Achille Campanile. L'Eroe

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Achille Campanile L'Eroe o Si direbbe che a uno squillo di tromba... La Scala Copyright 1976 Rizzoli Editore, Milano Prima edizione: aprile 1976 Rizzoli Editore Nella fortezza di Alcantares, gi colpita dal famoso assedio ed ora piena di ex assediati, fervono come ogni anno i preparativi per la cerimonia: si commemora il glorioso sacrificio di un giovinetto, tenuto in ostaggio e poi ucciso dalla barbarie tedesca. Come ogni anno, un pesante bustone marmoreo sar rimesso sul suo piedistallo, arriveranno i ministri e le eminenze, si svolger la cerimonia dell'ammainabandiera e quindi, in un silenzio commosso, si ascolter il disco con su incisa la famosa telefonata. Una telefonata? Ma certo, perch una telefonata fu galeotta; e si vedr il perch. In prima fila il generale (babbo del giovinetto sacrificato e allora comandante in capo della fortezza) e la generalessa sua moglie: la gentile (si fa per dire) signora Matilde, accanto ad una vecchia nutrice, altri parenti, pupi in braccio e il cavalier Zorapide, lo stolto e indaffarato conservatore della fortezzamuseo. Quest'anno ci sar anche il comandante Kapel, autore dell'efferato crimine, in visita di riappacificazione. Tutto normale? Niente affatto: colpo di scena e ricompare il giovinetto ora adulto! In carne e ossa ricompare l'eroe! Con un braccio di meno: cio un braccio finto, di legno e con la molla. Su queste due braccia: il braccio di legno e il braccio mancante, si far parecchia confusione, ma ci permetter all'autore di raccontare svariate storie collaterali che, di certo, non c'entrano niente. Poi, altri colpi di scena da mozzare il fiato. Questo L'Eroe: un romanzo tutto da ridere, bilanciato, perfetto. L'Eroe come Il povero Piero, come Ma che cos' quest'amore?, come Se la luna mi porta fortuna: un "classico Campanile". ACHILLE CAMPANILE nato a Roma nel 1900. Esord negli anni Venti come scrittore di teatro con le Tragedie in due battute, e come narratore coi romanzi Ma che cos' questo amore? (1924), Se la luna mi porta fortuna (1927). Pi tardi stamp Celestino e la famiglia Gentilissimi (1942), Il povero Piero (1959, ristampato da Rizzoli nel '73), L'inventore del cavallo e altre quindici commedie (1971), Manuale di conversazione (1973, Premio Viareggio), Gli asparagi e l'immortalit dell'anima (1974) e Vite degli uomini illustri (1975). Campanile abita e lavora a Velletri. a Pinuccia e a Gaetano I Nella mia vita avventurosa, signori, m' capitato anche di vivere per due giorni clandestinamente nel forte di Alcantares. Non al tempo del famoso assedio, ch sarebbe stato abbastanza normale anche se tutt'altro che comodo. Del quale assedio, peraltro, e delle vicende ad esso connesse, io, che ho l'imperdonabile torto di vivere sempre fra le nuvole, non sapevo addirittura niente. M'era capitato, s, di vedere qualche volta, alla porta di cinema periferici, manifesti con scene di guerra su spalti, e il titolo: L'assedio del Forte d'Alcantares; ma credevo si trattasse d'uno dei soliti film di fantasia. Fu una quindicina d'anni dopo lo storico assedio, che una notte, dovendo, per ragioni che non star a dirvi, evitare per un paio di giorni di mettermi in vista, e capitatomi di passare vicino a questo

grandioso rudere, che aveva tutta l'aria d'essere abbandonato, pensai che potesse magnificamente fare al caso mio. Era un massiccio edifizio che s'ergeva buio e solitario su un poggio in mezzo all'ondulata pianura. C'era la luna in un cielo limpidissimo e quelle mura sbrecciate dai bombardamenti, quegli spalti neri, quei pinnacoli mezzo diroccati che, al chiarore lunare, sembravano vuote occhiaie, quei contrafforti deserti e silenziosi, davano all'insieme una sinistra grandiosit. Si sarebbe detto un castello di fantasmi, o addirittura lo spettro d'un castello in rovina, e pareva lo scenario d'un romanzo di Walter Scott, suscitante immagini di lontani drammi sanguinosi, di sotterranei con catene, di crudeli scherani in ferree armature, agli ordini d'un signorotto feroce; le quali cose avrebbero dato un brivido d'orrore a uno che avesse i nervi meno saldi dei miei. Chi avrebbe potuto scovarmi fra quelle macerie? C'erano molte brecce, come caverne o grotte, aperte nei fianchi dell'imponente costruzione dal cannoneggiamento di tanti anni avanti. Senza esitare mi ficcai in una di esse e, attraverso un breve cunicolo, raggiunsi una specie di cavernetta in rovina. Non era l'ideale come alloggio, ma lo era come nascondiglio. Nessuno poteva immaginare che un uomo si celasse fra quei ruderi sinistri, nessuno poteva vedermi dall'esterno, n raggiungermi dall'interno della fortezza, da cui mi divideva una spessa muraglia. Cos mi stesi alla meno peggio su un giaciglio improvvisato con foglie secche e sterpi, e m'addormentai relativamente tranquillo. Ma ecco l'indomani mattina mi sveglia un suono di voci vicinissime. Balzai in piedi allarmato, pensando d'essermi nascosto, senza saperlo, magari in un nascondiglio di malviventi. Nessuno. M'affacciai verso l'esterno. Nessuno, salvo un magnifico sole che indorava la pianura ondulata e dava, a quello che la notte m'era parso un paesaggio sinistro, un aspetto ridente. Tornai dentro e stavo pensando d'aver sognato, quando di nuovo le voci si fecero udire vicinissime, calme. Direi addirittura voci domestiche, d'una casa che si risveglia al mattino. A questo punto, voi gi avrete pensato agli spiriti. Disilludetevi. Niente di tutto questo. Spiriti, fantasmi, sono cose che non esistono. E queste, come si vedr, erano voci di persone vive e vegete. Ma non precipitiamo gli eventi, come suol dirsi quando non si desidera che arrivare alla conclusione di una storia. Mi guardai dunque attorno sorpreso e scorsi verso l'alto una breccia, anch'essa fatta probabilmente dal cannone o da una bomba. Le voci non potevano esser venute che di lass. Cautamente arrampicandomi su un mucchio di macerie, pietre e calcinacci franati dalla breccia medesima, raggiunsi questa, feci capolino e rimasi di stucco. Dall'apertura, attraverso un intrico di ragnatele, rottami, erbacce cresciute nelle fenditure dei muri, s'intravedeva quello che meno mi sarei aspettato di vedere in quel luogo: una stanza perfettamente in ordine, salvo, anche in essa, qualche vecchia ferita di guerra non rimarginata. C'era un tavolo con carte, un tavolinetto con macchina da scrivere, alcune seggiole e qualche mobile da archivio, le quali cose davano ad essa l'aria d'un ufficetto, quanto mai in contrasto con un simile arnese di guerra. C'era persino un apparecchio telefonico sul tavolo e, a togliere ogni dubbio circa la destinazione del luogo, si vedeva, seduto alla scrivania, un signore che mi parve si desse molta importanza, immerso com'era nell'attento studio di certe carte, che l'assorbiva totalmente. Tanto che ebbi tutto il tempo di tirarmi indietro senza che mi vedesse, e mettermi in un pi discreto punto d'osservazione, nascosto da detriti che mi permettevano di vedere senza essere visto da nessuno.

Ero molto curioso di sapere che cosa fosse quell'ufficetto in un luogo cos poco adatto. Dall'alto, spiando attraverso la breccia, potevo, non visto, vedere e udire quello che avveniva nella stanza. Dai discorsi e accenni uditi, potei capire le seguenti cose: 1) la fortezza, per essere stata teatro del feroce assedio a cui ho accennato, e d'un'epica resistenza, era stata dichiarata monumento nazionale e veniva volutamente conservata nello stato in cui l'avevano ridotta i bombardamenti; 2) quella stanza, antico corpo di guardia, era stata adibita a ufficetto del conservatore della fortezzamonumento, il quale era per l'appunto il signore seduto al tavolo e che udii chiamarsi cavalier Zorapide; 3) nell'ala adiacente alla stanza era stato ricavato un appartamento, in cui viveva questo importante personaggio, con la famiglia. Dall'alto potevo vedere il cavalier Zorapide di spalle, seduto al suo tavolo di lavoro. Dico di lavoro, ma dovrei dire di riposo. Perch, per parecchio tempo, non vidi il suo occupante altro che con la guancia appoggiata al palmo della mano, e immerso nella muta contemplazione delle sue carte, su cui di quando in quando scarabocchiava qualche cosa, che poi cancellava, per scarabocchiare qualche altra cosa; oppure sonnecchiava, o stava con lo sguardo fisso nel vuoto. A meno che il suo lavoro non consistesse in questo. Non era un grande spettacolo, ma vidi anche pi d'una volta entrare o uscire sua moglie, e questa era una vista migliore, in quanto si trattava d'una giovine signora piuttosto graziosa, a nome Virginia, che qualche volta aveva in braccio il suo bimbo poppante. Ora non dovete aspettarvi ch'io sia stato scoperto nel mio nascondiglio e che ne siano seguite complicazioni pi o meno drammatiche, e nemmeno dovete sperare in sviluppi boccacceschi. Niente di tutto questo. Alla fine del mio soggiorno clandestino, che non dur pi di due giorni, potei tranquillamente andarmene e nessuno mai sospett nemmeno lontanamente che io ero stato l. Ma mi lusingo ugualmente che quello a cui assistei e che m'accingo a riferirvi minuziosamente presenti qualche interesse. Per un paio d'ore la scena fu sempre la stessa: il conservatore seduto al tavolo davanti alle sudate carte; la moglie che usciva dall'appartamento con o senza il bimbo in braccio e veniva nel corpo di guardia, se aveva qualcosa da dire al marito; o lo traversava, per uscire dal forte, o rientrare. Ogni tanto vedevo anche un inserviente factotum, che udii chiamarsi Raimondo, il quale pure traversava l'ufficio per uscire o rientrare. Perch la stanza era di passaggio. Ve la descrivo: un finestrone in fondo; a destra di me che guardavo, la porta che dava all'esterno; a sinistra, cio di fronte a quella, una porta che immetteva nel resto della fortezza, e una che dava nell'interno dell'appartamento del conservatore e famiglia. Non c'erano altre uscite o entrate, nella fortezza, salvo le brecce di cui ho parlato, come quella di cui m'ero servito io. Per conseguenza, tutti quelli che entravano o uscivano, dovevano per forza passare attraverso l'ex corpo di guardia, e quindi, per il momento, sotto i miei occhi. Vidi cos che, a visitare la fortezza, sotto la guida di ciceroni autorizzati, venivano carovane di turisti, in torpedoni, automobili, e anche mediante un piccolo tram, che la collegava con la prossima cittadina, distante pochi chilometri. La notte precedente, io ero capitato dalla parte posteriore della fortezza, e quindi non m'ero reso conto subito della faccenda, e avevo avuto della fortezza un'impressione sinistra. Dalla parte anteriore, come potei constatare in seguito, la scena era del tutto diversa. Direi perfino ridente. Specie nelle giornate di sole, lo spiazzo davanti alla fortezza si

