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ARTICLES SUR LES PERES DE L’EGLISE

Actualité des Pères

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Tra soprannomi e appellativi l'ingresso del cristianesimonell'onomastica della tarda antichità

Alle origini di Benedictus

di CARLO CARLETTI

I mutamenti intervenuti nella mentalità, nelle abitudini, nella organizzazione e nella gestione degli spazi e delle strutture materiali, in seguito alla diffusione e al progressivo radicamento del cristianesimo nella società romana, si manifestano con intensità e ritmi anche sensibilmente diversificati. Se le esigenze della nuova fede condussero a trasformazioni decise e talvolta anche rapide nelle forme e nelle funzioni dell'edilizia sacra e delle strutture funerarie, nella scansione del tempo, nella presenza di nuovi temi e soggetti nella produzione

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figurativa, nella formazione di nuove forme espressive nella prassi epigrafica, questi stessi ritmi non intervennero in un ambito di stretta pertinenza individuale e familiare quale è quello dei nomi personali. In questa direzione il percorso di progressiva "cristianizzazione" fu lentissimo e desultorio, protraendosi in un lungo periodo di gestazione. Tra il III secolo e l'inizio dell'altomedioevo la scelta dei nomi individuali rimase strettamente ancorata alla tradizione, che peraltro nel corso della tarda antichità si andava avviando a profonde trasformazioni, nelle quali l'incidenza dell'identità cristiana rimase sostanzialmente marginale, almeno fino alla seconda metà del IV secolo. In tale contesto i cristiani usano indifferentemente un vastissimo repertorio onomastico, generalmente non identitario, che è quello di uso comune nella società romana: i gentilizi imperiali o di grande tradizione in funzione di cognomina (cioè "nomi personali") come Aurelius, Domitius, Flavius, Iulius, Marcius, Petronius, Valerius; i teoforici, cioè nomi derivati da quelli di divinità (Aphrodisius, Apollinaris, Dionysius, Eros, Heliodorus, Hermes, Iovinus, Martinus, Mercurius, Saturninus, Venerius) o da personaggi del mito (Romulus, Herculius); i cosidetti wish-names ("nomi augurali") come Augurius, Euodius, Eutichius, Faustus, Felix/Felicitas, Fortunatus; quelli ripresi da grandi personaggi storici (in

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primo luogo Alexander, o Cato), quelli ancora desunti da qualità morali o fisiche (Callistus, Blandus, Celer), nonché la singolare categoria degli uncomplimentary names ("nomi non-elogiativi") - Agrios, Balbus, Kopros, Proiectus, Reiectus, Stercorius - erroneamente ritenuti specificamente cristiani sulla base della bizzarra idea che fossero recepiti come presunti nomi di "umiliazione": a essi in realtà la mentalità del tempo - profondamente superstiziosa - attribuiva un forte potere apotropaico, e in questa dimensione erano indifferentemente usati da cristiani e pagani.È quasi superfluo rilevare che la documentazione di base per lo studio dell'onomastica antica risieda essenzialmente nella produzione epigrafica. A Roma la documentazione di sicura committenza cristiana raggiunge allo stato attuale circa 40.000 esemplari, dai quali si ricavano circa 65.000 nomi individuali. A riprova delle lentissime trasformazioni intervenute nella onomastica del mondo tardo antico, è un dato incontrovertibile che nel corso di quattro secoli (dal III al VI) non più del venti per cento dei nomi utilizzati possono considerarsi di conio cristiano.Si è a lungo discusso sulle dinamiche e sulle motivazioni che condussero all'emergenza di nomi cristiani nella società tardoantica. Allo stato attuale della ricerca si sono individuati diversi percorsi di formazione, i cui primi esiti cominciano a intravvedersi sporadicamente - soprattutto a

