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Abstract L’obiettivo della mia ricerca è stato quello di valutare il significato della musica practica, ovvero della dimensione esecutiva della musica, in rapporto al tipo di sapere custodito nelle arti liberali, secondo quanto può essere ricavato dai testi giovanili di S. Agostino. La chiave di lettura del lavoro è consistita nell’indivi- duazione di due paradigmi, linguistico e matematico, cui sono state ricondotte, rispettivamente, la musica practica e l’ars musica del quadrivio. Alla luce di es- sa, l’indagine sull’essenza linguistica della prima è stata condotta attraverso l’elaborazione di un paragone con un’altra disciplina liberale, l’ars rethorica, si- milmente alla quale la musica si determina come sapere pratico dotato di un tipo di efficacia psicagogica. Attraverso l’approfondimento del legame tra le due discipline, ho cercato di motivare l’atteggiamento oscillante manifestato da Agostino nei confronti del canto sacro. Con questi elementi, infine, ho este- so il confronto alla declinazione più tarda del progetto di un’enciclopedia del sapere liberale, quella che prende forma nel De doctrina christiana con la pro- posta di un’eloquenza al servizio della Chiesa, cercando di porre in rapporto la rivalutazione delle arti della parola con il pensiero radicale dell’onnipotenza di Dio. The aim of my research is that of determining the meaning of the musica practica, that is the music performed in opposition to the theoric knowledge of liberal arts within young S. Augustin’s texts. The interpretational key of the work has been the distinction of two paradigms, linguistical and mathematical, to which, respectively, the musica practica and the quadrivial ars musica have been reconduced. On the light of that, the investigation on the linguistical es- sence of the former has been conduced by developing a comparison to another liberal art, the ars rethorica, with which music shares a technical knowledge en-

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Abstract

L’obiettivo della mia ricerca è stato quello di valutare il significato della musica

practica, ovvero della dimensione esecutiva della musica, in rapporto al tipo di

sapere custodito nelle arti liberali, secondo quanto può essere ricavato dai testi

giovanili di S. Agostino. La chiave di lettura del lavoro è consistita nell’indivi-

duazione di due paradigmi, linguistico e matematico, cui sono state ricondotte,

rispettivamente, la musica practica e l’ars musica del quadrivio. Alla luce di es-

sa, l’indagine sull’essenza linguistica della prima è stata condotta attraverso

l’elaborazione di un paragone con un’altra disciplina liberale, l’ars rethorica, si-

milmente alla quale la musica si determina come sapere pratico dotato di un

tipo di efficacia psicagogica. Attraverso l’approfondimento del legame tra le

due discipline, ho cercato di motivare l’atteggiamento oscillante manifestato

da Agostino nei confronti del canto sacro. Con questi elementi, infine, ho este-

so il confronto alla declinazione più tarda del progetto di un’enciclopedia del

sapere liberale, quella che prende forma nel De doctrina christiana con la pro-

posta di un’eloquenza al servizio della Chiesa, cercando di porre in rapporto

la rivalutazione delle arti della parola con il pensiero radicale dell’onnipotenza

di Dio.

The aim of my research is that of determining the meaning of the musica

practica, that is the music performed in opposition to the theoric knowledge of

liberal arts within young S. Augustin’s texts. The interpretational key of the

work has been the distinction of two paradigms, linguistical and mathematical,

to which, respectively, the musica practica and the quadrivial ars musica have

been reconduced. On the light of that, the investigation on the linguistical es-

sence of the former has been conduced by developing a comparison to another

liberal art, the ars rethorica, with which music shares a technical knowledge en-

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dowed with psycagogical power. By the close examination of the connection

between the two disciplines, I have tried to explain the oscillating attitude ma-

nifested by S. Augustin towards sacred chants. With such elements at hand, I

have finally extended the comparison to the later declination of the project of

the encyclopedic knowledge that takes shape in the De doctrina christiana with

the proposal of a christian eloquence, trying to set a relation between the reva-

luation of the arts of the word and the radical thought of the omnipotence of

God.

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Premessa

Desidero ringraziare tutti i docenti del Dipartimento di Filosofia dell’Universi-

tà di Padova, in particolare il mio responsabile scientifico, prof. Gabriele Toma-

si, per l’intelligente stimolo al mio lavoro di dissertazione, e il dott. Giovanni

Catapano per le competenti osservazioni e le preziose indicazioni bibliogra-

fiche. Sono grata inoltre al dott. Ernesto Mainoldi, che ha letto le parti di

argomento musicale della dissertazione, suggerendo le opportune correzioni e

offrendo utili consigli. Ringrazio, infine, mio marito Roberto per l’indispensa-

bile e sempre paziente consulenza informatica. A tutti coloro il cui nome non

compare in questa premessa, ma la cui presenza ha incoraggiato il mio lavo-

ro va la mia riconoscenza, con particolare riguardo ai miei genitori, cui esso è

dedicato.

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Indice

Abstract 1

Introduzione 7

1 Lógos e Arithmós. Due paradigmi 11

1.1 Il numero e il modello razionale del cosmo . . . . . . . . . . . . 19

1.1.1 Nascita di un’idea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

1.1.2 Agostino e la triade di Sapienza 11, 21 . . . . . . . . . . . 27

1.2 La parola e l’espressività immediata del fonema . . . . . . . . . 33

2 Linguaggio e arti liberali 41

2.1 Scientia, ars, peritia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

2.2 Il progetto enciclopedico del De ordine . . . . . . . . . . . . . . . 50

2.3 Ars rethorica e linguaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

2.3.1 Il concetto agostiniano di verità . . . . . . . . . . . . . . . 57

2.3.2 Il linguaggio tra menzogna e verità . . . . . . . . . . . . 64

2.4 Il nuovo progetto del De doctrina christiana . . . . . . . . . . . . . 69

3 Ragione e anima a-razionale 79

3.1 Teoria della sensazione e giudizio estetico . . . . . . . . . . . . . 79

3.2 Immaginazione e poiesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87

3.2.1 Sul concetto di immaginazione . . . . . . . . . . . . . . . 87

3.2.2 L’attività poietica come falsificazione . . . . . . . . . . . 94

3.3 Immaginazione e mimesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98

3.3.1 Nota sul concetto di mimesis . . . . . . . . . . . . . . . . . 99

3.3.2 La teoria aristotelica della mimesis . . . . . . . . . . . . . 102

5

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6 INDICE

4 Ars rethorica 113

4.1 Breve storia della retorica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113

4.1.1 Origini: storia di due retoriche . . . . . . . . . . . . . . . 119

4.1.2 La retorica aristotelica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124

4.1.3 Cicerone e la retorica latina . . . . . . . . . . . . . . . . . 134

4.2 Agostino e l’eloquenza cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150

5 Musica practica 163

5.1 Origini del repertorio musicale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163

5.1.1 Le prime forme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163

5.1.2 Dalla grammatica alla musica . . . . . . . . . . . . . . . . 175

5.1.3 Osservazione sulla prassi esecutiva . . . . . . . . . . . . 179

5.2 Musica e linguaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182

5.2.1 Composizione e trasmissione . . . . . . . . . . . . . . . . 182

5.2.2 Sull’origine della musica dal linguaggio . . . . . . . . . . 188

5.3 La forma dei suoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192

5.3.1 Due orientamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192

5.3.2 Sul concetto di forma musicale . . . . . . . . . . . . . . . 196

5.3.3 Il potere della forma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199

Conclusioni 205

Appendici 215

Bibliografia 229

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Introduzione

Obiettivo del presente lavoro è proporre una lettura in chiave metaforica del

potere psicagogico del canto sacro, di un potere, cioè, che non dipende dal con-

tenuto trasmesso, ma che agisce in modo immediato sull’animo attraverso la

forma del suono. Precisando che con musica practica si intende fare riferimento

alla dimensione esecutiva della musica, in contrapposizione a quella astrat-

ta della disciplina del quadrivio, è possibile rilevare, in corrispondenza, uno

sdoppiamento di paradigmi che oppone l’essenza matematica della seconda

all’essenza linguistica della prima. Tale essenza linguistica, di cui si dimostra

consapevole, non a caso, un oratore come Cicerone1, è verificabile, ad esem-

pio, nella prassi del canto ebraico, matrice di quello cristiano, le cui formule di

intonazione sono riconducibili a tecniche di amplificazione della parola sacra.

L’ipotesi che si intende proporre presuppone una lettura della concezione

agostiniana della musica alla luce dello sdoppiamento sopra indicato e intende

aprirsi, dopo una ricostruzione del paradigma linguistico condotta per mezzo

dell’accostamento di musica pratica e retorica, sull’ultima fase della sua rifles-

sione. Un aspetto saliente di questa, segnata dal profondo mutamento inter-

venuto con l’elaborazione della dottrina della grazia predestinante e la con-

seguente dissoluzione di un’idea di verità che potesse rendersi oggetto di un

possesso stabile, consiste nell’affermazione della radicale passività dell’uomo

al cospetto di quella che è stata definita2 «anarchia di Dio», la quale presen-

ta suggestive somiglianze con il potere psicagogico falsificante3 dell’arte della

1Il riferimento è a un passo dell’Orator, che, ponendo in risalto il profilo melodico formato dallasequenza degli accenti, definisce il linguaggio un cantus obscurior. Cfr. Orator 18, 57.

2Cfr. [79, p. 119.]3L’aggettivo ’falsificante’ intende rendere il significato di ’creativo’ nel contesto di una rifles-

sione, quella altomedievale, in cui non era contemplata la possibilità di un’autonomia produttivadiversa da quella di Dio. Rispetto alla Creazione, infatti, l’uomo non aveva il potere di introdurre

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8 INDICE

parola.

Nell’ultima teologia agostiniana, nulla rimane al di fuori dell’indisponibi-

le elezione dell’uomo, costitutivamente privo di merito: annullata l’esigenza di

un’esegesi corredata da un’eloquenza in grado di vincere l’inerzia e l’ostinazio-

ne dei fedeli, ciò che resta è solo una «retorica della grazia», per mezzo della

quale Dio opera in maniera irresistibile sulla volontà dell’uomo, senza alcun

limite. L’operare della grazia divina, per quanto incommensurabile e non con-

nesso alla sfera dell’emotività, ricorda, nella sua assoluta autonomia, il potere

psicagogico della retorica e, ancor più, quello della musica che, radicato nella

sola forma dei suoni, sembra idealmente connotarla come una retorica priva

di contenuto. In significativa coincidenza con questo sbiadimento, Agostino

ha esaltato lo stato di beatitudine in cui l’uomo si scopre incapace di parlare

e, coerentemente, ha indicato nel canto la sua più propria modalità espressiva,

la quale sembra configurarsi come una sorta di correlato della chiamata senza

parola della grazia:

Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza po-ter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. (...) Il giubilo èun certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò chenon può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dioineffabile? Ineffabile è infatti ciò che non può essere detto: e se nonpuoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, inmodo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilatiimmensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate alui nel giubilo (en. Ps. 32, II, 8).

Alla luce di queste osservazioni, l’impulso che ha dato origine al presente

lavoro deve essere riconosciuto nel proposito di indagare il possibile valore

espressivo del canto sacro considerandolo alla stregua di un caso degenere del

linguaggio4 nella riflessione di un filosofo, Agostino, che fu incline a stima-

nulla di nuovo, se non l’illusorio e il falso.4Nel De dialectica, breve scritto ormai considerato autentico e facente parte del medesimo pro-

getto enciclopedico che comprendeva anche il De musica, Agostino definisce con precisione l’azio-ne del dire (dictio) vincolando il verbum al ruolo di etichetta per una res: «La parola è un segno diqualunque cosa che, proferito da chi parla, possa essere capito da chi ascolta. Una cosa è tutto ciòche viene percepito o capito, oppure che è nascosto. Segno è ciò che manifesta se stesso al senso equalcos’altro, oltre se stesso, alla mente. Parlare è dare un segno mediante la voce articolata (Loquiest articulata voce signum dare)» (dial. 5). È in rapporto a questa definizione che si propone di quali-ficare come degenere un uso del linguaggio che prescinda dalla funzione originaria di trasmettereun contenuto.

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INDICE 9

re l’arte della parola come la principale via dischiusa alla ragione umana per

approssimarsi a Dio5.

La struttura della dissertazione si articola in cinque capitoli. Il primo pre-

senta un carattere eminentemente introduttivo e il suo scopo è quello di defini-

re i due paradigmi Lógos e Arithmós mostrando come essi si intreccino sul piano

cosmologico, ontologico e gnoseologico fondando altresì la suddivisione inter-

na alle arti liberali in trivio e quadrivio. Sempre all’interno del primo capitolo,

sarà poi affrontata la questione dell’espressività immediata della componen-

te fonica del linguaggio, in cui riposa, come già affermato, la sua capacità di

esercitare un potere sull’anima.

Il secondo capitolo, dopo aver guadagnato la definizione del concetto di ars

in rapporto a quelli di scientia e peritia, prosegue sviluppando la correlazione

tra i due paradigmi e le corrispondenti discipline, ripercorrendo la concezione

agostiniana dell’organizzazione e del ruolo dell’istruzione liberale nel De ordine

e nel De doctrina Christiana.

In virtuale opposizione al secondo capitolo, che, come si è detto, si appli-

ca all’analisi dell’attività propria della ragione, il terzo si propone di offrire un

compendio delle risorse proprie della parte a-razionale dell’anima, considerate

dal lato passivo, la sensazione, e da quello attivo, l’immaginazione produttiva

nella sua essenza mimetica. Obiettivo principale del capitolo è la definizione

di un concetto di invenzione-produzione artistica compatibile con la visione

agostiniana dell’arte, la cui validità verrà verificata alla luce della successiva

trattazione specifica relativa alle due discipline oggetto dello studio. Il quarto

e il quinto capitolo, di impostazione prevalentemente didascalica, propongono

infine una presentazione sintetica delle tappe evolutive e dello stato dell’ar-

te in retorica e in musica al tempo di Agostino, con l’intento di rinvenire gli

elementi necessari a sostenere le tesi che saranno concisamente esposte nella

conclusione.

5M. Bettetini riconosce in questa valutazione delle arti della parola uno dei temi portanti dellariflessione svolta da Agostino nel De musica. Cfr.[22, p. 103.]

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Capitolo 1

Lógos e Arithmós. Due

paradigmi

L’antico concetto di lógos, semanticamente connesso al verbo léghein e rinviante,

pertanto, da un lato all’azione del raccontare e, dall’altro, a quella dell’enumerare,

possedeva tanto il significato di discorso quanto quello di calcolo. Questa dupli-

cità si era conservata anche nella lingua latina, custodita dalla somiglianza con

cui i due termini corrispondenti, oratio e ratio, alludevano a un comune fon-

damento nel concetto di razionalità e misura. Questo concetto, che si colloca

dunque a monte della distinzione tra lógos e arithmós intesa come distinzione

tra lógos discorsivo e lógos numerante, può essere utilmente analizzato alla luce

della nozione di arché, oppure, in modo ancor più esplicito, di quella di stoi-

chèion, corrispondente al latino elementum e legata alla prima da un rapporto di

sinonimia. Una descrizione concisa ed efficace, in grado di far emergere la du-

plicità in oggetto, è esposta nel seguente passo, tratto dal commento di Proclo1

agli Elementi di Euclide: «Perché, come ci sono principi primi, semplicissimi e

indivisibili, del linguaggio scritto, ai quali diamo il nome di ’elementi’ e da cui

è formata ogni parola e ogni discorso, allo stesso modo ci sono teoremi che si

trovano in posizione di priorità rispetto a tutta la goemetria, che con i teoremi

seguenti hanno rapporto di principio (arché), che si applicano un po’ dapper-

tutto e che producono dimostrazioni di molte proprietà - e questi teoremi sono

1In primum Euclidis, pp. 71, 22-72, 22. Cit. in [1, p. 324.]

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12 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

chiamati ’elementi’».

L’accezione che sembra essere stata anteriore dal punto di vista cronolo-

gico è quella connessa all’impiego grammaticale del termine come ’lettera’,

elemento dell’alfabeto non ulteriormente scomponibile e, per questo, primo.

Testimonianze in questo senso sono rinvenibili sia negli scritti di Platone, sia

in quelli di Aristotele che, nella Metafisica, definisce l’elemento come «il com-

ponente primo immanente di cui è costituita una cosa e che è indivisibile in

altre specie» (Metafisica 1014 a). Da questa definizione emerge altresì in manie-

ra esplicita l’indicazione della funzione logico-teoretica correlata al concetto,

che lo determina come principio costruttivo, parte fondamentale di una strut-

tura composta. È possibile riconoscere, in questa determinazione, il signifi-

cato originario assunto dal termine arché nella riflessione dei presocratici, con

particolare riferimento all’elementarismo atomistico e pitagorico.

La seconda accezione di stoichèion non è presente in Platone, ma ricorre

negli scritti aristotelici per indicare, in contesto geometrico, le proposizioni ele-

mentari in contrapposizione a quelle più complesse (diagràmmata). In questo

caso, il semplice si configura come elemento del complesso in modo differente

rispetto a prima, ovvero non più come fondamento omogeneo, ma come prin-

cipio irriducibile di carattere logico-ontologico. La maggiore estensione di que-

sto secondo significato finisce per ricomprendere in sé anche quello dell’archè

dei fisiologi, che si poneva come fondamento della realtà sensibile sia sul pia-

no dell’esistenza, sia su quello dell’intelligibilità, e, per tale carattere onnicom-

prensivo sintetizzabile nell’idea di anteriorità, esaurisce di fatto la portata del-

la nozione greca di principio. In essa convergono, dunque, un movimento di

’risolversi in’ e uno, più generale, di ’procedere da’, cui corrispondono, rispettiva-

mente, una funzione logica costruttiva, che opera dal semplice per strutturare

il complesso, e una deduttiva, che fonda la verità del complesso in base al sem-

plice. Se l’antecedente filosofico cui è possibile ricollegare il primo significato

di stoichèion è l’elementarismo pitagorico, come si è accennato, l’altro può esse-

re plausibilmente riconosciuto nel platonismo, in cui il rapporto di anteriorità

si specifica non in termini di precedenza della parte rispetto al tutto, ma in

quelli di superiorità ontologica, in virtù di cui l’idea assume un ruolo fondante

sul piano epistemologico.

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Ciò che in questa sede è interessante constatare è che i due movimenti di

costruzione e scomposizione che fondano, in ultima analisi, l’atto poietico e

l’atto teoretico, sebbene distinti rinviano a un’origine comune, che rispecchia

l’onnipervasivo ordine del cosmo in cui ogni cosa, sia naturale sia artificiale,

esiste in quanto razionale. In questa prospettiva, come in seguito si avrà modo

di verificare, Agostino elabora una filosofia dell’arte in cui quest’ultima risul-

ta determinata come una vera e propria forma di conoscenza, esplicitamente

definita come sottocategoria della scienza: scientia bene dicendi2 è l’ars rethori-

ca così come scientia bene modulandi è l’ars musica3, entrambe discipline liberali

appartenenti, rispettivamente, al trivio e al quadrivio.

Ciò che distingue i due raggruppamenti, le cui discipline potrebbero essere

altresì denominate arti del linguaggio e arti del numero, è il possesso di un ca-

rattere rispettivamente produttivo e contemplativo: là dove la grammatica, la

dialettica e la retorica, già oggetto ordinario di studio della cultura letteraria

classica, si occupano di insegnare usi del linguaggio finalizzati all’ottenimen-

to di un determinato risultato, sia questo lo stile, la verità o la persuasione,

le arti del quadrivio offrono modelli esplicativi in funzione del numero, vero

e proprio codice d’accesso alla comprensione del reale in tutti i suoi aspetti

quantificabili. L’aritmetica, in quanto studio delle proprietà del numero, si ca-

ratterizza come la più generale delle discipline, mentre le altre tre si applicano

a quello delle leggi fondamentali dello spazio, del tempo e del movimento in

quanto modificazione spazio-temporale4.

Lo scarto che separa questa concezione della musica da quella moderna è

evidente e la spiegazione comunemente ammessa è stata resa con efficacia da

H.I. Marrou5 in relazione al De musica di Agostino: «Tutta questa dottrina è

visibilmente elaborata per rendere la musica degna di entrare in una forma ele-

vata di cultura. Il problema è che la musica sia degna di essere annoverata nel

numero delle disciplinae liberales; quando, mediante questa nozione di scienza,

2Cfr. Quintiliano, Institutione oratoria III, i, 15.3Cfr. mus. I, ii, 2. Questa definizione non è originale di Agostino, ma deriva probabilmente da

Varrone. Si veda, a questo proposito, [138, p. 67.]4Più in dettaglio, la geometria studia le leggi dell’organizzazione logica dello spazio in fun-

zione di figure e volumi ideali, l’astronomia quelle del movimento dei corpi celesti, contraddi-stinti rispetto a tutti gli altri da una superiore regolarità e la musica, infine, quelle che regolanola successione dei suoni nel tempo, cui sono riconducibili sia la componente ritmica, sia quellaarmonica.

5[88, p. 182.]

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14 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

esso è felicemente risolto, il discepolo esclama con soddisfazione: ormai lo vedo

bene, non c’è nulla di più basso e di vile di questa disciplina... Quest’idea è tornata

incessantemente nel corso della trattazione: si sente che c’è qualcosa di volgare

nella materia musicale, il problema è quello di nobilitarla». Le caratteristiche

che Marrou riconosce come cause della percezione della musica practica come

volgare sono, in primo luogo, il fatto che nella società romana essa fosse prati-

cata da professionisti appartenenti agli strati sociali inferiori, secondariamente

il possesso universale e, dunque, non elitario della capacità di apprezzare e

articolare una bella melodia e, infine, la tendenza a svalutare l’attività propria

dei sensi ereditata dal platonismo6.

Ora, sebbene tutte queste osservazioni siano innegabilmente corrette e con-

fermate dallo stesso Agostino7, ritengo che la presenza problematica della mu-

sica in seno all’istruzione liberale, che nei suoi scritti si impone con particolare

forza, dipenda non solo e non tanto dal suo riconosciuto potere di trascinare

l’anima verso la corporeità imprigionandola nelle maglie del piacere sensibile e

vincolandola, in vista del raggiungimento di questo risultato poco edificante, a

una pratica assidua e meccanica indegna dell’uomo libero, ma che, più profon-

damente, essa derivi dall’intuizione di un rischio ben più grave per l’anima,

connesso a una tendenza di indebita autoesaltazione e imputabile anch’esso

alla condizione mediana dell’uomo. Non è un caso, del resto, che proprio nel

De musica, verso la fine dell’ultimo libro che, come noto, dismette il carattere6Lo scopo primario delle discipline liberali secondo Platone e Plotino era, per l’appunto, quello

di agevolare il distacco dalla materia, identificata con l’origine del male: «Anche delle arti, che sonoforme razionali, c’è da chiedersi se esse siano tra le cose sensibili. L’arte del citaredo, per esempio.Essa ha a che fare con le corde, e il suo canto, cioè la sua voce sensibile, è parte dell’arte, a menoche non la si consideri una sua attività e non una sua parte. Sarebbero, comunque, sempre attivitàsensibili. La bellezza di un corpo è incorporea, eppure noi l’abbiamo assegnata, perché è sensibile,alle cose che si riferiscono al corpo e sono del corpo. Noi, fondando una duplice geometria e unaduplice aritmetica, dobbiamo porre una loro specie qui, nella qualità terrena, e l’altra dobbiamocollocarla lassù, in quanto si tratta di un’atttività dell’anima volta verso l’Intelligibile. Anche dellamusica e dell’astronomia Platone pensa allo stesso modo» (Enneadi VI, iii, 16).

Il medesimo contrasto tra l’intento di affrancarsi dal sensibile per raggiungere realtà spogliateda ogni corporeità e la sua concreta attuazione in una ricerca debitrice dei sensi rispetto alla quale,dunque, questi ultimi perdono la connotazione di ostacolo per assumere quella di ausilio, è presen-te anche all’interno del De musica, dove, tuttavia, la materia non può più essere considerata privadi essere in quanto creata direttamente da Dio e, nel contempo, l’origine del male è interamentericondotta alla libera volontà del singolo.

7Nel primo libro del De musica, ad esempio, il disprezzo nei confronti degli istrioni e dei musiciè espresso con decisione, così come è manifesta, in relazione al secondo aspetto, la consapevolezzadel fatto che non solo tutti gli uomini, ma addirittura gli animali sono in grado di apprezzare ladolcezza di una melodia. Quanto al terzo punto, nel contesto della discussione che viene svoltanel sesto libro in merito alla disposizione gerarchica dei numeri ovvero degli schemi dei suonidifferenziati in funzione del loro afferire al suono fisico, al senso, alla voce, alla memoria, e allafacoltà naturale di giudizio, Agostino non esita a stabilire l’inferiorità di quelli sensibili.

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tecnico che anima i precedenti per profondersi in riflessioni di ampio respiro

in merito al significato e all’utilità della disciplina, Agostino affermi che il su-

perbo amore per l’azione e la produzione dei numeri inferiori sia la causa della

corruzione dell’anima che si allontana dalla contemplazione di Dio:

In generale l’amore per l’azione che distoglie dal vero sorge dal-la superbia. Con questo vizio l’anima ha preferito imitare Dio piut-tosto che servirlo. E così resta giustamente scritto nelle sacre Scrit-ture: Inizio della superbia dell’uomo è allontanarsi da Dio e Inizio di ognipeccato è la superbia. (...) E questo appetito dell’anima è di avere sot-to di sé altre anime, non di bestie, che è permesso dal diritto divino,ma razionali, cioè sue simili, che dividono con lei, come compagne,la medesima legge. E l’anima superba desidera agire su di esse,e questa azione le sembra tanto più eccellente di quella sui corpiquanto più ogni anima è migliore di ogni corpo. Invece solo Diopuò aver potere sulle anime razionali, non attraverso la mediazionedel corpo, ma per se stesso (mus. VI, xiii, 40-41).

È possibile che una consapevolezza così profonda dell’ebbrezza data dal senso

di potere sull’anima, assai diverso da quello, anche tirannico, esercitato in poli-

tica poiché efficace non solo sull’esteriorità dei comportamenti, ma sull’interio-

rità degli uomini, fosse stata accumulata da Agostino nella lunga esperienza di

retore nel corso della quale aveva potuto sperimentare la forza persuasiva del-

la parola e, in particolare, della sua veste sonora. Questa qualità della retorica,

che costituisce anche il suo fine proprio e che, come si avrà modo di appro-

fondire in seguito, aveva reso da sempre problematica la sua legittimazione

come disciplina liberale, risulta dunque comune anche alla musica, sebbene

limitatamente alla sua distinta dimensione pratica, segnalando il sussistere di

un legame di parentela tra le due arti.

Ciò che ora si tratta di rintracciare è la radice ultima di questo legame. Ri-

conosciuto grazie all’affinità esibita dagli effetti, ovvero il potere esercitato sul-

l’anima, esso va indagato alla luce dell’articolazione interna della paideia libe-

rale, nell’origine che custodisce l’essenza stessa delle due discipline. Già si è

visto come la suddivisione secondo il trivio e il quadrivio ricalcasse una dif-

ferente attitudine di fondo, rispettivamente poietico-compositiva e teoretico-

scompositiva, e come questo rinviasse, in ultima analisi, all’assunzione di un

differente concetto di archè, come elemento o come principio. Coerentemente

con questa distinzione, la quale, tuttavia, tendeva a sfumare nel riferimento

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16 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

unificante a un’idea onnicomprensiva di razionalizzabilità, la nozione di ar-

te riconduceva ogni applicazione pratico-produttiva entro l’assetto scientifico

della disciplina, senza che esso ne risultasse intaccato. Le uniche due discipli-

ne che avevano opposto una resistenza in questo senso erano state, appunto,

la retorica e la musica, entrambe affette da un’ambiguità che si rifletteva sul

modo stesso di essere arti e che era adombrata dall’allusione alla possibilità

di esercitare un uso della conoscenza e non più solamente una disinteressata

fruizione8.

Alla luce di queste considerazioni è possibile formulare con maggiore chia-

rezza l’ipotesi sopra accennata, secondo cui l’ambiguità che caratterizza l’at-

teggiamento di Agostino nei confronti della musica deriva fondamentalmente

dalla duplicità della sua essenza di disciplina, che non si limita a rinvenire la

legge razionale per contemplare l’opera del Creatore a partire dalle sue tracce9,

ma prefigura per l’uomo stesso la possibilità di operare in virtù del possesso

della regola. Non l’abbandono passivo al piacere dei sensi tipico del peccato

di concupiscenza10, dunque, ma l’esercizio attivo di un potere che pretende,

almeno nascostamente, di imitare superbamente quello di Dio è ciò che più

tormenta Agostino. In questa prospettiva, la decisione di approfondire il lega-

me con la retorica concretizza l’intento di concentrare lo studio non sull’aspetto

passivo della ricezione, quanto piuttosto su quello attivo della produzione.

Archetipo di ogni atto produttivo umano, la Creazione era concepita dal

Cristianesimo come un atto intenzionale e libero di Dio, espressione di un pro-

getto dinamico e non esito di un processo di emanazione necessaria. Rispetto

8Lo schema frui-uti era di origine pagana: già Varrone aveva operato una distinzione tra le cosein funzione del loro dover essere conseguite propter se ipsum o propter aliud e l’aveva posta in cor-rispondenza con il duplice ordine di realtà della condizione umana, ovvero spirituale e corporea.Dopo di lui, Seneca aveva accentuato la contrapposizione tra i due ambiti indicando una divari-cazione tra le rispettive finalità e Agostino, in sostanziale accordo con questa impostazione, avevaassunto la distinzione per esprimere il monito a usare le realtà mutevoli e riservare la fruizione aquelle immutabili.

9«Sollecitati da quel che giudichiamo a esaminare la norma in base a cui giudichiamo e spintidalle opere delle arti a considerare le leggi delle arti stesse, con la mente contempleremo quellabellezza a confronto della quale sono brutte quelle cose che, grazie ad essa, sono belle. Infatti,dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate conl’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. In questo consi-ste il ritorno dalle verità temporali a quelle eterne e il rinnovamento della vita con il passaggiodall’uomo vecchio all’uomo nuovo» (vera rel. 52, 101).

10Agostino adotta lo schema delle tre consupiscenze presente in 1 Ep. Io. 2, 16, concupiscientiacarnis, concupiscientia oculorum, ambitio saeculi, cui fa corrispondere, rispettivamente, i peccati legatiall’attività dei sensi, quelli dovuti all’avidità di conoscenza fine a se stessa, e, infine, quelli impu-tabili alla vanagloria. Questa ripartizione viene usata assai spesso da Agostino, soprattutto nellaforma voluptas, curiositas, superbia.

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alla tradizione speculativa pagana, di cui il sistema plotiniano offre, sotto que-

sto aspetto, un esempio eloquente, la visione cristiana aveva introdotto dunque

un elemento radicalmente nuovo, in virtù di cui l’esistenza del cosmo risultava

ricondotta a un atto volontario e gratuito.

Un elemento potentemente suggestivo nell’allegoria descritta dal libro del-

la Genesi è il risuonare della voce di Dio nell’assoluta assenza di forma anteriore

all’atto della creazione il quale, sebbene privo di qualunque intento comunica-

tivo giacché solo Dio esisteva, si manifesta di fatto come un atto essenzialmente

linguistico: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e

deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle ac-

que. Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (I, 1-3). La Creazione, così considerata,

si configura dunque come la prima, eminente e insuperabile manifestazione

della potenza della parola: radicalmente creatrice nel Verbum che conferisce

l’esistenza per mezzo della forma, tale potenza mantiene una somiglianza nella

parola proferita dall’uomo, la quale, per quanto avente come fine proprio il ri-

specchiamento fedele del reale nella comunicazione, ha però anche il potere di

scostarsi da esso, di trasformarlo con la forza dell’immaginazione sostituendo-

vi i suoi prodotti. Un dato significativo in questo senso è il fatto che Agostino,

nel De Trinitate, abbia sviluppato la propria teoria del verbo interiore in ana-

logia con la struttura trinitaria, affermando che come la seconda persona della

Trinità, il Verbum, si è incarnato nell’Emanuele, così il pensiero concepito in-

teriormente prima della sua espressione linguistica si incarna nel suono della

voce11. Proprio qui si consuma, com’è evidente, la possibilità per l’uomo di do-

minare i suoi simili, di agire con la parola sull’anima per piegarla a piacimento,

senza alcun riguardo per la verità.

Ciò che si verifica con la pronuncia della parola, secondo Agostino, non è

un trasferimento del significato dal parlante, ma il suo riaffiorare in chi ascolta,

ai fini del quale la funzione della voce appare tanto essenziale quanto effimera.

Come C. Panti12 ha osservato, infatti, «il ministerium vocis è attivo in funzione

della componente semantica della parola, ma è efficace attraverso la compo-

nente fonica». Ciò che la voce trasmette, oltre al significato, è una tonalità

emotiva espressa tramite un’inflessione e una modulazione appropriate della

11Cfr. trin. XV, vii, 12.12[104, p. 174.]

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18 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

componente sonora che, come un vero e proprio strumento, ottiene di modifi-

care l’animo di chi ascolta secondo l’intento di chi parla. Il dato indiscutibile,

di cui Agostino dimostra profonda consapevolezza, è che il suono non può

essere considerato come un supporto inerte. Da un lato esso individua un fe-

nomeno (res) nel quale le leggi razionali dell’ordine imposto da Dio si rendono

riconoscibili e che, pertanto, si offre alla conoscenza come oggetto degno del-

lo studio liberale; dall’altro si presta in veste di strumento (verbum), neutrale

ma potente al punto da potersi ribellare alla sua originaria funzione di fedele

riproposizione del vero, dando vita a immagini prive di un referente reale e,

perciò, false.

Oltre che strumento della creazione, la parola di Dio è anche medio di un

rapporto di costante comunicazione con l’uomo, rapporto che si declina in va-

rio modo, stabilendo differenti gradi di passività da parte di quest’ultimo. Im-

plicita nella creazione, che, in quanto originaria parola di Dio e realizzazione

del suo disegno razionale, offre all’uomo la possibilità di riconoscerne le tracce

mediante l’applicazione allo studio liberale, tale volontà di comunicazione si

rende esplicita nella parola rivelata delle Scritture, che richiede all’uomo l’e-

sercizio di un’attività esegetica13, per annullarsi, infine, nella chiamata diretta

di Dio, imprevedibile e immeritabile atto di grazia. Se è vero che l’intervento

di Dio non è mai assente, nemmeno nel primo caso in cui l’uomo deve agi-

re per meritare la salvezza, è vero anche che nel terzo tale requisito cade del

tutto e che egli, impotente, appare completamente determinato dalla volontà

di Dio. Saranno la prima e la terza via, apparentemente collocate agli anti-

podi, a costituire lo sfondo del presente studio, termine di riferimento ultimo

per la lettura condotta secondo i due paradigmi individuati e filigrana dell’in-

terpretazione dell’ars musica da un lato e dell’ars rethorica e del cantus practicus

dall’altro come metafora, rispettivamente, dell’ordine razionale del creato e del

13Nella sua infinita provvidenza, Dio non dimentica i limiti insiti nella natura umana, compresiquelli che indeboliscono la sua capacità conoscitiva: «Se non possiamo ancora godere dell’eterni-tà, attribuiamolo almeno alle nostre immaginazioni ed espelliamo dalla scena della nostra mentegiochi così futili e ingannatori. Per salire serviamoci dei mezzi che la divina Provvidenza si ècompiaciuta di creare per noi. Quando, infatti, troppo presi da divertenti immagini, ci perdeva-mo dietro ai nostri pensieri e volgevamo tutta la vita a certi vari sogni, Dio, nella sua indicibilemisericordia, non disdegnò di giocare, in certo modo, con noi bambini per mezzo di parabole esimilitudini, facendo ricorso, attraverso suoni e scritti (dal momento che la creatura razionale èsottomessa alle sue leggi), al fuoco, al fumo, alla nube, alla colonna come a parole visibili, e dicurare i nostri occhi interiori con questa sorta di fango» (vera rel. 50, 98).

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 19

potere anarchico del suo Creatore.

1.1 Il numero e il modello razionale del cosmo

1.1.1 Nascita di un’idea

L’idea di una mathesis universalis, di una concezione secondo cui il cosmo pos-

siede, a tutti i suoi livelli, una struttura razionale e coerente, conoscibile e do-

minabile attraverso la costituzione di un sistema di principi fondati sul concet-

to di numero si sovrappose precocemente all’evoluzione della matematica la

cui nascita, in quanto geometria, era stata determinata da esigenze eminente-

mente pratiche14. Proclo aveva osservato che, al pari di quello di tutte le altre

scienze, il percorso seguito da tale evoluzione aveva dovuto necessariamente

prendere le mosse ’dal basso’, ovvero dalla concretezza della percezione sen-

sibile coinvolta, ad esempio, nell’atto della misurazione per guadagnare solo

in un secondo momento il meccanismo del calcolo ed essere infine assunta, in

virtù della sua efficacia, come possibile chiave per la decifrazione dell’ordine

dell’universo. Il significato e la portata di questa concezione non furono chiari

sin dall’inizio, ma subirono profondi mutamenti in rapporto alla diversa con-

notazione del concetto di quantitas, che identifica la categoria fondante comune

alle cosiddette scienze esatte.

Se la più compiuta formalizzazione e sistemazione della matematica gre-

ca fu raggiunta con gli Elementi di Euclide, verso l’inizio del IV sec. a. C.,

l’intuizione o, almeno, la presenza implicita di un’idea di mathesis universalis

può essere rintracciata già nella tradizione filosofica pitagorica e platonica, per

quanto in modi assai differenti. L’elemento di sostanziale discrimine tra le due

visioni si rende riconoscibile nella diversa definizione dell’oggetto stesso della

matematica, il concetto di numero, da cui, necessariamente, la costituzione del

metodo dipende.

La concezione pitagorica dell’unità, così pesantemente connotata in senso

materialistico da definire il numero come limite (hòros) delle cose e da attribui-14Nel Commento agli elementi Proclo informa che la geometria era stata inventata nell’antico Egitto

e che serviva per rideterminare i confini dei campi dopo le piene del Nilo. Talete, cui sempre lamedesima fonte attribuisce il merito di aver importato in Grecia le prime conoscenze matematicheacquisite in Egitto, aveva conservato un metodo empirico e intuitivo, pesantemente vincolato alcaso particolare e, nel complesso, essenzialmente euristico.

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20 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

re al punto il possesso di una dimensione, ancorché minima, aveva stabilito

un legame privilegiato tra aritmetica e geometria, destinato a entrare in crisi

con la scoperta delle grandezze incommensurabili. Tale scoperta, che scaturì

come risultato totalmente inatteso dallo studio delle proporzioni tra grandez-

ze, se da un lato minò irrecuperabilmente l’integrità della dottrina pitagori-

ca, dall’altro creò lo spazio per l’emergere di una teoria astratta della quan-

tità, sradicando in maniera decisiva il concetto di numero dalla dimensione

problematico-intuitiva che lo aveva nutrito sino ad allora.

Un contributo fondamentale in questa direzione fu offerto da Platone, seb-

bene in modo indiretto e non specifico. Anche lasciando da parte il contenuto

delle ben note dottrine non scritte, le quali subordinano di fatto la teoria delle

idee a una teoria duale dei principi che mostra forti affinità con l’aritmetica pi-

tagorica, molti dei dialoghi lasciano intravedere alla base un’impostazione ma-

tematizzante, quantomeno sul piano delle intenzioni. L’esempio più significa-

tivo in questo senso è costituito dal Timeo15, puntuale esposizione della teoria

cosmogonica di Platone, in cui l’elemento matematico sostiene e compenetra

l’intera costruzione ontologica, determinandone la scansione gerarchica.

Dal punto di vista epistemologico, invece, la collocazione della matemati-

ca in rapporto alle altre forme di conoscenza era stata definita nel sesto libro

della Repubblica, dove era stata identificata come dianoetica e giudicata inferiore

rispetto alla dialettica: «In effetti, per quanto coloro che scrutano l’essere per

mezzo di queste arti siano tenuti a coglierlo tramite l’intelligenza e non i sensi,

tuttavia, poiché lo contemplano non risalendo al suo principio ma a partire dal-

le ipotesi, ti sembra che costoro non abbiano piena conoscenza di tali oggetti,

per quanto, per via della loro connessione con i principi, essi pure siano degli

intelligibili. E mi pare che la condizione propria dei geometri e quella di coloro

che sono simili ai geometri tu la chiami dianoia e non intelligenza, come se la

dianoia fosse alcunché di intermedio fra l’opinione e l’intelligenza» (Repubblica

511 d). Gli effetti di questa sistemazione si rendono evidenti nella descrizio-

15Cfr. Timeo 34 b - 37 c. In particolare: «E cominciò a dividere nel modo che segue. In primoluogo tolse una parte, e dopo di questa ne tolse una doppia di essa, e poi una terza che era unavolta e mezzo la seconda e tre volte la prima, poi una quarta che era doppia della seconda, poi unaquinta che era tripla della terza, poi una sesta che era otto volte la prima e infine una settima cheera ventisette volte la prima» (35 b - c). La serie, come è facile constatare, è formata dai seguentinumeri: 1 2 3 4 9 8 29. Il particolare della precedenza del nove rispetto all’otto è motivato dalmantenimento dell’alternanza di radoppio e triplicazione.

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 21

ne della struttura e del metodo della matematica che, rispetto al precedente

Menone, dimostrano una maggiore vicinanza alla forma assiomatico-deduttiva

degli Elementi di Euclide16. Quest’ultima si istituisce, per Platone, come trat-

to identificante delle scienze matematiche, i cui procedimenti logici vengono

accuratamente distinti da quelli della filosofia: là dove i primi muovono dai

principi in maniera essenzialmente deduttiva, infatti, i secondi compiono il

percorso inverso dall’ipotetico all’incondizionato, compiendo un movimento

che Platone definisce dialettico.

Contestualmente alla superiorità del movimento dialettico-noetico, veniva

stabilito il ruolo eminentemente propedeutico della conoscenza matematica e,

con essa, di tutte le discipline aventi come oggetto una particolare concretizza-

zione del numero nello spazio o nel tempo come, oltre alla geometria, l’astro-

nomia e la musica. Iniziava insomma a profilarsi l’idea di un genere comune a

un certo gruppo di discipline, quelle dianoetiche, o, detto altrimenti, la genera-

lizzabilità dell’oggetto della matematica in virtù della sua risoluzione nel con-

cetto di un’unità di misura costante per tutte le operazioni di organizzazione

logico-quantitativa del molteplice sensibile.

In questa direzione si mosse, in seguito, soprattutto Aristotele, che confe-

rì un taglio sistematico alla questione elaborando, negli Analitici Secondi17, un

modello formale valido per tutte le scienze. Definite come conoscenze basate

sulla dimostrazione, cioè sul sillogismo scientifico, esse risultavano individua-

te ciascuna nella sua specificità da un insieme di principi propri (ídia) conte-

nenti le determinazioni degli oggetti di pertinenza, mentre apparivano riunite

in un unico corpo omogeneo in forza di un rapporto di analogia fondato sul-

la condivisione di principi comuni (axiómata o koiná). La consapevolezza del

progresso portato dalla messa a punto di un modello formale comune è pre-

sente negli scritti aristotelici. A confronto con la precedente metodologia, la

quale imponeva di procedere alla dimostrazione di una medesima proprietà

separatamente per tutte le specie di oggetti, tale modello consentiva, grazie

all’identificazione di un genere comune, di ottenere una teoria universalmen-

te valida: «Ora invece la cosa viene provata universalmente (nyn kathólou): in

effetti, ciò che si suppone appartenere universalmente all’oggetto, non appar-

16A questo proposito si veda l’analisi condotta da L.M. Valditara in [148, p. 61 ss.].17Si vedano, in proposito, i capitoli v e vi del primo libro.

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22 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

tiene più separatamente a degli oggetti, in quanto linee o in quanto numeri, ma

appartiene ormai all’oggetto, in quanto un determinato qualcosa» (74 a).

Se la specificità di ogni singola disciplina era data dal suo oggetto - numeri

(arithmói), lunghezze (méke), volumi (stereá) e intervalli di tempo (chrónoi) - la

validità universale era assicurata invece dall’appartenenza a un medesimo ge-

nere, il quale li comprendeva in sé alla maniera di un oggetto comune, essenza

del concetto di quantitas (posón). Non più razionalizzata alla maniera platonica

ed epressa da numeri sostanzializzati come enti intermedi tra il mondo sen-

sibile e quello delle idee, essa diveniva categoria, modo di predicazione della

sostanza e, in quanto ontologicamente dipendente da essa, strumento logico

unitario di misurazione di rapporti tra grandezze omogenee. Sebbene il con-

cetto di unità avesse conservato l’indivisibiltà come qualità definitoria, essa si

trovava ora svincolata sia dalla corrispondenza immediata con la realtà sensi-

bile supposta dai Pitagorici, sia dal realismo logico platonico per assumere, in

definitiva, un carattere logico trascendentale.

L. Valditara18 cita, a questo proposito, un passo di Alessandro di Afrodisia

in cui si trova espresso chiaramente il ruolo che, in virtù della sistemazione

compiuta, risultava attribuito alle scienze matematiche: «Le scienze matemati-

che non si occupano né delle cose sensibili in senso assoluto in quanto sensibi-

li, né affatto di altre cose che siano diverse da quelle sensibili, ma si occupano

di cose che sono sì sensibili, ma non in quanto sensibili bensì in quanto so-

no grandezze e linee e superfici». Ciò che viene ribadito è precisamente lo

svincolamento dell’oggetto delle scienze matematiche da un qualunque grado

ontologico in quanto tale, sia esso sensibile o intelligibile, e il suo confluire in

un medesimo oggetto privo di esistenza autonoma e, perciò, universalmente

applicabile a enti numerabili o misurabili.

La definizione teorica del modello assiomatico-deduttivo, di seguito elabo-

rata soprattutto in seno all’Accademia platonica, costituì, per certi versi, la fase

preparatoria per la successiva elaborazione tecnica, che raggiunse compiuta

espressione negli Elementi del matematico alessandrino Euclide. La dimensio-

ne che venne recuperata dalla geometria euclidea e coniugata con il requisito

logico dell’incontraddittorietà del sistema fu la relazione con il mondo degli

18Cfr. Ivi p. 72.

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 23

oggetti sensibili, convertita nei termini propri della disciplina per mezzo del-

la definizione. Quest’ultima svolgeva una funzione analoga a quella dell’idea

platonica in quanto, per la sua forma generalizzata, identificava l’essenza geo-

metrica dell’oggetto sensibile che, in seguito a ciò, manifestava la propria in-

telligibilità legittimando dal punto di vista teoretico la vocazione pratica delle

scienze matematiche19 . L’intento programmatico di trasferire l’oggetto di stu-

dio in ambito sovra-sensibile individuava il tratto di continuità più significati-

vo tra la riflessione platonica e quella euclidea, ma per il diverso ruolo di cui

era investito ne indicava, nel contempo, la distanza: se nel primo caso, infatti,

esso rientrava in un programma generale di astrazione dalla molteplicità sensi-

bile, nel secondo era funzionale all’efficacia del metodo, la quale necessitava di

affiancare all’atteggiamento eidetico-contemplativo delle essenze geometriche

un orientamento pragmatico-costruttivo. Ecco perché, accanto alle definizioni,

Euclide aveva predisposto un corpo di postulati20, i quali condensavano i crite-

ri di costruzione degli enti geometrici e le modalità di relazione tra essi, facen-

doli uscire dalla staticità della descrizione per inserirli nel contesto dinamico

della loro riproducibilità e manipolabilità.

In definitiva, l’approccio scientifico euclideo mostrava di accogliere entram-

be le tendenze espresse sino ad allora dalla filosofia della matematica, quel-

la materialistico-compositiva e quella eidetico-contemplativa. Nondimeno, le

corrispondenti caratterizzazioni del concetto di elemento apparivano coesiste-

re negli Elementi, anche se non senza ambiguità. Proprio quest’ultima, tuttavia,

per il fatto di implicare una sovrapposizione tra dimensione fisico-materiale e

eidetico-formale avrebbe consentito un’apertura, per quanto forse non del tut-

to consapevole né voluta, all’elaborazione di una prospettiva matematizzante,

di nuovo di pertinenza della filosofia.

Un esempio di come la sistemazione euclidea della geometria potè essere

incorporata quale necessario elemento di mediazione all’interno di un sistema

ontologico generato discensivamente attraverso il progressivo svolgimento di

un principio supremo e conoscibile attuando il percorso inverso, a partire dal

livello più basso della molteplicità sensibile, è costituito dalla teoria procliana

dell’essere. Compreso tra i due poli estremi della conoscenza sensibile e della

19Cfr. Ivi p. 85 ss.20I postulati sono proposizioni assunte come vere, che non richiedono l’assenso del discente.

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24 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

conoscenza noetica, tanto perfetta quanto autosufficiente, il sapere matematico

vi costituiva, come già per Aristotele, il genere comune a tutte le scenze esat-

te e finiva per identificarsi con l’unica possibile forma di filosofia. Un aspetto

degno di nota della metafisica procliana, che introduceva una differenza signi-

ficativa rispetto a quella platonica, riguardava il rapporto intercorrente tra la

dialettica e la matematica, che, in virtù della comunanza di metodo appena in-

dicata, si configurava in termini di inclusione. Tale inclusione, che sul versante

ontologico trovava fondamento nel processo di esplicazione dell’Uno secon-

do progressivi livelli gerarchici, motivava l’estensione dell’ambito applicativo

della matematica anche ad altre discipline variamente applicate alla moltepli-

cità sensibile, in quanto tutte, indistintamente, si concentravano su un aspet-

to particolare dell’ordine necessario che quell’esplicazione aveva prodotto e,

pertanto, non potevano prescindere dall’unico metodo plasmato su di essa.

L’applicazione generalizzata del metodo della matematica risulta esplici-

tamente affermata per varie discipline, tra cui sono espressamente citate non

solo la musica, il che non rappresentava certo una novità, ma anche le arti della

parola, come la retorica, cui è attribuito uno statuto teoretico: «Alle arti teore-

tiche, quali la retorica e tutte le altre che si esprimono mediante discorsi, essa

aggiunge perfezione e ordine (...); così alle arti poetiche essa si pone a model-

lo fornendo le proporzioni alle loro composizioni». Il dato che maggiormente

appare significativo nel confrontare il diverso atteggiamento che, pur nella con-

divisione del metodo, quello matematico, distingue la retorica dalla musica è il

convinto e inaspettato collegamento di quest’ultima con l’ambito morale piut-

tosto che con quello teoretico: «Inoltre, la scienza matematica ci perfeziona per

la filosofia morale immettendo ordine e vita armoniosa nei nostri costumi e ci

fornisce atteggiamenti e canti e movimenti convenienti alla virtù21» (Commento

agli Elementi 24, 4-7).

La concezione procliana della matematica come scienza comune, in rappor-

to privo di soluzione di continuità rispetto alla scienza prima, si riverberava

dunque in ambiti diversi da quello teoretico e gnoseologico, estendendosi a

quello etico ed estetico. In virtù di ciò essa si imponeva come unico criterio

valido per giudicare tanto la bontà quanto la bellezza delle cose, informante la

21Cit.in L. Valditara, op. cit. p. 106.

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 25

stessa capacità ricettiva e discriminante dei sensi. Il presupposto che stava alla

base di tale rapporto di continuità tra il piano del razionale e quello del sensibi-

le rinviava, in ultima analisi, all’unificazione delle due accezioni del concetto di

principio, in virtù di cui il movimento contemplativo-scompositivo includeva

quello compositivo, restaurato nella sua originaria valenza pratica.

Sebbene non sia possibile rintracciare con precisione in che modo la conce-

zione matematizzante di matrice pitagorico platonica giunse sino ad Agostino,

è indubbio che essa costituì una componente fondamentale nella sua formazio-

ne, testimoniata con grande evidenza nei dialoghi composti durante il soggior-

no a Cassiciaco e nel periodo immediatamente successivo al ritorno in Africa.

Secondo la ricostruzione di Solignac22, le possibili fonti pitagoriche rinviano

a Varrone, con particolare riferimento al De principiis numerorum e al De arith-

metica, oltre che al neopitagorico Nicomaco di Gerasa, autore di un’Introductio

arithmeticae. Quest’ultima opera, soprattutto, sembra interessata da precisi ri-

scontri negli scritti agostiniani: valga per tutti un passo del De ordine in cui,

come osserva Bettetini23, si afferma che «i numeri regnavano ed erano in tut-

te24 le cose» (II, xv, 41), il quale presenta forti assonanze con uno contenuto

nell’Introductio, secondo cui tutte le cose sono rese perfette dal numero domi-

nante nell’intelletto divino25. Altre fonti di Agostino potrebbero essere stati

gli Elementi di Euclide e i trattati sulla musica e l’aritmetica di Teone di Smir-

ne, anche se non è plausibile ipotizzare una lettura diretta dei testi. Marrou,

prendendo in considerazione le ricostruzioni proposte dai principali studio-

si26, ritiene verosimile che Agostino abbia letto il De Arithmetica di Teone di

Smirne, in quanto incluso nei Disciplinarum libri di Varrone, e il trattato di Ni-

comaco in una traduzione di Apuleio, ma l’ipotesi più cauta è che egli abbia

avuto accesso a questo tipo di conoscenze tramite una trattatistica di origine

greca, ampiamente diffusa in età tardo-imperiale.

22Cfr. [131, pp. 131-2.]23Cfr. [20, p. 33.]24È utile notare sin d’ora come il raggiungimento della consapevolezza che ogni cosa, nel creato,

ricade al di sotto del dominio del numero è portato, secondo Agostino, dalla scoperta della musicain quanto organizzazione razionale nella modulazione dei suoni: «Per prima cosa iniziò dall’udito,(...) e poiché le fu facile notare, attraverso le stesse parole, che le sillabe brevi e lunghe in undiscorso sono sparse più meno in ugual quantità, tentò di disporre e unificare quei piedi in ordinifissi, e seguendo in questa prima operazione l’udito stesso, segnò le suddivisioni proporzionali,che si chiamano cesure (caesa) e membra (membra)» (ord. II, xiv, 39-40).

25Cfr. VI, i, 12.26Cfr. [4, p. 446.]e [138, p. 70-1.]

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26 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

Limitandosi a una considerazione puramente teorica delle influenze che,

per quanto riguarda l’ambito ora in esame, si rendono riconoscibili negli scritti

del giovane Agostino, tra quelle unanimamente ammesse è possibile elencare

il pitagorismo, il platonismo, lo stoicismo e, in ambiente latino, le rielabora-

zioni di Varrone e di Cicerone. La loro presenza assume più spesso la forma

della reminescenza piuttosto che quella della citazione vera e propria, per cui è

forse più aderente al vero collocare Agostino in un contesto culturale mobile e

variegato, in cui le idee circolavano per mezzo di manuali e dossografie modifi-

candosi sensibilmente, innestandosi l’una sull’altra e favorendo la formazione

di concezioni eclettiche.

L’idea più generale, quella relativa alla presenza operante del numero nel-

l’universo, è chiaramente espressa in più punti del De libero arbitrio, i quali

manifestano analogie con testi platonici27 e plotiniani. Animato dall’intento

di mostrare come ogni cosa derivi il proprio essere da Dio e, per questo, non

possa evitare di contenere tracce che la identifichino come sua opera, Agosti-

no richiama l’attenzione del lettore sul fatto che, proprio in virtù della forma

esterna delle cose (ipsis exteriorum formis), l’anima può avvertire il richiamo del-

la sua interiorità. La forza che l’esteriorità delle cose può esercitare per mezzo

dei sensi (per corporeos sensus), è tale solo in virtù di una corrispondenza che

si istituisce a un livello diverso e superiore tra le leggi della bellezza (pulchri-

tudinis leges) che informano la ricettività sensibile e la struttura numerica delle

cose28. L’argomentazione di Agostino prosegue poi con suggestiva eloquenza:

«Osserva il cielo, la terra, il mare e qualunque cosa in essi o risplende dal di

sopra, o in basso striscia o vola o nuota. Hanno forme poiché hanno numeri

(formas habent quia numeros habent); togli loro queste proprietà e saranno nulla.

Qual è dunque il principio che li fa essere, se non quello che fa essere il nume-

ro? Giacché l’essere a loro in tanto appartiene in quanto essere cose strutturate

matematicamente (in quantum numerosa esse)» (II, xvi, 42).

La presenza formante del numero era dunque, per Agostino, impronta del-

27Un passo che può essere citato come rappresentativo di tutti gli altri che compaiono nelle operedi Platone è il seguente, tratto dal Timeo: «E prima di questo tutte le cose si trovavano senza ragionee senza misura. Ma quando Dio intraprese a ordinare l’universo, il fuoco in primo luogo e la terrae l’aria e l’acqua, avevano bensì qualche traccia in sé, ma si trovavano in quella condizione in cui ènaturale si trovi ogni cosa, quando Dio è assente. Queste cose, dunque, che allora si trovavano inquesto stato Egli in primo luogo le modellò con forme e con numeri» (Timeo 53 b).

28Cfr. lib. arb. II, xvi, 41.

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 27

la creazione divina, che se per un verso costituiva la condizione necessaria a

legittimare la possibilità per l’anima di elevarsi, confidando nell’accessibilità

del reale alla conoscenza razionale, per un altro, simmetricamente, alludeva al

sussistere di una qualche forma di corrispondenza tra gli enti creati e i pen-

sieri di Dio. Proprio questo risultava essere, in ultima istanza, il fondamento

dell’istruzione liberale, con particolare riferimento alle discipline comprese nel

quadrivio29 il cui compito, sempre secondo misura, doveva essere quello di

guidare alla comprensione filosofica dell’ordine divino del creato.

1.1.2 Agostino e la triade di Sapienza 11, 21

Una delle preoccupazioni che avevano mosso Agostino nel periodo della sua

conversione e negli anni immediatamente successivi era stata quella di por-

re la creazione al riparo dall’eresia delle tesi manichee, togliendo fondamento

ontologico al principio del male e annullando così alla radice il dualismo che

spezzava l’integrità del creato compromettendo, con essa, la fiducia nella pra-

ticabilità di una spiegazione razionale dell’ordine divino. Che l’importanza di

quest’ultima discendesse da un presupposto ben differente dall’ideale del sa-

pere fine a se stesso emerge con evidenza in un’opera animata da un chiaro

intento antimanicheo, il De libero arbitrio, in cui Agostino si dispone innanzi-

tutto a dimostrare che Dio, creatore di ogni cosa, è l’unico Principio, privo di

antagonisti in grado di interferire con l’ordine da lui impresso il quale, di con-

seguenza, può legittimamente essere assunto dall’anima come guida lungo un

percorso di ascesa spirituale per gradi30.

La concezione di un cosmo ordinato secondo una struttura gerarchica e uni-

taria non solo offriva una giustificazione metafisica per ogni cosa, anche per il

male, ma rendeva accessibile il raggiungimento di un grado di perfezione re-

lativo attraverso la pratica di discipline intellettuali e morali31. Ciò che sembra

29«Nella musica poi, nella geometria, nello studio dei moti degli astri, nelle leggi dei numeri,l’ordine domina così tanto che se qualcuno ne vuole vedere la sorgente e lo stesso penetrale, o litrova lì, o attraverso esse vi è condotto senza alcun errore» (ord. II, v, 14).

30I. Hadot ritiene che la riflessione teorica sulla strutturazione dei gradi dell’istruzione liberalesvolta dagli autori compresi tra Agostino e Marziano Capella non derivasse da un intento propria-mente didattico, ma tracciasse piuttosto un itinerario della mente, volto al raggiungimento dellaverità sotto la guida razionale del numero. Per un approfondimento di questi temi si veda [66,soprattutto alle pp. 469-81. ]

31Come F. De Capitani osserva, l’idea che l’anima sapesse in che modo adeguarsi all’ordineuniversale in virtù di una legge custodita nella propria interiorità era di matrice plotiniana: «[Le

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28 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

possibile osservare, limitandosi per ora solo a un accenno, è che, agli occhi

del giovane Agostino, la ricerca della verità non era indipendente rispetto alla

ricerca della beatitudine ma che, anzi, il possesso della prima costituiva una

condizione necessaria al conseguimento della seconda.

La mossa indispensabile per scardinare il rigido dualismo manicheo e sal-

vare così la bontà della creazione consisteva essenzialmente nell’identificare

l’essere stesso con il bene, facendo convergere entrambi all’interno di un me-

desimo principio in grado di fungere da termine di mediazione tra il pensiero

di Dio e l’esistenza delle cose. In virtù di tale principio, la creazione si istituiva

come polo di un legame definito da una continuità mai interrotta, che nell’atto

stesso in cui conferiva l’essere alla creatura stabiliva la possibilità di risalire al

Creatore percorrendo la via della similitudine. L’aspetto più complesso, a que-

sto punto, consisteva nel definire i termini e la natura di tale similitudine, la

quale, presente in qualche misura in tutti gli enti creati, trovava nell’uomo la

sua più compiuta espressione:

Dio creò l’uomo a sua immagine;a immagine di Dio lo creò;maschio e femmina li creò

(Genesi I, 27).

L’urgenza di esprimere la presenza divina nel creato come concomitanza di es-

sere e intelligibilità trovò nel concetto di numero, così come era stato elaborato

dalla speculazione matematica e filosofica greca, un efficace strumento, preco-

cemente predisposto per essere investito del ruolo di principio ontologico. Non

deve stupire, quindi, che Agostino, trovandosi a disporre di una rielaborazio-

ne cristiana dell’antica idea pitagorico-platonica della creazione dell’universo

secondo il numero, ne facesse largo uso. Il riferimento è al ben noto versetto

11, 21 del libro della Sapienza:

Tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso

che condensava nella forza della citazione biblica temi filosofici fondamenta-

li della tradizione speculativa, assimilati nel corso della sua formazione32. M.

anime] vivono secondo un’altra legislazione, cioè secondo quella che governa tutti gli esseri, e adessa si sottomettono interamente» (Enneadi IV, iii, 15). Cfr. [31, p. 90.]

32È assai probabile che lo studio del Libro della Sapienza risalga agli anni di Milano e Cassicia-co, quando Agostino aveva iniziato a conoscere l’opera di esegeti come Basilio e, naturalmente,Ambrogio, in cui il riferimento al testo biblico in questione era piuttosto frequente.

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 29

Bettetini fa osservare come il Libro della Sapienza occupasse una posizione par-

ticolare tra gli altri testi della Scrittura a causa di una notevole vicinanza al

pensiero ellenistico, tale, addirittura, da aver indotto alcuni a non considerarlo

come un testo ispirato33. Nonostante ciò, tuttavia, Agostino aveva potuto tro-

vare in esso un valido strumento per contrastare le tesi eretiche, con particolare

riferimento a quelle che avevano cercato di negare che la creazione manifestas-

se un ordine impresso dalla Provvidenza divina facendo leva sull’inspiegabile

presenza del male. Ai componenti della triade mensura, numerus, pondus, egli

aveva infatti potuto ricondurre gli elementi costitutivi della creazione, facendo

emergere la struttura intelligibile di un tutto che ricomprendeva in sé anche il

disordine e il male, senza attribuirli a Dio. Lasciati nella creatura come impron-

ta del Creatore, tali elementi significavano per essa la possibilità di conformarsi

alla propria essenza, stabilita in virtù del rapporto di somiglianza originaria-

mente istituito con l’atto della creazione e declinato in funzione del grado di

partecipazione all’essere:

Da dove viene dunque questa correlazione (conrationalitas) - cosìinfatti ho preferito chiamare l’analogia (analoghìan34) - (...) da dove,ti prego, vengono queste cose, se non dal sommo ed eterno princi-pio dei numeri, della similitudine, dell’uguaglianza e dell’ordine?Ma se toglierai queste cose dalla terra non sarà più nulla (mus. VI,xvii, 37).

Una concezione che riconosceva in Dio il principio di tutte le cose, con il quale,

tuttavia, l’essere proprio di queste ultime intratteneva un rapporto di natura

estrinseca, dava origine al paradosso in cui l’unità di misura di tutto il misu-

rabile figurava come incommensurabile. In questo senso, nel De Genesi ad litte-

ram35, Agostino fa riferimento alla contemplazione della «Misura senza misu-

ra», del «Numero senza numero», del «Peso senza peso», affermando che essa

trascende le possibilità dell’uomo, segnandone l’estremo limite. Se in Dio mi-

sura, numero e peso non sono che nomi dell’unità, nelle creature essi operano33Il Libro della Sapienza fu composto in greco nella prima metà del I sec. a.C., probabilmente da

un giudeo alessandrino. Le forti assonanze con il platonismo hanno fatto ipotizzare che l’autorefosse addirittura Filone di Alessandria, per quanto ciò sia effettivamente poco verosimile. Tracoloro che non lo ritennero un testo ispirato vi fu Gerolamo, che, per questo, non lo incluse nellasua traduzione. La versione cui ebbe accesso Agostino era contenuta nella Vulgata sotto il nomedi Itala e risaliva al II sec., ma, per quanto riguarda il passo in questione, egli si discostò da essariportando non omnia mensura, numero, pondere disposuisti, ma omnia in mensura, numero, ponderedisposuisti. Cfr. M. Bettetini, op.cit. p. 128.

34In greco nel testo di Agostino.35Cfr. Gn. litt. IV, iii, 8.

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30 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

conferendo proporzione e, con il medesimo atto, l’essere stesso e il dover esse-

re proprio di ciascuna. I tre termini della triade, infatti, o gli equivalenti36 che

Agostino impiega nei suoi scritti, contengono un’allusione sia all’aspetto sta-

tico dell’ordine, sia a quello dinamico, con un’evidente richiamo alla struttura

trinitaria37.

In corrispondenza con questo concetto di armonia cosmica, Agostino, e al-

tri Padri della Chiesa38 con lui, ritenevano che l’anima dell’uomo reggesse con

proporzione l’ordine del corpo, in un rapporto di analogia tra macrocosmo e

microcosmo. Questo rapporto si rendeva particolarmente evidente nel caso

della musica, che in quanto arte liberale forniva una sorta di rappresentazio-

ne dell’astronomina nella dottrina dell’armonia delle sfere39, mentre in quanto

musica eseguita esibiva un’efficacia che le derivava esclusivamente dalla corri-

spondenza tra i numeri del suono e i numeri dell’anima40. L’idea di un isomor-

fismo strutturale tra musica e astronomia e di una corrispondenza tra musica e

psicologia, sviluppata in numerosi trattati tardo-antichi41 fu espressa in manie-

36Una variante della triade mensura, numerus, pondus è modus, species, ordo. Riscontro in questosenso può essere trovato nei seguenti testi: nat. b. III, iii; VIII, viii; lib. arb. III, xxxv; civ. V, xi; XI,xxviii; Gn. litt. IV, iii, 7 (modus, species, quies). Altri termini che ricorrono negli scritti agostinianiindipendentemente dalla citazione di Sap. 11, 21, ma in rapporto di analogia concettuale sonounum, unitas, principium per mensura; aequalitas, similitudo, speciem per numerus; ordo, bonitas, caritasper pondus. Cfr. lib. arb. II, xx, 54 e mus. VI, xvii, 56. Per un’analisi approfondita delle occorrenzedei vari termini si veda M. Bettetini, op. cit. pp. 133-47.

37Se la misura è la figura dell’unità, il numero lo è dell’uguaglianza e, con ciò della bellezza (spe-cies), mentre il peso esprime la tensione insita in ogni cosa ad assumere il proprio posto nell’ordine.Come M. Bettetini ha ipotizzato, è probabile che la fondamentale equivalenza tra numerus e specieso forma sia stata suggerita ad Agostino da Cicerone, il quale, nelle sue opere, impiegava il primotermine sia per indicare perfezione e qualità naturale, sia per caratterizzare il ritmo impresso alfluire delle sillabe. Analogamente, nel De musica, il numero si traduce in forma attraverso il ritmodella parola pronunciata ponendosi come fondamento ontologico di questa e rinviando, con ciò,al sussistere di un’equivalenza tra i numeri e le idee di Dio. Cfr. [22, p. 109.]