popolava di torpedoni turistici fermi e vuoti, segno che gli occupanti stavano procedendo alla visita. Attorno ad ogni auto in arrivo piombava immediatamente un moscaio di ragazzini cenciosi, che assordavano i nuovi venuti domandando se volevano visitare la fortezza e offrendosi di sorvegliare le macchine; o, sperando di guadagnarsi pochi soldi, ronzavano attorno a quelle in sosta lungo la strada, dove cartelli e frecce indicavano la via della fortezza. Davanti alla quale c'era un cimitero di guerra con le sue file di croci tutte uguali, bianche. Poco lontano c'erano trattorie affollate e festose. Per molti, forse per tutti, la visita alla fortezza che era stata teatro d'una tragedia di cui si vedevano ancora le testimonianze intatte, altro non era, oramai, che il pretesto per una gita domenicale, con relativo pranzo sotto il sole. Tutto questo a me giungeva nuovo, non tanto perch forestiero, quanto per il mio gi lodato vivere fra le nuvole. Perch pare che visitatori ne venissero anche dall'estero, e parecchi. Nel mio osservatorio, da discorsi e da vari indizi venni anche a sapere che una volta all'anno si celebravano, con intervento di autorit, cerimonie commemorative della resistenza e, in particolare, di un eroico e glorioso episodio di essa, del quale cadeva l'anniversario; che in quest'occasione il generale Fulcs, che aveva comandato la fortezza al tempo dell'assedio, veniva con la famiglia per presenziare alle celebrazioni, ed essendo la vicina citt fornita di alberghetti non troppo confortevoli, per risparmiare al generale, ormai vecchio, disagi e spostamenti, egli e la sua famiglia venivano ospitati in casa del conservatore. Seppi infine che gli ospiti erano attesi da un momento all'altro, essendo l'indomani il giorno delle celebrazioni, come potetti arguire, oltre che dal crescente nervosismo del cavalier Zorapide, anche dai preparativi, dai colpi di martello che s'udivano nel cortile, e soprattutto dal fatto che lo stesso conservatore l'annunzi ai turisti, precisando che per quel giorno erano sospese le visite alla fortezza. Circa il generale Fulcs, udii un dialoghetto fra due turisti, che qui trascrivo: "Questa figura leggendaria, di proporzioni euripidee". "Caso mai, eschilee." "Euripidee. Sotto il segno della sventura. La fatalit, le stelle." "No, no, era ormai come un pazzo, reso feroce dall'assedio. Era come un cinghiale circondato da tutte le parti, che ormai sbranerebbe tutti." Udii allontanarsi le voci, che ripetevano: "Proporzioni euripidee...", "Caso mai, eschilee...", "Euripidee...". Basta, la monotonia di quello a cui assistei per alcune ore in questo lontano angolo di mondo, fu rotta verso la notte dal rombo d'un motore d'automobile, il quale m'avvert che arrivava qualcuno. Raggiunsi il mio posto d'osservazione e vidi entrare il conservatore Zorapide e il custode e inserviente Raimondo, con valigie che deposero sul pavimento. Proprio come in una commedia, quando stanno arrivando dei personaggi attesi, i quali metteranno in moto la macchina della vicenda. Subito dopo, mentre il conservatore diceva: "S'accomodi, eccellenza!", e dall'interno, attratta dalle voci, accorreva sua moglie, intuii ch'era arrivato il generale Fulcs. Figurarsi con quanta curiosit aspettavo di vedere questo terribile personaggio di proporzioni eschilee, o quantomeno euripidee; e con quanta sorpresa vidi entrare, al braccio d'un'anziana signora vestita di nero, un vecchiolino incerto e tremolante, avvolto in sciarpe, con qualche rara ciocca di capelli bianchi che spuntava di sotto il cappello, e che quasi non si reggeva in piedi e parlava, ma molto di

rado, con una vocina tremula, in falsetto. L'anziana signora era sua moglie. Seguiva una vecchia in costume paesano, che doveva essere un'antica balia e che portava in braccio un poppante. Chiudeva la marcia una giovine signora in abito da villeggiante in montagna, con scarponi, bastone a puntale, pantaloni e maglione, che appresi essere la figlia del generale e la mamma del poppante. Ebbi l'impressione che la fortezza e le celebrazioni nazionali fossero una specie di fatto domestico, per la famiglia del generale. Il tempo d'uno scambio di saluti con la moglie del conservatore, e li vidi tutti ritirarsi nell'interno dell'appartamento. Lo spettacolo, per me, non doveva cominciare che il giorno dopo, e appunto al giorno dopo passiamo subito, con un salto di tempo non soltanto consueto nell'arte del narrare, ma in questo caso pi che legittimo, dato che di notte non avvenne assolutamente nulla. Di buon mattino dunque raggiunsi, ai primi segni di vita del vicino appartamento, il mio osservatorio e mi misi in vedetta. E di quel che vidi e udii dar ora un fedele e minuzioso resoconto, come la memoria l'ha registrato; fin da ora prendendo congedo dal lettore, poich di me non si parler pi, preferendo io a questo punto lasciare la parola ai personaggi, cos come li vidi e udii, nel breve spazio e nel tempo che li ebbi sott'occhio. II "Bene, bene, bene" disse il cavalier Zorapide stropicciandosi vigorosamente le mani. Dalla porta dell'appartamento si affacci la testa arruffata e ancora insonnolita di sua moglie. "Zorapide!" chiam con voce soffocata. "Che c'?" fece l'uomo, voltandosi. "Parla piano!" "Dormono ancora?" "S. Che tempo fa?" Zorapide si stacc dalla finestra e and a consultare il termometro appeso a una parete dell'ufficio. "Bel tempo" disse. "Avremo un raduno spettacoloso." "La figlia del generale m'ha pregato di svegliarla presto, perch vuol portar fuori il bambino." Zorapide fece scrocchiare le nocche. "Avremo un raduno spettacoloso" ripet. E a bassa voce, tra s, mentre la moglie si ritirava: "Per fortuna, cpita una volta all'anno". La casa si svegliava. Dalla porta che immetteva nella fortezza, venne fuori l'inserviente, che portava a fatica, sulle braccia, un testone di bronzo. "Oh," fece Zorapide, disgustato, "sempre questo capoccione tra i piedi. Ormai c' il monumento, che c'entra il capoccione?" "La moglie del generale m'ha detto di metterlo sulla porta della fortezza, perch tutti possano vederlo." "Quando te l'ha detto?" "Ieri sera. Appena sono arrivati. Ha visto il testone nel sottoscala, s' arrabbiata e m'ha detto di metterlo fuori. Perch tutti lo vedano." "E cos finisca sulla testa di qualcuno. Magari di qualche autorit. Riportalo indietro. E questo?" Dall'interno della fortezza era venuto fuori un operaio che spingeva una carriola con macerie varie, e si dirigeva verso l'uscita. "Dove porta questa roba?" domand Zorapide a Raimondo, che s'avviava a riportare il testone di bronzo. "Ho fatto un po'"di pulizie," spieg Raimondo "qui non si puliva da anni. Ho spazzato i calcinacci, ho messo dei teli ai soffitti

sfondati, almeno per riparare le autorit in caso di pioggia." "Ah," fece il conservatore "e che altro hai fatto?" "Ho tolto quegli stracci marci che erano nei sotterranei. Direttore: cadevano a pezzi. Ho nascosto quegli arnesi vecchi, arrugginiti." "Bravo Raimondo. Adesso devi fare ancora una cosa." "Dica, direttore." "Rimettere i calcinacci dov'erano, togliere i teli dai soffitti sfondati e rimettere a posto gli stracci e gli arnesi arrugginiti." "Ma..." "Pezzo d'asino, non sai che quei calcinacci sono sacri? Che quegli stracci marci sono dei pagliericci storici? Che quegli arnesi sono serviti per le operazioni chirurgiche?" Trasal, come per un dubbio improvviso. "Oh, dico, la motocicletta?" "Quella" disse Raimondo in tono rassicurante "l'ho portata in garage. Ma completamente inservibile. Non la vorr nemmeno lo sfasciavetture." "Disgraziato!" ringhi Zorapide. "Quella era servita per fare il pane." "Il pane con la motocicletta?" fece Raimondo, sbalordito. "S, proprio. Non hai mai visto fare il pane con la motocicletta?" Raimondo era sempre pi sbalordito. "No" balbett. "Ma come? Eri con gli assediati, te ne vanti, e non vedesti come facevano il pane?" "Non ci si vedeva. Mancava la luce elettrica." "Lo facevano con la motocicletta." "Per questo era cos cattivo. Del resto non si vedeva nemmeno il pane. Ma questo non per mancanza di luce, ma per mancanza di farina." "Basta! Chi t'ha detto di togliere di mezzo la motocicletta?" "La figlia del generale." "E dgli. La moglie del generale, la figlia del generale. Non hai preso ordini anche dalla serva del generale, per caso?" "No. La serva non mi ha detto niente. Quella non parla mai." "Qui comando io! Il generale, la moglie, la figlia, sono ospiti per questa giornata. Perch il generale non vuole andare in albergo. Ma gli ordini li devi prendere da me." "La figlia m'aveva detto di fare un po'"di pulizia." "T'avr detto di far pulizia nell'appartamento, e non in tutta la fortezza. Qui non si deve toccare niente. V a rimettere a posto immediatamente questa roba. Bada: tutto dev'essere come al tempo dell'assedio, se no ti licenzio." Dall'esterno s'ud il chicchirich d'un gallo. "E leva le galline dal palco delle autorit!" url Zorapide. "Direttore," fece Raimondo, ch'era rimasto sempre col testone in braccio, "questo pesa. Dove lo devo mettere?" "Mettilo dove ti pare. Portalo in cantina. Basta che lo levi di mezzo. Non lo voglio pi vedere. Chiaro?" Raimondo fece dietrofront e usc dalla parte dond'era venuto, seguito dall'operaio con la carriola. "Guarda che roba!" borbott Zorapide. "Sto sgobbando da quindici giorni, e quest'animale vuol mandarmi tutto a male proprio oggi." "Ma Zorapide," esclam, entrando a precipizio, la moglie di Zorapide "sei impazzito? Mandi il testone in cantina?" "La generalessa vuol metterlo sulla porta della fortezza. Pu finire in testa a qualcuno." "Non una buona ragione per mandarlo in cantina. Aspetta almeno stasera, che siano partiti." "E intanto dove lo metto?"

"Lasciami pensare" mormor la donna concentrandosi. "Signora," disse Raimondo, che l'aveva seguita col testone, "questo pesa." "Ma s," fece la donna "mettetelo nel corridoio, sulla colonnina. E" il posto migliore." "E va bene," disse Zorapide a Raimondo "mettilo nel corridoio." Mentre Raimondo ripartiva col testone, il conservatore si volse alla donna. "A proposito, Virginia," disse "t'ho detto e ripetuto mille volte che abbiamo tutto l'anno per fare il comodo nostro. Che almeno un giorno all'anno le galline stieno chiuse. Lo Stato non mi paga uno stipendio perch si faccia il pollaio nel monumento nazionale." "E dove le metto?" fece la donna. "In salotto dorme la figlia del generale." "E vuoi mettere le galline in salotto?" "Nel sacrario non possibile. Oggi vengono le autorit." "Mettile nella nostra stanza, per il momento. Cos il generale vedr che ci sacrifichiamo. Stasera, quando tutti saranno andati via, le rimetterai sul palco delle autorit." "Che sconquasso, con questa cerimonia! Non vedo l'ora che sia finita. Ma taci, c' la figlia del generale." Entr la giovane signora, vestita da villeggiante in montagna, con scarponi, bastone a puntale, pantaloni e maglione, seguita da Raimondo col testone. "Cavalier Zorapide," disse, un po'"alterata, "no, non ci siamo. Avete detto a Raimondo di mettere il busto in corridoio, sulla colonnina a tortiglione, ma pu cadere. Io ho un bambino e me lo ammazza." Zorapide s'era prontamente alzato. "Riverisco, signora Anna" disse. "La signora mamma voleva metterlo sulla porta della fortezza, ma poteva cadere e accoppare qualcuno." "Ma anche in corridoio pericoloso." "E dove posso metterlo?" "Dove vi pare. Basta che non stia l. Mettetelo nella stanza di mia madre. Sar contentissima d'averlo sott'occhio." Zorapide si volse a Raimondo: "E va bene, quando il generale e la signora vengono fuori, porterai il busto nella loro camera". Sospirando, Raimondo torn di nuovo nell'interno dell'appartamento, quasi scontrandosi sulla porta con Virginia, che tornava col suo bimbo in braccio e che: "Zorapide," disse "io e la signora Anna portiamo un po'"fuori i bambini." "Beate voi che potete farlo!" esclam Zorapide. "Io sono inchiodato ai miei doveri." "Lo immagino," disse la signora Anna "specie di questa giornata." "Ministri, generali, autorit, debbo far fronte a tutti io." "Quando si una persona importante." "Indegnamente, signora. Ma altri due giorni di questa vita, e sono spacciato." S'udirono colpi di martello provenienti dal cortile. "Sente?" fece il conservatore. "Stanno montando il palco delle autorit. Com' possibile concentrarsi, lavorare con questo fracasso? Quest'anno poi, abbiamo la cerimonia del perdono." "Gi" disse Anna. "Una bella pretesa, no? Uno fa fuori un ragazzo innocente, e dopo quindici anni gli viene il rimorso, vuol essere perdonato. Molto comodo." "Ma sar sincero?" "Che cosa?" "Il pentimento."