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Roma - nel corso del III secolo come indicato in particolare dalle iscrizioni dell'Arenario della catacomba di Priscilla, che testimoniano già un uso discreto dei nomi apostolici Pietro e Paolo. I dati di cui possiamo disporre indicano senza alcun dubbio nella devozione ai martiri il motore primo della nascita di una onomastica cristiana. Molti dei nomi divenuti nel tempo specificamente "identitari" erano diffusamente utilizzati nel mondo romano, ma ebbero particolare fortuna tra i cristiani perché corrispondenti a quelli dei più famosi e venerati "eroi della fede", come - particolarmente a Roma - Agnese, Ippolito, Sisto, Sebastiano, Lorenzo, oltre naturalmente a Pietro e Paolo, i cui nomi possono essere assunti come i prototipi di una nascente antroponimia cristiana. Nel corso del IV secolo iniziarono a diffondersi alcuni nomi precedentemente ignoti o di uso sporadico, che traducevano in forme onomastiche principi fondanti della nuova fede: il più diffuso è sicuramente Anastasius (o Anastasia), il cui ovvio significato è puntualmente spiegato in un'elogio funerario della catacomba di Commodilla (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, II, 6130) della seconda metà del IV secolo: "io Anastasia credo nella vita futura secondo quanto significato dal mio nome" (Anastasia secundum nomen credo futuram). E pienamente "identitari" si rivelano nomi - sostanzialmente

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inediti nel mondo romano - come Agape, Agapius, Innocentius, Martyrius.Particolare fortuna ebbe poi una categoria omogenea di nomi come Redemptus, Renatus, Renovatus, Reparatus - cosiddetti ex baptismate - che proponevano con efficace espressività gli effetti sacramentali dell'iniziazione cristiana. Anche nell'ambito delle comunità cristiane - come già nella società romana in riferimento alle divinità del Pantheon - entrò nell'uso corrente una articolata gamma di formazioni teoforiche costruite su Deus, Dominus, Theòs, Kùrios. Particolare fortuna ebbe Cyriacus (Cyriaca), che si può assumere come esemplificativo del fenomeno tipicamente cristiano dello "slittamento semantico" (mutamento di significato) intervenuto in un nome personale, come spiegato lucidamente da Iiro Kajanto, caposcuola indiscusso degli studi sull'onomastica romana: "Per i pagani l'aggettivo greco kuriakòs - da cui deriva l'antroponimo Cyriacus - indicava l'appartenenza al Signore nel senso di padrone e in tal senso era un nome tipicamente servile; per i cristiani invece aveva assunto il significato "identitario" di appartenente al Signore cioè a Dio". In questa stessa direzione si inserisce un teoforico come Theodulus, che riprende la diffusa tipologia formulare doùlos / doùle Theoù, servus Dei, servus Christi, ancilla Dei, ancilla Christi, nonché l'omogenea

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categoria di nomi bitematici costruiti su Christus, Deus, Theòs, che sviluppano formazioni indeclinabili come Adeodatus, Chistophorus, Deogratias, Deusdat, Deusdedit, Deusdona, Deushabet, Habetdeus, Theodulus, Dominicus, Quodvultdeus, Spesindeo: vere e proprie "espressioni onomastiche" (sentence-names), per le quali si è ipotizzato una origine africana come traduzione latina di precedenti nomi punici. Parlando di onomastica cristiana sul giornale quotidiano vaticano viene spontaneo il desiderio di accennare al nome del Papa, anche perché nella storia complessiva della onomastica cristiana il nome Benedictus costituisce un "caso" di notevole interesse in relazione alla sua origine e alla sua successiva diffusione. Nell'immaginario collettivo della nostra contemporaneità questo antroponimo è per lo più percepito come una formazione geneticamente cristiana, ma la sua storia indica senza ombra di dubbio un'origine e un percorso del tutto diversi. Sia l'aggettivo benedictus sia l'antroponimo di derivazione Benedictus - alla cui base c'è una tradizione semitica nel tipo Baruch, participio passato del verbo Barach (benedire) - sono attestati dalla fine del II secolo con una discreta diffusione socialmente trasversale, come indicano alcune testimonianze epigrafiche dei secoli II e III, che ne attestano l'uso anche in ambito servile e libertino, oltre che naturalmente tra gli ingenui (nati liberi). Il nome

