezze ci circon-dano e non sono valorizzate, e quanta cultura permea il nostro modo di viveree di pensare e ciò è un valore aggiunto che si può e si deve trasformare in ric-chezza, tanto più nel nostro territorio che ambisce giustamente al titolo di Ca-pitale della Cultura 2019. Vorrei però rinforzare questa riflessione cosìcondivisibile con una ulteriore riflessione su come la cultura può essere una ri-sorsa pratica a cui ognuno di noi dovrebbe attingere per affrontare la crisi.

Viviamo un periodo di cambiamento profondo del mondo, e ci arriviamodopo aver vissuto per decenni in un benessere reso possibile da un crescenteindebitamento pubblico che ha sostenuto i consumi e la domanda per le impresesenza però favorirne a sufficienza l’ammodernamento e la produttività. Lacoincidenza di questa epoca di cambiamenti mondiali con la fine della nostracapacità di indebitarci non è casuale, e ci impone oggi uno sforzo di fantasia edi comprensione, oltre che di lavoro, per superare questo momento. Quandopensiamo agli anni Sessanta ricordiamo immancabilmente il boom economicoe l’atmosfera di ottimismo che pervadeva ogni cosa. Eppure anche allora at-traversavamo un cambiamento, vecchie abitudini di vita e interi settori indu-striali soccombevano, e gli imprenditori di successo di allora avviavano nuoveproduzioni grazie alla loro ricerca scientifica e tecnica, andando a fiere, sco-prendo cosa si faceva nel resto del mondo, lanciando nuovi prodotti ed elabo-rando nuove forme di relazioni industriali, insomma facendo e ricevendocultura.

Oggi la ricetta per superare questa crisi non la conosciamo ancora, ma pertrovarla dobbiamo coltivare la curiosità e la conoscenza, leggere di più, cercareconferenze e dibattiti che ci espongano a idee non convenzionali, capire me-glio le regole del sistema in cui operiamo, anche per proporne meditate modi-fiche. Occorre che guardiamo nuovamente lontano per capire nuovi modi difare i nostri mestieri, e i nuovi mestieri che emergono. Non possiamo solo op-porci al declino di alcuni settori, ma dobbiamo creare le condizioni perché altrine sorgano. In altre parole dobbiamo coltivare la cultura nelle imprese e nellasocietà migliorando la comprensione del mondo circostante e la capacità di

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presentare le proprie eccellenze. Ci occorre un uso migliore degli strumenti dicomunicazione, uno sforzo per capire e usare le potenzialità dei nuovi media,una migliore cultura contabile e giuridica in azienda per accedere a un piùampio mercato del credito.

Per fare questo non basta che gli imprenditori vadano a più conferenze oconvegni, ma occorre che tutta la società abbracci uno spirito di curiosità e co-noscenza e lo trasmetta a chi produce, a chi insegna e a chi governa. Non moltopiù di un secolo fa vi erano vaste reti di stazioni di posta, dove chi viaggiava acavallo poteva rifocillare se stesso e i suoi animali, ferrare gli zoccoli, cambiarecavallo. Quando comparvero le prime automobili molti gestori di stazioni diposta non ne capirono il potenziale. Chi lo capì ebbe intuito e si riconvertì pertempo, ma quasi sempre poté farlo perché attorno a sé vi era un ambiente apertoe curioso, perché gli arrivarono le notizie e le conoscenze sulla nuova mecca-nica, e perché ebbe la voglia di studiarle e di capirle. Chi invece non aveva at-torno a sé la disponibilità di questa conoscenza rimase indietro. Forse potéaprire tavoli di crisi a qualche ministero, ottenere sussidi pubblici, additarecapri espiatori, mobilitare politici, ma infine scomparve.

Per questo suggerisco che la cultura è una risorsa pratica, che ci aiuta a capirein profondità il mondo intorno a noi, ed è perciò utile creare sempre nuove oc-casioni di apprendimento. Attorno a noi si dedicano molte energie alla conser-vazione dell’esistente. Rischiamo così di finire le energie insieme alle speranze.Se invece più energie favorissero la diffusione della conoscenza nella società of-friremmo a chi ne ha le capacità la strada per costruire benessere per tutti.

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6.

Cultura, religione e legalità (1 dicembre 2013, premio Guidarello5)

Il premio Guidarello per il Giornalismo d’Autore giunge alla sua 42a edi-zione in un anno di interrogativi e incertezze. La lunga crisi economica che ciha accompagnato forse si sta esaurendo, ma molte aziende e posti di lavoronon ci sono più e le persone si chiedono quando potranno ricominciare a spe-rare e a guardare con serenità al loro futuro. Ma non sono solo le nostre pre-occupazioni economiche a influire sulla nostra vita, perché nel mondo sono incorso grandi cambiamenti, economici, sociali e culturali. Il primo passo chedobbiamo compiere è dunque cercare di capire cosa ci succede attorno. Qualè lo strumento che abbiamo per fare questo percorso? Naturalmente è uno soloe si chiama cultura. La cultura è la scienza della convivenza e dello sviluppodelle idee. Un pensatore napoletano del Settecento, Giacinto Dragonetti, hascritto che sono «tre i tipi di norme di cui le società, di ogni tempo e luogo, ab-bisognano per la loro sostenibilità»: le norme legali, che si reggono sulle pu-nizioni e le pene; le norme sociali, che sono il risultato di convenzioni etradizioni più o meno antiche, e si reggono sul senso di vergogna che suscitanoi comportamenti non accettati; e infine le norme morali e religiose, la cui vio-lazione fa scattare negli individui il senso di colpa. Da ciò discende che se leleggi che vengono promulgate sono troppo contrarie alle norme sociali e mo-rali prevalenti nella società, non solamente le leggi non saranno rispettate per-ché non è certo possibile sanzionare tutti i loro violatori, ma quel che è peggioesse andranno a minare le credibilità delle altre due categorie di norme, mi-nacciando così la stabilità dell’ordine sociale stesso6. Questo disallineamentotra norme, società e cultura è la situazione che in vario grado si manifesta nelmondo in questo momento. Da noi, dove la società affronta sfide tecnologiche,economiche e culturali con una popolazione invecchiata e impoverita, inOriente e altre aree emergenti, dove invece grandi masse escono dalla povertà,

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5 Premiati Sabino Cassese (ad honorem), Piero Angela (premio alla carriera sezionenazionale/radiotv), Domenico Quirico (sezione nazionale/cultura), Mario Arpino (sezionenazionale/società), Luciano Canfora (sezione Romagna/cultura), Serena Simoni (sezioneRomagna/studi e ricerche), Thomas Cicognani, Massimiliano Costa e Stefano Piastra (sezioneRomagna/audiovisivi) Paolo Rumiz (sezione turismo)

6 G. DRAGONETTI, Delle virtù e dei premi, pubblicato anonimo a Napoli nel 1766, comeprogramma di governo per il giovane re di Napoli Ferdinando IV, in Perché ritornare a GiacintoDragonetti, S. ZAMAGNI, Università di Bologna, 2010, AICCON Working Papers 79.

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ma affrontano sfide ambientali e sociali cui la tradizione non le ha preparate,e nel mondo arabo, dove una crescente minoranza mal sopporta i vincoli diuna società tradizionale, ma la maggioranza è tutt’ora impreparata e ostile adogni forma di cambiamento. Vaste aree del mondo compiono ora un percorsoche anche noi abbiamo passato in anni più vicini di quel che pensiamo: nellagran parte della nostra storia la religione è stata uno strumento potente di con-trollo e stabilità sociale. Il potere politico se n’è sempre servito, e la religionein generale è stata ben contenta di trarne i vantaggi. Oggi lo sviluppo econo-mico, la velocità del cambiamento, l’affermazione della legge come argine alpotere arbitrario dei governanti, rende il ruolo di controllore sociale svolto dallareligione meno necessario. Inoltre in molti casi il controllo sociale basato sullareligione tende a costituire un grave limite allo sviluppo, a causa della sua na-tura generalmente conservatrice e dogmatica. Alcune società hanno costruitosistemi alternativi alla religione per mantenere una certa stabilità sociale, altrestanno affrontando proprio ora questo tema. Mettono in discussione consolidatimodi di vita e di relazione perché paiono un freno allo felicità, e costruisconocon dolore e conflitto un nuovo equilibrio tra legge, costumi e moralità. Que-sto probabilmente apre anche il tema di un diverso ruolo sociale delle religioni,che restano a mio avviso la più efficace e ricca fonte delle obbligazioni moraliche ci tengono insieme, consentendo il confronto civile e la collaborazione, eche fanno da bussola nelle nostra vita, ma che forse lo devono fare con ap-procci diversi.

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7.

I magnifici anni Sessanta e l’entusiasmo del cambiamento

(20 giugno 2014, Fondazione Romagna Solidale Onlus)

Vorrei provare nel mio intervento di oggi a fornire una lettura personaledella crisi che possa stimolare le Vostre reazioni e riflessioni. Vi prego dunquedi seguirmi col pensiero nei magnifici anni Sessanta, tra Vespe e Cinquecento,boom economico e sviluppo industriale del nostro Paese, perché penso che sialà che troveremo qualche radice di quel che ci succede oggi, e qualche motivodi ottimismo.

In quegli anni andava terminando la ricostruzione. La politica economicaaveva assicurato bassa inflazione, moneta stabile e ragionevolezza salariale(queste cose le abbiamo anche adesso), ma quel che è forse irripetibile è che ilPaese fece il grande salto verso l’industrializzazione. Le banche offrivano cre-dito con entusiasmo e con qualche leggerezza. Nuove tecnologie e modi diprodurre consentivano balzi di produttività significativi, la ricchezza creavadomanda per nuovi beni, le fabbriche si costruivano e si ampliavano in modoinarrestabile, la gente lasciava la vita dura e povera delle campagne e venivain città. Le città di allora, anche le più grandi, oggi ci sembrerebbero piccolipaesi. In molte la popolazione aumentò di dieci volte in pochi anni. Le infra-strutture avvicinavano città e regioni ampliando le opportunità di affari. L’edi-lizia era in boom continuo, molte famiglie entravano per la prima volta in casecon bagni e riscaldamento. Accanto a buone imprese si fecero disastri am-bientali, accanto a case belle e strade nuove si fecero enormi quartieri brutti eprivi di infrastrutture. I palazzinari conquistarono il potere e l’immaginariodella gente. Scrittori, fotografi, registi di quegli anni catturarono in opere me-morabili il bello e il brutto di quel periodo che ancora rimpiangiamo e che de-termina il nostro presente.

Chi viaggia per lavoro in Cina o in India oggi potrebbe forse descrivere ciòche vede in quei paesi, riciclando quasi per intero le parole che ho appena usato.Centinaia di milioni di persone lasciano il freddo, la violenza e la fame dellecampagne (che tra una generazione mitizzeranno) per andare nelle città cheoffrono opportunità di lavoro nelle grandi fabbriche. Si trasferiscono in caseche forse a noi sembrano brutte, ma che hanno bagno e riscaldamento. Chi haingegno e fortuna può diventare ricco. Nelle costruzioni naturalmente, maanche cogliendo le opportunità che la società offre: moda, tecnologia, logi-stica, gioco d’azzardo o sanità. Le banche fanno la coda per incontrare gli im-prenditori e offrire denaro, e spesso sta agli imprenditori fare i preziosi. La

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domanda cresce così tumultuosamente che per molte aziende qualsiasi pro-grammazione è impossibile. Qualunque cosa si faccia con qualche capitale ele giuste relazioni oggi offre una crescita vertiginosa alle nuove aziende orien-tali. Fenomeni che noi abbiamo vissuto qualche decennio fa, fanno ora capo-lino da quelle parti. Guardando al nostro passato, possiamo in qualche modopredire i prossimi decenni dei paesi orientali7.

Ma storie simili possiamo raccontarle relativamente ad altre epoche e altrelatitudini. Ad esempio, chi ha letto da ragazzo Il giro del mondo in ottantagiorni di Jules Verne ricorderà la descrizione della San Francisco del 1860:cantieri ovunque, affaristi e avventurieri. La ferrovia in corso di completa-mento collegava la costa est alla ovest in 11 giorni, contro i sei mesi di viag-gio precedenti, e la immensa produttività liberata da questi eventi determinavauna crescita economica inarrestabile. Dunque quel che noi chiamiamo “gli anniSessanta” su diversa scala e in diverse epoche si ripete nel mondo. I giovani im-prenditori che da noi partivano all’alba col campionario, andavano alle fiere,trovavano nuove idee, copiavano prodotti approfittando del basso costo dellamanodopera, sono diventati le medie e grandi aziende di oggi. Usano mac-chine più lussuose, le relazioni con le banche li hanno accompagnati nella cre-scita. Clienti non sempre esigenti, e spesso legati al pubblico hanno dato lorodecenni di tranquillità. Svalutazioni competitive e altre forme di inerzia lihanno protetti dai cambiamenti. Ma la crisi che ci ha colpiti in questi lunghianni è stata forse per la prima volta così radicale da imporre a molte azienderipensamenti profondi, o le ha costrette a chiudere. Non sono più bastate le re-lazioni con le banche, perché anche le banche sono andate sull’orlo del falli-mento. Né gli aiuti pubblici, anche se lo Stato ha cercato di aiutare in moltimodi, perché non riuscendo più a indebitarsi facilmente, ha potuto elargireassai meno soldi che in passato. I vecchi clienti che ogni azienda dava per scon-tati o sono falliti o hanno cercato forniture più convenienti, e le produzioni chevengono dall’Oriente hanno regalato bassa inflazione e prodotti accessibili aiconsumatori, ma hanno messo sotto pressione anche le aziende migliori. Que-sto non ha mandato in malora il nostro Paese: anche se sentiamo con dolore unariduzione del nostro tenore di vita, continuiamo a godere di una qualità dellavita invidiabile. Ma un grande processo di selezione tra aziende è in corso.Non posso dire che sia giusto: si vedono imprenditori amabili e onesti costrettialla chiusura, e persone che si fa fatica a stimare che prosperano.

Si legge nelle ricerche correnti che reggono meglio le aziende che espor-tano, e non metto in dubbio le statistiche, ma quel che leggiamo sotto questeparole è che reggono meglio le aziende che sono da tempo esposte agli stimoliforti di mercati non protetti, che le hanno costrette a modernizzare produzione

7 Ad esempio, le persone che hanno lasciato le campagne mantengono l’alimentazione riccache quella vita faticosa richiedeva, e accumulano peso con le malattie che ne conseguono. Crescedunque la domanda di medicine e assistenza, e poi quella di cibi sani, stili di vita nuovi, palestre.

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e metodi di gestione, ad avere un buon ufficio tecnico, una seria amministra-zione, dei commerciali competenti. Io vedo anche tante aziende che lavoranoper il mercato interno che hanno fatto questo medesimo percorso: innovando,non contando solo sul debito e le relazioni per crescere, facendo ricerca e for-mazione, e vanno bene anche loro. Vanno meno bene le aziende che si sono fer-mate agli anni Sessanta e Settanta, che hanno troppi debiti, non hanno un buonmanagement (o non ce l’hanno affatto), non innovano nei servizi o nei pro-cessi produttivi. Insomma se negli anni Sessanta un’onda sollevava verso ilsuccesso ogni imprenditore che avesse avuto il coraggio di rischiare un po’ dicapitale e l’ingegno di proporre un nuovo prodotto, una grande inerzia ha poimantenuto prospere queste aziende per decenni, e la crisi che ci ha colpiti ha,seppur con eccezioni, punito chi si era fermato e premiato chi si è evoluto.Questo processo al cui centro ci troviamo, non ha solo aspetti negativi: se com-preso e aiutato ci darà un tessuto industriale nuovamente forte, prodotti mi-gliori, una opinione pubblica più capace di rispettare l’impresa e una impresapiù rispettabile.

Ma l’impresa naturalmente non vive nel vuoto e il suo benessere dipendeanche da quel che fa lo Stato e dalla società in cui si trova. E la società siesprime attraverso l’opinione pubblica, le associazioni, il volontariato. Cosapotremmo chiedere a questi attori perché il futuro sia meglio del presente?

Dallo Stato ovviamente ci aspettiamo regole chiare e razionali, ma ancheuna spesa pubblica più intelligente e responsabile: troppo capitale è stato dila-pidato in iniziative prive di prospettiva e di analisi, affidate a scelte emozionalio ideologiche. Non solo tali iniziative hanno distrutto ricchezza, ma continuanoa farlo nella loro gestione: nella nostre regione quanti aeroporti, fiere, centricongressi si stanno mangiando il nostro futuro? E non posso dare la colpa ai solipolitici per questo, perché dietro ogni scelta fallimentare ci sono associazioniimprenditoriali che richiedono a gran voce, opinionisti che si infervorano, cit-tadini che votano. Né ogni iniziativa è sbagliata: solo dovrebbero essere ana-lizzate meglio e con serietà, si dovrebbero usare meno consulenti compiacentie dovrebbero essere privilegiati quei progetti dove chi dice di avere un bene-ficio è anche pronto a contribuire, perché i cattivi investimenti pubblici (e ancheprivati in alcuni casi) tolgono ossigeno alla società, e anche alla solidarietà. Seguardiamo alla crisi che attraversiamo mi pare che le imprese che se la passanomeglio sono quelle che hanno vissuto più lontano dal fiume di denaro pub-blico che ha attraversato la nostra economia, mentre quelle più vicine, che ma-gari ne ricevevano linfa anche solo indirettamente, si sono trovate assai piùdeboli nella tempesta.

Alla società civile e al terzo settore, chiediamo di stare un po’ più lontanoda quel fiume. Di ricordarsi che prima di tutto vanno garantite le condizioniperché qualcuno produca ricchezza, e solo dopo si può pensare a distribuirla.Chiediamo di essere vigili sulla spesa pubblica, di rispettare anche gli errori chegli amministratori pubblici fanno, come tutti noi, ma di chiedere conto delle

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Cultura e legalità

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scelte e dei loro risultati, di chiedere «quanto costa?» a ogni nuova iniziativa,perché anche se pensiamo che paghino gli altri alla fine il conto arriva a ognunodi noi. Queste dinamiche stanno imponendo un profondo ripensamento anchead associazioni come Confindustria, e credo anche ai sindacati, alle coopera-tive, alle singole aziende, e a chi fa volontariato. Questo ripensamento sul ruolodel pubblico e sull’impegno di ogni individuo nella società e nella vigilanza èutile e salutare, anzi vitale, perché una società non vive né tantomeno prosperacon le sole leggi del diritto e dell’economia, ma è tanto più felice e sicuraquanto più il valore della pietà, della solidarietà e dell’amore per il prossimosono radicati e dunque quanto più la società esercita e promuove questi valori.Ma la retorica del bene non deve mascherare troppi interessi personali, e la so-lidarietà non va fatta solo a spese dello Stato, bensì anche a spese di chi si mettela medaglia sul petto.

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Parte seconda

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8.

L’utilità delle regole (19 settembre 2014, convegno

“Controlli interni ed esterni all’attività d’impresa”)

Ritengo che il mio intervento debba essere di natura per quanto possibilepratica, e se possibile atto a stimolare il dibattito perché sento da molte im-prese insieme curiosità e disagio per i modelli 231. Vorrei dunque sgombrareil campo con voi dicendo subito che l’idea di fondo dei modelli di vigilanza chetalune società attuano in base alla legge sulla responsabilità penale delle per-sone giuridiche (la 231/01) è molto valida e le società che affrontano la normacon concretezza e serietà ne ricavano giovamento. Confindustria promuove trale sue associate l’adozione consapevole di questi modelli. La corruzione uccideil merito, fa prosperare le aziende inefficienti e fallire quelle capaci. Il dannoche provoca va ben al di là del guadagno del corrotto. Detto questo vorrei peròsoffermarmi su tre temi:

Noi imprenditori ci lamentiamo sempre delle regole, del loro eccesso e dellaloro burocrazia: abbiamo ragione o torto?

Qual è il segreto perché le regole funzionino?Perché la 231 è su una strada ambigua e cosa si potrebbe fare per migliorarla?Le regole paiono spesso come un intralcio a chi fa impresa ed è trasportato

dall’entusiasmo di un’idea o di una opportunità, così noi imprenditori met-tiamo ad esempio sotto accusa le regole delle banche che ci limitano l’accessoal credito, o le molte regole comunitarie che frenano il nostro ingegno. Natu-ralmente facciamo bene a discutere le regole, e finché abbiamo intelletto e li-bertà potremo migliorale e cambiarle, ma credo che oggi potremo riflettereanche su come le regole sono uno straordinario potenziatore delle nostre op-portunità: pongono confini, ma prima ampliano il campo di gioco. Per conti-nuare con l’esempio, senza regole sui marchi faremmo fatica a sviluppare inostri prodotti di moda o di design, senza regole sui contratti non potremmocollaborare con altre imprese, senza regole sul lavoro non riusciremmo a co-struire una squadra in azienda. E proprio le regole sulle banche, quelle che in-dividualmente ci limitano l’accesso al credito, hanno moltiplicato il credito,forse anche troppo.

In altre parole le regole sono utilissime per gli affari e per le relazioni so-ciali e culturali: sicuramente non tutte le regole che abbiamo sono perfette, mahanno espanso il nostro mondo in molte direzioni, e pur criticando quotidia-namente le singole regole dobbiamo avere chiaro che la legalità è nostra amicae ci fa vivere come imprenditori, ci dà la fiducia di poter dare il meglio di noi

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sapendo che i frutti di questo sforzo, sia esso intellettuale o materiale, non sa-ranno espropriati. Essa ci assicura che le regole entro cui ci muoviamo sonouguali per tutti. La legalità è un valore essenziale per la nostra società, e perl’impresa, e lo sentiamo ancora più fortemente nei tempi di crisi, in cui la ten-tazione di prendere scorciatoie diventa più forte, almeno per alcuni. Dunquepossiamo rispondere alla prima domanda con tranquillità: noi imprenditori ab-biamo torto a lamentarci delle regole, poiché ci aiutano molto più di quanto cifrenino.

Ma certamente vi sono regole buone e regole sciocche. Come distingueredunque? Se ascoltiamo il singolo imprenditore vorrà eliminare quasi ogni re-gola, salvo poi pentirsene e proclamare una delle invocazioni più sciocche delmondo: «Ci vorrebbe una legge…!». Come facciamo ad avere una euristica perstabilire come fare regole che funzionino?

Un pensatore aquilano del Settecento, Giacinto Dragonetti ha scritto chesono «tre i tipi di norme di cui le società, di ogni tempo e luogo, abbisognanoper la loro sostenibilità»: le norme legali, che si reggono sulle punizioni e lepene; le norme sociali, che sono il risultato di convenzioni e tradizioni più omeno antiche, e si reggono sul senso di vergogna che suscitano i comporta-menti non accettati; e infine le norme morali e religiose, la cui violazione fascattare negli individui il senso di colpa. Da ciò discende che se le leggi chevengono promulgate sono troppo contrarie alle norme sociali e morali preva-lenti nella società, o troppo esigenti e rarefatte, non solamente le leggi non sa-ranno rispettate perché non è certo possibile sanzionare tutti i loro violatori, maquel che è peggio esse andranno a minare le credibilità delle altre due catego-rie di norme, minacciando così la stabilità dell’ordine sociale stesso8.

Questo disallineamento tra norme, società e cultura è la situazione che invario grado si manifesta nel mondo in questo momento. Da noi, dove la societàaffronta sfide tecnologiche, economiche e culturali con una popolazione in-vecchiata e impoverita, in Oriente e altre aree emergenti, dove invece grandimasse escono dalla povertà, ma affrontano sfide ambientali e sociali cui la tra-dizione non le ha preparate, e credo anche nel mondo arabo, dove una cre-scente minoranza mal sopporta i vincoli di una società tradizionale, ma lamaggioranza è tutt’ora impreparata e ostile ai cambiamenti radicali.