"Su questo non c' dubbio" disse Anna. "S' occupato di tutte le pratiche mio marito e assicura che il pentimento sincero." "Ma gi," fece Zorapide "come mai il suo signor marito quest'anno non venuto?" "E" occupato altrove" disse Anna, rabbuiandosi. "Lui sempre in viaggio." "Sar una cosa commovente, la cerimonia del perdono" osserv Virginia. "Per me," disse Zorapide "finora, soprattutto una cosa faticosa." "E sar perdonato, il comandante Kapel?" domand Virginia. "Vedremo" fece Zorapide, con sufficienza. "Vedremo se sapr meritare il perdono." "Ma no" disse Anna. "E" gi tutto stabilito. Mio marito s' battuto come un leone per convincere mio padre. Ha dovuto fare parecchi viaggi." Si volse a Zorapide. "Non occorrer," disse ridendo "che lei faccia da paciere." Anche Virginia si mise a ridere. "Tu non hai proprio niente da fare," disse "in questa faccenda." "Come conservatore della fortezza, credo che non abbiate mai troppo da fare" osserv Anna. "Ma signora," fece Zorapide "credete che sia una cosa facile conservare una fortezza ridotta in queste condizioni?" "Perch? Che dovete fare?" "Lasciare tutto com'." "E quindi non dovete fare niente, in sostanza." Entr la vecchia in costume paesano con un altro poppante in braccio. "Ecco il suo bambino" disse Virginia alla figlia del generale. Mentre Zorapide tornava al tavolo, le due donne, seguite dalla balia, s'avviarono verso l'uscita, riprendendo una conversazione interrotta. "Le stavo dicendo," disse Virginia "che il mio ha avuto uno sfogo..." "Ah, non vuol dire." "Virginia!" chiam Zorapide. E fece cenno alla moglie d'avvicinarsi. "Un poeta antico di cinque lettere" le disse a bassa voce. Virginia stette un po'"a pensare. Poi: "Zorapide, lo sai, non voglio affaticarmi il cervello" disse. Raggiunse la figlia del generale e uscirono insieme. "Sta arrivando il generale!" disse concitato Raimondo, entrando con un vassoio coperto di tazze e bricchi, che depose sul tavolo. Zorapide s'alz precipitosamente, facendo finire nel cassetto le carte che aveva davanti e s'irrigid sull'attenti, mentre sorretto sottobraccio dalla moglie, l'anziana signora in nero, apparve sulla porta un vecchiolino incerto e tremolante, in veste da camera, che quasi non si reggeva in piedi. "La colazione" disse additando il vassoio. "Cavalier Zorapide" fece la donna in un tono che parve far tremare le mura della fortezza. Senza alzare il capo, Zorapide addit il vassoio sul tavolo: "Spero sia di loro gradimento". "Cavalier Zorapide," ripet la donna a denti stretti "avevo detto ieri sera a Raimondo di mettere il busto sulla porta della fortezza." Sempre sull'attenti e fissando il pavimento, il conservatore tir il capo nelle spalle, come una tartaruga, aspettando la bufera. "Voi avete dato un contrordine" continu la donna, gelida. "Eccellenza, ho pensato che nella camera le avrebbe fatto piacere." Tacque, sentendosi addosso lo sguardo impassibile della donna, la

guard supplice e subito riabbass la testa, confusetto, rinunziando a ulteriori spiegazioni. "Lo farete mettere sulla porta della fortezza" concluse la generalessa, gelida. Il conservatore si decise ad alzare gli occhi dal pavimento. "Signora," balbett "sulla porta potrebbe cadere, si ammacca, un peccato." "Lo sistemerete in modo che non caschi" disse seccamente la generalessa. "Va bene. Andiamo, Raimondo." Zorapide si fece da parte per lasciare il passo ai due, che erano rimasti sulla porta, e poi usc con Raimondo, il quale era palesemente contrariato di dover spostare di nuovo il pesante busto di bronzo. III Sempre sorretto dalla moglie, il generale a passettini incerti raggiunse il tavolo e prese posto davanti alla colazione. "Che ha detto?" domand con una vocina tremula, in falsetto, svolgendo il tovagliolo. La donna alz gli occhi al cielo. "Anche sordo" disse. "E adesso c' diventato. Quando non serve pi a niente. Almeno fosse stato sordo allora. Era tanto di guadagnato per tutti." "Come?" domand il generale. "Ha detto che fa mettere il busto fuori della fortezza." "E della cerimonia che ha detto?" "Tu ti preoccupi della cerimonia. Beato te. Beato te." Il generale la guard come un cane frustato. Rimise sul piatto la fetta di pane imburrato che stava per addentare. "Incominciamo la giornata, Matilde" disse. "Ti prego." "Disgraziato!" ringhi la donna. "Ma che potevo fare?" piagnucol lui in tono supplichevole e quasi scusandosi d'una colpa. "Non dovevi rispondere al telefono. Ecco quello che dovevi fare." "E dgli! Come potevo sapere chi era al telefono?" "E allora," insist lei, con astio, "quando hai saputo, dovevi togliere immediatamente la comunicazione." Il generale scosse il capo. "Avrebbe richiamato" disse, desolatamente. "Dovevi tenere il telefono staccato" fece lei. "Lo faccio tante volte io, quando non voglio essere disturbata. Lo fai anche tu, quando ti chiudi in camera per la siesta." "Figurarsi" sospir il generale. "Il telefono doveva restare staccato definitivamente." "E poi non dovevi farti riconoscere." La donna passeggiava avanti e indietro, cupa. Il generale la seguiva a passettini tremolanti, come un cagnolino. "Matilde," gemeva "ti prego, capisco il tuo stato d'animo, ma un po' di comprensione. Eravamo ridotti tutti come spettri cenciosi. Insieme con la guarnigione, s'erano rifugiati nella fortezza le donne, i bambini, i vecchi, gl'invalidi. Vivevamo da mesi nei sotterranei bui, quasi senz'armi, martellati dalle bombe che avevano sfondato i tetti, i pavimenti, i sotterranei. Nelle stanze superiori, tra i calcinacci e le voragini, attraverso il tetto sfondato si vedeva il cielo." La moglie si volt inviperita, facendogli fare un salto per lo spavento. "E che volevi vedere?" sibil. "La terra? E" logico che, se era sfondato il tetto, si vedeva il cielo." "Ti prego," supplic il generale "c' gente."

Il cavalier Zorapide rientrava, seguito da Raimondo col testone in braccio. "Allora," disse "lo mettiamo sulla porta della fortezza. Per, guardi, signora, che fuori c' anche il monumento. Questo sar un doppione." "Il monumento uno sgorbio" fece la generalessa. "Non somiglia affatto. Questo pure non somiglia gran che, ma un po'"almeno ricorda. Perci voglio che lo vedano tutti." "E va bene" fece Zorapide. "Andiamo, Raimondo." "Che cretino!" ringhi la generalessa. "Matilde!" supplic il generale. "Sembra che dici a me." "E dico proprio a te." "Ah, scusa, credevo che parlassi del cavalier Zorapide." "Dovevi alterare la voce" riprese la donna. "Anche questo lo faccio io tante volte, lo fanno tutti." "Matilde! C'era una confusione! E poi, te l'ho detto mille volte: quest'idea, in quel momento, purtroppo non mi venne. Che vuoi farci? Non mi pass nemmeno per la testa." "E gi. Avevi soltanto l'idea di far l'eroe, tu. Pensavi alla storia. Pensavi alla gloria." "Ti prego. Ti prego. Tu non hai idea dello stato d'animo in cui si viveva e che toglieva ogni possibilit di riflessione. Poi, ripensandoci a mente fredda, ho visto anch'io che c'erano altre possibilit. Avrei potuto forse traccheggiare, trattare. E soprattutto non mi venne l'idea pi semplice: avrei potuto spararmi. Ma in quel momento mancava la calma per qualsiasi decisione ponderata. Tutti son buoni, dopo, a criticare. E" il senno di poi. Ma era una vita assurda, pazzesca, quella che facevamo qua dentro." "Lo so, lo so, lo sanno tutti, nei testi scolastici, lo raccontano i ciceroni ai turisti che vengono a visitare le macerie. Perch diventata una meta turistica. Nei giorni di festa s'incrociano le carovane che hanno finito il giro, con quelle che lo cominciano, con quelle che sono a mezza strada, e si sentono da tutte le parti le stesse frasi nei medesimi punti: "Qui c'era l'unico cannone... Qui cadde una bomba...". La so a memoria, la spiegazione." "Lasciami dire. Avr diritto di difendermi, no? Di giustificare il mio operato." "Il tuo operato" sibil la donna. "Non farci ridere. L'assassinio di tuo figlio, ecco qual stato il tuo operato." Il generale emise un gemito: "Vivevamo tutti nei sotterranei da mesi". "Un ragazzo di dodici anni" fece la moglie, assorta, con voce roca. "Un bambino!" Rientr il cavalier Zorapide. "Tutto fatto" disse. "Ora, se permettono, vorrei far sentire gli appunti che ho buttato gi per il discorso del signor ministro." Estrasse alcune carte dal cassetto e cominci a leggere: ""Dormitorio delle donne. Nel buio s'intravedevano sul pavimento umido dei pagliericci mezzi vuoti o qualche straccio, qualche telo di sacco, che facevano da letti"". ""Luce non c'era,"" interloqu Matilde, cantilenando come per ripetere una filastrocca a memoria, ""vissero al buio notte e giorno per tutta la durata dell'assedio." Lo so a memoria." Zorapide s'era interrotto, un po'"sconcertato. "E" il testo della guida" disse. E riprese a leggere: ""Un altro sotterraneo umido faceva da infermeria, con un tavolino greggio e una lucernetta ad olio come tavolo operatorio. Le operazioni chirurgiche si facevano con coltelli da cucina e con arnesi da falegname e da fabbroferraio. Un'inferriata in alto, da

carcere, dava un po'"di luce durante il giorno. Per la notte, lo stoppino fumoso della lucernetta..."". "Avanti, avanti," fece Matilde, rifacendogli il verso, "ci sono state tante partorienti, tante nascite, tante morti." "Appunto" fece Zorapide. E riprese: ""S'immagini l'orribile vita, il lamento dei feriti, il vagito dei neonati. Pure, gli assediati avevano finito per abituarsi. C'erano amori, gelosie, dolori. A un certo punto, nella fortezza, erano diventati tutti come una famiglia, e forse per qualcuno sar perfino diventata a suo modo piacevole, quella vita tutti assieme, nelle lunghe sere invernali, mentre fuori infuriava la battaglia, o la bufera. Forse, qualcuno di quelli che li vissero, ricorder perfino con dolcezza quei giorni, tanta la suggestione dei ricordi..."". "Ma che sciocchezze state dicendo?" scatt la generalessa "che questo sentimentalismo fuori luogo?" "E" il testo preciso della guida" fece Zorapide. "Non ho aggiunto n tolto una virgola." Mostr dei foglietti a stampa. "Ah, avete fatto un bello sforzo a preparare gli appunti. Avete ritagliato il pezzo della guida paro paro" esclam Matilde. "Questo, il ministro poteva farlo anche da s." Zorapide apr le braccia come per scusarsi e poi curv il capo sui foglietti, cercando il punto dove riprendere la lettura. "Disgraziato!" fece Matilde, assorta. Il generale indic prima s e poi Zorapide, interrogativamente, come per dire: "Io o lui?". Matilde punt ripetutamente l'indice verso il generale, per dire: "Tu, tu, tu!". Il generale fece gesti tranquillizzanti, come per dire: "Ah, va bene, allora". Zorapide, trovato il punto, riprese, con impeto: ""E la cucina!" lesse. "Quale ironia, se si pensa che non c'era niente, o quasi, da cucinare! Come utensili, non c'erano che una motocicletta, il cui motore serviva a far ruotare una piccola mola per macinare il grano, e un coltello fatto con una scheggia d'obice. Vedi figura uno..."". S'interruppe un po'"stupito e disorientato per l'interpolazione. "Ah, questo non c'entra" disse. "Dimenticate il pi importante," fece la generalessa, ironica, "e poi c'era la stanza del telefono." "Questo si sa," disse il conservatore "c' il disco." "Gi, gi, c' il disco. Oh. Guardate che anche quest'anno si deve far sentire il disco. Lo esigo." Zorapide guard imbarazzato il generale. "Veramente," disse "col suo signor genero s'era pensato che quest'anno non era opportuno far sentire il disco, dato che viene il comandante Kapel per la cerimonia del perdono." "Il mio signor genero non c'entra in questo" disse la generalessa. "Proprio per questo, invece, si deve far andare il disco. Deve proprio sentirlo, quella belva." "Matilde!" implor il generale. "Signora," fece Zorapide "siccome si pensava di non farlo sentire, non ho ancora provveduto a mettere a posto l'altoparlante." "Provvedete. E farete una prova per farci sentire se funziona bene." "Non dubiti, signora. Ci vorr un po'"di tempo per mettere a posto l'impianto." "Avete tutto il tempo che volete." Zorapide s'inchin e usc. Matilde si volse al generale.