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Benedictus presuppone naturalmente l'aggettivo benedictus, largamente attestato nell'epigrafia funeraria romana come attributo personale nella sua articolata gamma semantica di "degno di lode", "benvoluto", "famoso", "celebre". Non si tratta - come in molti altri nomi latini - della traduzione di un omologo greco, poiché il corrispettivo greco Eulogius è di uso molto più recente (non prima del III secolo) rispetto a Benedictus, che dunque può essere senz'altro assunto come un cognome di pura origine latina, e sicuramente pressoché esclusivo della città di Roma, dove trova il massimo di attestazioni. L'uso di questo nome fornì anche l'occasione per un gioco di parole, come si può leggere in un'iscrizione del III secolo nella quale una defunta - di nome Benedetta - è definita tale di nome e di fatto: i superstiti vollero ricordarla come "anima buona" e dunque "prediletta", che è quanto significato dal suo nome: d(is) M(anibus) / anima sancta / cata nomen / Benedicta (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 13545), laddove è da osservare il calco latino del greco katà, corrispettivo del latino secundum.In questo stesso ambito semantico si inserisce l'elogio rivolto a un defunto di nome Restituto: d(is) M(anibus) / Restituti / animulae / bonae et / benedictae / sit tibi terra levis (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 25408).In ambito cristiano, e soprattutto a Roma, in termini

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cronologici e di diffusione, l'aggettivo qualificativo benedictus sembra precedere nell'uso l'antroponimo di diretta derivazione, come indicato eloquentemente dalla documentazione epigrafica del cimitero anonimo di via Anapo (via Salaria nuova), rimasto attivo per circa un secolo, tra l'ultimo trentennio del III secolo e la fine del IV: qui si registra un'alta concentrazione dell'uso di benedictus come qualificativo personale associato al nome del defunto e mai inserito nella sequela degli epiteti abituali come carissimus, dulcissimus, obsequens e simili (Inscr. Christ., IX, 24641, 24642, 24658, 24660, 24677, 24680, 24704, 24705, 24710, 24721, 24722, 24725, 24739, 24745, 24753, 24767, 24789, 24793, 24796, 24810). Questi testi - generalmente molto succinti - non consentono di chiarire il significato assunto da benedictus in questo come in altri contesti cimiteriali romani: quello tradizionale o quello identitario in senso cristiano? L'accezione cristiana appare però del tutto evidente almeno in tre casi: in un epitaffio del cimitero dei Giordani (Inscr. Christ., IX, 24357: Calledrome benedicta in Chr(isto) e, analogamente, in due iscrizioni della catacomba di via Anapo: la dedicatoria Anastasi/o filio benedicto (Inscr. Christ., IX, 24641) e l'acclamatoria Aureli Varro / dulcissime et desiderantis/sime coniux pax / tibi benedicte (Inscr. Christ., IX, 25010): nell'una e

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nell'altra non sembra casuale da un lato il legame tra la specificità del nome del defunto e il qualificativo benedictus, dall'altro il collegamento concettuale tra la formula irenica pax tibi e il congiunto benedicte. 

Questa

documentazione indica in definitiva che a Roma nel corso del IV secolo benedictus / Benedictus raggiunsero una discreta diffusione e contestualmente cominciarono ad assumere nella percezione comunitaria una connotazione "identitaria", già emergente nella catacomba di via Anapo, alla quale - anche perché finora anonima - potrebbe legittimamente attribuirsi la denominazione di "catacomba dei benedetti".A Roma, in Italia, in Europa, un vigoroso e poi inarrestabile incremento dell'uso di Benedictus si avvia alla fine del mondo antico. La sua straordinaria fortuna si deve alla altrettanto straordinaria opera di Benedetto da Norcia (480-547), fondatore del monastero di Montecassino e promotore del monachesimo in Occidente. La sua immediata diffusione - almeno nel corso dei secoli VI-VII - rimase sostanzialmente circoscritta nell'ambito