38Tra gli altri, Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio di Nissa e Ambrogio. Cfr. [38, p. 7 ss.]Il seguente passo, tratto dal De hominis opificio di Gregorio di Nissa, è assai eloquente in proposi-to: «Tutto il corpo è costruito alla maniera di uno strumento musicale. Come accade spesso agliesperti che sono nell’impossibilità di mostrare la <loro> conoscenza perché lo strumento è fuoriuso e non permette di ricevere l’arte (guastato dal tempo, o da una caduta, o reso inutilizzabile perqualche muffa o ruggine) e rimane senza suono e impossibile a usarsi anche se vi soffi un espertodi flauto, così anche l’intelligenza passando attraverso tutto lo strumento del corpo, adattandosiconvenientemente alle attività intelligibili conformemente alla sua natura, esercita la propria atti-vità, sulle parti che si trovano allo stato naturale, <mentre> in quelle deboli rimane inefficace il suoricevere movimento secondo arte: infatti si rivela in ciò che è secondo natura e si distacca da tuttociò che se ne distacca» (De hominis opificio 12, trad. it. di B. Salmona). Quanto ad Agostino, piùvolte egli afferma che tra i compiti assegnati all’anima per volontà di Dio vi è quello di prendersicura del corpo, conservandone la salute, ovvero la conformità all’ordine e alla forma suoi propri.Cfr. ad esempio mus. VI, v, 12-13.

39Cfr. [137, p. 12 ss.]40Per l’approfondimento di questo aspetto si rinvia al § 3.1, in cui l’analisi si soffermerà sulla

teoria agostiniana della sensazione.41Tra i principali bisogna citare il De die natali di Censorino (III sec.), il Commentario al Timeo di

Calcidio (IV sec.), il Commentario al Somnium Scipionis di Macrobio (V sec.) e il De nuptiis Mercurii

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1.1. IL NUMERO E IL MODELLO RAZIONALE DEL COSMO 31

ra sistematica nel De institutione musica di Boezio42, in cui la tripartizione della

disciplina in musica mundana, musica humana e musica instrumentalis esplicitava

il legame che unisce il cosmo e l’anima mediante la musica:

Tre sono le parti della musica nelle quali si manifesta la potenzadella musica (tres esse musicas, in quo de vi musicae).

La prima è appunto la musica del mondo, la seconda è quellapertinente all’uomo, e la terza è quella che si realizza al suono distrumenti, come cetre, tibie ed altri, posti al servizio del canto.

Vediamo dapprima quella che è la musica del mondo: essa deveessere colta soprattutto in quei fenomeni che si osservano nel cie-lo stesso, nell’insieme degli elementi o nella varietà delle stagioni.Come è possibile che la così veloce macchina del cielo si muova contacito e silenzioso corso? Sebbene non giunga al nostro udito quelsuono, ciò che necessariamente deve dipendere da molte cause, nonpotrà tuttavia un movimento così veloce di corpi tanto grandi noneccitare suono alcuno quando si tenga conto che i corsi degli astri,in modo particolare, sono tra loro connessi con tale armonia chenulla si possa intendere ugualmente organizzato, nulla che sia allostesso modo intimamente ordinato. (...) E come nelle corde gravic’è un termine del suono, in modo che la gravità non giunga finoal silenzio, e nelle acute c’è pure un limite di altezza, in modo chele corde troppo tese per l’esiguità del suono non si rompano, con-formandosi tutto secondo convenienza, così anche nella musica delmondo riconosciamo che nessun elemento può essere così smodatoda annichilire l’altro in virtù della propria eccessiva potenza. (...)

La musica umana, poi, la percepisce chiunque discenda in sestesso (quisquis in seseipsum descendit). Che cosa è infatti che associaal corpo quella incorporea vivacità del pensiero se non una certacombinazione, un equilibrato rapporto tra voci gravi e acute a rea-lizzare una consonanza? Che altro c’è che congiunge tra loro le partidi una stessa anima, la quale, come vuole Aristotele, è formata darazionale e irrazionale? E che cosa è che mischia gli elementi delcorpo o che congiunge le sue parti con valido adattamento? Anchedi questo discuterò più avanti.

Terza è la musica che si dice strumentale. Questa si realizza pereffetto di tensione, come negli strumenti a corde, o per mezzo del-l’aria, come nelle tibie, o in quelli che sfruttano il movimento del-l’acqua, o per mezzo di una percussione, come in quelli che, strut-turati a forma di cavità bronzee, vengono colpiti: ne derivano suonidiversi (De instutione musica I, 2).

L’ordine totalizzante imposto da Dio si istituisce, a qualunque livello, come

et Philologiae di Marziano Capella (V sec.).42La tripartizione della musica non era una tesi originale di Boezio, ma rinviava a una tradizio-

ne cosmologica arcaica, custode di un sapere costruito sul principio secondo cui a ogni realtà nelmondo fisico ne corrisponde una nel mondo intermedio, a sua volta ombra di un archetipo. Co-rollario di questa tesi era la determinazione delle due musiche inferiori come eco e imitazione dellaprima, di origine divina. Cfr. [81, p. 186 ss.]

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32 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

unico fondamento per qualsiasi disciplina, sia appartenente all’ordo vitae, ov-

vero all’insieme dei precetti etici, civili e religiosi stabiliti dall’auctoritas, sia ap-

partenente all’ordo eruditionis, traccia del percorso conoscitivo43 guidato dalla

ratio. Quest’ultimo, disegnato dalla stessa ragione impegnata nella riflessione

sulla natura del razionale44, include pertanto il contributo dei sensi, sebbene

limitatamente alla vista e all’udito, gli unici due in grado di cogliere la po-

tenza della ratio45. La razionalità colta attraverso la mediazione estetica, nello

specifico, è oggetto delle discipline in delectando e si colloca, secondo un’ideale

tripartizione46, accanto a quella propria delle azioni (in factis ad aliquem finem

relatis) e a quella propria dell’apprendimento (in discendo) che, rispettivamente,

esauriscono l’ambito etico dell’ordo vitae e quello teoretico dell’ordo eruditionis.

Un aspetto particolarmente significativo, nel contesto del presente studio,

riguarda la differenziazione dell’ammonimento agostiniano secondo i tre am-

biti citati e che, tralasciando quello etico che non interessa in questa sede, colle-

ga il recte docere alle arti del Trivio e il beate contemplari alle arti del quadrivio47.

Nel nesso tra il numerus e la delectatio si radica, in ultima istanza, l’origine della

forza psicagogica della forma del linguaggio che l’udito, unico tra tutti i sensi, è

in grado di testimoniare. Se è vero, infatti, che esso non può partecipare dell’ar-

monia manifestata dall’aritmentica, dalla geometria e dall’astronomia, è vero

però che la musica, come si esprime G. Stabile48, ad omnia se extendit, in quan-

to trova fondamento nelle prime due ed è isomorfa alla terza, come si è visto.

L’udito, in aggiunta, in quanto correlato della voce, è l’unico senso coinvolto

nelle discipline del trivio e, in virtù di ciò, sostiene e testimonia la continuità

del passaggio della ragione dalle arti del linguaggio a quelle del numero.

43La ricomprensione dell’attività conoscitiva nel disegno onnicomprensivo divino si riflette sulladeterminazione dei suoi fini, totalmente altri rispetto a quello della conoscenza fine a se stessa:«Guai a coloro che abbandonano la tua guida e vagano sulle tue tracce, che amano i tuoi cennianziché te (...). Anche l’artista (artifex), infatti, in qualche modo accenna allo spettatore della suaopera, proprio grazie alla bellezza dell’opera, di non arrestarsi tutto lì, ma di scorrere con gli occhila bella forma del corpo fabbricato in modo tale da correre con il sentimento (affectu) a colui che l’hafabbricato. Coloro che amano le cose che fai anziché te sono invece simili agli uomini che, quandoascoltano qualche facondo sapiente, mentre ascoltano troppo avidamente la soavità della sua vocee la costruzione delle sillabe minuziosamente disposte (suavitatem vocis eius et structuras syllabarumapte locatarum), perdono il primato dei pensieri (sententiarum principatum), dei quali quelle parolesono risuonate come segni» (lib. arb. II, xvi, 43).

44Cfr. § 2.2.45Sulla presenza di una componente razionale in questi due sensi a differenza degli altri si veda

il § 3.1.46Cfr. ord. II, xiv, 34.47Cfr. C. Panti, op. cit. p. 24.48Cfr. op. cit. p.12.

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1.2. LA PAROLA E L’ESPRESSIVITÀ IMMEDIATA DEL FONEMA 33

Come risulta dalla sua definizione in termini di modulari scientia, la musi-

ca, più delle altre discipline, dispiega tutta la portata della nozione di modus,

esplicitandola nelle sue declinazioni etiche, teoretiche ed estetiche. Fissata sui

due cardini del numero e del tempo, essa ottiene di congiungere la dimensione

immutabile dell’ordine razionale del cosmo, colto nella sua statica disposizio-

ne di rapporti aritmetici e geometrici, con quella di un’ordine dinamico, che se

da una parte vede il controllo matematico e razionale del tempo, specchio del-

la regolarità del movimento dei corpi celesti, dall’altra richiama la dimensione

esistenziale dell’anima immersa nel divenire, costretta a vivere e a conoscere le

cose in ordine di successione, costantemente esposta al rischio di disperdersi

nel succedersi atomizzato degli eventi e delle sensazioni. Tutto l’essere è razio-

nale, per Agostino, assieme al suo divenire, e in tale divenire è incluso anche

lo svolgimento del tempo storico e del tempo psicologico, che si intrecciano

variamente appressandosi verso una fine. Inaugurato dal Verbum, attraverso

cui tutte le cose sono state create, il tempo dell’uomo si snoda componendo

una sorta di poema49, un cantico razionale, un Lógos identificabile come espli-

citazione sensibile di un Arithmós puramente intelligibile. La composizione

di questo dualismo, dunque, è ciò che la musica incarna in quanto disciplina

«partecipe del senso e dell’intelletto» (ord. II, xiv, 41).

1.2 La parola e l’espressività immediata del fonema

La consapevolezza della profonda influenza che l’aspetto sensibile del segno

linguistico era in grado di esercitare sull’ascoltatore, intervenendo sull’effica-

cia della ricezione, emerse assai precocemente, anche se fu necessario parecchio

tempo prima che essa potesse divenire oggetto di uno studio sistematico vero

e proprio. Uno dei primi testi che, sebbene lontano dal proporsi finalità prati-

che, si concentrò sull’espressività immediata dei suoni fu, come noto, il Cratilo

di Platone. È opinione diffusa, tra gli studiosi, che la funzione espressiva del

suono delle lettere sia stata teorizzata proprio in questo dialogo, in cui, pur

rifiutandola, Platone delinea una vera e propria teoria dell’espressività fonica

delle parole, di un’espressività, cioè, che a prescindere dalla mediazione opera-

49A questo proposito si veda [74, .]

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34 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

ta dal significato si esercita immediatamente in virtù della struttura fonica del

significante50.

Di forte ispirazione platonica, Filone di Alessandria era stato il primo a

mettere a punto un metodo esegetico allegorico, il cui presupposto dottrina-

le fondamentale era la caratterizzazione della creazione come opera del Lógos,

luogo delle idee divine, traccia della quale era rimasta nei nomi delle cose, po-

sti da Dio per consentire all’uomo di coglierne la natura. La tesi filoniana sui

nomi delle cose ebbe largo seguito presso i Padri della Chiesa, ai quali giunse

arricchita dal contributo portato dalla filosofia stoica. Una figura significativa

in questo senso fu Origene, il quale prese parte alla questione sulla natura dei

nomi mostrando di essere consapevole dell’esistenza di due partiti avversi, l’u-

no di matrice aristotelica, propenso ad attribuirne l’origine alla convenzione,

l’altro, di matrice stoica, incline a ricondurla invece alla natura, che riconosce-

va nei nomi l’esito dei primi tentativi di imitare le cose con la voce51. Alla luce

di questo dato, la prima elaborazione sistematica di una teoria dell’onomato-

pea sembra attribuibile agli stoici, la cui tesi portante, in ambito linguistico, era

che l’aspetto esteriore del significante manifesta uno stretto legame con l’es-

senza della cosa significata, della quale il nome costituisce una vera e propria

imitazione.

L’attenzione degli stoici per i meccanismi della ricezione appare motivata

nel contesto dell’ampliamento dell’ambito della logica che, oltre all’analitica,

veniva a includere anche la psicologia. A monte di tale inclusione, che conferi-

50Nel dialogo, Socrate avanza l’ipotesi che il nome si costituisca come imitazione della cosa eche, di conseguenza, la sua funzione, lungi dall’arrestarsi all’indicazione del referente, consistanell’imitarne l’essenza. «Tuttavia, poiché vogliamo esprimerci con la voce, con la lingua e con labocca, non otterremo l’indicazione di ciascuna cosa, che avviene grazie a questi mezzi, quandoattraverso di essi si realizza un’imitazione di una cosa qualsiasi? - Mi pare necessario. - Allora,il nome è, a quanto pare, un’imitazione per mezzo della voce di ciò che viene imitato, e colui cheimita denomina per mezzo della voce ciò che imita. - Mi sembra. - Per Zeus, invece a me nonsembra proprio che sia detto bene, caro amico. (...) Non mi pare. Ma allora, Socrate, che imita-zione sarebbe il nome? - In primo luogo, per quel che mi sembra, non dovrà essere come quandoimitiamo le cose con la musica, benché anche in questo caso le imitiamo con la voce; inoltre nonmi pare che denominiamo nemmeno quando imitiamo anche noi ciò che la musica imita. Intendodire questo: ciascuna cosa ha suono e figura, e molte hanno anche colore? - Senz’altro. - Sembra,quindi, che non si eserciti l’arte onomastica quando si imitano queste proprietà, e nemmeno conqueste imitazioni: in questo caso, infatti, si tratta della musica e della pittura. Non ti pare? - Sì.- E riguardo a questo? Non ti sembra che ciascuna cosa abbia un’essenza, come ha anche coloree ciò di cui abbiamo appena parlato? E, innanzitutto, il colore stesso e la voce non hanno ciascu-no un’essenza, e così tutte le altre cose, che vengono considerate meritevoli della denominazionedell’essere? - Mi sembra proprio. - Ebbene, se si riuscisse a imitare di ciascun oggetto proprio que-sto, ossia l’essenza, mediante lettere e sillabe, non si mostrerebbe forse quello che ciascuna cosa è?Oppure no? - Senza dubbio» (Cratilo 423 b - 424 a).

51Cfr. Origene, Contra Celsum I, 24.

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1.2. LA PAROLA E L’ESPRESSIVITÀ IMMEDIATA DEL FONEMA 35

va centralità al soggetto, agiva una rivalutazione della sensazione come fonte

primaria di conoscenza, che si riverberava anche sulle elaborazioni successive

a questa, come la rappresentazione sensibile (phantasíai aisthetikaí). La convin-

zione che i prodotti di quest’attività possedessero i requisiti di una copia fedele

rispetto all’originale, l’oggetto che aveva originato la sensazione, costituiva la

condizione necessaria alla giusitificazione di una teoria dell’onomatopea e, più

in generale, dell’idea che l’aspetto fonico dei nomi fosse in grado di significare

direttamente aspetti della natura.

In questo contesto merita di essere posto in luce un trattatello incompiuto,

il De dialectica, opera di un autore che dichiara di chiamarsi Augustinus e che

molti studiosi, oggi, ritendono verosimile identificare con Agostino. Questo

scritto rappresenta una delle principali testimonianze sulla teoria stoica del-

l’etimologia, anche se, con tutta probabilità, essa vi compare ricostruita non

sulla base di fonti originali, ma piuttosto tramite Cicerone e Varrone. Come W.

Belardi52 ha sottolinato, attraverso quest’ultimo Agostino aveva forse risentito

in qualche misura della teoria platonica del Cratilo, ma, assieme agli stoici, se

ne era discostato significativamente. L’aspetto interessato da questa divergen-

za riguarda il valore riconosciuto al suono (phoné) all’interno della dinamica

di formazione dei nomi primi (prota onómata), che nel dialogo platonico appare

esclusa. Se è vero, infatti, che la tesi della corrispondenza naturale tra parole e

cose si basa sul presupposto dell’individuabilità di tali elementi primi, dotati

di senso e non ulteriormente scomponibili53, è vero anche che Socrate, prima

di iniziare a discutere della valutazione del corretto impiego delle singole let-

tere nella composizione dei nomi primi, avverte del carattere eminentemente

congetturale degli esiti di una simile ricerca, giudicati a priori come azzardati e

ridicoli. (426 b).

Nel De dialectica, la possibilità di risalire alla qualità della cosa a partire dal

suono del nome non è esclusa, anche se un certo intento polemico nei confronti

dello stoicismo interviene a ridimensionare fortemente la valutazione dell’uti-

lità di condurre concretamente una ricerca sull’origine di ogni parola. Là dove

gli stoici ritenevano che tale ricerca terminasse sempre in una spiegazione sicu-

52Cfr. [16, p. 269.]53Gli esempi di prota onómata forniti da Platone sono i seguenti: ion, ’ciò che va’, rheon, ’ciò che

fluisce, doun, ’ciò che lega’. Cfr. Cratilo 424 a.

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36 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

ra, qualora fosse spinta «sino al punto in cui la cosa concordi con il suono della

parola per qualche somiglianza54 (ut res cum sono verbi aliqua similitudine conci-

nat)», Agostino giudicava che la maggior parte delle volte essa si trasformava

in un’impresa senza fine, «troppo minuziosa e non troppo necessaria». A parte

questa valutazione di carattere pratico, tuttavia, Agostino dimostrava di esse-

re in sostanziale accordo con la tesi che rintracciava l’origine della parola nel

rapporto di somiglianza tra le cose e i suoni e che in tale rapporto riconosceva

il limite ultimo della ricerca etimologica55.

Un maggior grado di sintonia tra la visione agostiniana e quella stoica può

essere rilevato, invece, nella valutazione della forza (vis) che la parola è in gra-

do di esercitare. Il contributo forse più significativo dello stoicismo era stato

quello di svincolare la definizione di onomatopea dall’idea che il suono del no-

me dovesse imitare il suono della cosa, il che escludeva a priori la considerazio-

ne di rapporti di somiglianza a livello delle altre sensazioni56. Riconoscendo

la possibilità di esprimere somiglianze basate sul tatto, il gusto, l’olfatto o la

vista, gli stoici avevano fatto emergere un dato fondamentale, cui era da ricon-

durre l’origine stessa della forza della parola, ovvero la capacità di sostituirsi

al reale nella produzione di stimoli. Tale dato, concisamente espresso da Ago-

stino, consisteva nel riconoscimento del fatto che «le parole sono percepite così

come le cose stesse ci impressionano (ita res ipsae afficiunt, ut verba sentiuntur)»,

così che, ad esempio, è possibile individuare un’analogia di sensazioni tra la

dolcezza che il miele fa percepire al gusto e quella che il suono di ’miele’ fa

percepire all’udito. Questo accordo tra le sensazioni delle cose e le sensazioni

dei suoni, quasi cunabula verborum, comportava, almeno in potenza, la possi-

bilità di indurre reazioni anche in assenza dell’oggetto significato dal nome,

estromettendo, almeno temporaneamente, la realtà dal fenomeno dalla comu-

nicazione linguistica. In questo modo, l’effetto della parola si caratterizzava

come il potere di agire un cambiamento su chi si trovava a recepirla, al punto

54«(...) Come quando diciamo tintinnio del bronzo, nitrito dei cavalli, belato delle pecore, squillodi trombe, stridore di catene. Vedi infatti che queste parole hanno lo stesso suono delle cose chedalle parole sono significate (haec verba ita sonare ut ipsae res quae his verbis significantur).»

55«Noi possiamo inseguire questa origine non oltre la somiglianza del suono, ma non lo possia-mo neanche tutte le volte. Ci sono infatti innumerevoli parole delle quali un’origine di cui si possarendere ragione o non c’è, come io penso, o è nascosta, come sostengono gli stoici.»

56Per la presenza di un presupposto analogo nella teoria aristotelica della mimesi si rinvia alladiscussione svolta in § 3.3.2.

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1.2. LA PAROLA E L’ESPRESSIVITÀ IMMEDIATA DEL FONEMA 37

da far dipendere da questo la valutazione della sua forza: «La forza di una pa-

rola è ciò tramite cui si viene a conoscere quanto vale, e vale tanto quanto può

stimolare (movere) chi ascolta. Stimola chi ascolta per se stessa o per ciò che

significa oppure per entrambi».

Agostino valuta con cura minuziosa i tre possibili modi in cui la parola può

esercitare la sua forza sull’ascoltatore, soffermandosi inizialmente sui primi

due, da cui di fatto il terzo dipende. La sua analisi segue in maniera rigorosa il

metodo dialettico ed egli procede pertanto per suddivisioni successive, distin-

guendo in primo luogo ciò che nei vari casi è oggetto della stimolazione. Il caso

in cui la parola stimola non secondo se stessa, ma in virtù del suo significato

è poco interessante poiché il suo effetto consiste semplicemente nell’indurre la

concentrazione della mente sull’oggetto cui essa si riferisce. Più articolato è,

invece, il caso in cui la forza della parola si esercita tramite la sua veste sen-

sibile, la quale può essere di pertinenza del senso, dell’arte o di entrambi. La

natura e la consuetudine specificano i modi di affezione del senso, la prima in

forza della qualità puramente sonora della parola57, la seconda in virtù di asso-

ciazioni precedemente istituite58. Per quanto riguarda la stimolazione secondo

l’arte, invece, Agostino spiega che essa si verifica quando chi ascolta è porta-

to ad applicare ciò che ha appreso dallo studio delle discipline della parola,

ad esempio la classificazione delle parti del discorso. Abbandonando il piano

di considerazione teorico, tuttavia, Agostino riconosce che, quando si giudica

concretamente una parola, sia il senso sia l’arte sono coinvolti: «Ma, in verità,

si giudica della parola secondo entrambi, ossia secondo il senso e secondo l’ar-

te, quando la ragione classifica ciò che è misurato dall’udito e di conseguenza

viene imposto il nome, come quando si dice ’ottimo’: appena la sillaba lunga

e le due brevi di questo nome hanno colpito l’udito, la mente riconosce subito,

in base all’arte, un piede dattilo».

Il terzo modo in cui la parola può esercitare la sua forza su chi ascolta riu-

nisce entrambi quelli considerati, coinvolgendo quindi sia la parola in quanto

tale, sia il suo significato. Agostino si sofferma a valutare come la forma della

parola possa influire sull’effetto complessivo, accentuando o mitigando il tono

57Agostino si serve dei due nomi ’Artaserse’ e ’Eurialo’ per dare l’esempio, rispettivamente, diuna parola che urta l’udito a causa dell’asprezza dei suoni e di una che, invece, lo accarezza.

58In questo caso, l’esempio riguarda i nomi ’Cotta’ e ’Motta’, il primo dei quali era un notocognome della gens Aurelia, mentre il secondo non era collegato a nulla.

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38 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

di ciò che viene enunciato in modo analogo, secondo metafora, all’effetto più o

meno urtante che una mereterice provocherebbe a seconda che fosse abbigliata

in modo abituale oppure in occasione di una comparizione in tribunale. Dalla

consapevolezza di questa potentissima sinergia, Agostino deriva la necessità

di distinguere due livelli di considerazione del fenomeno del dire, uno relati-

vo all’esposizione della verità (partim propter explicandam veritatem), l’altro alla

salvaguardia dell’eleganza (partim propter conservandum decorem), determinan-

do così due corrispondenti ambiti di pertinenza, quello della dialettica e quello

della retorica. Nel contesto di quest’ultimo, il momento ricettivo-interpretativo

assume un’importanza fondamentale, addirittura superiore a quella attribuita

alla funzione definitoria del linguaggio, la trasmissione di conoscenza59.

Il potere espressivo della forma fonica delle parole, capace di riflettere sul-

l’animo la corrispondente forma delle cose, non si limitava ad essere ogget-

to della retorica, ma riguardava anche l’arte poetica. Non a caso, il legame

tra questi due ambiti avrebbe iniziato a profilarsi assai precocemente, come

si avrà modo di approfondire60. L’eccedenza espressiva della parola poetica

aggiungeva alla validità del significato, comunicato secondo la modalità sper-

sonalizzata del discorso apofantico, la forza del significante nella sua capacità

di coinvolgere il mondo delle esperienze sensibili dell’individuo. Questa forza,

sfruttata dalla retorica per persuadere e dalla poetica per dilettare, non si dif-

ferenziava nei due ambiti da un punto di vista qualitativo, ma solo in termini

di strutturazione, in un’ottica di progressiva astrazione dal contenuto. Parola

eloquente, parola poetica e, infine, parola cantata: veicolo efficace nel primo ca-

so, il suono si prestava all’intento evocativo nel secondo, per manifestarsi, nel

terzo, in tutta la sua potenza mimetica e nell’immediatezza della sua azione

psicagogica.

Scomposto nelle sue due componenti fondamentali, la melodia e il ritmo,

il suono nella sua materialità ritornava ad essere argomento di una disciplina,

non più sottoposto all’autorità della tradizione, come accadeva con la gramma-

59«Secondo te, che cosa vogliamo ottenere parlando? - Per quel che ora mi viene in mente,insegnare o imparare. - Sono d’accordo su uno dei due e mi appare evidente, perché è evidenteche parlando intendiamo insegnare; ma imparare, come? - E come credi, se non interrogando? -Ma, anche in questo caso vedo solo che intendiamo insegnare. Perché tu, ti domando, interroghiper un altro motivo, che non sia insegnare a colui che interroghi? - Dici il vero. - Vedi dunque checon il linguaggio non desideriamo altro che insegnare» (mag. I, i, 1).

60Cfr. § 4.1.

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1.2. LA PAROLA E L’ESPRESSIVITÀ IMMEDIATA DEL FONEMA 39

tica, ma al solo giudizio razionale. Svincolata dall’ambito applicativo e attuata

per mezzo del metodo razionale sintetizzato nel concetto di numero, l’analisi

del suono come fenomeno in sé e non più in funzione di altro avrebbe portato

alla costituzione di una conoscenza, la musica, che non recava più memoria

della propria origine linguistica. Questa, tralasciata in sede teorica alla stre-

gua di un evento accidentale, riemergeva però prepotentemente ogniqualvolta

il silenzio dell’attività astraente veniva infranto dalla modulazione armoniosa

dei suoni e la loro potenza espressiva tornava a esercitare i suoi ingovernabili

effetti. Il moto di rifiuto provocato da questi, in forza del quale la relazione ter-

minologica tra ars musica e musica practica sembrava qualificabile più in termini

di omonimia che di sinonimia, non poteva però annullare il dato dell’essenza

linguistica della musica, non incompatibile con la sua spiegabilità matematica.

L’espunzione della dimensione esecutiva della musica dall’ordo disciplinarum

non deve dunque essere attribuita solo al carattere meccanico richiesto dalla

pratica musicale, ma anche alla potenziale interferenza con la sfera del signi-

ficato esercitabile dalla tirannica potenza del suono, traccia della sotterranea

parentela tra musica e la retorica. Questa, almeno, è l’ipotesi che il presente

lavoro si propone di verificare.

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40 CAPITOLO 1. LÓGOS E ARITHMÓS. DUE PARADIGMI

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Capitolo 2

Linguaggio e arti liberali

2.1 Scientia, ars, peritia

I tre ambiti di significato dischiusi dai termini scientia, ars e peritia definiscono i

modi in cui il soggetto può disporsi nei confronti della realtà, vale a dire, rispet-

tivamente, la razionalizzazione del dato, la messa a punto di un modello e l’ap-

plicazione di quest’ultimo, che disciplina l’intervento sul dato stesso. Queste

tre dimensioni determinano altrettanti tipi di attività dell’anima che, secondo

la classificazione originarimente stabilita da Aristotele, si possono identificare

con l’epistéme, le arti poietiche e le arti meccaniche.

Comprese tra i due estremi della conoscenza razionale, perfettamente sta-

bile, e dell’abilità manuale, esercitabile anche a prescindere dal ragionamento,

le arti poietiche sono annoverate tra le virtù dianoetiche, assieme alla phrónesis.

Ciò che esse individuano, infatti, è una forma di razionalità calcolante alter-

nativa a quella che presiede la sfera dell’agire pratico (to praktón), la quale si

applica a ciò che può essere prodotto (to poietón) e che, pertanto, non ha valore

in sé, quanto in relazione al suo risultato. Aristotele, nel sesto libro dell’Etica

Nicomachea, definisce l’arte come «abito produttivo accompagnato da lógos vero

(hexis metá logou alethoús poietiké)» (1140 a) e la caratterizza nei seguenti termini:

«L’arte concerne il venire all’essere ed è il progettare (to technázein), cioè lo stu-

diare (theoréin) in quale modo venga all’essere qualcuna delle cose che possono

essere e non essere, ma di quelle il cui principio sia in colui che produce e non

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42 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

nel prodotto1».

L’aspetto che si impone con maggiore evidenza, e che non è invece presente

nella moderna concezione di arte, è quello della separabilità tra momento teo-

rico e momento pratico che, combinato con l’indubbia preminenza del primo

rispetto al secondo, la individua innanzitutto come una forma sapere. Il fatto

che l’oggetto dell’arte sia l’universale, riferito alla natura del nesso scoperto tra

una certa causa e un certo effetto2, determina altresì la sua affinità con quello

scientifico, alla luce della quale appare chiarito anche il significato di «lógos ve-

ro». Sebbene prodotta dall’esperienza, l’arte si distingue nettamente da essa in

quanto il suo rapporto con l’individuo, il suo prodotto, è, di fatto, accidenta-

le: solo la forma, infatti, che esiste indipendentemente dalla materia nel modo

della rappresentazione, riguarda propriamente l’operare dell’artista ed esso si

dispiega dunque liberamente, con l’unico vincolo dell’aderenza al «lógos vero».

In questa prospettiva, l’arte si configura come vera e propria scienza poieti-

ca, ovvero, assieme alle scienze teoretiche e a quelle pratiche, come una delle

«capacità accompagnate da ragionamento (dynámeis metá logou)» (Met. 1046b).

Nei primi dialoghi di Platone la tecnica è assunta addirittura come modello

epistemologico. Essa esemplifica, infatti, un sapere ben definito nel suo ambito

di competenza, che determina il ruolo sociale di chi la esercita e che contribui-

sce, per questo, a comporre l’assetto sociale. Questa concezione è chiaramente

esposta nel Protagora, dove viene narrato il mito relativo alla creazione dell’or-

dine tramite la distribuzione delle dynámeis agli animali irrazionali e, per inizia-

tiva di Prometeo, della sapienza tecnica (tén éntechnon sophía) al genere umano

rimasto akósmeton. Sebbene insufficiente a garantire la giustizia nei rapporti so-

ciali, la tecnica concretizza per Platone il modello del sapere competente e utile,

scientificamente fondato e, pertanto, funzionale al mantenimento dell’ordine.

In stridente contrasto con questa visione, la tecnica retorica, nel modo in cui

era stata intesa da Gorgia3, presupponeva l’impossibilità di praticare il discor-

so su basi oggettive e razionali e, pertanto, non poteva in alcun modo risultare

definita come una funzione dell’ordine. La sua massima efficacia, rivolta non1Quest’ultima precisazione serve a distinguere gli oggetti artificiali da quelli naturali, i quali

sono anch’essi di carattere accidentale, ma si sviluppano per opera di un principio generatoreinterno.

2«L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale eunico riferibile a tutti i casi simili» (Metafisica 981 a).

3Cfr. § 4.1.1.

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2.1. SCIENTIA, ARS, PERITIA 43

alla trasmissione di informazioni, ma alla produzione di credenze (pístis), era

infatti favorita nel caso in cui l’uditorio fosse stato composto da persone igno-

ranti ed emotive le quali, se per ipotesi fossero state a loro volta in possesso

della medesima abilità, non avrebbero potuto ottenere altro che l’aggravarsi

dello stato di disordine4.

Il legame tra arte e ordine risulta stabilito innanzitutto sul piano etimolo-

gico, manifestandosi nella presenza della radice indoeuropea ar che veicola il

significato di ’ordinare’. Il concetto di arte, dunque, è originariamente connes-

so a quello di atto ordinatore, da intendersi in senso ampio come atto diretto

a imporre un’organizzazione alla materia secondo un certo progetto. Proprio

in questo senso, del resto, Aristotele aveva affermato che «tutte le arti (téchnai)

e le scienze poietiche (poietikaí epistemai) sono potenze (dynámeis)»: esse sono,

insomma, «principi di mutamento in altro o nella cosa stessa in quanto altra

(archaí gár metabletikaí eisin en állo he állo)» (Metafisica 1046 b).

Abbandonando l’ambito della speculazione greca per quello del Cristiane-

simo, si può osservare che anche Agostino mantiene, oltre al concetto di sapien-

za tecnica come conoscenza scientifica delle cause, la caratterizzazione dell’arte

come attività ordinatrice: «Con molti elementi sparsi in disordine e poi riuni-

ti in una forma, costruisco una casa. (...) E se la ragione consiste nelle misure

ben pensate (ratis), forse che anche ciò che costruiscono gli uccelli è misurato in

modo meno adatto e congruente? Anzi è precisissimo (numerosissimum). Quin-

di non valgo di più perché faccio cose secondo i numeri, ma perché conosco i

numeri» (ord. II, xix, 49).

Rispetto all’archetipo di ogni atto artistico, ovvero l’atto creatore di Dio che

imprime alla materia informe l’ordine mediante il numero, l’atto produttivo

dell’uomo sembra assumere il valore di una replica, di una sorta di imitazione

che si mantiene, tuttavia, vincolata da un lato alla preesistenza della materia e,

4Un presupposto analogo è stato sostenuto anche da Isocrate, che affermava l’inesistenza diun’epistéme in grado di orientare la prassi e, di conseguenza, l’utilità della retorica al fine dideterminare le dòxai relative a valori sociali e politici.

Un ideale di cultura per certi versi assimilabile a questo era quello che Cicerone, nel De oratore,attribuisce a Crasso, il quale colloca la figura dell’oratore al centro del sistema delle discipline. Laretorica viene investita, in quest’ottica, di una funzione connettiva, in grado, cioè, di recuperarel’unità perduta con la specializzazione. Il sistema di conoscenze dell’oratore ideale risulta orga-nizzato secondo una gerarchia che vede il primato delle attività e dei saperi finalizzati alla prassipolitica, nell’ambito dei quali l’eloquenza, in quanto arte della persuasione e del dominio, esercitaun’indiscussa egemonia.

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44 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

dall’altra, a un canone ineludibile: «E gli artisti umani hanno nella loro arte i

numeri di tutte le forme corporee, ai quali adattano le loro opere, e nel fabbri-

care continuano a muovere le mani e gli strumenti fino a quando quel che viene

formato al di fuori, ricondotto alla luce dei numeri che sta dentro, per quanto è

possibile, non raggiunga la perfezione e non piaccia, attraverso la mediazione

del senso, al giudice interiore che contempla i numeri superni» (lib. arb. II, xvi,

42).

Emerge con chiarezza, dalle parole di Agostino, una caratterizzazione ete-

rogenea della nozione di arte che, alla componente operativa, affianca quella,

determinante, della conoscenza teorica. Questa duplicità si rende manifesta

nella definizione stessa delle singole discipline che, rubricate sotto il genere

della scientia, sono specificate non in relazione a un oggetto, ma a un’attività

vincolata da un preciso corpo di regole, il cui possesso individua una peritia.

Nel caso delle due discipline considerate nel presente studio, tale definizione

identifica, come già osservato, la retorica come scientia bene dicendi5 e la musica

come scientia bene modulandi6, ovvero, rispettivamente, scienza del parlare bene

e scienza del modulare bene. Il riferimento alla regola e, in ultima analisi, al

numero, è evidente nel verbo modulari; come se ciò non bastasse, Agostino si

premura di esplicitarlo ricordandone la derivazione da modus e aggiungendo

che «la misura (modus) si deve osservare in tutto ciò che è ben fatto».

Oggetto esclusivo della musica7, la modulazione (modulatio) è definita co-

me «abilità8 nel muovere (movendi quaedam peritia)», ma nonostante questo ri-

ferimento alla dimensione operativa, Agostino esclude perentoriamente che il

5Cfr. Quintiliano, Institutione oratoria III, i, 15.6Cfr. mus. I, ii, 2. Questa definizione non è originale di Agostino, ma risale probabilmente a

Varrone. Cfr. [112, p. 23 ss.]7Non è privo di interesse far notare la spontaneità con cui Agostino accosta abilità musicale e

abilità retorica per spiegare come il possesso di una peritia sia contraddistinto dalla consapevoleapplicazione della regola: «Non ti deve preoccupare ciò che abbiamo detto prima: in ogni azione,e non solo nella musica, deve essere conservato il modus, e però proprio nella musica si parla dimodulazione. A meno che tu forse ignori che il discorso si attribuisce propriamente all’oratore.- Non lo ignoro, ma perché lo dici? - Perché anche il tuo schiavo, per quanto rozzo e villano,discorre di qualcosa quando risponde, anche con una sola parola, a una tua domanda: lo ammetti?- Lo ammetto. - Allora anche lui è un oratore? - No. - Dunque nel discorrere di qualcosa nonha utilizzato un discorso, sebbene noi riconosciamo che ’discorso’ (dictio) deriva da ’discorrere’(dicere). - Te lo concedo, ma cerca di spiegarmi con che cosa abbia a che fare anche questo elemento.- Col fatto che anche tu capisca che la modulazione è di competenza della sola musica, sebbene lamisura, da cui deriva la parola, si possa trovare anche da altre parti: allo stesso modo il discorso siattribuisce propriamente agli oratori, nonostante chiunque parli discorra di qualcosa e il discorsoprenda il nome dal discorrere. - Ora capisco» (mus. I, ii, 2).

8Il corsivo è mio.

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2.1. SCIENTIA, ARS, PERITIA 45

suo legittimo canale di apprendimento sia l’imitazione, alla maniera di mimi e

cantori. Ciò che certifica il possesso della sapienza tecnica non si manifesta, in-

fatti, nel risultato, ma riguarda l’atto produttivo stesso: se il canto degli uccelli

segue le leggi dei numeri in modo non dissimile da quello dei cantori guida-

ti dalla sensibilità (qui sensu quodam ducti bene canunt), l’esercizio della musica

in quanto disciplina liberale richiede come condizione la conoscenza raziona-

le di tali leggi, la quale configura l’apprendimento non come addestramento

meccanico, ma come esplicitazione di un sapere già presente nell’animo. Per

questo motivo, la forma di apprendimento propria del corpo, l’imitazione, ri-

sulta incompatibile agli occhi di Agostino con il carattere scientifico dell’arte

liberale, senza che ciò, tuttavia, contrasti con l’affermazione che la musica pos-

siede una natura mimetica, ovvero che sia capace di sostituirsi al reale con esiti

di efficacia paragonabile.

Si può osservare, di passaggio, che il termine usato da Agostino per indicare

il processo di invenzione artistica è machinari, il quale richiama l’attività di rie-

laborazione tipica dell’immaginazione, una sorta di artificiosa manipolazione

a partire dalle forme sensibili impresse dal reale che, come si vedrà in seguito9,

intrattiene un legame essenziale con l’imitazione: «Che c’è dunque in noi che,

a proposito di tutte queste cose, ci consente di giudicare a quali forme mirino

e fino a che punto le realizzino e che, negli edifici e nelle altre opere materiali,

ci permette di inventarne innumerevoli, come se fossimo i signori di tutte le

forme? (tamquam domini omnium talium figurarum, innumerabilia machinamur)»

(vera rel. 43, 80).

L’apprendimento mediante imitazione accomuna, come si accennava so-

pra, l’esercizio delle arti meccaniche al comportamento animale e, anche per

questo, la funzione pure imprescindibile che esso ricopre nell’educazione uma-

na, evidente, ad esempio, nel caso dell’acquisizione dell’abilità linguistica, era

stata da sempre giudicata estranea all’ambito del sapere razionale10. Una con-

seguenza di questo atteggiamento era che tutto ciò che in tale maniera veniva

9Cfr. § 3.3.10In generale, in tutta la riflessione antica e tardo-antica serpeggia un’acuta diffidenza nei con-

fronti dell’approfondimento specialistico, identificato come vero e proprio discrimine tra educa-zione liberale e attività professionale. Se nel caso della musica questo aspetto appare somma-mente evidente poiché il musico era considerato alla stregua di un qualunque servitore, nel casodella retorica la tendenza alla svalutazione era un rischio costantemente incombente e, pertanto,accuratamente prevenuto.

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46 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

appreso, dal più elementare schema comportamentale all’azione più articolata,

poteva al massimo stabilire uno habitus, in quanto interamente dipendente dal-

l’istinto, ma in nessun caso istituire una scientia, e ciò a prescindere dalla sua

effettiva conformità a un criterio razionale11: «Rispondi dunque: ti sembra che

l’usignolo moduli bene la voce in primavera? Quel canto segue le leggi dei nu-

meri, è molto dolce (numerosus est et suavissimus) e, se non sbaglio, adatto alla

stagione. - Mi pare chiaro. - Forse l’usignolo è esperto in questa disciplina libe-

rale? - No. - Vedi dunque che il nome di ’scienza’ è necessario alla definizione»

(I, iv, 5).

Con l’argomentazione svolta nel primo libro del De musica Agostino assu-

me una posizione autonoma nell’ambito della tradizione di pensiero che, con

Platone, Aristotele12 e Plotino, si era espressa manifestando punti di vista diffe-

renti, quando non addirittura opposti, sebbene concordi nel riconoscere nell’i-

mitazione una componente identificante dell’arte. L’aspetto più eclatante della

riflessione agostiniana consiste precisamente nel rifiuto di questa convinzione

di fondo, in sostituzione della quale si impone con forza l’istanza della com-

pleta riconduzione del concetto di arte a quello di scientia. Alcuni passi sono

assai eloquenti in proposito:

Tutti coloro che seguono i sensi e affidano alla memoria i piaceriche ne derivano e in base a questi muovono il corpo, vi aggiungo-no una certa efficacia di imitazione (vim quandam imitationis adiun-gunt). Essi non possiedono la scienza, sebbene sembrino eseguiremolte cose con abilità ed erudizione (perite et docte), a meno che nonabbiano intelligenza pura e vera di ciò che eseguono o esibiscono(mus. I, iv, 8).

11La medesima tesi si trova espressa anche nel seguente passo, tratto dal De vera religione: «Siconsiderino poi le ordinate (numerosas) e soavi bellezze dei suoni che l’aria trasmette quando vibraal canto dell’usignolo: di certo l’anima di quell’uccellino non potrebbe crearle spontaneamente asuo piacimento (non, cum liberet, fabricaretur), se non le portasse impresse, in modo non materiale,nel suo impulso vitale (nisi vitali motu incorporaliter haberet impressas). Quanto detto si può riscon-trare anche negli altri animali i quali, seppur privi di ragione, tuttavia non lo sono dei sensi. Traloro, infatti, non vi è nessuno che o nel suono della voce o in altro movimento e azione delle mem-bra, non produca qualcosa di armonico e di misurato nel suo genere (numerosum aliquid et in suogenere moderatum gerat), non per effetto di qualche scienza (non aliqua scientia), ma per un ordine in-trinseco alla sua natura, regolato da quell’immutabile legge dell’armonia (sed tamen intimis naturaeterminis, ab illa incommutabili numerorum lege modulatis)» (vera rel. 42, 79).

12Aristotele, a differenza di Agostino, non riconosce agli animali alcuna capacità imitativa: «Cisembra poi che siano due le cause, entrambe d’ordine naturale, che in sostanza danno origineall’arte poetica. Anzitutto è connaturato agli uomini fin da fanciulli l’istinto di imitare; in ciò sidistingue l’uomo dagli altri animali, perché la sua natura è estremamente imitativa (mimetikòtaton)e si procura per imitazione i primi apprendimenti (mathesis). Poi c’è il piacere che tutti sentonodelle cose imitate» (Poetica 48 b).

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2.1. SCIENTIA, ARS, PERITIA 47

E, ancora, con esplicito riferimento all’aspetto manuale della pratica dell’arte:

Penso che ci resti, se vi riusciamo, da scoprire che le stesse artiche ci dilettano con il gioco delle mani (per manus placent), per ar-rivare a questa pratica (usus) non hanno immediatamente seguitola scienza, ma i sensi e la memoria. A meno che tu non mi dicache può accadere che ci sia la scienza senza l’esercizio (sine usu), esolitamente maggiore di quella che si trova in coloro che eccellononell’esercizio, ma che anch’essi a tanta abilità (ad usum tantum) nonsarebbero potuti giungere senza la scienza (I, v, 10).

Il ragionamento di Agostino procede in modo rigorosamente dialettico conca-

tenando serie di sillogismi che, sebbene diluiti negli scambi dialogici tra mae-

stro e allievo, sono agevolmente isolabili nel corpo del testo13. Un primo ar-

gomento sviluppa la somiglianza tra gli animali musicali come l’usignolo e i

musici abili ma ignoranti sulle leggi dei numeri, cercando di trarre in forza

di questa la conclusione desiderata: «Ti avevo chiesto se tu riconoscevi l’arte

ai citaristi, ai flautisti e agli altri suonatori, anche se hanno raggiunto tramite

l’imitazione ciò che eseguono nel cantare. Hai detto che si tratta di arte e hai af-

fermato che l’imitazione vale tanto che ti sembra che, eliminandola, quasi tutte

le arti sarebbero distrutte. Da questo si può dedurre che chiunque raggiunge

un effetto con l’imitazione, fa dell’arte, anche se forse non chiunque fa dell’ar-

te l’ha raggiunta con l’imitazione. Ma se ogni imitazione è arte e ogni arte è

ragione, ogni imitazione è ragione. Tuttavia l’animale irrazionale non si vale

della ragione, quindi non possiede l’arte, bensì l’imitazione: quindi l’arte non

è imitazione» (I, iv, 6).

L’argomentazione di Agostino è invalidata da un manifesto paralogismo e,

in aggiunta, la tesi che il maestro attribuisce all’allievo, vale a dire che l’arte ri-

chiede necessariamente l’imitazione, risulta non solo forzata rispetto alle inten-

zioni di quest’ultimo, ma anche del tutto estranea alla tradizione del dibattito.

L’argomento presentato di seguito è invece decisivo e si riassume nell’afferma-

zione che l’eccellenza artistica non è in alcun modo condizionata dal possesso

della scienza musicale, in quanto il suo esercizio non implica l’intervento della

ragione, ma solo quello dei sensi e della memoria. La serie di sillogismi che

consente ad Agostino di dimostrare che arte e imitazione sono attività com-13Una minuziosa analisi in questo senso è stata condotta in [101], ove gli autori hanno cercato di

ricostruire la struttura logica del ragionamento agostiniano esposto nel quarto capitolo del primolibro del De musica.

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48 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

pletamente differenti può essere schematizzata nel modo seguente14, in cui il

passaggio fondamentale è quello che afferma che ragione e imitazione sono del

tutto distinte:

I

Nessun uso del corpo è esercizio di conoscenzaTutti gli usi dei sensi sono usi del corpoNessun uso dei sensi è esercizio di conoscenza

II

Nessun uso dei sensi è esercizio di conoscenzaTutti gli usi dell’imitazione sono usi dei sensiNessun uso dell’imitazione èesercizio di conoscenza

III

Nessun uso dell’imitazione è esercizio di conoscenzaTutti gli usi della ragione sono esercizio di conoscenzaNessun uso della ragione è uso dell’imitazione

IV

Nessun uso della ragione è uso dell’imitazioneTutti gli usi dell’arte sono usi della ragioneNessun uso dell’arte è uso dell’imitazione

Sebbene elaborata nel contesto di un trattato dedicato alla musica, l’argomen-

tazione di Agostino non si limita a questa disciplina, ma si pone a fondamento

di una vera e propria filosofia dell’arte. Con questa premessa, gli studiosi P.

Ellsmere e R. La Croix hanno proposto una riduzione schematica della defini-

zione di musica già esaminata che, astraendo, da ogni riferimento a discipline

specifiche, può essere formalizzata nel modo seguente:

Per ogni x, se x è un’arte allora x è la conoscenza corretta di r

in cui la variabile r consente la specificazione delle diverse forme d’arte. Co-

m’è evidente, la tesi agostiniana impone di escludere dal concetto di arte tutto14Cfr. Ivi p. 10.

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2.1. SCIENTIA, ARS, PERITIA 49

ciò che ai nostri occhi propriamente lo identifica, vale a dire gli oggetti e le

esecuzioni qualificabili come prodotti di una pratica che richieda il possesso

di un’abilità (peritia) acquisita attraverso l’esercizio (usum). L’arte liberale si

configura, insomma, come un’attività esclusivamente razionale, propria solo

dell’intelletto ed estranea al commercio con la dimensione sensibile. In altri

termini, un’attività implicante non un fare, ma solo un pensare. Proprio in

questo si riassume la portata della presa di distanza di Agostino rispetto alla

tradizione e tale circostanza spiega la centralità del tema dell’imitazione ai fini

della comprensione della sua visione dell’arte.

Il fatto che nel primo libro del De musica non sia presente alcun riferimento

al concetto di bellezza dipende, sempre secondo questa lettura, dalla suddetta

espunzione della dimensione fisica, in virtù della quale risulta esclusa anche

l’eventualità di un uso improprio dell’arte: se tale eventualità, infatti, esiste

nel caso di un oggetto, non è invece compatibile con l’essenza di un’attività

razionale con cui l’arte, appunto, si identifica. Agostino non esclude che la

produzione di un oggetto artistico possa essere perseguita disinteressatamen-

te, ovvero senza la mira del guadagno, ma osserva che ciò, di fatto, non accade.

Questa constatazione non sottende un giudizio negativo e, infatti, in nessun

luogo del De musica viene affermato, nemmeno implicitamente, che gli oggetti

artistici sono un male, ma presuppone l’attribuzione di una sostanziale neutra-

lità. Ne consegue che la connotazione morale di un’opera dipende interamente

dall’interpretazione e dall’impiego stabiliti dall’uomo.

Ciò che, in ultima analisi, risulta dalla definizione agostiniana di arte è il

suo profilarsi come scoperta15, da parte della la ragione, di un corpo di princi-

pi generali di ragionamento costitutivi di una determinata disciplina, dalla cui

applicazione possono derivare oggetti che hanno la capacità di rifletterne ed

esemplificarne la struttura. Quest’ultima, nel contesto della schematizzazione

sopra considerata, è ciò che la variabile r intende esprimere e che, nel caso della

musica, l’unica disciplina analizzata in questo modo da Agostino, corrispon-

de al contenuto dei libri centrali del trattato, limitatamente alla ritmica. Alla

luce di queste considerazaioni, Ellsmere e La Croix hanno sciolto la variabile r

nel modo seguente, rendendo manifesto il legame tra l’identificazione dell’arte

15«Il ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancorache siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano» (vera rel. 39, 73).

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50 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

come conoscenza e la sua declinazione concreta, connessa all’uso corretto dei

principi conosciuti:

Per ogni x, se x è un’arte, allora x è la conoscenza di come usare i

principi generali di ragionamento che governano la struttura di x

nel modo corretto.

In conclusione, dunque, nell’impostazione del giovane Agostino si riscontra

una separazione netta tra l’arte intesa come insieme di principi specifici, pas-

sibili di essere riflessi in oggetti individuali, e l’attività da cui questi ultimi

scaturiscono, la quale si esercita nel conferire forme in grado di esprimere con-

tenuti. Là dove il principio sfugge alla manipolazione dell’uomo, il contenuto

vi è interamente rimesso e può essere potenzialmente qualunque. Ciò che sem-

bra profilarsi, sempre secondo i due studiosi, è dunque l’idea della separabilità

tra forma e contenuto, che essi riconoscono come uno dei principali contribu-

ti di Agostino alla filosofia dell’arte, gravido di conseguenze che si sarebbero

manifestate solo in epoca moderna quando, sebbene in modo diverso, sarebbe

stato di nuovo espresso il rifiuto di considerare l’oggetto fisico come il luogo

logico dell’opera d’arte.

2.2 Il progetto enciclopedico del De ordine

«Ci sono dunque tre generi di realtà nei quali appare ciò che è razionale. Uno

è quello delle azioni legate a un fine, il secondo è quello dello studio, il terzo

del piacere» (ord. II, xii, 35). Il progetto di riunire il sapere ereditato dalla

tradizione classica in un compendio enciclopedico delle arti liberali figura al

secondo posto nella triade che, secondo Agostino, esaurisce i modi di presenza

dell’elemento razionale nella costituzione dell’universo e nell’anima umana.

Accanto ad esso compaiono il modo di presenza dell’etica e quello del giudizio

estetico, tutti e tre luogo di manifestazione di una razionalità che, sotto forma

di ordine onnipervasivo, garantisce la possibilità di intraprendere un percorso

di ascesi, in accordo con il fine proprio dell’anima umana.

La suddivisione interna al gruppo delle arti liberali appare delineata in fun-

zione di quella che interessa gli oggetti delle discipline componenti i due grup-

pi del trivio e del quadrivio, ovvero, rispettivamente, le parole (verba) e le cose

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2.2. IL PROGETTO ENCICLOPEDICO DEL DE ORDINE 51

(res). Costituenti elementari di due mondi di cui il primo, il linguaggio, si

mantiene perpetuamente in bilico tra il rispecchiamento fedele della realtà e la

combinazione, coerente ma priva di riscontro, dei suoi frammenti, le parole e le

cose considerate le une in rapporto alle altre definivano l’orizzonte epistemolo-

gico del pensiero medievale. Sotto questo riguardo, non deve destare stupore

il fatto che alle arti della parola fosse riconosciuta una posizione privilegiata

e non solo da parte di Agostino, come se l’intera visione del mondo risentis-

se profondamente della modalità di rappresentazione logico-grammticale. La

relazione res-verba declinata nella forma ratio-verba, che meglio esprime la ten-

sione tra il dato oggettivo immodificabile e il modo della sua presentazione,

è apparsa a tal punto costitutiva della struttura del sapere liberale da avere

suggerito16 la riduzione di quest’ultimo a un’interrogare sul linguaggio.

Come noto, Agostino ha affrontato lo studio del fenomeno linguistico sotto

diversi aspetti, con particolare riferimento alla finalità e al valore epistemo-

logico del segno. L’indicazione della prima si colloca, significativamente, nel

secondo libro del De ordine, dove precede immediatamente la descrizione della

nascita delle discipline liberali:

Ciò che c’è in noi di dotato di ragione, che usa la ragione e operae segue ciò che è razionale, poiché per vincolo naturale era costrettoa creare comunicazioni tra coloro che avevano in comune la stessaragione, e l’uomo non poteva comunicare in modo valido con unaltro uomo se non tramite degli incontri e quasi degli scambi dipensieri e concetti, allora vide che occorreva imporre dei nomi allecose, cioè suoni con un significato, affinché gli uomini, che non po-tevano leggere gli animi, utilizzassero il senso come interprete perstringere legami tra loro (ord. II, xii, 35).

La lettura del passo conferma e precisa i termini della contrapposizione tra

ratio-res e verba trasferendola sul piano antropologico, ove la presenza forman-

te dell’elemento razionale appariva occultata e frammentata naturali quodam

vinculo a causa dell’impossibilità umana di comunicare senza mediazione.

Vale la pena di attirare sin d’ora l’attenzione su quella che Agostino ritene-

va essere l’origine del linguaggio, ovvero, in ultima analisi, la necessità di ri-

mediare all’incapacità per l’uomo di trovare quiete nella contemplazione dopo

la rottura dell’originaria armonia psicofisica. Un’analogo valore strumentale,

16Cfr. [5, p. 482.]

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52 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

come si avrà modo di approfondire in seguito, era stato attribuito anche alla re-

torica, che sin dall’inizio aveva trovato la propria legittimazione nell’esigenza

di persuadere secondo verità l’uomo mediocre, refrattario all’insegnamento ra-

zionale e fortemente esposto, per contro, al condizionamento emotivo. Ciò che

per ora si intende solo segnalare è il sussistere di un legame di affinità posto in

virtù di una comunanza di fini posti dalla limitatezza e dalla disarmonia del-

l’uomo, all’interno del quale la retorica si caratterizzava come potenziamento

dell’efficacia del dire applicandosi non alla semplice trasmissione del contenu-

to, compito, questo, del linguaggio, ma alla sua presentazione efficace, affidata

principalmente alla forma.

Nella ricostruzione agostiniana della genesi delle discipline liberali alla na-

scita del linguaggio segue l’invenzione del calcolo, con cui la ragione risulta in

grado di applicare un criterio di misura al fluire del suono. Esito di questa pri-

ma elementare sistemazione è la suddivisione delle parti del discorso e la fissa-

zione della metrica, oggetto della prima disciplina del trivio, la grammatica. In

seguito a questo primo atto ordinatore la ragione prende coscienza del proprio

potere speculativo e dall’interrogazione su se stessa e sui suoi strumenti genera

la disciplina delle discipline, la dialettica. Alle prime due, in ultima battuta, si

aggiunge la retorica, la cui finalità appare essere quella di rendere più agevole

l’insegnamento della verità attraverso l’organizzazione delle parole. Questa, in

estrema sintesi, è la ricostruzione agostiniana dell’evoluzione della razionalità

che, nella sua prima fase scandita nelle tre arti della parola, passa dall’organiz-

zazione grammaticale del suono in quanto materia grezza alla costituzione del

linguaggio nelle sue due componenti di contenuto e forma, oggetto, rispetti-

vamente, della dialettica come arte del pensare e della retorica come arte del

dire.

La considerazione del linguaggio nelle sue tre componenti fondamentali,

fonica, logica ed emotiva, stava alla base della suddivisione delle discipline

del trivio rispettivamente in grammatica, dialettica e retorica. Tralasciando

quest’ultima, la cui presenza tra le arti liberali era per certi aspetti anomala,

le altre due erano unite da una profonda corrispondenza, data dal fatto che,

per quanto in modo differente l’una dall’altra, entrambe riflettevano per mez-

zo del linguaggio le relazioni tra le cose, fornendo al pensiero le concatenazioni

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2.2. IL PROGETTO ENCICLOPEDICO DEL DE ORDINE 53

logico-grammaticali necessarie alla loro pensabilità17.

L’aspetto che maggiormente colpisce è l’eterogeneità che caratterizza il grup-

po delle tre discipline e che affetta addirittura la struttura interna di alcune di

esse manifestandosi nella commistione di impostazione pratica e teorica. Le

discipline interessate da tale duplicità sono la grammatica e la dialettica, men-

tre la retorica, che non a caso fu ammessa solo con difficoltà tra le arti liberali, si

configura come un sapere eminentemente pratico, al limite accessorio. Esten-

dendo la considerazione a tutte e sette le discipline si può osservare che anche

la musica presenta un analogo tratto di eterogeneità, come se il fatto di pos-

sedere una doppia essenza, matematica e linguistica, avesse determinato una

corrispondente duplicità di impostazione.

Sebbene in modo diverso, anche la grammatica e la dialettica risultano in-

teressate, secondo Agostino, da una profonda scissione interna. Nel caso della

grammatica, l’identificazione della disciplina con il grado elementare dell’i-

struzione, propedeutico all’erudizione letteraria, conviveva con lo studio delle

regole fisse del linguaggio che le conferiva il rango di una vera e propria scien-

za18. Nel caso della dialettica, invece, la duplicità derivava dalla compresenza

di due diverse concezioni, l’una di matrice stoica, l’altra di matrice platonica,

come G. Catapano ha messo in luce19. Se la prima di queste la definiva co-

me un metodo di discussione procedente per domanda e risposta e, pertanto,

come una tecnica, la seconda eccedeva tale connotazione strumentale identi-

ficandola invece con la struttura stessa del pensiero in quanto movimento di

17«Tuttavia, il modo giusto di trarre deduzioni non è stato istituito dagli uomini, ma da loroosservato e fatto conoscere, in modo da poterlo imparare e insegnare, perché fa parte dell’ordi-namento razionale delle cose che è perpetuo ed è stato istituito da Dio. Come chi racconta lasuccessione dei tempi non l’ha ordinata lui stesso; e chi descrive la posizione dei luoghi e le naturedegli animali e delle pietre non descrive cose istituite dagli uomini; e chi fa conoscere le stelle e iloro movimenti fa conoscere cose non istituite da lui o da un altro uomo; così anche colui che dice:Quando una conclusione è falsa, necessariamente è falsa la premessa, dice il vero: non è però lui che lo faessere, ma si limita a farlo conoscere» (doctr. chr. II, xxxii, 50).

18«Quindi la ragione progredì e si accorse che tra gli stessi suoni della bocca con i quali parla-vamo e che già aveva definito con delle lettere, ce n’erano alcuni che moderando in vario modol’apertura della bocca, fluivano come slegati e semplici senza alcun contatto con la gola, altri checon una diversa chiusura della bocca, avevano un certo suono, altri ancora che non potevano es-sere proferiti se non uniti ai primi. Pertanto nominò le lettere, nell’ordine in cui sono state esposte,vocali, semivocali e mute, quindi considerò le sillabe. Poi le parole furono suddivise in otto generie forme e si determinò con perizia e acutezza ogni loro mutamento, purezza e connessione. Nondimentica dei numeri e delle dimensioni, applicò, poi, l’animo alle varie lunghezze delle parolee delle sillabe e scoprì che gli spazi temporali possono essere doppi e semplici, e che per essi lesillabe sono pronunciate lunghe o brevi. Considerò tutte queste cose e le sistemò in regole fisse(regulas certas)» (ord. II, xii, 36).

19Cfr. [32, p. 11.]

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54 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

ascesa dal molteplice all’uno. Ben più che una semplice disciplina, dunque, la

dialettica si configurava piuttosto come l’esplicitazione dell’essenza razionale

del pensiero e la condizione di possibilità del procedimento anagogico che dal

riflesso sensibile guidava al fondamento intelligibile.

La questione del rapporto tra res-ratio e verba manifesta tutta la sua portata

nel passaggio dalle arti del trivio a quelle del quadrivio, con cui la ragione

prosegue il proprio percorso di elevazione:

Desiderava infatti una bellezza che poteva vedere restando so-la e semplice senza questi occhi; ne era impedita dai sensi. Cosìvolse un poco lo sguardo ad essi, che proclamando di possedere laverità la ritraevano con un baccano importuno quando essa si af-frettava ad avviarsi verso altro. Per prima cosa iniziò dall’udito,perché diceva che erano sue le parole, per le quali aveva già creatola grammatica, la dialettica e la retorica. Ma la ragione, molto po-tente nel discernere, si accorse subito della differenza che c’era trail suono (sonum) e ciò di cui era segno (id cuius signum esset) (ord. II,xiv, 39).

Disillusa in merito alla possibilità di raggiungere il pieno possesso della verità,

la ragione si distoglie dal contenuto veicolato dal signum e, nel momento in cui

fissa la propria attenzione sulla forma sonora di quest’ultimo, riconosce quella

regolazione dei tempi e quella «proporzionata varietà di acuto e di grave20»

che l’autorità, in grammatica, aveva distinto nelle sillabe. Con analisi siste-

matica, la ragione unifica questi valori (semina) in ordini fissi (ordines certos) e,

seguendo le indicazioni dell’udito (sensum ipsum secuta), determina le suddi-

visioni proporzionali del metro, applicando una misura al fluire ordinato ma

indefinito del ritmo (numerus).

Con il quarto gradino, la musica, interviene di fatto una deviazione21 dal

percorso originariamente progettato dalla ragione: la verità, nel momento stes-

so in cui si sottrae al tentativo di essere colta senza mediazioni e detta, invita a

riconoscere la presenza dell’elemento razionale (numerus) in ogni aspetto della

struttura del reale, legittimando così lo studio delle scienze matematiche22. La

via intrapresa dalla ragione per tornare al principio si biforca in questo punto:

20Cfr. ord. II, xiv, 40.21Cfr. G. Catapano, op. cit. p. 35 ss.22«In questo quarto gradino, sia nei ritmi, sia nella modulazione, si accorgeva che i numeri

regnavano ed erano in tutte le cose: indagò con grande diligenza il loro modo di essere; li scoprìdivini ed eterni, soprattutto perché con il loro aiuto aveva formato tutte le realtà superiori» (ord. II,xiv, 41).

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2.2. IL PROGETTO ENCICLOPEDICO DEL DE ORDINE 55

da una parte prosegue quella della parola, che aveva promesso di raggiungere

la verità attraverso la comprensione del significato espresso nel verbum; dall’al-

tra inizia invece quella del numero, che, identificando la verità con l’elemento

di continuità tra il pensiero e l’essere - continuità che è stata espressa per mezzo

della giustapposizione ratio-res - assume il significante come guida.

Questa mossa, in realtà, può sembrare in prima battuta compromessa a cau-

sa del carattere accidentale del signum: secondo quanto è argomentato nell’am-

bito del De magistro, infatti, la funzione che Agostino riconosceva ai segni era

solamente quella ostensiva, in virtù della quale le cose potevano essere mo-

strate, al più evocate, ma comunque mai svelate. Premesso, ciò, tuttavia, la

relazione tra il pensiero e le cose non risulta essere estrinseca, come se tra

l’essere e la sua manifestazione si inserisse una mediazione, quella linguisti-

ca, non riconducibile al principio unificante e, pertanto, incapace di riflettere

l’ordine razionale. L’atto linguistico, al contrario, caratteristico e anzi definito-

rio dell’uomo, conserva una traccia di somiglianza con l’atto creatore di Dio:

se nella mente divina il pensiero coincide con l’essere, in quella dell’uomo il

pensiero manifesta l’essere, non impadronendosene per mezzo della parola,

ma piuttosto riconoscendolo nell’ordine e nella misura che di per sé già essa

rivela. La musica, in questa prospettiva, assume una valenza particolare che

la individua, se così si può dire, come un crocevia. Se rispetto alle tre arti del-

la parola che la precedono essa introduce la consapevolezza della distinzione

significato-significante e, in conseguenza del suo prendere a oggetto la razio-

nalità della res, assume l’assetto di una scientia, rispetto alle tre discipline del

numero essa mantiene la componente poietica23 declinata nell’atto del bene mo-

dulari, sperimentando, come ha efficacemente espresso Catapano24, «l’azione

di un’intelligenza che crea e misura contemporaneamente».

A differenza delle altre discipline del quadrivio, ovvero aritmetica, geome-

tria e astronomia, la musica conservava, accanto alla dimensione contemplati-

va, un interesse eminentemente pratico, per certi versi analogo a quello della

23In questa prospettiva l’attività di manipolazione del suono manifesta tutta la rilevanza di cuiera investita in un contesto di cultura orale come quello in cui si trovava ad operare Agostino.Nella cultura tardo-antica, che era ancora la medesima del De oratore di Cicerone, il suono non rap-presentava solo il principale veicolo espressivo, rispetto al quale la parola scritta si riduceva a meravia d’accesso, del tutto priva di autonomia, ma, addirittura, la materia su cui poteva esercitarsi nelsenso più proprio l’attività creativa, non creatrice, dell’uomo.

24Cfr. op. cit. p. 44.

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56 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

retorica. Accomunate dalla permanente interazione con la materialità del suo-

no e non, come nel caso della grammatica e della musica teorica, con l’intento

di imporre un ordine o una classificazione quanto piuttosto con quello di ser-

virsene in vista di uno scopo ulteriore, fosse questo la persuasione o il diletto,

ars rethorica e musica practica risultavano caratterizzate in senso fortemente stru-

mentale. Questo momento tecnico-operativo che differiva sostanzialmente, ad

esempio, da quello della geometria in cui l’atto di misurare un oggetto si limi-

tava a constatare un dato senza imporre cambiamenti, non era ben conciliabile

con il carattere di gratuità25 che Agostino, in accordo con la tradizione, valuta-

va quale requisito indispensabile perché un’attività potesse essere qualificata

come liberale. Nel caso della musica tale requisito era discusso, significativa-

mente, nel contesto della spiegazione della già citata definizione della discipli-

na come scientia bene modulandi: «Ritorna ora a ciò che abbiamo detto prima

intorno alla modulazione: l’abbiamo definita come una certa abilità nel muo-

vere. Considera a cosa questo nome sia più adeguato: al movimento per così

dire libero, che cioè è ricercato per se stesso e per se stesso provoca piacere? O

al movimento che per così dire è asservito? Infatti sono come servi tutte le cose

che non sono per sé, ma si riferiscono a qualcosa d’altro» (mus. I, ii, 3).