"Che imbecille!" esclam. "Io o lui?" domand il generale. "Tu, tu!" "Ah, va bene. Credevo che parlassi di lui. Tu non precisi mai." "Non poteva strappare i fili, no. Aveva bisogno del telefono, il disgraziato. Crepava, se non aveva il telefono. Chi sa che dovevi fare del telefono. A chi dovevi telefonare. Doveva fare le conversazioni!" "Matilde, tu queste cose non le sai, ma in guerra il telefono cosa di prima necessit." "Gi, perch Giulio Cesare aveva il telefono. Napoleone aveva il telefono." "S'intende. Avevano un loro telefono. Comunque, adesso esiste il telefono e serve." "S' visto la bella telefonata a cui t' servito. Le parole sono trascritte in tutte le lingue sulle pareti, per i turisti, per i visitatori. Perch tutti ammirino il padre che fa assassinare il figlio. La telefonata fu registrata, c' il disco." "Matilde, ti supplico." "Quando si vuole non rispondere al telefono, ci si riesce. Io ci riesco." "E di. Ricomincia. La comunicazione l'avevano gi fatta, non potevo ignorarla." "E questa stata l'imbecillit tua. Di lasciarti fare la comunicazione. Come un babbeo." Il generale, lamentoso: "Ma che cosa vuoi da me? Non mi tormentare sempre. Credevo che dopo poco sarei morto anch'io". "E questo che risolveva? Era una ragione per far ammazzare tuo figlio?" "Di te non avevo notizie." "Questa fu la disgrazia. Che io non ci fossi. Se ci fossi stata io, le cose sarebbero andate molto diversamente." "Ma fammi il piacere. Arrendersi sarebbe stato anche un problema, in quel caso. Poich c'era stata la telefonata, non era pi una normale vicenda di guerra, ma un fatto personale: per aver anteposto il sentimento di padre al dovere di soldato, sarei rimasto nella storia con un marchio d'infamia." "Ecco, quello che ti premeva: la storia! L'onore di soldato. La vita di tuo figlio non contava niente, no?" Il generale aveva lo sguardo fisso nel vuoto, dolorosamente. "Talvolta," disse con voce sorda, "l'eroismo non alternativa d'un'azione normale, ma d'una vilt. Non si ha una via di mezzo. O eroe, o traditore. L'eroismo finisce per essere imposto dalla necessit di non essere un traditore. E in questo caso c' anche minor merito. Altro essere eroe quando, se non lo si fosse, si resterebbe un fesso qualsiasi, senza infamia o senza lode. Altro esserlo quando, se non lo si , si sarebbe un traditore." "Comoda scusa." "No. Se Pietro Micca..." "Me ne infischio di Pietro Micca." "Lasciami dire. Se Pietro Micca non avesse fatto saltare la polveriera col risultato di salvar la patria immolando se stesso, non sarebbe stato un eroe, ma non sarebbe stato nemmeno un traditore n un vile." "Sarebbe stato un fesso qualunque." "Se Enrico Toti, morente, non avesse scagliato contro il nemico la propria stampella, non sarebbe stato un eroe, ma non sarebbe stato nemmeno un traditore n un vile." "Sarebbe stato un fesso qualunque."

"Nessuno l'obbligava." "Mentre tu eri obbligato." "No, ma..." "Ma non volevi essere un fesso qualunque." "Io sarei stato un traditore e un vile. Non ho scelto l'eroismo per vanit, ma per non essere un traditore. Il mio non fu un lusso, ma una necessit. Non avevo altra scelta. Eroe, non per dar lustro al mio nome, ma per evitargli infamia. Oltre che per cercare di vincere la guerra, beninteso, di salvare la patria." "A spese di tuo figlio. E" comodo far l'eroe sulla pelle degli altri." "E non conti per niente il mio sentimento di padre? Il dramma del padre che, per amor del dovere, lascia uccidere suo figlio?" "Per amor del dovere? Ma per amor di te stesso! Altrimenti, potevi ucciderti tu." "Con questo ragionamento, anche Abramo e Isacco..." "Tira in ballo anche Abramo e Isacco, adesso." "Certo. Abramo poteva uccidersi, cos evitava di ubbidire e di sacrificare il figlio." "E avrebbe fatto molto bene." "Non mi venne in mente, di uccidermi." "E gi. E" pi comodo far uccidere gli altri." "Ma vuole entrarti in testa che non potevo arrendermi?" "E chi ti dice che dovevi arrenderti?" Il generale quasi piangeva. "E che potevo fare?" supplic. "Mille cose" ans sua moglie. "Mille cose pi intelligenti che mandare tuo figlio alla morte. Intanto, potevi far rispondere che non c'eri." "Ma se eravamo assediati? Ti pare possibile che la fortezza assediata e il generale che la comanda esce a far due passi?" "E non potevi esser crepato? Che sapevano, fuori, di quello che succedeva qua dentro? In questo caso, chi potevano ricattare? Che sarebbe importato, agli altri assediati nella fortezza, se minacciavano d'uccidere tuo figlio?" "Ma ormai avevano gi sentito la mia voce al telefono." "E non c'era modo di salvare tuo figlio anche in questo caso?" "Eccoci. Eccoci alle tue idee sballate. Volevo dire che ancora non ne fosse venuta fuori una." "Non sono idee sballate. Dal momento che avevi avuto la dabbenaggine di rispondere al telefono, appena sentito di che cosa si trattava, invece di dire s o no, avresti dovuto non farti intrappolare." "Ma come?" "Ti faccio vedere io che non sono idee sballate. Ricostruiamo la scena." "E va bene" fece il generale, rassegnato. "Ogni giorno ne ha una nuova. Almeno non farti sentire." And a chiudere la porta. "Sentiamo," disse "sentiamo la nuova trovata." IV La generalessa si scost dal marito, addossandosi quasi alla parete di fronte. "Ecco," disse, disponendosi a far la scena, "io sono il telefonista di qui, della fortezza. Squilla il telefono. Driiiin!" Finse di prendere il ricevitore d'un immaginario telefono e di stare in ascolto. Poi copr con la mano l'immaginario ricevitore, come si fa quando non si vuol essere uditi dal lontano interlocutore, e si volse al generale. "Signor generale," disse, alterando la voce per fingersi il

telefonista, e nel tono soffocato d'uno che non vuol farsi udire all'altro capo del filo, " il quartier generale nemico. E" il comandante Kapel in persona, che vuol parlare con lei. Dice che si tratta di cosa d'importanza vitale." Il marito la guardava con aria imbambolata, per capire dove andava a parare. "Avanti!" gli grid lei, stizzita. "Parla! D qualche cosa. Stai l come un salame." "Che debbo dire?" balbett il generale. "Quello che vuoi. Ti lascio carta bianca. Tu sei tu, il generale Fulcs, e hai saputo che il comandante nemico, Kapel, vuole parlarti." "Come quel giorno." "Come quel giorno. Allora, che fai?" Il generale la raggiunse e fece per afferrare l'immaginario ricevitore. "D qua" disse. "Fermo l!" esclam la moglie, afferrandogli la mano. "Ecco il tuo primo errore. Non dovevi rispondere tu." "Poteva essere una comunicazione utile" disse il generale. "E va bene, facevi domandare prima che cosa volevano. O ti fingevi un altro. Cos. Adesso io sono te." La generalessa riport l'immaginario ricevitore all'orecchio, fingendo di telefonare e alterando la voce mascolinamente: "Pronto" disse. "Il generale occupato. Dica a me di che cosa si tratta." Si volse al marito: "Avanti, avanti, parla tu. D tutto quello che vuoi per intrappolarmi. Sei il nemico". Il generale, fingendo di telefonare, e alterando la voce. Con impeto: "No. Voglio lui in persona. E" cosa d'importanza vitale, urgentissima. Dobbiamo parlare con lui. Gli dica che ne va della vita di suo figlio". Si volse alla moglie, con la sua voce normale: "Lo senti? Volevano me in persona. Del resto, inutile fare quest'ipotesi, perch avevo gi risposto. Avr sbagliato, sar stato un babbeo, come dici tu, bench la storia dica il contrario, ma ormai ero al telefono, avevano sentito la mia voce e non c'era altro da fare". "Ah, non c'era altro da fare?" squitt la generalessa. "St a vedere. Sono io, il generale Fulcs al posto tuo, e tu sei il nemico. Guarda se c'era o no altro da fare." Al telefono, alterando la voce come sopra: "Pronto. Sono il generale Fulcs. Dica pure". Al marito: "Parla, parla, vedi se ti riesce d'intrappolarmi". Il generale si concentr, per impersonarsi nel nemico. Poi, alterando la voce: "Generale, abbiamo catturato suo figlio". Matilde, fingendo di telefonare come sopra: "Come? Non si sente niente". Il generale, pi forte: "Abbiamo catturato suo figlio!". Matilde, sempre fingendo di parlare al telefono: "Volete parlare con mio figlio? Non qui". F segno al marito di insistere. E lui: "Ma che parlare! Lo fuciliamo, se non vi arrendete". Matilde come sopra: "Come? Che dite? Pi forte, per favore! Abbiate la bont di parlare pi forte, perch non si sente".

Il generale, a un cenno di sua moglie, che l'esortava a parlare: "Se non v'arrendete, fra mezz'ora fucileremo vostro figlio, che abbiamo catturato". Matilde, ammiccando astutamente al marito; e fingendo come sopra: "Chi che parla? Non si capisce un accidente". Il generale, come sopra, fingendo: "Fuciliamo vostro figlio!". Matilde, serafica: "Non si sente una parola. Che dite? Chi siete?". Il generale, urlando; sempre a un immaginario telefono: "Vostro figlio sar fucilato se non v'arrendete!". Matilde, serafica e trionfante: "Macch. Non s'arriva a sentire un accidente. Ci dev'essere un contatto". Finse di riattaccare l'immaginario telefono e guard il marito con l'aria di dirgli: "Hai visto? Impara!". "Ma con questo che avrei ottenuto?" fece il marito. "Che avresti ottenuto? Avresti ottenuto che cos potevi non arrenderti, e il ragazzo sarebbe stato salvo lo stesso. Perch gli assedianti l'avrebbero tenuto in vita, aspettando di stabilire il contatto con te, per poterti ricattare." "Ma fammi il piacere! T'immagini Abramo che si finge sordo, quando il Signore gli ordina di ammazzare il figlio? "Pronto! Pronto! Signore, parli pi forte. Non ci sento!" E il Signore che se la beve, e rinunzia, aspettando che ad Abramo torni l'udito!" "Che c'entra? Il comandante Kapel non era il Padreterno. Se non fosse riuscito a stabilire il contatto con te, non avrebbe potuto ricattarti." "E non esiste la posta? Non esistono i neutrali? Non esistono mille altri mezzi?" "S, ti mandava una cartolina illustrata! Una raccomandata con ricevuta di ritorno. Ma di questo parleremo poi. Adesso guarda, guarda quello che sarebbe successo nel campo nemico. Adesso io sono il comandante Kapel." Matilde si trasfer presso la parete di fronte, riprese un immaginario telefono e finse di telefonare: "Pronto? Fuciliamo vostro figlio!". Si volse al generale. "Adesso tu sei l'aiutante di campo dell'assediante, e sei ansioso di conoscere l'esito del ricatto. Interrogami." "Per telefono?" "Ma che per telefono! Sei un ufficiale nemico e stai nel campo nemico con me, che sono il suo generale, cio il comandante Kapel. Sei il colonnello Vattelappesca e vuoi sapere che cosa mi ha risposto il generale Fulcs. Hai capito?" "S." "Avanti. Domandami che cosa hai risposto." Il marito, a Matilde: "Che cosa ho risposto?" "Che tu? Che cosa ha risposto il generale Fulcs." E poi, fingendosi il nemico, seccatissima, al comandante Kapel: "Dice che non si sente niente. Maledetto telefono!". E poi, al generale come marito: "Parla, parla. Sei sempre il colonnello, l'aiutante di campo". "Mio?" "No, del comandante Kapel." "Mi fai confondere le idee." Il marito si concentr nello sforzo di raccapezzarsi. "Allora," disse contando sulla punta delle dita "io non sono io, non sono il comandante Kapel, e non sono l'aiutante di campo mio.