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ecclesiastico: già in età protobenedettina si registra il suo uso nell'onomastica episcopale e naturalmente in quella monastica, a Roma con Papa Benedetto I (575-579) e in un'area di nuova conversione come l'Inghilterra con Benedetto Biscop (628-690) - cinque volte pellegrino a Roma - fondatore nella terra degli Angli dei monasteri di Wearmouth e Jarrow, naturalmente dedicati a san Pietro e san Paolo.Successivamente, a partire dall'VIII e IX secolo, il nome Benedictus si diffonde rapidamente sia nell'onomastica maschile che in quella femminile, con particolare incidenza nell'area laziale e meridionale, dove risulta per frequenza al terzo posto dopo Iohannes e Petrus.Attualmente l'area di maggiore diffusione è la Sicilia (36 per cento), ma a partire dagli anni Settanta si è registrato un complessivo calo di frequenza parzialmente bilanciato da una sostenuta ascesa nell'onomastica femminile.

La basilica di Santa Maria Maggiore dalla tradizione liberiana

alla realizzazione di Sisto III nel segno del concilio di Efeso

Neve ad agosto per un trionfo romano

di TIMOTHY VERDON

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Le chiese che nascono per la preghiera, sono anche frutti della preghiera, come suggerisce la storia di Santa Maria ad nives - Santa Maria Maggiore - di cui il 5 agosto si celebra la memoria. Secondo un racconto riferito mille anni dopo gli eventi narrati da certo fra Bartolomeo da Trento, un ricco patrizio romano, il senatore Giovanni, insieme alla moglie avevano deciso di destinare alla Chiesa i loro beni terreni, non avendo figli. Nella notte tra il 4 e il 5 agosto 358 la Vergine Maria apparve a Giovanni, e simultaneamente a Papa Liberio, chiedendo la dedicazione di una basilica a Roma, nel luogo dove, in quella stessa notte d'estate, sarebbe caduta abbondante neve. Al mattino senatore e Pontefice si recarono sul Cispio, dove la prodigiosa nevicata s'era in effetti verificata, e Papa Liberio tracciò nella neve la forma dell'erigenda basilica: è il soggetto di un dipinto del secondo Cinquecento conservato alla

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Pinacoteca Vaticana in cui l'artista, Jacopo Zucchi, sottolinea l'intensa preghiera del patrizio Giovanni e della moglie, raffigurati insieme a Papa Liberio in primo piano. Oltre alla sua storia particolare, Santa Maria Maggiore, come ogni chiesa, rappresenta l'intera storia del rapporto tra Dio e gli uomini, offrendosi quale figura di quell' "edificio della salvezza" che sant'Ireneo vedeva disegnato da Dio "come farebbe un architetto" (Contro le eresie, IV, 14, 2-3).In Santa Maria Maggiore, ricostruita in forme monumentali ed abbellita nel V secolo, quarantatrè riquadri in mosaico sopra il colonnato della navata infatti narrano episodi "strutturanti" della fede giudeo-cristiana: storie di Abramo, di Mosè, di Giosuè. Così, avanzando verso l'altare, i credenti vengono inseriti in un processo storico e metastorico che li conduce verso la città "il cui architetto e costruttore è Dio stesso" (Ebrei, 11, 10). Alla fine di questo percorso, a destra e a sinistra della parete di fondo vediamo in effetti due città, "Hierusalem" e "Betlemme" come sono identificate da scritte, davanti alle cui porte aperte sono radunati piccoli greggi; dall'arco della porta aperta dell'una e dell'altra città pende una croce d'oro, e il viale d'ingresso è nobilitato da un colonnato simile a quello della stessa basilica di Santa Maria Maggiore. Queste scene musive si trovano sull'arco che incornicia l'altare della basilica, così che le dodici pecore