Limitandosi a valutare, tra le svariate possibilità, il piacere provocato dal

canto o da un brano di oratoria ben costruito, non può essere trascurata la di-

stinzione tra il piacere considerato come conseguenza non progettata, ma di

per sé prodotta dalla bontà della composizione, e il piacere ricercato per es-

sere in altro modo impiegato, ad esempio per indurre un certo stato d’animo

negli ascoltatori. Se il primo caso, infatti, manifesta una certa affinità con l’at-

teggiamento contemplativo, chiuso nella propria staticità e passibile, al più,

di essere inteso come conferma sensibile della presenza di un’organizzazione

razionale dei suoni, il secondo rivela invece il tratto tipico dell’operare tecnico-

strumentale, orientato primariamente all’efficacia e aperto a una rosa indeter-

minata di fini. Questa ambiguità di fondo, mai esplicitata, è da annoverare tra25All’inizio del primo libro del De musica, nel contesto della spiegazione di tutti i termini ricor-

renti nella definizione di musica, Agostino affronta la questione del carattere gratuito o strumen-tale delle attività umane e, per farlo, ricorre all’esempio del tornitore, rispetto al quale distingue ilmovimento del tornire dall’oggetto che esso produce. Nel caso dell’artigiano il movimento non èricercato per se stesso come avviene invece nel caso di un danzatore, e ciò costituisce, per Agosti-no, il motivo che ne decreta l’inferiorità: «In qual caso dunque reputi che una cosa sia importante ein un certo senso predomini: quando la si ricerca per sé o quando la si ricerca per altro? - Quandola si ricerca per se stessa, chi potrebbe negarlo?» (mus. I, ii, 3).

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2.3. ARS RETHORICA E LINGUAGGIO 57

le possibili cause dell’ambivalenza che Agostino dimostrava nei confronti della

musica e che se da un lato lo spingeva a manifestare con entusiasmo il proprio

apprezzamento per la bellezza di un canto, dall’altro lo richiamava prepoten-

temente facendolo arretrare di fronte alla minaccia che essa poteva costituire.

Ben più grave del cedimento concupiscente, che insidiava il momento passivo

della fruizione, l’esercizio della capacità di muovere l’animo passando attra-

verso il senso dell’udito costituiva potenzialmente un tentativo di emulare il

modo in cui Dio comunicava con l’uomo, quasi un’usurpazione del suo pote-

re di raggiungerne l’interiorità che Agostino conosceva con la profondità del

proprio vissuto:

Io tendevo, dolce verità, verso la tua melodia interiore (cordismei auribus, quas intendebam, dulcis Veritas, in interiorem melodiamtuam) (conf. IV, xv, 27).

Il fatto che la retorica e la musica pratica si configurassero come potenziali

strumenti e fossero pertanto rimessi al volere del singolo quanto all’uso e al

fine verso cui potevano essere dirette necessariamente comportava il loro rica-

dere nell’ambito di pertinenza dell’etica. Il potere che entrambe erano in grado

di esercitare sull’animo derivava dalla sinergia di lógos e páthos insita nel lin-

guaggio parlato, la quale coinvolgeva sia la componente razionale sia quella

a-razionale. Per Agostino il linguaggio era sempre stato non solo il luogo pri-

vilegiato della riflessione, ma anche quello in cui l’eco delle vibrazioni emotive

poteva trovare maggiore spazio di risonanza. Ciò, del resto, è confermato dal

suo instancabile esercizio del ministerium verbi, il cui presupposto riposava nel

riconoscimento del linguaggio come strumento per eccellenza di conversione.

2.3 Ars rethorica e linguaggio

2.3.1 Il concetto agostiniano di verità

L’urgenza con cui il giovane Agostino aveva impegnato le sue risorse intellet-

tuali nella ricerca di una verità commisurata alla mente umana e, allo stesso

tempo, in possesso dei requisiti di oggettività e certezza è percepibile in ognu-

no dei suoi scritti, quando non apertamente posta come, ad esempio, nei Solilo-

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58 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

quia, in cui è esibita26 e rimarcata la dichiarazione di non voler conoscere altro

che Dio e l’anima: «Ho dimostrato ormai in modo certo che non amo nient’al-

tro, se è vero che non si ama ciò che non si ama per se stesso. Per se stessa io

amo invece solo la sapienza (Ego autem solam propter se amo sapientiam), mentre

le altre cose voglio che ci siano o temo che mi manchino in vista di essa sola»

(I, xiii, 22).

Tale urgenza, d’altra parte, appare sin da subito motivata da un’inquietudi-

ne esistenziale che si manifesta in Agostino sin dal primo incontro con l’ideale

di sapienza amata propter se che avvenne, secondo quanto è descritto nel terzo

libro delle Confessiones, in seguito della lettura dll’Hortensius di Cicerone. Que-

sto dialogo filosofico, incluso nel programma di studio superiore impartito a

Cartagine e, purtroppo, perduto, svolgeva probabilmente il tema del contrasto

tra la filosofia e la retorica che venivano difese, rispettivamente, da Cicerone e

dal retore Quinto Ortensio Ortalo. Colpito dalla descrizione di un’ars rhetori-

ca nutrita dalla filosofia ed estranea all’esercizio spregiudicato della tecnica di

persuasione, Agostino visse una vera e propria metànoia che operò uno stra-

volgimento della sua personalità intellettuale: «Quel libro cambiò davvero il

mio modo di pensare (ille vero liber mutavit affectum meum), cambiò le mie stesse

preghiere a te, Signore, trasformò le mie aspirazioni e i miei desideri. Mi cadde

di colpo ogni interesse per le vane speranze, presi a desiderare l’immortalità

della sapienza con un’incredibile ardore d’animo (immortalitatem sapientiae con-

cupiscebam aestu cordis incredibili): avevo iniziato la risalita verso di te» (conf. III,

iv, 7).

Il risvolto esistenziale era già contenuto nell’accostamento ciceroniano di

ricerca filosofica e felicità, ma fu rielaborato e piegato in una direzione origina-

le dal giovane Agostino che, nel Contra Academicos, discusse il valore assoluto

attribuito alla felicità della ricerca in sé, a prescindere dall’ottenimento della

sapienza. L’interrogativo che apre il dialogo chiedendo se sia possibile essere

felici anche senza aver trovato la verità27 divide gli interlocutori in due opposti

partiti, l’uno a favore dell’ideale ciceroniano, che guardava alla verità assoluta

come ideale irraggiungibile, investito di un ruolo di guida nella ricerca, l’altro

volto a sostenere una nozione di scientia correlata a un oggetto avente caratte-

26Cfr. sol. I, ii, 7.27Cfr. I, iii, 7.

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2.3. ARS RETHORICA E LINGUAGGIO 59

ristiche di assolutezza e stabilità ontologica, in corrispondenza dei quali, come

M. Cristiani28 ha osservato, si davano due differenti concezioni dell’errore29, ri-

spettivamente come assenso al falso (pseudós) e come mancato raggiungimento

dell’oggetto (apáte).

L’evoluzione intellettuale del giovane Agostino passò attraverso le tappe

di una fenomenologia che, dopo l’infatuazione operata dall’Hortensius, vide il

tentativo di recuperare il cristianesimo dell’infanzia, la delusione subita dalla

ricerca della sapienza nelle Scritture e l’esperienza dell’errore con l’adesione

alla gnosi manichea. Queste ultime due fasi potrebbero essere descritte, rispet-

tivamente, come il mancato coglimento del vero a causa della rozzezza della

sua espressione, offensiva per la sensibilità dell’intellettuale, e come l’assen-

so al falso imposto dalla forma suadente con cui era proposto, traboccante di

ricchezza emotiva30.

Questo dato della biografia di Agostino assume un significato particolare

nel contesto del presente lavoro, in quanto offre una sorta di conferma indi-

retta dell’importanza della forma espressiva nella comunicazione della verità,

facendo intuire la profondità della proposta di un’eloquenza cristiana che Ago-

stino, molto più tardi, avrebbe elaborato nel quarto libro del De doctrina christia-

na. Certo, la cosmogonia manichea aveva proposto una spiegazione razionale

della realtà, quella «verità esplicita e senza scorie» che il giovane Agostino ave-

va cercato ansiosamente dopo la deposizione di un ideale di pura ricerca senza

certezza e dopo il rifiuto sprezzante di insegnamenti che avevano l’apparenza

di «favole da donnette», ma senza un sapiente ricorso al linguaggio dei senti-

menti, senza quella mitologia che dispiegava come sulla scena di un teatro il

dinamismo delle passioni, l’effetto di quelle dottrine sarebbe stato assai diver-

so e, probabilmente, molto meno duraturo31. A questo proposito M. Cristiani32

ha ipotizzato che il potere di stravolgere le categorie della tradizione filosofica

che il cristianesimo agostiniano ha esibito affondi le sue radici proprio nell’e-

sperienza profonda della spiritualità manichea e che il linguaggio degli homi-

28Cfr. [42, pp. 207-8.]29Cfr. I, iv, 10-11.30Lo stesso fascino ipnotico era posseduto dagli inni su testo gnostico nei confronti dei quali,

come si vedrà, si espresse la diffidenza di molti Padri della Chiesa.31L’adesione di Agostino al manicheismo, come egli stesso riferisce, durò ben nove anni. Cfr.

conf. V, vi, 10.32Cfr. op. cit. p. 212.

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60 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

nes delirantes, senza misura al punto da potere essere definito linguaggio della

follia, fu, in ultima analisi, ciò che gli consentì di raggiungere la profondità

di scavo interiore che contraddistingue la sua riflessione. Tutto il senso della

ricerca agostiniana si condensa nello spazio esiguo di una testimonianza:

Giù per quei gradini fui trascinato nelle profondità dell’inferno,pur oppresso com’ero e travagliato dalla penuria di verità, mentrete andavo cercando, Dio mio - e a te infatti mi confesso, perché haiavuto pietà di me quando ancora non te lo confessavo - mentre teandavo cercando, non secondo le facoltà della mente (non secondumintellectum mentis), per le quali hai voluto che ci distinguessimo dal-le bestie, ma secondo gli istinti della carne (secundum sensum carnis).Tu infatti eri dentro di me più del mio intimo e più in alto della miaparte più alta (conf. III, vi, 11).

Fino a quando la prospettiva di Agostino rimase circoscritta entro l’orizzonte

del materialismo egli non fu in grado di concepire modi di esistenza diversi

da quello corporeo, fermandosi di fatto a metà strada tra il concetto e l’imma-

gine e disponendo, come unico criterio di verità, dell’evidenza della rappre-

sentazione33 (phantasia). La tesi che consentì l’emancipazione dal materialismo

e, con esso, dal limite di una conoscenza necessariamente priva di stabilità e

costitutivamente esposta all’illusione, emerse come corollario dell’argomento

elaborato contro lo scetticismo degli accademici. Nella sua sostanza, tale argo-

mento consisteva nel dirottare la ricerca della verità dal piano dei fatti a quello

della coerenza formale, mirando all’ottenimento di un criterio capace di ga-

rantire un senso alla ricerca stessa, il quale era fatto coincidere con il principio

dell’attività conoscitiva: «Le forme (formas), infatti, attraverso cui si muovono i

miei occhi erano le stesse immagini (imagines) attraverso cui si muoveva la mia

mente (cor meum), e non vedevo che l’attività stessa (eandem intentionem) con

cui formavo quelle immmagini non era della loro medesima natura: eppure

non le avrebbe nemmeno formate, se non fosse stata qualcosa di grande» (conf.

VII, i, 2). Con questa presa di coscienza, la considerazione veniva spostata33«Gridava il cuor mio a gran voce contro tutti quei fantasmi (omnia phantasmata mea) e in tal

modo cercavo di allontanare d’un sol colpo alla vista della mia mente la turba impura che le scia-mava intorno: ma appena scacciata, ecco che in un batter d’occhio si ripresentava compatta es’avventava contro il mio sguardo e l’offuscava, costringendomi a pensare, anche se non in formadi corpo umano, qualcosa di pur sempre corporeo, collocato nello spazio, o incluso nel mondo oanche diffuso nell’infinità al di fuori del mondo, pur esso incorruttibile, inviolabile, immutabile,che anteponevo a ciò che è corruttibile, violabile e mutabile, poiché ciò che toglievo da tali spazimi sembrava esser nulla, un nulla totale, non un semplice vuoto, come quando si toglie un corpoda un luogo e rimane il luogo svuotato d’ogni corpo, sia esso di terra o d’acqua, aereo o celeste,che è pur sempre un luogo vuoto, quasi un nulla spazioso» (conf. VII, i, 1).

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2.3. ARS RETHORICA E LINGUAGGIO 61

dall’esterno all’interno del soggetto conoscente, dalla realtà dei corpi ordinata

secondo le categorie dello spazio e del tempo a quella dell’attività dell’anima,

immateriale ma non per questo priva di certezza. L’impiego del termine cor,

che nel linguaggio biblico identificava appunto l’uomo interiore, sottointende

il riferimento al sé in quanto tale, sede dei pensieri e dei sentimenti, quel sé

che, in seguito all’assimilazione delle dottrine contenute nei testi neoplatonici

letti poco prima della conversione34, si sarebbe rivelato finalmente come atto35.

L’eredità platonica, che consentì ad Agostino di emanciparsi dai prodot-

ti dell’immaginazione, giudicati un vero e proprio vischio per la mente, non

comprendeva solo la distinzione tra corporeo e incorporeo, ma anche la no-

zione di partecipazione (méthexis), in virtù della quale il guadagno speculativo

si apriva sul piano etico ed esistenziale definendo la possibilità di asseconda-

re o meno con la volontà l’essenza definita da tale partecipazione. L’impiego

della nozione di méthexis fu suggerito probabilmente dalla lettura del Timeo di

Platone e dalla sua combinazione con la dottrina della creatio ex nihilo derivò

una concezione cosmologica in cui tutto, in quanto partecipe di Dio, esibiva in

qualche modo una somiglianza con lui36. Tale somiglianza si traduceva da un

lato nella concezione di un cosmo in cui ogni parte, per quanto infima, rappre-

sentava la concretizzazione un pensiero di Dio, componendosi con tutte le altre

nell’ordine razionale disposto dalla creazione, mentre, dall’altro, si rendeva ri-

conoscibile nell’uomo che la coltivava in se stesso, perseguendola attraverso

l’imitazione (mímesis).

Il seguente passo, tratto dal De vera religione, richiama i termini dell’impo-

stazione appena descritta lasciando intravvedere, nel contempo, la piega della

fondamentale mossa agostiniana:

La sapienza divina pervade il creato da un confine all’altro; quin-di, per tramite suo, il sommo Artefice ha disposto tutte le sue operein modo ordinato, verso l’unico fine della bellezza. Nella sua bontàpertanto a nessuna creatura, dalla più alta alla più bassa, ha nega-to la bellezza che da Lui soltanto può venire, così che nessuno puòallontanarsi dalla verità senza portarne con sé una qualche imma-

34Secondo gli studi condotti da P. Courcelle, sembra certo che in quegli anni, a Milano, fos-se attivo un circolo di ispirazione neoplatonica, cui apparteneva anche Sant’Ambrogio. Profon-do conoscitore delle Enneadi, quest’ultimo fu probabilmente il principale mediatore delle dottrineplotiniane presso Agostino. Cfr. [41, p. 138.]

35Cfr. [132, p. 99.]36Cfr. [141, p.127.]

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62 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

gine. Chiediti che cosa ti attrae nel piacere fisico e troverai che nonè niente altro che l’armonia; infatti, mentre ciò che è in contrastoproduce dolore, ciò che è in armonia produce piacere. Riconosciquindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te,ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troveraiche la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda-ti, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: ten-di, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A checosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità?Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma èessa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un’armoniainsuperabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa. Confessadi non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa;tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro,ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che l’uomointeriore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel bassopiacere della carne, ma in quello supremo dello spirito (vera rel. 39,72).

La differenza più evidente rispetto a Platone consisteva nel fatto che mentre

per quest’ultimo il principio ultimo dell’essere e della conoscenza rappresen-

tato dall’idea del Bene poteva essere contemplato, per quanto non direttamen-

te, al termine di un percorso che partiva dalla realtà ordinata in funzione di

esso, per Agostino la via non usciva dall’interiorità, poiché proprio in essa era

eminentemente presente il germe di quella somiglianza il cui riconoscimento

comportava l’ammissione della costitutiva dipendenza da qualcosa di ulteriore

e, con ciò, la necessità del suo superamento. Partendo dall’affermazione della

certezza dell’autopresenza, infatti, Agostino otteneva la garanzia dell’esistenza

di una prima verità che, se da un lato presentava valore esclusivamente sog-

gettivo, dall’altro possedeva però un carattere di assoluta indubitabilità, deri-

vatole dalla coincidenza di conoscente e conosciuto. Dopo aver mostrato che,

assieme all’esistenza, erano possedute anche la vita e l’intelligenza e che, da

un punto di vista gerarchico, quest’ultima attività si poneva al livello superio-

re, l’argomento era portato a conclusione in virtù della successiva applicazione

del principio secondo cui che è superiore ha facoltà di esercitare un giudizio

su ciò che è inferiore. Applicato la prima volta per dedurre la superiorità della

ragione su tutte le altre attività dell’anima, tale principio portava infine a ri-

conoscere l’esistenza di una realtà superiore alla stessa ragione, Dio in quanto

verità, origine di tutti gli oggetti ad essa accessibili, ma sottratti al suo giudizio

in quanto costituenti il suo stesso criterio. La conoscenza di tali oggetti, come

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2.3. ARS RETHORICA E LINGUAGGIO 63

le verità matematiche, si caratterizzava dunque in termini di scoperta, deli-

neando un quadro analogo a quello del Menone. Come nel dialogo platonico,

anche Agostino proponeva una teoria della reminescenza ma, senza avvertire

la necessità di uscire dal soggetto postulando l’evento di un’esperienza ante-

riore alla nascita, spiegava il processo di autoconoscenza dell’anima in termini

di esplicitazione di una conoscenza da essa già posseduta in forma implicita.

Fondamento di questa memoria e guida nella riflessione dell’anima su se stes-

sa, il Maestro interiore era anche ciò di cui l’anima, infine, scopriva la presenza

nella propria più profonda interiorità, nonostante l’assoluta trascendenza.

La dottrina dell’interiorità fonda il tentativo di articolare la somiglianza del-

l’anima con Dio in funzione della corrispondenza tra le sue attività e le Perso-

ne della Trinità che Agostino compie, a molti anni di distanza, nel De Trinitate.

Le triadi che egli rintraccia nel decimo libro di quest’opera sono due, mente-

conoscenza-amore (mens-notitia-amor) e memoria-intelligenza-volontà (memoria-

intelligentia-voluntas) e, a entrambe, è affidata l’espressione del movimento in-

terno di autoconoscenza dell’anima: se la prima figura, mente o memoria, con-

traddistingue il possesso statico della conoscenza implicita in essa presente,

con la seconda si dispiega il movimento che, attraverso la parola (verbum) in

grado di consentire l’emancipazione dalle false immagini (phantasíai), pervie-

ne alla sua formulazione esplicita, la cui verità attende l’assenso da parte della

volontà.

Il modello che emerge dalla costruzione agostiniana determina, dunque, la

conoscenza come scoperta interiore, specificabile nei termini di un chiarimento

mediante la parola, che non sancisce tuttavia la conclusione del processo poi-

ché tutto dipende, in ultima analisi, dal darsi o meno dell’adesione personale

alla verità. L’antecedente della nozione di scelta indipendente dalla conoscen-

za, che si oppone alla visione intellettualistica secondo cui l’evidenza del vero

è causa dell’immediatezza dell’assenso, deve essere riconosciuto nella dottri-

na stoica della proáiresis, matrice fondamentale della concezione cristiana della

volontà. Il fatto che, per Agostino, l’anima possa essere origine della propria

perversione per sua volontà o che, al contrario, possa aderire al vero e al be-

ne, mette in luce l’elemento di fondamentale gratuità che caratterizza il suo

agire e che corrisponde, in ultima analisi, alla gratuità dell’atto divino della

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64 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

creazione37.

2.3.2 Il linguaggio tra menzogna e verità

La condizione di mancata aderenza dell’anima al vero e la conseguente disper-

sione nel molteplice identificava, agli occhi di Agostino, la causa che aveva

reso necessaria l’istituzione del linguaggio e che, sotto questo aspetto, lo carat-

terizzava come un male. Tale qualificazione non si poneva in termini di acci-

dentalità, come nel caso della segnalazione di un cattivo uso, ma era intrinseca

all’essenza stessa del linguaggio, in quanto connessa all’incapacità dell’uomo

di mantenersi stabilmente in uno stato di contemplazione ineffabile. Il male

del linguaggio consisteva, dunque, nella distinzione tra il suono della parola

(verba) e il suo significato (res), che ripeteva, secondo la similitudine agosti-

niana, quella interna all’uomo stesso: «Dunque, dato che il nome in sé risulta

composto dal suono e dal significato (nomen ipsum sono et significatione constet),

e il suono interessa le orecchie, il significato la mente, non credi che nel nome,

come se fosse un essere vivente, il suono sia il corpo, mentre il significato sia

per così dire l’anima del suono? - Niente mi pare più somigliante» (an. quant.

XXXII, 66).

Il linguaggio è, per Agostino, il simbolo stesso del male, nell’ottica dalla

metafora biblica della torre di Babele38. Origine di tutte le interferenze che

ostacolano la comunicazione tra gli uomini, sebbene nel contempo condizio-

ne di possibilità di quest’ultima, esso è anche il medio principale attraverso il

quale si esercita la superbia dell’uomo, nel suo vano tentativo di approssimar-

si a Dio. Il linguaggio esibisce, di fatto, una natura ambivalente: se da un lato

ospita un male profondo, in quanto presuppone la frantumazione di ciò che in

origine era uno ed eterno nella molteplicità spazio-temporale, dall’altro, para-

dossalmente, in virtù di questa negatività esercita la mediazione necessaria per

il coglimento dell’ordine da parte dell’uomo e, nel dare fondamento al sapere

custodito dalle arti liberali, dischiude per l’anima la possibilità di intrapren-

dere un cammino di ascesa a partire da un’interiorità in cui risuona la parola

ineffabile.

37Cfr. C. Taylor, op. cit. p. 139.38Cfr. doctr. chr. II, iv, 5.

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2.3. ARS RETHORICA E LINGUAGGIO 65

Nel De magistro Agostino giunge alla conclusione che il segno, di per sé con-

siderato, non può essere fonte di conoscenza, ma che quest’ultima è da sempre

presente nell’anima, condensata in una sorta di traccia interiore che la parola

serve solo a rendere presente alla coscienza. Tale traccia, sebbene dotata di un

certo grado di oggettività, è però elaborata soggettivamente ad opera dell’im-

maginazione e, dunque, essenzialmente privata e non trasmissibile39. D’altra

parte, la solidità ontologica che caratterizza tutti i gradi dell’essere nella conce-

zione agostiniana dell’universo si traduce, sul versante gnoseologico, nell’im-

possibilità che gli enti si manifestino sotto false apparenze o che simulino una

persistenza fallace al di sopra di un ribollire magmatico e inconoscibile. La ra-

gione di questa impossibilità risiede nel fatto che l’inganno ha sempre natura

intenzionale:

Infatti chi simula si distingue da chi inganna per il fatto cheha sempre la volontà di ingannare, anche quando non gli si cre-da; mentre, finché uno non inganna, non può essere ingannatore.Perciò le specie corporee (corporea species), in quanto sono prive divolontà, non simulano; se, inoltre, non sono prese per quello chenon sono, non ingannano neppure (vera rel. 33, 61).

La responsabilità di un errore di valutazione nell’ambito della conoscenza sen-

sibile non può essere attribuito nemmeno in parte ai sensi, poiché non è pos-

sibile dubitare della veracità con cui sono riferiti gli stimoli provenienti dal-

l’esterno: «Ma neppure gli occhi ingannano; essi infatti non sono in grado di

far altro che riportare alla mente le loro impressioni (affectionem suam). E se

non solo essi, ma tutti i sensi del corpo riportano soltanto le loro impressioni,

non so cos’altro dovremmo pretendere da essi» (vera rel. 34, 62). La conclusione

cui l’argomentazione di Agostino necessariamente porta, dunque, è che l’unica

possibile fonte di inganno risiede nell’anima.

L’anima può ingannare se stessa applicando in modo incongruo i suoi modi

di conoscenza, cosa che accade quando «cerca di comprendere le cose carnali e

di vedere quelle spirituali (intellegere carnalia, et videre spiritalia)». Oppure può

39La comunicazione è il luogo del disvelamento della verità temporalizzata: ogni sua manifesta-zione presuppone una precisa intenzione espressiva da parte di un soggetto che, pur nel rispettodelle regole, introduce un elemento di arbitrarietà che richiede un atto interpretativo da parte del-l’interlocutore. Tranne che nel caso delle verità intelligibili, direttamente accessibili a tutte le menti,un contenuto ammette tre possibili atteggiamenti: il dubbio, la fede o l’opinione, ovvero, rispet-tivamente, la sospensione del giudizio, l’adesione da parte della volontà accordata per l’autoritàdella fonte, l’adesione come esito di un’autonoma valutazione.

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66 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

deliberatamente tentare di convincere qualcuno di qualcosa di diverso da ciò

che ritiene vero. Questa seconda eventualità è quella che si realizza nella men-

zogna la quale, per l’assunzione implicita della presenza di un interlocutore,

si configura come un fenomeno circoscritto al contesto comunicativo. La ma-

nipolazione del dato oggettivo, comunque, è sempre un atto teleologicamente

orientato, che viene esercitato nei confronti di uno o di più soggetti dotati di

intelletto e libertà di assenso. La conferma del fatto che la determinazione della

volontà costituisce la condizione decisiva del mentire è che, secondo Agostino,

l’oggettiva verità o falsità di ciò che viene affermato non ha alcun peso: così

come chi dice il falso può non essere bugiardo, ma semplicemente in errore,

così chi dice il vero può mentire se la sua personale convinzione ha un conte-

nuto differente da quello che afferma. L’atteggiamento del mentitore, dunque,

è propriamente definito dalla volontà di operare una sostituzione della realtà,

finalizzata a orientare l’opinione dell’interlocutore in contrasto con il giudizio

formulato in privato.

La profonda conoscenza della psicologia umana, che Agostino aveva matu-

rato nella sua lunga esperienza di retore, gli imponeva di non trascurare alcuni

meccanismi della comunicazione aventi il potere di determinare l’assenso fa-

cendo leva sull’emotività dell’interlocutore. Ogni oratore, del resto, era ben

consapevole del fatto che la prevedibilità di alcune reazioni del pubblico co-

stituiva una risorsa preziosa, che poteva essere sfruttata agendo attraverso la

forma del discorso, in modo indipendente dal contenuto. Là dove quest’ulti-

mo, infatti, si propone alla capacità di giudizio attivando la sola parte raziona-

le dell’anima, la forma in cui esso viene comunicato coinvolge la componente

a-razionale, sulla quale agisce potentemente la forza evocatrice delle immagini.

L’abilità persuasiva individua un’attitudine profondamente diversa da quel-

la dello scherzo, nel contesto del quale comunque si consuma il tentativo di

sostituire una circostanza reale con una fittizia. Ciò che distingue le due situa-

zioni è il fatto che la sostituzione della realtà con un’alternativa verosimile è

rispettivamente celata o esplicita e, dato fondamentale, ciò si traduce in una

resa corrispondente dell’espressione e del tono. Nel caso dello scherzo, autore

e destinatario sono in una posizione di parità, poiché il secondo è consapevole

di essere di fronte a uno sdoppiamento di livello operato dal primo e, nel dare

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2.3. ARS RETHORICA E LINGUAGGIO 67

il proprio consenso al sussistere della finzione, ne prende contemporaneamen-

te distanza. Quest’ultima, invece, è precisamente ciò che l’oratore e il mentitore

cercano di annullare e che, per certi aspetti, tende a venir meno anche durante

l’ascolto di una melodia.

Si può osservare, di passaggio, che questo aspetto sembra introdurre un

significativo discrimine fra la musica e altre forme artistiche come quella dei

mimi, della commedia e di gran parte della poesia, oltre che delle arti figurati-

ve. Mentre queste ultime, infatti, dispiegano di fronte agli occhi del pubblico

una finzione che non intende ingannare ma dilettare proponendosi come spet-

tacolo, la musica trae la propria ragion d’essere dalla capacità di provocare

reazioni che coinvolgono tutta la complessità emotiva dell’animo, abbattendo

le distanze stabilite dalla comunicazione ordinaria. Se nel primo caso si assiste

a una forma di piacere intellettuale che presuppone nel pubblico la consapevo-

lezza della finzione e che deriva non tanto dalla partecipazione ad essa, quanto

piuttosto dalla conoscenza dello sdoppiamento che ne è all’origine, nel secon-

do opera una mozione diretta degli affetti, che non lascia spazio al confronto

con la realtà e che non è possibile qualificare come semplicemente dilettevole40.

La condizione necessaria a che una qualunque passione, anche il dolore,

sia fonte di piacere è che essa sia rappresentata e non subita, ossia che la sua

ricezione da parte dello spettatore sia congiunta alla consapevolezza dell’ine-

sistenza di una causa reale, dal che consegue la certezza di poter revocare l’as-

senso in qualunque momento. Nel caso della finzione, il controllo razionale

non viene mai meno e la sua stessa finalità si determina spesso come un am-

pliamento della conoscenza del reale, nel modo dell’uti. Un esempio in questo

senso è quello della finzione mitologica, di cui già Platone aveva ampiamente

mostrato il possibile impiego in filosofia nella misura in cui poteva consentire

un’approssimazione alla verità attraverso la similitudine. La via dell’analogia

era stata oggetto di valutazione attenta anche da parte di Agostino, soprattutto

perché numerosi passi delle Sacre Scritture presentavano oscurità che potevano

essere dissipate solamente attraverso una lettura che ne riconoscesse il signi-

ficato metaforico e si assumesse, di conseguenza, l’onere della decifrazione41.

40L’approfondimento di questo tema è rinviato al § 3.3.1, dove verrà presa in esame l’influente earticolata teorizzazione aristotelica.

41Agostino non esclude, dunque, che in alcuni casi la finzione possa costituire l’unica via alcoglimento della verità, come, ad esempio, in quei passi delle Sacre Scritture in cui la Sapienza

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68 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

Egli si dimostra perfettamente consapevole, tuttavia, del fatto che la potenza

suggestiva della metafora consiste essenzialmente nella capacità di esprimere

ciò che sfugge alla relazione semantica tra verbum e res tramite la falsità del-

la rappresentazione e che questa circostanza la accomuna innegabilmente alla

finzione e alla menzogna.

Il problema di come stabilire il discrimine è affrontato, nel De Mendacio,

tramite l’approfondimento del valore espressivo dello scarto tra la cosa e il

modo in cui il soggetto può scegliere di esprimerla, spazio che si estende pro-

porzionalmente al grado di arbitrarietà della significazione e in cui coesisto-

no pericolo di fraintendimento e forza espressiva, soggettività della forma e

oggettività del contenuto alluso dal linguaggio figurato. Quest’ultima può es-

sere fatta emergere solo in virtù di un atto di decodificazione e il carattere di

necessità proprio dell’atto ermeneutico conferma la caratterizzazione in senso

convenzionale del legame significato-significante, ovvero l’impossibilità di un

accesso diretto al significato delle cose attraverso il solo sembiante esteriore.

Il discrimine tra linguaggio figurato e menzogna, dunque, appare dipendere

dall’esercizio di un atto interpretativo che, nel tentativo di attingere il contenu-

to verace oltre la rappresentazione, impedisce la valutazione di quest’ultima

come autonoma. Il fatto che Agostino riconosca un ruolo centrale all’atto er-

meneutico non implica, tuttavia, che esso sia investito di un valore diverso da

quello puramente strumentale. Esso rappresenta, in un certo senso, un ma-

le necessario, una fase ineliminabile della comunicazione attraverso la quale

è possibile cogliere la verità contenuta nel messaggio, ma che, nel contempo,

espone l’inteprete al potente fascino esercitato dall’immagine. Quest’ultimo,

come si è visto, può declinarsi in diversi modi e per diversi fini. Se la via ca-

ratteristica della menzogna è il tentativo di piegare l’interlocutore imponendo

un contenuto non per mezzo di un’espressione suadente, ma prevenendo piut-

tosto il sorgere stesso del dubbio tramite il semplice occultamento della verità,

la capacità persuasiva della retorica, che pure può essere impiegata per far cre-

dere il falso, si esercita a partire dal dato palese dell’alternativa, cercando di

piegare l’assenso in un modo o nell’altro per mezzo di un uso accorto della for-

ma del linguaggio. Radice ultima dell’efficacia di questa forma, la potenza del

divina si è servita di immagini per comunicare qualcosa che non era ancora il momento di renderepienamente e universalmente acessibile.

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2.4. IL NUOVO PROGETTO DEL DE DOCTRINA CHRISTIANA 69

suono giudicata non dall’autorità, ma dalla ragione e dai sensi trovava nell’ars

musica la compiuta esposizione delle regole e dei principi, i quali, sebbene non

applicati in funzione di un contenuto da trasmettere, indicavano in che modo,

concretamente, la presenza ordinante del numero si rendesse percepibile nella

disposizione dei suoni.

2.4 Il nuovo progetto del De doctrina christiana

Il progetto enciclopedico tracciato nel De ordine, come noto, fu realizzato solo

in parte: oltre al De musica, di cui furono composti solo i sei libri dedicati al-

la ritmica e non quelli relativi alla melodia, Agostino abbozzò soltanto un De

dialectica e un De rethorica, dei quali è stata per molto tempo posta in dubbio

l’autenticità. Dopo la sua ordinazione, del resto, egli stesso ammise di essere

stato costretto a trascurare questo genere di studi per dedicarsi con assiduità ai

compiti imposti dalla nuova missione pastorale. Il mutato scenario della sua

riflessione, tuttavia, non comportò l’abbandono del modello educativo classico

quanto piuttosto una sua ristrutturazione, tesa, a partire dalla consapevolezza

della validità di alcuni contributi della cultura pagana, alla messa a punto di

strumenti efficaci per l’esegesi scritturistica e la catechesi.

L’opera in cui Agostino elaborò concretamente un progetto di cristianizza-

zione della paideia classica a fini esegetici e pedagogici fu il De doctrina christiana

che egli iniziò a comporre nel 395, poco tempo dopo essere diventato vescovo

e, dunque, a quasi una decina d’anni di distanza dal De ordine. La struttura del-

l’opera è modellata sullo schema retorico classico bipartito in modus inveniendi e

modus proferendi: i tre libri che compongono la prima parte, infatti, propongono

un riadattamento della tecnica di ricerca degli argomenti in vista dell’elabora-

zione di un’ermeneutica biblica, mentre il quarto e ultimo libro tenta il recu-

pero dell’arte della parola eloquente, capace di muovere all’assenso mediante

lo stile. La dipendenza dal modello educativo liberale è innegabile, ma altret-

tanto evidente è la volontà di superarlo in vista dell’adeguazione alle esigenze

del Cristianesimo, determinate primariamente dall’evento incommensurabile

della Rivelazione. In questa prospettiva, per quanto indubitabilmente il De doc-

trina christiana manifesti un’immediata destinazione tecnica, è necessario non

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70 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

misconoscerne la portata dottrinale, che lo configura come un vero e proprio

sistema enciclopedico cristiano retto dalla fondamentale distinzione tra uti e

frui: «La stessa tecnica ermeneutica o retorica è soltanto un mezzo tempora-

le da utilizzare (uti) in relazione al fine eterno che vuole conoscere, cui vuole

tornare e di cui vuole fruire (frui)42».

Nel secondo libro del trattato Agostino affronta in modo diretto il tema del

nesso tra la dottrina teologica cristiana e le arti liberali, che si configurano in

termini esclusivi di utilità e di efficacia in quanto mezzi ermeneutici ed espres-

sivi, dotati di una capacità anagogica che li rende guida affidabile nella rico-

gnizione dell’ordine razionale onniformante. Alla luce del presupposto secon-

do cui il contenuto dottrinale della teologia cristiana si rende accessibile nella

forma di un insegnamento razionale che può essere colto mediante l’atto erme-

neutico, il De doctrina christiana si configura a pieno titolo come prosecuzione

dell’originario progetto enciclopedico tracciato nel De ordine.

Un contributo di cui è necessario tenere conto al fine di valutare il signifi-

cato della proposta del De doctrina christiana è quello di G. Lettieri43, il quale,

partendo dalla rilevazione di una discontinuità nella posizione dottrinale di

Agostino, individua un corrispondente mutamento nella sua valutazione della

retorica. La discontinuità in questione interviene nel lasso di tempo che separa

la composizione dei primi tre libri del trattato dall’ultimo ed emerge con im-

provvisa prepotenza nella serie dei commentari paolini, in cui il punto di rot-

tura è rappresentato dall’assunzione della dottrina della grazia esposta in Ad

Simplicianum (I, 2). In questo scritto Agostino analizza un passo della Lettera ai

Romani (9, 10-29), in cui Paolo dichiara senza incertezze l’assoluta impotenza di

ogni atto dell’uomo al cospetto dell’imperscrutabile e, come Lettieri incisiva-

mente la definisce, anarchica volontà di Dio: «E non è tutto; c’è anche Rebecca

che ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre: quando essi ancora non

erano nati e nulla avevano fatto di bene o di male - perché rimanesse fermo il

disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di

colui che chiama - le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore, come

sta scritto: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. Che diremo dunque? C’è forse

42Cfr. [79, p. 25.]43Cfr. G. Lettieri, op. cit. La sintesi proposta in queste pagine riprende il contenuto dei primi

quattro capitoli del libro.

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2.4. IL NUOVO PROGETTO DEL DE DOCTRINA CHRISTIANA 71

ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò mi-

sericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla

volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia» (9, 10-16).

Il mutamento di prospettiva è radicale: se negli scritti anteriori all’Ad Sim-

plicianum e, in compendio, nella prima parte del De doctrina christiana, la vo-

lontà dell’uomo era chiamata a dare un libero assenso alla vocatio divina, in

quelli successivi quest’ultima diviene causa interiore e irresistibile, necessaria-

mente efficace (effectrix bonae voluntatis) in quanto creatrice del consenso stesso.

Un aspetto degno di particolare attenzione è che Agostino, nel suo commen-

to, giustifica la non coincidenza tra i vocati e gli electi44 trasferendo l’analisi

sul piano dell’efficacia retorica e riportando il mancato ottenimento del con-

senso al diverso grado di persuasività della vocatio, che può dunque risultare

intenzionalmente congrua o incongrua.

Al fine di determinare in modo più accurato lo scarto tra vocatio e consensus

nella svolta agostiniana, Lettieri ne propone una lettura in rapporto alla gno-

seologia stoica di Crisippo e alla reinterpretazione che ne fece Cicerone, anima-

to dalla preoccupazione di difendere la libertà dell’assenso. Se Agostino, prima

della rivoluzione di Ad Simplicianum I, 2, aveva mostrato di essere molto vicino

alla posizione ciceroniana del De fato, in cui l’evidenza della rappresentazione

(visum) aveva sì il potere di indurre un adpetitus nell’anima, ma il consensus era

comunque rimesso alla ragione, a partire dal commento al passo paolino egli

avrebbe manifestato una maggiore affinità con la visione crisippea, che sebbe-

ne non attribuisse al fato un operare prevaricante, nondimeno ne affermava il

carattere necessario45. La conciliazione dell’operare irresistibile e predestinan-

te della grazia con il libero arbitrio dell’uomo risultava dunque solo in virtù di

una drastica relativizzazione del significato di quest’ultimo che, privato della

capacità di orientare la volontà a prescindere dalla forza attrattiva dell’ogget-

to, si trovava piuttosto a subirla e a determinare l’agire in funzione di essa,

senza esibire alcun merito46. Qualunque movimento interiore di consenso, in

44Il riferimento è alle parole di Gesù riportate in Mt. 20, 26 e 22, 14: «Multi vocati, pauci electi».45Il passo della lettera di Paolo prosegue in questo modo: «Mi potrai però dire: ma allora perché

ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? O uomo, tu chi sei per disputare conDio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così? Forse il vasaionon è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per usovolgare?» (Rom. 9, 19-21).

46Detto in altri termini, mentre ciò che, prima di Ad Simp. I, 2, consentiva ad Agostino di rica-

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72 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

definitiva, doveva essere inteso come dono assolutamente gratuito dell’infinita

misericordia divina, consistente nell’elezione per mezzo di una vocatio congrua,

ovvero intenzionalmente persuasiva47.

In questa prospettiva supponendo plausibilmente che, durante la stesura

dei primi tre libri del De doctrina christiana, Agostino non concepisse ancora la

grazia in termini di persuasione irresistibile, tutto l’apparato ivi messo a pun-

to, finalizzato alla corretta esegesi delle Sacre Scritture e, in ultima analisi, alla

conquista di una condizione meritevole di salvezza, in seguito alla svolta per-

deva ogni senso. Lo stesso concetto di atto ermeneutico rimaneva del tutto

svuotato, così come il compito di adeguarsi attivamente alla volontà divina di

fronte al dispiegarsi di una grazia imperscrutabile nei suoi decreti e in potere

di sconvolgere persino l’ordine etico e ontologico razionalmente ricostruibile

dall’uomo a partire dal testo sacro48. A questo proposito, Lettieri49 osserva che

lo scarto dottrinale di Agostino è rimarcato da una vistosa differenza dal punto

di vista dello stile espositivo, che se nella prima parte del De doctrina christia-

na risulta costantemente freddo e impersonale, pervaso da un tono di sereno

ottimismo, in Ad Simplicianum I, 2 e negli scritti successivi lascia percepire una

tragica sfiducia nei confronti della capacità umana di conoscere e di compiere

un percorso autonomo di ascesi.

Se dunque, come si diceva, la riformulazione del modello pedagogico e

retorico classico attuato nella prima parte del trattato poteva a buon diritto

essere considerata come la realizzazione del giovanile progetto enciclopedico

agostiniano, l’assunzione della teoria della grazia indebita, con il suo carattere

marcatamente eteronomo, comportava invece la definitiva negazione del va-

lore della cultura umanistica e, con essa, la rinuncia all’ideale liberale di uno

sforzo autonomo, capace di orientare la volontà in funzione della sapienza ap-

presa e accumulata nella disciplina. Il venir meno del carattere universale della

vare uno spazio di esistenza per il libero arbitrio dell’uomo era la sua ricomprensione all’internodell’onniscienza di Dio, che ne lasciava però intatto il valore di merito, ciò che rimaneva in seguitoall’assunzione della teoria della grazia indebita era solo la sua immeritabile chiamata, che attraevauna volontà esclusivamente ricettiva e di per sé incapace di bene.

47Da un punto di vista grammaticale, il mutamento di prospettiva tra la prima parte del Dedoctrina christiana e Ad Simpl. I, 2 determina una diversa interpretazione del genitivo di amor Dei,rispettivamente come oggettivo e soggettivo.

48Lettieri parla a questo proposito di ordine ontoteologico, intendendo con ciò «una definizionemetafisica di Dio come supremo Essere intelligibile e immutabile, cui l’intera realtà mutevole rinviacome origine e fine del proprio essere» ovvero, in ultima analisi, un’anagogia. Cfr. Ivi p. 25.

49Cfr. Ivi p. 94.

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2.4. IL NUOVO PROGETTO DEL DE DOCTRINA CHRISTIANA 73

vocatio che coincideva, di fatto, con la perdita della possibilità di interpretare

il segno del testo sacro quale tramite della volontà divina, comportava il dis-

solversi del fondamento che costituiva la stessa condizione di possibilità del

sapere e, dunque, un vero e proprio scacco conoscitivo: all’accesso razionale, e

perciò universale, si sostituiva la chiamata interiore, immeritata e insondabile,

causa infallibile della conversione del singolo.

Giustificata in questo modo l’interruzione nella stesura del De doctrina chri-

stiana, è necessario comprendere quale motivo spinse Agostino a completarla

dopo un trentennio, nonostante il sussistere di un’innegabile incompatibilità

dal punto di vista teologico e dottrinale. Lettieri50, a questo proposito, sostie-

ne che tale ripresa sottointendeva un «paradossale compromesso tra anarchia

della grazia e persistente apologia della metafisica dell’ordine e della media-

zione ecclesiastica», intendendo con ciò alludere non a una posizione banal-

mente contraddittoria, quanto piuttosto a una coesistenza su piani differenti,

quello fenomenico della manifestazione storica e quello noumenico della gra-

zia imperscrutabile. Secondo questa interpretazione, il paradosso generato dal

tentativo di porre al centro il concetto di Dio come soggetto assoluto pone-

va sì il costo della negazione di ogni autonomia al soggetto finito, ma senza

annullarne la dimensione storico-esistenziale.

La crisi della metafisica dell’ordine che strutturava la dottrina della pri-

ma parte del De doctrina christiana non produsse la banale negazione della sua

validità, quanto, piuttosto, la constatazione della sua insufficienza quale stru-

mento in grado di assicurare la salvezza. Il sapere accessibile alla ragione, per

quanto oggettivamente fondato e aderente alla realtà, autonomamente consi-

derato non era che vana curiositas, condizione necessaria ma non sufficiente.

L’aspetto di straordinaria novità della prospettiva agostiniana, dunque, consi-

stette nel mantenere affermata la validità dell’ordine dell’essere stabilito da Dio

e, allo stesso tempo, l’ulteriorità di quest’ultimo in quanto potenza creatrice

inesauribile e indeterminabile, capace di operare qualunque sconvolgimento.

Nella mutata prospettiva di Agostino, insomma, l’assoluta trascendenza di-

vina si manifestava nella forma della rivelazione di un evento sempre aperto,

che rendeva impossibile l’istituzione di una dottrina che lo fissasse definiti-

50Ivi p. 119.

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74 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

vamente come un dato di cui fosse possibile disporre. Lettieri51 parla a questo

proposito di eccedenza escatologica, intendendo con ciò esprimere l’ultimità di

Dio rispetto a qualunque oggettivazione e rivelazione storica, la vanità di ogni

ordine naturale e umano al cospetto di una grazia assolutamente libera. In que-

sta prospettiva il contenuto della doctrina christiana, per quanto veritativamen-

te fondato, appariva costitutivamente ambiguo: per un verso inutile prodotto

di un operare che, nella pretesa autosufficienza dell’applicazione della rego-

la ermeneutica, peccava di superbia, per un altro strumento di rivelazione e

di persuasione efficace, necessariamente accompagnato dalla predestinazione

della grazia che concedeva al singolo il dono dell’interpretazione.

La necessità di conciliare la dottrina della predestinazione con l’affermazio-

ne del carattere non accidentale della manifestazione storica del Cristianesimo

giustifica la scelta di completare il De doctrina christiana con l’aggiunta di un

quarto libro in cui la cultura umana, in particolar modo quella ecclesiastica,

trova il proprio significato nel rendersi strumento a disposizione della grazia.

Il fatto che la predestinazione sia irrevocabile, infatti, non elimina la necessi-

tà dell’atto della sua proclamazione, per quanto essa si mantenga a un livello

esclusivamente fenomenico52. Oltre a ciò, in modo piuttosto inaspettato e di-

scorde rispetto al modo di sentire dominante della cristianità coeva, Agostino

mostra di attribuire grande importanza al modus proferendi adottato nella tra-

smissione della dottrina, per quanto, coerentemente con la posizione assunta,

egli sottragga ogni merito e potere all’agente fisico della comunicazione, l’o-

ratore ecclesiatico, riconducendo completamente l’efficacia persuasiva del suo

operare alla gratuità del dono divino.

In modo affatto dissimile rispetto all’atteggiamento di coloro che auspica-

vano l’affidarsi senza riserve alla mediazione dello Spirito nell’interpretazione

delle Scritture53, Agostino riconosce nell’intervento diretto di Dio la condizio-

51Ivi p. 129 ss.52La preoccupazione di Agostino è, di fatto, quella di salvare i fenomeni ossia, più precisamente,

di tenere ferma l’autorevolezza della Chiesa nel suo ruolo esclusivo di mediatrice della volontà diDio presso i fedeli.

53Nel prologo del De docrina christiana Agostino mostra implicitamente il proprio dissenso ri-spetto a questa posizione collocandone i sostenitori tra gli autori di possibili critiche all’insegna-mento proposto: «Una terza schiera di critici è di quelli che effettivamente sanno interpretare benele Sacre Scritture ovvero presumono di saperlo fare: poiché vedono o credono di aver ricevuto lacapacità di spiegare i libri sacri senza aver mai letto osservazioni del tipo di quelle che io intendoora pubblicare, protesteranno che queste norme non sono necessarie a nessuno, perché tutto ciòche delle oscurità di quei testi si riesce a interpretare in modo plausibile, lo si può ottenere per

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2.4. IL NUOVO PROGETTO DEL DE DOCTRINA CHRISTIANA 75

ne necessaria ai fini della conversione54, il che comporta l’affermazione del-

la relativa indifferenza del suo contenuto. Il rapporto tra il quid consistente

nella sostanza dottrinale e il quo modo della sua forma espressiva si configu-

ra quindi in termini di attuazione del primo nella prassi efficace del secondo,

di compimento per opera dell’azione vivificante della grazia (persuasio) sulla

dottrina (cognitio). Se per un verso la dottrina è presupposta come momento

necessario, per l’altro la sua comunicazione ne costituisce l’inveramento, sen-

za di cui essa rimarrebbe un sapere impotente e inutile. Il fatto che la grazia

si serva di uno strumento elaborato dalla cultura umana come l’arte retorica e

affidi ad esso la trasmissione di una volontà che l’uomo non può cogliere au-

tonomamente, sovverte in maniera inedita e profonda l’equilibrio da sempre

vigente nella tradizione della paideia liberale, poiché impone la subordinazione

del docere al persuadere, del sapere epistemico a quello tecnico, ravvisando la

cifra della formazione culturale dell’uomo nel radicale annullamento della sua

autonomia.

Si tratta di un passaggio gravemente significativo, la prima compiuta af-

fermazione della supremazia della forma (elocutio) sul contenuto (inventio), del

momento dell’efficacia operativa su quello conoscitivo e, in ultima analisi, del-

la tecnica sul sapere oggettivo ma impotente in cui consisteva l’ars secondo il

modello agostiniano. La consapevolezza che rimane sullo sfondo è la medesi-

ma che, sin dall’inizio, aveva accompagnato la costituizione dell’arte retorica

e motivato l’atteggiamento di sufficienza frequentemente manifestato dai fi-

losofi nei confronti di una disciplina resa necessaria solamente dall’indolenza

dell’uomo comune. Se nel rapporto tra filosofia e retorica, tuttavia, il caratte-

re marcatamente elitario55 del possesso della conoscenza poteva giustificare la

dono di Dio (divino munere)».54Anche in un dialogo come il De ordine, che manifesta un ottimismo e una fiducia tipicamente

umanistici, si insinua il timore che l’uomo non possa, con le sue sole forze, mettere in pratica iprecetti che avrebbero il potere di renderlo meritevole di salvezza. Il fatto che Agostino si affatichia controbattere al sospetto classificandolo come pregiudizio, non toglie consistenza al dubbio diAlipio: «Infatti non so perché, cosa spero sia lontana da noi, l’animo umano mentre ode questogenere di cose, le proclama celesti, divine, assolutamente vere, ma nel desiderarle si comportain altra maniera, tanto che mi sembra del tutto certo che così possono vivere o uomini divini, ouomini non privi di un aiuto divino» (ord. II, x, 28).

55Nel De ordine, poco prima di proporre una definizione della ragione e un compendio dellaconoscenza che essa può ottenere applicandosi allo studio della razionalità dell’ordine impostoda Dio, Agostino ammette che l’accesso a questo genere di conoscenza, di per sé certa e onni-comprensiva, è interdetto alla maggior parte degli uomini: «Tuttavia che anche queste cose, chericonosciamo come irrazionali, non siano al di fuori dell’ordine divino, una profonda disciplina,la più pallida idea della quale è lontanissima dalla moltitudine, promette di manifestarlo agli stu-

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76 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

svalutazione dell’importanza della forma con cui essa veniva proposta, offren-

dosi altresì come possibile criterio per discriminare i discepoli valenti da quelli

incapaci, nel caso del rapporto tra retorica e Cristianesimo la discriminazione

tra eletti e dannati avveniva su una base completamente differente. Poiché la

dimensione propria della vita cristiana non era più quella della conoscenza fi-

ne a se stessa, conquistata dal singolo grazie alle sue doti naturali e alla sua

dedizione, ma quella dell’azione determinata in vista della salvezza concessa

da una volontà non vincolata nemmeno dall’ordine delle cose, l’autoevidenza

della verità non poteva più costituire una guida e ogni decreto doveva esse-

re rimesso all’arbitrio divino, di fronte al quale tutti gli uomini apparivano

ugualmente impotenti.

Nella sua analisi del quarto libro del De doctrina christiana Lettieri56 rico-

nosce il sussistere di un’analogia strutturale tra la dottrina agostiniana della

grazia e la teoria ciceroniana degli stili retorici e, guardando al di là dell’imme-

diata finalità tecnico-pratica del trattato, riconosce il vero intento di Agostino

in quella che definisce una «impressionanate teologizzazione (e non mera ec-

clesiasticizzazione) della retorica ciceroniana», culminante nella messa a punto

di una «teoria perfettamente cosciente, e ben più rivoluzionaria, della retorica

divina, cioè della parola umana come fenomeno del Verbo divino». L’obiettivo

di riconvertire un’espressione eminente della cultura pagana come il sistema

delle arti liberali in utile strumento per lo studio e la predicazione della Scrittu-

ra, obiettivo perseguito da Agostino nella prima parte del De doctrina christiana,

viene quindi superato nella dissoluzione della condizione di possibilità stessa

del rapporto ermeneutico - la stabilità del messaggio e il fronteggiarsi di due

poli comunicativi, in questo caso Dio e l’uomo - in seguito alla neutralizzazione

della ragione di fronte all’imprevedibile irrompere nell’anima di una passione

invincibile. All’essenza partecipativa del docere, dunque, si sostituiva quella

unidirezionale dell’infusione dello stato di grazia che annullava il contributo

dell’uomo e concentrava ogni aspetto di attività in Dio.

Benché l’operare onnipotente della grazia potesse servirsi di qualunque

strumento umano così come di nessuno, la tripartizione ciceroniana degli stili

diosi e agli animi amanti solo di Dio e delle anime, in modo tale da non poterci essere più certe lesomme dei numeri» (II, vii, 24).

56Cfr. Ivi p. 465 e ss.

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2.4. IL NUOVO PROGETTO DEL DE DOCTRINA CHRISTIANA 77

retorici sembra assumere per Agostino la valenza di una vera e propria cate-

gorizzazione esplicativa dei diversi modi di rivelzione di Dio. I primi due,

riconoscibili nella durezza del messaggio veterotestamentario e nella dolcezza

suadente della predicazione di Gesù, rientrano nella modalità della comuni-

cazione esteriore, che presuppone ancora la libertà di assenso dell’interlocu-

tore, esemplificando, rispettivamente, lo stile semplice, usato per rendere ac-

cessibile a tutti la volontà divina nella forma del precetto e lo stile temperato,

diretto ancora universalmente, ma nella forma della suasio, della rivelazione

bella che chiama alla salvezza senza però ancora operare la conversione. In

sostanziale discontinuità rispetto al docere dello stile semplice e al delectare di

quello temperato, il flectere dello stile elevato si realizza invece senza alcuna

mediazione, interiormente e ineffabilmente, mosso da un’azione irresistibile

che vince ogni resistenza senza tuttavia esercitare violenza alcuna, commuo-

vendo intimamente l’anima e infiammandola d’amore. Ciò che, sempre secon-

do la lettura proposta da Lettieri, Agostino compie a seguito della svolta può

dunque essere inteso come un’assolutizzazione dell’«ideale psicagogico cice-

roniano» implicante un radicale slittamento dell’ambito di considerazione, che

sembra dare adito a una quantomeno implicita rivalutazione dell’elemento a-

razionale: «Dimensione, questa della persuasio, che già Aristotele, Cicerone e i

principali trattati classici di retorica riportavano all’ambito psicologico del pa-

tetico, e non dell’etico, all’ambito estetico del tragico, e non del comico, all’ambito

dell’irruzione dell straordinario, del sublime, del trascendente, che si rivela come

grandiosa, violenta rottura dell’ordinario, del quotidiano, dell’immanente57».

57Cfr. Ivi p. 473 ss.

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78 CAPITOLO 2. LINGUAGGIO E ARTI LIBERALI

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Capitolo 3

Ragione e anima a-razionale

3.1 Teoria della sensazione e giudizio estetico

Agostino affrontò con cura particolare lo studio del meccanismo fisiologico

della conoscenza sensibile in quanto esso rivestiva un ruolo fondamentale nel

contesto della complessa relazione tra l’anima e il corpo. Ripercorrere i punti

salienti della riflessione agostiniana in proposito, pertanto, consente di illu-

minare lo specifico della sottesa concezione dell’uomo quale unione divisa di

sostanze e di ricostruire, in funzione di questa, la valutazione delle attività

esercitate dal corpo e dall’anima.

La definizione di questo rapporto, così come emerge dell’analisi dei testi

agostiniani1, non è lineare. Se è vero, infatti, che il corpo si configura come

strumento dell’anima, è vero anche che a quest’ultima è attribuito il compito di

prendersene cura, di modo che l’uso che l’anima si trova a fare di esso dimostra

di non avere altro scopo che la conservazione e il mantenimento del benessere

del corpo stesso. In questa prospettiva la valutazione del significato della cono-

scenza sensibile, unico punto di contatto tra le due sostanze, diviene necessaria

al fine di determinare la qualità della loro relazione ovvero, in particolare, se

1Per quanto riguarda la stagione giovanile del pensiero agostiniano i testi di rferimento sono ilDe quantitate animae e il sesto libro del De musica, i quali affrontano il problema in termini rispet-tivamente gnoseologici e psicologici. Tra quelli appartenenti alla tarda maturità, invece, l’undice-simo libro del De Trinitate sviluppa il tema in funzione della somiglianza riscontrabile tra l’uomoesteriore e la Trinità, alla luce della quale il corpo risulta investito di maggiore considerazione ri-spetto al periodo immdiatamente successivo alla conversione, pesantemente condizionato dallapreoccupazione di prendere distanza dal materialismo manicheo.

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80 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

essa si ponga in termini di accidentalità o se, nonostante l’incommensurabilità,

il contributo del corpo sia indispensabile per la vita spirituale dell’uomo.

L’elemento che Agostino maggiormente si preoccupa di ribadire analizzan-

do il fenomeno della sensazione è la negazione di qualunque elemento di pas-

sività nell’anima, negazione che viene formulata in modo netto con la dichiara-

zione che «massimamente assurdo è concepire l’anima come una materia che

un corpo possa quasi foggiare modificandola con le sue impressioni (perabsur-

dum fabricatori corpori materiam quoquo modo animam subdere)» (mus. VI, v, 8).

Ciò che egli mantiene fermo, dunque, è che la sensazione identifica prima di

tutto un’attività dell’anima.

Una volta chiarito che l’anima non può subire alcunché dal corpo, si pre-

senta il problema di stabilire in quali termini si dia la loro interazione ossia,

più precisamente, in che modo il fatto di identificare la sensazione come azio-

ne dell’anima sia conciliabile con il sopravvenire di una modificazione pro-

dotta da un evento fisico esterno. Questo aspetto del problema, che presenta

un taglio marcatamente psicologico, è affrontato nel sesto libro del De musi-

ca, dove Agostino si preoccupa di mostrare come la vivificazione del corpo da

parte dell’anima si configuri nei termini di un vero e proprio facere2 da parte di

quest’ultima. La definizione proposta da Agostino chiarisce come ciò avvenga

determinando l’attività dell’anima in termini di attentio, di coscienza3 di quan-

to avviene nel corpo: «Vedo ormai che si deve dare una definizione tale che la

sensazione sia un’affezione del corpo di cui l’anima è consapevole tramite l’af-

fezione stessa (passio corporis per seipsam non latens animam)4» (an. quant. xxv,

2Si veda, a questo proposito, il confronto operato da S. Vanni Rovighi in merito alle traduzionidisponibili del seguente passo del De musica: «Ego enim ab anima hoc corpus animari non puto, nisiintentione facientis» (mus. VI, v, 9), in cui risulta ambiguo l’uso del termine facientis. La versioneproposta da Rohmer (L’intentionalité des sensations chez St. Augustin, p. 494) coinvolge addiritturala nozione di intenzionalità: «J’estime que l’âme anime le corps par l’intentionalité de ses actes»anche se, come l’autrice osserva, il livello coinvolto è ancora quello dell’animazione del corpo enon già quello della conoscenza vera e propria. A parte questo, comunque, sembra plausibile in-tendere che facientis alluda all’anima piuttosto che a Dio, poiché il seguito del passo, che sembraporsi come specificazione del precedente, presenta nuovamente il medesimo termine, questa voltasenza dubbi di attribuzione: «Nec ab isto quidquam illam pati arbitror, sed facere de illo et in illo tanquamsubiecto divinitus dominationi suae». Cfr.[125, p. 20 ss.] In sostanziale accordo con quest’interpreta-zione risulta essere anche M. Bettetini, che traduce l’intero passaggio nella seguente maniera: «Aogni modo io non credo che questo corpo sia animato dall’anima se non per intenzione di coluiche sta agendo. E non penso che l’anima sia modificata dal corpo, ma che agisca in esso e su diesso in quanto soggetto al suo domnio per volere divino».

3Sempre S. Vanni Rovighi osserva che il concetto di sensazione come «non sfuggire all’animadi ciò che accade nel corpo» è di matrice plotiniana. Cfr. Ivi p. 21.

4Questa formulazione è quella che viene considerata definitiva nel De quantitate animae e chederiva dalla correzione di una prima versione in cui la sensazione era intesa come un non latere ani-

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3.1. TEORIA DELLA SENSAZIONE E GIUDIZIO ESTETICO 81

48).

L’espressione portante della formula, cui è affidato il compito di custodire

l’irriducibilità dello stimolo esterno evitando nel contempo di ammettere un

dominio del corpo sull’anima è «non latere», indicativo di una presenza imme-

diata all’anima da parte di qualcosa che è altro da essa. Su questo punto ha

insistito con particolare vigore S. Vanni Rovighi5, la quale ha sottolineato co-

me il carattere ultimativo del non latere, inteso come condizione di possibilità

stessa della conoscenza nel suo essere costitutivamente rapporto ad altro, deb-

ba essere riguardato come un tratto originale del pensiero agostiniano, indizio

di una caratterizzazione oggettiva della sensazione. Un altro aspetto che si

trova contenuto nella definizione agostiniana è quello dell’immediatezza del-

la conoscenza sensibile, per cui ciò che il corpo subisce dall’esterno è di per

sé sufficiente (per seipsam) a indurre la sensazione, senza che si renda neces-

saria alcuna mediazione intellettuale6 . Contestualmente, è necessario tenere

presente che ciò che l’anima percepisce, nella misura in cui non le rimane na-

scosto (non latens animam), resta nettamente distinto dalla causa esterna (passio

corporis), il che identifica la sensazione come fenomeno di esclusiva pertinenza

dell’anima, nonostante accada per mezzo dei sensi.

Come è stato inizialmente affermato, la sensazione è necessaria all’anima

per prendersi cura del corpo preservandone l’integrità dagli eventi esterni. Ciò

le attribuisce un carattere marcatamente strumentale, che sembrerebbe limitar-

ne il ruolo all’esercizio di tale custodia. Inoltre, sebbene l’anima mantenga una

forma di trascendenza, il fatto che tale obbligo sia disposto per volontà divina

sembra declinare la sua condizione in termini di asservimento. Se sul piano

del meccanismo, infatti, l’anima mantiene un ruolo esclusivamente attivo nella

sensazione, su quello della finalità essa sembra occupare una posizione subor-

dinata, in quanto costretta a svolgere una funzione di fatto eterodiretta. Secon-

do Agostino, l’anima veglia costantemente sul corpo, ma presta attenzione a

tale attività solo qualora uno stimolo esterno modifichi l’equilibrio fisico de-

terminando, in funzione dell’intensità della concentrazione indotta, sensazioni

mam quod patitur corpus. La specificazione qui contenuta serve ad escludere tutte le modificazionidel corpo la cui presa di coscienza non sia immediata ma ottenuta per inferenza, come nel casodella consapevolezza di crescere e di invecchiare.

5Ivi p. 24 ss.6Cfr. [61, p. 77.]

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82 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

dolorose o piacevoli7.

La presenza vivificante dell’anima nel corpo fa di quest’ultimo un’anima

incarnata, escludendo la caraterizzazione di tale unione come giustapposizio-

ne di due sostanze estranee. Ne consegue che la sensazione, in quanto azione

esercitata dall’anima su se stessa, non si pone in discontinuità rispetto all’am-

bito della conoscenza intellettuale, ma si configura, anzi, come prima modalità

di apprensione della verità. Come senza pensiero non può esservi sensazione,

così senza la percezione degli enti creati esistenti al di fuori di essa l’anima non

può avere alcuna conoscenza che non sia quella derivante da un’intuizione pu-

ramente intellettuale. Ciò che resta fermo è che la sensazione non può produrre

scienza poiché il giudizio sulla verità delle cose le rimane interdetto: se è vero,

infatti, che le modificazioni che interessano i sensi non sono mai false, come si

è visto, è vero anche che una corretta valutazione delle rappresentazioni sensi-

bili è necessaria al fine di colmare lo scarto che spesso intercorre tra percezione

e realtà, come nel celebre esempio del remo spezzato. Bisogna dunque distin-

guere tra la modificazione istantaneamente prodotta da un oggetto sui sensi,

dotata in ogni caso di un valore conoscitivo, benché potenzialmente inganne-

vole, e l’uso che di essa è possibile fare e che deve escludere la sua elezione a

criterio di verità8.

Se la conoscenza della verità in sé, accessibile, secondo Agostino, solo tra-

mite intuizione intellettuale non dipende dalla sensazione, quest’ultima rima-

ne comunque imprescindibile per la conoscenza della realtà esterna al soggetto.

Debitamente sottoposta al vaglio della ragione, la sensazione può dare origine

a conoscenze vere e, prima ancora, fornire al soggetto rappresentazioni che in

nessun altro modo potrebbero essere ricavate, come ad esempio quella del co-

lore e del suono9. La relazione che si istituisce tra l’oggetto percepito e la sua

7In particolare, il dolore si configura come lo sforzo che l’anima compie per ricondurre ilcorpo nella sua condizione di equilibrio mentre il piacere segnala il suo avvenuto ristabilimen-to, sì che risulta possibile descrivere la sensazione come un incremento della concentrazione incorrispondenza di una modificazione straordinaria subita dal corpo.

8Come F. Sciacca ha osservato, Agostino non considerava la sensazione in termini assoluti comescienza dell’oggetto, ma piuttosto come «scienza di se stessa come modificazione del soggetto»,fortemente determinata dall’apparenza. Cfr. [128, p. 158.]

9«Così chiunque pensi delle cose corporee, sia che lui stesso si crei l’immagine di qualche og-getto, sia che oda o legga la narrazione di cose passate o l’annuncio di cose future, ricorre allasua memoria per trovarvi la misura e la regola di tutte le forme che il pensiero contempla. Infattinessuno può assolutamente pensare né un colore, né una forma corporea che non ha mai visto, néun suono che non ha mai udito, né un sapore che non ha mai gustato, né un odore che non ha maisentito, né un contatto corporeo che non ha mai provato» (trin. XI, viii, 14).

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3.1. TEORIA DELLA SENSAZIONE E GIUDIZIO ESTETICO 83

rappresentazione sensibile può essere definita in termini di somiglianza, nella

consapevolezza della quale consiste, in ultima analisi, la conoscenza delle cose

esteriori10. Per questo motivo, oltre a costituire la condizione di possibilità del-

la memoria, che a sua volta lo è della sensazione in quanto fenomeno non istan-

taneo, la sensazione risulta necessaria anche per l’immaginazione, alla quale

fornisce le rappresentazioni di base, non innate, sulle quali quest’ultima può

in seguito esercitare un’attività di combinazione e di trasformazione.