Sono l'aiutante di campo del comandante Kapel..." "Colonnello Vattelappesca. E Kapel ti ha detto che non riesce a comunicare con te." "Col suo aiutante di campo?" "Ma no, col generale Fulcs. Con te te. Che dici tu?" "Io generale?" "No, tu colonnello. Che consigli? Dobbiamo rinunciare? O dobbiamo insistere?" "Insistiamo." "Va bene." Matilde finse di telefonare: "Fuciliamo vostro figlio!". F cenno al marito di far la parte. E il marito: "B?". Matilde, fingendosi contrariata, come comandante Kapel, e parlando al marito aiutante di campo: "Niente, non mi sente. E b, bisogna aspettare che la linea funzioni". F cenno al marito di fare la parte e dire qualche cosa. E lui: "Fuciliamo il ragazzo lo stesso". "Quanto sei cretino!" "Ma non stavi parlando all'aiutante di campo?" "S." "Credevo che dicessi a me." "E" lo stesso. Colonnello, quanto siete cretino!" "Perch?" "Il ragazzo prezioso, finch non riusciamo a parlare. Non capisci? Quando l'avessimo fucilato, che otterremmo? Il nemico non avrebbe pi nessuna ragione di arrendersi. Hai capito, adesso? E" l'abbicc di qualsiasi ricatto. Aspettiamo." Matilde fece l'atto di riattaccare il telefono, fingendosi contrariata, scoraggiata, avvilita, come comandante nemico, ma raggiante come madre del ragazzo, in quanto aveva dimostrato che questi avrebbe potuto esser salvato. Il marito la guard interrogativamente. "Chi sono, adesso?" domand timido. "Sei tu. Basta. La dimostrazione finita. Il ragazzo salvo: come volevasi dimostrare." Il marito smise di fingersi aiutante di campo del comandante nemico e torn ad esser se stesso. E, come tale, scosse il capo desolatamente. "Come le fai facili le cose, tu!" disse. "Come le fai semplici! Ma credi che in guerra uno rinunzi cos facilmente a una carta favorevole? Avrebbero fatto riparare la linea. Avrebbero mandato un messo." "E seppure?" disse la moglie. "Tu avevi il vantaggio d'aver saputo gi che cosa voleva, e potevi rifiutarti di riceverlo. E il ragazzo era salvo. La sua vita diventava preziosa, per i nemici, finch non fossero riusciti a stabilire un contatto con te." "Ah, mi rifiutavo di riceverlo, secondo te. Ma avrebbero minacciato di uccidere il ragazzo, se non ricevevo il messo." "Ma secondo me non avrebbero mandato nessun messo, perch per loro era indispensabile farti sentire la voce del ragazzo, perch non avessi dubbi sulla cattura, e perci ci voleva il telefono. Loro volevano che ti arrendessi, e un ricatto funziona finch la minaccia non attuata. Ammazzare il ragazzo, significava privarsi d'un'arma." "In questo caso, tu vuoi dire che il ragazzo fu rovinato dal telefono. Un guasto alla linea l'avrebbe salvato." "Fu rovinato da te. Bastava fingerlo, il guasto. Anche a costo di non diventare un eroe. Prendi la guerra di Troia."

"La guerra di Troia?" fece il generale stupito. "S. Perch io penso notte e giorno a mio figlio. Ho esaminato da tutte le parti la cosa. Chi fece vincere ai greci la guerra di Troia fu Ulisse, ma con un inganno, con un'astuzia, e non con un eroismo. I vari Ettore, Achille, Patroclo e compagnia bella, furono gli eroi, fecero gli eroismi. Grandi, nobili fin che vuoi, ma che non servirono a niente. Anzi, qualche volta furono perfino dannosi. Me li saluti? Se fosse dipeso da loro, con tutti i loro eroismi la guerra sarebbe durata all'infinito. Invece, Ulisse risolse tutto in quattro e quattr'otto, con un inganno." "Ma questo che c'entra col caso mio?" domand il generale, tutto smarrito. "Cos dovevi fare tu." "E come?" "Facevi sapere, o credere, al nemico, che era caduta una bomba sul telefono." "E via!" "E del resto, guarda, avevi un altro mezzo che tagliava la testa al toro e che era basato proprio sul telefono. Guarda. Fingiamo di telefonare. Adesso, io sono te e tu sei il generale nemico che mi ha fatto chiamare al telefono. Io vado all'apparecchio e rispondo." La generalessa prese il posto del marito, mand questo dalla parte opposta, port di nuovo all'orecchio un immaginario telefono. "Pronto" disse, fingendo di telefonare. "Sono il generale Fulcs. Parlate." Al marito: "Sei la belva. Parla. Dimmi che avete catturato mio figlio". V Il generale simulando la telefonata: "Abbiamo catturato vostro figlio. Se non vi arrendete entro mezz'ora, lo fuciliamo". Matilde, all'immaginario telefono, fingendo, emise un rantolo. Indi di un colpo in terra, finse voci confuse, alterando la voce: grida d'allarme, lamenti, richiami di soccorso. Pestando i piedi, finse passi precipitosi di persone che accorrono. Poi, con voce soffocata, ma in modo che si sentisse dall'altra parte dell'immaginario telefono; e alterando ancora la voce, ma in modo diverso da prima: "Il dottore, presto! Il generale non respira". Pestando e stropicciando i piedi e mugolando variamente, finse scalpiccio, parlottio concitato. Indi, ancora al telefono, con voce diversa: "Pronto? Pronto? assassini! Il generale morto. Ce l'avete ammazzato, col vostro ricatto. Gli venuto un accidente. Un infarto. Siamo rimasti senza generale!". La generalessa finse di riattaccare il telefono e apr le braccia, come per dire al marito: Lo vedi? E" tanto semplice. Il generale alz le spalle. "Ma che vuol dire?" disse. "Si chiama il comandante in seconda. Eh, staremmo freschi se la morte del generale dovesse paralizzare le operazioni. L'ufficiale di grado pi alto, che viene dopo di lui, assume il comando, lo sostituisce immediatamente in tutto e per tutto." La generalessa fece un gesto vezzoso, di canzonatorio invito: "E va bene, carino," disse "parla, d tutto quello che credi. Sei la belva. Hai carta bianca." Il generale, imperioso, fingendo di parlare al telefono: "Chiami il comandante in seconda!". La moglie, al marito: "Benissimo. Sono io il comandante e rispondo al ricatto".

All'immaginario telefono: "Guardi, comandante Kapel," e a bassa voce, con odio: "Che il cielo lo stramaledica!" poi, forte: "Se per il figlio del defunto generale Fulcs," (occulti scongiuri del generale Fulcs) "guardi, inutile, ormai. Ci dispiace moltissimo per lui, ci dispiace per il ragazzo, ma non sappiamo cosa farci. Fucilatelo pure. Il generale Fulcs morto, e la guerra la guerra. Non ci arrendiamo". Rise nell'immaginario telefono con un ghigno di trionfo, e riprese l'immaginaria telefonata. "Ah, ah! Adesso dovete catturare mio figlio, cari, se vi riesce. Ma sar un po'"difficile. Io, comandante in seconda, facente funzione di comandante in capo, non ho famiglia. Sono scapolo. Oppure: mio figlio gi morto. L'avete gi ammazzato voi. Colpa vostra. Siete stati troppo precipitosi. Avete avuto fretta. Avete il grilletto facile. Imparate, a sparare con tanta facilit. Un'altra volta, state pi attenti. La guerra continua. Riverisco." La generalessa fece una riverenza canzonatoria all'immaginario telefono e finse di riattaccarlo. Al marito: "St tranquillo, che tuo figlio sarebbe stato salvo. Diventava un qualsiasi prigioniero insignificante". E alludendo al marito: "Invece lui parla, l'imbecille!" (Rifacendogli il verso:) ""Sono io, dica! A sua disposizione! Ai suoi ordini!"". "Matilde, ti scongiuro" supplic il generale. "Eravamo tutti agli estremi, convinti di dover morire fra poco, te l'ho detto, quando il comandante Kapel mi telefon." La moglie non l'ascoltava nemmeno. "E per avvalorare la minaccia," continu, quasi parlando da sola, "lo fanno parlare anche con suo figlio." "Naturalmente" fece il marito. "Perch non pensassi che bleffavano. E" pi che logico." "E gi. Perch anche loro, per quanto feroci e belve, pensavano che non avresti lasciato ucciderlo. Invece, va a rinunziare perfino alla mezz'ora dell'ultimatum. Dopo aver parlato col ragazzo, parla ancora con gli assassini." Rifacendogli il verso; con prosopopea: ""Non necessario darmi mezz'ora per rispondere. La risposta ve la d subito: la fortezza non s'arrende e non s'arrender mai." Senza pensare che in mezz'ora possono succedere tante cose". "Non successe niente" disse il generale, con tristezza. "Comunque," fece lei, amaramente, "era mezz'ora di vita in pi per tuo figlio. E gli hai tolto anche questa. Per un gesto. Per una bravata. Assassino!". Il generale era annichilito, a capo basso. Improvvisamente, dall'altoparlante situato a una parete in alto, s'ud scendere un fruscio, un brontolio, che presto diventarono boati e poi la voce di Zorapide che parve scendere dal cielo: "Pronto, pronto, signor generale, signora, proviamo il disco della telefonata, pronto". Sotto il boato, il generale s'era fatto piccino, con la testa nelle spalle, come stesse per cadergli addosso un masso. Dall'altoparlante s'ud il fruscio del disco e poi le parole della telefonata, ingigantite e come scendessero dall'alto. Matilde ascoltava con lo sguardo sbarrato nel vuoto. S'ud una voce argentina, squillante. "Pap!" La voce profonda del generale, di tanti anni prima: "Figlio mio, sei tu?". "S, sono io, pap." "Hai sentito?" "S. Non cedere, pap."