Se ho in qualche modo tentato di rispondere alle due domande che ho sceltocome cornice al tema della 231 in azienda (e cioè: perché le regole servonoanche se danno un po’ fastidio, e come si fanno delle regole che abbiano sensoe siano interiorizzate dalle persone), devo ora focalizzarmi sull’esperienza del-l’adozione dei modelli organizzativi esimenti ai sensi della legge sulla re-sponsabilità penale delle persone giuridiche. Intanto penso che la legge partada una buona idea: se un’azienda ottiene un vantaggio con la corruzione e vienescoperta, in passato se la cavava dicendo che a corrompere era stato qualche

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8 G. DRAGONETTI, op. cit.

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dirigente cattivo, all’insaputa dell’azienda stessa. La comunità internazionaleprima, e il legislatore italiano dopo, hanno dunque voluto che anche l’aziendafosse perseguibile penalmente, a meno che non dimostrasse di essersi orga-nizzata bene per evitare atti corruttivi.

Dal primo nucleo di reati connessi alla corruzione il legislatore italiano hapoi esteso la materia a una quantità di altri reati che vanno dai reati informa-tici alla tratta di esseri umani, passando per ambiente, sicurezza, market abusee mobbing. Insomma la norma è diventata per i giudici il grimaldello penaleche una volta era costituito dal reato di “falso in bilancio”, e per i consulenti diogni ordine e grado è una ricca opportunità di vendere a caro prezzo volumi fo-tocopia, assai spessi, che quasi nessuno in azienda legge e che sono dall’inizio,o diventano nel tempo, scollegati dai processi produttivi e amministrativi.

In pochi anni la legge 231, che offre alle aziende, anche piccole, un’op-portunità di migliorare la propria organizzazione, definire le mansioni, offrireun ascolto alle vittime di abusi veri o presunti, ha generato un costoso e allevolte paralizzante apparato burocratico, che peraltro si sta rivelando anche inu-tile. Infatti sono sempre più le occasioni in cui i giudici in presenza di com-portamenti sospetti di un dirigente bloccano l’intera azienda, anche se vi è unmodello organizzativo ed un organo di vigilanza funzionante, e l’uso dello stru-mento della responsabilità penale dell’impresa è sempre più diffuso nei tribu-nali, con pene che per le aziende possono essere distruttive. A Ravennaabbiamo visto il caso di un’impresa che opera in tutto il mondo per la quale ungiudice ha chiesto la sospensione di decine di cantieri a seguito del sempliceavvìo di una indagine di uso di fondi pubblici non conforme alla destinazione,ma ognuno conosce molti casi simili ed è inutile dilungarsi. Inoltre alcunegrandi aziende hanno sviluppato enormi e paralizzanti burocrazie dedicate alla231, purtroppo spesso composte da persone rimosse da altre carriere, e desi-derose di rivalsa.

Pur senza esplicito appiglio nella legge e insieme ai molti consulenti chesono sorti, tali strutture hanno sempre più sottolineato la necessità che l’or-gano di controllo eserciti un potere astrattamente indipendente e scollegato dalresto dell’azienda, escludendo perfino il collegio sindacale da questo ruolo,mentre per molte aziende esso sarebbe l’organo più adatto e l’ABI lo racco-manda per tutte le banche. Questo processo si propaga a cascata tra tutti i for-nitori medi e piccoli e influenza le posizioni di giudici, associazioni, consulentie giurisprudenza, con grande soddisfazione teorica ed economica di chi si spe-cializza nella “professione 231”, ma sempre più disagio e sospetto delle medieaziende.

Benché dunque le associazioni industriali come quella che presiedo a Ra-venna incitino i propri associati che ancora non lo hanno fatto a dotarsi di unmodello, mi chiedo se questo strumento non sia oggi su una strada ambigua.Non sono io che posso offrire soluzioni, ma a me pare che i codici etici do-vrebbero sì basarsi su modelli generali, ma poi dovrebbero essere scritti in

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azienda da chi ci lavora. La mappatura dei rischi di realizzazione di reati do-vrebbe essere fatta in fabbrica con le persone che coprono i singoli settori. Leprocedure e le mansioni che tutelano l’azienda dai rischi dovrebbero essere in-tegrate nei modelli organizzativi concreti che l’organizzazione adotta. Questoè difficile da ottenere affidandosi a consulenti esterni. Bisogna fare fatica, pen-sare a quel che si scrive. Seguire la massima «dico quel che faccio e faccioquel che dico», e produrre modelli dove regole, cultura aziendale e moralesiano in sintonia, come avrebbe detto Dragonetti.

Mi pare dunque in conclusione che le regole siano preziose e fondamentaliper la libertà e l’impresa, che debbano essere in sintonia con qualcosa di piùprofondo, e che uno strumento assai potente per le aziende per fortificare la cul-tura delle regole, e cioè i modelli 231, stia deludendo le sue promesse perchési è ormai troppo distaccato dalla cultura aziendale che dovrebbe rinforzare. Diciò hanno colpa in egual misura le aziende che per pigrizia e ignoranza nonfanno il lavoro di raccordo tra modello e realtà, i giudici che interpretano inmodo sempre più formalistico e dogmatico la regola, e i giuristi e i consulentiche quanto più rendono la materia esoterica, tanto più fatturano.

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9.

Non incartiamoci da soli (27 ottobre 2014, lettera al Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi

e al Direttore Marcella Panucci)

Come ricorderete, a Ravenna seguiamo con una certa attenzione il temadella 231 in merito alla quale Vi scrivo. Abbiamo fatto vari approfondimenti econfronti con gli associati che sono sempre più scoraggiati, e con magistraturae professionisti, che mi sembrano ben intenzionati, ma distaccati dalla realtà.A seguito di queste esperienze ed a seguito della mia partecipazione all’inte-ressante giornata del 1° ottobre in cui avete presentato le nostre nuove lineeguida per i modelli organizzativi 231, mi sono permesso di raccogliere varie ri-flessioni e espressioni di sconforto dei nostri imprenditori, che riporto di se-guito. Il linguaggio di questa nota non è da giurista, e vi saranno certo ingenuitàe imprecisioni, ma Vi prego di dare un qualche peso al disagio che esprime.

La Legge 231/01 è stata una grande opportunità non solo di rafforzare lacultura della legalità nelle aziende, ma anche di modernizzare l’organizzazioneaziendale riflettendo su deleghe, responsabilità e procedure. Per questi motivicome Confindustria Ravenna abbiamo raccomandato ai nostri associati di adot-tare modelli organizzativi e offerto percorsi per assisterli. L’esperienza di que-sti anni è triste: poche aziende si convincono dell’opportunità del percorso eimmediatamente se ne pentono mettendo in guardia i colleghi poiché ne con-statano ogni giorno l’inutilità (i giudici non riconoscono mai l’esimente), lanatura interessata del comportamento dei professionisti che hanno trovato unfilone di lavoro (una “greppia” come mi dicono alcuni imprenditori), la illogi-cità della esasperazione del concetto di indipendenza dell’Organo di Vigilanza(OdV) che genera organi incompetenti e duplica funzioni aziendali con esitigrotteschi, la incomprensione della natura statistica dei processi di mitigazionedel rischio da parte dei giuristi.

L’inutilità della esimente del modello non solo è dimostrata dal fatto che innessun caso pratico i giudici l’hanno finora riconosciuta, ma anche dal fatto chein genere i giudici non analizzano a fondo il modello limitandosi al massimoa mettere in discussione l’indipendenza dell’OdV o di taluni suoi componenti,o ad argomentare che la realizzazione dell’illecito di per sé dimostra l’ineffi-cacia del modello, sovvertendo l’indicazione della legge che prevede l’esi-mente del modello proprio per il caso di realizzazione di illecito.

La natura interessata del comportamento dei professionisti emerge dallaproliferazione di pubblicazioni che raccomandano la presenza negli OdV diavvocati od esperti iscritti a albi (di cui si invoca la pronta costituzione). Si

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leggono rituali rimproveri al Legislatore (quello sbadato!) che non ha ben spe-cificato come si faccia un OdV, non soppesando mai l’ipotesi che sia merito-rio aver lasciato alle aziende la libertà di meditare quale strumento sia ottimaleper la propria specificità. Notiamo la creazione presso grandi società di buro-crazie interne specializzate in OdV e spesso ansiose di far sentire il loro potereanche a fornitori e partecipate. Leggiamo con disappunto dell’ostilità di studiosie associazioni di professionisti verso organi composti da persone con compe-tenze specifiche e interni alla struttura, benché dotati di sufficiente autonomia,e del colossale sforzo intellettuale volto a dimostrare in convegni, sentenze eletteratura la necessità di fidarsi solo di “professionisti della 231”, che alleaziende paiono molte volte professionisti del proprio interesse e incompetentidi azienda.

Sull’indipendenza dell’OdV ci pare sia in corso una forzatura con conse-guenze nefaste: la legge infatti prevede esplicitamente che l’OdV sia interno al-l’ente, e non ne richiede l’indipendenza, bensì l’autonomia decisionale(“autonomi poteri di iniziativa e di controllo”), cioè quel potere di cui godonoi dirigenti, prevedendo che nelle aziende di minori dimensioni (la stragrandemaggioranza delle aziende italiane) la funzione possa essere esercitata dal capoazienda (art 6.4), cioè da una figura che coincide coi vertici o dipende dai ver-tici, per cui l’accanimento contro la coincidenza tra controllante e controllatoappare privo di basi logiche e giuridiche.

La legge non fa dell’OdV un organo di polizia, che impedisca all’aziendadi delinquere se i vertici ne hanno la volontà. È piuttosto uno degli strumentiche i vertici danno all’azienda per prevenire violazioni. Perciò l’OdV deve es-sere percepito da chi lavora in azienda come una risorsa competente e com-prensibile, alleata nell’evidenziare e risolvere eventuali devianze dalla norma.Sentiamo invece teorizzare che l’OdV debba essere fatto da avvocati, com-mercialisti, ex giudici ed esperti di sicurezza così indipendenti dall’azienda danon conoscerla affatto, e da aver bisogno di ulteriori consulenti per sapere comeandrebbe gestita. Così facendo rischiamo (o abbiamo la certezza) di creare unorgano che riproduce varie funzioni aziendali (amministrazione, legale e com-pliance, RSPP, ecc.), ma che è totalmente irresponsabile per i risultati e i costidelle proprie scelte e fortemente motivato a bloccare ogni assunzione di ri-schio. Abbiamo poi casi dove OdV e Collegio Sindacale, a causa della cospi-cua sovrapposizione di competenze e della reciproca autonomia, hanno presoposizioni incompatibili sul medesimo argomento evidenziando definitivamenteall’imprenditore la fatale illogicità di dover coltivare in seno all’azienda or-gani che sono motivati a distinguersi dall’azienda e non ad aiutarla nel tenerela barra diritta.

Il rischio è un elemento ineludibile delle nostre vite, ed il rischio di impresaè proprio ciò che la teoria economica indica come l’ingrediente che determinae legittima il profitto. Non c’è impresa senza assunzione di rischi. Ma soprat-tutto non c’è vita senza rischi, l’unico stato privo di rischi è infatti quello della

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morte. Ognuno di noi assume in ogni momento rischi calcolati: attraversandola strada, facendo o non facendo sport, nell’alimentazione, in ogni campo as-sumiamo continuamente rischi stimando la loro grandezza e probabilità, e de-cidendo se il loro verificarsi è accettabile per noi. Il processo operativo delleaziende è per necessità del tutto simile, e quelle più evolute analizzano i rischi,e valutano il costo delle possibili mitigazioni e le procedure che li riducono. Leuniche aziende che possono eliminare ogni rischio sono quelle chiuse. Eppurenei discorsi di giudici e giuristi manca la comprensione della natura statisticadel rischio fino a immaginare che la sua mera esistenza sia una colpa del-l’azienda che non lo ha eliminato, forse perché dalle facoltà di legge sono statipurtroppo eliminati gli studi statistici, una volta obbligatori. Anche nelle nostrelinee guida, che meritoriamente dedicano una sezione all’analisi del rischio,non diciamo con abbastanza chiarezza che i rischi si possono analizzare e ri-durre, ma che è illusorio eliminarli completamente.

Infine una parola sulla struttura dei modelli, ormai consolidata in: codiceetico, mappatura dei rischi e procedure. Essi sono in genere raccolti in un cor-poso volume, di difficile lettura e comprensione per la maggioranza degli ope-rai, impiegati e quadri che lavorano in azienda e che dovrebbero invece attuarliquotidianamente, per la parte di loro competenza. Il rigore astratto dell’inter-pretazione della norma che è alla base dei modelli che usiamo finisce per in-cartare le aziende oneste e interessate a questo percorso, favorendo in qualchemodo quelle meno sensibili al tema della legalità. Forse non è possibile renderepiù snello questo approccio, ma non vogliamo perdere di vista il principio cheun modello dovrebbe essere una sintesi. Un modello è uno strumento che serveda guida nell’interpretare la complessità della realtà, ma non pretende di esau-rirla. Einstein espresse il suo modello della relatività ristretta con la breve for-mula: e = mc2. La Bibbia da oltre tremila anni condensa un progetto etico esociale in dieci comandamenti. Noi, che invochiamo sintesi e semplificazioniin molti campi, abbiamo in azienda modelli comportamentali di centinaia di pa-gine che non ispirano i comportamenti di quasi nessuno.

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1. La classe vincitrice del premio Guidarello Giovani 2011

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2. Premio Guidarello 2011. Da sinistra, Riccardo Muti, Maria Cristina Mazza-villani Muti, Guido Ottolenghi ed Emilio Ottolenghi

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3. La platea del premio Guidarello 2011

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4. La consegna del progetto preliminare sull’approfondimento dei fondali al pre-sidente dell’Autorità Portuale, Galliano Di Marco (2012)

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5. Con l’economista americano, Tyler Cowen (2012)

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6. Assemblea 2012, con il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e il mi-nistro dello Sviluppo economico Corrado Passera

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7. Da sinistra, il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, il giornalista SergioRizzo, il sindaco di Faenza Giovanni Malpezzi, Guido Ottolenghi e il sindaco diLugo Raffaele Cortesi (2012)

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8. Premio Guidarello 2012, la consegna del riconoscimento ad honorem al mi-nistro della Giustizia, Paola Severino

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9. Con il procuratore della Repubblica della Procura di Ravenna, Roberto Me-scolini (2013)

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10. All’ISIA – istituto superiore per le industrie artistiche di Faenza (2013)

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11. In visita alla casa circondariale di Ravenna, con la direttrice Carmela De Lo-renzo (2013)

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12. Con Steno Marcegaglia, in visita allo stabilimento di Ravenna (2013)

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13. Il comitato di presidenza all’assemblea 2013, con Giorgio Squinzi

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14. Ottobre 2013, il consiglio direttivo di Confindustria Emilia-Romagna visitail porto di Ravenna

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15. Premo Guidarello 2013, la consegna del riconoscimento ad honorem al giu-dice della Corte costituzionale Sabino Cassese

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16. Guidarello 2013. Da sinistra, i premiati Piero Angela, Domenico Quirico,Paolo Rumiz e Mario Arpino

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17. Gli auguri per le festivita 2013

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18. Gennaio 2014, i presidenti e i direttori di Confindustria Ferrara, Forlì-Cesena,Ravenna e Rimini avviano le prime riflessioni sulla creazione di ConfindustriaRomagna

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19. Febbraio 2014, la platea dell’evento di Ravenna2030 ‘comunicare bene percrescere’

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20. Maggio 2014, il comitato di presidenza in visita all’azienda Marini

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21. Settembre 2014, il riconoscimento alle aziende associate protagoniste del re-cupero del relitto Costa Concordia

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22. Con Ning Wang e Alberto Mingardi al convegno di Ravenna2030 nel set-tembre 2014

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23. Ottobre 2014, visita al Museo delle erbe palustri

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24. L’assemblea che ha votato all’unanimita la nascita di Confindustria Romagna(2014)

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25. I presidenti di Confindustria Emilia-Romagna, Ravenna, Rimini e Forli Ce-sena con la vicepresidente di Confindustria, Antonella Mansi (2014)

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26. I premiati del Guidarello 2014

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27. Gennaio 2015, il comitato di presidenza dell’Associazione in visita al-l’azienda Oremplast

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28. La mostra fotografica allestita a Ravenna per i 70 anni dell’Associazione(2015)

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29. Open day allo stabilimento Marcegaglia, in occasione del Festival dell’In-dustria e dei Valori d’Impresa (2015)

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30. Festival dell’Industria e dei Valori d’Impresa, open day allo stabilimentoAlma Petroli (2015)

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31. Assemblea 2015, con i soci fondatori per i 70 anni dell’Associazione

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32. Con i premiati del Guidarello 2015

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10.

La scelta più importante (25 novembre 2014, premio Guidarello Giovani)

Questa edizione si inserisce in un periodo particolarmente complicato, in cuiil protrarsi delle instabilità ha fatto montare sempre più la frustrazione e la rab-bia. Queste incertezze, il disagio di cui leggiamo e che vediamo ogni giornoriassunto in immagini drammatiche, e la difficoltà della classe dirigente a tro-vare una risposta adeguata all’emergenza – che riguarda anche e soprattutto lavostra generazione – sono le sfide che abbiamo davanti e che voi affronteretea breve. Possono sembrare problemi quasi impossibili da affrontare singolar-mente, e nessuno ha la bacchetta magica per risolvere le cose. Le occasioniper fare sciocchezze aumenteranno enormemente nei prossimi anni: cercate difare il possibile per non farne troppe! Avete in mano una carta decisiva perquesto: la scelta di cosa fare del vostro futuro, di una eventuale iscrizione al-l’università o della ricerca di un lavoro. Qualunque sia la vostra decisionequando vi alzerete dai banchi delle superiori, fatela con la vostra testa. Inve-stite su voi stessi. Scegliete quello che pensate sia meglio, quello che credetevi valorizzi di più. Come fate a scoprirlo? Studiando. So che a volte studiarepuò sembrare noioso, probabilmente ogni giorno dovete preparavi su materieche non vi piacciono o che non sentite nelle vostre corde. Ma è così che sco-prirete anche ciò che vi appassiona, che vi incuriosisce di più, ciò che vale lapena approfondire, per cui vale la pena anche cambiare, allontanarsi dagli agidi casa, mettersi in gioco e rischiare – in fondo il rischio è una componenteimportante della nostra quotidianità, è uno dei principali segni di vitalità. Do-potutto, anche quello che avete fatto per essere qui oggi è un lavoro di appro-fondimento delle realtà aziendali del nostro territorio, una scoperta di comefunziona un’azienda, della sua complessità e degli stimoli che offre. E cosìanche la politica, l’economia, l’attualità, le controversie, i problemi al lavoroo a scuola, si capiscono e si riescono ad affrontare attraverso un’opera di one-sto approfondimento. Informatevi e abituatevi a fare delle domande a voi stessi,e poi a farle agli altri – professori, genitori, amici. Confrontatevi, poi fatevi lavostra idea, lasciandovi guidare dal buon senso e dalla vostra testa, cercandodi non farvi condizionare. Riflettete su quali sono i vostri valori, quelli che ren-dono la vita interessante e il rapporto con gli altri giusto e fruttuoso. Sono quelliche vi aiuteranno nelle scelte e vi daranno sicurezza e punti di riferimento.

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11.

I dieci comandamenti (30 novembre 2014, premio Guidarello9)

Il premio Guidarello per il Giornalismo d’Autore giunge alla sua 43a edi-zione in un mondo che ci inquieta sempre di più. La lunga crisi economica co-mincia a erodere la pazienza della gente e la pace sociale scricchiola. In Paesinon lontani da noi sistemi di convivenza consolidati, ma esausti, si sgretolanolasciando posto a violenza, brutalità e terrore. In quei Paesi ciò avviene in nomedella religione, come in altri tempi e luoghi lo stesso è avvenuto in nome dellanazione o della lotta di classe. Quel che è certo è che quando il patto sociale siaffievolisce per crisi economica o politica la gente smarrisce i valori che la ten-gono insieme. Quando la società si disgrega, la violenza e l’ideologia preval-gono sull’umanità e fanno emergere tagliagole, frustrati, criminali e personesenza scrupoli, che rapidamente si impossessano dei gangli vitali della convi-venza e del monopolio della forza. Per chi si trova imprigionato in eventi delgenere, come in questi mesi le popolazioni soggette al dilagare del cosiddettoStato Islamico in Siria e Iraq, il destino è terribile, e la speranza di ricostituireuna società civile senza aiuti esterni è assai modesta.

La cultura è la risorsa che tiene a bada queste forze. Essa fornisce a personediverse un terreno comune su cui costruire il futuro, e attraverso i valori orientai nostri sforzi individuali a un risultato collettivo. La cultura è la scienza dellaconvivenza e dello sviluppo delle idee. E dunque vi chiederei di aderire ad unprogetto culturale. Non costa soldi e va avanti da molto tempo. Altri già se neoccupano, anzi è così conosciuto che tra pochi giorni ce ne parlerà anche laRAI. Si chiama: “i dieci comandamenti”, e Roberto Benigni ci proporrà di ap-profondirli, nella loro versione biblica. Conoscerli sarà un viaggio alle radicidella nostra cultura, perché essi propongono un progetto sociale e culturale ri-voluzionario, che si afferma pazientemente da oltre tremila anni. Ascoltateli erifateli vostri, perché è forse il più ampio, ambizioso ed efficace progetto cul-turale della storia ed è contenuto in dieci semplici frasi. Il decalogo fu pro-mulgato in un mondo di faraoni e tiranni, arbitrio e violenza, piramidi e miseria.

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9 Premiati Leonardo Gallitelli (ad honorem), Sergio Zavoli (premio alla carriera), MonicaMaggioni (sezione nazionale/radiotv), Guido Olimpio (sezione nazionale/società), Enrico Gatta(sezione Romagna/cultura), Giampiero Corelli e Silvia Manzani (sezione Romagna/sezionesocietà), Rita Asirelli e Fabio Venturi (sezione Romagna/audiovisivi), Donatella Bianchi (sezioneturismo).

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Un mondo dove ogni uomo aveva il suo posto (da schiavo, da soldato, da sa-cerdote), immutabile per sé e per i suoi figli. Un mondo dove la legge era di-versa a seconda del ceto, dove un sacerdote poteva uccidere uno schiavo, oimpossessarsi dei suoi beni e dei suoi affetti. Dove i capi si proclamavano di-vinità e si glorificavano con statue e monumenti. In opposizione a quel mondola prima parte del decalogo ci dice che nessun capo è divino, che Dio libera glischiavi, che è sbagliato circondarsi di immagini o sculture, che la legge è ugualeper tutti, e che gli unici a cui si deve particolare onore sono i genitori. Non per-ché siano infallibili, ma perché è su quello che hanno costruito loro, successied errori insieme, che noi fondiamo il nostro futuro. Questa visione della vitaè rivoluzionaria rispetto a quanto esisteva prima, ma lo è anche rispetto ai no-stri istinti. Essa contrappone un mondo dove ognuno ha il suo posto, dove loschiavo non ha speranza di diventare libero, e il potente non teme concorrenza,ad un mondo dove ciascuno può costruirsi il suo spazio, dove chi è dotato diabilità e fortuna può migliorare il suo destino, e chi è pigro o incapace può ca-dere. Questo mondo è più giusto, ma è più pauroso e più instabile. Ed è soloin questo mondo che serve la seconda parte del decalogo: infatti lo schiavonon invidia il faraone, e non osa nemmeno sognare di prenderne il posto. In-vece in un mondo in cui la legge è uguale per tutti e i capi sono al serviziodella gente, la convivenza sociale ha bisogno di regole che permettano a cia-scuno di trovare il suo posto senza prevaricazioni. Perciò sono necessari glialtri comandamenti, quelli che dicono con stretta concatenazione logica chenon si invidia, non si fa maldicenza, non si sconvolgono gli affetti, non si rubae non si uccide.

Un mondo dove ciascuno ha il suo posto è sempre in contrapposizione aduno dove ciascuno può costruirsi il suo futuro: è la società aperta contro quellachiusa, la modernità contro l’ancien régime, le incertezze della libertà controle deludenti certezze della tirannide. I dieci comandamenti ci invitano a staredalla parte della libertà e dell’incertezza. A questi e altri valori fondanti dellanostra civiltà dobbiamo rivolgerci quando i tempi si fanno inquieti come ora.Credo che dovremmo investire per promuovere e discutere i valori su cui fon-diamo la nostra convivenza, e sostenere chi li promuove, perché la cultura èanche uno strumento politico, meno costoso e più efficace di molti altri, e poiperché una società che conosce e apprezza i suoi valori è forte e non cade nel-l’integralismo. Questa idea che si possa rispondere alla difficoltà dei tempianche con la riscoperta e con la difesa dei valori migliori, e che la cultura siauno degli ingredienti che ci aiutano a riconoscere nell’altro la nostra imma-gine, e a smascherare gli estremismi, potrà forse essere di stimolo ai premiatidi questa sera.