Lo schema dei rapporti di interdipendenza tra le facoltà dell’anima in qual-

che modo coinvolte dalla sensazione viene analizzato nel contesto del sesto li-

bro del De musica, dove Agostino descrive nel dettaglio la fenomenologia della

percezione-produzione sonora mediante classi di modalità di considerazione

del suono rispetto al soggetto percipiente, definite per mezzo della nozione di

numerus. Analizzando i diversi aspetti presenti nella declamazione del verso

Deus creator omnium11, Agostino individua ben cinque numeri mutevoli, di-

stinti da quelli che, successivamente, definirà numeri immutabili della ragione,

ovvero i numeri sonanti (sonantes), presenti (occursores), progressivi (progresso-

res), della memoria (recordabiles) e del giudizio sensibile (iudiciales). I numeri

sonanti si trovano nel suono fisico in sé considerato, che fluisce a prescidere

dalla presenza di un ascoltatore. Gli altri quattro invece, riguardano altrettante

modalità di presenza al soggetto ossia, rispettivamente, nell’organo di senso,

in cui si formano per reazione alla modificazione sensibile, nell’atto della re-

citazione, nella memoria e nel giudizio con cui egli, spontaneamente12, valuta

come gradevole o sgradevole la reazione suscitata da ciò che ha udito.

La gerarchia13 secondo cui Agostino dispone i cinque numeri rende ma-

nifesti i rapporti di dipendenza tra essi sussistenti: dopo i numeri iudiciales,

cui viene riconosciuto senza esitazione un primato in virtù del principio già

citato secondo cui solo il superiore può giudicare l’inferiore, si susseguono

i progressores, gli occursores, i recordabiles e i sonantes, in un modo che isola e

colloca all’ultimo posto i numeri che effettivamente risuonano e che, a diffe-

renza degli altri tre, riguardano solo il corpo (qui certe corporei sunt vel quoquo

10Cfr. S. Vanni Rovighi, op. cit. p. 169.11Si tratta dell’incipit di un inno di Sant’Ambrogio.12Agostino afferma che il giudizio di gradevolezza o sgradevolezza viene esercitato dal soggetto

«come per virtù di un diritto naturale (quasi quodam naturali iure)» (mus. VI, iv, 5).13Cfr. VI, vi, 16.

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84 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

modo in corpore) (VI, iv, 7). I dubbi iniziali del discepolo che, applicando cri-

teri in seguito invalidati dal maestro14, era tentato di ipotizzare la superiorità,

rispettivamente, dei numeri recordabiles, in quanto più a lungo permenenti, e

dei numeri sonantes, in quanto causa della modificazione dell’udito, svaniscono

presto di fronte al chiarimento portato dalla teoria della sensazione. Ciò che

consente di sciogliere ogni incertezza è proprio la tesi portante che è stata so-

pra posta in rilievo, la quale nega che l’anima possa subire qualcosa dal corpo

ovvero, equivalentemente, che in essa si producano numeri derivanti da quelli

corporei15.

Meritevole di particolare attenzione è il criterio con cui il maestro guida il

discepolo nella determinazione dell’ordine gerarchico relativo ai numeri pre-

senti nella sensazione, cioè gli occursores e i progressores. Stabilita infatti senza

troppo sforzo la superiorità di questa categoria di numeri rispetto a quelli della

memoria, che da questi sono prodotti, resta da valutare quale operazione del-

l’anima sia più perfetta, se quella con cui essa sente o quella con cui produce

«qualcosa di numerico nella successione temporale» (VI, vi, 16). La soluzio-

ne proposta dal maestro e accettata senza riserve dall’allievo è la seguente: i

numeri progressores sono «dell’anima che si muove in rapporto al corpo (ad

corpus)», mentre gli occursores sono «dell’anima che si muove in reazione alle

passioni del corpo (adversus passiones corporis)» e poiché i primi risultano es-

sere più autonomi (liberiores), in particolar modo quando l’anima li produce

in silenzio, devono per questo essere giudicati superiori. Ciò che distingue i

due generi è chiarito dall’uso della preposizione, ovvero ad nel primo caso e

adversus nel secondo. Sebbene si tratti in entrambi i casi di operazioni in cui

l’anima esercita un ruolo attivo, è pur vero che in uno essa è chiamata a reagire

e, in qualche modo, a contrastare ciò che accade nel corpo mentre nell’altro,

senza nemmeno doversi attenere a sequenze affidate alla memoria, può com-

binare con spontaneità schemi che la mente possiede in maniera perfetta e che

il senso, per la componente razionale che gli appartiene, sa come giustapporre.

Oltre a questa osservazione di carattere elementare, che si limita a esplicita-

re la superiorità di un atto spontaneo rispetto a uno reattivo, sembra possibile

14I criteri in questione sono quello che antepone il più duraturo al meno duraturo e quello cheantepone coloro che fanno alle cose fatte (factis facientes).

15Cfr. VI, v, 8.

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3.1. TEORIA DELLA SENSAZIONE E GIUDIZIO ESTETICO 85

ipotizzare, nel caso dell’anima che in silenzio e senza ricordare produce una

sequenza inedita di suoni, un sottointeso carattere di gratuità, per certi versi

analogo a quello del gioco. Ciò che, oltre a uno stimolo esterno16, sembra man-

care in questa circostanza, infatti, è la subordinazione dell’attività produttiva al

fine dell’espressione di un contenuto ovvero l’assenza di una forma linguistica

determinata da finalità espressive, circostanza, questa, che sembra svincolare

l’attività dell’anima da esiti differenti rispetto a quella che si potrebbe definire

una sorta di esemplificazione gratuita delle regole della teoria musicale. Un

caso eclatante in questo senso, di cui si discuterà ampiamente in seguito, è

quello del canto dello jubilus, un vocalizzo privo di parole che, per Agostino,

costituiva l’autentica modalità espressiva della gioia ineffabile17.

Ciò che sembra possibile affermare dopo quanto è stato stabilito è che i nu-

meri mutevoli contribuiscono alla perfezione del corpo con la loro presenza

ma che, al contrario, la loro assenza indotta tramite l’allontanamento dai sensi

è richiesta per la perfezione dell’anima. Agostino ammette, dunque, che il loro

possesso possa essere allo stesso tempo conveniente e sconveniente per l’uomo

considerato come unità di anima e corpo e questa circostanza lascia emergere

la contraddizione che serpeggia lungo tutta la sua riflessione, assumendo un

ruolo decisivo nel contesto che il presente lavoro si propone di analizzare. Se la

musica pratica, infatti, si occupa della manipolazione del suono e si concentra,

pertanto, sugli elementi che ne descrivono la ricezione da parte del soggetto, la

musica teorica astrae dal suono fisico per risolversi nella contemplazione del-

la struttura matematica che la ragione coglie al di là del dato, riconoscendola

come causa ultima del piacere sensibile. Corrispondentemente, là dove la mu-

sica teorica esercita un effetto benefico sull’anima favorendo il distacco dalle

bellezze inferiori con la promessa della conoscenza del loro fondamento onto-

logico, la musica pratica interviene bloccando questo movimento di ascesa e

16Ai fini dell’efficacia, tuttavia, questo aspetto risulta però irrilevante poiché, in un altro passo,Agostino aveva esplicitamente affermato che la sola concentrazione indotta dalla volontà potevaessere sufficiente a provocare la comparsa di reazioni fisiologiche analoghe a quelle che si sareb-bero avute in presenza di una stimolazione effettiva: «E ricordo di aver sentito raccontare da untale che egli era solito farsi una rappresentazione così viva e, per così dire, talmente materiale diun corpo femminile, che la sensazione di essere ad esso unito come in modo carnale, giungeva alpunto di provocargli l’emissione di seme. Tanta è la forza che l’anima ha di agire sul corpo, e tantoil suo potere di modificare e cambiare il comportamento di questa veste corporale, che essa si puòparagonare a un uomo che, dopo aver indossato un abito, sia inseparabile da questa veste» (trin.XI, iv, 7).

17Cfr. in particolare il § 5.1.1.

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86 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

incatenando l’anima per mezzo del piacere sensibile indotto nel corpo.

Come Sciacca18 ha osservato, la posizione di Agostino contrasta nettamente

con quella di Platone nell’affermare che non c’è ingannevolezza nella sensazio-

ne ma che, anzi, essa è ciò che consente all’anima di vedere, plotinianamente,

«una bella immagine vivente dell’intelligibile19» e di cogliere, al di là di essa, il

dispiegarsi di un ordine accessibile solo all’occhio del pensiero. La dichiarazio-

ne più nota ed esplicita in merito alla presenza di una traccia di razionalità nei

sensi compare nel secondo libro del De ordine, precisata dalla sua limitazione

alla vista e all’udito:

Così quando vediamo un oggetto composto di parti proporzio-nate tra loro (congruentibus sibi partibus figuratum), opportunamen-te diciamo che appare razionalmente (rationabiliter apparere). Allostesso modo quando udiamo qualcosa che risuona in armonia (cumaliquid bene concinere audimus), non dubiatiamo nel dire che risuonarazionalmente (rationabiliter sonat) (II, xi, 32).

Gli altre tre sensi, gusto, olfatto e tatto, sono giudicati da Agostino come non

rapportabili alla ragione, a meno che una sensazione non sia stata scientemen-

te predisposta in vista di un determinato fine come, ad esempio, nel caso di

un medicinale amaro. La spiegazione sottointesa sembra essere che mentre

le sensazioni visive e uditive possono essere prodotte da un oggetto costruito

secondo un progetto razionale - e non semplicemente in vista di un impiego ra-

zionale - quelle degli altri tre sensi sono da considerarsi naturali20, intendendo

che in esse, come subito dopo Agostino precisa, non interviene nessuna causa

esterna (cum causa extrinsecus nulla sit), ma solo la soddisfazione di un piacere

momentaneo (praesenti satisfiat voluptati).

Il riferimento al piacere consente di specificare in altri termini la differenza

che intercorre tra i due raggruppamenti appena considerati:

Possediamo, per quanto si sia potuto ricercare, alcune tracce del-la ragione nei sensi e, per quanto riguarda la vista e l’udito, anchenello stesso piacere. Gli altri sensi, non per il piacere che è loro pro-prio, ma per qualcosa d’altro sono soliti ottenere questo nome: cioè

18Cfr. F. Sciacca, op. cit p. 173 ss.19Cfr. vera rel. XXXIII, 62.20«Nessuno, invece, entrato in un giardino e portando alle nari una rosa oserebbe lodarla così:

Come profuma razionalmente!, neanche se il medico avesse comandato di odorarla - infatti si diceche il comando è stato dato razionalmente e non che odora razionalmente - , perché quell’odore ènaturale (quia naturalis ille odor est)» (ord. II, xi, 32).

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3.2. IMMAGINAZIONE E POIESI 87

per qualcosa che è fatto dall’animale ragionevole in vista di un fine.Ciò che compete alla vista, a proposito del quale si dice che la pro-porzione delle parti è razionale, di solito si chiama bello (pulchrum).Ciò che compete all’udito, quando diciamo che un concento è razio-nale (quando rationabilem concentum dicimus) e che un canto ritmicoè composto razionalmente (cantumque numerosum rationabiliter essecompositum), ormai con nome appropriato è chiamato dolcezza (sua-vitas). Ma non siamo soliti definire razionale (rationabile) né l’esse-re allettati dal colore delle cose belle, né, nella dolcezza dell’udito(in aurium suavitate), il risuonare in modo quasi liquido e puro diuna corda toccata (cum pulsa corda quasi liquide sonat atque pure). Neconsegue che dobbiamo accettare che nel piacere di questi sensi ap-partenga alla ragione ciò in cui c’è proporzione e modulazione (ubiquaedam dimensio est atque modulatio) (II, xi, 33).

L’esistenza di un rapporto di consequenzialità tra disposizione proporzionata

delle parti e piacere si può riscontrare, secondo Agostino, in quasi tutte le arti e

le opere umane. Essa, tuttavia, non è l’unica componente da valutare nel giudi-

zio di un prodotto artistico: se l’aspetto esteriore di per sé considerato, infatti,

può essere identificato quale causa di piacere sia razionale - quello derivante

dalla proporzione dell’insieme - sia puramente sensibile - quello qualitativo

del singolo componente - la valutazione del suo legame con la manifestazione

di un significato risulta per Agostino del tutto decisiva. La caratterizzazione in

senso strumentale del significante emerge, in conclusione, ogniqualvolta l’at-

teggiamento nei confronti della forma non sia teoretico, ma tecnico: là dove

la disposizione dei suoni è analizzata come fenomeno (res) e ricondotta a uno

schema di costruzione razionale essa è senza indugio riconosciuta quale po-

tenziale fonte di piacere sensibile, ma non appena essa sia calata in una veste

sonora concreta, per il rischio che sia resa oggetto di fruizione non può essere

ammessa che nella condizione subordinata del verbum.

3.2 Immaginazione e poiesi

3.2.1 Sul concetto di immaginazione

Memoria e immaginazione sono due facoltà tra le quali Agostino ravvisa un

legame molto stretto poiché da un lato il ricordo è per lui una forma di im-

maginazione, dall’altro l’immaginazione stessa dipende essenzialmente dalla

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88 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

memoria, sia in quanto riproduttiva, sia in quanto produttiva. La spiegazio-

ne di tale dipendenza è evidente nel primo caso, in cui l’attività consiste per

l’appunto nel recupero delle immagini accumulate mentre nel caso dell’imma-

ginazione produttiva rinvia al fatto che l’attività combinatoria in cui essa con-

siste richiede la preeesistenza di rappresentazioni che, per Agostino, non sono

innate: «Donde ha dunque origine il fatto che noi ci rappresentiamo le cose

che non abbiamo mai viste? che cosa puoi pensare se non che vi è una facoltà

di diminuire e di aumentare insita nell’anima? è dunque possibile all’anima,

servendosi dell’immaginazione, formare da quello che il senso ha introdotto in

essa, togliendo, come si è detto, e aggiungendo qualche cosa, delle immagini

che in nessun senso riesce a cogliere nella loro totalità, ma che sono parti di ciò

che aveva colto in questo o quell’oggetto» (ep. VII, 6).

L’influsso dello stoicismo sulla teoria agostiniana dell’immaginazione è for-

te e riconoscibile già sul piano del lessico, anche se l’uso dei due termini phan-

tasia e phantasma differisce sensibilmente e non è applicato con rigore. Mentre

gli stoici intendevano con phantasia un’alterazione della mente sotto l’azione

dell’oggetto percepito e con phantasma un prodotto del pensiero ottenuto sen-

za il concorso di cause esterne, Agostino21 ha usato spesso il primo per desi-

gnare i moti dell’immaginazione riproduttiva, scaturenti come «reazioni alle

passioni del corpo» e il secondo per indicare il risultato del comporsi di questi

movimenti «a causa dei diversi e contrastanti venti della coscienza» (diversis et

repugnantibus intentionis flatibus) che esauriva, nella produzione di immagini di

immagini22, la portata dell’atto poietico. Dopo aver affermato che la phantasia

si trova nella memoria mentre il phantasma consiste in un moto dell’anima sor-

to dai moti conservati nella memoria stessa23, Agostino rimarca che richiamare

una phantasia e ricavare un phantasma costituiscono due azioni distinte della po-

tenza (vis) dell’anima. La differenza più vistosa riguarda il valore gnoseologico

dell’immagine che, nel caso del phantasma, non può produrre conoscenza e va

pertanto riferita non all’intelligentia, ma al pensiero rappresentativo (cogitatio).

Un aspetto saliente della concezione agostiniana è il riconoscimento di una

21Cfr. mus. VI, xi, 32.22Cfr. mus. VI, xi, 32.23«In un modo infatti penso a mio padre, che ho visto spesso, e in un altro a mio nonno, che non

ho visto. Il primo è una phantasia il secondo un phantasma (mus. VI, ix, 32). Cfr. anche trin. VIII, vi,9; XI, v, 8.

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3.2. IMMAGINAZIONE E POIESI 89

componente di creatività nell’operazione mentale in questione, cui si accom-

pagna un senso di inquieta diffidenza nei confronti dell’attività immaginativa

e dei suoi prodotti, definiti addirittura come «ombre infernali» (ep. VII, 3, 7).

Non era solamente il pericolo insito nel piacere con cui tali immagini poteva-

no rinvigorire i vincoli dell’anima al mondo sensibile a preoccupare Agostino,

ma forse, ancor di più, la forza insidiosa della tendenza dell’anima all’affer-

mazione della propria capacità produttiva, congiunta alla libera scelta del fine

cui essa poteva essere rivolta. Questa valutazione trova una sorta di confer-

ma, ad esempio, nel fatto che per Agostino l’abilità immaginativa identificava

una peritia al pari delle arti applicate, il cui esercizio era perseguito in vista del

raggiungimento di obiettivi determinati, come l’efficacia persuasiva24.

La concezione della facoltà immaginativa in termini di attività distingueva

Agostino non solo dalla teoria stoica, ma anche da quella plotiniana, che Nebri-

dio sembra invece abbracciare nella Lettera VI. In quel contesto, infatti, anch’e-

gli collega strettamente memoria e phantasia affermando che nessun ricordo è

possibile senza l’immaginazione, ma nel descrivere quest’ultima come una sor-

ta di ricettacolo, il cosiddetto animus phantasticus, giunge a ipotizzare che esso,

come una sorta di mondo indipendente, contenga da sempre tutte le immagi-

ni senza alcun bisogno di ricevere dati dai sensi. Tale ipotesi, che mostra una

certa affinità con la concezione plotiniana dell’immaginazione quale luogo in-

termedio di rappresentazione dei contenuti di pensiero e percezione25, viene

senza esitazione respinta da Agostino, che afferma invece che i sensi operano

attraverso un’impressione dall’esterno determinando l’immaginazione come

24Il ricorso alla fantasia era in effetti frequente in ambito oratorio e ciò a motivo della poten-za evocativa con cui otteneva di coinvolgere l’ascoltatore, quasi ponendo le cose davanti ai suoiocchi. Cfr. Quintiliano, Insitutione oratoria VI, ii, 32. In modo ancor più accentuato, gli stoici ritene-vano che alcune immagini potessero agire sull’animo senza che l’ascoltatore avesse la possibilitàdi opporvisi. Questa tesi era nota ad Agostino tramite una testimonianza di Aulo Gellio, comesi apprende dalla lettura di un passo del De Civitate: «Aulo Gellio afferma di aver letto in quellibro che gli stoici ammettono alcune percezioni dell’anima, che chiamano phantasiae, senza potersapere se e quando colgono l’anima. Quando esse provengono da eventi terribili e spaventosi, ine-vitabilmente turbano anche l’anima del sapiente; per un poco egli si spaventa e si rattrista, come sequeste passioni superassero la mente e la ragione, senza tuttavia che per questo la mente concepi-sca il male o lo approvi o dia ad esso il suo assenso. Questi sono i limiti, secondo loro, della nostravolontà, e questa è l’anima del sapiente e quella dello stolto; l’anima dello stolto, infatti, cede allepassioni e accorda loro l’assenso della mente; quella del sapiente, invece, benché necessariamentele debba approvare, tuttavia tiene fermo il proprio pensiero, vero e incrollabile, su ciò che secondoragione egli deve cercare o fuggire» (IX, 4).

25«Era dunque necessario dare al corpo una parte dell’anima, e darla a quella parte del corpopiù atta a riceverne l’attività; ma l’altra parte dell’anima, che non ha alcun rapporto con il corpo, sidovette pure metterla in comunicazione con quella parte che ne era solo una specie, e precisamenteua specie dell’anima capace di percepire ciò che viene dalla ragione» (Enneadi IV, iii, 23).

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90 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

una vera e propria ferita (plaga inflicta per sensus).

Nella Lettera VII Agostino distingue tre generi di immagini: il primo è quel-

lo delle immagini impresse dalle cose percepite attraverso i sensi (sensis rebus

impressum), il secondo è più ampio e comprende le immagini generate tramite

congetture (putatis), mentre il terzo riguarda le immagini costruite seguendo

la ragione (ratis). Il criterio discriminante di questa classificazione può essere

ricondotto alla diversa modalità di conoscenza degli oggetti immaginati ovve-

ro, rispettivamente, la percezione dell’ente reale, l’opinione tramite l’ente di

pensiero e la deduzione logico-razionale dell’ente intelligibile. Il primo genere

di immagine è, con tutta evidenza, quello coinvolto nella conoscenza degli en-

ti sensibili mentre gli altri due condividono la facoltà di sopperire all’assenza

materiale dell’oggetto conferendo forme alternative di presenza in virtù della

potenza evocatrice della parola o della determinazione puramente razionale

del concetto.

Secondo Agostino, le immagini che operano una ricostruzione dell’aspetto

esteriore di ciò che con la parola viene evocato possono costituire un ausilio

temporaneo per l’anima, a condizione però di essere mantenute ben distin-

te dalla verità. Tale utilità va considerata in relazione al principale contesto

d’impiego di questo tipo di immagini, che appare limitato a quello della co-

municazione di contenuti appartenenti all’orizzonte del probabile nel discorso

ordinario e nella narrazione storica o favolosa. La condizione imprescindibile

per un uso corretto, secondo Agostino, è il mantenimento di un costante rife-

rimento alla realtà, che vieti di assecondare pretese di autonomia avanzate in

forza della coerenza interna della rappresentazione. A seguito della sua espe-

rienza in ambito oratorio, infatti, egli aveva senz’altro presente una tecnica26

che consisteva nel far ricorso all’invenzione di casi esemplari in grado di esibire

un’analogia riconoscibile a quello trattato nell’orazione, la cui mira, spesso era

quella di sostituirli alle circostanze reali producendo non di rado impressioni

ingannevoli sull’uditorio27.

La terza categoria di immagini, quelle generate razionalmente, comprende

26Cfr. Quintiliano, Institutione oratoria V, 10, 95.27La diffidenza di Agostino in merito a tale pratica e l’insistenza con cui affermava la necessità

di mantenere l’aderenza alle circostanze oggettive opponevano su questo punto la sua visione aquella di Aristotele che, nella Poetica, aveva stabilito la priorità del principio di coerenza interna suquello di realtà.

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3.2. IMMAGINAZIONE E POIESI 91

infine le costruzioni operate a partire dai concetti matematici (numeris maxi-

me atque dimensionibus agitur) come le figure geometriche, l’infinita varietà dei

numeri e i ritmi musicali. Al fine di precisarne l’essenza, è utile riferirsi alla

distinzione tra figura fantastica e figura intelligibile che, nei Soliloquia, viene

determinata in funzione del tipo di dimenticanza che le riguarda: mentre la

prima, infatti, è tale per cui il soggetto nulla può trarre da sé che possa in qual-

che modo orientarlo al recupero del ricordo, la seconda necessita solo di uno

spunto per riemergere spontaneamente, come se tutto si diffondesse «improvv-

visamente per la memoria come una luce» (II, xx, 34). Così, ad esempio, se di

fronte all’affermazione che pochi giorni dopo la nascita si è sorriso nessuno

può giustificatamente esprimere un giudizio di verità o falsità e l’unico atteg-

giamento possibile è quello della credenza, nel caso dell’apprendimento delle

discipline liberali il sapere viene tratto dall’oblio in forza di un vero e proprio

processo di rimemorazione.

Agostino non si trattiene dall’esprimere a più riprese la preoccupazione che

l’anima si fermi a fissare il volto della verità restituito dallo specchio del pen-

siero, frantumato nella molteplicità di «falsi colori e false forme», senza più

mirare28 al coglimento privo di mediazioni dell’essere uno e immutabile. No-

nostante tale diffidenza, tuttavia, egli non può evitare di ammettere che la for-

za29 dell’attività immaginativa, per quanto potenzialmente fuorviante, risulta

non di rado decisiva sul piano pratico, come nel caso delle discipline liberali.

Senza di essa, infatti, la verità che riposa stabilmente presso se stessa, ma che

si rifrange, nondimeno, nella molteplice bellezza dell’universo, non potrebbe

essere colta e compresa in tutte le sue possibili forme, né dare origine al sapere

in esse custodito. Al di là del possibile effetto di arresto del processo cono-

28La distanza tra le due vie d’accesso era spiegata mediante l’esempio dello studio della geome-tria: «Allora, infatti il pensiero si raffigura (sibi cogitatio dipingit) un quadrato di questa o quelladimensione e lo mette quasi davanti agli occhi (quasi ante oculos praefert); ma la mente interiore(mens interior), che vuole vedere il vero, si rivolga piuttosto a quel criterio, in base al quale essagiudica che tutte quelle figure sono dei quadrati» (II, xx, 35).

29Notiamo, di passaggio, l’allusione al potere di ’porre davanti agli occhi’ cui già era stato fat-to cenno in precedenza, a proposito del suo efficace impiego in ambito oratorio. Agostino tienea rimarcare il carattere quasi ipnotico di questo fenomeno, oltre al fatto che il carattere illusorioproprio dell’inganno ottiene di saziare l’anima prima che essa abbia raggiunto la verità. Si deveaggiungere, tuttavia, che nella rielaborazione agostiniana di questo elemento la prevalenza quasiassoluta dell’aspetto visivo subisce una sensibile attenuazione: se ancora presso l’oratoria latina,infatti, l’effetto dell’immagine doveva essere quello di ricreare l’evento al cospetto dell’ascoltatorecome portandolo all’interno di una visione, Agostino sembra propendere per una parificazione de-gli stimoli percettivi che, in modo inedito rispetto alla tradizione, ammette l’esistenza di immaginiuditive o olfattive, oltre che visive.

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92 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

scitivo imputabile al loro fascino suadente e difficilmente contrastabile, dun-

que, Agostino riconosce alle immagini una forma di utilità, identificabile con

la capacità di formulare un’interpretazione della realtà valevole come sostegno

temporaneo per la ragione30.

Riprendendo i punti principali della concezione agostiniana dell’immagi-

nazione, ciò che sino ad ora è stato affermato è che essa è condizionata dal

sensibile, sebbene ciò non la caratterizzi come passiva, che non è un luogo né

un ricettacolo ma una vis dell’anima che opera trasformando per aumento o per

diminuzione le forme attinte dall’esterno. Proprio quest’ultimo aspetto è ciò che

ancora rimane da approfondire, come, cioè, manipolando i ricordi contenuti

nella memoria, l’immaginazione possa operare combinazioni di cui i sensi non

hanno mai avuto esperienza.

Il tipo di novità che l’immaginazione ha il potere di introdurre non ha na-

tura qualitativa, come in più punti è stato accennato, poiché l’attività che lo

produce si limita alla combinazione arbitraria di elementi comunque preesi-

stenti: l’ente immaginario che ne risulta non è mai stato oggetto di percezione,

ma non per questo può essere considerato alla stregua di una creazione. Esso,

infatti, non solo dipende dal vissuto percettivo del soggetto quanto al materiale

ma, anche dal punto di vista formale, è vincolato al criterio di coerenza impo-

sto dall’ordine razionale vigente a ogni livello ontologico. Come già era emerso

nel corso dell’analisi della teoria della sensazione, infatti, il numerus determina

la forma di qualunque movimento dell’anima e, per tale carattere onnicom-

prensivo, non implica nemmeno la consapevolezza del soggetto (cum in anima

numeri actitantur occulti). Questo aspetto della concezione agostiniana ottiene

non solo di circoscrivere, almeno teoreticamente, l’elemento irrazionale, ma

anche, e soprattutto, di ricondurre la spiegazione ultima del fascino esercitato

dalle immagini alla loro struttura logica, unica garanzia di verosimiglianza e,

con ciò, di sensatezza.

La tendenza allo svuotamento ontologico in direzione del molteplice, di cui

30L’imperfezione che caratterizza la condizione propria dell’anima umana incarnata e vincolatada un più forte legame di parentela con il mondo sensibile, infatti, impone che la conoscenza debbapassare attraverso acquisizioni parziali, mancanti, se singolarmente considerate, di un effettivopossesso della verità. Questa condizione, che stabilisce il limite intrinseco alla conoscenza umana,non risparmia nemmeno il ragionamento condotto con il metodo rigoroso del calcolo ove il ricorso,a volte indispensabile, a strumenti ausiliari come il pallottoliere testimonia l’ineliminabilità dellacomponente immaginativa (hoc malo). Cfr. ep. VII, ii, 4.

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3.2. IMMAGINAZIONE E POIESI 93

le immagini rappresentano il massimo grado di dispersione ed estenuazione,

risulta parzialmente occultata dall’apparente solidità di queste ultime. Benché

il monito di Agostino sia esplicito nell’esortare l’anima alla contemplazione di

una bellezza sottratta alla determinazione spazio-temporale31, egli non nega,

per questo, che il mutevole possa partecipare del bello: la sua molteplicità è

riconosciuta come causa della fuoriuscita dell’anima dall’interiorità nell’estro-

versione innescata dal desiderio di un’instabile varietà (mutabili varietate), ma,

ciononostante, la bellezza sensibile occupa un posto nell’ordine temporalizza-

to: «Essa è in grado minimo perché non può possedere tutte le cose insieme,

ma, mentre alcune vengono meno ed altre subentrano al loro posto, tutte con-

tribuiscono a comporre in un’unica bellezza l’armonia delle forme temporali

(dum alia cedunt atque succedunt, temporalium formarum numerum in unam pul-

chritudinem complent)». L’esempio di cui Agostino si serve per mostrare che il

trascorrere in sé non è male è, significativamente, quello della bellezza musi-

cale, la quale richiede sì come condizione il susseguirsi delle sillabe, ma, pari-

menti, anche la loro unificazione ad opera della memoria, grazie alla quale si

rendono riconoscibili le tracce della bellezza che l’arte custodisce in se stessa in

modo stabile32.

La valutazione del significato dell’immagine all’interno del contesto comu-

nicativo consente di coglierne la natura eminentemente linguistica. Indipen-

dentemente dalla sua capacità di esercitare un forte impatto sui sensi, l’imma-

gine è, per Agostino, costitutivamente segno che rinvia ad altro e che, pertanto,

sottointende un uso. In nessun caso presenza immediata che possa proporsi al

soggetto secondo la modalità del frui, l’immagine consente all’anima di richia-

mare un vissuto e di comporre configurazioni inedite, ma il carattere soggetti-

vo di queste operazioni esclude che ad esse sia attribuibile un qualche grado

di autonomia. Tale mancanza di oggettività, del resto, se per un verso rende

possibile un’attività indipendenemente dal reale, per l’altro ne circoscrive la

validità all’orizzonte privato del singolo, rendendola non partecipabile se non

attraverso il canale emotivo. Così esercitato, il fascino superficiale ma poten-31«(...) bisogna risanare l’animo perché possa fissare lo sguardo sull’immutabile forma delle co-

se (incommutabilem rerum formam) e sulla bellezza che si conserva sempre uguale e in ogni aspettosimile a se stessa, non divisa dallo spazio (nec distentam locis) né trasformata dal tempo (nec tem-pore variantem), unitaria e identica in ogni sua parte: una bellezza della cui esistenza gli uominidiffidano, mentre esiste davvero e al massimo grado» (vera rel. 3, 3).

32Cfr. vera rel. 22, 42.

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94 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

te dell’immagine può addirittura ottenere di distrarre l’anima dal coglimento

dell’essenza autentica della bellezza sensibile che il sapere liberale custodisce

e ciò che si realizza in tale perversione è una vera e propia forma di idolatria.

Questo termine, derivante dal greco eidolatria che era usato dai greci cristiani

per indicare gli altri tipi di culto, significativamente mantiene, nella propria

etimologia, la traccia del legame con il concetto di immagine (eidolon): «Co-

me alcuni, dal gusto pervertito, amano più il verso che l’arte stessa con cui è

costituito, poiché si sono affidati più alle orecchie che all’intelligenza, così mol-

ti preferiscono le cose temporali e non cercano la divina Provvidenza, che ha

creato e governa i tempi» (vera rel. 22, 43).

3.2.2 L’attività poietica come falsificazione

Tutto ciò che scaturisce come prodotto dell’attività immaginativa, come si è vi-

sto, esibisce agli occhi di Agostino un valore puramente strumentale che si ma-

nifesta o nell’atto di richiamare alla mente le sembianze esteriori di un oggetto

in assenza del dato materiale oppure nella concretizzazione del contenuto di

un concetto in un esempio. La condizione che ne giustifica l’impiego, in ogni

caso, è il riconoscimento del suo ruolo comunicativo, il quale si esercita princi-

palmente attraverso lo strumento dell’analogia33. Esso va tenuto ben distinto

dal concetto di verosimiglianza, il quale appare invece privo di significato sul

piano ermeneutico: nel limitarsi all’ambito del probabile e dell’opinione, in-

fatti, esso non può offrire alcun accesso alla realtà intelligibile, ma si arresta al

sembiante esteriore compiacendosi di attuare l’immersione in una finzione mi-

rante più alla sostituzione che alla comprensione del reale. Nel dare origine a

una somiglianza statica e fine a se stessa, dunque, il verosimile manifesta tutta

la sua distanza dall’analogia che, invece, vive essenzialmente del movimento

che dal segno porta al significato34.

Il legame tra immagine e verità è analizzato da Agostino nei Soliloquia nel

contesto di una teoria della conoscenza che tende a valutare tutto ciò che sgor-

33L’essere ’a immagine e somiglianza di Dio’, del resto, identifica l’unica modalità ontologicapossibile, per quanto si declini secondo gradi differenti. Essa costituisce, pertanto, la traccia cheguida l’intelletto nella conoscenza di sé e del mondo in quanto parti di un unico progetto.

34Si tratta, in ultima analisi, del medesimo movimento dall’esteriore all’interiore e dall’interio-re al superiore in cui Agostino aveva concentrato il senso del percorso attraverso le arti libera-li, nel quale doveva rimanere interdetta la sosta compiaciuta al cospetto della figura non ancoradispiegata secondo la sua essenza numerica e razionale.

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3.2. IMMAGINAZIONE E POIESI 95

ga dalla vis creativa dell’uomo in funzione del possibile condizionamento del

rapporto che il soggetto intrattiene con la realtà. I modi in cui quest’ultimo può

porsi nei riguardi del falso sono essenzialmente due, come si è visto, definiti

dal darsi o meno della consapevolezza dello scarto sussistente tra una data opi-

nione sull’oggetto e la sua vera essenza. Il falso, in generale, sottointende un

legame con il vero che si pone in termini di somiglianza accompagnata dalla

rivendicazione di un’autonomia, come nel caso di una copia rispetto al suo mo-

dello. Tale somiglianza può risultare della volontà di creare una finzione con

o senza l’intenzione di trarre in inganno oppure può caratterizzare l’imperfet-

to modo di esistenza di qualcosa che tenta di approssimarsi all’essere senza

riuscirvi, come nel caso delle immagini oniriche o di rappresentazioni figurati-

ve tendenti al vero. Il modo di esistenza di questi oggetti, interamente risolto

nello schema del rapporto imitativo, risulta contraddistinto da un tratto di ir-

realtà e di inconsistenza35: «Nelle cose che, appunto, percepiamo con i sensi, è

denominato ’falso’ ciò che cerca di essere una certa cosa e non lo è» (sol. II ix,

17). Nella prima categoria, invece, rientra tutto ciò che intende deliberatamen-

te porsi come falso, che prescrive, cioé, la consapevolezza dello scarto tra realtà

e apparenza di cui vive la finzione. Tale scarto può essere riconosciuto o meno

da chi vi si accosta e ciò può dipendere in misura non trascurabile dall’intento

dell’artefice, che può essere quello di procurare diletto senza volontà di trarre

in inganno, come nel caso della finzione letteraria, oppure quello di estorcere

l’assenso a qualunque costo. In ogni caso rimane fermo, per Agostino, che l’u-

nico caso in cui il soggetto si trova nel vero al cospetto della finzione è quello

in cui la riconosce come tale, comprendendone la ragion d’essere.

Un tema che appare necessario affrontare, a questo punto, è quello della di-

versità tra enti naturali e artificiali, limitando la considerazione di questi ultimi

ai prodotti dell’arte. Sempre nei Soliloquia, Agostino afferma che tutti i tipi di

finzione letteraria, analogamente ai vari tipi di raffigurazione, sono falsi non

perché non vogliano essere veri, ma perché non possono:

Perché, naturalmente, una cosa è voler essere falso, un’altra non35Nella considerazione dei prodotti delle arti figurative Agostino dimostra una certa dipendenza

dalla concezione platonica dell’arte, con particolare riferimento alla loro svalutazione in quantoinutili copie di copie. Tale giudizio, tuttavia, non si mantiene in modo costante e, non di rado, glioggetti appartenenti a questa categoria ricompaiono accanto alle finzioni letterarie come esempi diprodotti artistici.

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96 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

poter essere vero. Pertanto, possiamo collegare alle opere dei pittorie degli scultori anche opere umane quali le commedie, le tragedie,i mimi e altre di tal genere. Un uomo dipinto, infatti, per quantotenda a riprodurre le sembianze di un uomo, non può essere vero,tanto quanto non possono essere vere le cose che si trovano scrittenei libri dei poeti comici. Queste cose, infatti, non vogliono esse-re false, né sono false per una loro intenzione, ma a causa di unacerta necessità, nella misura in cui hanno potuto seguire l’arbitriodell’autore (II, x, 18).

La causa dell’impossibilità che il passo denuncia deriva dal fatto che, a dif-

ferenza degli enti naturali inanimati, quelli che esistono per opera dell’uomo

sono informati da un principio arbitrariamente imposto che presuppone un

calcolo, un’intenzione, come, ad esempio, quella di turbare l’armonia in un

dato punto con l’inserimento di una dissonanza36. Il falso, in questo caso, so-

pravviene come conseguenza della sospensione di una tendenza naturale, cui

si sovrappone un disegno che manifesta la volontà di un artefice diverso da

Dio. Ciò che risulta dall’intervento dell’artista, dunque, è un ordine artificiale

accompagnato da una pretesa emancipazione dalla realtà congiunta all’affer-

mazione della propria autonomia. La valutazione del prodotto artistico dal

punto di vista della sua capacità di portare l’essere a manifestazione è piega-

ta in senso negativo da Agostino perché ciò che mantiene un peso decisivo ai

suoi occhi è il fatto che l’oggetto falso37 porta costantemente con sé il riferimen-

to ad altro, la cui conoscenza precedente è indispensabile al fine di riconoscere

il primo nel suo significato di rappresentazione: «Approva (probat) giustamen-

te l’immagine, infatti, chiunque ne contempli il modello. Il sapiente, infatti,

come potrebbe approvare o come potrebbe seguire ciò che è simile al vero, se

ignorasse che cosa sia il vero stesso?» (Acad. III, xviii, 40).

Fermarsi alla copia significa, in ultima analisi, fermarsi di fronte all’assenza

dell’oggetto, pregiudicando così la possibilità stessa del conoscere. Ciò che la

finzione può esercitare in misura superiore alla realtà è un effetto più o me-

36Nel caso di una finzione letteraria, invece, l’autore può inventare dei personaggi che non sonomai esistiti e intrecciare le vicende che li riguardano secondo la sua volontà, ma anche se la suaimmaginazione può superare i confini del verosimile inoltrandosi nel dominio del fantastico, lacoerenza logica dell’insieme non può essere intaccata, pena la perdita dell’intelligibilità e, con essa,la vanificazione dello stesso intento poetico.

37In questo caso il riferimento riguarda essenzialmente le arti figurative e, al limite, quelle let-terarie, poiché la musica, in quanto priva di contenuto, non può propriamente essere falsa. Il suomodo di deviare dalla natura, infatti, è piuttosto quello dell’inserimento dell’artificio e tale diffe-renza rispetto alle altre arti si chiarirà alla luce della particolare connotazione della sua capacitàmimetica. Cfr. § 3.3.2.

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3.2. IMMAGINAZIONE E POIESI 97

no potente di risonanza emotiva che, al cospetto dell’opera di un artista, non

di rado ottiene di minare la stessa autorità della ragione. Qualora la finzione

si limiti, come nelle arti figurative, a riprodurre le caratteristiche esteriori del-

l’oggetto restringendo così la sua somiglianza con la realtà a un livello molto

superficiale, la spiegazione razionale può contrastare il potere dell’illusione:

svelandone l’origine e ridefinendola in rapporto all’essere, infatti, essa ottiene

di annullare l’incanto guadagnando, al termine del processo di emendamento,

la risoluzione del fascino attrattivo della menzogna nel contenuto depotenziato

di un errore che comporta l’indebolimento dei suoi effetti seduttivi sui sensi.

Nel caso in cui l’efficacia mimetica si insinui a un livello più profondo, tut-

tavia, o riguardi, come nel caso della musica, non la realtà esterna ma quella

interiore dei sentimenti dell’anima, il potere della ragione risulta notevolmente

affievolito, per non dire annullato e questo perché, di fatto, un contenuto non

v’è.

L’operazione di svuotamento che Agostino compie nei confronti dell’og-

getto artistico e il ridimensionamento della portata del suo fascino ingannatore

possono risultare dunque plausibili nel caso delle arti figurative e della fin-

zione letteraria, ma non sembrano esserlo altrettanto in quello della musica.

Agostino stesso lo ammette implicitamente tutte le volte che racconta di aver

sperimentato personalmente il potere di una melodia. Non si spiegherebbe,

altrimenti, la sua preoccupazione che la soavità del canto potesse distogliere

l’anima dal significato delle parole dato che, di certo, non gli faceva difetto la

conoscenza della teoria musicale e, con essa, delle cause del piacere procurato

all’udito. Se ne deve concludere che se la musica realizza una forma di imita-

zione, questa risponde a un criterio differente rispetto a quello delle altre arti,

interessando aspetti assai più profondi della mera riproduzione dell’aspetto

esteriore cui si fa sovente riferimento attraverso l’abusato esempio del canto

degli uccelli.

L’assenza di un contenuto, caratteristica da sempre riconosciuta come iden-

tificativa della musica e valutata a volte in termini positivi, altre in termini ne-

gativi, può forse essere assunta come indizio di estraneità rispetto all’attività

rappresentativa. Con ciò non si intende certo affermare che la musica non am-

metta la possibilità di riferimenti imitativi, il che andrebbe contro ogni eviden-

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98 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

za, ma solo che tale possibilità non ne costituisce la cifra. Se le arti figurative e

tutti i generi letterari, infatti, presuppongono un’organizzazione del materiale

per figure, riconducibile al pensiero rappresentativo, la musica manifesta una

natura eminentemente astratta, interamente risolta nella dimensione sintattica

dove dell’immagine in quanto sintesi di forma e contenuto è presente sola-

mente la forma, lo schema che esibisce la razionalità della regola, il numerus.

Sebbene la precedenza ontologica che il reale mantiene in rapporto a ogni pro-

dotto dall’immaginazione comporti l’inconsistenza di quest’ultimo, valutato

come utile al più ai fini della comunicazione, il caso della musica sembra con-

figurarsi in modo sostanzialmente differente poiché, di fatto, non esiste alcun

referente oggettivo in relazione al quale una melodia possa cercare di istituire

un rapporto di somiglianza. L’inganno, se inganno vi è, non si consuma nel

tentativo di far passare per vero un contenuto che non lo è, ma, piuttosto, nel

sostituirsi al reale nel suo ruolo di causa esterna degli stati emotivi.

Sotto questo aspetto, la musica sembra porsi in rapporto alle altre arti come

la norma che esprime la verità si pone rispetto all’esempio che la realizza nel

particolare, in maniera necessariamente parziale e imperfetta. Non è certo una

circostanza casuale, del resto, il fatto che la musica sia stata l’unica fra le arti38 a

comparire fra le discipline del quadrivio le quali, come si è visto in precedenza,

si applicano allo studio di quei criteri oggettivi della conoscenza che la ragione

scopre in sé stessa nel suo autonomo percorso di autoconoscenza. Se, dunque,

si può parlare di imitazione nel caso della musica, è evidente che essa dovrà

essere caratterizzata in termini radicalmente differenti e ciò impone di valu-

tare anche se, e in quale misura, tale determinazione sottointenda la distanza

della musica dalle arti letterarie e figurative e, più in generale, dall’ordinario

concetto di arte, per manifestare invece una profonda affinità con l’arte della

parola.

3.3 Immaginazione e mimesi

Nei Topici, Aristotele afferma che l’immagine (eikon) è il risultato di un proce-

dimento mimetico ovvero, a monte, dell’intenzione di realizzare qualcosa che

38In questo caso è sottointesa l’accezione moderna del termine.

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 99

si pone in un rapporto di somiglianza rispetto ad altro: «L’immagine è infatti

ciò che sorge attraverso un’imitazione» (140 a). Il legame tra le nozioni di mi-

mesi e di immagine funge da perno nella concezione di poiesi centrata sulla

ricerca dei modi per indurre nell’anima effetti analoghi a quelli prodotti da un

oggetto reale. In tale prospettiva, che attua come una sorta di trasferimento

dall’elemento oggettivo a quello soggettivo e, in ultima analisi, all’intersogget-

tivo del rapporto linguistico, si rende manifesto il ruolo vicario dell’immagine

veicolata dal segno, che, in assenza dell’oggetto, può agire sul destinatario del

messaggio secondo la volontà del suo autore. Segnale particolarmente signifi-

cativo della capacità di duplicazione insita nella parola è la caratterizzazione

della retorica39 in termini di simulacro (éidolon) ovvero immagine e, in ultima

analisi, mimesi.

Se il fine delle discipline del quadrivio consisteva nel possesso di una co-

noscenza in grado di riflettere la struttura del reale secondo una particolare

angolatura, fosse questa l’organizzazione razionale dei suoni o il combinarsi

del movimento dei pianeti, il fine dell’arte della parola, ma, si potrebbe dire,

dell’arte in quanto tecnica, appariva essere piuttosto l’applicazione di cono-

scenze in grado di garantire un certo tipo di efficacia, comunque intesa. In

questa prospettiva il modello assumeva per certi versi lo statuto di un pretesto,

come se fosse l’oggetto di uno scambio che poteva, al limite, riferirisi al reale

solo in quanto fonte delle norme di comunicazione, senza dipendervi quanto

al contenuto. Tale oggetto diventava, nel caso della musica, potenzialmente

indifferente, lasciando solo la forma dell’espressione nella sua perfetta aderen-

za alla forma dell’emozione che quel contenuto avrebbe potuto indurre e che,

come un unico movimento, si trasmetteva dai suoni all’anima.

3.3.1 Nota sul concetto di mimesis

Affrontare un concetto complesso e stratificato come quello di mimesis impone

innanzitutto un chiarimento dal punto di vista terminologico. Il primo ap-

39A questo proposito, E. Berti ha paralato di puntuale rovesciamento operato dalla sofistica neiconfronti dei capisaldi dell’eleatismo, riassumibile nella negazione dell’esistenza, della conoscibili-tà e della comunicabilità dell’essere in conseguenza di cui l’essenza stessa del lógos si è trasformatada strumento di comunicazione riferito alla realtà a sostituto della realtà stessa. Il linguaggio delsofista, infatti, «la instaura, per così dire, esso stesso, la crea e, anziché comunicare pensieri, pro-duce direttamente degli effetti, cioè suscita delle passioni, dominando in tal modo completamentele persone». Cfr. [17, pp. 162-3.]

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100 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

punto riguarda l’abitudine consolidata di tradurre mimesis con ’imitazione’, un

termine che, nelle lingue moderne, ha assunto una connotazione particolar-

mente ristretta, che lo rende incapace di restituire la straordinaria ricchezza

della nozione antica.

Per quanto riguarda il periodo pre-platonico non è possibile ricostruire con

precisione lo sviluppo semantico del termine, ma può essere di qualche in-

teresse richiamare alcune delle idee che ne formavano la costellazione e che

coinvolgevano, ad esempio, la rassomiglianza visiva, la produzione di suoni

espressivi, l’emulazione e, all’apice, l’isomorfismo tra il mondo reale e quello

ideale, definito nei termini di un rapporto tra copia e modello. L’elemento co-

mune a tutte era il rinvio a una nozione di corrispondenza tra opere o attività

mimetiche da un lato e i loro equivalenti reali dall’altro, pensati non tanto co-

me oggetti empirici, quanto piuttosto come esperienze possibili. Proprio que-

sto rilievo motiva l’inadeguatezza del ricorso al termine ’imitazione’, il quale

suggerisce incongruamente l’immagine della riproduzione di oggetti quando,

invece, il potere della mimesi era esercitato nel contesto di pratiche culturali

radicate in determinati aspetti della natura umana, di qualità essenzialmen-

te comunicativa, in cui gran parte dell’interesse convergeva sulla componente

della ricezione.

Dal punto di vista etimologico, non molto sembra possibile ricavare dall’a-

nalisi della radice greca -mim: S. Halliwell40 riferisce che il più antico membro

della relativa famiglia di termini è mimos, con il quale, a partire dal IV sec. a. C.,

venivano designati sia il corrispondente sotto-genere drammatico, sia l’attore

a cui ne era affidata l’esecuzione. Prima di tali occorrenze il termine compare

una sola volta in un frammento di una tragedia di Eschilo, dove si rende pale-

se la sua attinenza alla sfera musicale allorché, nella descrizione di un contesto

orgiastico, viene usato in riferimento al suono fragoroso dei bastoni sibilan-

ti. Halliwell avanza l’ipotesi che l’impiego del termine sia metaforico, che esso

sottointenda, cioè, una personificazione del suono come se Eschilo avesse volu-

to alludere a un personaggio invisibile dalla voce terrificante. Se questa lettura

è corretta, sembra lecito supporre che almeno una parte della forza espressiva

della parola mimoi derivi da un qualche nesso con la prassi esecutiva musicale.

40Cfr. [67, p. 17.]

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 101

Questo nesso sembrerebbe confermato dal ricorrere di un termine appartenen-

te alla medesima famiglia (mimeisthai) sia nell’inno omerico ad Apollo41, ove

descrive l’abilità di un gruppo di fanciulle intente in un’attività di complessa

rappresentazione musicale e coreografica, accuratamente distinta dalla mera

simulazione, sia in due passaggi di Pindaro, in relazione alla rappresentazio-

ne coreografica di animali e alla resa musicale, con gli auloi, delle grida di

Gorgone morente42.

La conclusione che Halliwell ritiene possibile trarre è che, già al tempo di

Eschilo, le parole con radice -mim avevano iniziato ad essere associate con le

arti musicopoetiche incluse nel campo semantico definito dal termine mou-

sike. Nel frattempo, all’incirca a partire dalla metà del V sec. a. C., la nozione

di mimesi era penetrata anche nell’ambito delle arti figurative, individuando

però un tipo di somiglianza solo superficiale poiché la corrispondente abilità

tecnica era sì in grado di riprodurre il sembiante, riuscendo persino a trarre

l’occhio in inganno, ma senza raggiungere la medesima vividezza delle arti

musicopoetiche e la loro capacità di agire sull’emotività dello spettatore.

Alla luce di queste considerazioni, ciò che si può concludere è che, nono-

stante l’innegabile scarsità di testimonianze in relazione all’epoca appena con-

siderata, l’uso del termine mimesi risultava pertinente sia alla sfera delle arti

musicopoetiche sia a quella delle arti visive, le quali, complessivamente, po-

tevano dunque essere definite mimetiche. Nel secolo successivo, poi, questa

categoria si stabilizzò precisando i propri contorni e istituendosi come un vero

e proprio dato culturale, a partire dal quale Platone, Aristotele e i loro suc-

cessori svilupparono un’autonoma riflessione estetica. Tra tutte, la concezione

aristotelica ha dimostrato un’ampiezza di respiro che la identifica come punto

di riferimento imprescindibile, ancorché non esplicitato, per tutta la riflessione

successiva, consentendo pertanto di approfondire non solo l’impiego e la por-

tata del verbo mimeisthai, ma anche il suo diverso declinarsi nelle arti figurative

e in quelle musicopoetiche.

All’esposizione di tale dottrina saranno quindi dedicate le pagine restanti

del presente capitolo, mentre la valutazione della concordanza delle tesi ari-41La probabile datazione risale alla fine del VI sec. a. C.42«Or Pàllade, quando l’eroe prediletto ebbe salvo da questo travaglio, sul flauto compose un

multìsono canto, volendo il lungo ululo lugubre dal fitto guizzar delle fauci sprizzante, imitare»(Pitica XII, 21). Traduzione di E. Romagnoli.

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102 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

stoteliche con quanto può essere ricavato dai testi di Agostino sarà discussa

nei due capitoli successivi, dove il riferimento concreto alla tecnica retorica e a

quella musicale consentirà di ricostruire, in via di ipotesi, il suo atteggiamento

nei confronti del potere mimetico dei suoni.

3.3.2 La teoria aristotelica della mimesis

Ciò che può essere definito mimetico, per Aristotele, sia esso l’esito di un atto

produttivo o l’atto stesso in quanto esecuzione, benché scaturisca indubitabil-

mente dall’intenzione di un artefice necessariamente partecipa delle conven-

zioni stabilite da una determinata tradizione culturale, la quale, sola, ha il po-

tere di riconoscerne il significato. Tale potere la investe del ruolo di custode

della conoscenza tecnica, componente fondamentale di tutte le arti, che costi-

tuisce il mezzo attraverso il quale il fine dell’azione può essere raggiunto in

virtù di un operare analogo a quello con cui la natura imprime una forma alla

materia43 (mimeitai ten physin). Tale esito consiste, di fatto, nella produzione

di qualcosa di autonomo, che si pone in rapporto al mondo reale in termini di

possibilità44 e, dunque, di contingenza. Ciò che per Aristotele rimane fermo,

dunque, è che tutto ciò che può essere qualificato come mimetico si propone al

soggetto in termini di esperienza possibile, legata a quella reale da una qualche

relazione di somiglianza (homoiomata) ed è, in virtù di ciò, legittimata.

Nell’ottavo libro della Politica, dedicato alla valutazione del ruolo educativo

delle varie arti tra cui, in particolare, la musica, Aristotele sembra sottointen-

dere il sussistere di un rapporto di sinonimia tra la nozione di somiglianza e

quella di mimesi, in particolare là dove riconosce che le reazioni emotive susci-

tate per via di imitazione somigliano a quelle scatenate da una situazione reale

(1340 a 23-5). Questa circostanza sposta in maniera definitiva il fuoco dell’at-

tenzione sull’esperienza, inducendo ad abbandonare l’approccio oggettivo per

uno essenzialmente soggettivo.

È necessario precisare, a margine, che il legame di somiglianza non è ravvi-

sabile esclusivamente qualora si realizzi una corrispondenza puntuale di sen-

sazioni, cosa che escluderebbe di fatto dal gruppo delle arti mimetiche tutte

43«Insomma: alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; altre, invece, leimita» ( Fisica 199 a 15-7). Cfr. anche 194 a 21-2.

44Cfr. Poetica 146 b.

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 103

quelle non figurative. Ciò che l’estensione del concetto di mimesi comporta,

invece, è che non è necessario che ogni aspetto di un determinato oggetto (o

esecuzione) sia mimetico affinché l’insieme possa essere valutato tale. Esplici-

ta conferma in questo senso si può trovare nella Poetica: «Se prendiamo insie-

me la poesia epica e l’opera tragica, e poi commedia e poesia ditirambica, e le

composizioni auletiche e citaristiche per la massima parte, tutte hanno questo

in comune, di essere attività imitative; ma differiscono tra loro sotto tre aspet-

ti, perché nell’imitare impiegano mezzi diversi, oppure oggetti diversi, o una

maniera che è diversa e non è la medesima in ciascuna» (47 a).

Per comprendere in cosa consista la differenza indicata da Aristotele occor-

re analizzare la distinzione tra due modalità comunicative, quella della mimesi

e quella del segno, la quale può essere preliminarmente indicata nel possesso

di un’efficacia rispettivamente immediata e mediata. Là dove il segno esau-

risce la propria funzione nel rinviare ad altro, a un significato che il soggetto

già possiede autonomamente e che, una volta richiamato, rende superflua la

sua etichetta, l’immagine, ove con tale termine si intenda qualunque esito di

un intenzionale atto mimetico, non viene messa da parte con il realizzarsi della

comprensione, ma permane invece al cospetto del soggetto, interagendo con le

sue immagini mentali. Il modo in cui tale interazione avviene dipende dalla

qualità dell’immagine e, a monte, dal tipo di mimesi che ne ha determinato la

produzione e che può riguardare tanto la riproduzione di un oggetto, come nel

caso delle arti figurative, quanto quella di una reazione emotiva nel soggetto,

come nel caso delle arti musicopoetiche. Ora, se è vero che le prime detengo-

no un ruolo paradigmatico nell’esemplificazione della nozione di mimesi, in

quanto in esse la somiglianza si rende apprezzabile nell’istantaneità della vi-

sione senza richiedere tempo per la decifrazione, come invece nel caso della

lettura o dell’ascolto di un’opera poetica, è vero anche che sono state le arti

musicopoetiche, e la musica in particolare, ad aver consentito ad Aristotele di

formulare le tesi più significative in proposito.

L’argomentazione svolta nel contesto del già citato ottavo libro della Poli-

tica rivela, quantomeno sul piano formale, un certo grado di continuità con

l’approccio di Platone, che aveva inserito una valutazione del ruolo sociale del-

la musica nel contesto di due opere di argomento politico come la Repubblica

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104 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

e le Leggi45. Anche Aristotele si sofferma con particolare cura sulla questio-

ne educativa cercando di determinare le funzioni psicologiche e culturali della

disciplina con l’obiettivo di trarne vantaggio per la corretta formazione del cit-

tadino. Questa impostazione, centrata sulla valutazione degli effetti psicagogi-

ci sull’individuo e, di conseguenza, sulla compagine sociale, rimanda palese-

mente all’impostazione damoniana e mantenne la propria validità nel mondo

antico almeno sino al III sec d. C., quando l’incontro con il Cristianesimo iniziò

a condizionare anche la vita musicale.

Come si avrà modo di approfondire in seguito46, Damone aveva elaborato

una teoria della ricezione musicale che connotava il coinvolgimento emotivo

dell’ascoltatore in termini etici e che intendeva analizzare tale fenomeno po-

nendone in rilievo il potere di sconfinare nella manipolazione vera e propria.

L’intera gamma di sfumature emotive era stata distribuita nella classificazione

dei cosiddetti caratteri (ethoi), espressivi ciascuno di uno stato d’animo generi-

co come, ad esempio, il coraggio, l’entusiasmo, l’ira. Tali caratteri erano stati in

seguito posti in rapporto di corrispondenza, quando non addirittura di equi-

valenza, con alcune proprietà attribuite a determinate strutture musicali, sia

ritmiche sia melodiche. Proprio in forza di tale correlazione tra tonalità emoti-

ve e proprietà musicali era stato possibile giustificare l’inclusione della musica

tra le arti mimetiche, aggirando la difficoltà posta dall’assenza di un contenuto

univocamente definito in grado di rendere riconoscibile l’oggetto imitato.

Da un punto di vista complessivo Aristotele proseguì la linea di pensiero

inaugurata da Damone, anche se nella più ampia prospettiva entro cui si collo-

ca la sua riflessione sulla musica le corrispondenze individuate da quest’ultimo

appaiono definite con minore rigidità, senza il vincolo posto da una correlazio-

ne puntuale con gli ethoi. Osserva a questo proposito Halliwell47 che la portata

mimetico-espressiva della musica eccede, nella teoria aristotelica, tale categoria

e che, pertanto, l’éthos non rappresenta l’unico possibile oggetto mimetico per

la musica. Conferme in questo senso sono esplicitamente presenti nel testo, ad

esempio là dove Aristotele afferma che, oltre al fatto di per sé evidente che per

mezzo della musica si acquistano qualità inerenti al carattere, l’ascolto di suoni

45Il riferimento è al terzo libro della Repubblica e ai libri secondo e settimo delle Leggi.46Cfr. § 5.3.3.47Cfr. op. cit. p. 239.

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 105

imitativi produce le emozioni rappresentate (1340 a), o, ancora, dove dimostra

di accettare una distinzione tra melodie aventi un contenuto morale, ovvero

relative a un carattere (tà mèn ethikà), melodie in grado di stimolare all’azione

(tà dè praktikà) e melodie in grado di suscitare entusiasmo (tà d’enthousiastikà)

(1341 b). Questa circostanza dipende dal fatto che l’analisi aristotelica della

nozione di mimesi mira principalmente a chiarire in cosa consista e in quali

modi si eserciti l’influsso della musica sul carattere (pròs tò ethos) e, in senso

più ampio, sull’anima (pròs tèn psychén). Un lungo passo, che merita di essere

riportato per intero, espone alcune tesi fondamentali in proposito:

Ritmi e melodie possono raffigurare con un alto grado di somi-glianza (homoiomata) al modello naturale ira e mansuetudine, maanche coraggio e temperanza e tutti i loro contrari, e in genere tuttigli altri tratti del carattere (ethika) (e i fatti dimostrano che noi mu-tiamo (metaballomen ten psychen) il nostro stato d’animo ascoltandola musica). E la tendenza ad addolorarci o a rallegrarci che provia-mo dinanzi alle imitazioni (homoia) è affine alla nostra reazione difronte alla situazione reale: per esempio, se qualcuno si rallegra nelvedere l’immagine di qualcun altro per nessun altro motivo che perla forma di quall’immagine, necessariamente costui proverà anco-ra piacere nella visione della persona, di cui vede l’immagine. Magli oggetti degli altri sensi non hanno alcuna somiglianza con i ca-ratteri (ton aistheton en men tois allois) come nel caso del gusto e deltatto48; negli oggetti della vista questa proprietà c’è fino a un cer-to grado. Le figure hanno una possibilità raffigurativa dei caratterisolo limitata e non tutti posseggono la facoltà sensibile con cui siapprezzano. Inoltre esse non sono vere e proprie raffigurazioni deicaratteri ma, in quanto costituite di disegno e di colori, sono piut-tosto sintomi di emozioni (epísema en tois páthesin), segni (semeia) diessi. Senonché dal momento che vi è differenza nel guardare questeo quelle immagini, bisogna che i giovani contemplino non i dipintidi Pausone, ma quelli di Polignoto e di quei pittori o scultori chehanno un qualche significato morale. Le melodie hanno invece inse stesse la possibilità di imitare (mimemata) i costumi. Questo èevidente. Infatti la natura delle armonie (harmoniai) è varia, sicchéascoltandole ci si dispone in modo diverso di fronte a ciascuna diesse (1340 a).

48Una distinzione assimilabile a questa si trova, come si è avuto modo di constatare in prece-denza, anche in Agostino, che riconosce al senso della vista e dell’udito una componente razionalegiudicata invece assente nei tre rimanenti. Cfr. ord. II, xi, 32.

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106 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

Aristotele49 isola nettamente la musica rispetto alle altre arti e l’essenza di que-

sta distinzione emerge in tutta la sua evidenza quando l’oggetto dell’imitazio-

ne artistica è costituito dal carattere o da manifestazioni emotive in genere: là

dove la musica si rivela capace di realizzare una somiglianza mimetica, con-

traddistinta da efficacia immediata, le altre arti, in particolare quelle figurative,

devono limitarsi a un tipo di somiglianza mediata dal ricorso al segno. Ciò che

l’analisi del passo sopra considerato consente di ottenere, dunque, è il chiari-

mento della distinzione tra mimesis e semeia alla luce della diversa capacità di

influire sulla componente emotiva dell’anima che, nel caso estremo della mi-

mesi musicale, non si realizza come in seguito a un’evocazione, ma viene in

qualche modo direttamente attivata dalle proprietà intrinseche all’organizza-

zione musicale dei suoni. La conclusione che sembra imporsi è che la musica,

sia quanto alla componente melodica, sia quanto a quella ritmica50, possiede

la capacità di imitare i costumi (dè tois mélesin autois esti mimémata ton ethon)

(1340 a) e che, per questo motivo, possiede essa stessa qualità etiche che le con-

sentono di indurre determinati stati d’animo come per un effetto di risonanza

simpatica.

Una annotazione da tenere presente è che, per Aristotele, questa correlazio-

ne tra strutture musicali e stati psicologici costituiva un dato relativo all’essen-

za stessa della musica51, indipendentemente dalla combinazione con apparati

di differente natura come, ad esempio, il testo poetico. A margine di questa

impostazione, definibile in termini di naturalismo estetico, Halliwell ritiene

doveroso sottolineare che l’attribuzione alla musica di proprietà indipendenti

dall’artificio umano non contrastava con il riferimento al contesto pratico del-

la vita musicale: la mira di Aristotele, infatti, non era quella di delineare una

prospettiva a-storica, relativa a quello che potrebbe essere inteso come un ma-

teriale sonoro privo di elaborazione, quanto piuttosto quella di cogliere la na-

tura della musica per mezzo e, nel contempo, al di là delle singole e specifiche

forme culturali.

Il rinvenimento di un principio di ordine naturale a fondamento della capa-

49L’analisi del passo in questione riproposta in queste pagine è di S. Halliwell, op. cit. p. 240 ss.50Cfr. 1340 a 38-9 e 1340 b 7-8.51Aristotele aveva dichiarato di voler indagare la natura della musica proprio al fine di scopri-

re se il piacere ad essa connesso era un effetto di carattere accidentale oppure se doveva esserericondotto a una causa più elevata, come un’analogia con i movimenti dell’anima (1340 a).

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 107

cità imitativa della musica suggerisce di tradurre la distinzione tra somiglianza

imitativa e non imitativa in termini di significanza rispettivamente intrinseca

ed estrinseca, ove la prima sottointende un potere di comunicazione imme-

diato grazie al quale chi ascolta non si trova a dover inferire la presenza di

determinate qualità etiche nella musica, ma semplicemente le esperisce come

parte integrante dell’ascolto, mentre la seconda richiede un procedimento di

decifrazione, anche elementare, che dal segno conduca al significato. Ciò non

implica affatto, come Halliwell52 fa notare, che la distinzione debba configurar-

si in termini di contrapposizione tra il naturale e il convenzionale, come se nel

secondo caso l’interpretazione dovesse risolversi necessariamente in un’opera

di decodificazione, ma solo che nel primo caso non si dà alcun passaggio dal

significante al significato.

La capacità mimetica della musica, indipendente da qualunque associazio-

ne extra-musicale, si manifesta come potere psicagogico nella forma di una

sorta di «narratività implicita53», fluente grazie alla specificazione del ritmo e

alla modulazione appropriata delle altezze dei suoni. In questa capacità «pu-

tativa» della mimesi musicale aspetto rappresentativo e aspetto espressivo ri-

sultano indissolubilmente connessi o addirittura sovrapposti poiché, ad Ari-

stotele, non appare possibile valutare il significato di un’opera mimetica senza

tenere conto della reazione di un ascoltatore, la cui sollecitazione avviene in

virtù di proprietà intrinsecamente possedute dall’opera stessa. Questa profon-

da compenetrazione si riflette nell’unitarietà della teoria musicale aristotelica,

in cui la componente oggettiva della conoscenza si fonde con quella soggettiva

della ricezione, rendendo possibile spiegare l’una attraverso l’altra, e, dunque,

inferire le proprietà della musica dai suoi effetti sull’ascoltatore.

La musica, come si è visto, realizza un tipo di corrispondenza completa-

mente diverso rispetto a quello delle arti figurative. Se è vero, infatti, e ciò

non fa che riformulare quanto già affermato, che nel caso più elementare di

imitazione rappresentato dall’onomatopea ciò che avviene è effettivamente la

riproduzione di un suono tramite un altro suono, prodotto da un soggetto di-

verso dal primo e, eventualmente, secondo modalità differenti, è vero anche

che quando l’oggetto dell’imitazione è un carattere - e, come si è visto, proprio

52Cfr. Ivi p. 243.53Ivi p. 247.

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108 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

questo è il caso che riveste maggior interesse per Aristotele - non si dà alcuna

continuità dal punto di vista materiale tra oggetto imitato e imitazione. Là do-

ve la pittura riproduce colori e forme tramite colori e forme, la musica induce

stati emotivi in assenza di una stimolazione reale tramite l’organizzazione dei

suoni. L’elemento comune a struttura musicale e stato emotivo che, secondo

Aristotele, consente l’attivazione del secondo in virtù del primo, rinvia alla na-

tura stessa di entrambi, la quale appare determinata da un’idea di movimento

(kinesis) inteso come modificazione temporale strutturata secondo sequenze di

impulsi costituenti il ritmo. Sussiste, insomma, una sorta di isomorfismo di-

namico tra le strutture musicali e gli stati emotivi che, durante l’ascolto, opera

coordinando immediatamente il movimento dei suoni con quello degli affetti

consentendo di raggiungere un grado di efficacia di molto superiore rispetto a

quello ottenibile con il segno nelle arti figurative.