"No, figlio mio, la fortezza non s'arrende. Dillo ai tuoi assassini. Sii forte. Sii coraggioso. Per la grandezza della patria." "S, pap." "Ti bacio e ti benedico." "Ti bacio, pap, addio!" "Addio, figlio mio." "Addio, pap. Addio anche a mamma. Addio a tutti." Terminata la telefonata, che Matilde aveva ascoltato impietrita, come con una maschera tragica sul volto, il generale, che aveva ascoltato a capo basso, come un colpevole, alz gli occhi timidamente e guard supplice la moglie, quasi temendo ch'ella stesse per inveire contro di lui. "Taci," gem con un fil di voce "vien gente." Matilde gli volt le spalle, brusca, and alla finestra, guardando fuori. Il generale guardava le spalle di lei avvilito, anche lui volto verso la finestra, senza osare d'avvicinarsi. Nel silenzio, s'udirono per qualche minuto i singhiozzi di Matilde, ch'ella cercava di trattenere, quasi rabbiosa, come un mugolo disperato di bestia ferita. Alle spalle dei due, rientrarono dalla passeggiata Virginia, col poppante in braccio, e Anna, la figlia del generale, seguita dalla balia, che portava in braccio il bambino di lei. "No," diceva Virginia ad Anna, proseguendo una conversazione, "quella del mio adesso bella, gialla, consistente." "Anche quella del mio" disse Anna. "C' stato un periodo ch'era un po' troppo liquida." "Non vuol dire. Il mio, per un po'"di tempo, faceva una specie di calce." "Verde?" "Biancoverdastra. Ma secca, quasi. Pareva gesso." "S, s, anche il mio, qualche volta." Virginia alz gli occhi al cielo, estasiata. "Ah, quella di oggi era cos bella!" esclam. E aggiunse, come se cantasse: "Pareva d'oro". A un tratto guard con sospetto il proprio bambino. Arricci un po'' il naso, e scapp dentro ridendo. Squill il telefono sulla scrivania e il generale fece istintivamente per andare a rispondere, ma la moglie lo ferm, autoritaria. "Ah, no, eh?" disse. "Ah, no. Tu non rispondi al telefono. Gi ne hai fatti abbastanza di disastri, col telefono. Non ti basta ancora, no?" Si volse verso l'interno, mentre il generale la guardava con un'aria di vittima. "Cavalier Zorapide," grid "il telefono!" Zorapide arriv di corsa, indaffarato. "Scusi, scusi," disse "stavo dando gli ultimi ritocchi all'impianto dell'altoparlante." Afferr il telefono. "Pronto?" grid. "Qui conservatoria della Fortezza d'Alcantares. Chi parla?" Stette un po'"in ascolto, poi copr con la mano il ricevitore. "E" uno che vuol parlare col generale" disse a Matilde. "Il generale occupato" fece questa seccamente, trattenendo il marito che stava di nuovo avviandosi col suo passettino tremolante, per rispondere. "Fatevi dire di che si tratta." "Il generale occupato in questo momento" strombett Zorapide nel telefono. "Vuol dire a me di che cosa si tratta?" Stette in ascolto con dei: "s... s... s..." e poi riattacc con

un: "D'accordo". "Che voleva?" domand la generalessa. "Dice che cosa riservata. Far un salto qui, perch telefonava da un bar vicino." "Sar un giornalista." "O uno dei soliti falsi ex assediati, che hanno qualche cosa da chiedere al generale." "Parlateci voi" disse Matilde. "Sissignora. Un attimo, quando finisco di mettere a posto l'altoparlante." Il conservatore scapp all'interno della fortezza. "Imbecille" mormor la generalessa. "Matilde!" fece il generale, in tono di blando rimprovero. "Sempre a prendertela con quel pover uomo." "Ma che pover uomo! Dico a te." "Ah, bene, bene" fece lui in tono conciliante. "Credevo." Guard l'orologio. "Credo che dovremmo cominciare a vestirci per la cerimonia" disse. "Comincia tu," fece lei "che sei lungo come la quaresima. Io vengo poi." Il generale non domandava di meglio che ritirarsi, e rientr nell'appartamento col suo passettino tremolante. Matilde si volse alla figlia, che stava ritoccandosi il trucco davanti alla finestra. "La cerimonia degli assassini che oggi fanno pace!" disse. Vide che la sofisticata figliola continuava ad occuparsi del proprio trucco e aggiunse amara: "Ma gi, a te tutto questo non interessa. Tu sei qui da turista, pare, e il resto non ti riguarda". "Mamma," fece la giovane signora, sospirando, "ho tanti guai miei. S, capisco, ma a me, che ho il marito in giro con una sgualdrina, nessuno pensa. Le cose di tanti anni fa, s, hanno il loro valore, ma per quest'anima di Dio del mio bambino, nessuno si preoccupa." Mise via lo specchietto del trucco e s'avvi verso l'appartamento. "A proposito," disse "credi che per la cerimonia vada meglio l'abito nero o il tailleur beige?" Visto che la risposta aveva tutta l'aria di non voler venire, scosse il capo e usc. Nella stanza erano rimaste soltanto la generalessa e la vecchia balia che ninnava il poppante con un mugolo. "Tu te lo ricordi, Nicola, quand'era piccolo come questo" le disse la generalessa, con voce infinitamente accorata. "Allora portavi lui in braccio. E adesso lui sta l fuori, sottoterra. Gli hanno fatto il monumento" aggiunse amaramente. La balia, vecchia vecchia, fece un mugolo, curva, a capo basso. "E ti ricordi quando faceva i compiti, d'inverno?" prosegu Matilde. "C'era un silenzio, in casa! Lui al tavolino, con la testa sotto la lampada. La rivedo ancora, quella lampada accesa, la sua testolina, il bianco dei quaderni. Si sentiva il ronfare della stufa, che metteva sonno." La vecchia nutrice faceva segno col capo che s, che s, che anche lei si ricordava. "Erano uno strazio, per lui, i compiti," continu la generalessa, con lo sguardo nel vuoto, come parlando a se stessa, "si riduceva sempre all'ultimo momento, non aveva voglia. Se sapessi che rimorso ho per tutte le volte che l'obbligavo a studiare, lo trattavo male, lo minacciavo." Rimase qualche istante in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Se avessi saputo come andava a finire," disse con voce sorda "gli avrei detto: "ma v!... divertiti, gioca, invece di tormentarti sui

libri". Pretendeva che gli spiegassi io certe cose, che io nemmeno sapevo: il dittongo, lo iato." Nel silenzio, la generalessa continuava a rievocare ricordi di quindici anni avanti. "E quando andava a giocare a pallone con gli amici!" disse. "Lo presero proprio mentre tornava dal gioco. Non volevo che andasse, pareva che una voce me lo dicesse. D'altronde, chi poteva immaginare? Cos lontani dal fronte com'eravamo! Lo catturarono, lo portarono via in automobile." Si pass una mano davanti agli occhi. "Che giornata fu quella! Quando cominci a far buio, e lui non tornava, e cominciammo a telefonare come pazze a tutti i ragazzi amici suoi, tutti erano tornati a casa, e lui no. S'erano lasciati poco lontano da casa, come gli altri giorni. E allora ci mettemmo a correre come pazze per la citt, io e te. C'era l'oscuramento, non si vedeva niente. Ogni tanto c'era un allarme, bisognava correre nei rifugi, speravamo di trovare anche lui in un rifugio. Poi cominci a piovere, e tutti scappavano. E noi, come pazze, correvamo a casa, per vedere se fosse tornato, e poi riscappavamo fuori, e poi di nuovo a casa, e poi fuori." La generalessa riprese fiato, ansante. "A casa," concluse con voce sorda "rimasero le sue pistole, i suoi soldatini, i fucili, le automobilette, i suoi giocattoli, tutti come li aveva lasciati. I libri di scuola ancora legati nella cinghia con cui li aveva portati a casa." La balia, vecchia vecchia, represse un singhiozzo. Matilde le pass un braccio sulle spalle curve, affettuosamente. Ma subito si stacc. "E te lo dico per l'ultima volta," disse, cambiando tono improvvisamente, diventando imperiosa, dura. "Guai a te se ancora, quando mi parli davanti alla gente, ti sento che mi di del lei." La balia fece un gesto di protesta. "Testona d'una montanara!" prosegu la generalessa. "Ha portato in braccio me bambina, i miei figli, adesso il figlio di mia figlia, e se n'esce a darmi del lei. E" ridicolo." La balia f cenno di s, umilmente. Ancora una volta, Matilde cambi tono, torn affettuosa. "Gli hai portato i fiori, stamattina" disse alla vecchia. "Ieri sera ho visto che c'era un mazzetto di fiori di campo." La balia f cenno di s. Matilde la prese sottobraccio e le due donne s'avviarono verso l'interno sostenendosi l'un l'altra faticosamente. "Li hai colti tu, eh?" prosegu, la generalessa. "Erano ancora bagnati di rugiada." Le due uscirono dalla sinistra, mentre Zorapide, rientrava per cedere il passo, inchinandosi alla generalessa. VI L'indaffarato conservatore si lasci cadere nella sua poltrona, abbandonandovisi con un sospiro di soddisfazione. Vide i resti della colazione del generale. "Raimondo!" grid. "Porti via questo vassoio, s o no?" "Vengo subito" rispose dall'interno la voce di Raimondo. Contemporaneamente s'ud una voce: "Permesso?". E sulla porta che dava all'esterno apparve uno sconosciuto. Zorapide alz gli occhi. "Ho telefonato poco fa" disse l'altro. Il conservatore lo squadr, vide che gli mancava un braccio. "Senta," gli disse "le dico subito che non c' niente da fare. Le iscrizioni sono chiuse da un pezzo, e gli ex assediati sono esattamente il triplo di quanti si trovavano qui durante l'assedio. Senza contare quelli che sono morti in questi anni. Di morte

naturale, beninteso." "Cresciuti, invece di diminuire?" fece il nuovo venuto sorridendo. "Che vuol che le dica?" fece il conservatore. "Di alcuni non stato possibile accertare se dicevano la verit. Poi ci sono state delle nascite. Per i nati fino a nove mesi dopo la fine dell'assedio, stato rivendicato il diritto alla qualifica di ex assediati, bench, a rigore, per essi non si potrebbe parlare di assedio vero e proprio." "Anzi" fece il nuovo venuto. "In un certo senso erano i pi assediati di tutti. Due volte assediati. E il fatto della loro nascita entro i nove mesi dalla fine dell'assedio, dimostra che, tutto sommato, l'assedio ebbe, per qualcuno degli altri, anche qualche lato non del tutto sgradevole." "E gi, in un certo senso" fece Zorapide, che non aveva del tutto afferrato il ragionamento. "Comunque, la conclusione che qui siamo assediati dagli ex assediati." "Come mai?" "Che vuole? Il generale vecchio, buono, chiunque gli dice di essere un ex assediato, lui ci crede." Zorapide si volse a Raimondo, venuto a ritirare il vassoio della colazione. "Raimondo!" chiam. "Comandi." "Vedesti mai questo signore durante l'assedio?" "Signor direttore," fece il brav'uomo, dopo aver squadrato il nuovo venuto, "stavamo all'oscuro, come potevo vederlo?" "Ah, gi, tu non hai visto mai niente, perch stavate all'oscuro." Mentre Raimondo si ritirava col vassoio, Zorapide si volse al visitatore. "Tutti si fanno forti del fatto che non ci si vedeva," disse "per dire che c'erano anche loro. Ma non possibile accogliere tutti. C' l'associazione, tutti hanno qualcosa da chiedere, diritti da rivendicare. Chi vuole la dentiera, perch prese i reumi durante l'assedio, chi vuole una carrozzina d'invalido, chi un impiego." "Mi scusi," interruppe cortesemente il nuovo venuto "ma io non sono un ex assediato, n aspiro a diventarlo. Sono un inviato del comandante Kapel." Zorapide s'alz prontamente. "Doveva dirmelo subito" disse. "Ma l'arrivo era previsto fra alcune ore." "Appunto. Il comandante Kapel ha voluto che lo precedessi, per far sapere, che desidera uniformarsi in tutto e per tutto ai desideri del generale Fulcs." "Credo che il generale Fulcs non abbia particolari desideri" fece Zorapide. "Pi difficile sar intendersi con la moglie." "Capisco. La madre." "Sa come sono le donne, rifiuta qualsiasi incontro col comandante Kapel." "Capisco. E" pi che giusto." "Tra l'altro, vuole che anche quest'anno si faccia udire il disco in cui fu incisa la famosa telefonata. Ma quest'anno, date le circostanze, non sembra opportuno." "Il comandante Kapel accetta qualsiasi condizione. Tuttavia pare anche me, date le circostanze... Tanto pi che il comandante Kapel in un tale stato di prostrazione, che la stessa signora, se lo sapesse... Potrei parlarle io?" "Non si faccia illusioni, non la riceverebbe. Comunque, se vuol provare, aspetti qui. Da qui dovr passare per forza, per uscire o per entrare, non abbiamo altro passaggio. Le cerimonie commemorative si svolgeranno fuori, come lei avr visto, e la signora, per