Infine vorrei soffermarmi sul Guidarello ad honorem, che in questi anni ab-biamo voluto dedicare al tema della legalità, declinata nei suoi vari aspetti.Quest’anno premiamo il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri,Gen. Leonardo Gallitelli, onorando la sua carriera di servitore dello Stato, e al

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Parte seconda

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contempo confermiamo la nostra vicinanze a tutte le forze dell’ordine nel bi-centenario dell’Arma dei Carabinieri. È infatti elemento essenziale della lega-lità la fiducia nella forza legittima, poiché come insegnò Hobbes nel Leviatano,le regole della convivenza, senza la forza della spada, non sono che parole, in-capaci di dare sicurezza alle persone10.

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Cultura e legalità

10 T. HOBBES, Il Leviatano, parte seconda, «Of Commonwealth, Chapter XVII, Of theCauses, Generation, and Definition of a Commonwealth»: For the laws of nature, as justice,equity, modesty, mercy, and, in sum, doing to others as we would be done to, of themselves,without the terror of some power to cause them to be observed, are contrary to our naturalpassions, that carry us to partiality, pride, revenge, and the like. And covenants, without thesword, are but words and of no strength to secure a man at all. Therefore, notwithstanding thelaws of nature (which every one hath then kept, when he has the will to keep them, when he cando it safely), if there be no power erected, or not great enough for our security, every man willand may lawfully rely on his own strength and art for caution against all other men. And in allplaces, where men have lived by small families, to rob and spoil one another has been a trade,and so far from being reputed against the law of nature that the greater spoils they gained, thegreater was their honour; and men observed no other laws therein but the laws of honour; thatis, to abstain from cruelty, leaving to men their lives and instruments of husbandry. And as smallfamilies did then; so now do cities and kingdoms, which are but greater families (for their ownsecurity), enlarge their dominions upon all pretences of danger, and fear of invasion, or assistancethat may be given to invaders…

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Cooperazione e legalità (27 febbraio 2015, convegno Filt CGIL)

Vorrei prima di tutto ricordare che da tempo la nostra associazione promuovela cultura della legalità, insieme al tema della giustizia e della sua amministra-zione, con iniziative e riconoscimenti. Quando parliamo di legalità, non pensiamosolo al rispetto delle leggi, ma anche al tema di isolare l’illegalità sul nascere.Chiediamo anche un costante impegno civico per far sì che il mondo in cui vi-viamo avanzi e non arretri. Non pensiamo che se le cose vanno male sia respon-sabilità di qualcun altro metterle a posto: da soli non possiamo certo cambiare ilmondo, ma senza di noi il mondo non cambia. Se non ci mettiamo in gioco quandovediamo qualcosa che non va, se non ci esponiamo almeno qualche volta, quel checi sembra quieto vivere un giorno scopriremo che è diventato omertà.

Sul tema della legalità Confindustria, a livello nazionale, ha siglato quattroanni fa con il ministero dell’Interno un protocollo che prevede numerose inizia-tive, tra cui quella di inserire in appositi elenchi (vendors’ list) i partner commer-ciali selezionati sulla base di criteri di trasparenza e di affidabilità, acquisire ladocumentazione antimafia anche nei rapporti tra privati, tracciare i flussi finanziari,prevedere clausole risolutive nei contratti e denunciare eventuali fenomeni cri-minali subiti. È stata istituita in Confindustria una Commissione paritetica per lalegalità, che ha il compito proprio di monitorarne l’attuazione e di elaborare pro-poste e soluzioni per consentire una piena ed efficace realizzazione di questi obiet-tivi. A livello locale Confindustria Ravenna ha recentemente adottato il modelloorganizzativo 231, in coerenza con quanto proposto alle aziende e nel solco diquell’attenzione al principio di legalità su cui l’Associazione si impegna da tempoa livello istituzionale. Perché questa attenzione? Perché, come ricordato in più oc-casioni, la legalità ci dà la fiducia di poter dare il meglio, consapevoli che i fruttidi questo sforzo – sia esso intellettuale o materiale – non saranno espropriati. Ciassicura che le regole entro cui ci muoviamo sono uguali per tutti: è un valore es-senziale per la nostra società, e lo è ancora di più in momenti di crisi, in cui la ten-tazione di prendere scorciatoie può diventare per alcuni più forte.

L’altro punto del dibattito di questa mattina è il settore della logistica, in cui lamia azienda opera, e che sta vivendo un momento di grandi cambiamenti e ten-sioni anche sul territorio. Per capire dove affondano le radici di questo dibattito,può essere utile guardare alla storia del movimento cooperativo, visto che viviamoe lavoriamo in uno dei contesti italiani a maggior vocazione cooperativistica so-prattutto nel settore dei servizi.

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Il movimento cooperativo ha origini da intenti nobili, e per altrettanto nobilimotivi si è sviluppato ed è cresciuto – soprattutto nel nostro territorio – acqui-sendo significatività anche sul piano giuslavoristico e fiscale. Nata nel giugno1950, la Lega Provinciale delle Cooperative e Mutue di Ravenna (oggi Legacoop)ha accompagnato e determinato, la crescita e le trasformazioni del movimentocooperativo provinciale, passato da movimento di massa ancora strettamente le-gato al mondo agricolo-bracciantile a moderno e diversificato sistema di imprese.Un lento processo evolutivo, in cui la Lega Provinciale stessa ha progressiva-mente mutato fisionomia, da organismo di rappresentanza politico-sindacale astrumento d’indirizzo e di orientamento imprenditoriale. Questi cambiamenti sonoanche correlati alle trasformazioni che hanno investito l’economia e la società ra-vennate negli ultimi 60 anni: la perdita di importanza delle campagne prima edelle manifatture poi, a beneficio delle varie sfaccettature del terziario, ha condi-zionato il posizionamento sul mercato del movimento cooperativo.

Molti autorevoli studiosi hanno osservato come la cooperazione soffra di una“proprietà debole” e viva divisa tra la volontà di essere impresa e confrontarsi sulmercato, e la rivendicazione di una natura diversa. Col tempo, parallelamente aquesta dicotomia si sono fatti via via più blandi i controlli per stabilire quel con-fine del concetto di mutualità che definisce cosa sia effettivamente cooperativo ecosa no. E così, oggi quello che è nato come uno strumento a fini solidali, ha as-sunto una connotazione via via più imprenditoriale, pur mantenendo i vantaggigiuslavoristici e fiscali riservati a suo tempo dal legislatore alla cooperazione. Taledicotomia ha reso molto attraente l’uso dello strumento cooperativo, almeno nelleattività ad alta intensità di manodopera. Io ricordo che nella logistica integrata(quella degli interporti, ad esempio) le aziende private 25 anni fa usavano i pa-droncini per il trasporto ed avevano dipendenti per l’attività di magazzino. Ora ètutto gestito da cooperative.

Ciò è legittimo e la cooperazione non è una riserva di un settore di attività e diun gruppo ideologico. I presidi legislativi esistono e vanno fatti applicare nei casi(e mi è ben chiaro che ve ne sono) in cui lo strumento viene abusato. Ma poichénon mi avete invitato per sentirvi dire quel che già pensate, vorrei suggerire quelche dico ai mei colleghi imprenditori nella nostra associazione: tutelare le ragionidella categoria è più importante che tutelarne gli interessi, perché è infine un modopiù profondo di tutelare gli interessi duraturi, anche se scalda meno gli animi ed icuori. Provo ad esprimere questo concetto con un esempio portuale: il più grandeoperatore del mondo di terminal per prodotti liquidi (il mio mestiere), si chiamaVopak. È quotato alla borsa di Amsterdam e vale oltre sei miliardi di euro, pos-siede oltre 70 terminal in tutto il mondo. Il suo logo è un cappello rosso stilizzato:esso era nel Seicento il simbolo dei portuali di Amsterdam, che forse tutelaronole loro particolarità e privilegi, ma mai mettendo a rischio lo sviluppo del loroporto, e che colsero le dinamiche delle evoluzioni dei mercati investendo e non fa-cendo barricate. All’altro estremo dello spettro ci sono forse i portuali di Marsi-glia, ormai noti in tutto il mondo occidentale per la loro disponibilità a usare con

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Parte seconda

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pesantezza il loro potere di interdizione ogni volta che percepiscono che un loroprivilegio viene sfiorato. Il nostro porto è un luogo di eccellenza, ed ha una storiadi armonia tra i diversi soggetti che vi operano, ma non è così dovunque. Nellungo periodo è evidente che dove si è lottato per i soli privilegi vi è stata deca-denza. Dove invece gli operatori hanno intuito l’evoluzione dei mercati, bilan-ciandola correttamente con le ragioni della categoria, hanno prosperato.

Dunque a mio avviso se oggi percepiamo che lo strumento cooperativo vengalargamente utilizzato surrettiziamente, o addirittura come luogo di infiltrazionedi attività criminali come suggerisce la locandina del convegno, ritengo che sia no-stro dovere vigilare attivamente, coordinando gli onesti sforzi di imprese capita-liste e cooperative, lavoratori e istituzioni per arginare questo fenomeno. Ma alcontempo il mio appello è di fare attenzione a non invocare la legalità per arginarela concorrenza, poiché così si avvilisce il concetto di legalità e si tradiscono le ra-gioni di lungo periodo della categoria. In questo filone di pensiero mi permetto,forse nel luogo e nel momento più sbagliato, di ricordare la figura di Luigi Sturzo.Prete siciliano, attivista politico, organizzatore di cooperative di braccianti e ope-rai, e di casse rurali in Sicilia alla fine del 1800, fu poi tra i fondatori del partitopopolare italiano nel 1919 (appello agli uomini liberi e forti), di cui fu segretariofino al 1923 quando per la sua opposizione al fascismo fu convinto dal Vaticanoa dimettersi. Dovette poi andare in esilio nel 1924, per le minacce alla sua vita deifascisti in seguito alle sue posizioni dopo l’omicidio di Matteotti. Tornato in Ita-lia dopo la guerra, Sturzo fu un pensatore critico e si oppose ad un eccesso di sta-talismo e a un dilagare della spesa pubblica che a suo avviso avrebbe consolidatomalcostume e corruzione e nel lungo periodo creato un debito insostenibile. Trale osservazioni che faceva a quell’epoca, lui fondatore di cooperative in epochein cui vi erano ben poche tutele legislative e molti rischi, vi era quella che forselo strumento cooperativo aveva esaurito la sua missione. A mio avviso su questoSturzo sbagliò, ma ciò anche perché le cooperative, proprio negli anni Cinquantae Sessanta, seppero cogliere i cambiamenti dei tempi e adeguarsi, e svolsero cosìun nuovo ruolo sociale negli anni dello sviluppo. Tuttavia porsi quella domandaallora e riporsela adesso è uno stimolo da non rifiutare. Oggi lo strumento coo-perativo viene usato per banche, industrie pesanti, assicurazioni, grande distribu-zione, trasporti, costruzioni, e continua ad avere alcuni privilegi fiscali e soprattuttouna flessibilità nel mercato del lavoro che è stata sempre negata alle imprese tra-dizionali. Se questo vantaggio non viene governato con saggezza anche da voi,esso potrà essere difeso con le barricate, ma cadrà prima o poi. Dunque nel pen-sare al tema della legalità nel dibattito odierno, dopo avere sottoscritto appieno lacentralità della legge, vi invito a riflettere se non vi sono opportunità di maggiorelegalità anche in un meditato ripensamento e in una ulteriore evoluzione dellostesso strumento della cooperazione.

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Cultura e legalità

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Riforme fiscali (8 maggio 2015, convegno «Quid agendum»)

L’importanza del convegno di studi di oggi è evidenziata già nel titolo, chepone il quesito “cosa dobbiamo fare” e, quindi, se esiste la possibilità di at-tuare riforme fiscali in anni di emergenza economica. Si tratterebbe di riformeimportanti per la convivenza civile e l’operosità di cittadini e aziende, riformeche peraltro non avrebbero un elevato costo di attuazione e che devono averecome faro la semplicità e la stabilità.

La semplicità rende onesto il rapporto tra cittadini e fisco, lascia meno spa-zio all’evasione e al cavillo, rinforza una applicazione sostanziale delle normee dà maggiore importanza a strumenti come l’interpello. La stabilità consentea famiglie e imprese di fare scelte anche di lungo periodo fidando su quale saràla componente fiscale della loro scelta. A tal fine pensiamo che sarebbe inte-ressante valutare la fattibilità di norme fiscali che introducano un costo per illegislatore in caso di modifica prima di un certo termine. Sarebbe inoltre me-ritevole che le nuove norme fiscali fossero accompagnate da una relazione sulpresunto costo di attuazione per i contribuenti.

Tra i tanti casi che esemplificano il disagio dei contribuenti, mi pare meri-tevole riflettere su un paio di norme recenti. Una fu la norma tesa a favorire lacapitalizzazione delle imprese, e scoraggiare l’eccessivo indebitamento, e cioèla combinazione tra DIT e IRAP, che non ebbe mai il tempo di dispiegare isuoi effetti, e che oggi si tenta di recuperare con l’introduzione dell’ACE, chesperiamo abbia vita più lunga. Un’altra è una recentissima applicazione delmeccanismo del reverse charge alle materie edili, che è stata concepita in mododa creare la massima confusione, e che con una incerta definizione di edificiorende impossibile alle imprese sapere se devono fatturare con IVA o senza IVA.La norma è così confusa e avvilente che allo stato delle interpretazioni par-rebbe che un elettricista che ripara il campanello di un cancello su strada debbafatturare con IVA, mentre se ripara quello del portone di casa debba fatturaresenza IVA (immagino allegando la foto del campanello).

Le aziende e le persone possono elencare innumerevoli esempi di questo ge-nere, e grandi speranze aveva destato l’apparizione dello Statuto del Contri-buente che mirava a stabilire un più rispettoso rapporto tra lo Stato e i suoicittadini e che ha stabilito principi di grande importanza e attualità. Tuttaviaquel meritevole sforzo, che ha dato dei frutti importanti, è stato però spessodisatteso da norme fiscali emanate in sua deroga. Se dunque dobbiamo ap-

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prezzare il rapporto più corretto che è andato creandosi in questi anni con gliuffici della Stato, dobbiamo lavorare perché esso si consolidi assai di più. L’av-vocato professor Giovanni Marongiu, qui con noi oggi, è stato il “padre” delloStatuto del Contribuente introdotto nel nostro ordinamento nel 2000. Confin-dustria lo ritiene uno strumento importante per il nostro Paese, perché sanci-sce i principi base per la creazione di un codice tributario che metta ordine nelnostro sistema fiscale, la cui mutevolezza spaventa gli investitori. Esso è anchela necessaria premessa per poter giungere a un auspicato codice tributario au-tonomo.

L’associazione dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha inviatoalle più alte cariche dello Stato una proposta di revisione dello Statuto, chie-dendo che i princìpi in esso contenuti siano rafforzati, riconosciuti e rispettatie che, in particolare, sia posto un argine all’eccessivo utilizzo dei decreti leggein materia fiscale. Si tratta di una richiesta condivisa da Confindustria, perchél’incertezza normativa è un costo per tutti ed è incompatibile con la necessitàdi un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita. L’occasioneodierna di confrontarsi, anche con esponenti dell’Ordine, dell’Agenzia delleEntrate e della Guardia di Finanza, è un’opportunità di riflessione che si inse-risce nel percorso di rafforzamento dell’idea di legalità che la nostra Confin-dustria persegue. Confidiamo che occasioni come questa, dove persone dibuona volontà si confrontano, possano aiutare a costruire un miglior rapportocol fisco, e a generare idee per un migliore sistema fiscale.

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Parte seconda

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Essere coerenti per essere liberi(24 novembre 2015, premio Guidarello Giovani)

Questa nona edizione si inserisce in un momento in cui abbiamo segnali diripresa economica che ci danno speranza e ottimismo. Ma si apre anche in im-mediato seguito al grave attentato di Parigi del 13 novembre scorso e ad altrigravi eventi terroristici perpetrati dai fondamentalisti islamici. Siamo in un pe-riodo complicato, con sempre più gravi tensioni internazionali e milioni di per-sone in fuga da governi violenti e arbitrari e da ogni sorta di disperazione, chepremono alle nostre porte senza che noi sappiamo bene come gestire il pro-blema epocale che ci si para davanti.

Alla sfida dell’immigrazione si associa quella del definire i valori cui te-niamo e quelli che possiamo negoziare, di come accogliere con rispetto altri va-lori senza indebolire le libertà che rendono attraenti le nostre società. È questala sfida che voi affronterete per tutta la vita. Possono sembrare problemi quasiimpossibili da affrontare singolarmente, e nessuno ha la bacchetta magica perrisolvere le cose. Le occasioni per fare sciocchezze aumenteranno enorme-mente nei prossimi anni: cercate di non farne troppe!

Lo strumento per contribuire a un futuro migliore lo avete sotto mano: è lavostra testa e la vostra volontà di approfondimento. Il lavoro che avete condottonelle realtà aziendali del nostro territorio, alla scoperta di come funzionaun’azienda, della sua complessità e degli stimoli che offre, credo sia una utileesperienza di pensiero ed analisi. Avete “assaggiato” il lavoro del giornalista,che se condotto bene è essenziale per mantenere le libertà democratiche e il be-nessere. Spero che abbiate imparato due cose: che la realtà è complessa e dif-ficile da imbrigliare in slogan e semplificazioni, e che un buon modo dismascherare le cattive idee e le cattive persone è ricercare la coerenza.

La coerenza è una bella idea, ma è un po’ una virtù noiosa, che ci vieneesaltata fin da piccoli, ma che forse ci sembra sopravvalutata. Perché dunqueè importante? Perché è un presidio di libertà. I capi incapaci in azienda o nellapubblica amministrazione, quelli che in politica diventano populisti, e chequando hanno successo diventano dittatori, raccolgono il consenso su analisiestreme della realtà e soluzioni illusorie. Ma poiché non possono realizzare lesoluzioni promesse cambiano molte volte versione e non ammettono mai disbagliare (sono incoerenti). Mantengono il consenso con la propaganda e iden-tificano sempre nemici del popolo, complotti e forze oscure che impedisconoil raggiungimento della meta. Una cittadinanza vigile, e un buon giornalismo,

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ci difendono da questo pericolo anche chiedendo un ragionevole livello di coe-renza, cogliendo le contraddizioni e l’abuso della teoria dei complotti, e sma-scherando prima che sia tardi i capi incapaci nelle aziende e nella politica. Nonvi invito a pretendere una coerenza assoluta, perché tutti abbiamo limiti, ma in-cludete nel vostro sistema di valori una aspettativa tollerante di coerenza, al-meno dalle persone che scegliete di stimare.

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Identità e immigrazione (30 novembre 2015, premio Guidarello11)

Il premio Guidarello per il Giornalismo d’Autore giunge alla sua 44a edi-zione in un momento in cui accanto ai segnali sempre più concreti di ripresaeconomica la nostra convivenza è smarrita e minacciata: l’attentato di Parigidel 13 novembre scorso12 pone all’Europa quesiti profondi e gravissimi. Vichiedo un momento di raccoglimento per le vittime di Parigi e di ogni luogodove libertà e diritti individuali sono violentati dal terrorismo islamista. Que-st’anno le scelte delle giurie ci portano a continuare un approfondimento sultema della nostra identità, aggiungendovi quello dell’immigrazione e delle op-portunità, ma anche dei conflitti, che essa indubbiamente genererà.

Impariamo da bambini che secondo la Bibbia discendiamo da un unico pro-genitore e fummo fatti a immagine di Dio. Ciò non significa che possiamo sen-tirci onnipotenti, ma al contrario che dobbiamo imparare a riconoscere in ogniuomo l’immagine divina. A vedere negli altri un pezzo di noi. In buona so-stanza a riconoscere una profonda uguaglianza del genere umano. Questa idea,che ci spinge alla fratellanza e all’accoglienza, ha però un curioso corollario chenon va mai dimenticato: laddove consideriamo le idee uguali, o equivalenti,non vi può essere uguaglianza tra le persone. Perché vi sia uguaglianza tra lepersone è necessario condividere alcune regole di convivenza, e una gerarchiadi valori, riconoscendo che vi sono valori negoziabili, ma anche valori irri-nunciabili. In altre parole se una società non riesce a condividere una idea dilegalità e convivenza, se non ricorda le battaglie che ha fatto per conquistarela propria libertà, cessa anche l’uguaglianza tra gli individui lasciando spazioall’arbitrio. Anche per questo il nostro premio in questi anni si è soffermatocon coerente costanza sui molti modi di declinare la legalità13, sulla sua com-

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11 Premiati Vincenzo Melone (ad honorem), Gigi Proietti (sezione nazionale/radiotv),Alessandro Farruggia (sezione nazionale/società), Fabrizio Gatti (sezione nazionale/cultura),Paolo Di Paolo (sezione Romagna/cultura), Giuseppe Turani (sezione Romagna/società), IvanoMarescotti (sezione Romagna/audiovisivi), Evelina Christillin (sezione turismo).

12 La sera del venerdì 13 novembre 2015 tre commando hanno svolto attentati rivendicatidall’ISIS in sette luoghi diversi di Parigi, causando 130 morti in ristoranti e locali pubblici, allostadio e a un concerto rock alla sala concerti Bataclan.

13 Abbiamo premiato il Presidente dell’Autorità Garante del Mercato e ConcorrenzaCatricalà nel 2010, il Presidente della Corte dei Conti Giampaolino nel 2011, il Ministro dellaGiustizia Severino nel 2012, il Prof. Sabino Cassese, giudice costituzionale e riformatore della

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ponente culturale, sul fatto che la condivisione delle regole non può essere soloaffidata alle leggi e alla repressione. La legalità non vive se non è sostenutadalle convinzioni sociali e morali. Questa constatazione non è solo ideale o re-torica. È una certezza pratica, ben nota ad ogni imprenditore: senza legge e va-lori che ci tengono insieme fare impresa è impossibile. In una guerra direligione o di camorra non c’è impresa. Si arricchisce chi fa mercato nero, chispaccia droga, chi è disponibile a ogni doppiezza o commercia in influenze,non chi è bravo. Si dice alle volte che il male è più forte del bene, perché oc-corre una vita a elaborare valori positivi e formare persone che li condividono,mentre il malvagio con un atto violento può troncare in un attimo quel che ilbene ha costruito con lunga fatica. Ma il male distrugge, sottrae benessere, noncrea, e alla lunga anche chi si è sottomesso non riesce più a tollerare la semprecrescente miseria e umiliazione, e trova la forza per ricostruire qualcosa dibuono. Questo è il motivo perché prima o poi i cattivi falliscono e si ricostrui-sce la convivenza.

Per questo, anche quest’anno Confindustria, con il Guidarello ad honorem,vuole riconoscere una declinazione della legalità e del senso dello Stato, pre-miando il Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guar-dia Costiera, Ammiraglio Vincenzo Melone. Onoriamo la sua carriera diservitore dello Stato, e al contempo riconosciamo il ruolo centrale delle Capi-tanerie nel garantire le coste e la sicurezza della navigazione, ruolo assai sen-tito in un territorio costiero come la Romagna. Vogliamo anche ricordare ilruolo delle capitanerie nel fornire assistenza e salvezza ai migranti che nume-rosissimi si sono avvicinati alle nostre coste in questo periodo. Il tema del-l’immigrazione è indissolubilmente legato a quello dell’identità e dei valoriappena richiamato, e si intreccia con quello della sicurezza e delle crisi inter-nazionali. Infatti, benché l’immigrazione sia un fenomeno che si è sempre ac-compagnato al benessere, insidiandolo e alimentandolo allo stesso tempo,credo che il tipo di immigrazione che vediamo oggi sia un fenomeno epocale,ed è illusorio e forse immorale pensare di poterlo semplicemente bloccare. Ri-cordo che quando andavo alle scuole medie ci facevano leggere un libro sul-l’immigrazione. Si intitolava Straniero tra noi14 e raccontava le difficoltà diintegrazione di un giovane immigrato, partito dalla miseria e dalla violenzadella sua patria, e attratto dalla libertà e dal benessere di una città del nord Ita-lia in pieno boom economico ed edilizio. Egli era poi deluso e respinto dallasua nuova città, e attratto dalla comunità di origine, che in cambio di compro-messi e illegalità offriva soluzioni ai suoi problemi e apparente riscatto alleumiliazioni. Ma naturalmente infine faceva la scelta giusta e onesta, e seppurcon fatica raggiungeva quel livello di benessere materiale che innesca il pro-

pubblica amministrazione, nel 2013, il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Gen.Gallitelli, nel 2014.