Nel tentativo di esprimere più incisivamente questa capacità della musi-

ca, Halliwell ha proposto di ricorrere al lessico di Peirce applicando il quale

ha denominato il relativo genere di somiglianza mimetica come ’iconica’, ov-

vero capace di denotare qualcosa solamente in virtù di caratteristiche proprie,

stabilenti un rapporto di analolgia con il significato, alla maniera del Cratilo54.

Proponendo un parziale aggiustamento allo scopo di renderla applicabile in

questo contesto, Halliwell ha suggerito di non assumere il riferimento alla na-

tura come discrimine tra mimesis e semeia, poiché le proprietà che determinano

l’analogia tra la musica e l’emotività non sono proprietà del suono in sé, ma

solo del suono elaborato. La correzione che ne consegue prescrive l’impiego

dell’aggettivo ’intrinseco’ in sostituzione di ’naturale’, il quale, a differenza di

quest’ultimo, segnala che il potere mimetico della musica deriva esclusivamen-

te da proprietà della struttura melodica e ritmica, senza che nulla di estraneo,

compresa l’intenzione che imprime un certo ordine ai suoni, debba essere preso

in considerazione.

Nonostante le differenze che distinguono la mimesi musicale da quella del-

le arti figurative, Aristotele mantiene un parallelismo di natura concettuale che,

identificando nell’artificiale mimetico la causa equivalente dello stimolo reale,

54«Ma se i nomi primi devono essere segno di alcuni oggetti, hai un modo migliore di farli di-ventare rappresentazioni, che renderli quanto più è possibile simili a quelli che devono indicare?»(433 d).

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 109

astrae dal requisito di condivisione del medio sensibile per conferire peso sola-

mente al risultato, consistente in una reazione emotiva indipendente da cause

reali. Come la musica, anche la pittura e la scultura possiedono la facoltà di

originare equivalenti formali della realtà in grado di dare vita a forme di espe-

rienza corrispondenti. L’unico elemento discriminante è il grado di intensità,

che dipende dalle risorse proprie di ciascuna forma d’arte e dall’oggetto della

mimesi stessa: là dove quest’ultimo è un frammento di mondo, reale o im-

maginario, le arti figurative possono ottenere una riproduzione molto fedele,

mentre quando esso è costituito da uno stato del soggetto, sia esso un carattere

o una più indistinta sfumatura emotiva, la natura cinetica della musica riesce

a imprimere con maggiore efficacia nell’anima i suoi movimenti.

Emerge, insomma, una caratterizzazione della mimesi in termini di finzio-

ne, di momentanea sostituzione del reale con l’immaginario, resa possibile dal-

l’accoglienza del fittizio come fonte alternativa di esperienza, a patto di mante-

nere i principi di coerenza formale vigenti nel reale. Nel ricondurre la mimesi

alla finzione, Aristotele ne circoscrive nettamente l’ambito di pertinenza, diffe-

renziandolo essenzialmente da quello di altri tipi di attività intellettuale come

quello scientifico, quello storico e quello filosofico. La distanza della mimesi

dalla sfera del sapere oggettivo, che si potrebbe porre in termini di distinzio-

ne tra l’arricchimento del mondo del soggetto in quanto capace di esperienza e

l’incremento delle conoscenze relative al mondo reale a partire dall’esperienza,

rispettivamente, si manifesta anche sul piano poetico-stilistico con l’adozione

di uno stile espositivo congruente, per cui maggiore è l’incidenza dell’intento

mimetico, maggiore è il ricorso all’espressione in prima persona55: se nell’espo-

sizione scientifica questa modalità espressiva è totalmente assente, essa diviene

invece criterio di valutazione del grado di mimetismo, indizio della volontà di

esibire l’azione piuttosto che di descriverla. In questa prospettiva deve essere

compreso il giudizio di superiorità formulato da Aristotele nei confronti del-

la mimesi drammtica: in quanto forma poetica capace del maggior grado di

vividezza, qualità che egli definisce per mezzo del termine enárgeia56, la poe-

55Un esempio estremamente significativo in questo senso saranno proprio le Confessiones diAgostino.

56L’enárgeia, resa in latino dal termine evidentia, può essere definita come il potere del linguaggiodi conferire una presenza vivida a ciò cui le parole si riferiscono. Per mezzo di qualità comel’immediatezza visiva e una forte presa emotiva, ciò che il linguaggio esprime assume vita propria

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110 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

sia drammatica risulta infatti essere la forma poetica più vicina all’espressività

iconica posseduta, nel grado più elevato, dalla musica.

La scelta teorica di escludere dalla nozione di mimesi l’idea di riproposizio-

ne del reale, centrandola invece sull’esperienza del soggetto, definisce il mime-

tismo aristotelico come sintesi di due diverse istanze: l’attribuzione all’oggetto

mimetico dello statuto di artefatto e il riconoscimento della sua capacità di agi-

re in vece dell’oggetto reale in quanto stimolo di esperienza. Questa duplicità,

come Halliwell ha messo in luce57, si riflette nell’impossibilià di identificare la

visione aristotelica con uno dei due estremi, quello del completo dissolvimento

del significato dell’oggetto mimetico nel ruolo di surrogato di esperienza per lo

spettatore da un lato, e quello dell’affermazione della sua totale autonomia in

virtù delle sue proprietà interne dall’altro. La sintesi aristotelica, piuttosto, può

essere considerata come il risultato di una compenetrazione tra la componente

tecnica, che consente la produzione di un oggetto dotato di organicità e coeren-

za interna, e la componente etica, incorporata nell’evoluzione storico-culturale:

«Ora, poiché abbiamo, per nostra natura, il gusto dell’imitare e, inoltre, della

musica e del ritmo, ed è evidente che dei ritmi sono elementi i metri, allora

avvenne da principio che quanti avevano per queste cose le migliori disposi-

zioni naturali, procedendo poco a poco, generarono spontaneamente l’attività

poetica. E così, secondo l’indole personale di ciascuno, l’attività poetica restò

suddivisa: i più nobili riproducevano le azioni egregie e i fatti del loro rango,

e invece gli uomini più comuni i fatti del volgo; così composero invettive da

principio, mentre altri faceva inni ed encomi» (Poetica 48 b).

La questone della tecnica interviene con un ruolo ben definito nella ca-

ratterizzazione duale del mimetismo, definendo due corrispondenti categorie

di piacere estetico, vale a dire una in cui l’abilità dell’artefice si rivela medio

strumentale alla comprensione dell’intento rappresentativo e una determinata

unicamente dalle qualità proprie dell’oggetto e, pertanto, essenzialmente indi-

pendente dalla natura mimetica di quest’ultimo. La teorizzazione aristotelica,

tuttavia, sebbene tenda a connotare negativamente il piacere procurato dalle

qualità puramente percettive come il colore o la bellezza di un suono, afferma

con sicurezza la necessità di un reciproco comporsi delle due componenti, in

nella mente di chi parla, così come in quella di chi ascolta.57Cfr. Ivi p. 172 ss.

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3.3. IMMAGINAZIONE E MIMESI 111

quanto condizione stessa dell’atto estetico58. Quest’ultimo, a sua volta, è da

intendersi come una reazione costitutivamente mediata di fronte al contenuto

rappresentativo, in un modo che configura tale mediazione come l’elemento

discriminante della stessa esperienza estetica59.

In conclusione, la concezione che emerge dalle tesi esposte nella Poetica,

nella Retorica e nella Politica sembra determinare l’esperienza estetica come ri-

sultante di un procedimento che, a partire dalla rappresentazione tramite le

proprietà percettive di un certo materiale, sia esso pittorico, scultoreo, poeti-

co, musicale o coreografico, termina nel coglimento da parte del pubblico della

somiglianza in cui si risolve l’intenzione dell’artefice, realizzando così una for-

ma di comprensione. Considerando che il riconoscimento delle somiglianze

era valutato da Aristotele come un’abilità fondamentale non solo in ambito

artistico, ma anche in quello filosofico e retorico, sembra possibile proporre

l’accostamento del mimetismo alla figura retorica della metafora che, per defi-

nizione, si nutre di un confronto non esplicitato in virtù di cui qualcosa deve

essere riconosciuto in qualcos’altro. Al pari dell’oggetto mimetico, infatti, an-

che la buona metafora suscita piacere poiché possiede in massimo grado quel

potere di ’porre di fronte agli occhi’, che risultava così importante ai fini del-

l’efficacia oratoria e che derivava dall’incorporamento della forma stessa del

rappresentato piuttosto che dalla sua descrizione60.

58Una doverosa precisazione riguarda il rapporto tra la componente cognitiva e quella edonisti-ca dell’esperienza estetica, che appare complicato dalla forte accentuazione emotiva che Aristoteleconferisce all’atto della comprensione. Il presupposto che solleva la teoria aristotelica da accusedi incompatibilità è quello che nega la risoluzione di tale atto in un’operazione di carattere essen-zialmente razionale per riconoscerne invece l’ineliminabile connotazione emotiva. Nessuno scartotra comprensione razionale ed emozioni, dunque ma, anzi, il riconoscimento che queste ultimerinviano alla prima come al loro proprio fondamento.

59Proprio il carattere mediato di tale reazione, che manifesta il contributo dell’artefice, è ciò che,secondo Aristotele, ha il potere di trasformare la reazione dolorosa rispetto a un evento del mondoreale in una reazione di piacere al cospetto della rappresentazione del medesimo evento. Cfr. 1448b.

60Proprio questa considerazione, per Aristotele, motiva la maggiore vividezza della metaforarispetto alla similitudine.

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112 CAPITOLO 3. RAGIONE E ANIMA A-RAZIONALE

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Capitolo 4

Ars rethorica

4.1 Breve storia della retorica

La prima trattazione completa e sistematica dell’arte retorica non risale alla fa-

se iniziale della sua evoluzione, ma fu portata a termine solo molto più tardi,

da Aristotele. Mentre coloro che, prima di lui, avevano cercato di definire i

compiti e i limiti della disciplina si erano concentrati in modo esclusivo o sul-

le sue applicazioni pratiche o sulla valutazione generale della sua utilità, egli

intuì che questi due livelli di considerazione non dovevano restare disgiun-

ti. Partendo dalle dottrine precedentemente formulate, dunque, elaborò una

nuova teoria della retorica che, se da un lato trattava dettagliatamente degli

aspetti applicativi, dall’altro approfondiva le implicazioni teoriche e stilistiche

proponendosi, di fatto, con una funzione di «disciplinatrice della creazione ar-

tistica1». L’opposizione-composizione di queste due polarità si riflette nella

trattazione diversificata del fenomeno del discorso in due opere connesse ma

distinte, la Retorica e la Poetica, centrate rispettivamente sul tema della pro-

gressione da idea a idea ( ) e su quello della concatenazione di

immagini ( )2. Secondo R. Barthes, l’opposizione tra sistema re-

torico e sistema poetico costituiva un elemento tipico dell’impostazione aristo-

telica, ereditato da tutti gli autori successivi almeno sino all’epoca di Augusto.

In seguito la loro fusione, che trasformò l’ars rethorica in una « poetica

1[97, introduzione di V. Licitra, p.XI.]2Cfr. [14, p.19.]

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114 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

(di ’creazione’)3» attinente all’ambito delle questioni stilistiche e compositive,

divenne un dato acquisito nel Medioevo, dando origine al concetto stesso di

letteratura.

Alla luce di questo rapido accenno sembra possibile distinguere almeno tre

fasi nel percorso evolutivo della retorica, ovvero una che si può denominare

pre-aristotelica, una aristotelica e un’ultima successiva alla totalizzazione poe-

tica di cui si è detto, che rappresentava per certi versi l’esaurimento stesso della

disciplina o, meglio, la sua trasformazione in qualcosa di differente. Un dato

innegabile è che tutti gli elementi fondamentali che contribuirono a formare l’i-

dentità della retorica e che ricevettero sistemazione nella manualistica classica

costituivano un’eredità aristotelica. L’insegnamento di Aristotele fu raccolto

ed elaborato già ad opera del primo Peripato, che si applicò in modo partico-

lare all’aspetto classificatorio. La figura di maggior rilievo in questo contesto

fu senza dubbio quella di Teofrasto, autore di una Retorica e di un altro trat-

tato sulla teoria dell’elocuzione, entrambi perduti. Il suo contributo riguardò

quasi esclusivamente il lato tecnico della disciplina e l’esito più rilevante fu la

formulazione della teoria dei tre stili retorici - l’umile, il medio e il sublime -

destinata, come si vedrà, ad avere seguito anche al di fuori dell’ambito elleni-

stico. Oltre a ciò, Teofrasto non trascurò di riflettere sul valore della parola in

relazione all’uso cui essa poteva prestarsi e distinse, in modo significativo, tra

la parola poetica e la parola retorica da un lato, tese primariamente a sortire un

preciso effetto nell’ascoltatore, e la parola filosofica dall’altro, mirante invece

a restituire un’immagine fedele delle cose e limitata, pertanto, a una funzione

meramente segnaletica.

La coscienza di questa doppia dimensione della parola era ben presente

anche in seno allo stoicismo, per quanto la retorica fosse prevalentemente con-

notata come manifestazione linguistica della verità e, per questo, tendenzial-

mente inclusa nella filosofia. Ciononostante, l’elaborazione della forma elocu-

tiva non veniva affatto considerata dagli stoici alla stregua di un ornamento

superficiale, anzi. Un frammento riferito a Cleante risulta a questo proposito

molto significativo: «Egli sostiene che sono migliori le composizioni poetiche e

i modelli musicali e, pur ammesso che il discorso della filosofia possa rivelare

3Ivi.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 115

adeguatamente le cose divine e umane, l’assoluta eccellenza divina non trova

parole appropriate; allora, i metri, i canti e i ritmi giungono, per quanto è pos-

sibile, alla verità della contemplazione degli dei» (Frammenti I, 486). Il dato che

maggiormente colpisce è il trasferimento della retorica dal piano concreto del-

l’attività politica e forense a quello eminentemente speculativo della filosofia

pratica e teoretica, esteso addirittura alla considerazione del divino. In questa

prospettiva, radicalmente opposta a quella platonica che, come noto, le nega-

va lo statuto di una vera e propria arte, la retorica veniva elevata addirittura

al rango di scienza, nella sostanza equivalente alla dialettica e da essa distinta

solo per la differente modalità espressiva. Se il contenuto del dire rimaneva

sempre e comunque la verità, la sua forma poteva essere più o meno concisa,

così come la medesima mano poteva essere tenuta chiusa o aperta, secondo la

celebre immagine di Zenone.

Per certi aspetti vicina allo stoicismo, anche se non completamente ricondu-

cibile ad esso, la figura di Ermagora di Temno merita di essere ricordata per il

contributo duraturo che impresse alla tradizione retorica e che giunse, ricono-

scibile, sino ad Agostino4. Attivo attorno alla metà del II sec. a. C., Ermagora

elaborò un sistema il cui principale elemento di novità consisteva nell’amplia-

mento della definizione dell’ambito proprio della retorica dal particolare all’u-

niversale, individuato, quest’ultimo, dalle cosiddette tesi, in linea di principio

assimilabili ai luoghi comuni aristotelici. Per quanto non del tutto nuova, la

mossa di Ermagora ebbe tuttavia il pregio di portare a termine la prima formu-

lazione esplicita della distinzione proposta da Aristotele, inserendosi a pieno

titolo nella tradizione che tendeva a includere nella sfera di pertinenza della

retorica anche le questioni più generali e che era quindi portata a riconoscerle

una precisa collocazione all’interno della filosofia.

4La suddivisione formalizzata da Ermagora fu adottata stabilmente anche in ambiente latino efu espressa traducendo tesi con genus infinitum o communis quaestio e ipotesi con genus definitum oquaestio finita. Essa compare, assieme all’altra fondamentale distinzione da lui tracciata tra genererazionale e genere legale, nella definizione dei compiti dell’oratore con cui si apre il De rethoricadi Agostino, il quale, in seguito, la formula in questi termini: «La tesi è ciò che permette unaconsiderazione razionale senza definizione di persona; l’ipotesi, o controversia, per usare un nomeimproprio, è ciò che permette una discussione razionale con la definizione di persona» (ret. 5).Il riferimento a Ermagora è costante nel trattatello agostiniano, così come in tutta la trattatisticatardo-imperiale, ma ciò non impedisce al Nostro di prendere posizione contro di lui, mostrando diapplicare nei fatti il criterio di supremazia della ragione nell’ambito delle discipline liberali: «Ma ame pare in maniera molto diversa, e parlerò con buona pace di un così grand’uomo: non bisognainfatti rispettare sempre l’autorità, specialmente quando è vinta dalla ragione» (ret. 19).

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116 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

Ermagora, assieme ad Aristotele, fu la figura di riferimento principale per

la trattatistica latina che, rispetto a quella greca, esordì molto più tardi. Il trat-

tato più antico, la Rhetorica ad Herennium, risale infatti agli inizi del I sec. a.

C. e ripropone, nella sostanza, la classificazione e la precettistica elaborate in

ambiente greco. Uno dei suoi meriti principali, a questo proposito, fu quello di

elaborare, ricalcandola sulla matrice greca, la terminologia retorica che sarebbe

stata stabilmente adottata dagli autori successivi. Per il resto, questo tratta-

to non offre più di un compendio della precedente precettistica analitica. Del

medesimo tono - e ciò ha contribuito ad avvalorare l’attribuzione della Rhe-

torica ad Herennium a Cicerone - risulta essere anche il giovanile De inventione

oratoria che, diversamente dalle opere risalenti al periodo successivo, evita di

affrontare la questione del rapporto tra la retorica e la filosofia. La posizione in

seguito assunta da Cicerone, come si avrà modo di vedere, sarebbe stata quella

di affermare la complementarità tra le due discipline che si traduceva, a livello

di concezione della retorica, nella necessità di mantenere un equilibrio tra la

componente del contenuto e quella della forma: «Oggigiorno però noi siamo

sopraffatti non solo dalle opinioni del volgo, ma anche da quelle degli uomi-

ni di cultura mediocre che riescono a trattare più facilmente gli argomenti che

non sono in grado di dominare nella loro interezza suddividendoli e facendoli,

per così dire, a pezzi; essi separano così le parole dai pensieri, come il corpo

dall’anima, con un procedimento che necessariamente provoca la morte di en-

trambi. Per questo motivo, nel mio discorso, non oltrepasserò i limiti che mi

sono imposti: spiegherò in breve che non è possibile trovare gli abbellimenti

stilistici senza concepire ed esprimere un pensiero, né pronunciare un pensiero

chiaramente senza la luce delle parole» (De oratore III, vi, 24-5).

Come corollario di questa tesi, risultava posta la legittimazione della reto-

rica come arte, ove quest’ultima era intesa in senso ampio, non vincolato cioè

alla presenza di un sistema di regole evidenti e necessarie. La consapevolezza

della peculiarità della retorica appariva dunque ben chiara a Cicerone, che rico-

nosceva in essa la necessaria compresenza sia della componente razionale, cui

era ricondotta l’elaborazione della teoria, sia di quella esperienziale che, attra-

verso l’esercizio, permetteva di acquisire la padronanza dei mezzi espressivi.

Il momento della verifica sperimentale costituiva infatti la condizione necessa-

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 117

ria per procedere alla codifica e alla sistemazione di regole che, per quanto non

universali in quanto determinate in funzione del contesto d’impiego, con parti-

colare riferimento alla qualità dell’uditorio, formavano un corpo di conoscenze

efficaci.

Emerge qui un tratto tipico dell’impostazione ciceroniana, ovvero la preva-

lenza della dimensione operativa della retorica, che lo induceva a ridimensio-

nare l’importanza dell’ammaestramento dei retori riconoscendone sì l’utilità,

ma, nel contempo, il carattere non originario: «Sono giunto però alla conclu-

sione che tutti questi precetti sono validi non tanto perché gli oratori che vi si

sono attenuti hanno conseguito fama di eloquenza, ma piuttosto per il fatto che

taluni hanno studiato ciò che facevano d’istinto gli uomini eloquenti traendone

precetti. Di conseguenza, non l’eloquenza è nata dalla retorica, ma la retorica è

nata dall’eloquenza» (De oratore I, xxxii, 146).

La retorica latina conobbe il suo massimo splendore con Cicerone per ini-

ziare già, poco dopo di lui, il suo periodo di decadenza. Una delle ultime

figure significative fu quella di Quintiliano, autore di una Institutio oratoria di

cui è manifesta la dipendenza dalla precedente trattatistica, in particolare da

quella dell’arpinate. Questo manuale traccia, nei suoi dodici libri, un piano

completo di formazione dell’oratore, dall’apprendimento della lingua sino alla

sua pratica più sofisticata, senza escludere la valutazione delle qualità morali

e del grado di cultura giudicati adeguati al ruolo. La caratteristica saliente del-

l’opera è la tendenza pervasiva alla riconduzione di ogni aspetto al piano della

tecnica come se, secondo l’efficace espressione di Barthes5, Quintiliano assu-

messe quale circostanza originaria il darsi di una «inibizione nativa a parlare»,

superabile solo attraverso lo studio.

I secoli contigui al passaggio nell’era Cristiana videro il susseguirsi di ora-

tori che godettero di chiara fama presso i contemporanei ma che, di fatto, non

introdussero elementi di originalità nella disciplina. Alcuni tra questi furono

Dionigi Alicarnasso, Apollodoro di Pergamo e Teodoro di Gadara, i primi due

di ispirazione razionalista e fortemente conservatrice, appartenenti al cosid-

detto atticismo, il terzo, invece, rappresentante di una corrente opposta che

individuava nell’elemento patetico la vera origine della forza persuasiva della

5Cfr. R. Barthes, op. cit. p. 25.

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118 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

retorica. Nel contesto della polemica che coinvolse i sostenitori delle due fazio-

ni fiorì l’ultima opera importante dell’oratoria greca, il trattato Del sublime, che,

sebbene anonimo, può essere tuttavia ricondotto con una certa attendibilità al-

la scuola di Teodoro. La posizione che lo contraddistingue è di netto rifiuto

rispetto all’orientamento pragmatico e utilitaristico comune all’impostazione

aristotelica e a quella stoica, mentre significativo appare il recupero della tesi

platonica che riconduceva al pàthos l’essenza della retorica, così come di quella

della poesia. Il sublime, che costituisce l’oggetto del trattato, specifica l’ele-

mento patetico configurandosi come lo straordinario che irrompe nel discorso

e che, oltrepassando la persuasione e il piacere, induce in chi ascolta uno stato

di meraviglia estatica in grado di esercitare una forza irresistibile6. Un passo

eloquente, in proposito, è il seguente, che rivela una certa assonanza con alcu-

ni luoghi dello Ione7 in cui lo stato entusiastico del poeta è letto come chiaro

segno della presenza operante del divino: «Oserei evidenziare con forza che

non c’è nulla di così magniloquente come una nobile passione quando viene a

proposito, che per così dire esala sotto l’effetto di una forma di follia e di un

soffio carico di entusiasmo, e riempie quasi di afflato divino il discorso» (VIII,

4).

L’ultima tappa nella storia della retorica antica è segnata dalla Seconda So-

fistica, una corrente che può essere considerata di vaste proporzioni non solo

perché interessò tutto il mondo greco-romano nel periodo compreso tra il II e

il IV sec. d. C., ma anche perché estese la definizione stessa di retorica molto

al di là dei confini di una disciplina, facendole assumere quelli di un vero e

proprio modello culturale. La denominazione sottointendeva un preciso riferi-

mento ai retori filosofi del V sec. a. C., anche se la Seconda Sofistica mancava,

di fatto, dell’originalità e della profondità di pensiero che avevano caratteriz-

zato la sofistica presocratica. Come gli antichi, tuttavia, i neosofisti offrivano le

proprie prestazioni a pagamento spostandosi di città in città e mirando a stu-

pire l’uditorio con la loro abilità virtuosistica. Per far risaltare meglio le qualità

retoriche di cui erano in possesso, sceglievano spesso argomenti ostici che, tut-

6Cfr. Del sublime I, 3.7«Infatti, cosa lieve, alata e sacra è il poeta, e incapace di poetare, se prima non sia ispirato dal

dio e non sia fuori di senno, e se la mente non sia interamente rapita. Finché rimane in possessodelle sue facoltà, nessun uomo sa poetare o vaticinare» (534b). Da ciò conseguiva, secondo Platone,che «i poeti non sono altro che interpreti degli dei» (534e).

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 119

tavia, si riducevano a mero pretesto per dare sfoggio di spettacolarità di fronte

al pubblico.

L’accenno alla Seconda Sofistica conclude il profilo della storia della retori-

ca antica, qui rapidamente tracciato allo scopo di farne emergere le diverse fasi

dello sviluppo. Sullo sfondo così ricostruito è ora possibile collocare, appro-

fondendone la dottrina, gli autori che ne furono protagonisti e che, in modo

più o meno diretto, contribuirono alla formazione del giovane Agostino.

4.1.1 Origini: storia di due retoriche

La nascita della retorica fu accompagnata, come R. Barthes8 ha messo in luce,

non già da quella gratuità che ha dato impulso alla storia di molte forme d’arte

e che egli definisce «sottile mediazione ideologica», ma a una circostanza di

nuda socialità, posta dalla necessità di difendere il proprio bene, la proprietà.

Nulla di più distante, almeno in apparenza, da ciò che aveva dato origine alla

dialettica, un interrogare trascendente il limitato orizzonte del singolo, eppure,

sotto un certo aspetto, riconducibile a una medesima urgenza, sebbene diver-

samente diretta: non più la ricerca del limite, ma la sua difesa. In questo va

rinvenuto il fondamento filosofico della retorica, un fondamento non riferito al

vero, ma a un verosimile valutato da stimarsi molto più del vero9.

Da un punto di vista strettamente storico, la retorica nacque in Magna Gre-

cia nel V secolo a. C. e le testimonianze degli antichi sono concordi nel riferirla

all’iniziativa dei siracusani Còrace e Tisia oltre che, in modo molto sfumato, a

Empedocle di Agrigento. Cicerone, nel Brutus, ha offerto la testimonianza più

autorevole in questo senso: «Così, dice Aristotele, quando, cessata in Sicilia la

tirannide si rivendicavano in processi, a distanza di tempo, i beni privati, al-

lora primamente, poiché quella popolazione è acuta d’ingegno e litigiosa per

natura, i siciliani Còrace e Tisia scrissero precetti sull’arte del dire (artem et

praecepta), poiché prima di loro molti parlavano sì con cura e con ordine, ma

nessuno con metodo e secondo norme stabilite (nam antea neminem solitum via

8Cfr. R. Barthes, op. cit. p. 14.9«E noi lasceremo dormire Tisia e Gorgia, i quali videro come siano da tenere in pregio più che

non le cose vere quelle verosimili e che fanno apparire le cose piccole grandi e le grandi piccolemediante la forza del discorso, e le cose nuove in modo antico e le antiche in modo nuovo, e hannoscoperto la brevità dei discorsi e le lungaggini che non finiscono mai su tutti gli argomenti?» (Fedro267 a).

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120 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

nec arte, sed accurate tamen et descripte plerosque dicere)» (XII, 46). Da questo pas-

so è possibile dedurre non solo che un’attenzione per l’uso accorto della parola

era preesistente rispetto a Còrace e al suo allievo, i quali si limitarono dunque

a teorizzarla, ma anche che, inizialmente, la retorica fu riconosciuta come una

tecnica scientificamente impostata.

Accanto a questa concezione, fortemente pragmatica, un’altra era andata

nel frattempo prendendo forma sotto l’influenza di dottrine come quella di

Empedole, in cui la protensione scientifica aveva lasciato spazio a un atteg-

giamento diverso, sensibile alla suggestione dell’irrazionale e del magico. A.

Plebe10 ricorda che Aristotele, nel suo dialogo giovanile Sophistés, aveva signi-

ficativamente identificato con Empedocle l’inventore della disciplina e questo

dato offre una conferma circa l’esistenza di una retorica non tecnica né fina-

lizzata esclusivamente alla dimostrazione del verosimile ma, ricorrendo a un

termine che sarebbe stato introdotto in seguito dal suo discepolo Gorgia, psica-

gogica, ovvero mirante a esercitare un dominio sulle parti non razionali dell’a-

nima sfruttando il fascino, anche ingannatore, della parola. Tale nozione rin-

via, come Plebe ha osservato, all’idea empedoclea di k smon epéon apatel n (Perì

physeos fr. 8), espressiva di un ordinamento ingannatore delle parole capace di

plasmare la d xa non in forza del vero, ma piuttosto attraverso un incantesimo

(epodé) autonomamente esercitato.

Molti studiosi del Novecento, come Pohlenz, Suess, Rostagni e Nestle, han-

no ritenuto possibile rintracciare un legame tra questa concezione della retori-

ca e le correnti pitagoriche fiorite in Magna Grecia nello stesso periodo. Viene

spontaneo, comunque, riconoscere un’analogia tra la retorica psicagogica e al-

tre arti come la medicina e la musica le quali, accomunate dal potere di agire

sull’anima, erano ritenute in possesso di un’indiscussa capacità terapeutica.

Ben noti, del resto, sono gli aneddoti che confermano questa circostanza nel

caso della musica e che rimandano principalmente al pitagorismo11. Una ca-

ratteristica che i pitagorici attribuivano alle conoscenze terapeutiche in genere

era la polytrop a, che, applicata al caso della retorica, segnalava la consapevo-

lezza di quanto l’efficacia di un discorso dipendesse dal tipo di destinatario e

richiedesse, di conseguenza, un certo grado di accortezza nella scelta dello sti-

10Cfr. [119, p. 17.]11Cfr. § 5.5.3.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 121

le. L’attenzione per il momento ricettivo, specificata nella considerazione del

grado di complessità dell’argomento e del livello culturale dell’uditorio, risul-

tava funzionale alla gestione dello stato emotivo di quest’ultimo e costituiva

forse l’aspetto che maggiormente diversificava la retorica psicagogica dalla re-

torica scientifica dei siracusani, la quale mirava a convincere esclusivamente

mediante la dimostrazione. Agli occhi dei pitagorici, l’inclusione di elementi

di natura non razionale nella sfera di pertinenza della disciplina non privava

la retorica del suo rango di tecnica poiché, pur non disponendo di una precet-

tistica al pari delle altre discipline ad essa accomunate, essa richiedeva tuttavia

il possesso di un’arte estremamente raffinata: «Dicevano che sino a un certo

punto l’opportunità retorica può insegnarsi e non è irrazionale e si presta a

un’esposizione tecnica: però in senso universale e assoluto nessuna di queste

proprietà le compete» (Vita Pythagorica 182).

La prima teorizzazione di una retorica psicagogica risale a Gorgia, il qua-

le può altresì essere considerato come la figura di collegamento tra la retorica

della Magna Grecia, luogo in cui nacque ed ebbe modo di conoscere Empe-

docle, e la Grecia continentale, dove trascorse la maggior parte della sua vita.

La concezione gorgiana della retorica è ben descritta nell’omonimo dialogo di

Platone che la presenta come «artefice di persuasione (peithous demiourg s)»

(453 a) e «creatrice di convincimento ma non di insegnamento (pisteutikes al-

l’ou didaskalikes)» (455 a). Uno dei principali aspetti da considerare in relazione

alla retorica di Gorgia è il carattere sfumato dei confini che la distinguevano

dalla poesia, la quale, nella misura in cui individuava un ambito legittimo nel-

lo studio dell’efficacia del linguaggio, poteva ben figurare accanto alla prima,

differenziandosi solo per la presenza del metro. A parte questo, la distinzio-

ne può essere formulata attraverso il riferimento a due nozioni fondamentali,

la persuasione (peith ) e l’illusione poetica (apáte), che nell’esprimere rispetti-

vamente il potere di trascinare all’azione e quello di isolare l’individuo in un

mondo irreale, delineano efficacemente la contrapposizione tra la dimensione

sociale e attiva della retorica e quella privata e passiva della poesia.

La nozione di apáte rinviava assai probabilmente alla matrice pitagorica del-

la formazione di Gorgia, ma egli la modificò sensibilmente facendo virare la

determinazione del fine dalla cura delle malattie del corpo e dell’animo alla

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122 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

produzione di un incantesimo poetico, di un inganno in grado di strappare l’a-

nimo da una condizione di normalità per gettarlo in uno stato di soave malat-

tia (n sos edeia): «Come alcuni farmaci eliminano dal corpo alcuni umori, altri

altri, e certi strappano alla malattia, altri alla vita, così delle parole alcune af-

fliggono, altre dilettano, altre atterriscono, altre dispongono chi ascolta in uno

stato di ardimento, altre infine con efficace persuasione maligna avvelenano e

ammaliano l’anima12». Lo stretto legame di parentela che univa la nozione di

apáte a quella di peith , il quale non faceva altro che riprodurre a livello con-

cettuale la profonda affinità tra la poesia e la retorica, consisteva nel rinviare a

una medesima idea generatrice, quella che identificava un tratto essenziale del

linguaggio nel potere di indurre stati emotivi nell’animo indipendentemente

dal dato reale. Se l’intento della poesia era di far credere all’esistenza dell’ine-

sistente, infatti, il fine della retorica era quello di alterare il giudizio sulla realtà

in funzione della volontà dell’oratore: ciò che in entrambi i casi era mantenu-

to come presupposto indiscusso era il riconoscimento della divina potenza del

l gos, «signore che con piccolissimo e impercettibile corpo compie opere divi-

nissime13». La forza dell’eloquio gorgiano aveva un effetto trascinante sull’u-

ditorio, assai simile a quello della musica. Tale analogia è stata approfondita,

tra gli altri, da G. Curcio14 che, in modo specifico, lo ha efficacemente definito

come un «ditirambo in prosa», intendendo con ciò esprimere che l’arte retorica

che Gorgia fece conoscere ad Atene era una vera e propria «arte di allettare con

musicale fioritura di parole».

Dal punto di vista della tecnica, anche nella retorica gorgiana l’antitesi era

la figura fondamentale, sebbene in modo diveso rispetto a Protagora. Se nelle

Antilogie, infatti, essa era assunta come criterio di organizzazione del contenu-

to in virtù di cui i discorsi venivano efficacemente opposti l’uno all’altro, nella

retorica gorgiana essa risultava investita di un valore eminentemente struttu-

rale poiché, determinando la disposizione interna dei periodi e dei termini, si

configurava come vera e propria forma logica dell’espressione. Plebe15, a que-

sto proposito, ha osservato che in conseguenza della penetrazione dell’antitesi

nella struttura della costruzione linguistica la retorica finiva per trasformarsi12Encomio di Elena 14. Cit in A. Plebe, op. cit. p. 32.13Encomio di Elena 8. Cit. ivi p. 34.14Cfr. [45, p.7.]15Cfr. A. Plebe, op. cit. p. 35.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 123

in dialettica, mentre M. Untersteiner ha ritenuto addirittura di potervi scorge-

re qualcosa di simile al riflesso di una formula magica: «La sacralità magica

dello stile s’incrocia col rigorismo logico di modo che le conseguenze tragiche

di questo vengono annullate dalla forza suasiva e ingannatrice di particolari

atteggiamenti formali16».

Tornando all’altro filone della retorica, quello che si può definire scientifico

e che era stato inaugurato dalla pragmatica trattazione di Còrace e Tisia, co-

lui che può esserne considerato il prosegutore fu Protagora il quale, dopo aver

soggiornato in Sicilia, rielaborò autonomamente molti concetti tra cui, nelle

Antilogie, quello di antitesi. La premessa che stava alla base della sua concezio-

ne era che qualunque argomento poteva essere sviluppato secondo due linee

reciprocamente contrapposte e sullo sfondo di questa convinzione aveva for-

mulato la prescrizione che invitava a «rendere più potente il discorso meno

valido (tò tòn hétto l gon kreítto poiein)». L’ottenimento di questo risultato era

rimesso al possesso di quella che Protagora chiamava orthoépeia, identificabi-

le con la capacità di trovare parole convenienti combinata con la potenza del

ragionamento. Tale concetto, a sua volta, era connesso a quello di kair s, che

già dai pitagorici era stato elaborato in relazione all’idea di armonia numerica

dando fondamento a un criterio di valutazione ispirato non all’egualitarismo

indiscriminato, ma alla discriminazione secondo proporzione.

Una medesima costellazione concettuale che comprendeva le nozioni di po-

lytrop a, orthoépeia e kair s era dunque comune sia alla retorica psicagogica, sia

a quella scientifica, testimoniando la piena e precoce consapevolezza del carat-

tere vincolante del rapporto con un uditorio, di come cioè fosse quest’ultimo

a determinare, in ultima analisi, la scelta dei mezzi espressivi. A margine di

questa indiscussa comunanza, Curcio17 specifica la differenza tra la sofistica

della Magna Grecia e quella greca identificandone il tratto caratteristico, rispet-

tivamente, nella predilezione per l’eloquio ornato (euépeia) e nella prescrizione

dell’eloquio appropriato (orthoépeia). Questa differenza si traduceva, concreta-

mente, nel fatto che l’oggetto privilegiato della prima, quella di Empedocle e

di Gorgia, erano le varie tecniche di fioritura dello stile, principalmente l’uso

di figure, immagini e neologismi, mentre quello della retorica di Protagora, di

16[147, p. 299.].17Cfr. G. Curcio, op. cit. p. 4.

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124 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

Prodico e di Ippia era piuttosto la grammatica o, al più, la cura del lessico, vale

a dire lo studio dei singoli vocaboli dal punto di vista morfologico e semantico

oltre che da quello dell’uso e delle trasformazioni.

In conclusione, stante la suddetta comunanza tra le due tradizioni, ciò che

in questa sede merita di essere rimarcato è che uno degli aspetti che maggior-

mente distanziava la concezione scientifica della retorica da quella psicagogica

consisteva nella mancanza di considerazione per gli elementi formali privi di

un rapporto immediato con il contenuto o, detto altrimenti, per quella che si

potrebbe definire la forma sonora del discorso. A fronte dello studio appro-

fondito di strutture logico-espressive come l’antitesi, che consentivano di or-

ganizzare gli argomenti nel modo più efficace e che si caratterizzavano quindi

in senso funzionale, la retorica scientifica tendeva a escludere il ricorso agli

artifici che miravano a sfruttare la forza evocativa dei suoni la quale, percepi-

ta come fenomeno non dominabile e, pertanto, non razionalizzabile, restava

esclusa dall’ambito proprio della disciplina.

4.1.2 La retorica aristotelica

Aristotele, come noto, definì la retorica come «la facoltà (d!namis) di scoprire

(toú theorestai) il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto»

(1355 b). In questa definizione, apparentemente elementare, sono contenuti

due aspetti essenziali della sua concezione, relativi all’ambito di pertinenza

della disciplina e alla sua funzione. Il primo è definito piuttosto chiaramente

dal riferimento a «ciascun soggetto», che identifica la condizione particolare

della retorica rispetto alle altre tecniche: laddove queste ultime, infatti, si limi-

tano a insegnare e persuadere riguardo ai propri specifici argomenti, la retori-

ca può applicarsi a uno qualunque di essi, senza alcuna restrizione. Il secondo

aspetto, invece, riguarda la determinazione della funzione che, in contrasto con

una certa sofistica, non è fatto coincidere con il solo risultato, la persuasione,

ma interessa la scelta dei mezzi e la discriminazione tra ciò che è persuasivo

e ciò che lo è solo apparentemente, con un implicito ma chiaro riferimento al

concetto di metodo. Tale metodo, nelle intenzioni di Aristotele, doveva ser-

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 125

vire da guida nella messa a punto delle cosiddette argomentazioni tecniche18

(éntechnoi), di quelle, cioè, che non dipendendo da circostanze oggettive erano

interamente rimesse, quanto all’efficacia, alla capacità inventiva dell’oratore.

La padronanza della tecnica oratoria deve essere valutata, secondo Aristo-

tele, sotto tre differenti aspetti (pisteis): l’abilità di ragionare secondo logica, la

comprensione dei caratteri e, infine, la conoscenza dell’origine, della natura e

della qualità delle emozioni. Questa convergenza di livelli eterogenei determi-

na la natura composita della disciplina, connotandola come una sorta di ramifi-

cazione della dialettica e dell’etica che Aristotele, senza indugio, identifica con

la politica (1356 a). Il legame con la dialettica, in sostanziale accordo con la con-

cezione platonica, era inteso in termini di analogia di struttura e di procedure,

riscontrabile nella puntuale corrispondenza fra le forme argomentative delle

due discipline ovvero, a coppie, l’entimema e il sillogismo dialettico da un lato

e l’esempio e l’induzione dall’altro. Il fondamentale elemento di differenzia-

zione, invece, consisteva nell’inclusione o meno della valutazione dell’efficacia

espressiva nella sfera di pertinenza della disciplina: se nel caso della dialet-

tica questo aspetto era del tutto trascurato, esso costituiva invece, come si è

visto, una componente imprescindibile per la retorica, al punto che la prepa-

razione culturale di un dato uditorio poteva influire anche pesantemente sulla

lunghezza e sul grado di complessità del discorso. Per quanto riguarda invece

la vicinanza della retorica all’etica e, dunque, alla politica, essa era intesa da

Aristotele non sul piano della forma, quanto piuttosto su quello del contenu-

to, come risultava manifesto, ad esempio, dal fatto che tutti e tre i generi della

retorica, il deliberativo, il giudiziario e l’epidittico, si occupavano di temi che

interessavano la vita cittadina.

Delle tre pisteis sopra elencate, sul possesso delle quali Aristotele commi-

surava l’abilità retorica, la prima, la struttura argomentativa del discorso, era

l’unica comune anche alla dialettica mentre le due rimanenti, che prendevano

ad oggetto i caratteri, le virtù, le emozioni, intersecavano di fatto gli ambiti

di pertinenza dell’etica e della psicologia. Una simile distinzione, per esplici-

ta ammissione di Aristotele, poteva tuttavia essere operata solamente a livello

18Le argomentazioni non tecniche (átechnoi), invece, sono «quelle che non sono formate da noistessi, ma sono preesistenti come le testimonianze, le Confessiones ottenute con la tortura, i do-cumenti scritti e cose del genere» (1355 b). Di queste, spiega Aristotele, ci si deve semplicementeservire, senza necessità di inventare alcunché.

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126 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

teorico poiché, concretamente, argomentazione logica, presentazione del carat-

tere e mozione degli affetti non potevano essere isolate in sezioni diverse del

discorso, ma dovevano dare luogo a un intreccio organico. Congruentemente

con la non disarticolabilità delle tre pisteis, Aristotele rivolge, nel capitolo in-

troduttivo, l’esortazione ad attenersi al dato oggettivo curando in particolare

la prima componente della buona oratoria, senza cedere alla tentazione di im-

boccare la via più facile alla persuasione facendo leva sul lato non razionale

dell’animo dell’ascoltatore.

Da un punto di vista molto generale, Aristotele individua tre componenti

fondamentali nella retorica, coincidenti, di fatto, con quelle della comunicazio-

ne linguistica in senso lato: l’autore, il messaggio, il destinatario. Quest’ultimo

poteva essere o uno spettatore intento a valutare l’abilità dell’oratore o un cit-

tadino, le cui azioni tipiche erano deliberare su avvenimenti del passato, come

nel contesto forense, o prendere una decisione in merito a eventi futuri di rile-

vanza collettiva, come in politica. In corrispondenza con questa tripartizione

risultava stabilito il tipo di azione che l’oratore doveva esercitare sull’uditorio

e che, determinato rispettivamente dal fine di indurre lode o biasimo, di con-

vincere della colpevolezza o dell’innocenza di un imputato o di orientare la

decisione, si rifletteva nella classificazione dei tre stili del discorso: l’epidittico,

il giudiziario e il deliberativo.

Il carattere determinante del ruolo del destinatario conferiva importanza

alla questione dello stile e alla cura nella dizione, ma tali elementi, agli occhi

di Aristotele, rientravano in una sfera di considerazione, quella dell’apparen-

za esteriore (phantas a), che non avrebbe dovuto essere investita di alcun ruolo

nell’insegnamento di discipline scientificamente fondate (1404 a). L’efficacia e

i conseguenti vantaggi per la vita sociale e politica della città che, tuttavia, l’in-

sieme delle strategie comunicative formalizzate dalla retorica indubbiamente

garantiva, ne rendeva di fatto fortemente auspicabile lo studio. Rifiuto teore-

ticamente motivato e accettazione sul piano pratico si combinavano, dunque,

nella visione aristotelica, che identificava nello stato di corruzione dell’ascol-

tatore medio (1404 a) la causa che aveva reso necessario il ricorso agli artifici

della retorica. Quest’ultima, qualificata con disprezzo come volgare, doveva

quindi essere considerata alla stregua di un male necessario, mentre solo la di-

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 127

scussione aderente all’oggettiva verità dei fatti meritava di essere qualificata

eticamente come giusta19.

La materia di studio specifica della retorica comprendeva da un lato l’insie-

me delle figure retoriche classiche e, dall’altro, le tecniche di modulazione della

voce concernenti la disposizione delle altezze dei suoni, la scelta dei ritmi e la

regolazione del volume sonoro, in vista dell’ottenimento del più efficace im-

patto emotivo. Questo secondo ambito era, di fatto, comune tanto alla retorica

quanto alla poetica, anche se quest’ultima aveva iniziato molto tempo prima a

coltivare lo studio dello stile. L’origine di questo legame, così come la rintraccia

Aristotele, appare particolarmente interessante poiché fa intervenire un concet-

to, quello di imitazione, che riveste un ruolo determinante sia nella spiegazione

del potere del suono sull’anima, come si è già avuto modo di approfondire20,

sia nella giustificazione dello statuto privilegiato di cui godevano, rispetto alle

altre, le arti della parola: «A dare impulso allo studio dello stile inizialmente

furono, come è naturale, i poeti: le parole, infatti, sono imitazioni (mimémata),

e la voce, che di tutte le parti in noi è la più adatta all’imitazione (mimetikóta-

ton), era subito a disposizione. Di conseguenza furono create le tecniche: la

rapsodia, la recitazione e le altre» (1404 a).

La ricostruzione storica di Aristotele riconosce un legame di diretta dipen-

denza tra le «cose prive di senso» raccontate con grazia di stile dai poeti e una

certa retorica, esplicitamente riferita a Gorgia che, con la sua abilità di far presa

sulle persone incolte aveva diffuso la convinzione che in essa consistesse il ben

parlare. Che la buona retorica non potesse coincidere con la poesia, invece, era

provato secondo Aristotele dalle circostanze stesse che avevano segnato l’evo-

luzione di un genere rilevante come quello tragico, nell’ambito del quale i poeti

avevano voluto adottare il metro giambico e abbandonare il tetrametro proprio

allo scopo di avvicinarsi il più possibile al parlato comune, dimostrando così

di aver preferito sacrificare l’ornamento per guadagnare in verosimiglianza. «È

pertanto ridicolo - concludeva Aristotele - imitare i poeti, che non si servono

19«Ma poiché l’intera attività della retorica riguarda l’opinione si deve prestare attenzione allarecitazione non perché sia giusto, ma perché è necessario, dal momento che per un discorso il giu-sto consiste solo nell’evitare di offendere o di divertire. Il giusto, infatti, consisterebbe nel dibatterein base ai soli fatti, e di conseguenza tutto ciò che è estraneo alla dimostrazione sarebbe superfluo.La recitazione, tuttavia, possiede una buona efficacia, come si è detto, a causa della corruzionedell’uditorio» (1404 a).

20Cfr. § 3.3.2.

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128 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

più essi stessi di quello stile. Di conseguenza, è evidente che non dobbiamo

esporre nel dettaglio tutto quello che si può dire dello stile, ma solo ciò che

riguarda il tipo di stile di cui parliamo. Dell’altro genere di stile abbiamo già

parlato nella Poetica» (1404 a).

Nel conteso dell’ultimo libro della Retorica, che è fra i tre quello specifica-

mente dedicato al discorso, Aristotele tratta diffusamente della forma di que-

st’ultimo, ovvero, nel dettaglio, della léxis (elocutio) e della táxis (dispositio) che

riguardano, rispettivamente, l’insieme delle figure e l’ordine delle parti del

discorso.

La prima qualità21 su cui Aristotele si sofferma in relazione allo stile è la

chiarezza (saphe) (1404 b), corrispondente alla perspicuitas dell’oratoria latina22.

Tale caratteristica si allineava perfettamente con la natura del discorso e, a

monte, dello stesso linguaggio che, in quanto segno (semeîon), esauriva il pro-

prio compito principale nel chiarire23. Quella in questione era una chiarezza

«adatta al soggetto», né troppo umile né troppo elevata, diversa da quella del-

lo stile poetico in quanto ottenuta attraverso un uso dei termini che non si

discostava da quello prevalente e che non tendeva all’ornamento mantenen-

dosi, dunque, lineare. In questa prospettiva, il modo adeguato di comporre

e di declamare appariva essere quello più lontano dall’artificio, capace di tra-

smettere all’uditorio un’impressione di naturalezza evitando la vanificazione

di ogni risultato a causa della diffidenza che la mancanza di spontaneità da

parte dell’oratore avrebbe potuto suscitare. Gli unici mezzi espressivi che Ari-

stotele considerava leciti e utili nella composizione dei discorsi in prosa, in ul-

tima analisi, erano la parola usata in senso letterale e la metafora: «Tutti, infatti,

parlano per mezzo di metafore e di parole usate in senso proprio e comune e,

di conseguenza, è evidente che se un oratore compone bene vi sarà un che di

21La seconda qualità che Aristotele pone come requisito di stile, e sulla quale non è il caso disoffermarsi, è la finezza linguistica (éllenizein), consistente semplicemente nel rispetto delle regoledella lingua e corrispondente alla puritas latina. Nel caso del greco, tale rispetto si traduceva inprimo luogo nell’uso adeguato delle correlazioni, che includeva anche l’attenta considerazione deilimiti della memoria onde evitare di separare i due termini inserendo spazi troppo ampi o paroleestranee e, secondariamente, nell’impiego di termini propri, nell’esclusione di perifrasi e terminiambigui e, infine, nella resa corretta delle classificazioni di genere e di numero. Il fine generalecui tendevano tutte queste istruzioni, ben poco significative se considerate in se stesse, era quelloagevolare il più possibile sia la ricezione del messaggio da parte del destinatario, sia la lettura e lapronuncia del discorso scritto da parte dell’oratore.

22Cfr. Quintiliano, De institutione oratoria VIII, ii, 1-11.23«Il discorso è una forma di segno (semeîon gár ti o lógos ón), e pertanto se non chiarisce non

svolgerà la propria funzione» (1404 b).

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 129

esotico nello stile ma l’arte non sarà notata e vi sarà chiarezza» (1404 b).

Di tutte le prescrizioni che Aristotele formula in relazione alla metafora, l’u-

nica che presenta attinenza con il presente studio in quanto interessa l’aspetto

percettivo del suono è quella che suggerisce di ricavare tali figure «da ciò che

è bello per suono, per effetto, per efficacia visiva o per qualche altra impres-

sione» (1405 b). Mentre tutte le altre indicazioni si concentrano sul contenuto

delle metafore e sul modo adeguato di costruirle, infatti, questa sembra pren-

dere in considerazione l’aspetto esteriore e sensibile, ovvero ciò che potrebbe

essere qualificato come forma del suono. Degna di attenzione, in particolare,

è la conferma implicita dell’importanza che Aristotele riconsceva, nonostan-

te tutto, al potere allusivo e suggestivo della parola ai fini del potenziamento

espressivo del discorso.

Una considerazione a parte era dedicata all’uso della punteggiatura, la cui

funzione era quella di imporre un limite al fluire del discorso conferendo in-

telligibilità e gradevolezza alla declamazione. Nel caso di un testo in prosa, in

cui il metro era in linea di principio assente, la scelta della scansione doveva

mantenersi a metà strada24 tra la forma metrica e la sua totale assenza perché

mentre nel primo caso il discorso sarebbe risultato artificioso e avrebbe indotto

nell’uditorio la monotona attesa del medesimo schema, nel secondo, il fluire

senza forma sarebbe risultato inintelligibile25. A questo proposito, infatti, in

un modo che si ritrova anche nella teorizzazione agostiniana, Aristotele affer-

ma che «tutto è limitato dal numero (arithm s), e il numero nella forma dello

stile (schéma tos tes lexeos) è rappresentato dal ritmo (rythm s), del quale i me-

tri (métra) sono sezioni. Di conseguenza, il discorso deve possedere un ritmo,

ma non un metro, altrimenti sarà un poema. Questo ritmo non dovrà essere

troppo rigoroso e questo accadrà se esso esisterà fino ad un certo punto» (1403

24Dopo una rapida scorsa alla classificazione dei ritmi, Aristotele spiega perché la scelta correttadebba cadere sul peone, che, in quanto formato da tre sillabe brevi e da una lunga - dunque secon-do un rapporto di tre a due - rappresenta il giusto mezzo tra il troppo solenne dattilo - rapportodi uno a uno dato dall’accostamento di una sillaba lunga e due brevi - e i due ritmi caratterizzatida rapporto di due a uno, vale a dire il troppo ordinario giambo e lo scomposto trocheo. Il peone,d’altra parte, era anche l’unico fra i ritmi nominati a non formare un metro e proprio per que-sto motivo, sottolinea Aristotele, era in grado di imprimere un ordine al fluire del discorso senzasviare l’attenzione dell’ascoltatore.

25«La forma dello stile non deve essere né metrica né priva di ritmo: nel primo caso non è per-suasiva, poiché sembra artificiale e nel contempo distrae l’attenzione dell’ascoltatore, ponendolonell’attesa del ricorrere della stessa cadenza. (...) Se invece è priva di ritmo (árrytmon) è senzalimiti (apéranton), mentre deve avere dei limiti, ma non nel metro, perché quello che non ha limitiè sgradevole e inconoscibile» (1408 b).

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130 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

b).

La preoccupazione per la percepibilità del limite motiva anche la preferenza

espressa da Aristotele per quello che egli denomina stile compatto (léxis kate-

stramméne) rispetto a quello continuo (léxis eiroméne). Laddove quest’ultimo si

risolveva in una concatenazione virtualmente illimitata di particelle correlati-

ve, che si interrompeva solo con la conclusione dell’argomento, lo stile com-

patto dava origine a un vero e proprio períodos, che Aristotele definiva come

una «forma di espressione che abbia di per se stessa un inizio e una fine e una

dimensione che possa essere abbracciata con lo sguardo» (1409 a). Il periodo,

insomma, appariva caratterizzato come un tutto le cui componenti intratte-

nevano reciproci rapporti determinati in vista della compiutezza dell’insieme,

che si lasciava cogliere prima del suo raggiungimento e che risultava capace,

pertanto, di imprimere una chiara direzione all’ascolto.

Il riferimento all’elemento numerico ritorna ancora una volta quando Ari-

stotele ricollega la piacevolezza e la facilità di memorizzazione che potevano

essere ottenuti come effetto dello stile compatto al suo avere «un numero, che

è ciò che è più facile da ricordare» (1409 b), non mancando di osservare a com-

plemento di ciò come, in generale, fosse proprio la presenza organizzatrice del

numero a rendere la poesia più facilmente memorizzabile della prosa: «È per

questo motivo che tutti ricordano meglio i versi della prosa, in quanto essi

possiedono un numero grazie al quale possono essere misurati» (1409 a).

Un dato che merita di essere segnalato è che Aristotele ritiene necessario

integrare la descrizione formale del periodo con alcune considerazioni relative

alla ricezione da parte degli ascoltatori, riferite in particolar modo alla lun-

ghezza26. Nel trattato, in particolare, ammonisce contro il rischio di dilatare le

dimensione del periodo sino a farlo diventare un discorso, in modo analogo a

quanto doveva accadere al tempo per i preludi ditirambici. Il riferimento alla

figura del ditirambografo Melanippide, che completa a mo’ di esempio l’analisi

aristotelica, contribusce in qualche misura a confermare la pertinenza dell’ac-

costamento di musica e retorica e offre, oltre a ciò, l’occasione per compiere

26Significativo è il ricorso all’immagine del camminare per illustrare gli effetti della declamazio-ne di periodi troppo brevi o troppo lunghi: nel primo caso chi ascolta si troverebbe a subire unasorta di inciampo nel suo procedere verso una misura che già possiede in maniera definita, mentre,nel secondo, rimarrebbe indietro come se il suo compagno di camminata avesse deciso di invertirela direzione più in là del limite atteso.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 131

una digressione nell’ambito della prassi musicale del tempo.

Il ditirambo era nato come canto in onore Dioniso e, per quanto avesse co-

nosciuto usi secolarizzati, rappresentava comunque una delle principali forme

di canto sacro istituzionalizzato. Non molto si conosce della forma che aveva

in età arcaica, mentre ben documentato è il profondo rinnovamento che lo in-

teressò a partire dalla metà del VI sec. a. C. e che raggiunse la sua massima

ampiezza attorno alla metà del successivo. La causa che innescò il mutamen-

to fu probabilmente l’istituzione della festa delle Grandi Dionisie ad Atene da

parte di Pisistrato, nell’ambito della quale avevano luogo concorsi ditirambi-

ci, tragici e comici. In concomitanza con il diffondersi di un forte sentimen-

to agonistico fra i partecipanti, il carattere rituale tendenzialmente ripetitivo

del canto ditirambico subì una progressiva attenuazione, apprezzabile sia nel

contenuto dei testi, sia nella struttura ritmica e melodica della musica. Auto-

ri come Melanippide, Cinesia e Timoteo di Mileto si svincolarono sempre di

più dalla prassi che prevedeva la ripetizione pedissequa degli schemi tradizio-

nali e introdussero innovazioni finalizzate a ottenere una resa più efficace ed

espressiva, quando non addirittura l’adeguazione mimetica del linguaggio ai

momenti dell’evento drammatico narrato. La ricerca della varietà nella scelta

dei mezzi espressivi fu stimolata dalle contemporanee innovazioni stilistiche

sperimentate dagli auleti e volte a modificare il rapporto fra testo e melodia

sbilanciandolo a favore di quest’ultima. A partire dalla fine del V secolo, anche

l’esecuzione del ditirambo aveva iniziato a comprendere sezioni esclusivamen-

te strumentali, come, ad esempio, quella iniziale del preludio (anabole), che era

contraddistinta da un andamento piuttosto elaborato e fantasioso.

Melanippide, attivo tra il 440 e il 415 a. C., fu uno dei principali compositori

che si dedicarono a questo genere rinnovato di ditirambo e proprio lui, pare,

fu il primo ad abbandonare la forma strofica tradizionale - costituita cioè da

strofe, antistrofe, epodo - per adottarne una astrofica in cui, come riporta Ari-

stotele, il preludio sostituiva l’antistrofe (1404 b). Una possibile interpretazione

di questa testimonianza è stata avanzata da West27, secondo cui il nuovo diti-

rambo si presentava suddiviso in sezioni cantate, alternate a interludi strumen-

tali indicati genericamente con il termine anabolai. Testimonianze significative

27Cfr. [153, p. 205.]

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132 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

in proposito si trovano anche nei Problemi dello Pseudo-Aristotele, ove si tro-

va esplicitamente posta la connessione tra rifiuto della forma strofica e intento

mimetico: «Perché i nomoi non erano composti in forma strofica come gli altri

canti corali? La ragione non sarà che i nomoi erano eseguiti dai solisti e poiché

questi erano capaci di mimesi e in grado di dilungarsi in essa, il canto ne risul-

tava lungo e molteplice nelle sue forme? E però al modo delle parole, anche le

melodie seguivano la necessità della mimesi variando di continuo. Ché l’imi-

tazione doveva essere fatta più con la melodia che con le parole. Quindi anche

i ditirambi, dacché sono diventati mimetici, non hanno più antistrofe, mentre

prima l’avevano. (...) E difatti è più facile ad un solista che ad un complesso

eseguire molte variazioni, e al virtuoso più che a chi mantiene l’éthos. Perciò i

loro canti erano più semplici. E il canto antistrofico è semplice: obbedisce a un

numero fisso e viene misurato unitariamente» (Problemi XIX, 15).

L’interesse di Melanippide nei confronti della forma libera, caratteristica

della musica a programma dei suonatori di aulo e cetra, determinò da un lato

la ricerca di uno stile più espressivo, ma, dall’altro, comportò quella perdita del

limite e della misura che, come si è visto, era stimata quale condizione neces-

saria della gradevolezza. In questo senso, dunque, va letta la battuta scherzosa

di Democrtito di Chio che Aristotele riporta e che consiste nell’accostamento di

un verso esiodeo28 fedelmente citato e di uno parodiato: «A se stesso prepara

mali l’uomo che ad altri prepara mali, e lungo preludio è per il compositore la

peggior cosa» (1409 b).

Dopo aver trattato gli aspetti relativi allo stile Aristotele passa a considerare

la disposizione delle parti del discorso, che raggruppa in due fondamentali -

proposizione (próthesis) e argomentazione (pístis) - e in due facoltative, di com-

plemento - esordio (prooímion) ed epilogo (epílógos). Iniziando a descrivere la

funzione dell’esordio, Aristotele significativemente prosegue il parallelo con

la prassi musicale e suggerisce il paragone, oltre che con il prologo poetico,

con il preludio eseguito dagli auleti. Il riferimento è rapido ma preciso, poi-

ché non si limita a segnalare un’analogia superficiale, ma entra nello specifico

della somiglianza individuandola nella messa in atto di una mediazione che,

in musica, consisteva nel collegare la prima nota del brano da eseguire con

28Cfr. Esiodo, Le opere e i giorni 265 ss.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 133

l’ultima di uno ben noto all’esecutore, mentre, nella prassi oratoria, prevedeva

l’esordio con un pezzo di bravura dal quale sgorgava poi, come da una fonte,

l’argomentazione vera e propria. Oltre a ciò, l’esordio poteva servire anche co-

me esposizione anticipata del soggetto, finalizzata a comunicare all’ascoltatore

il nucleo fondamentale del discorso onde evitare che il suo fluire rimanesse

indefinito e sospeso29. Quanto agli effetti sull’uditorio, la valutazione di Ari-

stotele si manteneva molto severa a causa della constatazione che la rilevanza

della buona costruzione dell’esordio, quando non addirittura la sua necessità,

non era posta da condizioni oggettive, ma solo dalla mediocrità dell’uditorio

stesso30.

Un’osservazione a margine

Al termine di questa presentazione della teoria aristotelica, anche il significato

della definizione riportata in apertura risulta chiarito, con particolare riferi-

mento alla caratterizzazione della retorica come d!namis. Ciò che il trattato

aristotelico conferma, infatti, è che la retorica era considerata come una téchne

ovvero, con le parole di Barthes, un «mezzo per produrre una delle cose che

possono indifferentemente essere o non essere31, e la cui origine sta nell’agente

creatore, non nell’oggetto creato32». Non scienza, dunque, né conoscenza em-

pirica, ma una forma di razionalità capace di calcolo, come Aristotele spiega

in un passo dell’Etica Nicomachea: «Ogni arte ha a che fare con la generazio-

29Simmetricamente, Aristotele attribuisce all’epilogo la funzione di lasciare gli ascoltatori in unadisposizione d’animo vantaggiosa per l’oratore, quella di amplificare o diminuire, di suscitare rea-zioni emotive e, da ultimo, di ricapitolare. Il primo punto riguarda l’impressione che l’oratorelascia di sé e dell’eventuale avversario, il secondo specifica il grado di importanza da conferire aciò che è stato dimostrato, il terzo è relativo allo stato che l’oratore si propone di indurre sul suouditorio in relazione al fine del discorso, mentre l’ultima identifica l’essenza stessa dell’epilogo,evvero la proposta di una sintesi per fissare nella memoria gli snodi essenziali dell’argometazione.Sebbene per certi aspetti analoga a quella anticipatoria dell’esordio, la sintesi dell’epilogo avevatuttavia una funzione ben diversa, come Aristotele non manca di osservare, poiché mentre la pri-ma si limitava a presentare la questione, il compito della seconda consisteva principalmente nelmostrare che l’argomentazione aveva mantenuto gli obiettivi dichiarati in apertura.

30Per contro, e qui Aristotele assume per un attimo una prospettiva marcatamente pratica, nonsempre era conveniente parlare di fronte a un pubblico attento, anzi. Non di rado era vero esat-tamente l’opposto, come ad esempio nel caso in cui l’oratore avesse voluto convincere che il sog-getto trattato era privo di valore. In circostanze del genere, Aristotele ammetteva la possibilità chel’oratore piegasse a suo vantaggio la scarsa prontezza degli ascoltatori (1415 a).

31Questa definizione ricorda la quarta esaminata nel Gorgia, in cui Platone attribuisce al sofistauna caratterizzazione della retorica come creatrice (demiourgós): «Ora mi sembra, o Gorgia, chetu abbia chiarito molto da vicino che arte ritieni essere la retorica. Se ho capito bene, tu dici chela retorica è un’arte creatrice di persuasione e che la sua attività tutta e il suo scopo essenzialeconsistano in questo» (453 a).

32Cfr. R. Barthes, op. cit. p. 20.

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134 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

ne (génesis) e con l’escogitare soluzioni (to technázein), cioè con il considerare

(theorein) in che modo possano generarsi alcune tra le cose che possono essere

e non essere, quelle di cui il principio è in chi le fa e non nelle cose fatte» (1140

a). Osserva a questo proposito E. Berti che la definizione aristotelica di arte

come stato abituale produttivo unito a ragione33 (metá lógou poietiké héxis) iden-

tifica l’arte stessa con un tipo di conscenza originata dalla scoperta di un nesso

di valore universale tra una certa causa e un certo effetto. In questo senso,

dunque, Aristotele afferma che oggetto dell’arte è la forma senza materia, così

come esiste nella mente dell’artista, «il lógos dell’opera prodotta preso senza la

materia» (640 a).

Aristotele, dunque, sembra isolare due momenti nell’attività poietica, quel-

lo della concezione della forma e quello della sua realizzazione nella materia

ovvero, più precisamente, quello della conoscenza posseduta dall’artista, che è

di tipo scientifico anche se l’arte riguarda realtà contingenti, e quello esecutivo,

che può essere affidato anche a un semplice manovale. I prodotti artistici go-

dono di una condizione particolare, secondo il filosofo, poiché se per un verso

devono la loro esistenza all’opera dell’uomo, e ciò li differenzia da quelli natu-

rali, essi non possono però interamente dipendere dalla sua libera progettua-

lità, ma restano in qualche misura vincolati alla natura. La nozione che, come

si è visto, determina il modo di tale adeguazione è quella di mimesi. L’affer-

mazione esplicita secondo cui «l’arte imita la natura» si trova nel secondo libro

della Fisica34 e, oltre a stabilire uno stato di sottomissione dell’artista, imprime

al suo operare l’orientamento a un fine, caratteristica di tutte le realtà naturali.

In questa prospettiva, osserva sempre Berti, «il senso del lógos vero che nell’arte

accompagna la volontà di produrre, è dunque quello di essere fedele interprete

della natura e dei suoi fini35».

4.1.3 Cicerone e la retorica latina

È idea ampiamente condivisa che l’oratoria latina componga un panorama

piuttosto omogeneo, unificato in virtù della prevalente presa a modello del-

33Aristotele insiste con particolare vigore sulla distinzione tra produzione e azione (metá lógoupraktiké héxis).

34Cfr. 194 a.35[17, p.159.]

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 135

la retorica ciceroniana. I tratti comuni agli autori appartenenti alla tradizione

che si estese lungo un arco cronologico compreso tra il I sec. a. C. e il I sec. d.

C. sono stati riconosciuti da .J. Murphy36 nella sostanziale adesione alla teoria

di Ermagora di Temno, nel mantenimento di un forte legame con la politica,

nella chiara percezione del discrimine tra la buona retorica e la retorica effica-

ce, nella condivisione di un’attitudine stilistica tendente al meccanismo e alla

proliferazione delle figure e, infine, nella messa da parte degli interessi specu-

lativi a favore di quelli pratici. Quest’ultimo aspetto, in particolare, merita di

essere posto nel dovuto risalto in quanto segnala un allontanamento significa-

tivo dalla tradizione aristotelica, dalla quale, peraltro, Cicerone aveva attinto

tutti gli altri elementi fondamentali della disciplina.