intervenirvi, dovr passare di qui. S'accomodi. Ci sar da aspettare." "Grazie. Giacch cos gentile, potrei chiederle un favore? Ho sentito che molti si rivolgono a lei per trovar lavoro. Non ci sarebbe un posticino anche per me? Ho un braccio..." "Mancante, lo vedo." "Non alludevo a quello mancante, ma all'altro. Dicevo: ho un braccio valido per lavorare." Zorapide cominci a darsi importanza. "Caro signore," disse "sapesse quanti hanno non uno, ma due braccia valide per lavorare, e non possiamo dar loro lavoro." "Allora mi appeller al braccio mancante" fece l'altro. "Vede, caro," disse Zorapide "fra gli ex assediati ce n' qualcuno che ha non uno solo, ma tutt'e due i bracci mancanti, e lo stesso non possiamo farlo lavorare." Zorapide si gonfiava sempre pi d'importanza. "Benedetta gente," continu "credete che io possa far miracoli. Ma anche l'influenza che si pu esercitare sul prossimo, ha un limite. Voi che sapete fare?" "Tutto." "Ahi." "Tutto, beninteso, compatibilmente con le mie condizioni. Le quali, per, in compenso, dovrebbero rappresentare qualche punto di vantaggio a mio favore, ed essere esse stesse una raccomandazione." "Ecco quello che ci vorrebbe. Una raccomandazione. Non conoscete nessuno?" "Il braccio stesso mi raccomanda." "Non la stessa cosa. Ci vuole il braccio d'un'eccellenza, o d'un alto prelato. Un braccio influente, insomma, che vi raccomandi, e non il vostro. Che, tra l'altro, non c' nemmeno. Eh? Come pu raccomandarvi, se non esiste?" "Ma proprio la sua assenza dovrebb'essere un titolo preferenziale." "Sapeste quanta gente ha titoli preferenziali e non ottiene niente. Del resto, non voglio far torto ai vostri, come dite, titoli. Mi rendo perfettamente conto che la vostra una grossa disgrazia, meritevole della pi grande compassione." "Sapesse come l'ho perduto!" disse il giovane. "Questo non m'interessa" fece Zorapide. "Io sono un uomo che ragiona, nelle cose. Un uomo che pensa con la propria testa. L'importante che avete perduto il braccio, e questa gi sciagura grave per s sola." "Ma differente, secondo come uno ha perduto il braccio." "Cos ragiona il mondo" fece Zorapide. "Perch il mondo ragiona male, se lo ricordi. Per me non c' differenza." "Come?" disse l'altro, sorpreso. "Altro se uno perde un braccio andando sotto il tram, altro se lo perde in guerra, o in un conflitto con la polizia come bandito, o in uno scontro coi banditi come tutore dell'ordine, o per un volgare foruncolo. Sono altrettante circostanze, che graduano e condizionano la compassione del prossimo." "D'accordo. C' differenza fra queste cause. Ma fra quello della guerra e quello del foruncolo, la mia maggior compassione va a quello del foruncolo." Il giovane rimase sorpreso. "Come?" disse. "Credevo il contrario." "No, no, caro. E" qui che il mondo ragiona male, e si fa suggestionare dalla retorica" esclam il conservatore. "Perch chi va sotto il tram o vittima d'un'infezione da foruncolo, non ha nemmeno il vantaggio del merito, della gloria, come il guerriero; o almeno la rassegnazione di chi l'ha voluto, d'esserselo meritato, d'esserne il

responsabile, del chi causa del suo mal, come il bandito, o, per altro verso, come l'ardimentoso, o l'imprudente, che sfida i pericoli, o come il corridore automobilista..." S'interruppe, come per un dubbio improvviso. "Non mi direte," disse in tono drammatico "che avete partecipato alla Mille Miglia." "No, no," disse il giovane "non c' pericolo." "Meno male" fece l'altro, come sgravato d'un pensiero molesto. "Ma sedete, tanto abbiamo tempo, e a me piace sradicare dalla testa dei miei simili le idee sbagliate. Che non sono poche. Una sigaretta?" "Cosicch, voi date pi importanza, o almeno compassione, a chi, per una banale disgrazia..." "Ma senza dubbio! Non c' nemmeno da fare il paragone. Certo," Zorapide soggiunse a bassa voce, indicando con gesto largo le macerie della fortezza, "non voglio negare la comprensione anche agli altri. Ma vi dico in tutta confidenza che non vedo perch si debba inneggiare soltanto a uno che stato ferito in guerra, applaudendolo, glorificandolo, come se, in ogni caso, fosse rimasto ferito per un atto eroico. Vi dir che anche in guerra un'eccezione essere ferito per un atto eroico. Di solito si feriti per il solo fatto che si sta in guerra. Certe volte, addirittura mentre si scappa, mentre ci si nasconde, e perfino per il fatto che si stava scappando o nascondendosi. E" atto eroico, questo?" Zorapide procedeva soddisfattissimo d'avere un ascoltatore. "Inneggiare ad uno," continu "perch il caso l'ha prescelto fra quelli da colpire, ingiusto. Egli non ha maggior merito del suo vicino di trincea, che risparmiato dal destino e resta illeso. Perci, la mia maggior compassione va a chi rimasto vittima d'una banale disgrazia. Mi dispiace per voi..." Il giovinotto s'alz in piedi con qualche solennit. "Allora," disse "debbo dirle che questo proprio il caso mio." "Come, come, come?" "E gi. Mi dispiace di vedervi un po'"smontato per il fatto che avete involontariamente esaltato proprio uno che volevate probabilmente scoraggiare, ma proprio cos." Zorapide era rimasto un po'"disorientato. Era evidente ch'egli aveva formulato la sua teoria, convinto che l'altro fosse mutilato per ragioni meritorie, e forse l'aveva fatto anche per metter le mani avanti e scoraggiarlo, appunto, in eventuali pretese. "Voi..." disse. "Visto che il mondo, purtroppo, non la pensa come noi debbo inventare tutta una storia che "mi fa onore", in relazione alla perdita del braccio. Il che non affatto richiesto, ad esempio, per la perdita dei denti." "Che sciocchezza, caro, scusatemi," esclam Zorapide, che voleva riprendere il sopravvento nella discussione, "i denti si perdono sempre, a una certa et." "D'accordo" fece l'altro. "Allora diremo: per il taglio dell'appendice." "Scusatemi, scusatemi, voi siete un pessimo ragionatore. L'appendice non c'entra affatto. Come vorreste inventare una storia che vi fa onore, in relazione alla perdita dell'appendice?" "E" vero. Comunque, con lei mi giova di pi dire la verit, per quanto antieroica. Sissignore, io ho perso il braccio per una volgare disgrazia." "Cio?" "Scendendo dal tram..." Zorapide si copr gli occhi con la mano. "Basta, basta" disse. "Ho capito tutto. Poveretto. Che raccapriccio!"

Il giovane scosse il capo con amarezza. "Nessuna medaglia per me" esclam. "Non si danno medaglie per queste cose." "B," fece Zorapide "adesso non state ad amareggiarvi perch non vi danno una medaglia. Del resto, dovete ammettere che sarebbe anche strano dare una medaglia con la motivazione: "Perdeva un braccio in un incidente tranviario"." "D'accordo. Ma bisogna vedere come la gente cambia nei miei confronti. Perfino il modo di guardare diventa un altro. Finch non sanno del tram, mi fissano con ammirazione e benevolenza, come si guarda un eroe, e alcuni addirittura con fierezza, quasi che il presunto atto eroico l'abbiano compiuto essi." "Che imbecilli!" "Hanno l'aria di dirmi con lo sguardo: "Questa balda giovent", e quasi mi batterebbero una mano sulla spalla. Come se un arto non potesse perdersi che in azioni eroiche." "Per essi non esistono gli scivoloni da pozzanghere" fece Zorapide. "Appena vengono a sapere del tram," prosegu il giovane "alt, macchina indietro, indifferenza, freddezza, ostilit addirittura, in certi casi. Hanno l'aria di chi si sente frodato. Come se la banale disgrazia fosse un'offesa personale per loro. Qualcuno mi guarda quasi con risentimento, taglia corto e mi pianta in asso." "Che cretini" ridacchi Zorapide. "Basta, prima che partiate, vi far una lettera di raccomandazione." "Grazie, signore." "E questo vi dimostri quale considerazione io faccia della vostra disgrazia e come la ritenga pi meritevole di compassione, che se fosse dovuta a un atto eroico, il quale ha il suo premio in se stesso, e gi in certo modo vi compenserebbe." "Proprio cos" fece il giovane. "Ecco finalmente una persona che sa ragionare." "No," disse Zorapide, con modestia, "semplicemente un pacifista. Un uomo che contrario alla retorica dell'eroismo, che tante vittime ha fatto e continua a fare, e che ci porta via i nostri figli, i nostri fratelli, i mariti delle nostre mogli, i padri dei nostri figli. Che poi saremmo noi stessi." Aggiunse a mezza voce: "Almeno cos speriamo". Dall'interno dell'appartamento entr Virginia. Vide il giovinetto, sbarr gli occhi, emise un flebile gemito. "Ah!" e svenne tra le braccia di Zorapide. "Che successo?" balbett questi, sorreggendola, sgomento e sbalordito. "Credo che la signora sia svenuta" disse il giovane. "E" evidente" fece il conservatore. Chiam: "Raimondo! Raimondo!". "Comandi" disse Raimondo, accorrendo. "La signora si sente male. Porta una bacinella d'acqua." Raimondo non si mosse. "Sbrigati!" strepit il conservatore. "Signor cavaliere," fece l'inserviente "ho tagliato le tubature." "Eh?!" "Lei m'aveva detto di rimettere tutto come al tempo dell'assedio, se no mi licenziava. Al tempo dell'assedio le tubature erano state tagliate." "Idiota! Ne fai una dopo l'altra! Ma questa l'ultima. Vattene! Sei licenziato!" "Me l'aveva detto lei!" borbott Raimondo, aprendo le braccia, come chi non capisce, e uscendo.

Zorapide adagi Virginia su una sedia. "Virginia! Virginia!" chiamava. "Che hai?" La donna non dava segni di vita. Il marito si volse al giovane. "Ma scusate," disse, non senza risentimento, "c' qualcosa fra voi e mia moglie? Vi conoscevate?" "Assolutamente no" fece il giovane. "Mai vista." "Eppure," fece Zorapide " svenuta vedendovi." "Forse, la mia mutilazione..." "Mi pare eccessivo." "Comunque," disse il giovane "visto che faccio quest'effetto alla signora, non mi resta che ritirarmi." S'alz. "No, caro signore," insorse Zorapide "adesso voi non vi movete da qui, finch mia moglie non sar in grado di spiegarmi. Esigo una spiegazione." "Certamente svenuta non per causa mia" borbott il giovane, stringendosi nelle spalle. "Forse, un malore indipendente dalla mia presenza." "Lo sapremo da lei stessa" fece Zorapide, ruvidamente e in un tono non scevro di minaccia. "Ma zitto, mi pare che si riprenda." Virginia emise un altro flebile gemito, apr gli occhi, li volse intorno, come trasognata, mormorando: "Oh!...". Il suo sguardo si pos sul visitatore, nuovamente ella sbarr gli occhi, grid: "Ah...". E svenne di nuovo. Zorapide volse intorno occhi di folle. "E" svenuta di nuovo appena vi ha visto" disse al giovine. "E" proprio per causa vostra." Il giovine si strinse nelle spalle. "Non so spiegarmelo" disse. "Forse, una rassomiglianza. Se mi nascondessi?" Virginia riprese i sensi. "No," disse debolmente "restate pure. Vi spiegher. E" una storia impressionante." "Insomma, Virginia, vieni al dunque" esclam Zorapide. "Mi fai stare sui carboni ardenti!" Virginia sospir profondamente. VII "E" stato circa quindici giorni fa" disse Virginia, con voce spenta. "Ah" fece Zorapide, con voce strozzata. "Tornavo a casa in tram, e il tram era molto affollato. Era l'ora di punta." "Ah." "A un certo punto, nella ressa, mi sentii abbracciare alla vita." "Ah" fece Zorapide guardando il giovine con inquietudine mista ad ostilit. "Aspetta" disse la donna. "Cercai di scostarmi, ma la folla era cos. Allora, fulminai con lo sguardo il mio vicino, ma questi non mi guardava. Stavo per dirgliene quattro, ma poi, per non fare scandali, preferii agire. Afferrato il braccio indiscreto, lo tirai via in malo modo. A questo punto, avvenne una cosa spaventosa." La signora tacque un istante, per riprender fiato. I due uomini pendevano dalle sue labbra. "Virginia," supplic Zorapide "v avanti, non farmi penare." Nel silenzio generale la donna riprese il racconto: "Il braccio," sillab "si stacc netto e mi rimase in mano." Zorapide fremette.