14 R. GUARNIERI, Straniero tra noi, Firenze, Salani, 1975

Parte seconda

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cesso d’integrazione. Come avrete intuito non era un immigrato siriano o gha-nese in cerca di libertà e sicurezza, bensì un immigrato meridionale che la-sciava un paese dominato da arretratezza e ’ndrangheta.

Ritengo che un approccio serio al problema che viviamo oggi passi dal ri-conoscere le somiglianze e l’eterna sofferenza di chi deve abbandonare la suacasa e ricostruire relazioni e modelli di vita, e dunque nel valorizzare il neces-sario sentimento di fratellanza, ma anche dal tenere conto dei problemi che ciòcausa alle comunità che accolgono gli immigrati. In altre parole non è giusto,e probabilmente nemmeno possibile, chiudere la porta a chi fugge dalla di-sperazione. Chi arriva va aiutato a inserirsi nella nuova società, insegnandogliinnanzi tutto la lingua e la cultura, e va trattato con rispetto. Va messo in guar-dia dalle insidie dell’illegalità, e va incoraggiato chi si sforza di integrarsi.

Tuttavia la legalità si basa su valori condivisi e regole di convivenza strati-ficate nel tempo e dunque una concentrazione troppo alta di persone che de-vono assimilare nuovi valori è una sfida pesante a tale convivenza. Se poi nonci sono politiche di accoglienza che facciano uno sforzo per condividere conchi arriva i valori e le consuetudini fondamentali della nostra società, si pongonole basi per uno scontro culturale. Infine chi fugge dalla guerra non va in Paesigovernati dalla Sharia, ma non sempre apprezza l’idea che a rendere relativa-mente prospera e pacifica la nostra Patria sono la libertà, i diritti individuali e ilrispetto delle idee altrui. Se dunque non troviamo il modo di spiegarlo in modoconvincente nulla esclude che chi abbandona una società violenta e dominata dalclero, possa volerla ricostituire tale e quale nella sua nuova patria.

Ma se non ci ricordiamo quali sono i nostri valori fondanti, come facciamoad essere bravi nell’accoglienza? Se non abbiamo rispetto di noi stessi e giu-stifichiamo ogni nefandezza del mondo con le colpe dell’occidente, come fac-ciamo ad avere vero rispetto per gli altri? Se le risposte ai problemidell’integrazione vengono elaborate solo dalle élite, che raramente ne subi-scono i disagi perché sono relegati nelle periferie, come si potrà evitare il con-flitto di civiltà? Nessuno ha risposte a problemi così grandi, e molti onestitentativi devono ancora essere fatti per trovare una strada accettabile, utiliz-zando molti strumenti incluso l’uso della forza. Però questa sera chiediamoconsigli ai nostri premiati, e sottolineiamo ancora che la cultura è uno stru-mento politico lento e inesorabile, meno costoso e più efficace di molti altri, cheva usato consciamente in questo momento e con coerenza per gli anni a venire.

Vorrei ancora spendere una parola per condividere un pensiero sull’im-provvisa morte di Enrico Liverani, un candidato sindaco di Ravenna, scom-parso nove giorni fa all’età di 39 anni. Il suo partito e i suoi oppositori lo hannogià ricordato con parole toccanti e affettuose. A noi preme sottolineare che ab-biamo sempre ricordato l’importanza dell’impegno civico, spesso faticoso eingrato, e il bisogno che abbiamo di una politica fatta con passione e onestà.Vogliamo onorare chi dedica la propria energia alla collettività, e ci pare cheEnrico Liverani fosse una di queste persone.

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Cultura e legalità

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III.

La convivenza a rischio

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1.

Sull’orlo del baratro

Dopo una lunga stagione di spesa pubblica a debito, per sostenere l’econo-mia in crisi con provvedimenti economici improduttivi, nell’estate del 2011l’Italia si trovava in una situazione estremamente difficile, con i tassi sull’im-menso debito pubblico di oltre duemila miliardi di Euro arrivati a livelli nonsostenibili per il bilancio dello Stato (pagavamo quasi il 6% in più della Ger-mania), e soprattutto con il rischio che lo Stato non riuscisse a rifinanziare i ti-toli di Stato in scadenza. Ciò significava il fallimento delle banche e la rovinaper aziende e risparmiatori. Tuttavia in quei mesi l’opinione pubblica, assor-bita dal consueto dibattito politico basato sulla denigrazione dell’avversario,non percepiva il rischio drammatico che il nostro Paese stava correndo. Chi sene rendeva conto vendeva i titoli italiani per comprare quelli esteri, facevascorta di contante da tenere in casa, mentre la liquidità delle banche si riducevacon velocità drammatica. Credo che furono ben poche le persone in posizionedi responsabilità a prendere una posizione netta sui pericoli che tutti noi cor-revamo, e tra queste ci fu la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia chefin dall’estate chiese con chiarezza un cambio di Governo, per tentare in ex-tremis di ristabilire la credibilità del Paese. Tra le altre persone cui dobbiamogratitudine vi fu il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che con-scio del disastro imminente seppe costruire una soluzione. A mio avviso vi fuanche il capo dell’opposizione, Pierluigi Bersani, che avrebbe potuto preten-dere elezioni anticipate, sapendo di avere grandi probabilità di vittoria, coro-namento del sogno di una carriera, e che invece accettò un Governo di salvezzanazionale a novembre 2011, sacrificando le proprie ambizioni politiche per ilbene collettivo. Ricordo il primo respiro di sollievo quando Napolitano no-minò Mario Monti senatore a vita, e la speranza di quando ricevette l’incaricodi formare un Governo. Monti e i suoi ministri sono ora criticati da molti, maa prescindere dai giudizi sui singoli provvedimenti credo che tutti dobbiamouna profonda gratitudine a quegli uomini e donne che lasciavano spesso posi-zioni di prestigio e lavori assai ben pagati per aiutare l’Italia a non bruciare inpochi mesi quel che generazioni avevano costruito. E se dovessi evocare un sin-golo provvedimento che fece da discrimine tra salvezza e povertà devo direche quello fu la riforma del sistema pensionistico. In pochi mesi fu attuato quelche in decenni non si era osato fare, e cioè creare un po’ di equità tra genera-

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Parte terza

zioni. Forse con più tempo si sarebbe potuto fare ancora meglio, ma mi colpìil grande coraggio della professoressa Elsa Fornero, che vive ancora oggi sottoscorta e subendo attacchi e insulti per avere risposto alla chiamata della Patria.Non possiamo negare che quel gruppo di persone, con l’aiuto di Mario Draghialla Banca Centrale Europea, riuscirono nella missione di salvare i nostri ri-sparmi. In quelle settimane, sentiti i colleghi imprenditori di Ravenna, deci-demmo che sarebbe stato utile fare alcuni interventi sulla stampa. Volevamoesprimere sia il senso della gravità dell’emergenza, sia l’idea che fosse illuso-rio credere che il Paese si potesse salvare uscendo dall’euro o con altre alchi-mie, che alla lunga bisogna produrre per poter consumare, e che il debito nonè una risposta sempre valida. Ciò perché pensavamo che le idee vadano di-scusse pacatamente e che si debba aiutare a formare una cultura condivisa, ecredevamo che il nostro contributo fosse utile anche per chi la pensava diver-samente. Da questa idea sono nati i contributi che seguono e che lasciano trac-cia di un momento in cui il dramma ci sovrastava, ma per fortuna si dissolse,anche grazie alla capacità di persone con il senso dello Stato.

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2.

La strada anticrisi (11 dicembre 2011, articolo su «Il Resto del Carlino»)

Il Governo ha adottato una manovra pesante e che non solo introduce nuovisacrifici e tasse per persone e imprese, ma mira a cambiare radicalmente alcunevoci del bilancio dello Stato cui sono associate le nostre abitudini di vita, comead esempio le pensioni. La manovra ha avuto sostegno e critiche, ed ha indottoi sindacati a convocare uno sciopero per domani, sia per i suoi contenuti, siaperché non è stata oggetto di concertazione. Confindustria ha espresso un pa-rere positivo sulla manovra, pur non condividendone alcuni aspetti, ed ha ap-prezzato la celerità, incisività e competenza dispiegata nel predisporla. Unamanovra così pesante, cui probabilmente seguiranno altri interventi difficiliche incideranno sull’organizzazione della nostra convivenza, è poco accetta-bile se non si condivide a livello culturale e politico un’analisi sulla gravitàdella situazione, sulle sue origini e sui suoi rimedi.

La gravità della situazione è data dalla difficoltà per il nostro Paese di pro-curarsi credito, seppure a costo crescente, per finanziare le attività di ognigiorno. Se lo Stato non riesce a raccogliere denari in modo capillare e a costoaccettabile si paralizza l’economia e le banche non trovano liquidità, le im-prese a loro volta non riescono a finanziarsi, e alcune falliscono perché nonpossono rimborsare i debiti, e per ultimo questo tsunami arriva alle famiglie,che si trovano senza lavoro e senza risparmi. La velocità con cui tutto ciò si in-nesca e si propaga è elevata e difficile o impossibile da arginare, dunque ognisforzo va fatto prima che la situazione sfugga del tutto di mano, e cioè pur-troppo quando molte persone non percepiscono ancora la effettiva gravità delmomento.

Le origini della crisi sono materia su cui gli storici e gli economisti si oc-cuperanno a lungo, ma comunque la si guardi, al fondo c’è una grande quan-tità di debito accumulata non solo dal nostro Paese, ma da tutto il mondooccidentale. Milioni e milioni di risparmiatori in tutto il mondo per molti mo-tivi dubitano che questo enorme debito venga mai rimborsato, o almeno ri-dotto, e cercano di liberarsene. Ma com’è diventato così grande questo debito?Semplicemente perché un’intera generazione ha speso assai di più di quel cheproduceva, e forse senza accorgersene ha vissuto ad un tenore di vita che nonpoteva permettersi. Questo tenore di vita era ed è permesso nel nostro Paese dapensioni modeste ma date a pioggia e forse troppo presto, da garanzie e tuteleper ogni categoria, da un generoso sistema di servizi sociali che ci permette di

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Parte terza

avere molti servizi (talvolta scadenti) senza intaccare il nostro reddito dispo-nibile. Chi ci ha dato tutto ciò? In fondo sono stati i risparmiatori che hanno cre-duto di affidare agli Stati i loro denari e la generazione che ne ha goduto,eleggendo sistematicamente una classe dirigente che assicurasse sempre piùbenessere a prestito. Pochi pignoli hanno posto nel tempo la domanda di chi ri-pagherà questo debito, ma la globalità della nostra società e dei sistemi finan-ziari ha permesso di rimandare a lungo la risposta. Ognuno di noi sa che se ilnostro debito famigliare diventa troppo grande (per la casa, per l’auto, perl’elettronica, per i viaggi) arriva il momento in cui del nostro stipendio nonresta abbastanza per vivere, e a maggior ragione per investire sul nostro fu-turo. Qualche volta, se si ha credibilità, i creditori ci aiuteranno, se invece anchela credibilità è perduta la famiglia va in rovina. Così è il nostro Paese: oltre adavere accumulato un debito ingente, aveva perso la fiducia dei risparmiatori ditutto il mondo. Secondo le convinzioni politiche di ciascuno si possono prefe-rire le une o le altre spiegazioni per questa perdita di credibilità, ma è un fattoche il Paese ha rapidamente perso la nomea di buon debitore. Il governo Monti,forte del prestigio delle personalità che lo compongono, è dunque chiamatoallo stesso tempo a intraprendere azioni che ripristino la nostra affidabilità suimercati, e a guidarci nel modo meno doloroso possibile a un ridimensiona-mento, almeno temporaneo, del nostro tenore di vita, sperando che anche ilresto del mondo occidentale cooperi in questo sforzo.

La speranza di uscire, forse un po’ ridimensionati, ma più forti da questacrisi è legata, come in ogni processo di riscatto, all’ammissione delle respon-sabilità di ognuno di noi. Oggi molti accusano la finanza, i complotti, la poli-tica, sono scontenti o infuriati di dover rimandare la pensione o ricominciarea pagare l’ICI, ma credo che per reagire dobbiamo prima accettare che ab-biamo una responsabilità individuale, come cittadini ed elettori, nelle scelte dispesa che abbiamo seguito in passato, e una responsabilità verso le generazionifuture. Se sapremo ridimensionare un po’ le nostre attese e ritrovare il valoredel senso del dovere, del buon lavoro, del merito, la strada del riscatto saràmeno dura e più condivisa.

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3.

Crisi, la politica ristabilisca l’equità (18 dicembre 2011, articolo su «Il Resto del Carlino»)

Nei tempi antichi, quando una minaccia grave o un nemico si avvicinavaalle porte della città, veniva scelto un condottiero che difendesse i beni e i va-lori accumulati: ogni sacrificio era meglio della minaccia incombente, e opporsiera considerato tradimento. Oggi per fortuna conoscenze e qualità umane sonodiffuse e non abbiamo bisogno di condottieri, e la democrazia utilmente tutelaogni forma legittima di opposizione. Eppure la minaccia oggi è grave, e pro-prio la sua gravità ha portato partiti che fino a ieri si attaccavano con virulenzaa sostenere scelte difficili e che fanno perdere voti, affidate a un Governo nonconsueto.

Gli imprenditori hanno espresso apprezzamento per questa scelta di re-sponsabilità, ma come fanno i partiti a difendersi dal comodo attacco di chinon si assume responsabilità e fa una opposizione demagogica? Certo, pos-sono spiegare ai loro elettori quanto la situazione sia grave e come nessunosfugga alla responsabilità del debito accumulato, e che una pensione ritardataè meglio di nessuna pensione. Ma vorrei suggerire che sarebbe utile se si fa-cesse strada nel discorso politico l’idea che ogni deficit pubblico altro non è chetassazione futura. Le pesanti tasse che noi oggi paghiamo non sono altro cheil conto di aiuti a pioggia, pensioni erogate con facilità, assunzioni clientelari.Se noi cittadini ci abituassimo di più a mettere sotto scrutinio le scelte di spesa,anche quando ci “regalano” qualcosa, perché nulla è regalato e prima o poisarà da ripagare, sarebbe premiata una politica più responsabile e puniti i viziche ci hanno portato sin qui. Questo invito a riflettere che aiuti, sussidi, pen-sioni non sostenibili dovrebbero essere guardati con più attenzione e sospettoda noi cittadini non significa che non siano talvolta utili, e nemmeno che i de-ficit di bilancio siano in assoluto inaccettabili. Semplicemente abituiamoci a ca-pire come si spendono i soldi pubblici sapendo, come si fa nelle imprese, chegli investimenti a debito hanno senso solo se crediamo che generino un buonritorno, e le spese correnti e i lussi pagati col fido portano spensieratamente allabancarotta.

Questa considerazione tocca anche i temi di equità e crescita. La crescitache deve venire non può essere fatta da altra spesa pubblica, salvo accelerarela realizzazione di infrastrutture utili, e dovrà invece sprigionarsi da riformedella burocrazia, del sistema giudiziario, delle regole che proteggono singolecategorie senza avvantaggiare la collettività. Questo in parte già c’è nella ma-

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Parte terza

novra e forse il Governo avrebbe voluto fare di più fin da subito. Ci vorrebbeanche più coraggio sulla dismissione di beni e aziende pubbliche. Applicarel’idea che il deficit equivale a tassazione futura anche nel definire i prossimipiani di sviluppo libererebbe gli spiriti di aziende e famiglie assai di più di unprogramma di spese pubbliche. Questo vale anche per l’equità, che è presentein questa manovra attraverso molti validi strumenti di contrasto all’evasione edi tassazione dei beni, che daranno frutti nel tempo. Ma la politica dovrebbe suquesto dare un messaggio di rispetto per il cittadino: l’equità dovrebbe essereristabilita tra chi paga e chi non paga le tasse, non con un accanimento controchi è ricco e paga le tasse. Capisco che questo sia un argomento assai sensibileoggi, ma la ricchezza meritata è un gran bene per la società, e le azioni di equitànon devono demagogicamente rivolgersi contro chi produce di più, ma bensìdevono operare attraverso le riforme e la legalità per assicurare che la ricchezzasi acquisti col merito e non altrimenti. In altre parole le 11.500 persone che inItalia dichiarano più di 200 mila euro e pagano le aliquote massime di tassa-zione (ora elevate al 46% più le addizionali) dovrebbero essere portate ad esem-pio e non usate nel commercio politico. Equità dovrebbe anche voler dire chedopo questa fase di emergenza la tassazione sui beni ora introdotta sia megliocoordinata con quella sui redditi, e che il cittadino possa convincersi chel’azione fiscale sarà meno persecutoria, e più coerente (niente più scudi o con-tro-scudi, né condoni fiscali o edilizi per esempio, tanto nessuno più si fide-rebbe ad aderire).

Abbiamo ancora bisogno della buona politica e dei politici, che ci devonoaiutare a individuare una visione per il futuro, a riscoprire il senso e la potenzadel progetto europeo, a ritrovare il piacere di un discorso coerente, di un com-portamento rigoroso, di un senso meno cinico del bene comune. In una paroladi dare un rinnovato spessore all’azione politica.

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4.

Imu e spesa pubblica (6 maggio 2012, articolo su «Il Resto del Carlino»)

In questi giorni i Comuni della provincia di Ravenna hanno approvato l’ali-quota della nuova tassa sugli immobili (IMU) fissandola in alcuni casi ai livellimassimi, soprattutto per alcune attività commerciali e industriali. Molte asso-ciazioni di categoria hanno protestato per queste scelte, e segnalato le diffi-coltà che attività già provate dalla crisi potrebbero incontrare di fronte adaumenti significativi della tassazione sui fabbricati. Anche all’interno di Con-findustria Ravenna si dibatte di questo tema, con aziende che avranno aumentidi ben oltre 100 mila euro annui. Benché la voglia di protestare sia alta, è dif-fusa la coscienza che viviamo un momento in cui tutti fanno sacrifici per ilbene del Paese e che le tasse servono a coprire debiti fatti nel passato anchecon l’acquiescenza di cittadini e imprese. Poiché i deficit pubblici altro nonsono che tassazione futura, siamo oggi coscienti di pagare in tasse il prezzo dideficit sperperati in passato in spese pubbliche avventate, prive di utilità o conutilità non duratura.

Però riconoscere l’inevitabilità dei sacrifici e la responsabilità collettiva perle difficoltà del nostro Paese non ci esime dal chiederci se questi sacrifici nondovrebbe farli anche la sfera pubblica. Se famiglie e individui misurano con at-tenzione il proprio stile di vita, se le imprese si fanno carico di maggiori tassee oneri, perché i bilanci degli enti pubblici, e in particolare chiediamo noi,quelli del nostro territorio, restano invariati o addirittura aumentano? Non èquesto il momento anche per le amministrazioni pubbliche di fare una rifles-sione su qual è il perimetro ottimale della loro attività?

Ci sono attività oggi gestite dai Comuni che potrebbero essere forse svoltemeglio e più economicamente da imprese private, incluse imprese del mondocooperativo e sociale, e dal settore della sanità privata. Gli enti pubblici delnostro territorio hanno importanti partecipazioni che dovrebbero oggi essere ri-messe in discussione, e alienate, almeno nei casi in cui non siano veramenteconnaturate all’interesse pubblico o in cui vi sia conflitto di interessi, come perle aziende fornitrici di servizi ai cittadini, le quali danno dividendi ai Comuniin funzione delle tariffe che i Comuni stessi concorrono a fissare. Le ammini-strazioni possono e devono fare molto per razionalizzare di più le loro attività,con progetti di informatizzazione ed e-government ragionati e coraggiosi, conattività di semplificazione burocratica, con la messa in comune di servizi estrutture. In questo senso sono apprezzabili gli sforzi dei Comuni del lughese,

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Parte terza

che hanno creato l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna, e l’analogo la-voro intrapreso dal territorio di Faenza. Sappiamo bene che i Comuni, pur fis-sando le aliquote dell’IMU, ne ricevono una piccola parte, e apprezziamocomunque lo sforzo di contenimento dei costi intrapreso dal Comune di Ra-venna, e la scelta di adottare le aliquote per tempo (meno del 10% dei Comuniitaliani finora ha fissato tali aliquote lasciando cittadini e imprese nell’incer-tezza).

Se la sfera pubblica non si contrae, lasciando alla sfera privata spazio perimpegnarsi a uscire dalla crisi, se le tasse continuano ad aumentare e la spesapubblica non si riduce, per quanto senso civico avranno i cittadini e le imprese,rischiamo tutti di fare la fine dell’asino del proverbio, che come noto morì pro-prio quando aveva imparato a non mangiare. Per questo non protestiamo sul-l’IMU, ma chiediamo agli amministratori del nostro territorio di incontrarcinel quadro degli eventi di riflessione sul nostro futuro che Confindustria pro-muove sotto il logo di Ravenna 2030, e di discutere con noi se e come anchele pubbliche amministrazioni possono ulteriormente contribuire alla riduzionedella spesa pubblica e dunque al risanamento del Paese.

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5.

A ognuno la sua parte (24 settembre 2012, incontro con i sindaci di Ravenna, Faenza e Lugo)

Le ragioni di questa iniziativa risalgono alla scorsa primavera quando sisono accese, in città e in tutto il Paese, vibranti proteste per l’introduzione del-l’IMU, la nuova imposta sugli immobili. In molti casi l’aliquota è stata fissataai livelli massimi consentiti, suscitando le rimostranze di cittadini e associazionidi categoria. Rimostranze comprensibili e che si stanno protraendo anche inquesti giorni, rispetto alle quali Confindustria Ravenna ha voluto assumere unaposizione più articolata.

Sebbene infatti la tentazione di protestare sia alta, alla luce di aumenti dioltre 100 mila euro annui per alcune aziende associate, è alta anche la consa-pevolezza della gravità del momento, in cui nuove tasse servono a coprire de-biti contratti in passato. È questa coscienza che può spingere famiglie e impresead accettare maggiori oneri, facendo rinunce e tagliando le spese, perché com-prendiamo bene che le risorse non sono infinite.

Ma ammettere che questi sacrifici sono inevitabili ci legittima anche a do-mandarci se tutti ci stiamo impegnando al massimo per correggere gli erroripassati e fare fronte all’emergenza. Molte delle nostre imprese hanno visto spa-rire di colpo fette importanti dei loro mercati: è stato quindi inevitabile riorga-nizzarsi, impegnarsi per la ricerca di nuovi mercati, fare anche scelte moltodolorose. Per le famiglie è stato uguale, nel senso che è stato necessario sele-zionare meglio le spese, scegliere quali rinviare, in una parola ridurre il tenoredi vita.

Visto da fuori, c’è un mondo che sembra essere stato toccato pochissimo datutto questo: quello della politica e della Pubblica Amministrazione. Le cro-nache di questi ultimi mesi, ma anche degli ultimissimi giorni, sono ancoraricche di vicende che ci fanno seriamente dubitare che qualcosa stia davverocambiando. Le vicende del Lazio di questi giorni aprono poi uno scenario cheoltre allo squallore abietto di chi è coinvolto, fanno pensare che ingenti risorsesiano comunque destinate, tra le pieghe di ogni bilancio pubblico, ad attivitàsottratte ad ogni controllo. Se tutto questo in tempi normali è duro da accettare,adesso è davvero insostenibile. Le amministrazioni pubbliche stanno facendotutto il possibile per contenere i propri costi? Le loro partecipazioni societariesono tutte connaturate all’interesse pubblico, o riguardano attività che potreb-bero essere condotte forse più economicamente da soggetti privati?