R. Barthes37 ha descritto la rielaborazione ciceroniana in termini di disintel-

lettualizzazione e destrutturazione, volendo con ciò esplicitarne l’aspirazione

alla naturalezza e alla chiarezza, sostenuta non dal rispetto della regola, quanto

piuttosto dal gusto. L’apice interno a questo processo di tendenziale allonta-

namento dal sistema sarebbe stato raggiunto, sempre secondo Barthes, dalla

retorica sacra che Agostino teorizzò nel quarto libro del De doctrina christiana.

A questo proposito, è interessante citare per intero il passo in cui tale lega-

me viene descritto in funzione di quella che lo studioso definisce «paura del

sistema»: «Cicerone deve tutto ad Aristotele, ma lo disintellettualizza, vuol

penetrare la speculazione di ’gusto’ e ’naturalezza’; la punta estrema di que-

sta destrutturazione sarà raggiunta nella Rhetorica sacra di Agostino (libro IV

della Dottrina Cristiana): niente regole per l’eloquenza, che pure è necessaria

per l’oratore cristiano: bisogna soltanto essere chiaro (è una carità), tenersi più

attaccato alla verità che ai termini; questo pseudo-naturalismo retorico regna

ancora nelle concezioni scolastiche dello stile38.

Cicerone compose ben sette trattati di retorica, i più influenti dei quali fu-

rono il De inventione oratoria, i Topica e il De oratore. Molta fortuna ebbe poi la

già citata Rhetorica ad Herennium, un manuale completo che costituì un termine

di riferimento essenziale per il Medioevo e che, a prescindere dalla correttez-

za della sua attribuzione, si rivela in sostanziale accordo con gli altri trattati.

36Cfr. J. Murphy, op. cit. p. 9.37Cfr. R. Barthes, op. cit. p. 23.38Ivi pp. 23-4.

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136 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

Infine, a dispetto dell’importanza marginale che gli è stata attribuita, risulta

degno di particolare attenzione, nel contesto del presente lavoro, l’Orator, un

breve scritto che, oltre a elaborare un’analisi dettagliata del ritmo prosastico,

dimostra uno spiccato interesse per gli aspetti in genere trascurati della forma

dei suoni che, molto probabilmente, suggerì ad Agostino la determinazione di

quest’ultima in funzione del concetto di numerus.

Il De inventione oratoria

Il De inventione fu composto quando Cicerone aveva appena diciannove anni e

rimase incompiuto, in due libri. L’esordio stabilisce sin da subito la condizio-

ne subordinata della retorica rispetto alla politica, concepita, quest’ultima, nei

termini di un vero e proprio sistema scientifico entro il quale la prima si trova-

va inclusa. Dopo aver definito la retorica come eloquenza basata sulle regole

dell’arte (artificiosa eloquentia), Cicerone circoscrive la sua sfera di pertinenza

manifestando un sostanziale disaccordo rispetto a Ermagora che, come pre-

cedentemente accennato, l’aveva estesa sino a comprendere tanto le questioni

generali, quanto i casi particolari (causae). Dal punto di vista di Cicerone, inve-

ce, solamente le causae potevano essere oggetto di applicazione della disciplina,

mentre tutte le altre questioni dovevano essere trascurate in quanto non ave-

vano trovato soluzione nemmeno in seguito alle interminabili discussioni dei

filosofi. Questo interesse eclusivo per il particolare induceva Cicerone a rico-

noscere la componente fondamentale della retorica nell’inventio, ovvero nella

ricerca di argomenti validi almeno in apparenza e capaci di conferire plausibili-

tà a un’argomentazione39. Le quattro parti restanti erano la dispositio, l’elocutio,

la memoria e la pronunciatio, le prime due relative agli argomenti considerati in

se stessi, le altre, invece, all’oratore. La prima coppia compendiava i requisiti

39A questo proposito la tecnica più efficace, che può essere qui solo accennata, era quella dei tópoi(loci), che Cicerone definiva come le sedi di un argomento e che trova approfondita trattazione neiTopica, un’opera che già nel titolo rivela l’ovvio riferimento ad Aristotele. I tópoi servivano per laricerca degli argomenti, insegnando come essi dovessero essere trovati. Questi, a loro volta, eranopensati da Cicerone come flussi di ragionamento, ciascuno dei quali definiva un problema. I tópoipotevano essere intrinseci o estrinseci vale a dire, rispettivamente, determinati dalla natura delsoggetto o derivati dall’esterno, cioè da fonti estranee come le testimonianze. Cicerone, dismessii lunghi elenchi di tópoi concreti che sino ad allora avevano appesantito i manuali di retorica edaffaticato la memoria degli allievi, li aveva sostituiti con altri, elaborati ad un superiore livello diastrazione. Centrati ciascuno su un principio generale che poteva ripresentarsi in svariate vesti, itópoi ciceroniani si configuravano dunque come veri e propri modelli di argomentazione che, nelfar emergere l’analogia tra differenti situazioni, rendevano più snello il lavoro dell’oratore.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 137

necessari per la corretta composizione del discorso, ovvero, rispettivamente,

la disposizione ordinata degli argomenti trovati e la loro espressione mediante

parole adeguate, mentre la seconda precisava l’abilità dell’oratore riconducen-

dola da un lato al possesso di una buona memoria, dall’altro alla capacità di

esercitare un appropriato controllo sulla voce e sul corpo (ex rerum et verborum

dignitate vocis et corporis moderatio).

Un sezione di ampiezza considerevole è dedicata all’analisi delle singole

parti di un’orazione, che Cicerone stabilisce essere sei: exordium, narratio, parti-

tio, confirmatio, reprehensio o refutatio, conclusio. La descrizione analitica di cia-

scuna di esse ripropone molti elementi della teoria aristotelica: come Aristote-

le, infatti, anche Cicerone riteneva che lo scopo principale dell’exordium fosse

quello di disporre la mente dell’ascoltatore in modo da rendere più efficace la

successiva declamazione del discorso e offriva, a tal fine, suggerimenti di carat-

tere spiccatamente concreto come, ad esempio, accentuare al massimo il tono

di serietà, non eccedere nella ricerca delle raffinatezze e astenersi dall’eccessi-

va vivacità, dalla genericità e dall’ambiguità. La sezione successiva, la narratio,

interessava l’esposizione dei fatti, la quale doveva essere condotta con la consa-

pevolezza delle diverse possibilità che si presentavano all’oratore, ovvero dire

la verità, proporre una verosimiglianza, introdurre una digressione, un’ampli-

ficazione o abbellimenti di varia natura. La partitio, il cui obiettivo era la resa

chiara e comprensibile dell’argomentazione tramite un’appropriata scansione

e disposizione, era seguita prima dalla confirmatio, cioè dall’argomentazione

vera e propria, che poteva essere attuata per deduzione o per induzione, e poi

dalla refutatio in cui, con gli stessi mezzi con cui aveva sostenuto la sua posi-

zione, l’oratore cercava di indebolire quella dell’avversario. A conclusione di

tutto il discorso, la peroratio procedeva alla ricapitolazione e cercava, da ulti-

mo, di suscitare le emozioni dell’uditorio piegandole in senso favorevole per

l’oratore (conquestio) e in senso sfavorevole per l’avversario (indignatio).

Il De oratore

Composto nel 55 a. C., quando Cicerone aveva ormai alle spalle una fulgida

carriera di oratore e uomo politico, il De oratore rappresenta forse la sua opera

retorica più significativa, che svolge anche, principalmente nei proemi ai tre

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138 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

libri, riflessioni che costituiscono una sorta di bilancio dell’esperienza accumu-

lata. Dal punto di vista della forma esso inaugura un genere di trattazione che,

evitando l’esposizione sistematica sino ad allora prevalente nella manualistica

latina, adottava quella più fluente e gradevole del dialogo letterario. Segno di

una certa avversione nei confronti della tendenza all’eccessivo tecnicismo era

poi la scelta stessa del titolo che, come anche nel caso dell’Orator, esprimeva

l’intenzione di porre al centro la figura dell’oratore delineandola gradualmen-

te, a forza di pennellate successive, non senza ripetizioni, digressioni e, talora,

contraddizioni.

I personaggi del dialogo sono numerosi. Sulle figure di contorno, il giu-

rista Scevola, i due giovani allievi Cotta e Sulpicio, oltre al giovane Ortensio,

di cui viene esplicitamente riconosciuto il talento40, spiccano quelle dei due

protagonisti, gli oratori Lucio Licinio Crasso e Antonio, cui Cicerone affida,

suddividendola opportunamente, l’esposizione della propria personale visio-

ne. Tenendo conto del talento personale e delle rispettive inclinazioni, egli

affida ad Antonio la trattazione dell’inventio e della dispositio e a Crasso quella

dell’elocutio e dell’ornatus. Nonostante l’esistenza di una solida base di accordo

in merito alle questioni fondamentali, questa suddivisione individua due figu-

re alternative di oratore, sotto certi aspetti riconducibili alla divergenza che si

era delineata alle origini tra la retorica di Gorgia e quella di Prodico. Da un

lato, infatti, Antonio manifesta un atteggiamento spiccatamente pragmatico,

particolarmente attento agli elementi puramente persuasivi, tendenzialmen-

te neutrale rispetto a istanze di carattere etico e propenso a riconoscere gran-

de importanza alla retorica, arrivando quasi a individuarla come fondamento

per una teoria della letteratura e dell’espressione41. Dall’altro, invece, Cras-

so propone un modello di oratore identificato dal possesso di una vastissima

e variegata cultura, indifferente al talento istintivo, avverso a una trattazione

specialistica della forma indipendentemente dai contenuti e portavoce di un

ideale arcaico di unione di pensiero, parola e azione.

Espressione di una radicale diffidenza42 nei confronti dell’arte del dire, l’an-

40Cfr. III, 228.41Cfr. E. Narducci, op. cit. pp. 47 ss.42Un’analoga opposizione di fazioni, l’una favorevole e l’altra contraria all’impiego della retori-

ca, si presenterà anche ad Agostino, che nel De doctrina Christiana, cercherà persino di anticipare leobiezioni degli esegeti che avrebbero in ogni caso respinto un insegnamento come quello che egli

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 139

ziano Scevola incarna l’ideale antagonista alla figura dell’oratore, contro il qua-

le afferma che non l’artificio verbale, ma solo il possesso di una sapienza in

grado di governare l’azione poteva essere di giovamento alla vita civile, come

era accaduto alle origini della storia di Roma. L’obiezione ricalca quella tradi-

zionalmente rivolta dai filosofi ai maestri di retorica, tesa alla rivendicazione

della competenza esclusiva nella formazione dell’uomo politico, cui la parte

avversa reagiva cercando di attribuire alla filosofia i connotati di una discipli-

na erudita. In questo modo, mentre i filosofi difendevano il primato della loro

disciplina indicando in essa il fondamento dell’educazione liberale e negando

la pretesa validità empirica del sapere etico-politico accumulato dai maestri di

retorica, questi ultimi cercavano di appropriarsi del terreno tradizionalmen-

te dominato dai primi estendendo l’ambito delle esercitazioni dalle quaestiones

finitae - le tesi secondo la distinzione classica di Ermagora di Temno - alle quae-

stiones infinitae, vertenti non sulle vicende circostanziate dell’oratoria forense

e deliberativa, ma su concetti generali, di portata universale. Tra questi erano

compresi, oltre a quelli attinenti la sfera dell’agire pratico, anche quelli delle di-

scipline scientifiche come la matematica, la fisica e l’astronomia43. L’indicazio-

ne della competenza enciclopedica tra i requisiti necessari per l’oratore poteva

facilmente essere piegata per sostenere la superiorità della retorica rispetto alle

altre discipline, che, in questo modo, risultavano investite di una funzione me-

ramente ancillare. Questo rovesciamento era particolarmente temuto sul piano

morale e politico, ove il retore che accampava pretese di egemonia non di ra-

do identificava pericolosamente il possesso dell’eloquenza con la capacità di

governare.

La disputa in merito alla determinazione della sfera di pertinenza della

retorica era strettamente connessa a un’altra questione fortemente dibattuta,

quella relativa all’attribuibilità dello statuto di arte, cui in precedenza è già sta-

to fatto cenno. Il compromesso proposto da Crasso, che sembra esprimere an-

che il personale convincimento di Cicerone, presuppone una ridefinizione del

significato di arte che, abbandonato quello usuale di corpo sistematico di cono-

scenze sottratte alla variabilità dell’opinione, assume quella, meno rigorosa, di

intendeva proporre.43Secondo Ermagora, come si è detto in precedenza, non era compito del retore cimentarsi in

queste ultime, mentre era invece ammesso, e anzi legittimo, che egli intervenisse in questionigenerali di rilievo per la vita della città.

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140 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

insieme di osservazioni empiriche, ordinate secondo criteri di validità interna

alla disciplina44. La qualità empirica di tale sapere era determinata in massi-

ma parte dal fatto che le reazioni dell’uditorio non potevano avere carattere di

necessità, ma solo un certo grado di prevedibilità, lo stesso proprio dell’opinio-

ne. Il pubblico consueto dell’oratore, infatti, era un pubblico di non specialisti,

sensibile alla seduzione dell’artificio e passibile di essere spinto ad abbracciare

convinzioni dotate di una validità solo temporanea, non stabile come nel caso

di un principio morale.

Oltre alla fine conoscenza della psicologia umana, al possesso di una forma-

zione enciclopedica e all’esperienza nel bene dicere, Crasso conferisce grande

risalto al possesso di adeguate qualità morali45, necessarie non solo per ren-

dere possibile la condivisione dei valori del pubblico e aumentare l’efficacia

persuasiva, ma anche per allineare il più possibile il modo di sentire dell’u-

ditorio ai valori della tradizione, senza rendere necessario il ricorso ad alcuna

manipolazione. Non si può non osservare, a questo proposito, che nonostan-

te la presenza di questa componente educativa Crasso dimostra di non essere

distante da una valutazione dell’eloquenza in termini estetici, vicina a quella

della poesia. Da alcuni riferimenti espliciti46, infatti, risulta piuttosto chiara

la sua tendenza ad applicare un criterio di giudizio differente da quello stru-

mentale: «Come siamo scrupolosi e fin incontentabili nell’emettere giudizi nei

riguardi di quelle arti in cui non si persegue un profitto indispensabile, ma

un disinteressato godimento spirituale! Infatti non ci sono né diverbi né con-

troversie che costringano a tollerare in teatro i cattivi attori come nel foro gli

oratori incapaci. L’oratore deve procurare con cura non solo di accontentare

coloro nei confronti dei quali ha precisi doveri, ma di suscitare ammirazione

proprio in coloro che possono giudicare disinteressatamente» (I, 118-9).

Al di là di un sostanziale accordo in merito alla valutazione dello statuto

della retorica, Antonio e Crasso, come preannunciato, incarnano due modelli

alternativi di oratore, o, detto in altro modo, scelgono di sviluppare potenzia-

lità diverse dell’arte del dire che, pur non escludendosi a vicenda, segnalano

tuttavia una sensibile divergenza di vedute.

44Cfr. I, 109.45Cfr. I, 53 ss.46Cfr. I, 69.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 141

Con l’esordio del secondo libro il ruolo principale nel dialogo passa ad An-

tonio, cui è affidato il compito di affrontare la parte tecnica della disciplina.

Proteso nell’approfondimento del potere persuasivo della retorica e ben lon-

tano dall’attribuire carattere scientifico alle regole ricavate dall’esperienza del-

l’oratore, Antonio apre la discussione a un risvolto inaspettato, in cui la ne-

gazione dello statuto di arte coincide con il riconoscimento di una vastità e di

una complessità47 superiore a quella di tutte le altre discipline, con particolare

riferimento alla dialettica: «In questa scienza, ammesso che scienza sia, non

vi è alcun precetto su come trovare la verità, ma soltanto su come giudicarla.

Infatti per ogni cosa che enunciamo, sia affermandola sia negandola, i dialet-

tici si incaricano di stabilire, nel caso si tratti di una proposizione semplice, se

sia vera o falsa; nel caso si tratti di una proposizione complessa o di una serie

di proposizioni, giudicano se le relazioni interne fra le varie proposizioni sono

corrette e se le conclusioni di ogni ragionamento sono vere; e alla fine restano

vittime della propia sottigliezza e, nel corso della loro minuziosa disamina, si

imbattono non solo in questioni che non sono più in grado di risolvere, ma

anche in problemi che li costringono quasi a disfare i ragionamenti che hanno

precedentemente iniziato, o meglio, condotto a termine. (...) Per questa ragione

lascio in disparte questa scienza, troppo reticente quando si tratta di escogitare

prove, troppo loquace nel sottoporle a una critica serrata» (II, 38).

L’atteggiamento pragmatico di Antonio si manifesta nel rifiuto a estendere

l’opera di classificazione anche ai dettagli minori. L’aspetto principale della

formazione dell’oratore doveva consistere, piuttosto, nella frequentazione di

coloro che già erano in possesso dell’abilità e nell’imitazione dei modelli pro-

posti, a patto, ovviamente, che l’esercitazione non scadesse nell’arida ripeti-

zione scolastica. Un fattore assolutamente decisivo, poi, era il possesso di doti

naturali48 che non potevano in alcun modo essere infuse artificialmente, come

la scioltezza della lingua (linguae solutio), la sonorità della voce (vocis sonus), la

robustezza fisica (vires), la conformazione armoniosa del corpo e persino i bei

lineamenti del volto (conformatio quaedam et figura totius oris et corporis). Tutto

ciò testimoniava una consapevole attenzione per gli effetti epidermici sul pub-

47Tale complessità si rendeva particolarmente evidente nella tecnica di ricerca e messa a puntodegli argomenti (inventio).

48Cfr. I, 113.

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142 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

blico, sul quale l’assenza di tali qualità avrebbe reso inefficaci le migliori armi

intellettuali.

L’unico aspetto che Antonio ritiene possibile teorizzare è quello relativo al-

la concatenazione degli argomenti, che affronta in modo nettamente diverso

rispetto a quanto prescriveva il metodo allora usuale. Mentre secondo que-

st’ultimo, infatti, gli argomenti dovevano essere disposti in un’unica successio-

ne, con il rischio di rendere l’insieme poco organico, secondo quello descritto

da Antonio, simile nella sua essenza a quello aristotelico, l’ordine di comparsa

era stabilito a seconda della funzione di ciascun argomento, la cui collocazio-

ne, dunque, risultava decisa sin all’inizio garantendo così il massimo grado di

coerenza.

L’ispirazione aristotelica49 di questo insegnamento è del resto esplicitamen-

te ammessa dallo stesso Antonio50 e si rende evidente anche nella classificazio-

ne dei mezzi di persuasione secondo le tre funzioni del probare, del conciliare e

del movere, rispettivamente correlate all’argomentazione razionale, all’esibizio-

ne di autorevolezza da parte dell’oratore e all’esercizio della forza psicagogica.

Un aspetto che differenzia il De oratore dalla precedente manualistica è che la

trattazione di queste componenti non è sbilanciata in favore della prima, ma

le valorizza tutte e tre. Questo mutato atteggiamento si rende apprezzabile

nel riconoscimento di un ruolo alle emozioni nell’attività dell’oratore, la cui

rilevanza risulta addirittura superiore a quella dell’argomentazione razionale:

Niente infatti conta di più nell’oratoria, o Catulo, del fatto chel’ascoltatore sia ben disposto nei confronti dell’oratore e sia emoti-vamente coinvolto, così da lasciarsi dominare più dagli impulsi edalle emozioni che da una valutazione critica e razionale. Gli uo-mini giudicano molto più in base a odio o amore, desiderio, ira,dolore, gioia, speranza, timore, errore, o per qualche altro moto in-teriore, piuttosto che in base alla verità o a una disposizione o auna qualche norma giuridica, precedente legale, o alle leggi. Per-ciò, se non avete nulla in contrario, volgiamoci a questo argomento(II, 178).

L’analisi dettagliata di ogni sfumatura emotiva e dei modi per trarre da ciascu-

na la massima efficacia porta a individuare una prima suddivisione in funzione

49Non è stato accertato se Cicerone abbia letto la Retorica di Aristotele o se abbia invece attin-to le sue idee dalla tradizione accademica e peripatetica. Resta tuttavia indubbio che l’influssoaristotelico sia presente nel De oratore.

50Cfr. II, 152.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 143

dei due concetti di éthos e páthos che esaurivano, assieme al lógos - l’argomenta-

zione razionale - le tre possibili vie della persuasione secondo la teoria aristote-

lica51. A differenza del páthos, che sotto l’azione del movere tendeva a scatenare

emozioni violente e trascinanti, l’éthos, che nel suo concetto riuniva la conside-

razione di tutti gli aspetti connessi alla persona dell’oratore dai quali poteva

dipendere la sua credibilità e il senso di fiducia nell’uditorio, traeva piuttosto

vantaggio da una sollecitazione più lieve, attuata per mezzo di ciò che Antonio

denomina conciliare. Come concisamente si esprime Narducci, «Cicerone im-

magina un uditorio ammansito dall’éthos52 e travolto dal páthos» e, a differenza

di Aristotele, non ritiene affatto necessario lasciare molto spazio al potere de-

cisionale dell’ascoltatore, poiché non gli attribuisce l’atteggiamento imparziale

proprio di un soggetto che attenda di essere accuratamente informato e guida-

to al fine di assumere la visione più corretta. Nell’esposizione di Antonio, il

páthos si profila, dunque, come la risorsa più preziosa a disposizione dell’ora-

tore, avente il potere non solo di suscitare emozioni a piacimento, ma anche di

placare quelle in atto nell’uditorio. Tale facoltà di dominio viene significativa-

mente descritta attraverso metafore militari che accostano la figura dell’oratore

a quella dell’imperator, capace di piegare secondo necessità la volontà dei suoi

soldati53.

Sempre a proposito dell’importanza del coinvolgimento emotivo e, in parti-

colare, dell’abilità nel muovere le passioni, è importante segnalare una signifi-

cativa differenza tra la visione di Antonio e quella di Crasso. Se il primo, infatti,

si affida in gran parte alle doti istintive e all’esperienza dell’oratore, il secondo

invoca come necessario fondamento la conoscenza della psiche umana e dei

suoi meccanismi. Il netto rifiuto da parte di Antonio di valersi del contributo

della ragione sotto questo aspetto comporta come corollario l’identificazione

dell’oratore con la passione che egli di volta in volta intende trasmettere al suo

uditorio, come se ciò dovesse accadere attraverso una sorta di contagio. In que-

51Cfr. anche Orator 37, 128. In questo luogo Cicerone afferma esplicitamente che il successo del-l’orazione dipende esclusivamente dall’efficacia con cui si commuovono e si eccitano gli animi: «Ilprimo (ethikón) è affabile, piacevole e adatto a conciliare la benevolenza; l’altro (pathetikón) impe-tuoso, acceso, travolgente, con cui si strappa la vittoria: ed esso quando si slancia con veemenzanon può essere in alcun modo trattenuto».

52Narducci osserva che, per Aristotele, il conciliare non doveva far leva sul lato emotivo, ma solosu quello razionale. Cfr. Ivi.

53Cfr. II, 185 ss.

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144 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

sta prospettiva, l’opera di persuasione assume i tratti di un fenomeno in gran

parte occulto, distribuito capillarmente anche se in maniera differenziata per

tutta la durata dell’orazione in un inestricabile intreccio tra la levità dell’éthos

e la forza irresistibile del páthos, in cui il primo è rafforzato dal secondo e il

secondo è temperato dal primo.

Cicerone esterna la preoccupazione che la scelta di suddividere l’esposizio-

ne tra Antonio e Crasso, per quanto efficace nel rimarcare l’importanza della

varietà stilistica, possa risultare fuorviante nel trasmettere l’idea che forma e

contenuto siano separabili54. La messa in chiaro che tale separabilità è ammis-

sibile solamente sul piano teorico si impone quindi come un dato da tenere

costantemente presente ed è altresì funzionale a escludere a priori ogni ari-

do tecnicismo dall’ambito di pertinenza della retorica. Tale convinzione, per

quanto comune a entrambi gli oratori, viene tuttavia piegata in un senso parti-

colarmente forte da Crasso che, nel liberare la retorica dalle angustie dell’inse-

gnamento scolastico per conferirle ampiezza di respiro e competenza riguardo

a «tutti i principi naturali che regolano i costumi, gli animi e la vita degli uomi-

ni» (III, 76), finiva con l’attribuire al retore il governo dello stato. Non manca la

consapevolezza del pericolo insito in una simle presa di posizione, ma Crasso

mostra di ritenere che l’inclusione del possesso della saggezza tra i requisiti

della figura dell’oratore sia sufficiente a scongiurarlo.

Poste l’una di fronte all’altra, le concezioni di Crasso e di Antonio appaio-

no distanziarsi massimamente nella caratterizzazione della retorica come stru-

mento: se nell’esposizione di Antonio, infatti, tale strumento risulta privo di

connotazioni etiche e non vincolato nemmeno alla presentazione della veri-

tà qualora questa non agevoli l’opera di persuasione, Crasso rivendica per

la retorica una precisa collocazione politica e civile, profondamente coinvolta

dal punto di vista etico, in vista della quale anche il tendenziale antitecnici-

smo e la riconduzione della bellezza dell’espressione alla nobiltà dei contenuti

rispondono a precise esigenze di giustificazione.

Cicerone riconduce l’inizio della frattura tra eloquenza e saggezza, causa

storica della scissione tra la forma intesa come espressione e il contenuto in-

teso come pensiero, all’espunzione dell’abilità retorica e della capacità politica

54Cfr. III, 19.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 145

dal ritratto dell’uomo saggio, di cui Socrate si era reso responsabile. Dal suo

punto di vista, infatti, l’atteggiamento di diffidenza nei confronti della disci-

plina era divenuto quasi usuale in filosofia proprio in seguito a tale mossa e il

centro d’interesse era stato conseguentemente trasferito su questioni di carat-

tere specialistico, avulse dal contesto sociale, come la dialettica e le discipline

matematiche. A mo’ di chiarimento, Narducci55 riporta i termini generali della

questione alla polemica di Isocrate nei confronti del modello educativo plato-

nico, del quale il primo limitava l’eventuale validità a una fase di formazione

propedeutica a quella politica e civile. La posizione di Cicerone, di fatto, non

era dissimile da quella di Crasso, poiché anch’egli aspirava a praticare un’elo-

quenza che si fosse riappropriata dei temi etici e politici cruciali per la vita so-

ciale e si rifaceva, in ultima analisi, all’impostazione accademica e peripatetica,

l’unica che fosse riuscita a mantenere vivo quell’ideale di coerenza fra pensie-

ro, parola e azione che era stato proprio del modo di sentire degli antichi e che

era stato incarnato da oratori e uomini di stato come Pericle. Pregna di signi-

ficato, a questo proposito, è la descrizione entusiastica della forza persuasiva

di quest’ultimo, capace, al limite, di annullare il peso di ogni circostanza og-

gettiva: «Che dire di Pericle? Sappiamo della sua facondia che, anche quando,

per la salvezza della patria, egli parlava piuttosto aspramente contro i desideri

degli Ateniesi, persino quando sosteneva contro i beniamini del popolo riusci-

va popolare e gradito a tutti. Gli antichi poeti comici, anche quando parlavano

male di lui - cosa che allora ad Atene era permessa -, dovevano riconoscere che

sulle sue labbra dimorava la grazia e che tanta era la sua potenza da lasciare

nelle menti degli ascoltatori quasi degli aculei» (III, 138).

L’Orator

In apparente contrasto con l’estesa trattazione della componente tecnica, l’e-

sordio dell’Orator avvia una riflessione di portata molto ampia sul legame tra

la retorica e la filosofia che non può evitare, tra l’altro, il confronto con la teoria

platonica. Tale legame, che si declina in termini di dipendenza nell’affermazio-

ne che senza la filosofia non è possibile formare l’oratore ideale, non si connota

55Cfr. E. Narducci, op. cit. p. 66.

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146 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

come estrinseco, ma dà seguito, nell’ambito proprio della retorica56 (ubertas et

quasi silva dicendi), all’elaborazione di un metodo per la ricerca degli argomen-

ti e all’approfondimento della conoscenza dell’animo umano. Quest’ultima,

che Cicerone riconosce come la più importante componente dell’eloquenza57,

determina altresì il criterio per la classificazione degli stili, i quali, in corrispon-

denza con la tripartizione greca di génos ypselón, méson e ischnón, sono distinti

in tenue, temperato ed elevato, secondo una progressione scandita dal grado

di passività dell’ascoltatore. Se al grado minimo, infatti, corrisponde lo stile

tenue, in cui la chiarezza e la dizione stringata e piana lasciano emergere un

argomentare disadorno ma rigoroso dal punto di vista logico-formale che ri-

chiede un contributo attivo all’ascoltatore, all’altro estremo corrisponde invece

il tono solenne e magniloquente dello stile elevato, che riveste i pensieri con

parole veementi e abbondanti, in grado di eccitare e piegare gli animi anche a

prescindere dall’effettivo valore dei contenuti. A metà tra i due, lo stile tem-

perato fluisce con uniforme scioltezza, accogliendo al più moderati ornamenti,

ma rimanendo comunque privo della sottigliezza e dell’esuberanza dello stile

elevato. L’essenza di ognuno dei tre stili si adattava ovviamente ad altrettante

circostanze58 risultando propria in alcune e impropria in altre, sì che poteva

essere stabilita, in linea di principio, una corrispondenza tra i tre genera dicendi

e i tre principali compiti dell’oratore, ovvero il docere, il delectare e il movere. Un

contributo originale di Cicerone, in aggiunta, fu quello di aver constatato l’op-

portunità di contemperare i tre stili al fine di esaltarne i pregi e temperarne i

difetti grazie alla varietà e all’alternanza, in un modo che mai era stato caldeg-

giato da parte degli autori greci e che non era presente nemmeno negli scritti

ciceroniani anteriori all’Orator.

56Cfr. III, 12.57Cfr. IV, 15.58Il periodare arrotondato e simmetrico dello stile temperato, fluente come se scorresse racchiuso

in un cerchio (ut tamquam in orbe inclusa currat oratio), era particolarmente adatto al genere epiditti-co, anche se il suo elevato grado di elaborazione e di raffinatezza richiedeva un impiego ponderatopoiché, nonostante l’innegabile piacevolezza, correva il richio di arrecare sazietà, impedire la com-mozione e ostacolare la sincerità e la fiducia. In generale, Cicerone raccomandava di perseguireuna certa varietà, non solo nell’applicazione dello stile, ma anche al livello capillare dei piedi e del-le clausole. Anche la scelta di questi, infatti, doveva adattarsi alle circostanze, tenendo presente,ad esempio, che piedi più brevi determinano un ritmo più rapido, adatto alle discussioni conci-tate, mentre un ritmo più lento si addice maggiormente, ad esempio, all’esposizione dei fatti. Lostile con periodi rotondi e ritmici risultava di rado impiegabile nell’oratoria giudiziaria, in cui piùefficacemente si poteva ricorrere a uno stile capace di colpire con poche parole, come se gli incisiavessero l’effetto di piccoli pugnali.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 147

Il trattato si divide idealmente in tre parti, di cui la prima è dedicata al-

lo stile e l’ultima al numero oratorio, mentre quella di mezzo si propone di

tracciare il ritratto dell’oratore ideale. Lo stile rappresentava agli occhi di Cice-

rone il tratto distintivo dell’oratore, mentre tutto ciò che riguardava la scelta e

la disposizione degli argomenti, ciò che egli definiva il quid in opposizione al

quo modo, per quanto importante «come l’anima nel corpo59» (XIV, 44) era da

riferire più alla capacità di discernimento (prudentia) che all’eloquenza vera e

propria60. Entrando nel merito della questione stilistica, Cicerone si sofferma in

particolare sulla trattazione del tono elevato e di quello medio, individuando le

componenti dell’ornatus insignis nelle figure di parole e in quelle di pensiero61

e le figure dell’ornatus suavis et adfluens nella collocatio verborum62, nella forma

ipsa et concinnitas verborum63, nel sonus64 e, infine, nel numerus65. Lo spazio

maggiore è riservato a queste ultime quattro parti, di cui le prime due sono co-

muni a qualunque stile, da quello filosofico a quello poetico, mentre le restanti

sono declinate specificamente in relazione allo stile oratorio. A differenza delle

precedenti, che coinvolgono una scelta da parte dell’intelletto, le ultime due

implicano una valutazione dei suoni e delle armonie che può essere attuata

solo per mezzo dell’orecchio e che introduce, di fatto, una distinzione tra arte

prodotta dalla ragione e arte prodotta dai sensi: «Ma poiché la scelta dei pen-

sieri e delle espressioni appartiene al discernimento (iudicium in prudentia est),

mentre invece la sensibilità uditiva giudica i suoni e l’armonia (vocum autem et

numerorum aures sunt iudices), e poiché quelli si riferiscono al giudizio e questi

al diletto, in quelli l’intelligenza trova i mezzi migliori, in questi il gusto» (49,

162).

59Si tratta della stessa immagine sfruttata anche da Agostino in quant. an. XXXII, 66.60Come si è accennato in precedenza, uno strumento utile in questo senso era rappresentato dai

tópoi, cui l’oratore ricorreva come a repertori appositamente apprestati, valutando e selezionandoopportunamente a seconda delle esigenze del momento. Quando si trattava di procedere alladisposizione degli argomenti, invece, l’oratore doveva applicare lo schema generale che suggerivadi sferrare un primo assalto all’animo degli uditori con l’exordium, per poi rafforzare la propriaposizione cercando nel contempo di indebolire quella dell’avversario, mantenendo l’accortezza dicollocare le argomentazioni più deboli nel mezzo del discorso. Quanto alla forma perfetta delladizione, essa era giudicata da Cicerone come la più difficile da otteneree ciò soprattutto a causadella congenita flessibilità che la contraddistingueva e che le faceva assumere i tratti più disparati,a seconda dei gusti. Cfr. XVI, 52.

61Cfr. §§ 134-9.62Cfr. §§ 149-54.63Cfr. 155-62.64Cfr. §§ 162-7.65Cfr. §§ 168-236.

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148 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

L’attenzione di Cicerone per la componente materiale dell’eloquio si rivol-

geva al suono (sonus) e al ritmo (numerus). La cura del suono era ricondotta

alla scelta di parole armoniose, purché non poetiche, e all’uso di forme efficaci

come l’antitesi che, secondo l’esempio di Gorgia, poteva produrre un’euritmia

talmente spiccata da infondere indirettamente al discorso la corretta scansione

ritmica. Il numerus, invece, inteso come una sorta di adattamento della ritmica

alle esigenze della prosa, influiva sull’efficacia nella disposizione delle paro-

le e la sua congrua applicazione, che richiedeva abile discernimento da parte

dell’oratore per evitare di scadere nell’affettazione, esercitava una vera e pro-

pria azione levigante (expolitio) nei punti cruciali del discorso come l’esordio,

gli elogi, le narrazioni, le amplificazioni e le perorazioni.

Come nel caso dell’altezza dei suoni, secondo Cicerone, era insita nella na-

tura dell’uomo la capacità di valutare istintivamente la loro durata, sì che a chi

non fosse stato in grado di percepire la clausola ritmica del periodo (numerosae

et aptae orationis), egli si dimostrava propenso addirittura a negare l’apparte-

nenza al genere umano66. Tale «senso istintivo di misura di tutti i suoni» era

dunque in grado di rilevare con sicurezza ogni eccesso di lunghezza o di bre-

vità, attendendo completezza nelle espressioni e, parimenti, restando offeso

dalle frasi mutile o trascinate oltre misura. Nessuna spiegazione poteva esse-

re cercata a monte della valutazione espressa dall’udito: essa rappresentava,

infatti, un dato oltre il quale l’intelletto non poteva risalire, ma che costituiva,

piuttosto, il suo oggetto e, con ciò, l’inizio stesso della conoscenza.

Il ritmo della prosa non era valutato di natura differente rispetto a quello

della poesia. Il discrimine tra l’uno e l’altro, piuttosto, era riconosciuto nell’am-

piezza dell’uso che ne veniva fatto e che, nel caso della prosa, doveva essere

sporadico e variegato, come in un’ideale via di mezzo tra la completa simme-

tria della composizione poetica e l’assenza di ritmo caratteristica del linguaggio

parlato: «Sia dunque la prosa, come prima ho detto, mista e temperata di ritmi

(permixta et temperata numeris), né completamente libera né interamente vin-

colata all’armonia» (57, 195). L’assenza di regole precise da applicare rendeva

più complessa l’attività del retore, che doveva limitarsi ad arieggiare di ritmi la

sua declamazione accostandosi ad essi (ad numeros proxime accedit) sin quasi a

66Cfr. 50, 168.

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4.1. BREVE STORIA DELLA RETORICA 149

sfiorarli, ma dosandoli sempre con grande accortezza: «E così nella prosa non

ci sono come delle melodiche battute di flauto (tibicini percussionum modi), ma

vi è una compagine complessiva e una forma di stile rotonda e piena (univer-

sa comprehensio et species orationis clausa et terminata) che viene apprezzata dal

piacere dell’orecchio» (58, 198).

Cicerone analizza accuratamente i modi in cui doveva essere trattata la di-

sposizione delle parole e la misura delle sillabe: «Le parole si collocheranno o

in modo che fra di loro le ultime sillabe si uniscano nella maniera più adatta

con le prime sillabe delle successive parole e rendano più piacevoli i suoni, o

che la forma stessa e l’eleganza delle parole compiano una loro unità, o che il

periodo termini con armoniosa cadenza» (44, 149). Le regole da applicare nella

composizione non erano minuziose, anzi: la ricerca continua dell’aderenza al

precetto avrebbe infatti esposto fortemente l’oratore al rischio di risultare arti-

ficiale e l’ammonimento di Cicerone era piuttosto quello di seguire la norma

fissata con l’esercizio, grazie al quale poteva essere acquisita l’abilità di preve-

nire fenomeni sgradevoli come gli iati e le cacofonie. È importante sottolineare,

a questo proposito, che la base di tale abilità era naturale, custodita nella forma

dell’organo di senso, sì che ogniqualvolta si fosse registrato un divergere tra

la legge di natura e la convenzione istituita dall’uso, era solo alla prima che

l’oratore avrebbe dovuto riferirsi come garanzia di superiore eleganza:

Consulta la regola: ti rimprovererà; rimettiti al giudizio delleorecchie: ti approveranno. Domanda perché: diranno che ne prova-no piacere. La parola deve dunque uniformarsi al compiacimentodell’orecchio (48, 159).

L’assunzione dell’indocta consuetudo a criterio di valutazione supremo per l’ora-

tore ridimensionava radicalmente la portata della componente teorica dell’arte

che, circoscritta alla sfera del contenuto, rimaneva sostanzialmente ininfluente

ai fini dell’esercizio della forza persuasiva specifica della retorica. In sintonia

con questa rivalutazione degli aspetti connessi alla dimensione fisica del suo-

no, l’eloquenza appariva configurarsi come un’attività compiuta in agendo et in

eloquendo, in cui all’ovvia componente dell’elocuzione (elocutio) si aggiungeva

quella dell’azione (actio) relativa all’uso della voce e del gesto, intesa come una

vera e propria eloquenza del corpo67 (eloquentia corporis) (17, 55). Cicerone ri-67In particolare merita un cenno l’idea che tra i mutamenti della voce, dei gesti e dell’espressione

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150 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

conosceva dunque senza esitare l’esistenza di un nesso tra la potenza dell’arte

retorica e le qualità naturali dei suoni, al punto da elevare queste ultime al ruo-

lo di guida per l’oratore che si proponeva di dilettare, convincere e, soprattutto,

commuovere l’uditorio. Presupposto fondamentale di tale presa di posizione

era la consapevolezza del fatto che, nel momento in cui il linguaggio lascia

emergere la propria essenza di cantus obscurior manifestando tutta la potenza

che la modulazione del suono può sprigionare, il mondo emotivo dell’uomo

rivela la sua più completa e ineliminabile vulnerabilità.

4.2 Agostino e l’eloquenza cristiana

Il dilemma che tanto aveva infervorato il dibattito tra gli antichi relativamen-

te all’opportunità e, ancor prima, alla legittimità del ricorso all’arte retorica si

colorò di tinte ancor più cariche con l’avvento del cristianesimo. Se nella cul-

tura pagana, infatti, la diffidenza nei confronti dell’abilità oratoria non aveva

radice morale o teologica, ma era determinata esclusivamente da motivi di con-

venienza personale rinvianti al contesto politico e forense, nel mondo cristiano,

che tra il IV e il V secolo andava costruendo la propria fisionomia, essa mani-

festava invece una diversa cura per la parola, resa veicolo di un messaggio che

trascendeva l’orizzonte del singolo e dei suoi interessi. Questa differenza, che

recava il segno della trasfigurazione della parola operata dalla Rivelazione, è

testimoniata con evidenza nel seguente passo di San Paolo: «Io venni in mezzo

a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio

messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla ma-

nifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse

fondata sulla sapienza umana ma sulla potenza di Dio» (I Cor. II, 3-5). La de-

bolezza allusa sottointendeva l’umiltà di un parlare consapevole di non avere

un ruolo diverso da quello del mero supporto materiale per un contenuto e

una potenza espressiva totalmente infusi dall’esterno, come manifestato dalla

discesa dello Spirito Santo sugli apostoli nel giorno di Pentecoste: «Apparvero

del volto e i mutamenti contestualmente prodotti nell’animo sussistesse una diretta corrisponden-za. In essa, infatti, sembra rieccheggiare la concezione aristotelica della mimesi secondo cui, comesi è avuto modo di osservare, la forma percepita dai sensi, con particolare riferimento a quella so-nora, era in grado di esercitare un’azione immediata sull’animo in quanto rinviante a un medesimoprincipio formante che Cicerone coglie nel concetto di species.

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4.2. AGOSTINO E L’ELOQUENZA CRISTIANA 151

loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di lo-

ro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre

lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (Atti 2, 3-4).

Assumendo questa fondamentale premessa, numerosi autori cristiani dei

primi secoli ritennero di dover manifestare un perentorio rifiuto nei confron-

ti delle arti pagane del discorso, con particolare riferimento alla retorica sulla

quale pesava, tra l’altro, l’eredità ingombrante della svalutazione platonica.

Un passo che testimonia l’atteggiamento più diffuso a questo proposito è il

seguente, che, in modo assai significativo, estende la valutazione negativa al-

la poesia confermando il legame già messo in luce a suo tempo da Aristotele:

«Avete inventato la retorica per l’ingiustizia e la calunnia (...) avete inventa-

to la poesia per cantare battaglie, amori degli dei, ogni cosa che corrompe lo

spirito68».

In quest’atmosfera di fermento culturale la presa di posizione più originale

e feconda, per l’influsso che avrebbe esercitato nel corso dei secoli successivi, fu

senza dubbio quella espressa da Agostino nel quarto libro del De doctrina chri-

stiana, che merita di essere considerato come uno dei più importanti trattati di

ermeneutica scritturistica della cristianità occidentale. Composto con l’intento

di fornire gli strumenti per rendere più efficace l’interpretazione e la spiega-

zione delle Scritture, in particolar modo ai chierici con l’incarico della predica-

zione, esso rivela, già nel suo prologo, l’atteggiamento polemico che animava

il dibattito in corso, nella misura si sofferma nella prevenzione degli attacchi

che non ancora la teorizzazione, ma già l’intento a monte degli insegnamenti

comunicati avrebbe con grande probabilità sollevato.

Gli oppositori che Agostino prese più seriamente in considerazione erano

quegli esegeti delle Scritture che rifiutavano per partito preso di riconoscere

l’utilità delle tecniche interpretative ed espressive, in quanto persuasi della

necessità di confidare esclusivamente nell’intervento divino. L’idea del rag-

giungimento di una comprensione divino munere, infatti, rientrava in una vi-

sione diffusa nel Cristianesimo dell’antichità, cui apparteneva la convinzione

che non solo l’agiografo, ma anche l’esegeta fosse guidato dallo Spirito. Al

di là della prova di umiltà che tale sottomissione sembrava esibire, tuttavia, il

68Cit. in J. Murphy, op. cit. p. 55.

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152 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

rischio insito in questa presa di posizione era quello di favorire l’isolamento

dalla comunità ecclesiale, svalutando il momento della comunicazione e della

partecipazione dei fedeli alla vita comunitaria. Profondamente convinto del-

l’importanza di entrambe quali occasioni per celebrare il vincolo di unione

simboleggiato dalla caritas, Agostino, come M. Simonetti69 osserva, aveva ad-

dirittura ricondotto la perdita della capacità di comunicare interiormente e, di

conseguenza, la necessità di ricorrere alla mediazione del signum, all’originario

peccato di superbia70.

Constatata l’ineminabilità della scrittura, uno dei modi in cui, secondo Ago-

stino, doveva declinarsi il vincolo di unione entro la comunità era la trasmis-

sione delle regole e delle tecniche esegetiche da parte di un maestro, custode

dell’unica chiave d’accesso alla verità. Tale convinzione è formulata senza esi-

tazione nel prologo del trattato: «Piuttosto, ciò che deve apprendere per opera

69Cfr. [?, pp. 371-2]70Agostino esprime questa convinzione per mezzo della suggestiva metafora della sorgente -

che zampillava nell’interiorità dell’uomo prima del peccato originale - e della pioggia, necessariaal suo sostentamento dopo la caduta. «Una sorgente infatti - dice la Scrittura - sgorgava dalla terrae irrigava tutta la superficie della terra. Sgorgava naturalmente dalla terra di cui il Salmista dice:La mia speranza sei tu, la mia sorte sei tu nella terra dei viventi. Quando però l’anima venivairrigata da questa sorgente, non aveva ancora gettato via l’intimo del proprio cuore a causa dellasuperbia. Poiché l’inizio della superbia dell’uomo è allontanarsi da Dio. E poiché, gonfiandosiper superbia verso l’esterno, non fu più irrigato dalla sorgente intima, giustamente l’uomo vie-ne schernito con le parole d’un profeta e gli viene detto: Perché mai s’insuperbisce chi è terra ecenere? Nella sua vita infatti gettò via il proprio intimo. Orbene, che cos’altro è la superbia senon abbandonare l’intimo segreto della coscienza e desiderare d’apparire ciò che non si è?» Eccoperché, affannandosi ormai nella coltivazione della terra, l’uomo ha bisogno delle piogge cadutedalle nubi, cioè dell’insegnamento impartito con parole umane, al fine di potere anche, in tal mo-do, rinverdire sottraendosi all’aridità e diventare di nuovo verzura dei campi. Ma volesse il cieloche accogliesse volentieri dalle stesse nubi anche la pioggia della verità! Poiché per farla pioverenostro Signore si degnò di assumere la nube della nostra carne, sparse la pioggia del santo Vangeloin larghissima abbondanza e promise altresì che, se uno berrà dell’acqua di lui, tornerà a quell’in-tima sorgente, per non cercare la pioggia al di fuori. Poiché egli afferma: Diventerà in lui sorgented’acqua che zampilla per la vita eterna. È questa - penso io - la sorgente che sgorgava dalla terraprima del peccato e irrigava tutta la superficie della terra, poiché era interiore e non aveva bisognodell’aiuto delle nubi. Dio infatti non aveva ancora fatto piovere sulla terra né v’era l’uomo che lacoltivasse. Infatti, avendo detto: Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, soggiunge anchela causa per cui non aveva ancora fatto piovere sulla terra: Poiché non v’era l’uomo che la colti-vasse. Ora, l’uomo cominciò a coltivare la terra quando, dopo il peccato, fu scacciato dalla felicitàche godeva nel paradiso. Così, infatti, sta scritto: Il Signore Dio allora lo scacciò dal paradiso didelizie, affinché coltivasse la terra dalla quale era anche stato tratto; cosa questa ch’esamineremoa suo luogo. Ma io l’ho ricordata adesso perché comprendessimo che all’uomo che lavora nellaterra, che cioè si trova nell’aridità dei peccati, è necessario - come la pioggia che cade dalle nubi -l’insegnamento divino impartito con parole umane. Questa scienza però sarà annullata. Adessoinfatti noi vediamo in modo confuso, come se andassimo cercando il vital nutrimento nell’oscurità,allora invece vedremo a faccia a faccia, quando tutta la superficie della nostra terra sarà irrigatadalla sorgente interiore dell’acqua zampillante. Se infatti la sorgente, di cui sta scritto: Una sorgen-te inoltre sgorgava dalla terra ed irrigava tutta la superficie della terra volessimo intenderla comeuna sorgente d’acqua visibile, non sarebbe verosimile che si fosse seccata solo quella che irrigavatutta la superficie della terra, dal momento che si trovavano tante sorgenti perenni sia di ruscelliche di fiumi per tutta la terra» (Gen. ad man. II, 56).

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4.2. AGOSTINO E L’ELOQUENZA CRISTIANA 153

d’uomo apprenda senza superbia, e un altro che ha appreso da lui trasmet-

ta senza superbia e invidia ciò che ha imparato: non tentiamo colui nel quale

abbiamo creduto perché non accada che, ingannati da queste astuzie e dalla

malvagità del nemico, non vogliamo andare neppure in chiesa ad ascoltare ed

imparare il Vangelo, e neppure leggerlo da noi stessi, né ascoltare chi lo legge

e lo predica, aspettando di essere rapiti al terzo cielo, sia nel corpo sia fuori del

corpo - come dice l’apostolo - e ascoltare là parole ineffabili che uomo non può

pronunciare, o vedere là il Signore Gesù Cristo e ascoltare da Lui il Vangelo,

piuttosto che da un uomo» (5, 71-83).

Alla dimostrazione della legittimità dell’insegnamento nel suo complesso

segue, all’inizio del quarto libro, quella relativa in modo specifico alla seconda

sezione in cui l’insegnamento stesso doveva articolarsi e che, secondo il già ci-

tato schema dell’invenire e del proferre, interessava propriamente quest’ultimo.

Dato il considerevole lasso di tempo che intercorse tra la composizione dei pri-

mi tre libri e dell’ultimo, sulle cui probabili ragioni si è in precedenza discus-

so71 , Agostino avvertì la necessità di esordire con una sorta di nuova introdu-

zione che, oltre a richiamare la partizione dell’opera, riproponesse una difesa

dell’utilità della retorica come strumento di fede. Quest’argomentazione occu-

pa i primi sette capitoli del libro e si conclude con la proposta originalissima

di un’eloquenza cristiana che Agostino elabora sia dal punto di vista tecnico,

assumendo Cicerone come riferimento, sia da un punto di vista che si potrebbe

definire estetico e che culmina nell’estensione dello statuto di modello anche

agli autori cristiani.

Le convinzioni di fondo di Agostino riguardo alla retorica non erano di-

stanti da quelle di Cicerone e si riassumevano in quella secondo cui la bellezza

e l’efficacia dell’espressione dovevano essere il rivestimento di contenuti ade-

guati. Fu proprio il mantenimento di una prospettiva che affermava il carattere

moralmente neutro della disciplina in sé a consentirgli di valorizzare le Scrit-

ture anche da un punto di vista letterario e di mostrare l’inconsistenza di ogni

rifiuto operato in linea di principio: «Dato perciò che la capacità di parlare è

moralmente neutra (Cum ergo sit in medio posita facultas eloquii) ed è molto effica-

ce per sostenere argomenti sia cattivi sia buoni, perché mai la persona dabbene

71Cfr. § 2.4.

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154 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

non si dovrebbe mettere in condizione, grazie a questo studio, di battersi per

la verità, dal momento che i malvagi se ne servono per far prevalere cause di-

soneste e prive di fondamento a beneficio dell’iniquità e dell’errore?» (IV, ii,

3).

Nonostante questa chiara presa di posizione, tuttavia, Agostino manteneva

di fatto un atteggiamento velatamente ambivalente, percepibile, ad esempio,

nel ridimensionamento subito operato dell’importanza dell’eloquenza, presen-

tata come un complesso di osservazioni e di regole (observationes atque prae-

cepta) correlate al possesso di un’abitudine (consuetudo), la cui opportunità di

apprendimento era limitata alle fasi iniziali della formazione, oltre che subor-

dinata alla presenza di adeguate doti naturali (ingenium). All’origine di questa

complessità vi era, ancora una volta, la percezione ingombrante della com-

ponente operativa che caratterizzava il concreto esercizio della retorica e che

implicava il coinvolgimento di facoltà diverse rispetto alla ragione, come l’im-

maginazione, la capacità mimetica e la memoria. Significativa, a questo propo-

sito, era la negazione del carattere prioritario dell’apprendimento della regola

connesso al riconoscimento dell’imitazione del parlare eloquente quale meto-

do adeguato e sufficiente per la formazione dell’oratore. Questa ammissione,

che identificava nell’acquisizione di un abitudine tramite ripetizione un requi-

sito fondamentale per il possesso dell’arte, obbligava Agostino a farsi carico di

un aspetto che aveva spesso motivato la svalutazione, quando non addirittu-

ra il disprezzo per questo genere di attività, facendogli assumere il medesimo

atteggiamento combattuto e oscillante che esibiva nei confronti della musica.

Origine di tale inquietudine era la già riscontrata diffidenza nei confronti

di tutte le attività dell’animo sottratte al controllo della parte razionale ma che,

tuttavia, erano caratterizzate da una riproducibiità e da un grado di efficacia

che le rendeva determinanti nel contesto di alcune attività. Non potendo esse-

re coltivate attraverso lo studio, poiché i meccanismi che ne stavano alla base

non erano conoscibili dalla ragione, né la loro applicazione era mediata razio-

nalmente, tali capacità potevano essere potenziate solo tramite un esercizio che

non differiva, nella sua essenza, da quello che consentiva ai bambini di impa-

rare a parlare: «Ordunque, dal momento che i bambini imparano a parlare solo

a forza di ascoltare quelli che parlano, perché mai uno non potrebbe diventare

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4.2. AGOSTINO E L’ELOQUENZA CRISTIANA 155

eloquente senza apprendere l’arte del dire, ma a forza di leggere e ascoltare e,

per quanto vi riesce, imitare il modo di esprimersi di persone eloquenti? che

dire, dato che possiamo provare anche con esempi che ciò avviene? conoscia-

mo infatti molti che, pur privi di istruzione retorica, sono più eloquenti di molti

che l’hanno appresa; non ne conosciamo nessuno, invece, che lo sia diventato

senza aver letto e ascoltato i discorso di persone eloquenti» (III, v, 40).

Queste considerazioni offrono l’occasione di soffermarsi brevemente sul

modo in cui, concretamente, l’oratore acquisiva la sua abilità. Il metodo classi-

co prevedeva tre momenti principali: innanzitutto l’insegnamento delle regole

(praecepta), poi l’imitazione dei modelli (imitatio) e, infine, la libera composi-

zione su un tema dato (declamatio). Il passo riportato informa che Agostino

considerava l’imitatio come il metodo più efficace per acquisire la consuetudo

dell’eloquenza, mentre lo studio delle regole, per quanto ancora valutato come

un aspetto fondamentale, poneva la preoccupazione che lo sforzo applicativo

potesse compromettere la spontaneità dell’eloquio. Per Agostino, come per

Cicerone, il fatto che l’assimilazione delle regole passasse attraverso l’imita-

zione e che, di conseguenza, il loro possesso fosse di fatto inconsapevole non

aveva carattere problematico, anzi. Lo studio dei modelli non era impostato

in senso normativo, ma consisteva in un assorbimento graduale, secondo un

procedimento che si potrebbe definire induttivo72. Per contro, il rispetto dei

praecepta che poteva essere verificato nei discorsi degli oratori competenti, non

doveva essere attribuito a una consapevole e puntuale applicazione, quanto,

piuttosto, a un’abitudine acquisita, affine all’automatismo. Questa circostanza

sanciva la precedenza dell’abilità sul possesso della regola e, più in generale,

del momento pratico su quello teorico.

Tornando alla similitudine istituita da Agostino tra l’apprendimento del

linguaggio e l’acquisizione dell’abilità retorica, è necessario rilevare un’aspet-

to che rendeva le due situazioni non perfettamente sovrapponibili, mettendo

in luce una differente declinazione strumentale della parola. Ciò che manca-

va nel primo caso, infatti, era l’interazione con la componente emotiva, intesa

come assimilazione della capacità di agire sull’animo che, invece, rappresen-

tava la principale risorsa dell’oratore qualora il suo obiettivo non fosse stato

72Cfr. J. Murphy, op. cit. p. 74.

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156 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

quello di istruire, esporre un argomento o fugare un dubbio, ma quello di in-

durre l’ascoltatore ad assumere un dato comportamento, producendo l’assenso

a qualcosa che egli già riconosceva essere vero. In questo caso, infatti, l’aspet-

to essenziale della comunicazione non consisteva tanto nella trasmissione di

informazioni, quanto nel determinare in un modo piuttosto che in un altro la

decisione, facendo ricorso a tutti i possibili mezzi a disposizione.

L’esempio proposto da Agostino per offrire un saggio dell’eloquenza na-

turale di autori cristiani che non possedevano una cultura raffinata come San

Paolo è tratto dal libro di Amos, un profeta di cui erano note la rusticità e una

certa rozzezza nell’espressione ma che, nonostante ciò, dimostra un notevole

grado di efficacia nel contesto di un’invettiva contro gli ebrei. Oltre al suo va-

lore di esempio, tuttavia, il passo merita di essere segnalato anche dal punto di

vista del contenuto, in quanto contiene un’implicita valutazione del significato

della musica. La parte più suggestiva della citazione, in cui il profeta elenca

con concitazione gli eccessi e le sregolatezze degli ebrei, è quella conclusiva,

in relazione alla quale Agostino osserva come i toni dell’invettiva si smorzino

sensibilmente in corrispondenza con il riferimento alla musica:

Voi che siete stati messi a parte per il giorno nefasto e vi appres-sate al trono dell’iniquità, voi che dormite in letti d’avorio e sietemollemente adagiati sui vostri divani, voi che mangiate l’agnellodel gregge e il vitello preso dall’armento, voi che cantate al suonodel salterio. Hanno creduto di avere strumenti musicali come Da-vide, mentre bevono vino nelle coppe e si ungono dei più preziosiprofumi (VII, vii, 16).

Il riferimento a Davide esclude, come Agostino sostiene, l’applicazione di una

condanna generalizzata alla musica, la quale non risulta dunque equiparata

agli altri vizi e ammette la possibilità di quella che, in altri luoghi delle sue ope-

re, egli descrive come pia musica concessa da Dio agli uomini ad admonitionem

magnae rei73. Scrive infatti Agostino, nel De Civitate Dei:

Davide era un uomo che possedeva l’arte del canto e amava l’ar-monia musicale, non per piacere comune, ma per impegno di fede,servendo il suo Dio che è il vero Dio, e raffigurando quindi unagrande realtà. Infatti l’accordo razionale e misurato di diversi suo-ni richiama nella sua concorde varietà l’unione organizzata di unacittà bene ordinata.

73Cfr. ep. 101, 4; 166, 13; civ. XVII, 14.

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4.2. AGOSTINO E L’ELOQUENZA CRISTIANA 157

La distinzione tra musica sapientis e musica luxuriantis sembra qui ricalcare quel-

la tra l’eloquenza spontaneamente scaturente dal concetto74 e quella non ma-

gniloquente, ma gonfia (non magnitudine, sed tumor) dell’eloquio compiaciuto

di sé. Tale condanna che, manifestamente, interessava il fine di tali attività

pronunciandosi qualora esso finisse per coincidere con il piacere, non era però

collegata al fatto di eccedere l’argomentazione razionale coinvolgendo l’emoti-

vità dei fedeli, anzi. Alla fine dell’analisi del passo di Amos, infatti, Agostino si

preoccupa di rimarcare che esso ottiene sì di istruire il buon ascoltatore, ma an-

cor di più di infiammarlo, se pronunciato con passione (si ardenter pronuntietur,

accendit). Il fatto che, subito dopo, egli avverta la necessità di ridimensiona-

re tale concessione alla componente non razionale dell’anima precisando che

il potere di quell’eloquenza non deriva dall’abilità dell’uomo (neque enim haec

humana industria composita), ma può essere effuso solo da una mente ispirata

(sed divina mente sunt fusa) non fa che confermare il riconoscimento della na-

tura straordinaria dello strumento tramite la messa in luce della sua origine

divina, con cui si profila, implicitamente, il giudizio di ogni tentativo umano

di emulazione come atto di superbia.

Una volta posta la condizione, necessaria ma non sufficiente, della verità

dell’insegnamento da trasmettere75, Agostino entra nello specifico con la trat-

tazione del quo modo, trasferendo così il polo dell’attenzione dall’oratore al-

l’uditorio. La consapevolezza della rilevanza della forma espressiva del mes-

saggio era emersa nel corso della sua esperienza pastorale, durante il quale

egli aveva potuto constatare come la verità dell’insegnamento comunicato non

avesse di per sé la forza di ottenere la conversione dei fedeli, di passare cioè dal

piano dell’accoglimento della parola a quello della sua traduzione negli atti76.

Agostino riconosce apertamente che un discorso animato dal solo proposito

di insegnare avrebbe potuto avere efficacia solo nei confronti di pochi e scelti

uditori, ben disposti e di acuta intelligenza. Proprio per questo, tra i compiti

dell’eloquenza cristiana egli aveva giudicato opportuno mantenere, accanto al-

l’insegnamento, quello di dilettare e di convincere, in sostanziale accordo con

74«Quasi che la sapienza stessa venga fuori dalla sua casa, cioè dal petto del sapiente e che,sebbene non chiamata, segua come inseparabile ancella» (IV, x, 37-9).

75«Sia meno compreso, piaccia meno, commuova meno ciò che vien detto, ma sia detto il vero, esi ascolti volentieri ciò che è giusto, non ciò che è iniquo» (IV, xiv, 30).

76Cfr. IV, xii, 27.

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158 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

quanto aveva affermato Cicerone77: «Uno che si intendeva di eloquenza ha

detto, e ha detto il vero, che l’uomo eloquente deve parlare per insegnare (ut doceat),

per dilettare (ut delectet) e per convincere (ut flectat). Poi ha aggiunto: insegnare è

una necessità, dilettare è un piacere, convincere è la vittoria» (IV, xii, 27).

La gerarchia che ordinava le tre funzioni dell’eloquenza nella visione ago-

stiniana era nettamente definita, ma stante l’indiscutibile priorità del docere per

gli insegnamenti di carattere esclusivamente dottrinale, egli era incline a ri-

conoscere nel movere l’unica possibilità di vincere l’inerzia e l’ostinazione dei

fedeli. Quanto al delectare, l’unica funzione che ad esso poteva essere coerente-

mente attribuita in una concezione esclusivamente strumentale dell’eloquen-

za, era quella ausiliaria, limitata all’induzione di una disposizione favorevole

nell’uditorio, atta ad accrescere il più possibile l’efficacia del docere78.

La relazione tra docere, movere e delectare si riflette anche nella tripartizione

agostiniana degli stili retorici che ripropone, nella sostanza, quella tradiziona-

le. A differenza della retorica classica, tuttavia, i tre stili indicati da Agostino,

submissus, temperatus, grandis, non erano vincolati dal punto di vista del lo-

ro impiego al grado di importanza dell’insegnamento da comunicare, perché

tutti i possibili argomenti dell’eloquenza cristiana, indistintamente centrati sul

tema della salvezza dei fedeli, potevano avere un’importanza decisiva. La scel-

ta dello stile da applicare di volta in volta doveva essere operata, piuttosto, in

funzione dell’intento dell’oratore che, a seconda che fosse quello di insegna-

77Cfr. Orator 69. Come rileva Simonetti, uno scostamento significativo da Cicerone riguarda lanozione di insegnamento, per indicare la quale Agostino usa non il termine probare, troppo legatoal contesto dell’oratoria forense e determinato esclusivamente dalla finalità di vincere la causa,ma docere, più adatto al contesto della spiegazione della Scrittura. Un’altra differenza rispettoa Cicerone consiste nell’assegnazione di un valore morale all’obiettivo del movere: se, infatti, laretorica giudiziaria aveva di mira solamente la persuasione dell’uditorio per la vittoria della causa,quella cristiana doveva indurre a ubbidire a una norma modificando il comportamento del fedeleper fargli meritare la salvezza. Quando «chi ascolta pur sapendo che cosa c’è da fare non lo fa»(IV, xii, 28), osserva Agostino, può essere utile dilettarlo per trattenerlo ad ascoltare (ut teneatur adaudiendum) e convincerlo per spingerlo all’azione (ut moveatur ad agendum). Il fine di quella cheAgostino chiama grande eloquenza viene così posto, in accordo con la tradizione classica, nellamozione degli affetti finalizzata a produrre l’azione.

78«Ma di quest’ultimo obiettivo noi che bisogno abbiamo? lo ricerchino quanti si gloriano dellaloro lingua e menino vanto dei panegirici e di discorsi siffatti, con i quali non si deve né istruire,né convincere a fare qualcosa, ma soltanto dilettare l’ascoltatore. Noi, invece, questo fine trasferia-molo ad altro fine: cioè il fine che vogliamo conseguire quando parliamo con stile elevato, perse-guiamolo anche con lo stile temperato, per ottenere che siano prediletti i buoni costumi ed evitatiquelli cattivi, nel caso che gli ascoltatori non siano più così lontani da questo modo di comportarsida dovervi essere spinti con l’eloquenza del genere elevato. (...) Possiamo perciò far uso anchedell’ornamento proprio del genere temperato, non però con ostentazione, ma in modo assennato,non contentandosi di dilettare gli ascoltatori, ma mirando piuttosto che anche così essi venganoincoraggiati al bene di cui li vogliamo persuadere» (IV, xxv, 55).

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4.2. AGOSTINO E L’ELOQUENZA CRISTIANA 159

re, lodare, biasimare o spingere ad adottare un certo comportamento, risultava

più congruente, rispettivamente, con lo stile semplice, con quello temperato o

con quello elevato (IV, xix, 38).

A questo proposito, in relazione alla corrispondenza tra lo stile dell’eloquio

e il fine dell’oratore, sembra possibile cogliere nel testo di Agostino l’allusione

all’esistenza di un livello ulteriore di espressività, di cui si intende formulare

un’ipotesi in accordo con la linea espressa dalla presente ricerca. Tale allusione

è suggerita dal fatto che quando l’orazione si trasforma in lode di Dio, nella

sua Persona e nelle sue opere, l’emozione che Agostino lascia trasparire nel

tentativo di esprimere la bellezza e lo splendore (quanta facie pulchra ac splen-

didae dictionis) del «modo di parlare di chi può, per quanto può, lodare colui

che nessuno loda adeguatamente, eppure ognuno cerca in ogni modo di loda-

re» (IV, xix, 33), richiama l’emozione inesprimibile in cui egli riconosce la fonte

ispiratrice dello jubilus alleluiatico79. Questa vicinanza, sancita dall’esaltazio-

ne del libero fluire della voce sotto l’azione della carica emotiva indotta dalla

sublimità dell’oggetto, sembra sottointendere, alla luce del superamento della

componente contenutistica del linguaggio che il canto dello jubilus realizza, lo

svincolamento della voce dal ruolo puramente strumentale della comunicazio-

ne, in linea con la tendenza al depotenziamento della componente intellettuale

che ordina la gradazione dei tre stili retorici. Se lo stile submissus sottointende

un vero e proprio uso del linguaggio, esaurendo la propria funzione nel far

emergere con chiarezza la linea argomentativa dell’insegnamento proposto, lo

stile temperatus dimostra un’attenzione specifica per il mezzo linguistico, evi-

dente nel ricorso a figure di dizione e di elocuzione (figurae verborum, schémata

léxeos), mentre lo stile grandis, pur mantenendo il concetto di una presenza an-

cora strumentale del linguaggio, oltrepassa lo stadio dell’ornamentazione per

cercare, nelle cosiddette figure del pensiero (figurae sententiarum, schémata dia-

noías), un modo per interagire efficacemente con i moti dell’anima (IV, xx, 42).

Dello stile elevato, infatti, Agostino afferma che esso «è spinto dal suo stesso

impeto e la bellezza dell’espressione, se la si trova nel suo discorso, l’ottiene

con la forza degli argomenti, non se la procura con la ricerca della parola ag-

grazziata. Per il fine che si propone gli è sufficiente che le parole adatte non

79Cfr. § 5.1.