"Lo sentii pendere inerte, con raccapriccio" prosegu la donna. "Ebbi la netta sensazione d'aver commesso un delitto. Lo sguardo mi si appann, la testa mi girava, stavo per svenire." Si pass un mano sugli occhi, addit il giovane. "Era il braccio di questo signore" concluse, con un fil di voce. "Ah!" fece Zorapide, indignato, fissando il giovine con occhi di bragia. "Aspetta" riprese sua moglie. "Era un braccio artificiale." "B," borbott Zorapide "meno male. Per..." Fiss severamente il giovine. "Io non ne ho colpa" fece questi. "Lasciami finire, Zorapide" disse Virginia. "Soltanto un attimo dopo mi resi conto che era artificiale. Ma nel primo istante avevo creduto di avere staccato io, involontariamente, un braccio vero, con la mia strappata." "Eh, la pepa!" esclam Zorapide. "Lo capisco anch'io adesso, e lo capii subito dopo, che era impossibile. Ma chi poteva immaginare? Mi trovai con questo affare in mano, intravidi appena, nella ressa, il colore roseo pallido dell'avambraccio, e la manina in un guanto di pelle, che pareva vera." "Difatti," spieg il giovane "uso un guanto per nascondere la mano ortopedica." "Istintivamente, con ribrezzo, coprii subito col mantello quello che credevo fosse un arto sanguinante. Ed era tale l'impressione, il raccapriccio, che non m'accorsi nemmeno che la presunta vittima non dava segni di sofferenza, anzi non pareva nemmeno essersi accorta del terribile accidente. N m'accorsi quando, un momento dopo, scese dal tram e s'allontan." "Signora," disse il giovine, cavallerescamente, "mi duole d'esserle stato involontariamente causa di tanta emozione, e gliene chiedo scusa. Ma quello che lei racconta mi giunge nuovo. Effettivamente, una quindicina di giorni or sono ero su quel tram, diretto qui per un primo sopraluogo nei paraggi e per fissare l'alloggio del comandante Kapel, e ricordo perfettamente il fastidioso accidente della perdita del mio arto ortopedico. Ma nella calca mi sfugg del tutto il particolare della sua strappata, come m'era sfuggito quello dell'involontario abbracciamento, di cui lei parla. N, nel primo momento, m'ero accorto di non aver pi il mio arto. Me ne accorsi dopo essere sceso dal tram e quando il tram era gi ripartito. Lei capisce che me ne sarei accorto subito, se il braccio fosse stato vero. Ma, nelle mie condizioni, spiegabile il ritardo. Credetti d'averlo perduto mentre scendevo dal tram, a causa della ressa. Certe volte, in tram, portano via un braccio vero, figurarsi uno finto. Essendo il tram gi ripartito, mi proposi di cercarlo l'indomani all'ufficio oggetti smarriti. L'indomani andai, ma il mio braccio non c'era, n c'era i giorni seguenti." "Difatti non ce lo portai. Per non stare a dare spiegazioni poco piacevoli" disse Virginia. "Quando mi resi conto della cosa, tremavo ancora. E s'immagini che cosa strana: tremai anche di pi. Lei non ci creder, ma in un certo senso un braccio finto mi faceva pi impressione d'un braccio vero. Col braccio nascosto sotto il mantello, scesi dal tram in fretta e corsi a casa, dove occultai l'oggetto. Che momenti d'incubo! Credo che non diversamente si trovi l'assassino che nasconde nel baule una donna tagliata a pezzi." "L'hai nascosto nel baule?" fece Zorapide, trasalendo. "No," disse Virginia "ma mi pareva quasi, che so, d'aver occultato un cadavere." "Virginia, sei troppo impressionabile" esclam il marito. "No, no, Zorapide, tu non puoi immaginare che impressione fa un

arto artificiale staccato dalla sua sede, e che uno si trova improvvisamente accanto. E" come una cosa morta, ma che ha una sua individualit e direi perfino una sua vita. Come un fantasma." La donna appariva ancora sconvolta al ricordo. "Tremavo," disse "anche al pensiero che qualcuno lo trovasse e mi domandasse conto." "Ma a me avresti dovuto dirlo." "A te meno che a tutti. Chi sa le storie che m'avresti fatto per la faccenda dell'abbracciamento. Il braccio divent un mio segreto angoscioso." Virginia addit il giovine. "Questo signore" prosegu "m'appariva alla fantasia e in sogno, che mi diceva con una voce terribile, con uno sguardo cupo: "Rendimi il mio braccio!". Mi svegliavo con un urlo." "E io non sentivo?" "Figurarsi se quando dormi tu senti qualche cosa. Un freddo sudore imperlava la mia fronte." La donna represse il respiro affannoso. "Quel braccio" concluse additando l'appartamento " di l, sotto il letto." "Santo cielo!" esclam Zorapide dando un balzo. "Cosicch il braccio di questo signore sotto il nostro tetto..." "Ho detto sotto il letto. Non l'avrei mai nascosto sotto il tetto." "Ho capito. Si dice sotto il tetto per dire in casa. Cosicch, il braccio di questo signore in casa nostra da quindici giorni, senza che io lo sappia?" Si volse alla moglie, indignato: "Ma perch m'hai taciuto che celavi...". "Ih, che esagerazioni!" esclam la donna. "Manco avessi nascosto un uomo! Era soltanto un braccio." "Eh," fece il marito, seccatissimo, "si comincia con un braccio e non si sa dove si va a finire." Si volse risentito al giovinotto: "E anche voi...". "Io?" "S, dico: siete ben sicuro di non aver perduto qualche altra cosa? Badate che far un'ispezione sotto il letto." "No, no, ho tutto a posto." "Diamine," esclam Virginia "Zorapide, che altro vorresti trovare? T'ho raccontato come sono andate le cose, no? Non vorrai farmi una scena di gelosia per un braccio, spero." "Un braccio gi qualche cosa" borbott Zorapide di pessimo umore. "E poi, per quanto artificiale, ti cingeva al di sotto della vita." "Tante volte," spieg il giovane "questi bracci ortopedici sono un po' difettosi. Scattano quando non dovrebbero, la molla s'incanta. Ma l era soprattutto la ressa che, come le ho detto, aveva portato il mio braccio fuori della posizione conveniente." "Oh, l'aveva portato a una posizione molto sconveniente, se vuol saperlo" fece Zorapide, sempre di malumore. "Non per colpa mia, signore, voglia ammetterlo. E, poi, senza mio profitto, questo almeno vorr riconoscerlo. Un braccio artificiale non ha alcuna sensibilit." "Non del tutto." "Ora si stanno studiando delle mani artificiali, munite di un congegno elettronico collegato coi centri nervosi, in modo da dare una relativa sensibilit." "Ma davvero?" "S, una spia elettrica a lampadina, con luci colorate, s'accende secondo ci che si tocca. Rossa per le sensazioni forti, verde per le blande, bianca per le pure. Il che, tuttavia, una soddisfazione

molto relativa." "E" gi qualche cosa." "Comunque, non il caso mio." "Non lo so." "Basta, Zorapide!" disse Virginia. "E" una cosa che poteva capitare a chiunque." "A me non sarebbe capitata" borbott Zorapide, acido. "Grazie al cielo, tu non hai un arto ortopedico" disse la moglie. "Oh, se anche l'avessi, saprei ben farlo stare a posto." "Non facile, signore, gliel'ho gi detto" disse il giovane. "Comunque, signore," borbott ancora Zorapide "il fatto che voi abbiate avuto per tanto tempo il vostro braccio sotto il nostro tetto..." "Sotto il nostro letto" corresse ancora la donna. "Tanto peggio. Il fatto che questo signore abbia avuto per tanto tempo il braccio sotto il nostro letto, non pu certo farmi piacere." "S'immagini a me," disse l'altro "che alloggio in un albergo a tre chilometri da qui." "Insomma," esclam Virginia "tutto bene quel che finisce bene. Ora vado a prendere il braccio del signore. Con permesso." Aveva ormai riacquistato la sua abituale vivacit. Svolazzando come un passerotto, la giovine donna scomparve nell'interno dell'appartamento. VIII Zorapide rimase a misurare nervosamente, a grandi passi avanti e indietro, il proprio ufficio, sogguardando di quando in quando il visitatore, quasi non fosse ancora del tutto convinto che le cose fossero andate proprio nel modo narrato. A un tratto si ferm di botto davanti al giovine, come per un'idea improvvisa. "Ma scusate," disse, apostrofandolo con malgarbo, "quando poco fa m'avete detto d'aver perduto il braccio scendendo dal tram, vi riferivate per caso a questo episodio?" "Precisamente" fece l'altro. "E" un fatto piuttosto comune. Avrete letto chi sa quante volte nei giornali il titolo: "Perde un braccio" o "Perde una gamba, scendendo dal tram"." "Ma tutta un'altra cosa!" sbuff Zorapide. "Questo titolo si riferisce al caso di uno che, scendendo dal tram, finisce sotto le ruote e ci rimette un braccio o una gamba." "A maggior ragione," esclam il giovine "deve poter riferirsi a un caso come il mio, che letteralmente e non metaforicamente un caso di smarrimento. E come tale lo denunziai appunto all'ufficio oggetti smarriti o ritrovati. E questa la miglior prova della mia innocenza nei riguardi della vostra signora moglie, e mi pare che dovrebbe tranquillizzarvi del tutto circa il mio contegno." "Lo vedremo dall'esame dell'arto. Ma ora non si tratta di questo. Voglio dirvi, invece, che allora, la vostra situazione personale nei riguardi delle mie opinioni circa la vostra mutilazione, cambia aspetto." "In che senso?" "E gi. Io vi ho detto che faccio maggior conto d'una disgrazia, che d'una mutilazione dovuta ad atto eroico, e voi, in un certo senso, avete estorto la mia simpatia, facendomi credere una cosa non vera, cio che avete perduto il braccio scendendo dal tram." "Non mi pare che la cosa cambi molto. Invece che scendendo dal tram, l'ho perduto sul tram, poco prima di scendere, perch mi fu strappato dalla sua signora." "Forse non mi sono spiegato" disse Zorapide. "Io volevo sapere come avete perduto non questo braccio, ma l'altro." "L'altro non l'ho perduto" fece il giovinotto e mostr il braccio sinistro. "Eccolo."

"Ma dico quello che avevate prima!" strill Zorapide. "Ah," fece il giovine "una caduta." "Possibile? Una caduta grave." "La caduta del fascismo." Zorapide s'irrigid in un'espressione di disgusto. "Ah, no, eh?" grid indignato. "Vittima dell'antifascismo." "Precisamente." "Siete un fascista, dunque" fece Zorapide con crescente ribrezzo. "Ma nemmeno per sogno. Fui vittima dell'antifascismo, bench io non fossi affatto un fascista. Questa l'ironia della sorte." "Ah, s, eh?" esclam Zorapide, ironico. "Strano. Strano davvero. Il solito errore. La solita ingiustizia. Epurazione d'un innocente. E come mai si dette questo strano caso?" "Glielo spiego subito" fece l'altro col massimo candore e molta sollecitudine. "La mattina in cui era caduto il fascismo, io uscii di casa, per partecipare alle manifestazioni di giubilo. Era la mattina in cui, lo ricorderete, per le strade si camminava calpestando uno strato di distintivi fascisti, come avesse grandinato." "Naturalmente" disse Zorapide. "Tutti avevano buttato via l'odiato emblema, simbolo di violenza e di tracotanza. Anch'io m'affrettai a disfarmi di esso, con ribrezzo." "Lo immagino. Bene. Lei ha mai sentito parlare del fascismo e del cosiddetto ventennio?" "Qualche volta. Alla Tv." "Ebbene, dalle allusioni e dalle frasi udite, bisogna dire che ve