In questa riflessione vogliamo comprendere anche le resistenze nei con-

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fronti dell’eventuale Provincia unica di Romagna: invece di calcolarne possi-bili benefici e risparmi, si dibatte su quale comune sia più titolato a ospitarneil capoluogo e su come spartirsi i servizi e le strutture. Anche se avremmo pre-ferito che il riordino istituzionale riguardasse tutte le Province, senza distin-zione, e includesse l’attesa riduzione del numero dei parlamentari, o dellecospicue spese in capo a Stato e Regioni, guardiamo con favore a questo passoe crediamo che vada sostenuto con convinzione. Auspichiamo che possa essereil primo segnale di un generale contesto di riforme: anche le associazioni, chesi sono moltiplicate nel tempo e nella loro articolazione territoriale, potrannotrarre spunto dai ragionamenti di questo pomeriggio per cercare opportunità diaccorpamento ed efficienza all’interno del più vasto territorio di Romagna.

Oltre a questo, molti altri sono i temi sul tavolo: informatizzazione, sem-plificazione burocratica, condivisione di servizi e strutture. Siamo consci chein questo territorio ci troviamo di fronte ad una amministrazione della cosapubblica che può essere complessivamente valutata in modo positivo: ma cre-diamo anche che ci siano sempre margini di miglioramento e su questo vo-gliamo essere certi che l’impegno sia massimo.

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6.

Fiducia persa e ritrovata (21 ottobre 2012, articolo su «Il Resto del Carlino»)

Nell’estate 2011, quando il Governo precedente era attaccato da cittadini,istituzioni e mercati e faticava a finanziarsi, un amico che conosce bene la po-litica mi fece notare che non vi era poi nulla di tanto diverso in quel che facevail Governo o nell’indebitamento del Paese rispetto ai mesi o anni precedenti.Io dissi che la differenza stava nel fatto che si era esaurita la fiducia. Capita cosìtra coniugi, o tra amici. Tra debitore e creditore, tra aziende, e tra cittadini e isti-tuzioni.

Ognuno di noi, persone, aziende, partiti o Stati, amministra un patrimoniodi fiducia e credibilità, che non è meno prezioso dell’avanzo di bilancio, delleesportazioni o del PIL. I più sensibili riescono a percepire nel loro cuore unacontabilità abbastanza precisa della fiducia di cui godono presso ciascuno, evi-tano di dissiparla, avvertono quando essa si incrina e trovano la strada e le giu-ste azioni per riportarla sempre ad un buon livello. I più ottusi invece nonriescono mai a percepire dove stanno in questa contabilità della fiducia e sipreoccupano in eccesso, o molto più spesso si illudono che tutto vada bene fin-ché non si accorgono tardivamente che il mondo gli sta crollando addosso. Lafiducia, il buon nome, si costruiscono con pazienza e umiltà, giorno dopogiorno, e si possono perdere precipitosamente. Chi crede in noi, o ci vuol bene,può perdonare molto, ma viene un momento in cui tutto cambia in un amen.

Oggi viviamo in un contesto in cui molta fiducia è stata distrutta. Ve ne èben poca tra banche e aziende, e ciò determina la fuga dei risparmi e frena ilritorno del credito. La mancata fiducia tra cittadini e politica ci espone al rischiodella demagogia, dell’odio di classe e dell’irrazionalità. Non c’è fiducia nellacapacità dello Stato di garantire un futuro dignitoso alle persone, e questo con-gela i consumi, perché ognuno se può risparmia per i momenti difficili, dubi-tando che lo Stato lo assisterà. Non vi è nemmeno molta fiducia nell’euro o traconcittadini europei. Questa fiducia va ricostruita con uno sforzo collettivo.Ho detto altre volte che alla lunga nessuno può consumare più di quanto pro-duce, e questo pone limiti al livello di benessere cui possiamo aspirare indivi-dualmente e come società e alle politiche cosiddette di crescita, che vorrebberoripristinare la fiducia attraverso interventi di spesa pubblica, oggi difficili da at-tuare sia per l’enormità del debito pubblico sia perché manca la fiducia dei cit-tadini nello Stato. Le notizie di questi giorni ci mostrano abusi, personaggisquallidi, e pervicace attaccamento al potere. Esse ci ricordano quanto abbiamo

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tollerato in silenzio, ma anche che la nostra società non è rassegnata e riesceancora a individuare e perseguire i comportamenti più aberranti.

Da dove iniziamo a ricostruire la fiducia? Credo che non vi sia alternativase non il cominciare da noi stessi. Incolpare gli altri equivale ad ammettere chenoi non contiamo nulla, ma non è così. Guardiamo alle cose buone che ancoraallietano la nostra vita, cerchiamo idee per migliorarla ulteriormente nel so-ciale, nelle relazioni personali, nel lavoro, nell’avviare nuove attività. Credoche si debba coltivare un senso civico più marcato e introdurre nelle conver-sazioni quotidiane un’aperta riflessione se crediamo che conti più la furbizia ola legalità, e agire di conseguenza. Ma soprattutto si deve riflettere che presto,attraverso le elezioni, avremo la possibilità di incidere davvero su chi influen-zerà il nostro futuro. È uno snodo fondamentale: questo voto inciderà sulla no-stra vita come raramente ha fatto nella nostra storia. Ognuno ha le sueconvinzioni politiche e fa la sua analisi della realtà, ma alcune domande credovalgano per tutti.

1) Chi è il candidato che votiamo? Cerchiamo di saperne il più possibile edi scegliere per una volta persone perbene e competenti.

2) Cosa propone concretamente? Sforziamoci di capire quale analisi fa dellasituazione attuale e quali rimedi propone: il buon senso ci guiderà meglio dimolte ideologie.

3) Ricostruirà la fiducia o la distruggerà? Questa è la domanda più difficile,ma propongo un semplice test per dirimerla: chi dà la colpa agli altri di fattoproclama la nostra impotenza, dunque distrugge fiducia. Chi richiama ognunoalla propria responsabilità invece crea le basi per ritrovare la fiducia, cioè l’in-grediente che ci manca per guarire dalla malattia del debito. Senza andaretroppo lontano nel tempo, abbiamo sentito politici dirci di avere la soluzionedi tutti i problemi del mondo, ma che nulla si risolveva per colpa di qualcuno:dei comunisti, del sud, del nord, dell’Europa, dell’America, della finanza, deiricchi, dei sindacati. Chi continua a proporre questo genere di cammino, a volerpunire qualcuno invece che responsabilizzare tutti, non ricostruirà mai la fi-ducia di cui abbiamo bisogno.

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7.

La responsabilità del primo voto(22 novembre 2012, premio Guidarello Giovani)

Questa sesta edizione del premio Guidarello Giovani si inserisce in un pe-riodo particolare, instabile e difficile. Statisticamente, in Europa un giovanesu cinque è senza lavoro, percentuale che in Italia sale a un giovane su tre. Quisiamo in un territorio più fortunato, ma questo non cambia la portata e la gra-vità del problema, né il sentimento di malessere e di frustrazione crescente,sfociato da ultimo nelle proteste della settimana scorsa. Alcuni di voi, o altri stu-denti come voi, hanno sfilato gridando che «non pagheremo questi debiti». Viè chi dice che per uscire dalla crisi dovremmo essere meno austeri e aumen-tare la spesa pubblica. Non giudico queste posizioni, ma vi prego di riflettereche la spesa pubblica a debito non è altro che tassazione differita nel futuro.Quel debito che le piazze non vogliono pagare corrisponde alla spesa pubblicache ha fatto vivere bene i nostri padri. Dare sempre la colpa agli altri, cercareun capro espiatorio è un riflesso che tutti abbiamo, e talvolta veicola la rabbiacontro qualche disgraziato, ma non risolve mai i problemi. È solo attraversoun’assunzione di responsabilità individuale che si pongono le basi per una so-luzione. Quando io ero studente i professori avevano conquistato il diritto di an-dare in pensione con 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi, e riceveranno,a nostre spese, la pensione ancora per decenni: io non ho protestato per questoe oggi ne pago il prezzo. È sufficiente che me la prenda con i sindacati o i do-centi che ne beneficiarono, o devo essere un cittadino più attivo, più pervasodi senso civico e capace di espormi anche sulle scelte che interessano la col-lettività? Io penso che dobbiamo imparare a sentire di più la cosa pubblicacome nostra, e quando vediamo qualcosa che non ci convince dobbiamo sen-tirla per quel che è: un danno che prima o poi toccherà anche noi direttamentee rispetto al quale dobbiamo prendere una posizione, contribuendo così a un di-battito che porterà a scelte più meditate, se non più giuste.

Le incertezze dei nostri tempi, la rivoluzione che la tecnologia ha portatonelle nostre economie, la difficoltà della classe dirigente a trovare una rispo-sta adeguata all’emergenza vostra e dei vostri coetanei sono le sfide che ab-biamo davanti e che voi affronterete a breve. So che possono sembrareproblemi quasi impossibili da affrontare singolarmente, e nessuno ha la bac-chetta magica per risolvere le cose, anche se qualcuno dice di avere la soluzionein tasca. Eppure voi oggi avete in mano due carte decisive per il vostro futuroda giocarvi nei prossimi mesi: la scelta di una eventuale iscrizione all’univer-

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sità o della ricerca di un lavoro, e soprattutto il voto. Molti di voi tra quattro mesi andranno alle urne per la prima volta. Vorrei

che foste consapevoli che ci andrete in un momento storico particolarissimo,e questo investe tutti noi di una grande responsabilità. Non si tratta di un’ele-zione tra tante, ma di una scelta politica che avrà un’influenza epocale sul fu-turo del Paese e di tutti noi, come poche altre prima, e su cui anche voi potreteincidere scegliendo tra illusione e competenza, tra demagoghi e persone chenon nascondono le difficoltà ma dimostrano di avere le competenze morali eprofessionali per affrontarle.

Quello che avete fatto per essere qui oggi è un lavoro di approfondimentodelle realtà aziendali del nostro territorio, una scoperta di come funzionaun’azienda, della sua complessità e degli stimoli che offre. E anche la politica,l’economia, l’attualità, le controversie, i problemi al lavoro o a scuola, si ca-piscono e si riescono ad affrontare attraverso un’opera di onesto approfondi-mento. Informatevi e abituatevi a fare delle domande a voi stessi, e poi a farleagli altri – professori, genitori, amici. Confrontatevi, poi fatevi la vostra idea,lasciandovi guidare dal buon senso e dalla vostra testa, cercando di non farvicondizionare. Riflettete su quali sono i vostri valori, quelli che rendono la vitainteressante e il rapporto con gli altri giusto e fruttuoso. Questi valori vi aiute-ranno nelle scelte e vi daranno sicurezza e punti di riferimento.

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8.

Euro e lira(7 febbraio 2013, articolo su «Corriere Romagna»)

Nei dibattiti che sentiamo alla televisione e sulla stampa emerge spesso iltema del rimpianto per le lire, di un ripensamento delle condizioni per rimanerenell’euro, e del livello di sovranità monetaria di cui dovremmo godere. La so-vranità monetaria è il diritto di battere moneta. Noi cittadini non abbiamo maigoduto di questo diritto, anzi battere moneta in proprio è un grave reato per tantimotivi, il più comprensibile dei quali è che se io lavoro duro per produrre quelche mi serve per vivere, e il mio vicino non fa nulla, ma si stampa i soldi dinotte, non solo io subisco una grave ingiustizia, ma se io e il mio vicino usiamola stessa moneta la svalutazione che lui determina stampando impoverisceanche me. È dunque necessario che la moneta abbia una circolazione più ampiapossibile e sia percepita come solida riserva di valore, e dunque che il suo go-verno sia il meno possibile influenzabile da interessi particolari.

Chi invoca la sovranità monetaria nazionale ed il ritorno alla lira ricordagiustamente che in Italia in numerose situazioni di crisi economica si affron-tarono i problemi svalutando la nostra moneta e recuperando per questa viacompetitività. La parola chiave di questo ragionamento è la competitività.Quando io e il mio vicino produciamo la stessa sedia, ma io ci metto più ore,e spendo di più in attrezzi, lui venderà bene la sua ed io entrerò in crisi econo-mica. In effetti ho perso produttività, cioè impiego più risorse per unità di pro-dotto. L’unico modo di non cadere in miseria è di rimboccarmi le maniche etrovare il modo di fare quella sedia meglio, e pagando meno le risorse. Questoè però umanamente difficile da accettare: in pratica devo guadagnare di meno,e ridurre il mio tenore di vita, almeno finché non sarò di nuovo competitivo.

Per recuperare competitività è dunque necessario che si riduca il costo dellavoro impiegato per unità di prodotto, e ciò si può fare investendo in processiproduttivi più efficienti o riducendo il costo della manodopera. La secondastrada è più immediatamente attuabile della prima, ma entrambe sono ineludi-bili. Sono anche politicamente difficili e particolarmente ostiche per le im-prese. Per questo la svalutazione per molti anni è stata il metodoapparentemente semplice di affrontare crisi di competitività: invece di avereduri negoziati sindacali e fare costosi investimenti nel ciclo produttivo, io po-tevo continuare a vendere la mia sedia allo stesso prezzo in lire, solo che lavendevo per meno dollari. Però contemporaneamente i risparmi degli italianiperdevano valore in termini di beni acquistabili e gli stipendi valevano meno.

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Parte terza

Invece che affrontare il problema nel ciclo produttivo, la svalutazione, comeuna tassa diffusa, impoverisce un poco tutti, rinforzando temporaneamente leaziende. La soluzione infatti era temporanea, perché generava inflazione e ilprezzo della sedia dell’esempio tornava ad aumentare rendendola non compe-titiva. Questa cura non solo non ha mai curato il male, ma ha portato molti ef-fetti collaterali di non piccola gravità. Le famiglie hanno piano piano compresoche l’effetto della svalutazione impoveriva i loro risparmi, diffidando della mo-neta e cercando beni rifugio, i lavoratori hanno preteso l’indicizzazione dei sa-lari. In generale la solidità della moneta dà sicurezza alle transazionieconomiche, mentre la sua inaffidabilità le rende più difficili, con danno perl’economia. Inoltre l’inflazione è complessa da capire e da gestire per una per-sona media, dunque con essa vi è chi si arricchisce e chi si impoverisce, ingiu-stamente. Per questo il ciclo di svalutazioni e inflazione che l’Italia ha patitodagli anni Settanta fino all’entrata nell’euro hanno anche causato gravi tensionisociali.

Le imprese hanno creduto in passato di essere meglio posizionate di altri pergiovarsi della svalutazione, e ancora oggi è vivo anche nel mondo delle aziendeil dibattito sulla sovranità monetaria, ma sempre più la posizione consolidataè che la svalutazione fa più danni che bene e che la via maestra per recuperareproduttività è agire sul costo del lavoro e sui processi produttivi. Ogni altra so-luzione è effimera e porta danni profondi e incontrollabili al tessuto sociale.Questa esperienza l’hanno vissuta duramente, ma con dignità e coraggio, laGrecia e il Portogallo, che in due anni hanno riportato la loro produttività vi-cino al livello della Germania, e che ora stanno nuovamente attirando investi-menti dall’estero.

Non è dunque la svalutazione che ci potrà dare alcun aiuto, e l’euro ci hapermesso di passare da tassi ben oltre il 12% ancora negli anni Novanta a tassiforse in alcuni momenti fin troppo bassi. Non è tornando alla lira, al carlino,al luigino o al tallero che scompariranno le debolezze della nostra economia.Ben venga dunque il dibattito sul livello dell’integrazione europea, fiscale, mo-netaria e bancaria, ma senza dimenticare quello che di buono l’euro ci ha dato.

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9.

Debito e crescita (21 febbraio 2013, articolo su «Corriere Romagna»)

La dura crisi che ha colpito il nostro Paese ha dolorosamente ridotto i con-sumi e frenato la crescita economica. Quando vi sono difficoltà le persone nonsolo riducono la loro spesa proporzionalmente, ma temendo il peggio, rispar-miano molto di più. Anche le aziende quando vedono calare bruscamente la do-manda dei loro prodotti, bloccano gli investimenti, le assunzioni, o senecessario riducono il personale, in un processo che rischia di avvitarsi in uncontinuo peggioramento. Il primo economista a studiare questo fenomeno sichiamava John Maynard Keynes e propose, in seguito alla Grande Recessionedel 1929, che lo Stato si indebitasse e spendesse, per riattivare un circolo vir-tuoso di fiducia e crescita. A quell’epoca il debito pubblico americano era del16% del prodotto interno lordo, mentre oggi in Italia il debito è pari al 127%.

Molti economisti e politici, fidando in quell’analisi, nei decenni successivihanno affrontato ogni crisi aumentando la spesa pubblica, e anche adesso sonoin molti a sostenere che per tornare alla crescita sia necessaria una forte inie-zione di spesa pubblica, da farsi con nuovo debito. Eppure, anche ammessoche il debito pubblico possa stimolare la crescita in momenti di difficoltà, credosia utile riflettere su quale sia il rapporto tra debito e crescita, pensando alla vitaeconomica di una famiglia.

Immaginiamo dunque una famiglia che oltre al suo reddito, con cui conduceuna vita dignitosa, possa accedere per molti anni a prestiti di banche o finan-ziarie. Potrà usare questi soldi per attività utili che ne possano aumentare ilreddito nel futuro (come comprare una casa o un’attività, o investire sull’edu-cazione dei figli), oppure spingere sui consumi (come acquistare telefonininuovi, viaggi esotici o sovvenzionare parenti nullafacenti). Finché i prestitisono disponibili la famiglia che punta sui consumi avrà naturalmente un te-nore di vita più brillante, ma se mai le banche smettessero di prestare, o addi-rittura chiedessero il rimborso, quella famiglia si troverà in difficoltà. Magaridirà al capofamiglia spendaccione di farsi da parte, anche per rassicurare i cre-ditori, e dovrà non solo tagliare le spese cui era abituata, ma anche trovare al-l’interno degli stipendi che porta a casa il modo di risparmiare quanto serve arientrare gradualmente dal debito. Certamente il vecchio capofamiglia avràbuona ragione a far notare come si stava meglio quando comandava lui, e qual-che amico suggerirà che forse si potrà trovare qualcuno disposto a prestare an-cora qualche soldo per nuove spese che tirino un po’ su il morale.

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Parte terza

Questa famiglia ha però raggiunto un livello di debito tale da pregiudicaregravemente il suo tenore di vita. Ma quel che è peggio è che se si presentasseuna buona opportunità, come ad esempio una buona occasione imprenditorialesu cui investire, o una figlia brillante ammessa a una prestigiosa università,cioè opportunità di spesa che davvero nel tempo assicurano la crescita, nonpotrà più permettersele. Rinuncerà a un’attività redditizia, e la figlia dovrà cer-care un lavoro invece di studiare.

Esiste insomma un livello di debito (associato a un livello di fiducia) oltreil quale l’accesso al credito si esaurisce, e dunque anche quel tipo di spesa chepotrebbe forse ridare slancio all’economia non è più attivabile: questo è veroper le famiglie, per le aziende e per le nazioni. Secondo alcuni tale situazioneera stata raggiunta dall’Italia alla fine del 2011, secondo altri vi era, o vi è ora,ancora spazio per spesa pubblica che riattivi la crescita più presto e con menosacrifici. Quale che sia il punto in cui si trova il nostro Paese non vi è dubbioche in Italia troppa spesa pubblica a debito dagli anni Settanta, e forse da prima,è stata consumata per cose effimere o dannose, e che il peso di tale spesa ha get-tato in depressione la nostra famiglia nazionale. Se ci resta qualche cartuccia,come cittadini e come elettori, vigiliamo perché sia spesa bene e da personedegne di fiducia. Confindustria ha proposto ai partiti e ai capi politici, attraversoun proprio Manifesto, un percorso che aspira a contemperare risanamento ecrescita, l’attuale campagna elettorale ce ne propone diversi altri. La scelta,mai come ora, è in mano a noi cittadini: prego tutti gli elettori del nostro terri-torio di riflettere su questi temi e di far sentire la propria voce, andando a vo-tare domenica e lunedì.

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10.

Illusione e cambiamento (28 febbraio 2013, articolo su «Corriere Romagna»)

Il risultato elettorale delle elezioni del 24 febbraio ci presenta un quadropolitico in parte nuovo e con rischi di ingovernabilità. Nell’assumere l’incaricodi presidente di Confindustria Ravenna nel 2011 dissi che le istituzioni le scel-gono liberamente i cittadini col voto e noi dobbiamo dialogare e rispettare chiamministra la cosa pubblica con tale legittimazione. Ciò non ci impedisce peròdi esprimere consigli, critiche e preoccupazioni.

Una parte significativa delle forze politiche entrate in Parlamento ha ba-sato la propria campagna sul messaggio che i nostri problemi non dipendonoda noi e non richiedono nostri sforzi per risolverli, ma che sono il frutto di unoo più nemici, di macchinazioni e di complotti. Ci hanno detto che non siamostati noi e i nostri padri a riempirci di debiti, sono i creditori cattivi che non ca-piscono nulla. Le multinazionali, le banche, la signora Merkel, gli speculatori,tutti in qualche modo sarebbero dietro alle nostre difficoltà. È questo un modomolto suggestivo di affrontare i problemi, e anche molto consolante, infattinon bisogna faticare, ma semplicemente smascherare, e talvolta annientare,chi complotta contro di noi e, dopo tutto, andrà bene. Tutti noi conosciamo al-meno qualcuno a cui tutto va storto e che dà sempre la colpa agli altri. Perquanto possa essere sfortunato guardiamo con un po’ di fastidio a persone così,perché ognuno di noi, anche nelle difficoltà, ha pur sempre un grado di libertàper reagire. Chi dà la colpa solo agli altri rinnega questa libertà. È proprio que-sto il lato triste delle teorie complottiste: chi le sposa si è già privato della fi-ducia nella propria libertà, non crede più nella responsabilità individuale, e nelcorso della storia quasi sempre coloro che hanno spiegato la realtà coi complottihanno poi finito per limitare o togliere la libertà anche agli altri.

Dobbiamo dunque temere per le nostre conquiste, sia materiali sia di li-bertà, a causa del diffondersi dell’illusione che i problemi vanno via parlandodi complotti, invece che affrontandoli con fatica? Forse no, perché insieme alpartito dell’illusione entra in Parlamento una grande, nuova voglia di cambia-mento. Se dunque consideriamo gli eletti secondo l’asse della speranza di cam-biamento e non solo secondo quello dell’illusione, che pure è un frontecospicuo, probabilmente vi è una maggioranza mobile che può lavorare perun concreto ammodernamento del nostro sistema politico.

Chi formerà il Governo dovrebbe dunque proporre azioni politiche che sot-tolineino questa volontà e galvanizzino i modernizzatori, senza impaurire i mo-

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Parte terza

derati, che sono necessari culturalmente prima che politicamente a chi vuole in-novare. Abbiamo un Parlamento molto ringiovanito, e con un maggiore equi-librio tra uomini e donne. La scelta del prossimo Presidente della Repubblicapotrebbe sorprenderci e garantirci competenze istituzionali, sensibilità alla giu-stizia e ai diritti umani, relazioni internazionali che preservino l’immagine del-l’Italia all’estero. Abbiamo più di una donna con queste caratteristiche emaggioranze in grado di eleggerle. Nello scegliere i ministri si potranno indi-viduare persone con forti competenze specifiche e capacità di comando, cuiaffidare un mandato politico semplice e verificabile. Tutti avvertiamo la ne-cessità di un’efficace riforma della giustizia: vi sono certamente esperti e exmagistrati competenti, rispettati, con senso dello Stato, che potrebbero fornireal Paese la riforma condivisa di cui ha bisogno. Ugualmente per riformare lapubblica amministrazione, per semplificare il fisco, per migliorare il mercatodel lavoro. Il prossimo capo del Governo potrebbe riflettere sull’opportunità distupirci con volti nuovi, storie personali edificanti, competenze solide.