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160 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

vengano scelte in funzione dell’effetto esteriore del suono (oris industria), ma

segnino l’ardore del cuore (pectoris ardorem)».

A fronte di questa innegabile riaffermazione della priorità del contenuto,

tuttavia, è necessario distinguere l’artificio gradevole dello stile temperato, che

esaurisce il proprio significato nella presentazione abbellita del concetto, dal-

l’effusione incontenibile che colma il vuoto lasciato dalla dissoluzione di que-

st’ultimo e che, come nel melisma dello jubilus, perviene al definitivo supera-

mento della dimensione strumentale del linguaggio con l’affidarsi all’imme-

diatezza espressiva della forma dei suoni. Da un lato opera una cura per la

forma che se ne serve in quanto mediazione, dall’altro, invece, si dispiega una

modulatio spontaneamente misurata e coincidente, in virtù di un originario rap-

porto di somiglianza, con il movimento interno all’animo80. Se gli abbellimenti

e, in generale, lo sfoggio virtuosistico possono al più sortire l’effetto di recare

diletto, trovando tipicamente nell’applauso e nell’acclamazione il giusto rico-

noscimento da parte dell’uditorio, la commozione che lo stile elevato e una

certa musica hanno il potere di produrre nell’animo di chi ascolta trova vie

di esternazione molto diverse: «E sono molte altre le espressioni dalle quali

abbiamo appreso che la gente manifesta l’effetto che su di essa ha esercitato

un discorso sapiente pronunciato in stile elevato, non tanto con grida quanto

con gemiti (non clamore potius quam gemitu), talvolta anche con lacrime e infine

col mutamento del modo di vita» (IV, xx, 53). O ancora, poco oltre: «Con le

acclamazioni davano a vedere di imparare e trarre diletto, ma con le lacrime

indicavano che erano stati convinti».

La concezione della retorica come strumento neutrale comportava, nella

visione agostiniana, la presa di distanza da due posizioni, entrambe estreme,

ovvero sia da quella della sofistica di ispirazione gorgiana, concentrata sul-

80Agostino dimostra una profonda conoscenza della sfera emotiva, sia della sua costitutiva mu-tevolezza, sia della regolarità che consente di prevederne e, con ciò, di dominarne il mutamento.La vivida immagine del moto ondoso del mare di egli cui si serve per suggerire il criterio concui operare l’alternanza degli stili nell’ambito di uno stesso discorso esprime in modo altrettantoefficace quella che potrebbe essere definita la forma dell’emozione, l’andamento del suo evolver-si per accumulo e scarico di tensione, costitutivo anche della frase musicale. Molto interessante,poi, è la consapevolezza dei limiti fisiologici dell’ascoltatore, appresa quasi certamente durantel’esercizio della professione di retore. Oltre ai suggerimenti su come mantenere alto il livello diattenzione dell’uditorio, Agostino non trascura di osservare che lo sconvolgimento emotivo messoin atto dallo stile elevato è complementare alla difficoltà di sostenenerlo nel lungo periodo senzal’insorgere di un effetto sfibrante sull’ascoltatore, ovvero, secondo metafora, senza farlo precipitaredall’altezza cui era stato spinto (IV, xxii, 51).

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4.2. AGOSTINO E L’ELOQUENZA CRISTIANA 161

la forma dell’elocuzione, sia da quella esemplificata dai cosiddetti carismatici,

contro i quali Agostino si era difeso preventivamente nel prologo del suo trat-

tato, contraddistinta dall’affermazione dell’autosufficienza espressiva del con-

tenuto nel caso in cui quest’ultimo veicolasse la parola divina. Questa convin-

zione, che Murphy denomina efficacemente come «eresia retorica platonica81»

a causa del suo allineamento con la posizione esposta nel Gorgia e nel Protagora,

appariva agli occhi di Agostino forse ancora più insidiosa della vuota eloquen-

za propagandata dai sofisti perché, dimostrando di non tenere minimamen-

te in considerazione le caratteristiche e i limiti del fenomeno comunicativo in

quanto tale, offriva il fianco agli avversari del Cristianesimo che, di tale utile

strumento, sapevano fare invece un uso molto accorto.

81Cfr. J. Murphy, op. cit. p.71.

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162 CAPITOLO 4. ARS RETHORICA

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Capitolo 5

Musica practica

5.1 Origini del repertorio musicale

5.1.1 Le prime forme

Non è cosa agevole ricostruire l’evoluzione del canto cristiano nella fase ini-

ziale della sua formazione: i primi codici con melodie notate, infatti, risalgono

alla fine del IX secolo, quando la liturgia e l’apparato musicale avevano ormai

raggiunto un certo grado di definizione. Le melodie che tali codici riportano,

inoltre, rispecchiano solo in modo molto vago quelle effettivamente esegui-

te dai primi cristiani poiché, con la riforma carolingia attuata in quegli anni,

queste ultime erano state sostituite da un canto inedito, nato dalla sintesi di

tradizioni precedenti e che in seguito sarebbe stato denominato gregoriano, dal

nome del Pontefice che aveva presieduto alla sua formazione. L’attuazione di

tale progetto, animato da un’intento di unificazione religiosa e culturale del-

l’impero carolingio che, significativamente, aveva individuato nel canto sacro

un potente strumento di aggregazione e di costruzione dell’identità popola-

re, comportò il decadimento dei repertori che si erano formati gradualmente a

partire dal IV secolo, in stretta dipendenza dalla collocazione geografica. Tra

tutti, il romano antico, il gallicano, l’ispanico e l’ambrosiano, solo quest’ultimo

riuscì a sfuggire al processo di omologazione e a difendere un’autonomia in

ambito liturgico e musicale che vige tuttora.

La notazione musicale dei primi codici era adiastematica, detta anche ’in

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164 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

campo aperto’ per alludere alla mancanza di un sistema di riferimento in gra-

do di determinare con precisione l’altezza e la durata dei suoni. Ciò compor-

tava, con ogni evidenza, che la sua utilità fosse limitata all’offerta di un sup-

porto mnemonico, riservato a chi già conosceva a memoria la melodia. Que-

sta prassi mantenne un carattere ordinario almeno sino al X secolo, per cui è

possibile affermare che, per quasi tutto il primo millennio dell’era cristiana, la

trasmissione del repertorio fu esclusivamente orale.

La completa assenza di documenti musicali ha reso difficoltosa la ricostru-

zione della storia dei primi secoli del canto cristiano che, a differenza dei re-

pertori formatisi in un secondo momento, a partire dal IV secolo, non conob-

be nemmeno una redazione tardiva. Gli studiosi che hanno intrapreso questa

ricerca hanno dovuto dunque procedere forzatamente formulando ipotesi in

massima parte relative allo studio della liturgia negli scritti neotestamentari,

i quali rappresentano l’unico riferimento in grado di far luce sui primi esiti

dell’incontro fra la cultura ebraica e la tradizione greco-romana.

Tra gli elementi che dal culto giudaico si trasmisero a quello cristiano, quel-

lo che appare maggiormente significativo in questo contesto è il grande rilie-

vo attribuito alla dimensione interiore dell’uomo, espresso, ad esempio, nelle

frequenti esortazioni alla purificazione e alla conversione del cuore. Questo

aspetto, che S. Paolo esprime attraverso una potente metafora affermando che

«noi siamo il tempio del Dio vivente» (2 Cor. 6, 16), richiama immediatamente

un altro elemento del monoteismo giudaico-cristiano, ovvero l’atteggiamento

di ascolto della parola divina che si manifesta, pur mantenendo un’assoluta

trascendenza, risuonando nel cuore dei fedeli.

La concezione della parola come sacra è stata da sempre un elemento fon-

damentale sia nel culto ebraico sia in quello cristiano, nell’ambito dei quali si è

resa operante prescrivendo di agire con la massima cautela nella sua trasmis-

sione alla comunità. La consapevolezza che l’atto della proclamazione, di per

sé, non poteva evitare di veicolare un’interpretazione del contenuto trasmesso,

inquinando così la neutralità della comunicazione, produsse l’elaborazione di

tecniche di disciplina della pronuncia che diedero origine alle prime forme di

canto religioso, significativamente assai vicine alla recitazione. Va sottolinea-

to, dunque, che non fu il desiderio di introdurre ornamenti al fine di abbellire,

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 165

quanto, all’opposto, l’intento di sottrarre la parola divina al potere di manipo-

lazione dell’uomo, a motivare l’impiego della musica nella liturgia ebraica e

cristiana1.

Una delle principali eredità ebraiche in ambito musicale è stata la cantilla-

zione, una tecnica che prevedeva la proclamazione di un testo in prosa insisten-

do su una nota detta corda di recita e inserendo semplici formule melodiche in

corrispondenza con le articolazioni del periodo. L’effetto che derivava dalla

sua applicazione era una pronuncia rapida e fluente del testo, che assecondava

il ritmo verbale delle frasi (figura 5.1).

Figura 5.1: Esempio di cantillazione

Per il canto dei testi poetici della Bibbia, come i Salmi e i Cantici, invece,

la tecnica impiegata era quella della salmodia. Essa prescriveva l’applicazione

ricorsiva di una medesima formula musicale a tutti i versetti componenti il te-

sto e, diversamente dalla cantillazione, in cui vigeva il rigoroso rispetto della

struttura fraseologica, era strutturata in modo da far emergere l’individualità

del solo versetto suddiviso in emistichi, senza alcun riguardo per il diverso pe-

so delle cesure interne. Lo schema più semplice per il canto salmodico è quello

mostrato in figura, in cui l’insistenza sulla corda di recita (tenore salmodico)

inaugurata dalla formula di intonazione e conclusa dalla terminatio, è interrot-

ta dalla flexa, da inserire solo in caso di versetti molto lunghi, e dalla cadenza

mediana in corrispondenza della fine del primo emistichio (figura 5.2).

Svariate erano le modalità esecutive della salmodia. Tra di esse le più ricor-1Cfr. G. Baroffio, A. Eun Yu Kim, Cantemus Dominus gloriose. Introduzione al canto gregoriano,

Cremona 2003.

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166 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

Figura 5.2: Esempio di salmodia semplice

renti erano la salmodia diretta, quella responsoriale, quella alleluiatica e quella

antifonata. Nella salmodia diretta il testo veniva cantato da una sola voce senza

altri interventi, mentre nelle altre tre forme si dava un’alternanza tra il solista e

il coro oppure tra due semicori. Più precisamente, nella salmodia responsoria-

le si alternavano il solista che declamava i versetti e l’assemblea che eseguiva

un ritornello, in quella alleluiatica il solista e l’assemblea che cantava una me-

lodia sull’alleluia e infine, in quella antifonata, due semicori che si dividevano

i versetti. Vale la pena di approfondire, per quanto possibile, queste ultime tre

forme, che si trovano citate negli scritti di Agostino e che, comunque, videro

proprio in quegli anni la loro graduale introduzione nella liturgia.

La salmodia antifonica deriva il suo nome dal termine geco antiphonos che,

nel lessico teorico, era usato per indicare l’intervallo di ottava. Quest’etimolo-

gia suggerisce che, almeno inizialmente, i due semicori cantavano a distanza

di un’ottava, il che ha indotto a supporre che fossero composti uno da uomi-

ni e l’altro da donne o da fanciulli2. Conferme in questo senso, del resto, non

mancano: significative, ad esempio, sono quella di Filone di Alessandria3 e di

Eusebio di Cesarea4, che attribuisce questa pratica ai cristiani coevi. All’inizio

del IV secolo il canto antifonico si era diffuso piuttosto ampiamente nel mondo

cristiano orientale, soprattutto a motivo della sua capacità di coinvolgere atti-

2Cfr. [9, p. 249.] Alcuni commentatori, poi, hanno riconosciuto un’allusione alla pratica dellasalmodia antifonata in un passo di Tertulliano, in cui viene descritta la recitazione di un salmo instile responsoriale da parte di una pia coppia di sposi: marito e moglie cantano a due voci salmie inni (sonant inter duos psalmi et hymni) sfidandosi reciprocamente nel tessere meglio le lodi a Dioche, udendoli, si compiace. Cfr. Ad uxorem, II, viii, 8-9; PL I, 1304. Cit. in [90, p. 44.]

3Filone fornisce una descrizione del canto antifonico presso i Terapeuti in un’opera di autenti-cità un tempo messa in dubbio: «Essi stanno riuniti tutti in piedi, e (...) si formano due cori (...),l’uno di uomini e l’altro di donne; e per ciascun coro vi è un corifeo scelto, il quale è il più stimatoe il più valente del gruppo. Quindi essi cantano gli inni composti in onore di Dio in vari metrie melodie, talvolta cantando tutti insieme, e tal’altra rispondendo uno all’altro con arte. Il coromaschile e femminile dei fedeli, col canto e l’alternarsi delle melodie, produce (...) una sinfoniaveramente musicale, nel fondersi delle voci acute delle donne con quelle profonde degli uomini»(De vita contemplativa 64-90). Cit.in [121, p. 74-5.]

4L’opera di Eusebio in cui è possibile trovare il maggior numero di informazioni sulla salmodiaè la Storia Ecclesiastica, in cui è contenuto anche il passo di Filone precedentemente riportato (II,xvii).

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 167

vamente l’assemblea. A partire dalla fine del secolo, in seguito alla sua stabile

adozione da parte di San Basilio a Nicea, di San Giovanni Crisostomo a Co-

stantinopoli e di Sant’Ambrogio a Milano, iniziò ad essere praticato in molti

altri centri della Chiesa latina. Agostino, probabilmente, ebbe modo di ascol-

tare questa forma di salmodia e nel nono libro delle Confessiones conferma che

uno dei suoi aspetti positivi era la capacità di suscitare un fervido senso di

partecipazione nei fedeli:

Non era molto che la Chiesa milanese aveva adottato questa for-ma liturgica di consolazione ed esortazione in cui tutti i fratelli riu-niscono con grande ardore in un sol canto le voci e i cuori. Erapassato infatti un anno o poco più da che Giustina, madre dell’im-peratore fanciullo Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare iltuo Ambrogio a causa dell’eresia in cui era stata trascinata dagliariani. La folla dei fedeli trascorreva la notte in chiesa, pronta amorire con il suo vescovo, tuo servo. (...) Si stabilì allora che inni esalmi venissero cantati secondo il modo orientale per evitare che ilpopolo si consumasse nel tedio della tristezza: e da allora si è con-tinuato a farlo sino ad oggi e questo modo di cantare viene imitatoda molti, anzi da quasi tutti i tuoi greggi in ogni parte della terra(conf. IX, vii, 15).

Va detto che l’espressione "stile orientale" è stata interpretata anche in un altro

modo, che nega validità alla testimonianza di Isidoro di Siviglia (Etym. IV, xix,

8) imputandogli il fraintendimento del termine antiphona nel senso sopra ripor-

tato, per affermare che il passo agostiniano si riferisce non allo stile antifonico,

bensì a quello responsoriale. In ogni caso, per l’economia del nostro discorso,

è sufficiente stabilire che, all’epoca di Agostino, almeno in alcune aree geogra-

fiche era diffusa la pratica di intonare i salmi su formule fisse e che essa era

aveva un fortissimo impatto emotivo sulla sensibilità dei contemporanei5.

Del secondo tipo di salmodia, quella alleluiatica, abbiamo notizie, tra gli

altri, da Ippolito6 e sappiamo che essa era in vigore nella liturgia milanese del

tempo pasquale7. La differenza rispetto alla salmodia responsoriale consisteva

nel fatto che, mentre in quest’ultima l’acclamazione intercalare era solitamente

estratta dal primo versetto del salmo e, dunque, cambiava con esso, nel caso

5Una suggestiva testimonianza in proposito si può trovare in alcuni luoghi dei Carmina di Gre-gorio Nazianzeno, ad esempio là dove afferma che «la salmodia è il rimedio melodico dell’anima»(Car. II, 2). Cit. in [65, p. 39.]

6Cfr. Tradizione Apostolica 25, cit. in [90, p. 47.]7Cfr. [146, pp. 73-113.]

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168 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

della salmodia alleluiatica il ritornello rimaneva immutato, in quanto consiste-

va nell’acclamazione dell’alleluia. Questa parola manifesta una chiara origine

ebraica (hallelu Jah, lodate Dio) e allude all’esternazione di una lode accompa-

gnata da un sentimento di gioia ineffabile che trova espressione in un melisma

vocalico privo di testo detto jubilus. Quest’ultimo veniva cantato sulla sillaba

finale -ia e aveva non di rado una notevole estensione che, nel canto ambrosia-

no, poteva addirittura superare le trecento note. Lo jubilus costituisce un caso

particolarmente interessante di musica indipendente dal testo nel repertorio

monodico cristiano e, non a caso, ha attirato l’attenzione di molti Padri della

Chiesa, tra cui anche Agostino. In più di un’occasione, soprattutto nelle Enarra-

tiones in Psalmos, troviamo infatti affermata con convinzione la tesi secondo cui

la gioiosa esultanza dell’anima può esprimersi solo tramite una musica senza

parole, equivalente a una forma di contemplazione8:

Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza po-ter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti coloro checantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quandosono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano perle parole dei canti a esultare di gioia, ma poi, quasi pervasi da tantaletizia da non poterla più esprimere a parole, lascian cadere le silla-be delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo èun certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò chenon può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dioineffabile? Ineffabile è infatti ciò che non può essere detto: e se nonpuoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, inmodo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilatiimmensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate alui nel giubilo (en. Ps. 32, 8).

E ancora:

È veramente una cosa notevole, una cosa che, se la si compren-de, rende beati. Mi dia pertanto il Signore nostro Dio, lui che co-stituisce la beatitudine degli uomini, la grazia di capire quel cheho da dirvi; e a voi doni la grazia di capire le parole che ascolte-rete. Beato il popolo che comprende il giubilo. Corriamo a questabeatitudine; comprendiamo il giubilo! Non manifestiamolo senzaaverlo compreso! Cosa rappresenterebbe infatti mettersi a giubila-re, obbedendo al salmo che dice: Giubilate a Dio, o terra tutta!, se nonsi capisse il giubilo? se fosse solo la nostra voce a giubilare e nongiubilasse il nostro cuore? Il suono del cuore, infatti, è conoscenza(sonus enim cordis, intellectus est).

8Cfr. [33, p. 14.]

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 169

Vi dirò cose risapute. Chi giubila non pronunzia parole maemette dei suoni indicanti letizia, senza parole. Il giubilo è la vo-ce di un cuore inondato dalla gioia, d’un cuore che, per quanto gliriesce, vuol manifestare i suoi sentimenti, pur senza comprenderneil significato. L’uomo che in preda alla gioia si mette a esultare, daparole che non si riesce né a dire né a comprendere passa a delle gri-da di esultanza ove non ci sono più parole. Dai suoni che emette sivede benissimo che egli è contento ma anche che, sopraffatto dallagioia, non riesce a dire a parole ciò che lo fa godere. Osservate tuttoquesto nei cantori, anche di canzoni disoneste. Non che il nostrogiubilo debba essere come il loro, noi dobbiamo giubilare nella giu-stizia, loro giubilano nell’iniquità; noi nella confessione, loro nellaconfusione; tuttavia, per farvi capire ciò che intendo dirvi o, me-glio, per ricordarvi ciò che già sapete, guardate come giubilano, fragli altri, i lavoratori dei campi. Soddisfatti per l’abbondanza delraccolto, i mietitori, i vendemmiatori, o qualsiasi altro raccoglitoredi frutti, cantano e tripudiano, lieti della fertilità e fecondità dellaterra. In tali canti, espressi a parole, inseriscono delle grida inarti-colate, che palesano l’ebbrezza del loro animo in preda alla gioia. Equesto è ciò che si chiama giubilo. Se qualcuno di voi non capisceancora di queste cose per non averci mai fatto caso, ci badi in avve-nire. E voglia il cielo che non trovi persone in cui osservare di talicose, cosicché Dio non abbia più alcuno da punire. Ma siccome noncessano ancora di spuntare delle spine, osserviamo pure in coloroche esultano malamente il giubilo riprovevole, per offrire a Dio ilgiubilo che merita la ricompensa (en. Ps. 99, 3-4).

Altre testimonianze si trovano, oltre che negli scritti di Sant’Ambrogio, anche

in quelli di poeti e scrittori latini come Varrone, Marco Aurelio e, molto più

tardi, Cassiodoro9, che lo presenta come un «ornamento per la lingua dei can-

tori». Questo riscontro, aggiunto alla somiglianza rilevata da Agostino tra lo

jubilus e un tipo di canto dei marinai romani detto celeusma, suggerisce che

l’esecuzione di lunghi vocalizzi senza testo non fosse diffusa solamente presso

gli ebrei10. Uno dei primi riferimenti negli scritti dei Padri della Chiesa latini

è contenuto in un passo del Tractatus in psalmos di Ilario di Poitiers11 (315-367),

in cui il termine jubilus viene descritto come un suono prolungato, di ambien-

tazione originariamente agreste, e distinto dal greco12 alalagmós, l’urlo di batta-

9Cfr. PL 70, 742.10Analoga testimonianza si trova nel Breviarium in psalmos dello Pseudo-Gerolamo: «È chiamato

jubilus perché né tramite parole, né tramite sillabe, né tramite lettere può essere espresso o compre-so quanto l’uomo debba pregare Dio» (PL 26, 917). Per quanto riguarda invece l’uso del celeusma,un riferimento è contenuto nell’epistola XIV, Ad Heliodorum monachum, PL 22, 353. Cit. in [90, p.140.]

11Cfr. PL 9, 425. Cit. in [90, p. 124.]12Nella versione dei Settanta il termine greco corrisponde all’ebraico teru’ah, che presenta

l’analogo significato di canto di vittoria.

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170 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

glia, che, a differenza del primo, indicava una vera e propria esplosione, simile

a quella del Salmo 47: «Applaudite, popoli tutti, acclamate Dio con impeto di

gioia (vox exultationis)» (Ps. 47, 2).

Un aspetto di capitale importanza riguarda la valutazione etica di questo

canto sine verbis, che non viene indicato da Agostino come un pericolo per l’a-

nima ma, al contrario, riportando le parole di C. Panti13, come «un’esperienza

assoluta, non solo emozionale, ma mistica», in cui si manifesta la convinzione

che solo il suono disarticolato può esprimere l’ineffabile. La ragione ultima di

ciò, secondo la studiosa, consiste nel fatto che l’anima che cerca di rivolgersi di-

rettamente a Dio, senza la mediazione del segno, lo può fare solamente perché

Dio stesso ha posto in essa un verbum che al suo interno già riluce prima di ogni

espressione linguistica, preordinandone l’occulta familiaritate14 con il modus del

canto e lo stato d’animo da esso indotto15.

In quest’ottica è possibile avanzare un’interpretazione dello jubilus come

espressione correlata, da parte dell’uomo, alla chiamata di Dio secondo la teo-

ria agostiniana della grazia: se tale chiamata, come si è visto16, costituisce l’e-

sito di un atto volontario radicalmente libero del Creatore, il canto nel giubilo

effuso dalla creatura, schiacciata sotto il peso di questa libertà assoluta, non

può che elevarsi secondo un modus stabilito da Dio stesso, la cui comprensione

realizza la più alta beatitudine accessibile all’uomo. In questo senso, dunque,

Agostino afferma che il suono del cuore è conoscenza, conoscenza di un ogget-

to non più imprigionabile in un significato, ma in grado di imprigionare l’a-

nima per mezzo del puro suono. E in questo senso deve essere letta l’assenza

di timore nei confronti del potere straripante insito nella prorompente fisici-

tà17 dello jubilus il quale, distinto dalla melodia che identifica semplicemente

la componente fonica della parola ordinaria, fluisce in un’unica direzione, dal-

l’uomo a Dio, al fine di esprimere la gioia assoluta per il possesso di ciò che

Dio stesso ha posto nell’anima dell’uomo.

13[104, p. 183.]14Cfr. conf. X, xxxiii, 49.15Con una somiglianza che merita forse di essere approfondita, anche Platone, nello Ione, aveva

attribuito al poeta una forma di ispirazione di origine divina, capace di infondere non solo lacapacità tecnica di comporre, ma anche la forma espressiva. Cfr. ad esempio 534 b e 536 c-d.

16Cfr. § 4.2.17C. Panti osserva che tale fisicità si manifesta anche sul piano etimologico, poiché la radice

del termine greco alalagmós, alála, rivela nella sua origine onomatopeica il riferimento al gridodell’esercito vittorioso. Cfr. C. Panti, op. cit. p. 186.

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 171

Una qualità che sembra dipendere dalla natura stessa di questo rapporto di

comunicazione privilegiato tra l’uomo e Dio, infine, è il carattere individuale

del canto dello jubilus, che Agostino, se questa ipotesi fosse corretta, sarebbe

stato il primo ad affermare. Liturgisti e musicologi si sono chiesti quale fosse

il contesto specifico di questo canto, se davvero esso fosse identificabile con il

melisma alleluiatico o se riguardasse altre occasioni di intonazione di vocalizzi.

Ciò che è possibile ricavare dai testi non è sufficiente a dirimere la questione

poiché i riferimenti sono piuttosto vaghi. La linea interpretativa prevalente

tende a sostenere che lo jubilus di cui parla Agostino non possa essere iden-

tificato con il vocalizzo alleluiatico, ma che esso, comunque, si inserisse nella

salmodia responsoriale e, dato maggiormente rilevante, che non contemplasse

l’esecuzione da parte di un solista18. A fronte di ciò, C. Panti19 mantiene affer-

mato il collegamento con la dimensione interiore dell’uomo, animata da una

presenza di Dio che configura il canto come pura modulatio, superamento del

piacere nella gioia sublime, poiché ciò non contraddice il dato concreto della

prassi musicale.

Canto di lode a Dio di sicura esecuzione comunitaria era, invece, l’inno,

termine che rimase piuttosto vago nel primi secoli del Cristianesimo e di cui

Agostino dà la seguente definizione:

Cosa sia un inno, lo sapete. È un canto che ha per tema la lode diDio. Se lodi Dio ma non canti, non dici un inno; se canti ma non lodiDio, non dici un inno; se lodi qualcosa che non rientra nell’ambitodella lode divina, anche se lodi cantando, non dici un inno. L’innoquindi include tre cose: il canto, la lode, e la lode di Dio; per cuiuna lode elevata a Dio mediante un cantico la si chiama inno (en.Ps. 148, 17).

Il termine hymnos era stato usato anche dagli antichi greci con un analogo signi-

ficato di canto in onore della divinità, come nel caso dei celebri inni omerici, ma

la struttura di queste composizioni era molto ben definita, caratterizzata dal-

la rigorosa applicazione della metrica quantitativa e da una struttura strofica.

Gli inni citati in vari punti del Nuovo Testamento20, invece, non presentavano

nessuna di queste caratteristiche ed erano modellati piuttosto sulla produzio-

ne poetica ebraica, con particolare riferimento al canto dei Salmi, circostanza18Cfr. [33, p. 13-14.] Si veda anche [90, pp. 156-8.]19Cfr. Ivi p. 187 ss.20Col. 3, 16; Ef. 5, 19; Mt. 26, 30; Mc. 14, 26.

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172 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

da cui deriva la denominazione di innodia salmodica impiegata oggi da alcuni

studiosi.

Un figura rilevante nella fase iniziale di evoluzione dell’inno fu Sant’Efrem

(306-373), diacono di Edessa, che pur mantenendosi legato ai testi salmici as-

sunse un modello formale più definito, caratterizzato da struttura strofica e

isosillabismo dei versi. Fu a partire dalla sua produzione che ebbe inizio l’in-

nodia cristiana documentata, mentre, in Occidente, l’inno assunse la sua forma

canonica grazie all’opera di Sant’Ambrogio. Agostino fa esplicito riferimen-

to a quattro inni che, tra tutti quelli collettivamente denominati ambrosiani,

è possibile attribuire con un buon margine di sicurezza ad Ambrogio, alme-

no per quanto riguarda il testo. Si tratta di Aeterne rerum conditor, Deus creator

omnium, Jam surgit hora tertia, Veni redemptor gentium. Il testo è suddiviso in

stanze di quattro versi in dimetri giambici e si applica a una formula melodica

che viene ripetuta in modo rigorosamente uguale per tutte le strofe. Non vi

è alcuna garanzia, naturalmente, che le melodie composte da Ambrogio siano

quelle che sono giunte sino a noi, ma è comunque ragionevole supporre che es-

se presentassero un’analoga semplicità e linearità nell’andamento. Nonostante

l’estrema sobrietà, tuttavia, questi inni dovevano possedere uno straordinario

potere evocativo, testimonianza del quale può essere rinvenuta nel racconto

della personale esperienza di Agostino:

Quanto piansi a udire i tuoi inni e i tuoi cantici, vivamente com-mosso dalle dolci voci che risuonavano nella tua chiesa! Voci chefluivano nelle mie orecchie, e la verità si scioglieva nel mio cuore, ene scaturivano ribollendo sentimenti di pietà, e correvano lacrime,e mi facevano bene (conf. IX, vi, 14).

La confessio apparentemente semplice e piana di un ricordo associato al periodo

della conversione si trasforma, nel libro successivo, nella valutazione di que-

sto genere di esperienze in vista del loro possibile ruolo all’interno della vita

cristiana. In questa mutata prospettiva, l’entusiasmo indotto dall’ascolto della

parola divina animata dalla melodia sacra viene di fatto ricondotto alla catego-

ria del piacere sensibile e i canti modulati da una voce soave e addestrata (cum

suavi et artificiosa voce) sono indicati come potenziale oggetto di concupiscientia

carnis. Nel medesimo momento in cui Agostino auspica la liberazione dal loro

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 173

potere incatenante, tuttavia, non può esimersi dal riconoscere che la parola di

Dio, grazie a loro, risulta potenziata nella sua efficacia:

A volte, infatti, mi sembra di tributare loro più rispetto del do-vuto quando avverto che, così cantate, le parole sante muovono ilnostro animo a un più devoto e ardente ardore di pietà che se nonfossero cantate, e che tutti i sentimenti del nostro animo, pur nellaloro infinita varietà, trovano nella voce e nel canto la nota giusta(proprios modos in voce atque cantu) per ciascuno, lo stimolo di nonso qual misteriosa affinità (occulta familiaritate) (conf. X, xxxiii, 49).

In un modo che, senza supporre alcun riferimento diretto da parte di Agosti-

no, ricorda la caratterizzazione aristotelica della musica come arte mimetica21,

il passo citato afferma il sussistere di una corrispondenza tra gli affetti dell’a-

nimo e le inflessioni della voce, in virtù della quale le anime dei fedeli vengo-

no poste in uno stato emotivo analogo a quello che si accompagnerebbe alla

comprensione della verità. Se la parola, infatti, non è in grado di produrre la

conoscenza trasmettendo il concetto, ma può solamente farlo affiorare dalle

profondità del cor, la sua componente sonora, declinata nella dolcezza del can-

to, può produrre manifestazioni come il pianto o la gioia, a prescindere dalla

verità del contenuto. Sotto questo aspetto, l’unica circostanza ammissibile agli

occhi di Agostino è quella in cui il sorgere dell’affectus si accompagni indisso-

lubilmente alla presenza latente del verbo interiore, il che presuppone l’evento

della conversione. Anche a questa condizione, tuttavia, la vis soni mantiene la

propria forza spesso predominante rispetto alla vis verbi, come il corpo rispetto

all’anima22, sì che, almeno in certe occasioni, Agostino si mostra incline a limi-

tare prudentemente il ricorso al suono modulato, preferendone uno più vicino

al parlato:

A volte, invece, esagero a guaradarmi da questo rischio ed erro- invero assai di rado - per eccesso di severità: cerco di allontanaredalle orecchie, mie e della Chiesa stessa, tutta la melodia dei dolcicanti che accompagnano solitamente i salmi di Davide, sembrando-mi più sicuro il metodo che ricordo di aver spesso sentito attribuireal vescovo Atanasio, che faceva modulare dal lettore i salmi con unavoce così flebile, da sembrare più recitare che cantare. Quando peròripenso alle lacrime che versai ai canti della tua Chiesa nei primordidella mia fede ritrovata, alla commozione che ancor oggi mi suscita

21Cfr. § 3.3.1.22Ricordiamo che Agostino, nel De quantitate animae, aveva individuato una similitudine tra la

coppia anima-corpo e la coppia significato-suono. Cfr. an. quant. XXXII, 66.

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174 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

non il canto, ma il testo del canto, se è cantato con la voce limpida ela modulazione più appropriata (cum liquida voce et convenientissmamodulatione cantantur), riconosco la grande utilità di questa pratica(magnam instituti huius utilitatem rursus agnosco). Ondeggio così trail rischio del piacere e l’esperienza del bene che ne deriva e, pur sen-za voler dare un giudizio definitivo, inclino ad approvare l’uso delcanto in chiesa, affinché il piacere dell’udito solleciti anche l’animapiù fragile a una trepida devozione. Quando però succede che ilcanto mi tocca più del testo cantato, confesso il mio peccato degnodi pena e preferirei allora di non sentir cantare (conf. X, xxxiii, 50).

Il carattere oscillante dell’atteggiamento di Agostino non stupisce affatto se

solo si pensa che, in quel periodo storico, era assai diffuso un sentimento di

diffidenza nei confronti delle espressioni culturali di origine pagana, in parti-

colar modo la musica e, come si è visto23, la retorica. L’entusiasmo manifestato

dal popolo dei fedeli, d’altra parte, aveva comportato l’immediata e ampia dif-

fusione in tutto l’Occidente dell’innodia e di forme affini di canto comunitario,

acuendo le già forti preoccupazioni della Chiesa24. Prova di un atteggiamento

apertamente ostile in questo senso fu l’interdizione del canto degli inni impo-

sta dal Concilio di Laodicea, tenutosi nella seconda metà del quarto secolo, che

li designò significativamente con l’espressione «psalmi idiotici vel plebei». Tale

diffidenza può essere meglio compresa se se ne riconosce l’origine nel timore,

già posto a tema all’inizio del capitolo, che qualcosa di prodotto dalle mani

dell’uomo potesse sostituirsi, in chiesa, a ciò che doveva essere esclusivamente

ispirato da Dio. Conferme significative in questo senso possono essere rinve-

nute, ad esempio, negli scritti di Novaziano25, presbitero romano martirizzato

durante le persecuzioni di Valeriano nel 258, che in alcuni punti sembra allude-

re alla potenziale declinazione idolatrica della musica, come di qualunque altra

attività capace di attrarre i sensi dell’uomo rinviando a un principio diverso da

Dio.

Di certo non fu senza peso la preoccupazione per il diffondersi di un’in-

nodia di ispirazione gnostica, soprattutto ad opera di Bardesane, che ebbe da

subito forte presa sull’uditorio in ragione della bellezza26 dei testi e delle me-23Cfr. § 4.2.24Non mancavano, comunque, prese di posizione equilibrate, che accoglievano le possibilità

della voce come un dono di Dio, del quale non si doveva abusare. Cipriano, tra gli altri, spiegache, come la voce, anche il ferro è un dono utile all’uomo ma ciò non esclude che esso possa essereusato male, ad esempio per commettere un delitto. Cfr. De habitu virginum XI, PL 4, 449-50.

25Cfr. De spectaculis IV, 5; PL 4, 783. Cit. in26A questo proposito è interessante la tesi proposta da T. Katô in merito all’influenza del mani-

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 175

lodie. Eloquente in proposito fu la presa di posizione di Sant’Efrem, che definì

tali composizioni un «veleno offerto al popolo sano». In ogni caso, non fu so-

lo a causa del loro prestarsi ad essere veicolo di contenuti eretici a suscitare

l’atteggiamento difensivo della Chiesa: se così fosse, infatti, non si spieghe-

rebbe perché, con la sola esclusione dell’ambiente monastico in cui la Regola

benedettina ne sancì presto l’introduzione, gli inni restarono esclusi dalla litur-

gia romana addirittura sino alla fine del XII secolo, quando il problema delle

eresie si era ormai decisamente affievolito.

A conclusione di questo commento alle prime fasi dell’evoluzione della mo-

nodia cristiana è possibile rilevare l’emergere di una distinzione, che sarebbe

rimasta fondamentale, tra le forme che vivono dell’indissolubile legame tra te-

sto e melodia, come la cantillazione e la salmodia, e quelle che sembrano invece

essere caratterizzate da un qualche grado di autonomia della componente mu-

sicale. Il riferimento è evidentemente allo jubilus alleluiatico, in cui la parola

risulta di fatto assente, e all’inno, in cui la melodia è modellata in funzione

della sola struttura metrica del testo e può quindi essere sottoposta indifferen-

temente a tutte le strofe o, addirittura, a un testo completamente diverso. Agli

albori della storia della musica occidentale, pertanto, iniziavano già a profilar-

si due temi che sarebbero stati in seguito incessantemente dibattuti, ovvero il

carattere autonomo della musica e la qualità del suo rapporto con la parola.

5.1.2 Dalla grammatica alla musica

Come si è detto, poco di concreto può essere affermato sulla veste musicale dei

canti che Agostino ebbe modo di ascoltare a Milano e tale impossibilità riguar-

da in particolar modo lo jubilus alleluiatico, in cui l’assenza del testo impedisce

anche solo una ricostruzione a grandi linee della melodia. Qualche conclu-

sione in più può essere invece tratta nel caso dell’inno, anche perché molte

informazioni relative alla componente metrica sono contenute proprio nel De

musica.

cheismo sul concetto agostiniano di bellezza, persistente anche nelle opere successive al giovanilee ripudiato trattatello De pulchro et apto: «S’il a beaucoup appris de Platon, de Pythagore, de Cicée-ron pour sa maniére de penser et de s’exprimer, son âme est attirée par la contemplation du Beaucomme Dieu, ce Beau que chantent les hymnes manichéennes. Plus tard il rejettera le manichéismea cause de son caractère mythique, mais pour le moment le Dieu dei manichéens ne lui apparaîtni caotique ni dépourvu d’ordre, sinon comment aurait-il pu lui inspirer une telle passion pour laBeauté!» Cfr. [76, p. 239.]

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176 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

La forma canonica dell’inno prevede la scansione in stanze di quattro ver-

si, composti ciascuno di otto sillabe, cui corrisponde una melodia composta

di quattro frasi ben definite e di pari lunghezza, generalmente l’una diversa

dall’altra. Prendendo in considerazione i quattro inni attribuiti ad Ambrogio

si può osservare, seppur con tutte le cautele del caso, che tre di essi presen-

tano la forma più ricorrente abcd, mentre uno, Deus creator omnium (H 181),

segue la forma abca, in cui è forse già operante il principio estetico della rica-

pitolazione finale27. Ereditato dalla tecnica oratoria, in cui, come si è visto28,

la conclusio aveva il compito di ricapitolare i tratti salienti dell’argomentazione

al fine di farli risuonare il più a lungo possibile nella mente degli ascoltatori e,

con ciò, traccia di un’affinità tra la musica e il linguaggio, questo principio sa-

rebbe divenuto in seguito un tratto caratteristico della musica occidentale, idea

strutturale fondamentale nel caso di molte forme musicali tra cui, soprattutto,

la forma sonata.

Passando all’esame della struttura del testo, il primo aspetto da valutare è

se sia possibile applicare concretamente agli inni ambrosiani il complesso dei

rigorosi principi di versificazione di cui è offerta puntuale descrizione nei li-

bri centrali del De musica. Se da un punto di vista meramente formale, infatti,

lo schema del verso in quattro giambi rientra a pieno titolo tra quelli classici,

organizzati secondo la metrica quantitativa, non si può trascurare il fatto che,

all’epoca di Ambrogio, era ormai iniziato il processo che avrebbe portato alla

sostituzione di quest’ultima con la metrica accentuativa, comportando la tra-

sformazione delle sillabe lunghe in sillabe accentate. Ciò, naturalmente, non

costringe affatto a escludere che, almeno in origine, gli inni venissero cantati

nel rispetto della scansione metrica classica. Per parte sua, Agostino era ben

consapevole del fatto che, presso i contemporanei, la percezione della quantità

delle sillabe (syllabarum brevium longarumque distantia) non poteva essere data

per scontata e, per questo, aveva anteposto alla sezione tecnica del dialogo una

sorta di nuova introduzione (mus. II 1, 1), in cui non si faceva scrupolo nel

presupporre una certa ignoranza nel discepolo in merito.

Emerge proprio in questo contesto la fondamentale differenza tra gram-

matica e musica, connessa al tema, ricorrente in Agostino, del rapporto tra

27Cfr. [9, p. 540.]28Cfr. 4.1.3.

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 177

ragione e autorità. Là dove il grammatico, investito del compito di custodi-

re la tradizione, si indigna ogniqualvolta ad essa si contravvenga e pretende

la correzione secondo l’autorità degli antichi, il musico si sofferma a valutare

facendo affidamento sul senso e sulla ragione. Al carattere di arbitrarietà che

contraddistingue l’autorità della grammatica, con il suo innalzare a criterio la

volontà degli antichi poeti, la musica oppone l’elaborazione di una disciplina

che procede dapprima con l’esposizione di una fenomenologia del materiale

prosodico29 secondo il giudizio del senso, per proseguire in un secondo mo-

mento con l’esercizio del dominio su tale materiale, in virtù dell’intervento

della ragione.

È forse opportuno riprendere brevemente un tema già svolto30, quello del

ruolo della sensibilità e del suo rapporto con le facoltà dello spirito. L’elemento

di grande originalità apportato dal De musica alla teoria della sensazione con-

siste, come si è visto, nell’aver individuato una fondamentale continuità fra

il sentire e il pensare, conseguente alla determinazione della sensazione come

attività dell’anima. Nel caso della musica, questo aspetto si manifesta nel fat-

to che essa si costituisce come disciplina proprio e solo grazie all’operare di

un principio di organizzazione razionale intrinseco al materiale e si configura,

pertanto, in termini di scoperta piuttosto che di invenzione. Questo atteggia-

mento, sino ad ora posto a tema senza portare un riferimento specifico31, trova

adeguata esemplificazione nella definizione del concetto di verso: «Non darò

il nome di verso a piedi qualsiasi che noterò uniti ad altri piedi qualsiasi o a

molti piedi riuniti insieme in una serie indefinita, ma potrò mediante una qual-

che disciplina comprendere (aliqua disciplina consequi) il genere e il numero dei

piedi, cioè quali e quanti piedi formano il verso e in base ad essa giudicare se

un verso ha urtato il mio udito» (mus. II, vii, 14). La definizione termina riba-

dendo che il verso è generato da una regola piuttosto che dall’autorità. Ancora

una volta, nel quinto libro, subito prima che i due protagonisti del dialogo si

applichino allo studio del verso, viene rimarcato il nesso fra l’idea di regola

insita nella natura delle cose e la sua scoperta: «Se vuoi, indaghiamo il resto

secondo la nostra abitudine, attraverso l’udito che propone e la ragione che

29Cfr. [91, p. 42.]30Cfr. § 3.1.31Cfr. 2.1.

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178 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

dimostra, perché devi sapere che gli antichi non hanno istituito queste cose

come se nella natura non si trovassero già interamente, ma le hanno scoperte

col ragionamento e le hanno fate notare dando loro un nome (sed ratiocinando

invenisse, et appellando notasse)» (mus. V, i, 1).

La teoria che Agostino espone nei libri centrali del De musica risulta anche

dai trattati di altri metricisti latini ed è quasi certamente di ascendenza varro-

niana. A Varrone risale probabilmente anche la categorizzazione delle nozioni

di ritmo, metro e verso. La loro determinazione è condotta tramite un pro-

cesso di progressiva specificazione a partire dal concetto di ritmo (numerus),

descritto come una successione virtualmente illimitata i piedi in accordo tra

loro in quanto razionalmente collegati (mus. III, i, 1). Tale illimitata ripetibilità

configura il ritmo come il livello elementare di razionalizzazione dell’estensio-

ne temporale, una sorta di materia, secondo Varrone, che nel momento in cui

riceve il limite impresso dalla forma diviene metro (mensio o mensura). Come

osserva Milanese32, «il passaggio dall’unità elementare del ritmo alla più com-

plessa ottica del metrum si ha quando al fluire regolare, ma illimitato, almeno

teoricamente, del ritmo, si impone un ulteriore momento di lógos: il limite che

consente la riconoscibilità delle strutture». Il metro, dunque, non è che un rit-

mo che «si svolge con determinati piedi e termina in un dato punto» (mus. III,

i, 2), dal che deriva che ogni metro è un ritmo, ma non viceversa. La specifi-

cazione successiva determina infine la nozione di verso, che si presenta come

un’ulteriore organizzazione del metro data dall’inserimento di punti di artico-

lazione interna ben riconoscibili: «È stato descritto e chiamato verso quel metro

che è formato di due cola, riuniti in base a misura e regola determinate» (mus.

III, ii, 4).

Un sintesi di questi argomenti si trova, oltre che nel secondo libro del De or-

dine, nel contesto della già considerata descrizione della nascita delle discipline

liberali33, anche verso la fine della riflessione sul tempo che impegna l’undice-

simo libro delle Confessiones34, sebbene in modo molto meno dettagliato. Un

primo aspetto da porre nel dovuto rilievo è che la scansione della voce assume,

in quest’ultimo luogo, il valore di un’esperienza esemplare del tempo. Fallito

32Cfr. G. Milanese, op. cit. p. 45.33Cfr. § 2.2.34Cfr. [43, p.317.]

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 179

il tentativo di spiegarne la natura in funzione del movimento dei corpi, Ago-

stino raggiunge una prima importante conclusione adottando come modello

di misurabilità la suddivisione di un intero poema in strofe, versi, metri, piedi

e sillabe considerati nell’atto della loro scansione da parte della voce, la quale

non può passare a un’unità successiva, qualunque essa sia, senza il dissolvi-

mento della precedente. La conclusione cui conduce questo paragone viene

espressa da Agostino nei seguenti termini: «Ne ho dedotto che il tempo non

sia altro che un’estensione: di che cosa non so, ma mi stupirei se non fosse

un’estensione della mente stessa» (conf. XI, xxvi, 33).

Il ricorso al concetto di estensione non elimina del tutto la presenza di una

componente spaziale, come conferma il ricorso all’esempio della misurazione

di una trave mediante una porzione della sua lunghezza, che intende mediare

il passaggio dalla riflessione sul tempo in termini spaziali a quella incentrata

sulla progettualità di un’azione, come la declamazione di un poema. Tuttavia,

la forte tensione che caratterizza il significato traslato di estensione, ovvero la

durata, testimonia, come osserva M. Cristiani35, una «precisa volontà di de-

spazializzare al massimo la temporalità» riconducendola a una qualche opera-

zione dell’animo e, dunque, spostando l’attenzione dal fenomeno fisico in sé

all’adeguamento ad esso da parte del soggetto. Significativo di questa conno-

tazione fortemente intellettuale è l’accenno alla possibilità, per il pensiero, di

evocare silenziosamente poemi, versi e orazioni, conservando in tale attività

la capacità di riferire con precisione della loro lunghezza. La facoltà che ren-

de possibile questa evocazione interiore, così come quella di una recitazione

ad alta voce, è la memoria che, in virtù del suo intervento unificante, pone le

condizioni di possibilità per la misurazione di un oggetto privo di stabilità on-

tologica come il tempo: «Non misuro le sillabe stesse, che più non sono, bensì

qualcosa nella mia memoria, che vi resta infisso» (conf. XI, xxvii, 35).

5.1.3 Osservazione sulla prassi esecutiva

L’importanza della memoria nella pratica musicale non è stata posta in rilievo

solo da Agostino, ma accomuna tutta la cultura altomedievale. Basta ricordare

anche solo il fatto, cui si è accennato, che la notazione musicale dei primi codi-

35Ivi p. 315.

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180 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

ci era presente unicamente a titolo di ausilio mnemonico. Una testimonianza

in merito allo scarso valore attribuito alla scrittura musicale si può trovare in

una sentenza frequentemente citata36 di Isidoro di Siviglia, secondo cui «se i

suoni non sono trattenuti dalla memoria, periscono perché non possono essere

scritti» (Etymologiae 163b). Un’affermazione come questa produce un certo stu-

pore oggi, poiché lascia indecisi tra la convinzione che un simile giudizio sia

semplicemente imputabile all’inadeguatezza dei primi sistemi di notazione e

la sensazione che la sicurezza con cui è stato espresso possa invece segnalare

una diversa e più profonda percezione della musica. Un’analoga diffidenza

nei confronti della scrittura, del resto, era già stata manifestata da alcuni autori

antichi, tra cui Socrate e Platone: «E allora, chi ritenesse di poter tramanda-

re un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti

potrà trarre qualcosa di chiaro e di saldo, dovrebbe essere colmo di grande in-

genuità e dovrebbe ignorare davvero il vaticinio di Ammone, se ritiene che i

discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare

alla memoria di chi sa le cose sui cui verte lo scritto» (Fedro, 275 c-d).

La prima causa della diffidenza espressa in questo dialogo rinvia proprio a

quello che, nelle intenzioni dell’inventore della scrittura, essa avrebbe dovuto

evitare, ossia la dimenticanza. In ciò consisteva, infatti, il vaticinio di Ammo-

ne: «La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza

nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura, si

abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei e non dal di den-

tro e da se medesimi» (275 a). Dall’ammissione di questo rischio consegue il

riconoscimento della mancanza di autonomia dello scritto, del fatto, cioè, che

esso è solamente un’immagine del discorso vivente e animato37 oppure, nel

caso della musica, mera rappresentazione della forma estetica e delle qualità

esteriori della melodia.

Abbandonando Platone per tornare al contesto di partenza, il dato che è

necessario porre in rilievo è che tutto ciò che eccede l’aspetto quantificabile del

fenomeno sonoro non può trovare espressione in alcun sistema notazionale e

richiede, per questo, l’intervento mediatore di una figura in grado di garantire

la continuità della tradizione, il maestro. Per quasi un millennio, infatti, tale fi-

36Cfr. [33, p. 92] e [40, p. 160.]37Cfr. 276 a-b.

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5.1. ORIGINI DEL REPERTORIO MUSICALE 181

gura costituì un punto di riferimento insostituibile, che nell’atto di trasmettere

la tecnica di declamazione della parola divina si ritraeva senza nulla lasciar tra-

sparire della propria individualità: nulla doveva scaturire dalla sua personale

elaborazione e nulla, di conseguenza, poteva avere quel carattere di arbitraria

artificiosità che richiede, per non essere dimenticato, di essere fissato tramite la

scrittura.

Forse è possibile spingersi ancora oltre nel riconoscimento di un’affinità

con la riflessione platonica del Fedro affermando che, al modo di sentire alto-

medievale, non apparteneva l’idea della resa oggettiva e fedele di una melodia

originaria, poiché la forma estetica di quest’ultima era senz’altro di secondaria

importanza rispetto alle implicazioni trascendenti. Questa conclusione, tradot-

ta nei termini di un’affermazione di superiorità del sapiente rispetto a tutte le

figure di artigiani della parola, si ritrova anche nel dialogo platonico: «Colui

che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha com-

posto o scritto rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte

con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore

di discorsi, o scrittore di leggi?» (278 d-e).

Molti studiosi, a partire dalla fine dell’Ottocento, hanno formulato ipotesi

in merito alle effettive modalità di impiego dei primi codici notati. Alcuni se-

miologi38 hanno sostenuto che i segni non erano altro che la rappresentazione

grafica dei gesti con cui il maestro dirigeva i cantori; altri, invece, come S. Cor-

bin e P. Ferretti39 hanno concentrato la loro attenzione sul ruolo delle formule

nell’organizzazione del discorso musicale, indicando in esse il materiale fonda-

mentale che il cantore doveva memorizzare assieme alle regole e alle tecniche

necessarie per poterle adattare ai testi. Un’espressione capace di sintetizza-

re con grande efficacia questa consuetudine esecutiva è stata formulata da S.

Corbin che ha parlato di «improvvisazione regolata», intendendo con ciò affer-

mare che il ruolo dell’esecutore, per quanto imprescindibile, non disponeva di

alcuno spazio per esercitare la propria creatività. L. Treitler, come si vedrà in

seguito, ha ripreso quest’ipotesi articolandola in una vera e propria teoria tesa

alla determinazione dei concetti di composizione ed esecuzione nei contesti di

38Cfr. O. Fleischer, Neumenstudien, Teil I, Leipzig, 1895 e Mocquereau, Paléographie Musicale, I,Solesmes, 1889.

39Cfr. P. Ferretti, Estetica gregoriana, Roma, 1934.

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182 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

tradizione orale.

5.2 Musica e linguaggio

5.2.1 Composizione e trasmissione

Il legame tra la melodia e il testo, in cui affonda le sue radici l’affinità formale

tra la musica e il linguaggio, ha influito in maniera decisiva sulla natura del

procedimento compositivo, declinando il concetto di creatività in modo netta-

mente differente rispetto a quello che, in epoche successive, sarebbe divenuto

ordinario nella storia della musica occidentale. Laddove quest’ultimo, infat-

ti, contiene in sé il riferimento a una pressoché totale libertà dell’artista, che

concepisce il proprio operare nei termini di una vera e propria creazione, l’at-

teggiamento del melopoiós intento a raffinare il linguaggio parlato per estrarne

una melodia era definito da una sottomissione alla regola che non lasciava spa-

zio significativo all’arbitrio40. Questa osservazione, in realtà, può essere estesa

alla considerazione dell’arte in generale propria di tutta l’antichità a partire

dal mondo greco poiché, come si è visto41 dall’analisi del significato del verbo

poiein, esaustivo del campo semantico relativo all’attività dell’artista, quest’ul-

tima era intesa come un agire determinato da norme in vista della produzione

di oggetti la cui ragion d’essere non riposava nella loro carica innovativa.

Questo aspetto fu ampiamente sviluppato da Platone che stabilì, come noto,

un nesso tra arte e imitazione della natura motivandolo per mezzo del ricono-

scimento di quest’ultima come la sorgente di tutte le norme specifiche per le

singole arti. Da questo stato di cose conseguiva l’identificazione del carattere

40Una descrizione sintetica dell’atto della composizione musicale nell’antichità in funzione delconcetto di nomos è stata formulata dall’illustre musicologo belga Fr. Aug. Gevaert: «Gli antichiconsideravano l’atto della composizione musicale sotto un punto di vista essenzialmente diffe-rente dal nostro. Mentre all’epoca moderna il compositore mira innanzitutto a essere originale, aimmaginare lui stesso i suoi motivi con le rispettive armonie e con la loro strumentazione, i me-lografi greco-romani e, dopo di essi, gli autori delle cantilene liturgiche, lavoravano in generalesopra temi tradizionali dai quali, mediante un processo di amplificazione, ricavavano nuovi canti.Un tema di questo genere fu chiamato, fin dalla più remota antichità, con il nome di nomos, legge,regola, modello. Come in architettura così in musica l’invenzione consisteva nel costruire operenuove con l’aiuto di materiali presi dal dominio comune. (...) I nomos sono in qualche modo leradici del linguaggio musicale; ciascuno di essi è l’elemento comune a un gruppo distinto di melo-die. L’invenzione di queste cantilene-tipo era considerata come il risultato di una ispirazione quasidivina e attribuita, sotto questo aspetto, ai musicisti del periodo più remoto». Cfr. Histoire et théoriede la musique de l’antiquité, II, p. 315 ss.., Gand, 1881, cit in P. Ferretti, op. cit. p. 89.

41Cfr. § 2.1.

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5.2. MUSICA E LINGUAGGIO 183

imitativo delle arti come primario, tanto per quelle plastiche quanto per quelle

della parola, come si può constatare dal seguente passo della Repubblica: «Co-

lui che produce il terzo generato, a partire dalla natura e allontanandosi da

essa, lo chiami imitatore? - Certamente, rispose. - Così sarà anche l’autore di

tragedie, nella misura in cui è imitatore; egli si collocherà, per sua natura, a tre

lunghezze di distanza dal re e dalla verità, e al suo livello si collocheranno tutti

gli altri imitatori» (597 e).

Nel Timeo Platone esplicita la differenza tra il fare che deriva dalla contem-

plazione di un’idea e il fare guidato dal riferimento a un esemplare generato,

concludendo che soltanto l’esito del primo può essere qualcosa di bello42. L’ar-

te è fatta rientrare, in questa prospettiva, nella più ampia visione dell’universo

come rete di rapporti tra esemplare e copia, in cui la collocazione ontologica

del primo decide del valore conoscitivo posseduto dall’atto imitativo. L’atti-

vità dell’artista, definita in termini di conoscenza delle regole e di abilità nel-

l’applicarle, si configura anche in questo caso in termini non di invenzione, ma

di scoperta, di reperimento dei canoni, delle norme e delle regole da applicare

per ottenere determinati risultati.

L’assunzione di una prospettiva analoga traspare anche nel noto trattato

tardo-antico Sul sublime che, nelle prime pagine, ribadisce più volte la centra-

lità del metodo in ogni ambito artistico. Partendo dalla constatazione che la

natura «non ama andare a casaccio e senza alcuna certezza metodica, e que-

sto perché essa costituisce l’originario embrione di ogni forma di produzione»,

l’autore conclude che «di fondamentale importanza è che bisogna prendere at-

to che solo da una tecnica possiamo apprendere che certe particolarità dello

stile hanno la natura a unico fondamento» (II, 2-3). Può essere di qualche in-

teresse far notare che le riflessioni metodologiche svolte in questo trattato co-

stituiscono la premessa per una teorizzazione dell’uso della parola finalizzato

a indurre nell’ascoltatore un coinvolgimento più radicale della semplice per-

suasione, definito da una fortissima componente irrazionale. Questo rilievo

suggerisce, infatti, che l’aderenza alla regola non comportava in alcun modo,

come esito, l’aridità dell’opera risultante, anzi. La garanzia di un rispecchia-

mento fedele dei criteri esibiti dalla natura, che l’artista seguiva nel proprio

42Cfr. Timeo 28 a.

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184 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

operare, era precisamente ciò da cui era fatta dipendere la capacità di agire

sull’animo con efficacia paragonabile a quella dell’oggetto o della circostanza

reale, cui l’opera poteva essere ricondotta in qualità di imitazione43.

Volendo restringere il discorso all’ambito specificamente musicale, si può

osservare, come punto di partenza, che i generi di abilità richiesti nel contesto

tipico della civiltà altomedievale erano essenzialmente due, riguardanti la fase

della composizione e della memorizzazione del repertorio. Resta escluso, per

il momento, tutto il complesso di tecniche relative all’emissione vocale, efficaci

sulla qualità del suono, che sarà posto a tema più avanti44.

Come già era stato accennato alla fine del precedente paragrafo, in un con-

testo di tradizione orale il lato compositivo e quello mnemonico erano forte-

mente compenetrati, al punto che le corrispondenti abilità si condizionavano

reciprocamente, tendendo a perdere una netta identificazione. È stato osserva-

to, infatti, che la formazione del repertorio nei primi secoli del Cristianesimo

può essere descritta alla luce della sua stretta dipendenza dalle modalità di

trasmissione delle melodie, sì che, come ha affermato L. Treitler45, «impara-

re a comprendere la musica e imparare a comprendere in che modo venisse

trasmessa costituisce un unico obiettivo».

L’indagine condotta dallo studioso prende le mosse da una premessa che

attribuisce un ruolo paradigmatico all’esito di una ricerca svolta entro un di-

verso ambito disciplinare, quello della poesia epica. Il riferimento è agli studi

svolti nel corso degli anni ’30 da M. Parry in merito allo stile formulare dell’e-

pica omerica, il cui principale risultato era stato la messa a punto di una teoria

della composizione orale che aveva modificato radicalmente le convinzioni re-

lative al procedimento compositivo dei poemi omerici. L’idea che essi fossero

stati composti da un singolo autore e redatti originariamente in una versione

scritta definitiva aveva iniziato ad essere messa in discussione già a cavallo tra

Seicento e Settecento, in seguito ad alcune osservazioni sulla forma linguistica

e sulla scarsa plausibilità dell’ipotesi che la loro esecuzione potesse avvenire

senza variazioni in assenza di un supporto scritto. Nel corso dell’Ottocento

queste prime intuizioni avevano offerto il sostegno a un’analisi sistematica mi-43La tesi relativa alla natura imitativa della musica è stata approfondita in § 3.3.1, con riferimento

alla dottrina aristotelica.44Cfr. § 5.5.1.45[145, p. 334.]

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5.2. MUSICA E LINGUAGGIO 185

rante a dimostrare che la composizione dei poemi omerici era passata attraver-

so varie fasi di accrescimento, espansione ed elaborazione a partire da schemi

fondamentali, ma restava comunque non scalfita la convinzione che, a monte

del processo di trasmissione, esistessero versioni scritte originarie dei testi. Per

questo motivo, le ricerche erano rimaste concentrate sull’obiettivo di ipotizzare

possibili archetipi e di ricostruire il processo di elaborazione che aveva condot-

to alla redazione definitiva. Fu Parry a compiere la svolta decisiva avanzando

l’ipotesi della natura formulare dei poemi omerici, che definiva la loro gene-

si non più in termini di giustapposizione di sezioni, quanto piuttosto come

esito dell’applicazione di un vero e proprio linguaggio atto a esprimere idee

fondamentali in funzione di schemi metrici e melodici.

La premessa fondamentale della teoria di Parry consisteva nell’affermare

che il contesto proprio dei poemi omerici era quello tipico della letteratura ora-

le, individuato dal darsi di una coincidenza tra atto compositivo e atto esecuti-

vo nell’applicazione di strutture elementari riferite a temi e formule ricorrenti.

È evidente che, in tali circostanze, il contributo dell’esecutore, contraddistin-

to dal possesso di una personale competenza tecnica in materia di metrica,

grammatica, contenuti narrativi, oltre che di un repertorio di formule corre-

dato dalla conoscenza delle regole d’impiego, pesava in maniera decisiva ai

fini della stessa possibilità di esistenza dell’opera. Tra tutte le facoltà, quella

maggiormente coinvolta nel processo compositivo-esecutivo era, come già più

volte accennato, la memoria, non intesa, però, come una sorta di irrealistica

approssimazione al fissaggio consentito dalla scrittura: questo modo di conce-

pirne l’attività, infatti, risente pesantemente dell’importanza attribuita all’idea

di un testo in versione definitiva, caratteristico di una civiltà della scrittura, ma

del tutto estraneo a un contesto di trasmissione orale.

Ciò stabilito, l’impresa di determinare positivamente le modalità di tradi-

zione del repertorio risulta tuttora particolarmente ardua poiché, come oppor-

tunamente ha osservato T. Karp46, non esiste un unico modello di oralità e

qualunque paradigma proposto, non potendo che scaturire dalla selezione fra

numerose possibilità, necessita di puntuale giustificazione.

Un aspetto utile da considerare in vista della messa a punto di un modello

46Cfr. [75, p. 26.]

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186 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

per l’oralità dei primi secoli dell’età cristiana è la valutazione del grado di as-

sestamento della liturgia. Servendosi delle rare testimonianze esistenti, come

ad esempio quella di San Giustino (II sec.) e di Sant’Ippolito (III sec.), Karp ha

ritenuto di poter individuare almeno a grandi linee tre fasi nello sviluppo del

canone della Messa: una iniziale, caratterizzata da un rituale essenzialmente

estemporaneo, in cui potevano ricorrere con regolarità al massimo gruppi di

parole; una successiva, in cui questi ultimi erano divenuti progressivamente

più estesi e stabili e, infine, una terza, in cui l’incremento del grado di fissi-

tà iniziava a profilarsi come obiettivo, perseguito anche tramite il ricorso alla

scrittura. Ciò che sembra plausibile affermare, alla luce di questa ipotesi di

ricostruzione, è che il progressivo abbandono di una prassi estemporanea in

direzione della memorizzazione di modelli, documentato nel contesto della li-

turgia, possa aver interessato anche la composizione e la trasmissione dei canti.

Tale ipotesi sembrerebbe essere oltretutto avvalorata dalla già indicata assenza

di descrizioni relative ai primi canti sacri la quale, verosimilmente, è imputabi-

le al fatto che le prime forme di disciplina e razionalizzazione della pronuncia

del testo sacro, come ad esempio la cantillazione, non erano percepite come

eventi musicali definiti, quanto piuttosto come stili di lettura in certa misura

flessibili.

Il diffondersi progressivo della salmodia negli ambienti monastici portò con

sé un incremento del grado di formalizzazione dell’Ufficio, in modo particolar-

mente accentuato nel sud dell’Egitto, e presto, anche se non prima del tardo IV

secolo, il canto salmodico nelle sue diverse forme fece la sua comparsa anche

all’interno della Messa. Una conferma in questo senso può essere ricavata da

un passo delle Retractationes di Agostino, che informa della recente adozione, a

Cartagine, dell’uso di cantare un brano salmodico al momento della comunio-

ne47. La presenza della salmodia nel rito romano, invece, è testimoniata per la

prima volta solamente nel 432 da Papa Celestino I, che ne conferma l’uso nel

caso del canto di comunione e del graduale.

Per quanto una tendenza inequivocabile alla fissazione delle forme emerga47«Nel frattempo un certo Ilario, un cattolico laico che aveva rivestito la carica di tribuno, non so

perché, ma seguendo un costume alquanto diffuso, fu preso da grande irritazione contro i ministridi Dio. Ovunque poteva attaccava con critiche malevole l’uso, che incominciava allora ad affer-marsi in Cartagine, di intonare dinanzi all’altare degli inni tratti dai Salmi, sia prima dell’offertasia nel momento in cui ciò che era stato offerto veniva distribuito al popolo, sostenendo che questonon si doveva fare» (II, xxxvii, 11).

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5.2. MUSICA E LINGUAGGIO 187

con chiarezza nell’evoluzione della tradizione liturgica, la fedeltà nella trasmis-

sione della componente musicale non può essere inclusa fra le principali pre-

occupazioni della Chiesa nel periodo altomedievale. Ciò che sembra possibile

ipotizzare, al più, è che l’impiego rituale abbia rafforzato una certa tendenza

conservatrice nell’esecuzione dei canti, forse anche in conseguenza del fatto

che i testi, tratti dalle Sacre Scritture, erano di per sé già noti ai cantori.

Karp ipotizza che lo stile di apprendimento adottato stimolasse la mente

ad assimilare la melodia per gruppi di note piuttosto che per serie di singo-

li suoni, secondo un intuizione non distante dal moderno concetto di sintassi

musicale. Se questa tesi fosse corretta, sarebbe possibile interpretare la flessibi-

lità nell’applicazione delle formule come indizio del fatto che, ferma restante la

percezione del carattere unitario dei singoli canti, questi non erano considera-

ti come organismi immodificabili. Tale rilievo offre l’occasione per ricollegare

l’importanza assunta dal concetto di formula nella storia della musica occiden-

tale alla sua funzione di supporto nel processo di memorizzazione, rinviante in

maniera più generale a uno stile di apprendimento tipico del medioevo, quello

della suddivisione in sezioni.

Diverse proposte sono state avanzate nel tentativo di approfondire questo

metodo, non di rado anche in contrasto fra loro. Una tra le più note è quel-

la di F. Bartlett che, in un saggio48 del 1932, ha sostenuto che il processo di

memorizzazione non presenta natura riproduttiva, bensì ricostruttiva. Questa

conclusione è stata raggiunta grazie a uno studio sperimentale dell’atto percet-

tivo da cui, secondo lo studioso, l’atto della memorizzazione dipende. Il dato

di maggiore interesse è che la percezione risulta qualificata non come ricezio-

ne passiva, bensì come organizzazione attiva imposta dal soggetto al materiale

tramite l’applicazione di schemi messi a punto in seguito a esperienze pregres-

se. Ne consegue che il processo di memorizzazione discrimina in funzione di

ciò che presenta un carattere emergente per il soggetto stesso, dando origine a

stereotipi che, in una più ampia prospettiva, hanno consentito l’istituirsi delle

convenzioni e dei codici stilistici ed espressivi propri di ogni contesto culturale.

Uno dei corollari della teoria di Bartlett, particolarmente significativo nel

contesto di questo studio, è che l’atto del ricordare e l’atto dell’immaginare

48F. Bartlett, Remembering: A Study in Experimental and Social Psycology, Cambridge, 1932.