Insomma un esito politico che contiene a mio avviso i germi dell’autodi-struzione per illusionismo, e che preoccupa molte imprese e cittadini, ci offreanche una residua possibilità di cambiare in meglio. Se vi sarà la capacità discegliere ministri e cariche istituzionali senza inchini a chi già è dentro allapolitica, ma cercando anche fuori le molte capacità che ha il Paese, c’è unasperanza che si possa catalizzare la voglia di cambiamento presente in varia mi-sura in molti partiti, e trasformarla in risultati positivi, rinnovato senso di re-sponsabilità di ciascuno, e ritorno della fiducia.

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IV.

Lavoro e virtù borghesi

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1.

Mercato del lavoro, riforma urgente (27 febbraio 2012, articolo su «Il Resto del Carlino»)

Da qualche anno è diffusa tra le parti sociali e tra il pubblico in generale lapercezione che il funzionamento del nostro mercato del lavoro vadaprofondamente rivisto e riformato. La dura crisi economica e finanziaria cheha colpito tutto il mondo, e con particolare severità l’Italia, ha poi rinforzato lapercezione che uno dei passaggi fondamentali del nostro riscatto passi ancheda un ripensamento complessivo delle regole su cui si fonda il rapporto traaziende e lavoratori. Di questo siamo coscienti tutti, e sindacati e aziende hannofatto alcuni importanti passi avanti su questo tema, con spirito generalmentecostruttivo, e questo fa ben sperare per il molto lavoro ancora necessario. IlGoverno si sta a sua volta giustamente facendo carico di accelerare un processodi riforma che porti a maggiore flessibilità del mercato, riordini il numeroeccessivo di contratti oggi disponibili, ripristini l’equità tra generazioni efavorisca il processo di investimento e crescita aziendale che genera maggiorie più qualificate opportunità di lavoro. Le statistiche mostrano che la produttivitàdel lavoro in Italia negli ultimi dieci anni ha maturato una distanza abissale conla produttività del lavoro in Germania, dove coraggiose riforme del mercato dellavoro sono state intraprese da tempo. Il nostro Paese ha però compensato questadistanza avvalendosi sempre di più degli strumenti di flessibilità consentiti dallanostra normativa (contratti a termine, varie forme di lavoro precario,collaborazioni ecc.). Questo ha tenuto in vita il sistema produttivo, maampliando sempre più il divario tra sicuri e precari, giovani e vecchi, tra chi haun lavoro intoccabile e chi non ha nessuna certezza, un po’ in analogia conquanto è successo con il sistema pensionistico. Questo divario, che ha ancheconseguenze sociali e incide sulle speranze, l’autostima e i progetti di vita diun’intera generazione, è divenuto talmente macroscopico e incisivo da nonessere più sostenibile: garantire ogni tutela a una parte dei lavoratori sempre dipiù significa privare di ogni speranza un’altra parte. È a questo scenario che lariforma del mercato del lavoro deve mettere mano al più presto, auspicabilmentecon la condivisione delle parti sociali, ma con la coscienza che la sua importanzaper il Paese va oltre la capacità di rappresentanza e gli interessi di sindacati eConfindustria e dunque va perseguita con impegno e buona volontà, senza darea nessuno poteri di veto sulla materia. Nelle discussioni sulla riforma ha moltopeso il tema dell’articolo 18, cioè di quella norma dello Statuto dei Lavoratoriche garantisce il reintegro in azienda del lavoratore ad opera del giudice del

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Parte quarta

lavoro che giudichi privo di giusta causa il licenziamento. Questa norma nonè l’elemento centrale della riforma e molti suggeriscono di non affrontare dipetto questo tema. Infatti, per diverse ragioni, esso è diventato un po’ unabandiera sia dei sindacati, che su altri argomenti hanno dimostrato apertura evolontà di dialogo, sia delle imprese, che nella loro esperienza vedononell’articolo 18 il simbolo ultimo della rigidità del mercato del lavoro, sia deglistessi mercati e investitori stranieri, che vedono in questa forma di tutelagiuridica (contrapposta alla tutela economica presente negli altri Paesi) unodei segnali di un’Italia che non vuole mai cambiare. I sindacati ricordano chel’articolo 18 è il baluardo contro la discriminazione e gli abusi, le impreseelencano casi incredibili di reintegro, magari dopo anni, di persone che loropure hanno abusato di regole e di giurisprudenza prevalentemente favorevoleal lavoratore. Non esiste un articolo 18 delle relazioni personali, in base alquale il giudice possa ad esempio ordinare il reintegro di un’amicizia, perchési reputa che le relazioni personali siano libere e ci si debba guadagnare ognigiorno la stima o la simpatia degli altri. Forse alle imprese piacerebbe che cifosse un articolo 18 per i clienti, in base al quale un cliente sia obbligato afornirsi per sempre da noi, a meno che non possa dimostrare una giusta causa,ma per fortuna questa norma non esiste, perché farebbe scadere la qualità diprodotti e servizi, trasformerebbe l’impresa in rendita, e disincentiverebbel’innovazione e la concorrenza. Eppure nel mondo del lavoro questa regolac’è, e partendo dalle migliori intenzioni, in particolare quella a tutela dallediscriminazioni, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è piano pianodiventato il simbolo di un sistema che ha generato una categoria di lavoratorimolto tutelati, accanto ad una di persone con poca o nessuna tutela. Èfondamentale che tutti i componenti di un’azienda condividano gli stessiobbiettivi e lavorino insieme per raggiungerli. Le aziende hanno successo se lepersone che vi lavorano sono capaci e motivate e hanno ogni interesse avalorizzare le qualità dei dipendenti e non a licenziarli, ma come in ognicomunità hanno anche bisogno di separarsi, magari a un costo, dalle personeche a torto o a ragione non si integrano nell’ambiente di lavoro. Un maggioreequilibrio tra precariato e lavoro stabile passa dunque anche da una maggiorecertezza sulla possibilità di porre fine ad un rapporto di lavoro che non funzionae sul relativo costo, in un contesto in cui chi lavora seriamente e si mantiene aun buon livello di competenza ha sempre opportunità. Per questi motivi sperovivamente che la riforma del mercato proceda rapidamente e credo siaineludibile che al suo interno si trovino strumenti per affrontare in modoequilibrato anche il tema dei licenziamenti, restringendo le tutele a quellipuramente discriminatori. Ciò a mio parere non porterà squilibrio tra lavoro eimpresa e ridarà gradualmente maggiore equità e speranze ai giovani e aiprecari.

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2.

L’etica del lavoro(15 marzo 2013, abbazia S. Maria del Monte, Cesena)

Per affrontare la questione ritengo sia utile provare ad adottare un metodoinsolito, e cioè riflettere che nella storia l’etica del lavoro è stata vistaessenzialmente sotto due angolature: quella della cultura signorile, e quelladella cultura borghese. Nello svolgere questa breve relazione mi ispireròliberamente al lavoro di un grande economista italiano, Sergio Ricossa, che hadedicato a questo argomento molte pagine interessanti.

Possiamo cominciare letteralmente da Adamo ed Eva. Ricordiamo comedopo la creazione essi vivevano nel giardino dell’Eden, dove non occorrevalavorare, e la loro storia si snoda in un modo che tutti crediamo di conoscere, mache in realtà è complesso. Dio infatti mette al centro del giardino i due alberi piùspeciali e meravigliosi, quello della conoscenza del bene e del male e quello dellavita, e ne parla all’uomo accendendo e orientando la sua curiosità. La primacoppia, che ancora non sa distinguere il bene dal male, ne assaggia, prendecoscienza di sé, ed esce dal giardino per affrontare il mondo così come noi loconosciamo, col suo ingegno e la sua fatica. Fu una punizione o una promozione?Non vi è dubbio che lavorare sia duro e logorante, che procuri rischi e delusioni,e in questo senso esso è certamente punizione. Ma dà anche soddisfazione,seleziona il merito dall’apparenza, esalta le qualità migliori dell’uomo come lacondivisione, la progettualità, la lealtà, la fiducia e naturalmente la morale: inqualche modo misterioso c’è più etica laddove vi è fatica.

Eppure nel lento e non sempre lineare cammino dell’uomo il lavoro è statoassai spesso visto con forte negatività. Nell’antica Grecia, la libertà eracollegata all’affrancamento dalla fatica del lavoro manuale di servi e schiavi.Platone e Aristotele sostengono il primato della contemplazione, affermandoil bisogno di ozio per sviluppare le virtù e le attività politiche. Esiodo, unicoscrittore greco a esaltare l’importanza del lavoro, in particolare agricolo, lovede pur sempre come una pena data agli uomini per le loro colpe, benché siaal tempo stesso strumento di riscatto ed elevazione dalle loro miserie. Anchea Roma non era nobile lavorare: il termine otium possiede un’accezionepositiva, mentre il negotium, l’attività (soprattutto se commerciale) ne era lanegazione, delegata a schiavi o liberti. Si teorizzava che il Vero, il Bello o ilGiusto fossero in un conflitto ineludibile con l’Utile. Il pensiero religioso ha poirafforzato a lungo l’idea che la necessità economica, nascendo come infamantesegno di un difetto di origine, fosse il più vistoso sintomo della condizione

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Parte quarta

degradata dell’uomo. Una vita nobile era una vita in cui ci si poteva in qualchemodo astrarre dal giogo dell’economia, possibilmente coltivando la noncuranzacontabile, e la prodigalità, anche a debito. Nei testi dell’antichità non si trovapraticamente traccia della riflessione che la ricchezza di una città potessederivare dalla presenza di una manifattura, dallo sviluppo di una nuova tecnica,dalla costruzione di una infrastruttura utile ai commerci o alla produzione. Pergran parte della nostra storia è parso agli uomini di valore che la ricchezzaderivasse principalmente dalla guerra e dalla terra.

Questa preminenza dell’ideale signorile, permise dunque di sviluppare e diconsolidare filosofie che comprimessero l’esuberanza e le aspirazioni dei cetiproduttivi. Aristotele riconosce il diritto a tutti i cittadini a partecipare algoverno della polis, ma si affretta a dire che chi commercia non può averecittadinanza. Il Medioevo condanna la cupiditas, Dante irride gli arricchiti, «lagente nova e i sùbiti guadagni» (Inferno XVI, 73). La società ha un suo ordinegerarchico, fatto di oratores, bellatores e laboratores: sacerdoti, filosofi eguerrieri dominano la società signorile, al cui servizio vi sono i miserabili cheproducono. Il commercio per la cultura signorile è un gioco a somma nulla,dove se qualcuno guadagna, certamente sta derubando qualcun altro. Laricchezza era strumento di liberalità e beneficienza e affrancava dal lavoro, madoveva essere ereditata o conquistata, acquisita con onore e spesa con onore.Potrà apparirvi paradossale, ma studiosi dell’economia come Marx e in qualchemodo anche Keynes hanno continuato a vedere il lavoro attraverso la lentedella cultura signorile, aspirando, grazie al progresso tecnico, allapianificazione e ad altre riflessioni, a liberare gli uomini dalla maledizione dellavoro. Marx vedeva nel commercio un agente disgregatore della società, cosìcome lo vedeva Platone. Per Marx l’economia può e deve finire al più presto,dobbiamo essere liberati da essa. La cultura signorile aveva vieppiù affievolitoil valore della proprietà, mentre l’emergere della cultura borghese fece ognisforzo per ristabilirlo. La libertà borghese è libertà nell’economia, quellasignorile è libertà dall’economia.

Vediamo dunque che nel pensiero signorile, nelle sue declinazioni antichee moderne, il lavoro è una condanna, e in varie forme esso aspira al ritornoalla supposta perfezione antica, che affranchi l’uomo dalla schiavitù del lavoroe dell’economia. Poco importa se tale liberazione avverrà forse attraverso unlivellamento in basso: Rousseau amava dire che senza lussi non vi sarebbenemmeno più stata la povertà. La libertà dall’economia potrà avvenireattraverso varie strade, salvifiche, rivoluzionarie, utopiche, ma mai colsemplice, rozzo, volgare, laborioso progredire dell’ingegno. La libertàdall’economia richiede infine paradossalmente che il tempo cessi di averevalore, cioè che in qualche modo sia fisicamente sconfitta la morte, ad esempiodistogliendo l’attenzione dall’individuo e focalizzandola sullo Stato o lacollettività che non muoiono. Essa richiede anche che il rischio sia eliminato,in genere attraverso la pianificazione e il livellamento.

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Lavoro e virtù borghesi

La cultura borghese invece valorizza il lavoro, cerca l’innovazione, edunque l’instabilità, che sperabilmente porti a un miglioramento. Attribuiscerilievo al tempo e al rischio, allo scambio, alla proprietà, all’autonomia degliindividui ed alla loro libertà come singoli. La presenza di questi valori nellesocietà umane è probabilmente sempre esistita, talvolta come tenueelaborazione di idee soccombenti alla realtà, talvolta con più forza, esse si sonoconsolidate in secoli e secoli di storia e di elaborazione culturale. Per chi credealla Provvidenza vi è ragione di vedere nel lento affermarsi di questi valori unlungo e misterioso disegno.

È bello dire queste parole in questa sala benedettina, perché Benedetto daNorcia è stato tra i primi nel mondo della fede a riorientare il ragionamento infavore del labor, inteso anche come fatica fisica e manuale (ora et labora).Nel Rinascimento pensatori e filosofi riflettono più positivamente sulla faticaumana, sul risparmio e sulla misurazione del tempo, ponendo le basi per losviluppo della moderna etica del lavoro. Quando l’attenzione si spostadall’economia agraria a quella mercantile, nel Seicento, e si diffondono leprime industrie un secolo dopo, nasce la moderna economia politica, incentratasui prezzi, sulla divisione del lavoro, sul rapporto tra domanda e offerta,sull’interdipendenza tra fattori sociali ed economici. Mi rendo conto che lachiave di analisi del lavoro che propongo oggi, vista attraverso la dicotomia tracultura signorile e cultura borghese, non è inattaccabile. Ma spero che offra unmodo non usuale per riflettere su come il lavoro abbia acquisito prestigio nelcorso della storia per l’emergere di un sistema di valori e di idee che lo poneal centro della vita umana. Ne fa qualcosa che ci completa, e non che cicondanna. È questo percorso, che non tutti i popoli hanno fatto ugualmente, checi permette di mettere nella nostra Costituzione la frase che la RepubblicaItaliana è fondata sul lavoro. Essa fu molto voluta anche da costituenti diformazione marxista, ma quella frase mette al centro la libera industriositàumana e non il piano quinquennale. Come mi ha insegnato un autorevolegiudice del nostro territorio, quella frase parla di me come cittadino in qualchemodo operoso, ma anche come imprenditore, che lavorando crea lavoro, ecome borghese, cioè come colui che al lavoro ha sempre riconosciuto dignità.

Queste cose bisogna dirsele e discuterne, perché non sono scontate, masono il frutto di un continuo sforzo, anche culturale. Una società che riconosceil valore del lavoro, che premia il merito, che attraverso la legalità assicura cheil frutto delle fatiche di ciascuno non possa essere espropriato, si regge su unsistema morale sul quale non dobbiamo cessare di riflettere, perché esso puòsempre essere rapidamente smontato. In un momento delicatissimo e incerto,di profondo cambiamento non solo economico ma anche politico (oggi avvienela prima seduta del nuovo Parlamento) e religioso come quello che sta vivendoil Paese, credo sia importante trovare conforto nella natura del proprio lavoro,che per noi imprenditori si realizza nell’amore per ciò che si fa, nell’umiltà dicontinuare a imparare, nell’ascolto di chi lavora con noi (sia collaboratori che

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Parte quarta

clienti), nella soddisfazione di costruire qualcosa di proprio e di trasformareun’idea in realtà, trasmettendo questi valori ai colleghi e alla comunità, facendoun prodotto curato o rendendo un servizio apprezzato e utile. Dunque tornandoalla domanda iniziale, la vicenda che comincia con Adamo ed Eva fupremiazione o punizione? Forse entrambe. Il faticoso e doloroso camminodell’uomo nella storia trova in quel mito antico uno sprone a migliorarsi el’unico strumento per farlo bene: il lavoro.

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3.

Il lavoro da difendere (1 maggio 2013, articolo su «Corriere Romagna»)

Le elezioni di febbraio hanno dato al Paese un parlamento più giovane, conpiù donne e con il potenziale di portare alla società il cambiamento che a granvoce cittadini e categorie richiedono. Da pochi giorni abbiamo anche ungoverno che presenta molte novità e desta speranze. Esso è il risultato di unonesto sforzo di cercare nel Parlamento un’aggregazione di forze disponibili agarantire scelte coraggiose in ogni campo della nostra vita sociale. Questescelte sono state talmente dibattute e analizzate nei mesi e negli anni scorsi, cheresta poco da scoprire su di esse se non trovare il coraggio di attuarle. Al di làdelle etichette e del dispiacere per il tempo che è stato necessario a formare ungoverno, credo che si debba riconoscere alle forze politiche e alle personalitàcoinvolte l’attenuante della difficoltà della situazione parlamentare.

Pierluigi Bersani è partito dalla constatazione della litigiosità e incoerenzadella coalizione che ha sostenuto il governo tecnico del prof. Mario Monti nelladifficile sfida dell’emergenza. Avrà certo riflettuto su come l’unità di intenti diquella coalizione si è sgretolata non appena l’emergenza più drammatica è statascongiurata. Ha dunque cercato le energie del cambiamento, con i necessaricompromessi reciproci, tra le altre forze in campo. Questo disegno è peròrisultato inattuabile, e si è intrecciato confusamente con la difficile scelta delnuovo Presidente della Repubblica.

Ci pare però che queste difficoltà abbiano fatto maturare la possibilità di unanuova maggioranza parlamentare che pur aggregando partiti finora fieramentecontrapposti come PD e PDL, abbia la caratteristica azzeccata di radunarepersone nuove, che forse avranno appreso dalla litigiosità dei loro predecessoria operare più concretamente per il bene comune. Se era assai incerta la tenutadi un governo con Renato Brunetta e Cesare Damiano nella stessa stanza, èinvece lecito sperare che il governo che Enrico Letta ha appena costituito possadare cambiamento e speranza al Paese. Vi è insomma la possibilità che pur inmodi imprevisti e tortuosi si vada formando in Parlamento una maggioranzache condivide obiettivi di riforma della nostra società e competenze per attuarlie aggregare forse altre forze lungo il cammino.

L’insofferenza verso la casta e il desiderio di ripristinare la centralità di impresae lavoro stanno d’altronde aprendo impreviste opportunità di collaborazione anchenella società civile. Oggi 1° maggio in alcune manifestazioni nella nostra regionesono presenti esponenti di Confindustria, e in generale la volontà di imprese e

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Parte quarta

lavoratori di affrontare insieme l’emergenza si manifesta in molte sedi e ciò èbene. Ma quale casta dobbiamo combattere, e quale lavoro e impresasostenere? Qui è necessario uno sforzo di onestà intellettuale di tutti i cittadini,perché la casta è ovunque, tra i politici che abusano dei rimborsi elettorali,nella pubblica amministrazione causidica e immensa, tra i baby pensionatidegli anni Ottanta, tra gli imprenditori che vivono di sussidi e chiedonoefficienza in pubblico e fondi pubblici in privato, nel mondo del lavoro, nellafinanza, nell’accademia, tra i furbi piccoli e grandi, perfino nelle associazionie nei sindacati, che godono di privilegi da ridiscutere. Il lavoro da sostenere èquello produttivo, perché è solo su quello che si costruisce ricchezza ebenessere per le generazioni future, mentre occorre il coraggio di trovaresoluzioni sociali diverse dal tenere artificialmente in vita aziende senzasperanze. Il caso emblematico del Sulcis che tutti paghiamo dovrebbeinsegnarci qualcosa. Facciamo voto che il nuovo Governo abbracci con forzale istanze di innovazione che vengono da tutti noi, comunichi bene le sue sceltee i suoi motivi, e abbia il coraggio di vincere le mille barriere e veti che proprionoi cittadini, forse involontariamente, metteremo sul suo cammino.

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4.

Fabbrica di carta8 novembre 2013, ciclo di incontri “Il fronte del lavoro”

Come sapete sia Confindustria sia i sindacati sono attenti al ruolo dellafabbrica. Confindustria ha proposto tra gli obiettivi del suo manifesto diriportare la manifattura dal 17% al 20% del PIL nazionale. I sindacati sonosempre più attenti non solo alla tutela dei lavoratori in senso tradizionale, maintrepretano tale ruolo in senso più ampio guardando alle scelte che rafforzanoil tessuto industriale.

Restano ovviamente contrapposizioni (oggi hanno scioperato anche aRavenna i lavoratori del porto), ma riemerge una verità antica, e cioè che ilgrande confine tra gli esseri umani non è l’ideologia di destra o di sinistra, ilcarattere mite o aggressivo, la posizione sociale, bensì tra chi si impegna e chino. Tra chi fatica, studia, cerca soluzioni concrete e chi dà fiato alla voce. Trapersone laboriose ci si intende sempre, e si trovano soluzioni.

Vi abbiamo voluto proporre questo libro anche perché la fabbrica, glistabilimenti, gli uffici, le linee di produzione, vengono presentati non solo comeluogo di lavoro, ma come scenario di vita quotidiana – a volte amati a volteodiati, ma mai vissuti con indifferenza – su cui si intrecciano speranze, illusioni,litigi e amori di operai, imprenditori, impiegati, familiari.

Insieme alla fabbrica – e attraverso la fabbrica – il libro è una raccolta ditesti su un altro tema estremamente attuale e che coinvolge ogni giorno il nostrolavoro: il cambiamento. In 250 pagine si dipanano 80 anni di storia, dagli anniTrenta ad oggi. Alcuni sono autori che abbiamo studiato sui libri di scuola,come Vittorini, altri sono autori che possiamo acquistare oggi in libreria, comela Avallone, o scrivono di notizie di cui ancora leggiamo sulla stampa, comeper esempio la situazione di Taranto. Nella maggior parte degli scritti, il motoreche muove la narrazione è la necessità di descrivere e spiegare come vieneaccolto e vissuto un cambiamento: la guerra, il boom economico, le lotteoperaie, la crisi. Oppure – nelle vite private – lo spostamento in una grandecittà, la vita nei quartieri, la vita di coppia scandita dai ritmi dei turni.

Cosa tiene insieme modi di scrivere completamente diversi, e occhi chehanno osservato panorami industriali e storici separati da distanze epocali? Lapassione per il lavoro. Spesso, come nell’episodio del calzolaio di Vigevano,emerge la voglia «di diventare padroni», di costruire qualcosa di proprio dopola gavetta. È la soddisfazione di trasformare un’idea in realtà, creando unprodotto ben fatto, apprezzato e utile, che è viva ancora oggi, come dimostrano

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Parte quarta

recenti fatti di cronaca anche nella nostra città1. Leggiamo poi nelle paginedel libro della vitalità della crescita, di mondi dove il lavoro si trovava inpoche ore, dove le fabbriche sorgevano una dopo l’altra. Vi è la tensioneideale, la lotta per la dignità, la sicurezza sul lavoro, gli scontri. E infine ildeclino della fabbrica, la malinconia che le chiusure ingenerano, anche inchi ha combattuto contro la fabbrica.

Vi sono a mio avviso tra le righe i tanti errori, commessi dagli imprenditorie dai sindacati e si avverte che spesso questi errori avvenivano per una culturaindustriale modesta o assente. E questo ci richiama un tema che abbiamotoccato molte volte: la cultura è importante, non solo per lo spirito, ma perchéessa è la scienza della convivenza e dello sviluppo delle idee. Così in questoperiodo di difficoltà è di visioni un po’ dimesse, vogliamo cercare dirispolverare e trasmettervi con queste iniziative sia lo spirito della crescita, siala risorsa della conoscenza, perché anche il cambiamento che stiamoaffrontando oggi possa un giorno rientrare in un’antologia, raccontato con unesito positivo.

1 Nel dicembre 2013 alcuni dipendenti dell’azienda Pansac, in amministrazione straordinariaper crisi, hanno dato vita alla cooperativa Raviplast che ha acquistato l’azienda stessa, salvandoladal fallimento.

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V.

Credito e finanza

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1.

Il Vecchio Continente ha un futuro?(8 maggio 2012, convegno con l’economista americano Tyler Cowen)

Gli economisti non europei hanno spesso una visione assai diversa dallanostra sulle dinamiche economiche europee e sul funzionamento dell’Euro,spesso si tratta di una visione più pessimistica.

Eppure l’Europa nel suo complesso ha un debito pubblico inferiore a quellodegli Stai Uniti, e un deficit largamente più basso. Esiste una minore flessibilitàdei mercati, ma vi è pur sempre un livello di innovazione diffusa, dicompetenze tecniche e di conoscenza, che si forma in decenni o meglio insecoli, specie se consideriamo questo patrimonio di conoscenze nel suonecessario abbinamento con le consuetudini di affidabilità della legge edell’amministrazione, che comunque in Europa, e anche in Italia pur con inostri limiti, esistono e sono sperimentati.

Ogni giorno si presentano elementi nuovi da analizzare e comprendere. Leelezioni francesi di domenica scorsa, e forse ancora di più quelle greche, apronoscenari nuovi, che sono in generale scenari di crescente scetticismo o ostilitàal progetto europeo. Tuttavia, la maggioranza degli analisti finanziari europeiritiene tuttora che i costi di una crisi dell’euro sarebbero assai più elevati per icittadini e le imprese di qualunque soluzione che ne preservi l’esistenza, né èchiaro se un’uscita dall’Euro porti alcun vantaggio. Gli stessi Stati Uniti hannoconosciuto situazioni di grande divario di sviluppo e produttività tra stati, e dicrisi finanziaria di alcuni stati (basti pensare di recente alla California), senzache nessuno abbia ipotizzato il collasso del dollaro o l’uscita dall’Unione deglistati americani in difficoltà.

Cos’è dunque così diverso in Europa, e perché il risparmio internazionalesi fida poco di noi? Quali sono le grandi tendenze che caratterizzano imutamenti economici della nostra epoca? Lo scarso rigore e la cattiva qualitàdella spesa pubblica degli ultimi decenni ci hanno portati alla crisi attuale, maora per uscirne come si può sposare rigore nella spesa (per non continuare congli errori già così ben sperimentati in passato) e scelte che favoriscano lacrescita?

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2.

Euro, Europa, Italia: crescita o declino? (11 aprile 2013, convegno con Carlo Jean e Geminello Alvi)

L’anno scorso nell’ambito di Ravenna 2030 abbiamo sentito il noto economistaTyler Cowen spiegare perché la Grecia sarebbe uscita dall’euro entro il 2012 e leprobabilità che l’Italia seguisse a ruota. Anche se ciò non si è per ora realizzato,permangono molte incertezze, e ascoltiamo ogni giorno numerose idee su comesbloccare la situazione e ritrovare la strada della crescita. Tra queste, alcunepropongono l’abbandono della moneta unica, sostenendo che in questo modo siriacquisirebbe la sovranità monetaria e si restituirebbe maggiore libertà dimovimento alla politica finanziaria di un paese, altre suggeriscono unaconsultazione popolare sull’opportunità o meno che l’Italia resti nell’euro. Credosia utile tenere separate le due proposte: sul referendum, un recente sondaggio(ISPO, marzo 2013 – risultati pubblicati sul «Corriere della Sera» a firma di R.Mannheimer) ha evidenziato che il 70% degli elettori non ritiene opportuna questainiziativa. Il vero tema è capire se stiamo meglio con la moneta che è già incircolazione. La moneta è già stata unica per gran parte della storia dell’umanità:dietro ai diversi coni vi era infatti l’oro, ed il privilegio della stabilità monetariaera accessibile solo a un gruppo ristretto di persone. La diffusione di monete solideed affidabili come il dollaro, lo yen e l’euro hanno allargato questo privilegio a unaplatea molto più ampia. In un mondo in cui ci sono aziende capitalizzate ai livellidi Apple, Exxon o Google, che dispongono di liquidità superiori ai PIL di piccolipaesi, e superiori alle ultime manovre che i governi del Sud Europa sono staticostretti ad effettuare per non allontanarsi troppo dai parametri di Maastricht, avereuna moneta nazionale esporrebbe interi paesi a enormi rischi. L’esasperazione acui portano molti anni consecutivi di crisi, e la conseguente insistenza con cui sicercano soluzioni, sono comprensibili. Ma è discutibile dare l’illusione cheabbandonando l’euro svaniranno tutti i nostri problemi. Non è la svalutazione checi potrà dare alcun aiuto, e l’euro ci ha permesso di passare da tassi ben oltre il 12%ancora negli anni Novanta a tassi forse in alcuni momenti fin troppo bassi. Non ètornando alla lira, al fiorino o al tallero che scompariranno le debolezze dellanostra economia. L’euro è in circolazione da dieci anni, e il sistema sta mostrandopunti deboli e ha bisogno di essere ricalibrato: ben venga dunque il dibattito sullivello dell’integrazione europea, fiscale, monetaria e bancaria, ma senzadimenticare quello che di buono l’euro ci ha dato, e il sostegno che potrà darci neldispiegarsi della crisi e nel gestire le tensioni sociali e politiche che ancorapotranno aprirsi davanti a noi.

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3.

L’intelligenza del denaro (17 aprile 2013, presentazione del libro di Alberto Mingardi,

con l’autore e Angelo Panebianco)

Una riflessione diffusa sostiene che il male è più forte del bene, perché performare un individuo buono e competente occorrono anni di studio eeducazione, cui molte persone dedicano sforzi e passione, mentre undelinquente armato, o un automobilista ubriaco possono distruggere in pochiattimi il paziente lavoro che il bene ha impiegato una vita a formare.

Per quanto suggestiva, questa riflessione non spiega perché l’uomo non sisia estinto pochi decenni dopo la sua comparsa sulla faccia terra, e anzi abbiacostruito una società dove migliaia o milioni di persone vivono pacificamentein paesi e città, con conquiste di civiltà e benessere che non sempre procedonolinearmente, ma che sono ben comprese da tutti noi. Esistono evidentementeforze che neutralizzano la facilità di fare il male, spingendo gli esseri umani ariconoscere modi di perseguire il loro interesse cooperando tra loro erafforzando i meccanismi di convivenza più virtuosa. Si può ravvedere in ciòun segno della forza del bene, una dimostrazione della potenza e solidità delpatrimonio culturale che ci arricchisce di esperienze secolari, ma ancheindubbiamente una prova della potenza della libera interazione degli uomini,che trasmette informazioni, seleziona il merito, si serve dell’errore comestrumento di avanzamento.

Questa libera interazione è il mercato, componente essenziale dello sviluppoumano, sia materiale che morale. In un momento di profonde inquietudini e didifficoltà economiche e sociali, sul piano locale e nazionale, sentiamo spessoche il capitalismo, il funzionamento del mercato e la libera concorrenzavengono criticati e messi in discussione, da parte di chi obietta che questielementi generino materialismo e vizi, più che valori. Abbiamo ritenuto dunqueutile e interessante proporvi voci in difesa del mercato in cui le nostre aziendeoperano quotidianamente, e che finora ci pare l’unico sistema alla lungaoggettivo e onesto di allocazione delle risorse – siano esse economiche oumane – l’unico spazio in grado di garantire il libero concorso delle intelligenzee la costruzione delle idee e dei progetti più meritevoli, da cui si generano poibenessere e libertà per tutta la collettività.

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4.

L’insostenibile potere delle regole (13 novembre 2015, convegno “Europa a rischio shutdown?”

con Andrea Montanino, FMI, e Michele Boldrin)

Il tema di oggi riguarda, ben oltre le apparenze, la cultura della convivenzaperché ci obbliga a chiederci qual è il confine tra pubblico e privato: di qualibisogni deve occuparsi lo Stato e la politica e di quali l’iniziativa privata? Ilcosiddetto shutdown negli Stati Uniti1 è il risultato della Costituzione americanache ha affidato al Congresso i cordoni della borsa, e il Congresso fissa i limitidi indebitamento che il Governo può raggiungere. Passati tali limiti i Governopuò essere costretto a chiudere alcune sue attività.

Il dibattito sullo shutdown in America non è mero folklore, ma ci segnala cheesiste una parte trasversale della popolazione, fatta da classe media e immigrati,benestanti e operai, che ritiene che lo Stato abbia occupato troppe aree dellasocietà, e che il debito non sia una bella cosa, bensì una condanna per il Paesee le generazioni future.

Questo gruppo in America ha dimostrato di avere un peso e una influenzapolitica. Esiste un parallelo in Europa? In qualche modo sì, e questo rendeparticolarmente interessante la conferenza di oggi. Da noi il desiderio di tenerelo Stato il più possibile fuori dalla nostra vita è meno marcato, e la passione peril debito pubblico e gli aiuti di Stato molto più diffusa, ma anche da noi il gruppodi cittadini europei che si interroga sui confini del pubblico e del debito è ungruppo crescente, assai più numeroso dei pochi profeti nel deserto che 30 o 40anni fa chiedevano come sarebbe mai stato ripagato il debito che si faceva allora.E in Europa non c’è un parlamento con i poteri del Congresso americano dibloccare la spesa, ma c’è un trattato, il trattato di Maastricht, che in qualchemodo impone ai Governi di fermarsi quando esagerano.

Questa regola, che innesca dei veri e propri shutdown nei paesi in difficoltà(come in Grecia o in Portogallo), è continuamente discussa e messa sottoaccusa anche da noi imprenditori, così come mettiamo sotto accusa le regoledelle banche che ci limitano l’accesso al credito, e le regole degli euro-burocrati

1 Il blocco delle attività amministrative (shutdown) è la procedura del sistema politico sta-tunitense che scatta quando il Congresso non riesce ad approvare la legge per il loro rifinanzia-mento. L'inizio dell'anno fiscale, e quindi il termine entro cui i piani di spesa vanno approvati,è il 1° ottobre: nel 2013, sotto la presidenza di Barack Obama, lo shutdown è durato fino al 17ottobre a causa di uno stallo nel dibattito sul possibile definaziamento della riforma del sistemasanitario e un possibile aumento del tetto del debito pubblico.

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che frenano il nostro ingegno. Naturalmente facciamo bene a discutere leregole, e finché abbiamo intelletto e libertà potremo migliorale e cambiarle,ma credo che oggi potremo riflettere anche su come le regole sono unostraordinario potenziatore delle nostre opportunità: pongono confini, ma primaampliano il campo di gioco. Sappiamo tutti che senza regole sui marchifaremmo fatica a sviluppare i nostri prodotti di moda o di design, senza regolesui contratti non possiamo collaborare con altre imprese, senza regole sullavoro non possiamo costruire una squadra in azienda. Vorrei attirare però lavostra attenzione su come le regole sulle banche, proprio quelle cheindividualmente ci limitano l’accesso al credito, hanno moltiplicato il credito,forse anche troppo. C’è uno studio2 che mostra che in America nel 1840 lebanche per lavorare e godere della fiducia dei depositanti, dovevano avere uncapitale di circa il 55% degli attivi, oggi hanno meno del 10% degli attiviponderati, cioè spesso molto meno del 5% degli attivi totali: com’è statapossibile questa riduzione di capitale? La risposta è semplice, hanno fattosistema e si sottopongono a regole che convincono noi depositanti che tuttosommato possiamo fidarci lo stesso. Il credito in Italia, pure in questo momentodi credit crunch, è quasi al massimo storico, con circa 1.800 miliardi di eurodi impieghi3. Insomma le regole che individualmente ci limitano, ci hanno inrealtà aperto anche molte possibilità, così tante che ora parliamo spesso dirischio sistemico, e di fragilità, perché basta poco per perdere la fiducia deirisparmiatori di tutto il mondo e trovarsi in uno shutdown involontario.

E questo ci riporta al punto di partenza: forse non tutte le regole cheabbiamo vanno bene, ma hanno espanso il nostro mondo in molte direzioni, incosì tante direzioni che abbiamo potuto indebitarci, Stati e privati, come maiin passato. E forse abbiamo un po’ esagerato, e ora dobbiamo porci di nuovouna domanda, che non è solo economica, anzi è soprattutto politica e culturale:qual è il confine tra pubblico e privato che vogliamo, e qual è quel confine checi permette di essere sereni senza rapinare le future generazioni?

2 A. BERGER. R. HERRING. G. SZEGÖ, The role of capital in financial institution, Journal ofBanking & Finance, 1995, p. 401.

3 Impieghi al netto delle imposte, al 30.08.2013 (fonte: ABI).

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5.Comunicare bene per crescere

(27 febbraio 2014)

Confindustria Ravenna da tempo lavora sulla comunicazione: abbiamoaffrontato il tema nell’ultima assemblea, concentrandoci sul ruolo della rete esull’uso degli strumenti digitali, e abbiamo voluto dedicare questoappuntamento ad un aspetto diverso, ma ugualmente fondamentale perl’impresa: la buona comunicazione come fattore competitivo che può fare ladifferenza, costituendo una leva di crescita anche, e soprattutto, in un periodocomplesso. Per questo siamo lieti oggi di entrare nel concreto con storie disuccesso, e potremo trarre spunti ed esempi utili da aziende del nostro territoriodi diversi settori e di diverse dimensioni, accomunate dall’aver fatto unascommessa vincente sulla comunicazione della propria immagine, valutandolacome un investimento anche in un momento di profonda revisione della spesa.Per quanto a volte possa essere ostico per noi imprenditori, comunicare èaltrettanto ineludibile. Comunichiamo anche quando non vogliamo, con unsilenzio, con un gesto, con uno sguardo che trasmette un determinatomessaggio a un cliente, a un collaboratore, a un fornitore. Anche se non ce neaccorgiamo, la comunicazione permea ogni momento della nostra giornata –lavorativa e non – e crediamo che sia quanto mai importante prendereconsapevolezza di ciò, e imparare a veicolare nel modo giusto le nostre energiee le tante iniziative che ogni giorno portiamo avanti in azienda. Certo non èfacile colpire l’attenzione in un mercato sommerso ogni giorno da migliaia dicomunicazioni, ma ci sono anche nuovi mezzi che possono aiutare, se utilizzatiin maniera intelligente e ragionata. Ancora una volta, come abbiamo avutomodo di ripetere in più occasioni, a fare la differenza è lo studio, la fatica e losforzo di capire il cambiamento, invece che sprecare tempo ed energie adcontrastarlo. Ogni giorno abbiamo dimostrazione di quanto i media onlinestanno cambiando la comunicazione e il nostro modo di fruirla, informando intempo reale su avvenimenti lontani (la sanguinosa repressione della rivolta aKiev4) e vicini (la formazione di un nuovo Governo). Applicato al nostro

4 Nel novembre 2013 scoppiarono proteste spontanee a Kiev dopo che il governo ucrainosospese i preparativi per la firma di un accordo di associazione e di libero scambio conl'Unione europea, a favore della ripresa di relazioni economiche più strette con la Russia. Leproteste raggiunsero l'apice a fine febbraio 2014, quando centinaia di manifestanti furono uc-cisi nella repressione della rivolta.

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lavoro, questo cambiamento può spaventarci ma può anche ispirarci, farciarrivare l’idea giusta e lo sprone decisivo per uscire da una situazionecomplicata o da un periodo dimesso. È soprattutto in queste circostanze chevogliamo cercare di rispolverare e trasmettervi con queste iniziative sia lospirito della crescita, sia la risorsa della curiosità e della conoscenza, che i nostriospiti hanno saputo bene interpretare.

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6.

Nuovi strumenti finanziari per le piccole imprese (7 aprile 2014, convegno con Alberto Baban, presidente Piccola Industria

Confindustria, Antonio Patuelli, Presidente ABI, e Andrea Beltratti)

Di credito e piccole imprese leggiamo quotidianamente indagini,dichiarazioni, confronti con gli altri Paesi. Dunque il nostro intento è di cercaredi approfondire e di cogliere le molteplici sfaccettature di una questione cheaffonda le sue radici ben prima della crisi che ha fiaccato l’economia negli ultimianni. La nostra associazione ha affrontato in varie occasioni diversi aspetti dellacultura economica, con riflessioni sulla politica monetaria, sul libero mercato,sul ruolo dello Stato e sul debito pubblico. Abbiamo istituito e poi potenziato unservizio sul credito, che aiuta le imprese associate a dialogare con le banche, maanche a fare un’analisi dei propri bilanci, e a presentare piani di impresa bencongegnati per un dialogo più costruttivo col mondo del credito. Abbiamo ancheriflettuto sui problemi di sottocapitalizzazione delle imprese e sui rimedidisponibili.

Nelle ultime settimane abbiamo letto sui giornali le esortazioni delGovernatore della Banca d’Italia Visco a imprese e sindacati a fare di più, e lerisposte rispettose, ma contrariate. Noi non siamo i giudici di quel dibattito, maanche da esso possiamo imparare qualcosa: la crisi ha imposto sforzi a moltisettori dell’economia, incluse naturalmente le imprese, ma molte aziende finorahanno fatto poco sul fronte della propria capitalizzazione. Ci sono ancoraimprese che pensano di cavalcare il vento del boom economico degli anniSessanta, che si lamentano perché le cose vanno male, ma adottano un modellofinanziario e manageriale non molto dissimile da quello che avevano 50 o 60anni fa.

Ognuno di noi deve chiedersi se assomiglia a quelle imprese e se puòmigliorare qualcosa. Anche se è spiacevole, dobbiamo chiederci se dare la colpaagli altri è davvero la soluzione di ogni problema, e anche nei confronti delsistema bancario, verso cui pure sono legittime talune critiche, dobbiamoriflettere, come abbiamo fatto in altri contesti, che le regole che ci vincolano, eche limitano il credito, sono anche una forza per tutti noi, e una opportunità pervalutare altre soluzioni di finanziamento dell’attività di impresa. Infatti le regoleda un lato restringono i margini di manovra, ma dall’altro ampliano il campo digioco. Sappiamo tutti che senza regole sui marchi faremmo fatica a svilupparei nostri prodotti di moda o di design, senza regole sui contratti non possiamocollaborare con altre imprese, senza regole sul lavoro non possiamo costruireuna squadra in azienda. È dunque evidente che le regole sulle banche, proprio

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quelle che limitano l’accesso al credito, hanno in effetti moltiplicato il credito,forse anche troppo.

C’è uno studio che mostra che in America nel 1840 le banche per lavorare egodere della fiducia dei depositanti, dovevano avere un capitale di circa il 55%degli attivi, oggi hanno meno del 10% degli attivi ponderati, cioè spesso moltomeno del 5% degli attivi totali: com’è stato possibile? La risposta è semplice,hanno fatto sistema e si sottopongono a regole sempre più severe che convincononoi depositanti che tutto sommato possiamo fidarci lo stesso. Il credito in Italia,pure in questo momento, è quasi al massimo storico, come ha ricordato qualchemese fa lo stesso presidente Patuelli. Insomma le regole che individualmente cilimitano, ci hanno in realtà aperto anche molte possibilità, così tante che oraparliamo spesso di rischio sistemico, e di fragilità.

Come si può superare questa fragilità? Con una massiccia dose di curiosità econoscenza, con studio e con fatica, e sfruttando i nuovi strumenti che sono natianche in seguito a questi cambiamenti e a queste difficoltà. Di alcuni di questiparleremo oggi: sono strumenti che possono costituire uno stimolo alle impreseper ricercare soluzioni alternative per il proprio sostentamento, ad esempioattraverso i mini bond, ed essere meno dipendenti dall’intermediazione bancaria.Negli Stati Uniti le aziende traggono dai prestiti bancari il 30% del propriofabbisogno e trovano finanziatori non bancari sia a livello di capitale, che didebito per il resto. Tali strumenti possono dunque aiutare sia le imprese a esserepiù robuste, sia le banche a migliorare il proprio portafoglio, ed essere così menofragili.

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7.

Come la Cina è diventata capitalista (22 settembre 2014, convegno con Alberto Mingardi e Ning Wang,

coautore, con il Nobel Ronald Coase, di“Come la Cina è diventata un Paese capitalista”)

Da tempo la nostra associazione cerca di analizzare il cambiamento in cuisiamo immersi e che ci disorienta, provando a fornire letture che aiutino aorientarci e a ritrovare un po’ di coraggio. Abbiamo quindi pensato che sia utileguardare ad altre storie di profondi mutamenti, come quelli che la Cina havissuto nel corso degli ultimi trent’anni.

Quella che negli anni Settanta era un’economia di stampo socialista, chiusae basata sull’agricoltura, oggi è diventata una delle maggiori potenzeeconomiche. È in qualche modo la storia che noi stessi abbiamo vissuto qualchedecennio prima. Vi prego dunque, prima di immergerci nell’Oriente, diseguirmi con il pensiero nei magnifici anni Sessanta, tra Vespe e Cinquecento,boom economico e sviluppo industriale del nostro Paese, perché credo cheascoltando quel che succede in Oriente con a mente quel che successe da noi,potremo trovare elementi di riflessione preziosi.

In quegli anni andava terminando la ricostruzione. La politica economicaaveva assicurato bassa inflazione, moneta stabile e ragionevolezza salariale(queste cose le abbiamo anche adesso), ma quel che è forse irripetibile è che ilPaese fece il grande salto verso l’industrializzazione. Le banche offrivanocredito con entusiasmo e con qualche leggerezza. Nuove tecnologie e modi diprodurre consentivano balzi di produttività significativi, la ricchezza creavadomanda per nuovi beni, le fabbriche si costruivano e si ampliavano in modoinarrestabile, la gente lasciava la vita dura e povera delle campagne e venivain città. Le città di allora, anche le più grandi, oggi ci sembrerebbero piccolipaesi. In molte la popolazione aumentò di dieci volte in pochi anni. Leinfrastrutture avvicinavano città e regioni ampliando le opportunità di affari.L’edilizia era in boom continuo, molte famiglie entravano per la prima volta incase con bagni e riscaldamento. Accanto a buone imprese si fecero disastriambientali, accanto a case belle e strade nuove si fecero enormi quartieri bruttie privi di infrastrutture. I palazzinari conquistarono il potere e l’immaginariodella gente. Scrittori, fotografi, registi di quegli anni catturarono in operememorabili il bello e il brutto di quel periodo che ancora rimpiangiamo e chedetermina il nostro presente. Chi viaggia per lavoro in Cina o in India oggipotrebbe forse descrivere ciò che vede in quei paesi, riciclando quasi per interole parole che ho appena usato. Centinaia di milioni di persone lasciano ilfreddo, la violenza e la fame delle campagne (che tra una generazione

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mitizzeranno) per andare nelle città che offrono opportunità di lavoro nellegrandi fabbriche. Si trasferiscono in case che forse a noi sembrano brutte, mache hanno bagno e riscaldamento. Chi ha ingegno e fortuna può diventare ricco.Nelle costruzioni naturalmente, ma anche cogliendo le opportunità che lasocietà offre: moda, tecnologia, logistica, gioco d’azzardo o sanità. Le banchefanno la coda per incontrare gli imprenditori e offrire denaro, e spesso sta agliimprenditori fare i preziosi.

La domanda cresce così tumultuosamente che per molte aziende qualsiasiprogrammazione è impossibile. Qualunque cosa si faccia con qualche capitalee le giuste relazioni oggi offre una crescita vertiginosa alle nuove aziendeorientali. Fenomeni che noi abbiamo vissuto qualche decennio fa, fanno oracapolino da quelle parti. Guardando al nostro passato possiamo forse in qualchemodo predire i prossimi decenni dei paesi orientali5. Quelli che noi chiamiamo“gli anni Sessanta” – su diversa scala e in diverse epoche – sono un fenomenoche si ripete nel mondo. I giovani imprenditori che da noi partivano all’alba colcampionario, andavano alle fiere, trovavano nuove idee, copiavano prodottiapprofittando del basso costo della manodopera, sono diventati le medie egrandi aziende di oggi. Usano macchine più lussuose, le relazioni con le bancheli hanno accompagnati nella crescita. Clienti non sempre esigenti, e spessolegati al pubblico, hanno dato loro decenni di tranquillità. Svalutazionicompetitive e altre forme di inerzia li hanno protetti dai cambiamenti.