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188 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

si dispongono l’uno rispetto all’altro senza soluzione di continuità, cosa che

rende la loro differenza esprimibile in termini di grado e non di genere, in

singolare coincidenza con la concezione agostiniana dell’immaginazione pro-

duttiva e riproduttiva e, a monte, con una caratterizzazione della sensazione

in termini di attività49. Alla luce di tale continuità sostanziale, ciò che può es-

sere affermato come risposta al quesito sulla natura dell’atto compositivo in

un contesto orale è che esso consisteva in un tipo di prassi estemporanea non

arbitraria, ispirata all’idea di elaborazione e variazione a partire da una forma

fondamentale mediante l’applicazione di un sistema si automatismi espressivi

compatibili con la rapidità di scelta imposta dal contesto esecutivo.

Ricondotta alla sua essenza di atto linguistico, l’attività compositiva coin-

volta nella costruzione del repertorio dei primi secoli dell’era cristiana appare

in certa misura determinata dalla normatività della materia su cui si esercita,

la componente fonica del linguaggio, la quale, lungi dal presentarsi come un

sostrato amorfo, costituisce piuttosto una fonte di forme particolari, indipen-

denti dalla volontà di un soggetto. In questa prospettiva, il tipo di mimesi

messo in atto nel canto conferma la propria differenziazione da quello proprio

delle arti plastiche, già analizzato in riferimento alla teoria aristotelica e carat-

terizzato, secondo Agostino, dall’esercizio di una libera attività combinatoria,

per configurarsi come esplicitazione della struttura morfologico-sintattica del

linguaggio.

5.2.2 Sull’origine della musica dal linguaggio

L’idea che tra il canto e il linguaggio parlato sussistesse un profondo legame

era, oltre che un dato evidente in sede esecutiva, un’acquisizione teorica con-

divisa, che, tuttavia, trovava compiuta formulazione solo nei trattati dedicati

all’arte della parola, dove confluiva nel complesso delle conoscenze propedeu-

tiche alle varie discipline. Conferma in tal senso può essere trovata in un già

più volte citato passo dell’Orator di Cicerone:

La natura della lingua è meravigliosa. Il suo suono ha una tripli-ce variazione, alto, basso, oppure entrambi allo stesso livello: nel-la lingua c’è la radice del canto (Est autem etiam in dicendo quidamcantus obscurior) (Orator 18, 57).

49Cfr. § 3.2.1.

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5.2. MUSICA E LINGUAGGIO 189

Un’altra testimonianza, che di frequente è accostata a quella ciceroniana, si può

trovare nel De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, uomo di let-

tere pagano di orientamento neoplatonico. Questo trattato in forma poetica,

che consiste in un compendio del sapere classico suddiviso secondo le sette ar-

ti liberali, esprime una tesi analoga, questa volta in apertura del libro dedicato

alla grammatica. Nel definire i concetti basilari del linguaggio, Marziano Ca-

pella individua nel concetto di accento «l’anima della voce e il seminario della

musica», giustificando tale affermazione con il il riferimento alle potenzialità

musicali insite nella metrica:

Fin qui a proposito delle congiunzioni; ora, vediamo ciò checoncerne l’accento: questo capitolo presso i Greci è chiamato perìproso(i)diôn (sulla prosodia). Questo si suddivide in tre: infatti ognisillaba è o grave o acuta o circonflessa, e come nessuna parola è sen-za una vocale, così nessuna è senza un accento. E l’accento, comeritennero alcuni, è l’anima della voce e il seminario della musica(anima vocis et seminarium musices), poiché ogni modulazione (mo-dulatio) si compone di accenti e abbassamenti della voce, e perciòl’accentus è stato detto quasi come adcantus (III, 268).

Da parte degli antichi, insomma, il linguaggio era percepito come una sorta

di musica allo stato grezzo, riconducibile nella sua struttura a una sequenza

di sillabe gerarchicamente organizzate in funzione di quella amplificata dal-

l’accento. Come noto, l’accento greco e latino era prevalentemente musicale,

ovvero non era reso atraverso una modificazione dell’intensità nella pronuncia

delle sillabe, quanto piuttosto attraverso quella dell’intonazione. Il susseguirsi

di suoni ad altezze differenti dava quindi origine a un profilo melodico ele-

mentare che, per quanto composto da intervalli non definiti con regolarità, for-

mava comunque una sequenza nell’ambito della quale potevano manifestarsi

altri fenomeni musicali, come la ritmica, la dinamica e l’agogica.

Ciò che distingueva il canto dal linguaggio parlato, oltre al grado di defini-

zione degli intervalli melodici e dei rapporti di durata, era il tipo di movimento

che collegava un suono all’altro, percepito come discontinuo nel primo caso e

come continuo nel secondo50. L’atto del cantare risultava pertanto definito da

un fluire non ininterrotto della voce, caratterizzato da un’emissione nitida dei

suoni che consentiva di coglierne l’individualità. In questa prospettiva, l’o-

50Cfr. Aristosseno, Elementa harmonica, 8-10.

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190 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

peratività ricollegabile all’atto compositivo sembrerebbe determinabile come

cura del passaggio dal primo al secondo tipo di collegamento attraverso un

vero e proprio procedimento di estrazione del movimento discontinuo e con-

trollato del canto da quello continuo e spontaneo del parlato, condotto tramite

l’applicazione di norme derivate dalla struttura stessa di quest’ultimo.

Il rapporto di dipendenza della struttura melodica dalla disposizione degli

accenti grammaticali si mantenne riconoscibile anche nel processo di forma-

zione del repertorio della monodia liturgica cristiana. È immediato riscontrare,

infatti, che la melodia gregoriana, che di tale repertorio rappresenta la fase di

massimo sviluppo e fioritura, ricalca fedelmente nella sua linea lo schema de-

gli accenti grammaticali del testo liturgico, cui fa scrupolosamente corrispon-

dere le sommità melodiche. Tale circostanza appare a tal punto inequivocabile

che Ferretti51, acutamente, ha proposto di considerare il profilo melodico ele-

mentare creato dal gioco degli accenti come un vero e proprio tema dato, in

seguito sviluppato e variato secondo tre possibili alternative stilistiche, diffe-

renziate in virtù del crescente grado di elaborazione: sillabico, fiorito e meli-

smatico. In figura è riportato uno degli esempi proposti, relativo al tema me-

lodico implicitamente contenuto nella declamazione dell’Ave Maria (figura 5.3)

progressivamente amplificato (figura 5.4).

Figura 5.3: Due possibili frammenti melodici generati dalla disposizione degliaccenti

In virtù dei riscontri trovati nel repertorio, Ferretti ritiene di poter trarre

questa pregnante conclusione52:

La melodia gregoriana considerata nel tema a cui si ispira, dacui nasce e di cui non è che uno sviluppo e una variazione, è unamelodia oratoria.

Due fenomeni vengono posti in relazione a questo dichiarato carattere oratorio

della melodia. Il primo riguarda l’ampiezza massima degli intervalli riscontra-51Cfr. Ivi p. 20.52Ivi p. 22.

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5.2. MUSICA E LINGUAGGIO 191

Figura 5.4: Amplificazione progressiva di un frammento melodico

bili nel repertorio che, salvo rari casi, non eccedono mai la quinta, in accordo

con quanto documentato a proposito della prassi oratoria greca e romana53; il

secondo, invece, consiste nel fatto che, in accordo con la teoria varroniana se-

condo cui la sillaba acuta tende alla brevità e quella finale alla lunghezza, le

composizioni gregoriane presentano spesso ampi vocalizzi in corrispondenza

delle sillabe finali, allo scopo di conferire un senso di chiusura e di riposo.

L’evidenza del legame tra forma linguistica e forma musicale si mantenne

sino a quando l’accento intensivo non prevalse su quello melodico, annullan-

do progressivamente ogni differenziazione nella quantità delle vocali. Come

conseguenza di questo appiattimento generalizzato, la musica perse la possi-

bilità di attingere la sua dimensione melodico-ritmica dal linguaggio parlato e

fu costretta ad intraprendere un cammino di graduale stilizzazione che, a par-

tire dal IX secolo, si sarebbe declinato in vari modi, espressione di intenti più

o meno conservatori. Rivolta al passato fu, ad esempio, l’opera dei composito-

ri di tropi e sequenze, che si ridusse di fatto all’applicazione di testi inediti in

forma poetica a lunghi melismi di Alleluia e di Kyrie, realizzando l’unione fra

una musica autonoma e un linguaggio parlato irrigidito. All’estremo opposto

si collocò invece la posizione che avrebbe in seguito guadagnato il predomi-

53Questo dato, osserva Ferretti, si accorda con alcune osservazioni di Dionigi di Alicarnassorelative alla prassi oratoria greca e romana.

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192 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

nio nella storia della musica occidentale e che si applicò nella messa a punto

di schemi logici astratti derivanti sì dal linguaggio, ma protesi al di là di esso,

verso un’idea di organizzazione autonoma della musica come discorso. Que-

sta concezione, in cui i suoni si appaiono combinarsi alla maniera di lettere

alfabetiche, come componenti elementari di strutture complesse ma, a diffe-

renza delle parole, autosignificanti, si impose definitivamente a partire dalla

fine del Rinascimento portando significativamente con sé la formazione di una

terminologia mutuata ancora una volta dall’area linguistica, anche se in modo

completamente differente: «La morfologia musicale tradizionale parla di fra-

se, semifrase, periodo, interpunzione; ad ogni passo si incontrano la domanda,

l’esclamazione, le frasi incidentali; voci si levano e si spengono; e in tutto ciò

l’atteggiamento della musica è preso a prestito dalla voce che parla54».

5.3 La forma dei suoni

5.3.1 Due orientamenti

Come si è visto, la presenza della musica fra le arti del quadrivio trovava legit-

timazione nel darsi di una corrispondenza tra le regole dell’armonia musicale

e le leggi dell’universo ordinato secondo il numero, la quale appariva decli-

narsi in termini di analogia. In questa prospettiva, l’attenzione esclusiva per

gli aspetti sottratti alla mutevolezza della conoscenza sensibile aveva confe-

rito alla disciplina un’impostazione marcatamente teoretica, concentrata sulla

spiegazione dell’armonia in base a categorie quantitative mutuate dalla tradi-

zione pitagorico-platonica, che aveva individuato nel concetto di numero lo

strumento privilegiato per indagare la natura delle cose.

E. Witkowska-Zaremba55 osserva, a proposito della comunanza di metodo

che motivava il raggruppamento di aritmetica, geometria, astronomia e musica

nel quadrivio, che quest’ultima si configurava come una sorta di pre-acustica,

intendendo con ciò una scienza avente per oggetto la fisica del suono sul mo-

dello impostato da Euclide nella Sectio canonis. Questo breve trattato contiene,

come noto, una teoria del calcolo degli intervalli musicali secondo il metodo

54[2, p. 163.] Trad. it. di C. Lacorte.55Cfr.[155, p. 6 ss.]

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 193

della divisione del monocordo e, per mezzo di esso, le relazioni tra le altezze

dei suoni risultano definite in funzione del rapporto tra i numeri determina-

ti dalla frequenza delle vibrazioni. Secondo questa teoria, presupposto per la

messa a punto della scala pitagorica, il fenomeno della consonanza tra i suoni

era definito dalla commensurabilità tra le lunghezze delle corrispondenti se-

zioni di corda e riportato, pertanto, all’interno di una più ampia concezione

del cosmo fondata sul numero.

Il modello cosmologico platonico e la sua interpretazione musicale si tra-

smisero al mondo medievale latino tramite i commenti di Calcidio e di Macro-

bio, rispettivamente al Timeo platonico e al Somnium Scipionis di Cicerone, che

nutrirono la corrente di pensiero dominante fra i secoli IX e XII. Tale corrente si

distinse da quella, successiva, che proseguì invece secondo l’impostazione del

De institutione musica di Boezio e che privilegiò la trattazione di temi inerenti

la teoria e la didattica musicale come, ad esempio, la costituzione del sistema

modale, la formulazione della regole della solmisazione e la preparazione dei

tonari. Accanto a un’impostazione che, in entrambi i casi, esibiva il disinteresse

per la dimensione fisica del suono si era però venuta formando, nel frattempo,

un’altra concezione che, grazie alla mediazione plotiniana del platonismo, ave-

va posto in forte risalto la componente fisica del piacere estetico. L’antecedente

di questa nozione di bellezza corporea, identificata in base al genere di piacere

ad essa correlato, va rintracciato in un passo del Filebo in cui Socrate, all’inter-

rogativo di Protarco su quali piaceri fossero da accettare, risponde indicando

«quelli relativi ai colori detti belli, alle figure, alla maggior parte degli odori

e dei suoni, a tutti gli oggetti la cui mancanza è insensibile e indolore, e che

offrono riempimenti sensibili e piacevoli, puri da ogni dolore». Segue, poco

dopo, una definizione di bellezza pura, riferita in questo caso ai suoni:

Affermo, dunque, che i suoni che sono uniformi e chiari, cheproducono una melodia unitaria e pura, sono belli non in relazionead altro, ma in sé e per sé, e che da loro conseguono piaceri chenascono dalla loro stessa natura (51 b-c).

La nozione di bellezza come splendore, riferita non alla presenza di una pro-

porzione nella composizione delle parti, ma alla qualità propria di sensibili

semplici come la luce, il colore o il suono, fu in seguito sviluppata da Plotino

nel trattato Sul bello (Enneadi I, vi) e giunse al Medioevo attraverso la media-

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194 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

zione dello Pseudo-Dionigi56, nella cui opera ricorre con il nome di claritas.

Portata da Plotino a sostegno della tesi secondo cui la simmetria non è in gra-

do di rendere ragione di tutte le possibili manifestazioni della bellezza57, tale

nozione assumeva il valore di una prefigurazione del principio ultimo del Bello

intelligibile racchiuso, privo di forma, nell’Uno. Manifestandosi primariamen-

te nella gradevolezza delle cose, esso poteva attivare nell’uomo il desiderio di

una bellezza intellettuale superiore a quella sensibile e con ciò le arti, solleva-

te dall’accusa di esercitare un’azione distraente per l’anima, si configuravano

come il tentativo di risalire alle strutture razionali della natura senza il vincolo

posto dal riferimento concreto alla realtà58.

Assente nella riflessione di Boezio che, per il suo presupposto innatismo,

aveva ridotto il ruolo della sensazione a quello di mero stimolo per l’attiva-

zione di conoscenze già possedute in modo perfetto dall’anima59, la caratte-

rizzazione qualitativa della bellezza rientrava invece in quella che, nonostante

l’anacronismo, potrebbe essere definita estetica agostiniana60. Si è visto come

il giudizio dell’udito costituisse, per Agostino, una guida necessaria per lo stu-

dio della metrica61 e come quest’ultima, di conseguenza, non consistesse in

56Cfr. Pseudo-Dionigi Areopagita, De divinis nominibus IV, iv.57Un aspetto che può essere qui solo accennato è che la mancanza di efficacia individuata da J.

Anton nell’argomentazione plotiniana volta a dimostrare l’insufficienza del concetto di bellezzacome simmetria non si ripropone nel contesto del pensiero di Agostino. A differenza di Plotino,infatti, che non disponeva di un esempio migliore di quello che imponeva la sovrapposizione pro-blematica di bruttezza e falsità nell’illustrazione di come il sussistere di una simmetria tra due frasifalse non fosse, di per sé, sufficiente a determinare la bellezza dell’insieme, Agostino ammettevasenza difficoltà che un ordine qualsiasi potesse comporsi di parti non belle: «Non è vero che se tifissi solo su alcune membra dei corpi degli animali, non le puoi guardare? Tuttavia l’ordine dellanatura, poiché sono necessarie, ha voluto che non mancassero e, poiché sono indecenti, non hapermesso che si notassero molto. (...) Così sono, credo, tutte le cose, ma bisogna saperle vedere. Ipoeti hanno utilizzato quelli che si chiamano solecismi e barbarismi; hanno preferito, cambiandoi nomi, chiamarli figure e metaplasmi, piuttosto che evitarli come evidenti errori. Ebbene, toglilidalle poesie e sentiremo la mancanza di soavissimi addolcimenti. Riuniscine tanti in un solo com-ponimento, e mi urterà perché sarà tutto lezioso, pedante, affettato. Trasportali nella prosa delforo, e chi non le comanderà di fuggire e di rifugiarsi in teatro? L’ordine che li governa e li moderanon sopporterà che ve ne siano troppi né che siano ovunque» (ord. II, 14, 12-13). Cfr. [7, p. 234 ss.]

58Cfr. Enneadi V, viii, 1.59«Se, come stavo dicendo, nel provare la sensazione fisica l’animo non subisce l’impronta della

passione, ma è lui che giudica, in base alla sua forza estrinseca, la passione che è subordinata alcorpo, quanto più le realtà che sono libere da ogni affezione corporea non seguono già, quandovedono, quello che le urta dall’esterno, ma danno via libera all’atto della mente!» (De consolationephilosophiae V, prosa v).

60Si veda, a questo proposito, il contributo di M. Massin, secondo cui dalla riflessione di Ago-stino sul bello sensibile emerge una caratterizzazione dell’esperienza soggettiva del piacere comecompartecipazione di sensi e ragione, che conferisce una funzione anagogica all’esercizio concretodelle arti, particolarmente evidente nel caso della musica. Cfr. [89, p. 68.]

61Particolarmente significativo, in questo senso, è un accenno contenuto nella lettera che accom-pagnava l’invio del sesto libro del De musica all’amico vescovo Memorio, relativo alla necessitàdi sottoporre all’udito gli esempi proposti ai fini della comprensione del contenuto teorico: «Se ti

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 195

una mera razionalizzazione quantitativa della tecnica prosodica, quanto piut-

tosto nell’esito di una valutazione estetica del ritmo62. In aggiunta a ciò, va ora

rilevato che tale teoria si distanziava notevolmente da quella centrata sulla no-

zione di bello oggettivo che animava la concezione pitagorica e neoplatonica

della musica e che sarebbe stata invece raccolta da Boezio, poiché, a differenza

di questa, includeva una teoria della ricezione legittimata dal riconscimento

della funzione anagogica del piacere sensibile.

La distanza tra i due orientamenti, che, di fatto, non poteva nemmeno esse-

re ricondotta a una differenza nei condizionamenti filosofici in quanto entram-

bi traevano il proprio fondamento dal platonismo, consisteva piuttosto nella

diversa considerazione del suono in quanto fenomeno, da cui dipendeva, in

ultima istanza, la possibilità di percepire la bellezza attraverso i sensi. Secondo

la lettura di Tatarkiewicz63 è possibile parlare a questo proposito di un vero e

proprio dualismo nella definizione del bello, che si espresse nel binomio euar-

mostìa kaì aglàia (consonantia et claritas), sintesi del concetto di bellezza come

proporzione nell’ente composto e della sensazione di gradevolezza nell’ente

semplice.

Anche il giovane Agostino risentì profondamente di questa duplicità e, in

diversi passi dei suoi scritti, come già si è avuto modo di notare, si manifesta

un’atteggiamento quanto meno ambiguo in proposito, ricollegabile a quello,

parimenti oscillante, che caratterizza la sua presa di posizione nei confronti del

canto sacro. Nonostante l’ambiguità di fondo, tuttavia, là dove Boezio applica-

va la dottrina platonica delle idee innate istituendo una frattura tra il numerus e

il suono fisico, stante la quale la ricomprensione della musica fra le arti liberali

poneva come requisito l’astrazione dalla materia, Agostino assumeva il darsi

di un rapporto di continuità tra l’unità perfetta del primo principio, Dio, e i

numeri presenti nell’anima, nei sensi e nei suoni64. Tale continuità si rifletteva

potrò inviare quell’opuscolo, non sarò io a pentirmi d’averti obbedito, ma tu d’avermelo richiestocon tanta insistenza. E ciò per il motivo che i primi cinque libri di esso sono molto difficili dacapire, qualora non ci sia qualcuno che non solo distingua le persone degl’interlocutori, ma chefaccia pure sentire con la pronunzia la durata o quantità delle sillabe in modo che da queste sianoriprodotte le diverse specie di cadenze e colpiscano il senso dell’udito; soprattutto per il fatto chein diverse sillabe sono intercalate delle pause misurate, che non possono assolutamente osservarsise l’uditore non è ragguagliato da chi le pronuncia» (ep. 101, 3).

62Cfr. M. Massin, op. cit. p. 69.63Cfr. [140, p. 232.]64«Prendiamo dunque questi tre aspetti: misura, forma e ordine, per non parlare di altri innume-

revoli, che risultano riconducibili ai tre; ebbene proprio questi tre aspetti, misura, forma e ordine,

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196 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

anche nella sua concezione della bellezza fisica che, come risulta da una lettera

all’amico Nebridio, combinava il requisito oggettivo di simmetria e uguaglian-

za con quello soggettivo della piacevolezza: «Che cos’è la bellezza fisica (corpo-

ris pulchritudo)? La giusta proporzione delle parti, accompagnata da una certa

vaghezza di colorito (congruentia partium cum quaedam coloris suavitate)» (ep. III,

iv).

5.3.2 Sul concetto di forma musicale

Si è visto come con la scrittura sia possibile fissare solamente la forma estetica

della musica, il complesso dei suoi aspetti misurabili, come l’altezza dei suoni

e la determinazione delle durate, ma in nessun modo la potenza di un conte-

nuto spirituale che solo l’interiorità può custodire. Il passaggio da un concetto

di composizione come combinazione di formule a uno come organizzazione di

strutture e invenzione di materiale musicale coincise, non a caso, con la transi-

zione da una condizione caratterizzata dall’oralità e dall’anonimato dell’autore

a una dominata dalla scrittura e dalla notorietà di quest’ultimo, direttamente

connessa alla sua abilità nel conferire forma ai suoni.

Per comprendere che significato abbia il termine forma in ambito musicale

è opportuno distinguere tra due diverse accezioni65, l’una relativa al modo in

cui le parti si compongono per formare il tutto, l’altra all’aspetto esteriore e

percepibile del suono. Se quest’ultimo significato può essere ricondotto senza

eccessiva difficoltà al vocabolo greco morphé, usato principalmente per desi-

gnare le forme visibili, meno scontata appare la corrispondenza del primo a

ciò che in latino fu tradotto con forma e che in greco era espresso dal termine

éidos. L’impiego di questo vocabolo per indicare le forme astratte in generale

pone non poche difficoltà nel caso della musica: sebbene esso sembri oppor-

tunamente identificare la struttura della melodia nell’ordine dei suoni che la

compongono, infatti, il peso speculativo che lo caratterizza solleva questioni

di natura ontologica che impongono di prendere attentamente in esame aspet-

ti come il grado di compiutezza formale e di autonomia dei singoli organismi

musicali.

sono come dei beni generali nelle realtà fatte da Dio, sia nello spirito che nel corpo» (nat. b. III).65Cfr. W. Tatarkiewicz, op. cit. p. 229 ss.

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 197

Una distinzione in questo senso si trova presupposta anche in alcuni luoghi

dell’opera di Agostino, come, ad esempio, nel secondo libro del De ordine, do-

ve precede di poco la descrizione della nascita delle discipline razionali. Dopo

aver riconosciuto una netta superiorità al senso della vista e a quello dell’udi-

to, in virtù della loro capacità di cogliere la razionalità dei loro oggetti, Ago-

stino distingue, limitatamente ad essi, il bello come proporzione e una certa

piacevolezza non razionalmente connotata:

Ciò che compete alla vista, a proposito del quale si dice che laproporzione delle parti è razionale, di solito si chiama bello (pul-chrum). Ciò che compete all’udito, quando diciamo che che un con-cento è razionale e che un canto ritmico è composto razionalmen-te, ormai con nome appropriato è chiamato dolcezza (suavitas). Manon siamo soliti definire razionale né l’essere allettati dal colore nel-le cose belle, né, nella dolcezza dell’udito, il risuonare quasi liquidoe puro di una corda toccata. Ne consegue quindi che che dobbiamoaccettare che nel piacere di questi sensi appartenga alla ragione ciòin cui c’è proporzione e modulazione (ord. II, xi, 33).

Ciò che rimane ininfluente nella valutazione del bello, secondo Agostino, è

precisamente l’insieme delle qualità percettive non numericamente determina-

bili come, ad esempio, il timbro, la purezza e l’intensità del suono, che, tutta-

via, contribuiscono notevolmente a determinare l’aspetto esteriore e percepibi-

le della musica. Lo stesso Agostino, del resto, dimostra di esserne consapevole

quando, in un passo precedentemente considerato delle Confessiones66, ricon-

duce il fascino del canto alla sua esecuzione con voce limpida, oltre che alla

sapiente modulazione. Tale opposizione fra qualitativo e quantitativo si profi-

la, inoltre, nella premessa alla descrizione della genesi delle discipline liberali,

in cui si combina con quella tra significante e significato:

Una cosa è quindi il senso, un’altra ciò che si percepisce attra-verso il senso: infatti il bel movimento diletta il senso e attraversoil senso il bel singificato che è nel movimento diletta solo l’animo.Questo si avverte più facilmente nell’udito, poiché qualunque co-sa suoni gradevolmente, allieta e attira lo stesso udito, e ciò che èchiaramente significato attraverso quel suono, per mezzo dell’udito(nuntio quidem aurium) si riferisce solo alla mente (ad solam mentemreferetur). Così quando udiamo quei versi: Perché il sole dell’inver-no tanto si affretta a tuffarsi nell’oceano e quale ostacolo ritarda le nottiestive? in un senso lodiamo i versi, in un altro il contenuto (ali-

66Cfr. conf. X, xxxiii, 50.

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198 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

ter metra laudamus aliterque sententiam), e non è per lo stesso crite-rio che afferminamo: ’risuona razionalmente’ (rationabiliter sonat) e’razionalmente è espresso’ (rationabiliter dictum est) (ord. II, xi, 34).

Una distinzione analoga era stata individuata a suo tempo dagli antichi Sofisti,

nell’ambito dell’arte verbale e si era in seguito mantenuta nella poesia elle-

nistica. Presso alcune scuole della tarda Antichità67, la componente formale

riconducibile al suono delle parole, ai ritmi e, in generale, alle svariate declina-

zioni della ricchezza espressiva aveva assunto un’importanza particolarmen-

te accentuata, giungendo a identificarsi con l’essenza stessa dell’arte verbale.

Differentemente, Agostino, pur negando con decisione che l’anima potesse su-

bire un’azione da parte del corpo, riconosceva un valore imprescindibile alla

conoscenza sensibile, poiché era a partire da essa che l’anima poteva intra-

prendere il proprio percorso di elevazione. Nel caso della musica, ad esempio,

benché l’organo dell’udito fosse predisposto per il riconoscimento del ritmo,

gli schemi dai quali tale predisposizione era determinata, i numeri occursores,

necessitavano di essere applicati al suono in quanto fenomeno fisico68, vibra-

torio, per poter infine giungere ad essere presenti nella memoria come numeri

recordabiles69.

Il dato fondamentale, che è bene rimarcare, è che per Agostino la musica

in quanto evento fisico traeva esistenza non in virtù di un sostrato materiale,

il fenomeno delle vibrazioni, ma in virtù della presenza di schemi ordinatori, i

numeri, che a tutti i livelli - il suono, il senso dell’udito, la memoria, la voce, l’in-

telletto - manifestavano l’impronta razionale conferita dalla creazione. Tale im-

pronta, dal lato del soggetto, si traduceva nel coinvolgimento di tutte le facoltà

umane in relazione al coglimento della bellezza la quale, dunque, non figura-

va come oggetto esclusivo dell’intelletto. Diversamente da Boezio, Agostino

riconosceva anche ai sensi una componente di razionalità70 e definiva quin-67Tra gli esponenti più significativi in ambiente latino bisogna ricordare Cicerone e Quintiliano

che, come si è visto nel precedente capitolo, attribuivano un ruolo imprescindibile al giudiziodell’orecchio. Prima ancora tuttavia, osserva Tatarkiewicz, Cratete ed Eracliodoro non solo si eranoaffidati a tale giudizio nella valutazione della qualità dei versi, ma si erano addirittura mostratipropensi ad affermare la superiorità della forma sul contenuto. Cfr. op. cit. p. 238.

68«E quest’altro, che è nell’udito di chi ascolta? Può esserci se non risuona niente?» (mus. VI, ii,3).

69«Non dubito che (i numeri della memoria) si possano avere senza gli altri, tuttavia se nonfossero stati uditi o pensati non sarebbero affidati alla memoria. E per questo, sebbene rimanganoquando gli altri vengono meno, sono stati tuttavia impressi dai precedenti» (mus. VI, iii, 4).

70«Possediamo, per quanto si sia potuto ricercare, alcune tracce della ragione nei sensi e, perquanto riguarda la vista e l’udito, anche nello stesso piacere» (ord. II, xi, 33).

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 199

di il giudizio estetico in termini di sinergia tra gradevolezza e comprensione

scientifica.

In questo senso, come E. Dehnert71 ha osservato, il piano della riflessione

agostiniana non era più solamente ontologico, ma anche fenomenologico, per-

ché ogni momento dell’operare artistico, tanto ricettivo quanto produttivo, non

consisteva, in ultima analisi, che in una manifestazione dell’ordine del creato.

Ciò che per Boezio rappresentava una possibilità di liberazione dal sensibile

per accedere al mondo perfetto delle idee, agli occhi di Agostino appariva come

un mezzo per la scoperta del carattere onnipervasivo di tale ordine, a motivo

del quale l’astrazione dalla materia non costituiva di per sé requisito necessario

a legittimare la denominazione di arte liberale. Il requisito davvero fondamen-

tale, che nel contesto del De musica emerge con chiarezza solo nel sesto libro

e che fu ribadito a parecchi anni di distanza nella lettera che ne accompagnò

l’invio al vescovo Memorio72, era piuttosto l’indubitabile affermazione del suo

carattere eminentemente strumentale, in nessun modo bastevole a produrre la

salvezza senza l’intervento di Dio: «Cosa rispondere infatti a certe persone che,

pur essendo malvagie ed empie, si danno l’aria d’avere un’istruzione liberale?

Risponderemo con la frase che leggiamo nelle lettere davvero liberali e cioè:

Sarete veramente liberi, se vi libererà il Figlio73. Poiché solo per mezzo di lui ci è

concesso di conoscere che cosa hanno di liberale le stesse discipline chiamate li-

berali da coloro i quali non sono stati chiamati alla libertà dal peccato. In effetti

non hanno nulla di confacente alla libertà, se non ciò che hanno di rispondente

alla verità. Ecco perché lo stesso Figlio soggiunge: E la verità vi farà liberi74».

5.3.3 Il potere della forma

Se per un verso il suono rappresenta banalmente la condizione dell’esistenza fi-

sica della musica, per un altro, considerato nella sua essenza determinata come

movimento, è anche il mezzo attraverso il quale può attuarsi quella corrispon-

denza con l’anima che la teoria mimetica aristotelica aveva così chiaramente

71Cfr. [46, p. 990.]72La data di composizione del sesto libro del De musica è stata collocata attorno al 391, mentre il

suo invio per soddisfare la richiesta dell’amico Memorio avvenne tra il 408 e il 409.73Gv. 8, 36.74Gv. 8, 32.

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200 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

descritto75. La concezione della costituzione fisica del suono era piuttosto omo-

genea presso gli antichi e teorie in sostanziale accordo tra loro furono formulate

molto tempo prima di quella, assai celebre, esposta da Platone nel terzo libro

della Repubblica76. Verso l’inizio del V sec. a. C., infatti, aveva iniziato a svilup-

parsi una teoria dell’éthos musicale che rintracciava precise corrispondenze tra

strutture musicali, ovvero scale e ritmi, ed effetti ben definiti e ripetibili sulla

qualità emotiva dell’anima. Ancor più anticamente, la credenza nella capacità

taumaturgica della musica affondava le sue radici in credenze magico-religiose

che facevano riferimento a figure mitiche come quella di Orfeo che, per scen-

dere negli inferi e salvare l’amata Euridice, era riuscito a commuovere persino

gli dei con i suoi canti77.

La prima vera e propria elaborazione teorica del potere psicagogico della

musica, come noto, prese forma in seno al pitagorismo. Numerose sono le

testimonianze in proposito e, tra tutte, la più significativa è quella contenuta

nella Vita di Pitagora di Giamblico, che vale la pena citare integralmente78:

Pitagora era dell’opinione che anche la musica fornisse un uti-le contributo alla salute, qualora ci si dedicasse ad essa in modoconfacente. In effetti la consideava un mezzo tutt’altro che secon-dario di procurare la catarsi: questo era infatti il nome che davaalla cura operata per il tramite della musica. A primavera esegui-va questo esercizio musicale: faceva sedere in mezzo un suonatoredi lira, mentre tutt’intorno sedevano i cantori e così, al suono dellalira, cantavano insieme peani che ritenevano producessero loro gio-ia, armonia e ordine interiore. Ma anche in altri periodi dell’annoi pitagorici si servivano della musica come mezzo di cura. C’eranodeterminate melodie, composte per le passioni dell’anima - gli statidi scoraggiamento e di depressione - che pensava fossero di gran-dissimo giovamento. Altre erano per l’ira e l’eccitazione e ogni altraconsimile perturbazione dell’animo. Inoltre esisteva una musica digenere differente, escogitata al fine di contrastare il desiderio. I pi-tagorici usavano anche danzare, e lo strumento di cui si avvalevanoa questo fine era la lira, perché consideravno il suono dell’aulo vio-lento, adatto alle feste popolari e del tutto indegno di uomini dicondizione libera. (...) si racconta poi che una volta Pitagora, chein quel momento era dedito alle sue occupazioni, fosse riuscito aplacare grazie a un’aria solenne di quelle in uso in occasione dellelibagioni fatta eseguire da un auleta, la furia del giovane ubriaco diTauromenio. Questi impazzava nottetempo per la sua amata e sta-

75Cfr. § 3.3.1.76Cfr. 398 e - 400 d.77Il mito di Orfeo è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (10.8 e 11.1 ss.).78Vita di Pitagora 110-4. Cit. in [124, pp. 78-9.]

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 201

va per appiccare il fuoco alla porta di casa di un rivale in amore: erastato infatti eccitato da una melodia frigia per aulo. Pitagora, dun-que, che era intento, nel pieno della notte, agli studi di astronomia,ordinando all’auleta di passare al ritmo delle arie di libagione fecesì che subito smettesse. In virtù di ciò il giovane immediatamentesi placò e si allontanò verso casa in tutta compostezza, laddove inprecedenza non riusciva a dominarsi nemmeno un po’ e non avevaassolutamente tollerato il tentativo di Pitagora di correggere il suoatteggiamento, anzi aveva mandato sconsideratamente alla malorail suo incontro con lui. (...) inoltre l’intera scuola pitagorica rea-lizzava quelle che si chiamavano ’preparazione’, ’armonizzazione’e ’correzione’ mediante certe melodie adeguate allo scopo, con lequali modificavano giovevolmente gli stati d’animo, suscitando isentimenti inversi. Infatti, al momento di andare a coricarsi purifi-cavano la mente dagli echi dei turbamenti della giornata per mezzodi canti e di melodie particolari, e così si procuravano un riposotranquillo accompagnato da pochi e buoni sogni. Anche quandosi levavano si liberavano dal torpore del letto e dalla sonnolenzagrazie a canti di genere diverso e talora a melodie senza parole.A quanto dicono, talvolta guarivano certi stati d’animo patologicimettendo in atto veri e propri incantamenti: ed è verosimile che daciò sia entrato nell’uso il termine incantamento (epoidé).

Dopo Pitagora, che non entrò, tuttavia, nello specifico della trattazione, le pro-

prietà psicagogiche della musica divennero oggetto di una vera e propria opera

di sistemazione da parte di Damone, maestro e consigliere di Pericle che, fatto

proprio il principio fondamentale della teoria pitagorica relativamente all’i-

dentità tra le leggi che riguardano i rapporti tra i suoni e quelle che governano

il comportamento dell’animo, individuò precisi rapporti di corrispondenza tra

strutture musicali da un lato e caratteri o disposizioni d’animo (éthe) dall’altro.

Platone, nel già citato luogo della Repubblica, assunse come valida tale dottrina

e, pur dando prova di non conoscerla correttamente nel dettaglio, la applicò

nella determinazione dell’educazione ideale dei guardiani79.

Una presa di posizione comune a Damone e Platone, conferma della pro-

fonda consapevolezza che entrambi ebbero della forte valenza etica e politica

della musica, fu il netto rifiuto opposto alle spinte anarchicamente innovatri-

ci rappresentate, rispettivamente, dai ditirambografi della seconda metà del V

sec. e dai musici che, in quello successivo, iniziarono a sovvertire gli schemi

melodici senza riguardo per la tradizione e con grave rischio per il popolo: «In

79La selezione platonica delle melodie e dei ritmi giudicati appropriati non si conforma conesattezza ai criteri damoniani e prescrive l’impiego di due sole armonie, la dorica e la frigia, e deisoli ritmi semplici.

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202 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

particolare, la sostituzione di un genere musicale con uno nuovo va vista con

sospetto, perché rischia di compromettere il tutto. Di conseguenza, per nessun

motivo si dovranno modificare i generi della musica, dato che, in tal caso, non

si potrebbe evitare di scuotere i fondamenti su cui poggia la costituzione dello

stato. Questo dice Damone, e questo io approvo» (Repubblica 424 c).

Anche Aristotele, come si è visto80, si servì della dottrina damoniana nel-

l’ottavo libro della Politica, parimenti animato da un’intento spiccatamente pe-

dagogico, ma, tuttavia, con una sostanziale differenza concettuale. Oltre al fine

educativo (paideía), infatti, l’unico che Platone riconoscesse alla musica, Aristo-

tele era propenso ad ammetterne altri due, ovvero quello connesso al diverti-

mento (paidiá) e quello ricreativo (diagogé): «È ragionevole riportarla a tutti e

tre e, in verità, pare che ne partecipi davvero. Infatti il divertimento è in vi-

sta del riposo e il riposo è di necessità piacevole (perché è una medicina delle

sofferenze procurate dalle fatiche); la ricreazione intellettuale, per ammissione

concorde di tutti, deve avere non soltanto nobiltà, ma anche piacere (perché

l’essere felici deriva proprio da questi due elementi) e la musica diciamo tutti

che è tra le cose più piacevoli, sia sola, sia accompagnata dal canto» (Politica

1139 b). Corollario di questa differente impostazione, che contemplava la pos-

sibilità di più versanti d’impiego della musica, fu l’assenza di una valutazione

in senso assoluto delle armonie e dei ritmi, i quali, tutti caratterizzabili in ter-

mini di mimesi di altrettanti stati dell’anima, possedevano ciascuno il proprio

opportuno contesto di applicazione.

Il richiamo all’impiego corretto delle risorse musicali, che presuppone lo

scollamento tra uso tecnicamente corretto e uso eticamente legittimo, è espres-

so anche da Agostino all’inizio del De musica dove, nell’atto di giustificare la

presenza dell’avverbio bene quale necessaria componente della definizione di

musica, lo determina in funzione della capacità di discriminare tra ciò che «è

mosso secondo leggi numeriche nell’osservanza delle misure dei tempi e del-

le lunghezze» e che, per questo, è già da considerarsi modulazione e provo-

ca piacere, e ciò che, così regolato, è usato al momento opportuno. Secondo

questa distinzione, se un cantante, ad esempio, applica una melodia eseguita

con dolcezza a un argomento austero «usa male, cioè in modo inadatto, quel

80Cfr. § 3.3.1.

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 203

movimento che si può definire buono solo perché fondato sui numeri» (I, iii,

4).

La capacità di giudizio cui fa riferimento Agostino, a differenza dal piace-

re sensibile prodotto dalla percezione della numerositas nella forma esteriore,

appartiene esclusivamente alla ragione, che lo esercita in virtù del possesso di

una categoria di numeri distinta dai cinque già individuati e denominati, in

opposizione a questa, sensibili81. La posizione di netta supremazia che ad es-

sa viene attribuita, nel suo implicare una caratterizzazione in senso neutrale

dello stesso concetto di aequalitas, manifesta nel modo più evidente l’essenza

utilitaristica della filosofia dell’arte di Agostino. Nella prospettiva da essa di-

schiusa, infatti, l’imitazione sensibile dell’uguaglianza custodita nell’archetipo

appare privata di ogni autonomia e investita di valore solo in relazione alla sua

collocazione all’interno del «cantico dell’universo».

Sebbene nel De musica, come precedentemente considerato82, attività sensi-

bile e attività razionale dell’anima si dispongano in un’ideale successione senza

soluzione di continuità, il bello sensibile non può essere assunto come oggetto

degno di fruizione, ma richiede di essere legittimato mediante la sua subordi-

nazione a un fine determinato da parte della ragione; allo stesso modo, nella

rielaborazione del progetto enciclopedico condotta nel De doctrina Christiana,

l’inclusione della retorica tra i mezzi a disposizione dei ministri della Chiesa

è sostenuta ponendo in rilievo il carattere puramente strumentale della disci-

plina, vincolato al potenziamento dell’efficacia dell’insegnamento. In entrambi

i casi, la concretizzazione sensibile di una forma razionale, custode delle leg-

gi del numero, si riflette sull’attività tecnico-artistica e sui suoi prodotti come

negazione di autonomia a tutti i livelli, compreso quello espressivo. Tale ne-

gazione, che nelle due opere citate si compone con il potere discernente della

ragione impegnata nell’esercizio della scelta del mezzo opportuno in vista del

fine buono, adombra forse, già nel dialogo giovanile, la dissoluzione dell’auto-

81Si tratta dei cinque generi dei numeri mutevoli, ovvero, iudiciales, progressores, occursores, re-cordabiles e sonantes, che Agostino analizza nella prima parte del sesto libro del De musica. Conl’introduzione del sesto e superiore genere dei numeri immutabili della ragione, nella seconda me-tà, Agostino modifica la dicitura dei numeri iudiciales in sensuales e trasferisce a quest’ultimo quellaoriginaria, a motivo della sua eccellenza. Nello stesso luogo modifica anche la dicitura dei nu-meri sonantes sostituendola con numeri corporales, allo scopo di significare più chiaramente la loropresenza nella danza e in tutti i movimenti visibili in genere. Cfr. mus. VI, ix, 24.

82Cfr § 3.1.

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204 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

nomia della creazione stessa a seguito del pensiero radicale dell’onnipotenza

divina come assoluta indipendenza dalla sua opera.

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Conclusioni

La ricostruzione dei tratti principali che caratterizzavano l’esercizio concreto

della retorica e della musica ha consentito di precisare la natura del legame di

affinità intercorrente tra le due discipline, oggetto dell’ipotesi iniziale, il quale

si è reso apprezzabile in particolar modo sul piano della tecnica compositiva,

segnatamente nell’operatività di un medesimo modello di organizzazione del-

la struttura mediante combinazione di modelli archetipici. Connesso a questo

modello era, come si è visto, l’intento di mettere a frutto le risorse della for-

ma come ausilio mnemonico che, in una cultura come quella tardo-antica e

medievale, rappresentava l’unica possibilità di conservare la tradizione.

La radice ultima della comunanza tra le due discipline, come già più vol-

te affermato, affonda nell’essenza linguistica della loro operatività, la quale

sembra discostarsi, tuttavia, da quella che identifica l’impiego ordinario del

linguaggio nella misura in cui non appare animata da un intento comunicativo

vero e proprio. Se quest’ultimo, infatti, si esplica primariamente e, al limi-

te, esclusivamente nella trasmissione di contenuti veraci, di informazioni che,

non potendo essere oggetto di condivisione immediata da parte degli uomini,

richiedono il linguaggio quale indispensabile strumento di mediazione, l’in-

tento sotteso all’uso eloquente83 e all’uso musicale del linguaggio sembra poter

prescindere, almeno potenzialmente, dal dato oggettivo nella produzione dei

suoi effetti, i quali sono riferibili in massima parte all’uso sapiente della forma

del suono. Si tratti di persuasione ottenuta dispiegando gli artifici dello stile

elevato o dell’incantamento prodotto da una melodia che riveste il testo sacro,83Se è vero che la caratterizzazione ciceroniana dello stile filosofico come «non privo di una

certa bellezza, ma senza vigore», «volto a calmare gli animi più che ad eccitarli» identifica unasorta di eloquenza solitaria, condivisibile al più con una ristretta selezione di dotti e fiduciosa nelvalore assoluto della verità, la consapevolezza del potere debordante dello stile elevato sulle masseirrimediabilmente oscura l’ottimismo sotteso, lasciando intravedere la fragilità del sapere umano.

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206 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

la verità del contenuto si trasforma in fattore potenzialmente non vincolante:

nel primo caso, infatti, la parola eloquente non solo si affida alla componente

espressiva e formale per potenziare o depotenziare la verità, ma può spingersi

all’estremo della falsificazione, mentre, nel secondo, la parola cantata induce

la com-mozione più profonda per mezzo della sua forma percepibile. Proprio

questo dato di fatto innegabile, come già riscontrato, spiega l’atteggiamento

non univoco di Agostino nei confronti del canto sacro.

Si è constatato che la concezione ebraica della musica sacra, trapassata in

quella cristiana assieme alla prassi della cantillazione e della salmodia, era cen-

trata sull’esigenza di contenere il più possibile l’effetto di distorsione della pa-

rola sacra che, nell’atto della sua proclamazione, si trovava esposta all’azione

manipolatrice dell’uomo, consapevole o meno. Anche in quel contesto origi-

nario, dunque, era stata le veste sonora della parola, percepita come potenziale

veicolo di distorsione ed eversione, a porre l’esigenza della sua neutralizzazio-

ne: impossibile da eliminare, al pari del corpo cui Agostino, come più volte

ricordato, assimila il suono della parola, quest’ultimo fu accolto in seno alla

liturgia, ma a condizione che si lasciasse interamente determinare dalla regola,

quasi come se essa avesse il potere di sublimarne la materialità soffocando così

il germe di ogni possibile ribellione.

Dal punto di vista storico Agostino assistette al passaggio dalla metrica

quantitativa a quella accentuativa e, con esso, all’esaurimento del linguaggio

quale giacimento di forme, vero e proprio ricettacolo di archetipi che era suf-

ficiente combinare fra loro nel canto, senza introdurre aspetti di originalità.

Forse fu proprio questo contesto di transizione, in cui i primi esempi di forma

musicale non immediatamente generati dal testo, come l’inno, iniziavano a dif-

fondersi tra l’entusiasmo dei fedeli rendendosi addirittura veicolo di eresie che

Agostino giunse a intuire la pericolosità incontenibile di una musica che avan-

zasse pretese di autonomia. Questa conclusione, del resto, riprende quanto è

stato affermato in chiusura del precedente capitolo, ove si era giunti a deter-

minare la filosofia della musica agostiniana in termini di utilitarismo. Ciò che

con queste concise osservazioni si intende ora ipotizzare è che tale carattere di-

pendesse essenzialmente dal processo di generazione dal linguaggio, rispetto

al quale la determinazione strumentale della musica sembrerebbe configurarsi

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 207

in termini di eredità.

Alla disciplina della forma sensibile imposta dal ruolo liturgico, assimila-

bile, per certi versi, a una sorta di auto-soppressione, di astrazione dall’evento

singolare dell’enunciazione, la retorica opponeva un intento di segno opposto,

ovvero l’affermazione della precedenza della forma sul contenuto, condizio-

ne necessaria alla fruttuosa manipolazione della prima in vista della massima

efficacia del secondo. Se in un caso, dunque, la tecnica era subordinata a con-

sentire la piena manifestazione del contenuto nella completa trasparenza della

forma, nell’altro essa agiva con l’unico vincolo dell’efficacia, rivestendo e opa-

cizzando con l’artificio. Ora, se è vero che, negli scritti di Agostino, la diffiden-

za suscitata dal potere del suono nel canto sacro non era motivata dal sospetto

di un’intenzione in esso celata, ma rinviava unicamente al cattivo uso che il sin-

golo, per sua responsabilità, poteva essere portato a farne, è vero anche che gli

inni ambrosiani presentavano, per quanto poco, una componente riconducibile

all’arbitrio del loro autore e che proprio a quest’ultima era riconducibile, indu-

bitabilmente, il potente effetto esercitato sui fedeli. Con il passare dei secoli,

del resto, tale componente era destinata ad acquisire un peso sempre maggio-

re nella formazione del repertorio, sino alla compiuta caratterizzazione della

musica sacra non più come come funzionale, ma come vera e propria musica

d’arte.

Sul piano dell’evoluzione storica, il disinteresse dei teorici e dei Padri della

Chiesa nei confronti della dimensione esecutiva della musica perdurò almeno

sino al IX secolo, quando la preoccupazione di costruire una cultura alternativa

a quella classica fu sostituita dal progetto di unificazione che animò la riforma

carolingia e che si tradusse nella messa a punto di un canto che potesse vale-

re come linguaggio universale della Chiesa. La necessità pratica di costituire

il repertorio, di regolamentarne l’esecuzione e di provvedere alla formazione

dei cantori produsse un generale disinvestimento dall’attività puramente con-

templativa della harmonia mundi a favore di un maggior interesse nei confronti

della teoria e della didattica musicale. Come A. Morelli84 ha osservato, già il

primo trattato di epoca carolingia, il Musica disciplina di Aureliano di Réôme,

risente di questa svolta tradendone traccia nel fatto di far seguire alla consueta

84Cfr. op. cit. p. 149 ss.

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208 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

lode della simmetria e dell’ordine del cosmo l’esortazione a corrispondervi per

mezzo della voce con un canto di lode: «Una mente saggia potrà facilmente

riconoscere come tutte queste cose si accordano tra loro, al punto da non po-

ter dubitare che la disciplina musicale manifesta in tutte le cose che sono state

create la Sapienza del Creatore, e pertanto ogni creatura deve lodare con un

canto senza fine il proprio Autore, poiché tramite il profeta si esorta: Lodate il

Signore dai cieli e via di seguito fino alla fine del salterio85».

Il mutamento di prospettiva sotteso a questa visione può essere misurato in

rapporto alla tripartizione boeziana della musica, in riferimento alla quale esso

appariva riguardare in massima parte la musica humana: originariamente in-

tesa come manifestazione dell’unione di anima razionale e anima irrazionale,

oltre che espressione dell’equilibrio armonico tra anima e corpo, essa tendeva

ora a coincidere sempre più con la musica vocale, qualificandosi come l’esito

del prorompere in suono della potenza irrazionale dell’anima. Con Aureliano,

insomma, sempre secondo Morelli, si impone sulla scena speculativa l’inter-

pretazione della musica humana come vox hominis, che, in seguito, sarebbe stata

fatta propria da molti altri teorici medievali perdurando almeno sino alla fine

del XIII secolo.

L’elemento scatenante che, sebbene solo dopo un lungo periodo di incu-

bazione, era destinato a produrre il cambiamento era la concezione cristiana

dell’uomo, in particolar modo la considerazione della sua componente sensi-

bile. Da un lato coincidente con lo spazio d’azione della libera volontà del

singolo, unica origine del male, dall’altro strumento indispensabile per coglie-

re la razionalità costitutiva delle cose, la corporeità finiva per sostenere tutto

il peso del nuovo ordine del cosmo, il quale si manifestava, equivalentemente,

nell’ambigua valutazione del fenomeno sonoro. Se per il neoplatonismo, di cui

era imbevuta la speculazione dei primi autori cristiani, la materialità del cor-

po, così come quella del suono, rappresentava una dimensione da trascendere,

nel pensiero cristiano essa non solo era investita di dignità ontologica in quan-

to riconducibile alla volontà creante di Dio, ma fungeva altresì da tramite fra

Creatore e creatura. Una possibile declinazione di tale funzione mediatrice si

ricava, ad esempio, dal seguente passo di Clemente Alessandrino, in cui l’uo-

85Musica disciplina I, 16-8. Cit. in A. Morelli, op. cit. p. 151.

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 209

mo, vero e proprio tempio edificato per far risuonare la parola di Dio, come

già in San Paolo, trova il modo di manifestazione più pieno della propria gio-

ia incontenibile nell’effusione fisica di un canto, non più veicolo della parola

rivelata, ma solo giubilo ineffabile, eco del Lógos del Creatore86:

Esso (il Canto Nuovo, Lógos di Dio, Gesù Cristo) ordinò (...) ar-moniosamente l’universo, e armonizzò la disarmonia degli elemen-ti secondo una disposizione di consonanza, affinché l’intero creatosi armonizzasse con lui. (...) Il Lógos di Dio, che discendeva da Da-vid ed esisteva prima di lui, disdegnò la lira e la cetra, strumentisenza vita, e, avendo armonizzato mediante lo Spirito Santo questomondo, il piccolo mondo, vale a dire l’uomo, tanto la sua animaquanto il suo corpo, mediante questo strumento suona in onore diDio, e canta con questo strumento che è l’uomo: Tu infatti sei perme una cetra, un flauto e un tempio: una cetra a motivo dell’armonia,un flauto a motivo dello spirito, un tempio a motivo della ragione,affinché l’una risuoni, l’altro spiri e l’ultima comprenda il Signore.

Con il pensiero radicale dell’onnipotenza di Dio da parte di Agostino, la ra-

gione, che aveva saggiato il proprio potere speculativo nella sistematizzazione

delle arti liberali passando attraverso lo scacco alla potenza riflessiva del lin-

guaggio esibita nelle arti del trivio e la rinnovata fiducia nella decifrabilità del

cosmo mediante il numero, assiste, al cospetto della volontà imperscrutabi-

le della grazia, allo svuotamento di valore del sapere oggettivo custodito nel

quadrivio. Al posto dello stare passivo del cosmo, rassicurante nel suo offrir-

si all’attività ermeneutica dell’uomo come un codice definitivamente scritto in

paziente attesa di decifrazione, si leva l’imprevedibile declinarsi della volon-

tà divina nell’irriducibile dinamismo del suo progetto, di fronte al quale nulla

può elevarsi a difesa di un vero oggettivo poiché verità diversa da quella volu-

ta da Dio non v’è. Come all’inizio dei tempi, quando nulla esisteva, la voce di

Dio risuona unica, senza interlocutori, non per avviare un dialogo con l’altro,

ma per conferirgli un’esistenza che annulla ogni possibilità di autonomia87 a

86Protrettico ai Greci, I, v, 1-4.87Anche nell’unico luogo in cui l’uomo può esercitare un’autonomia illusoria, l’immaginazione,

tutti i suoi prodotti sono in qualche modo riferiti alla realtà, che ne decide il valore di verità o difalsità. Ogni pretesa di svincolarsi dall’ordine razionale, unica garanzia di intelligibilità, non hapossibilità di conseguire un’autonomia senso e di valore, come invece, in epoca moderna, si con-cede all’arte. L’unica opera d’arte, per Agostino, è la creazione nella sua totalità e l’unica creativitàil cui esito sia diverso dall’illusione e dalla menzogna non può dunque essere che quella di Dio.La concezione moderna dell’artista affonda proprio qui le sue radici: senza l’indebolimento dellapretesa di condensare nell’arte un sapere oggettivo, in cui tutto è da scoprire con l’indagine razio-nale e nulla da inventare, non sarebbe stato possibile concepirla come creazione di ordini e mondinuovi.

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210 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

parte la libertà di compiere il male, così l’ultima parola che Dio rivolge al singo-

lo non è parola che parla, ma parola che fa, che produce salvezza o dannazione

secondo la sua volontà.

Il bisogno di penetrare questa dimensione così impervia per la conoscenza,

quella della volontà, di cogliere i meccanismi che quotidianamente governano

l’operare umano giungendo a estrapolare, in virtù della Somiglianza, un possi-

bile punto di contatto con la volontà imperscrutabile di Dio era stato il pensiero

dominante del giovane Agostino, formulato come intento programmatico nei

Soliloquia88 e perseguito in tutta la riflessione successiva. L’associazione di vo-

lontà e fantasia, emancipata, quest’ultima, dal ruolo meramente riproduttivo

dell’esperienza sensibile, rappresenta un contributo fondamentale di Agosti-

no89 che, pur caratterizzando la natura umana come essenzialmente passiva

e ricettiva, intuiva la potenza dirompente insita nella dimensione cretiva del-

l’immaginazione, senza potersi sottrarre alla necessità di renderne conto. La

consapevolezza dell’attinenza della fantasia da un lato alla sfera razionale, ori-

gine della sua natura discorsiva e, dall’altro a quella emotiva, emerge di fre-

quente sotto forma di una tensione mai risolta, che si riflette nell’ambiguità

dimostrata nei confronti della retorica e, ancor più, della musica. L’ineguaglia-

bile potenza espressiva di quest’ultima, tuttavia, giunge infine a manifestare il

proprio significato profondo, manifestazione, ad un tempo, della volontà origi-

naria dell’uomo di dire tutte le cose e del limite ad essa imposto, incapace però

di soffocare lo slancio originario. In questo senso, forse, può essere intesa la

seguente, densa, osservazione di Adorno90: «Rispetto alla lingua che esprime

significati determinati, la musica è una lingua di tipo completamente diverso.

Qui sta il suo aspetto teologico».

Nell’ultima fase della riflessione agostiniana la vox humana perde il suo con-

tatto con la verità e l’unica via di salvezza le viene dischiusa, eventualmente,

dalla chiamata della vox divina. Il rapporto con il Maestro interiore che, negli

anni di Cassiciaco, costituiva la guida infallibile alla verità per l’anima dotata

di libero arbitrio si trasforma in intervento diretto operato dall’azione interiore

dello Spirito: se il primo operava nell’interiorità di ogni uomo come fonda-

88«Desidero sapere Dio e l’anima. - E nulla più? - Assolutamente nulla» (sol. I, ii, 7).89Cfr. [123, p. 123.]90[3, p. 114.]

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 211

mento metafisico, verità trascendente e, al contempo, immanente, il secondo

manifesta l’assoluta trascendenza di Dio rispetto alla stessa verità metafisica,

nella forma di una totale indisponibilità91. La vox dicens dell’uomo ammuto-

lisce92 e può solo effondersi come vox resonans, lode ineffabile in cui la voce

del singolo si unisce al cantico del creato e in cui l’impotenza della ragione si

manifesta come impotenza della parola. Oppure, come nell’opera cui imme-

diatamente si associa il nome di Agostino, può farsi strumento del cantico di

una vita, in cui l’incomunicabilità dell’esperienza personale del divino trova

espressione grazie alla forza evocatrice della parola. Senza più alcuna mira

di superamento in direzione della verità93, poiché il sicuro cammino tracciato

dalla logica è stato abbandonato, nelle Confessiones le immagini divengono il

linguaggio privilegiato della vita spirituale, mezzo di condivisione delle sfu-

mature emotive del rapporto con il divino nell’unione empatica fra le anime

dei lettori94.

G. Ceresola95 ha fatto notare la limitata validità di queste considerazioni

alle sole Confessiones, riconoscendo in ciò la conferma del fatto che l’immagi-

ne poetica, per quanto evocatrice di pieghe spirituali inaccessibili all’intelletto,

non riesce comunque a cogliere la verità, in quanto priva della legge raziona-

le che, sola, ha il potere di raggiungerla. Ora, se questo può essere senz’altro

affermato in relazione alla fase giovanile del pensiero di Agostino, che è quel-

la effettivamente presa in considerazione dalla studiosa, nel caso di quello più

tardo e successivo alla svolta il dissolversi del rapporto tra verità e salvezza an-

nulla senza appello il potere della ragione di fronte all’immeritabile chiamata

di Dio.

La metafisica dell’ordine di stampo platonico, che costituiva lo sfondo in

91Cfr. G. Lettieri, op. cit. pp. 439 ss.92Al fondo del platonismo e di tutte le filosofie in qualche misura influenzate da esso, come quel-

la agostiniana, permane la nozione parmenidea di verità, in cui l’Essere si dice con una sola parolain quanto possiede un unico significato. L’annullamento di tutti gli altri, in quanto instabili e quin-di inconsistenti, coincide con l’annullamento della comunicazione stessa, con l’arresto al cospettodell’ineffabile. Proprio questo, d’altra parte, sembra essere l’esito ultimo della teologia agostiniana:la perdita di efficacia della trasmssione di contenuti, determinata dal dissolversi di uno dei due po-li della comunicazione e dalla crisi della spiegazione oggettiva di fronte all’indicibilità dell’Essere,totalmente rimesso alla volontà di un Dio che opera senza vincoli.

93L’immagine, nelle Confessiones, agisce rievocando una situazione affettivamente connotata,legata al sensibile, che nulla ha che che vedere, nemmeno in termini di propedeuticità, con laconoscenza razionale della verità.

94Cfr. [55, p. 120.]95Cfr. G. Ceresola, op. cit. p. 163.

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212 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

grado di giustificare la ricomprensione della musica tra le arti liberali, viene

dunque corrosa nel tentativo estremo di pensare l’assoluta libertà di Dio, l’on-

nipotenza anarchica del Creatore che non ammette l’altro, né l’antagonista alla

pari dell’eresia manichea, né la creatura. L’ordine razionale che conferisce con

un unico atto esistenza e bellezza alle cose si trova a fronteggiare da un lato

la volontà malata della creatura, che può volere il nulla, dall’altra la volontà

assolutamente libera del Creatore, che può volere tutto. Di fronte a questa tra-

gica consapevolezza il progetto enciclopedico costruito sulla fiducia nella chia-

ve ermeneutica dell’arithmós crolla, trasformando la dedizione alle arti liberali

in ambitio saeculi e imponendo la riformulazione della condanna precedente-

mente espressa nei confronti dell’amore per la bellezza inferiore del suono in

termini di concupiscientia carnis. Drasticamente ridimensionata, l’aspirazione al

vero assoluto della logica cede il passo ad altre manifestazioni del lógos come

la parola eloquente e il canto, nel quale il rapporto dialogico viene addirittura

dissolto: fluendo, infatti, la melodia si impossessa dell’altro e lo annichilisce,

oppure annulla il suo stesso esecutore in uno stato di ebbrezza che altro non

è se non il sentimento di Dio «colto come un suono interiore alla coscienza

ripiegata su se stessa96».

La riabilitazione del suono passa attraverso la sua sublimazione interiore,

che non ne elimina la dimensione estetica, ma riconosce in essa la presenza ri-

sonante di Dio: «Nella casa del Signore eterna è la festa. Non vi si celebra una

festa che passa. Il festoso coro degli angeli è eterno; il volto di Dio presente

dona una letizia che mai viene meno. Questo giorno di festa non ha né inizio

né fine. Da quella eterna e perpetua festa risuona un non so che di canoro e di

dolce alle orecchie del cuore; purché non sia disturbata dai rumori del mondo»

(en Ps. 41, 10). Tale presenza si manifesta ancora nel modus, ma senza che la

sua percezione attivi un desiderio intellettuale e una ricerca del fondamento

ontologico. Il canto, nella forma estrema di interiorizzazione che si realizza

nello jubilus, non è più generato dalla forma della parola, ma esprime una con-

cordanza senza mediazione attuata come in un’estroflessione dell’animo che,

mimeticamente, lascia un’impronta nel suono.

Risolta in un movimento inverso rispetto a quello messo in atto dalla for-

96[54, p. 179.]

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 213

za psicagogica della parola retorica e dall’immagine sonora della musica che,

come era stato teorizzato da Aristotele, erano in grado di agire sull’animo mo-

dificandolo, l’effusione spontanea dello jubilus porta invece a manifestazione

l’unica tonalità emotiva spontanea, la pura gioia, espressione di un contemplare

differente da quello della teoresi. Solo a questo punto retorica e musica iniziano

a divergere, nel punto, cioè, in cui riemerge, sebbene diversamente formulata,

l’opposizione tra atto produttivo e atto contemplativo, tra l’uso della forma per

veicolare un contenuto e la soppressione della particolarità del secondo per la-

sciare emergere l’universalità della prima o, ancora, tra il complesso artificio

idolatrico e la semplice manifestazione della scintilla divina nell’uomo.

La presenza dell’artificio97 segnala infallibilmente l’operare arbitrario di un

singolo, animato da una progettualità che esibisce la propria carica eversiva

nell’uso di un mezzo espressivo che consente di tiranneggiare l’animo susci-

tando le più varie sfumature emotive, tranne l’unica, la gioia ineffabile, che

solo la consonanza con il suono di Dio può esprimere. La dissonanza e l’antite-

si, infatti, temporanei oscuramenti dell’armonia come le tenebre lo sono della

luce, non introducono che un’alternativa illusoria, poiché ciò che la volontà

perversa dell’uomo può operare, in qualunque ambito, è solo una deviazione

temporanea e impotente che la Provvidenza ricomprende nell’armonia della

creazione98: «Le cosiddette antitesi infatti sono splendidi ornamenti del discor-

so, che in latino si potrebbero dire contrari o contrasti. (...) Come il contrasto

dei contrari produce la bellezza del discorso, così la bellezza del mondo si com-

pone del contrasto dei contrari, secondo un certo linguaggio delle cose, più che

delle parole. (...) Infatti, come una pittura è bella con il colore scuro messo al

suo posto, così l’universo, se si potesse cogliere con un’intuizione, è bello an-

che con i peccatori, sebbene considerati in se stessi la loro deformità li deturpi»

(civ. XI, 18-23). Dismesso l’intento prevaricante, invece, all’anima si dischiude

la possibilità della condivisione dell’incondivisibile nella confessione e dell’ef-

fusione dell’ineffabile nel giubilo, entrambi spogliati di ogni volontà di effica-

cia attraverso l’oltrepassamento dell’uso strumentale del linguaggio. Distinto

dalla fruizione, esso si colloca tuttavia in un’instabile via di mezzo, in cui la

97Il suono che forma la melodia è comunque pre-formato, sia nella forma esteriore (morphé) dellógos, sia nel potenziale formale (éidos) insito nell’arithmós.

98Cfr. ord. II, iv, 12.

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214 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

tentazione di servirsi del numerus come chiave di un mondo illusorio in cui

l’immaginazione promette di imitare l’anarchia del Creatore sembra prefigura-

re l’entusiasmo superbo dell’artista moderno, quasi messo alla prova di fronte

a un secondo albero della conoscenza del bene e del male.

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Appendici

Elenco delle abbreviazioni

Acad. Contra Academicos vel De Academicis libri tres

an. quant. De animae quantitate liber unus

civ. De civitate Dei libri vingti duo

conf. Confessionum libri tredecim

dial. De dialectica

div. qu De diversibus quaestionibus octoginta tribus liber unus

doctr. chr. De doctrina christiana libri quattuor

en. Ps. Enarrationes in Psalmos

ep. Epistulae

Gn. adv. Man. De Genesi adversus Manichaeos libri duo

Gn. litt. De Genesi ad litteram libri duodecim

Gn. litt. imp. De Genesi ad litteram liber unus imperfectus

imm. an. De immortalitate animae liber unus

lib. arb. De libero arbitrio libri tres

mag. De magistro liber unus

mend. De mendacio liber unus

mus. De musica libri sex

nat. b. De natura boni liber unus

ord. De ordine libri duo

ret. De rethorica

sol. Soliloquiorum libri duo

trin. De trinitate libri quindecim

vera rel. De vera religione liber unus

215

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216 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

Traduzioni delle opere di Agostino

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7. ID., La grandezza dell’anima, in Tutti i dialoghi, op. cit., Milano 2006.

8. ID., Il libero arbitrio, in Tutti i dialoghi, op. cit., Milano 2006.

9. ID., Il maestro, in Il maestro e la parola, testo latino a fronte, introduzione,

traduzione, note e apparati di M. Bettetini, Milano 2004.

10. ID., La dialettica, in Il maestro e la parola, op. cit., Milano 2004

11. ID., La retorica, in Il maestro e la parola, op. cit., Milano 2004

12. ID., La grammatica, in Il maestro e la parola, op. cit., Milano 2004

13. ID., Sulla bugia, a cura di M. Bettetini, Milano 2001.

14. ID., La vera religione, a cura di A Pieretti, Roma 1995.

15. ID., L’istruzione cristiana, a cura di M. Simonetti, Milano 2006.

16. ID., Confessioni, a cura di J. Fontaine, P. Cambronne, G. Madéc, J. Pépin,

A. Solignac, M. Simonetti, G. Chiarini, M. Cristiani, M.F. Pizzolato, P.

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18. ID., La Trinità, introduzione di A. Trapè e M. F. Sciacca, traduzione e note

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5.3. LA FORMA DEI SUONI 217

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218 CAPITOLO 5. MUSICA PRACTICA

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