Ma la crisi che ci ha colpiti in questi lunghi anni è stata forse per la primavolta così radicale da imporre a molte aziende ripensamenti profondi, o le hacostrette a chiudere. Non sono più bastate le relazioni con le banche, perchéanche le banche sono andate sull’orlo del fallimento. Né gli aiuti pubblici,anche se lo Stato ha cercato di aiutare in molti modi, perché non riuscendo piùa indebitarsi facilmente, ha potuto elargire assai meno soldi che in passato. Ivecchi clienti che ogni azienda dava per scontati o sono falliti o hanno cercatoforniture più convenienti, e le produzioni che vengono dall’Oriente hannoregalato bassa inflazione e prodotti accessibili ai consumatori, ma hanno messosotto pressione anche le aziende migliori.

Questo non ha mandato in malora il nostro Paese: anche se sentiamo condolore una riduzione del nostro tenore di vita, continuiamo a godere di unaqualità della vita invidiabile. Ma un grande processo di selezione tra aziendeè in corso. Non posso dire che sia giusto: si vedono imprenditori amabili eonesti costretti alla chiusura, e persone che si fa fatica a stimare che prosperano.Si legge nelle ricerche correnti che reggono meglio le aziende che esportano,e non metto in dubbio le statistiche, ma quel che leggiamo sotto queste parole

5 Ad esempio le persone che hanno lasciato le campagne mantengono l’alimentazionericca che quella vita faticosa richiedeva, e accumulano peso con le malattie che ne conse-guono. Cresce dunque la domanda di medicine e assistenza, e poi quella di cibi sani, stili divita nuovi, palestre.

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è che reggono meglio le aziende da tempo esposte agli stimoli forti di mercatinon protetti, che le hanno costrette a modernizzare produzione e metodi digestione, ad avere un buon ufficio tecnico, una seria amministrazione, deicommerciali competenti. Hanno fatto questo percorso anche tante aziende chelavorano per il mercato interno: innovando, non contando solo sul debito e lerelazioni per crescere, facendo ricerca e formazione, e vanno bene anch’esse.Vanno meno bene le aziende che si sono fermate agli anni Sessanta e Settanta,che hanno troppi debiti, non hanno un buon management (o non ce l’hannoaffatto), non innovano nei servizi o nei processi produttivi. Insomma, se neglianni Sessanta un’onda sollevava verso il successo ogni imprenditore che avesseavuto il coraggio di rischiare un po’ di capitale e l’ingegno di proporre un nuovoprodotto, una grande inerzia ha poi mantenuto prospere queste aziende perdecenni, e la crisi che ci ha colpiti ha, seppur con eccezioni, punito chi si erafermato e premiato chi si è evoluto.

Questo processo al cui centro ci troviamo, non ha solo aspetti negativi: secompreso e aiutato ci darà un tessuto industriale nuovamente forte, prodottimigliori, un’opinione pubblica più capace di rispettare l’impresa e una impresapiù rispettabile. Oggi, anche se parliamo di paesi lontani e di fenomeni didimensioni epocali, stiamo parlando di cosa che ci è vicina, de te fabula narratur.

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EpilogoLavoro e impegno civile in tempi incerti

L’impegno civile e l’attività di servizio sono volti al bene degli altri, madanno anche soddisfazione a chi li pratica. Tali soddisfazioni sono intime, comeil senso di avere aiutato il prossimo e di avere fatto la differenza per qualcuno,e pubbliche, come la visibilità e le relazioni che taluni attività benefiche gene-rano.

Oltre alle soddisfazioni vi sono anche le frustrazioni: fare del bene è fati-coso e spesso sono molti gli ostacoli per arrivare ad un risultato. Inoltre nonsempre il risultato che ci si prefigge in buona fede è davvero buono, e anchequando lo è non tutti lo apprezzano. Si è dunque facilmente criticati e attaccati,e talvolta si raccoglie perfino l’ingratitudine del beneficato.

È dunque su questi due aspetti, che potremmo chiamare lusinghe e frustra-zioni dell’impegno civile, che vorrei trarre le conclusioni di questi cinque anni,chiedendomi cosa spinge ognuno di noi a impegnarsi, almeno in qualche mo-mento della vita, insomma “chi ce lo fa fare?”.

Prendo a spunto la mia esperienza, non perché sia così speciale, ma perchéè l’unica che conosco bene. Mi pare che si intervenga a favore degli altri a varilivelli: a livello personale, aiutando il nostro prossimo quando vediamo che habisogno, a livello di volontariato organizzato, donando il proprio tempo o de-naro a organizzazioni senza scopo di lucro, e infine a livello politico, dedi-cando il proprio tempo gratuitamente a coordinare attività che percepiamo utilial bene comune. A livello personale mi sono sempre sentito impegnato a “nonritirare la mano” di fronte al bisognoso. So che non posso aiutare tutti, mi spiacedire no a molti, ma cerco ogni giorno di pensare che almeno con un piccologesto ho fatto qualcosa senza giudicare chi chiedeva aiuto. A livello di volon-tariato invece ho sempre partecipato poco, perché pur riconoscendo l’impor-tanza delle molte strutture volontaristiche, mi sono trovato spesso critico sulmodo in cui sono condotte, sulla distribuzione dei vantaggi e delle risorse, sullemodalità di raccolta dei fondi, e forse infine non ho le doti di mitezza e umiltànecessarie.

Per quanto riguarda invece le posizioni di responsabilità nella guida di entimorali o religiosi, e anche di associazioni come Confindustria dove ho avutoun ruolo, non ho cercato posti, ma ho sempre pensato che soprattutto nei mo-menti di incertezza e difficoltà bisogna rendersi disponibili. Tale disponibilità

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non deve essere solo quella di dare consigli, ma anche di prendersi grane e re-sponsabilità. Coloro che si assumono responsabilità non remunerate e che af-frontano i problemi di una collettività piccola o grande con spirito rigoroso edisinteressato sono spesso soli, e vanno aiutati in qualche modo. In questosenso anche in questi tempi di debolezza della politica ho provato ammira-zione e rispetto per chi si impegna seriamente in quel campo, perché è un im-pegno meritevole. Inoltre, per quel poco che faccio io, penso di essere motivatoda un senso che in qualche misura tutti sentiamo e cioè il desiderio di giusti-zia, o meglio la difficoltà a rimanere inerti davanti all’ingiustizia. La vita cipiega un po’ su questo aspetto, impariamo presto che non si possono combat-tere tutte le battaglie che ci paiono giuste, che difendere i principi ha costiumani ed economici imprevedibili, che è meglio essere amici di tutti, ma a meè parso che qualche volta ci sono sfide che non si possono ignorare, e che rac-coglierle è onorevole e tiene la mente e il cuore più freschi e giovani.

Tra le opportunità che la vita mi ha offerto di impegnarmi al di fuori del miointeresse lavorativo vorrei citarne due o tre da cui ho imparato molto e cheforse hanno qualche interesse generale.

La prima riguarda la mia esperienza alla presidenza del Giovanni XXIII diBologna da fine 1999 al 2004. Si tratta di un ente originariamente fondato nelCinquecento e volto all’assistenza dei poveri, che poi da metà Novecento si èconcentrato sempre più nell’assistenza agli anziani, gestendo nel 2000 quattrocase di riposo e due centri diurni, con oltre 600 ospiti e un cospicuo bilancio.L’ente era stato commissariato per dissidi interni, altissima conflittualità sin-dacale e gestione economica disattenta. Il commissario aveva fatto un buon la-voro sui fronti di maggiore emergenza, ma restava molto da fare pernormalizzare la struttura. Mi chiamò il neoeletto sindaco di Bologna, GiorgioGuazzaloca. Non ero né tra i suoi attivisti né tra i suoi finanziatori, lo conoscevopoco, ma lui mi disse che cercava qualcuno che non frequentasse i salotti, chesi impegnasse seriamente, che non cercasse notorietà sui giornali, e che mi-gliorasse il servizio per gli anziani.

Il patrimonio immobiliare era gestito in modo politico, servizi interni comela lavanderia andavano terziarizzati, il personale era demoralizzato. Un mem-bro del consiglio era convinto che dietro a ogni decisione ci fosse qualcosa dilosco e presentava una denuncia al mese alla Corte dei Conti. I primi trentamesi ho avuto la Guardia di Finanza fissa nell’ufficio accanto al mio. Le primesettimane la tentazione di lasciare, o di non prendere nessuna decisione signi-ficativa per non essere attaccato, è stata molto forte. Credo mi abbia frenato ildispiacere di ammettere un fallimento.

Ho preso coscienza delle difficoltà di gestire una pubblica amministrazione,che spesso sottovalutiamo, perché le regole sono congegnate per un profondocontrollo, che scoraggia l’assunzione di responsabilità e la gestione economica.Ho dedicato molto tempo a studiare carte e parlare con persone, ma mi sonoreso conto che mano a mano che approfondivo le cose e dimostravo rispetto

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alle persone, aumentava la motivazione degli altri e la solitudine della mia po-sizione diminuiva. In quasi cinque anni abbiamo cambiato molte cose, credoin meglio, e sono rimasto in rapporti di simpatia e stima con molte persone co-nosciute allora.

Un’altra esperienza che mi ha molto formato è stata quella di presiedere laComunità Ebraica di Bologna dal 2005 al 2013. Guidare un ente religioso, siapure di piccole dimensioni, pone molte sfide: si devono coordinare personeche sono sì legate da tradizioni comuni, ma che per ogni altra cosa hanno in-teressi divergenti. Si deve curare la continuità dei servizi religiosi, sociali e diistruzione. Si parla a conferenze e dibattiti pubblici e, cosa spesso gratificante,alle scuole. Si deve dialogare con la guida spirituale, che è al contempo unmaestro che ispira e un dipendente con cui concordare ferie, aumenti e orariodi lavoro. Ma la cosa forse più difficile è che in un contesto religioso ogni di-vergenza finisce per essere una questione di grandi principi, anche quando sidiscute di una piccola manutenzione o di chi si offre volontario per un evento.

Vi è poi l’esperienza in Confindustria, un ruolo con molta visibilità, a cuinon ero abituato ed al quale si rischia di abituarsi troppo: qualunque cosa si dicasi finisce sui giornali, agli eventi si hanno posti nelle prime file, si ricevonomolti inviti. Quel che caratterizza però questa esperienza è la complessità deldibattito interno all’associazione, che in questi anni di crisi è stato almeno al-trettanto complesso che quello esterno.

Siamo un gruppo di capi, cioè di persone abituate a comandare nelle loroaziende e che difficilmente esprimono appieno la coesione che in un modoideale il lavoro associativo dovrebbe produrre. In fondo chi ha ruoli di guidapuò essere efficace solo se ha dietro sé il sostegno di chi rappresenta, e tale ef-ficacia ha un valore importante anche se chi è rappresentato non si sente sem-pre coinvolto nel processo decisionale, o in esso non è riuscito a far prevalereil proprio punto di vista.

Quel che ho imparato è che riflessioni razionali, approfondimenti tecnici olegali contano ben poco di fronte all’immensa forza di convinzioni profondeo emotive, fenomeno che si rafforza quanto più complessa è la materia che sidiscute. Ho osservato che dissidi personali influenzano la vita delle associazionialmeno quanto i temi di fondo della vita delle aziende. Alle volte si confondela democrazia, cioè quel regime in cui si può rimuovere la classe dirigentesenza violenza, con il metodo assembleare degli anni Settanta, in cui il processoprevaleva sul risultato. Anche questa esperienza ha naturalmente molti conte-nuti positivi e dà soddisfazioni, tra cui quella di raccogliere critiche ma anchesostegno da tanti colleghi, ed inoltre credo di avere imparato che alla lunga di-fendere le ragioni della categoria sia più utile che difendere i singoli interessi.In genere la protezione di un interesse indebolisce nel tempo l’impresa pro-tetta e genera risentimento in chi ha subìto l’effetto distorsivo di quella misura,mentre la più difficile difesa coerente delle ragioni della categoria crea unacredibilità e indica la strada alle imprese in modo non solo civico, ma assai

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utile per esse. Ho anche notato che la cultura, cioè l’insieme delle conoscenzee delle convinzioni che ci permettono di vivere insieme e di interpretare glieventi, è una risorsa grandissima anche per le imprese e che occasioni di au-mentare la nostra comprensione del mondo e delle sfide ci arricchiscono nonsolo in termini intellettuali, ma anche economici.

Ecco dunque in grande sintesi tre esperienze in cui ho dedicato tempo e in-gegno ad una causa che mi pareva buona e interessante e che rispondeva a unachiamata in tempi difficili. In ognuna ho avuto le soddisfazioni intime di cuiparlavo all’inizio e anche quelle pubbliche. Ho anche avuto le frustrazioni, ledelusioni, ho fatto degli errori e in alcuni casi ho anche incassato segni di quellache mi è parsa pura ingratitudine. Quando ci sono momenti difficili credo cheognuno di noi non si debba accontentare di essere un buon individuo a casa o allavoro, ma debba chiedersi cosa può fare, conoscendo le sue qualità, le sue ener-gie e i suoi limiti, per la società in cui vive. Non lo deve fare per mettersi in evi-denza, o per trovare un luogo dove sfogare le proprie frustrazioni o esorcizzarei propri fallimenti, né per amore della visibilità o animato da invidia. Deve piut-tosto cercare in sé un impegno civile onesto, chiedendosi sempre in coscienza sesi sta facendo quel percorso più per gli altri o più per interesse personale.

Nel mio impegno civile, per cercare di non cadere troppo spesso nelle trap-pole della visibilità, o in quelle dell’indifferenza, di cui ho fatto cenno, ho cer-cato ispirazione in valori che credo siano comuni e diffusi, e che io ricevo dalpensiero ebraico e che mi sono stati di aiuto, non perché abbia sempre saputoseguirli appieno, ma perché almeno hanno agito limitando la tentazione di farele cose malamente.

Un insegnamento che mi è parso assai potente è quello del tikkun haolam,cioè dell’idea che dobbiamo essere partner del Creatore nel riparare le cose chenon vanno al mondo. Questa idea è sintetizzata nell’insegnamento che quandoci troviamo di fronte a una scelta dobbiamo immaginare che il mondo sia giu-dicato, e che la bilancia sia in perfetto equilibro tra bene e male. Sarà dunque lanostra azione a far pendere il giudizio di tutto il mondo da un lato o dall’altro.

Un altro insegnamento è che non bisogna farsi scoraggiare dal fatto che forsenon riusciremo a risolvere i problemi, secondo una antica massima che dice:«..Non spetta a te portare a termine il lavoro, ma neppure sei libero di esentar-tene...»1. E altrove si insegna il comportamento che deve tenere chi si assumeun impegno civico: «...Tutti coloro che si occupano degli affari pubblici lo fac-ciano in nome del Cielo, perché (in tal modo) il merito dei loro padri li assistee la loro rettitudine perdura in eterno... State attenti all’autorità governativa, per-ché non si accosta alla persona se non quando ne ha bisogno per sé…»2.

Infine, per assumersi un impegno civico occorre essere severi con se stessie riconoscere i propri limiti. Non bisogna tenere troppo a lungo l’incarico, e si

1 Massime dei Padri, capitolo II, 16.2 Massime dei Padri, capitolo II, 2 e 3.

Epilogo

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deve essere pronti a prendersi responsabilità e fare scelte. Per decidere ci vuoleserietà e approfondimento, perché la superficialità e l’emotività portano su stradeoscure. Perché le cose vadano male non basta un cattivo capo, ci vuole ungruppo dirigente che lo segue e una base che lo appoggi. Anche se l’acquie-scenza davanti alle autorità porta spesso tranquillità e opportunità di vantag-giosi accordi di non belligeranza, tuttavia se davanti a eventi che ci paionoscorretti rimaniamo sempre in silenzio e inerti, se non facciamo almeno ognitanto la scelta giusta benché scomoda, quando avremo bisogno di aiuto noi nonci sarà più nessuno a rispondere alla nostra chiamata.

Ho cercato di seguire questi principi e mi hanno aiutato, ma non sempre liho seguiti appieno, e alle volte, pur approfondendo le cose ho preso abbagli.Ho però imparato a rispettare chi si fa carico dei problemi, chi sente la chia-mata di un impegno oltre i propri interessi personali, e lo fa con equilibrio e at-tenzione alle ragioni in gioco, ma lo fa sul serio e fino in fondo.

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Ringraziamenti

Questo libro raccoglie interventi da me scritti dal 2011 al 2015 nel mioruolo di presidente di Confindustria Ravenna. Anche a chi avrà la cortesia diapprezzarlo, potrà sembrare un semplice lavoro di compilazione, ma dietro lasua pubblicazione c’è un grande impegno di raccolta dei testi, loro contestua-lizzazione, aggiunta di note per precisarne i contenuti e fornire ai lettori ap-passionati di cronaca ravennate ulteriori piste di approfondimento. Anche laredazione di ogni intervento a suo tempo ha richiesto molto sforzo e ricerca.Per questo devo ringraziare tutte le persone che, in questi anni, hanno lavoratocon me in Confindustria Ravenna, e in particolare il direttore Marco Chimenti,e poi Monica Rocchi, Federica Vandini e M. Vittoria Venturelli. I testi che leg-gete esprimono le convinzioni, le riflessioni e le preoccupazioni maturate nellescelte che abbiamo fatto nella conduzione dell’associazione, e dunque ad essihanno involontariamente contribuito i colleghi imprenditori con cui ho dialo-gato in questi anni, molti membri del Consiglio Direttivo con cui mi sonospesso confrontato, e gli amici del Comitato di Presidenza che hanno condivisocon me il peso delle scelte, e che voglio qui ringraziare individualmente. La miafamiglia mi ha supportato in molti modi e mia moglie ha avuto la pazienza dileggere ogni intervento, cercando di rappresentare un lettore non coinvolto edi darmi consigli per rendere più chiaro ogni passaggio. L’editore, Alfio Longo,che è un associato e un amico, mi ha incoraggiato per anni a tenere ordinati imiei scritti ed a pensare ad una pubblicazione, ed è anche alla sua paziente vi-cinanza che devo questo piccolo libro.

Nel ringraziare e riconoscere il mio debito morale a tutte le persone chemi hanno sostenuto e consigliato in questi anni, preciso che il libro rappre-senta la mia visione dei temi affrontati e le mie opinioni. Benché frutto di unlavoro attento non posso escludere che esso contenga involontari errori, di cuimi scuso fin d’ora. In tal caso di essi resto il solo responsabile.

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Alesina, Alberto 75Alighieri, Dante 79, 158Alvi, Geminello 169Angela, Piero 83, 104Annibale 51Aristotele 157, 158Arpino, Mario 83, 104Artusi, Pellegrino 31Attali, Jacques 80Asirelli, Rita 115Avallone, Silvia 163

Baban, Alberto 177Balzani, Massimo 31Baracca, Francesco 31Beltratti, Andrea 177Benedetto da Norcia 159Benigni, Roberto 115Benno, Jacob 42Berger, Allen 174Bersani, Pierluigi 133, 161Bianchi, Donatella 115Bonaparte, Napoleone 37Brunetta, Renato 161Byron, George Gordon 79

Canfora, Luciano 83Caro, Luciano 39Cassese, Sabino 83, 104, 127Cassuto, Umberto 42Castronuovo, Antonio 73Cattaneo, Carlo 39, 48, 49Christillin, Evelina 127Cicognani, Thomas 83Cipolla, Carlo Maria 12

Indice dei nomi

Coase, Ronald 179Coolidge, Calvin 51, 52Corelli, Giampiero 115Cortesi, Raffaele 100Cossiga, Francesco 79 Costa, Massimiliano 83 Cowen, Tyler 80, 99, 167, 169Crichton, Michael 52Croce, Benedetto 8

Damiano, Cesare 161Della Monica, Walter 71 Dennis, William 48De Lorenzo, Carmela 102 Di Marco, Galliano 80, 98Di Paolo, Paolo 127Draghi, Mario 134Dragonetti, Giacinto 83, 90, 92

Eco, Umberto 35Ehrlich, Paul 39, 50Einaudi, Luigi 47, 49Einstein, Albert 95Erdogan, Recep Tayyip 33 Esiodo 157Ezechiele 23

Farruggia, Alessandro 127 Fiorito, Franco 26Fornero, Elsa 134Friedman, Milton 21, 30

Gallitelli, Leonardo 115, 116, 128Gambi, Paolo 75Garibaldi, Giuseppe 79

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Gatta, Enrico 115Gatti, Fabrizio 127Ghinassi, Margherita 71 Giampaolino, Luigi 73, 74, 127Giardina, Roberto 73Giavazzi, Francesco 75Guarnieri, Rossana 128Guazzaloca, Giorgio 184

Hayek von, Friedrich 37Herring, Richard 174Hitler, Adolf 37Hobbes, Thomas 117

Jean, Carlo 169Jobs, Steve 72

Kelsen, Hans 37Kessler, Alice ed Ellen 75 Keynes, John Maynard 149, 158King, Martin Luther 2, 72

Letta, Enrico 161Liverani, Enrico 129Luttwak, Edward 80

Maggioni, Monica 115Malerbi, Luigi e Giuseppe 36Malpezzi, Giovanni 100Mannheimer, Renato 169Mansi, Antonella 109Manzani, Silvia 115Manzoni, Alessandro 53Marcegaglia, Emma 21, 133Marcegaglia, Steno 102Marescotti, Ivano 127Marongiu, Giovanni 124Marx, Karl 158Matteotti, Giacomo 121 Matteucci, Fabrizio 100Mazzavillani Muti, Maria Cristina 97 Mazzini, Giuseppe 7, 79Meir, Golda 41Melone, Vincenzo 127, 128 Melozzo da Forlì 31

Merkel, Angela 151Mescolini, Roberto 101Mingardi, Alberto 21, 107, 171, 179Miniati, Valeria 73Molinari, Maurizio 73Montale, Eugenio 79Monti, Mario 73, 133, 136, 161Morgenstern, Oskar 65Mosè 41Mussolini, Benito 31, 37Muti, Riccardo 97

Neumann von, John 66Niemoeller, Martin 74

Oettinger, Gunther 22Olimpio, Guido 115Olivetti, Gino 15Ottolenghi, Emilio 15, 97 Ottolenghi, Guido 15Ottolenghi, Mimmi 15

Panebianco, Angelo 171Panucci, Marcella 93Papa Francesco 12Pascoli, Giovanni 31Passera, Corrado 25, 99Patuelli, Antonio 177, 178Pericle 72, 77Piastra, Stefano 83 Pierpaoli, Mario 75Pirani, Mario 73Platone 157, 158Popper, Karl 28, 30Pratesi, Fulco 73Proietti, Gigi 127

Quirico, Domenico 83, 104

Raspelli, Edoardo 73Rattazzi, Urbano 76Realacci, Ermete 12Ricossa, Sergio 22, 157Ricucci, Stefano 26Rizzo, Sergio 100

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Rossini, Gioacchino 36 Rumiz, Paolo 83, 104

Saffi, Aurelio 31Sagramola, Sveva 75 Schettino, Francesco 26Serena Monghini, Antonio 16Severino, Paola 75, 76, 100, 127Shlaes, Amity 51Simoni, Serena 83Squinzi, Giorgio 25, 33, 45, 61, 93, 99,

103Stalin, Iosif 37Sturzo, Luigi 121Szegö, Giorgio P. 174

Taleb, Nassim Nicholas 66 Talete 28, 29Teodorico 79Thatcher, Margaret 29 Tonelli, Anna 75Torno, Armando 73

Torri, Giovanni 31Tucker, Albert 65Turani, Giuseppe 127Twain, Mark 76

Vargas Llosa, Mario 62 Ventura, Simona 73Venturi, Fabio 115Verne, Jules 86Vespa, Bruno 71Visco, Ignazio 177Vittorini, Elio 163

Wang, Ning 107, 179Yamani, Ahmed Zaki 40

Zamagni, Stefano 83Zanardelli, Giuseppe 76Zanzotto, Andrea 73Zavoli, Sergio 115Zingales, Luigi 22

Indice dei nomi

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Finito di stampareil 15 gennaio 2016

per A. Longo Editore in Ravennada Edizioni Moderna