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raffigurate diventano immagine del popolo cresciuto dal nucleo primitivo dei dodici apostoli. E di fatti il "gregge" che si raduna a pregare in Santa Maria Maggiore, come le pecore nel mosaico, guarda tra due file di colonne attraverso la "porta" del presbiterio verso il "tempio", Cristo, presente nell'Eucaristia.Al centro dell'arco di trionfo che incornicia l'altare, un'iscrizione dedicatoria recita XIXtus episcopus plebi Dei ("Il Vescovo Sisto [ha fatto fare questo] per il popolo di Dio". Si tratta di Papa Sisto III (432-440), che ingrandì la basilica iniziata nel IV secolo da Papa Liberio, dedicandola alla Vergine dopo la solenne dichiarazione del concilio di Efeso, che nel 431 riconobbe a Maria il titolo di "Madre di Dio". E tra le scene dell'arco di trionfo, vediamo in effetti episodi della vita di Cristo in cui Maria ha un ruolo importante: l'Annunciazione e l'Adorazione dei Magi. La speciale dignità di Maria è sottolineata dalla veste splendida in cui l'artista la presenta nell'Annunciazione: non è solo la fanciulla di Nazaret che ha partorito Gesù, ma una figura simbolica, la Chiesa come Domina, Signora. Nel registro sotto l'Annunciazione, ritroviamo questa stessa figura alla destra del piccolo Cristo in trono, mentre un'altra donna sta alla sinistra del trono, figura del popolo antico, la Ecclesia ex circumcisione. Questa indossa il nero vedovile, mentre Maria appare come la "sposa"

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descritta nel Salmo 45: "gemme e tessuto d'oro è il suo vestito. È presentata al re in preziosi ricami" (vv. 14-15).A prescindere dalla fonte veterotestamentaria, quest'immagine è stranamente "contemporanea" con il periodo d'esecuzione del mosaico: Maria, figura della Chiesa, porta l'abito di corte di una principessa imperiale, e il piccolo Gesù siede in mezzo all'enorme trono come un imperatore bambino: esempio, questo, di una sovrapposizione del sacro cristiano al profano romano assai comune all'epoca. Altre "sovrapposizioni" sono la forma della Gerusalemme celeste, nel mosaico, che ricalca il colonnato di un tipico decumanus d'età imperiale, e il termine usato nell'iscrizione dedicatoria, plebi Dei. Nella Roma un tempo repubblicana, dove pure sotto l'Impero la dignità politica dei cittadini veniva evocata col termine arcaico plebs - popolo unito, popolo capace di decisioni, di coraggio, di sacrificio - il vescovo dedica la nuova aula assembleare plebi Dei: a un popolo cui, oltre alle caratteristiche dei suoi antenati romani, vengono ora attribuite quelle del popolo condotto da Abramo, Mosè e Giosuè, per cui i cristiani di Roma si possono ormai chiamare col doppio appellativo plebs Dei.Ma notiamo un'altra sottolineatura di questo primo grande programma mariano realizzato in Occidente, dove - come già detto - la Vergine "in veste tessuta d'oro" e con la corona in testa costituisce un'immediata risposta

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iconografica alla solenne dichiarazione del concilio di Efeso. Tale regalità non è limitata alla donna Maria ma ha un carattere collettivo sottolineato precisamente dall'iscrizione dedicatoria sopraccennata, Xistus episcopus plebi Dei: frase, questa, che suggerisce l'essenziale chiave di lettura di simili immagini, in cui Maria è concepita non in primo luogo come persona individuale, ma come figura collettiva del popolo, come Domina Ecclesia.La più significativa sovrapposizione storica a Santa Maria Maggiore è la basilica stessa, la cui struttura - una vasta aula rettangolare sontuosamente decorata - doveva dare un senso di assoluta continuità col passato romano, anche se, paradossalmente, esprimeva anche l'epocale capovolgimento culturale costituito dal trionfo del cristianesimo. Come altri templi cristiani eretti dopo l'editto imperiale che levava la condanna sulla nuova fede, l'originale basilica Liberiana proclamava la vittoria della Chiesa là dove essa era stata messa alla prova. Un testo del periodo servirà a evocare il clima: è il discorso di Eusebio di Cesarea per la consacrazione della nuova cattedrale di Tiro in Fenicia (316-319 circa), ricostruita esattamente dove una precedente chiesa era stata distrutta da persecutori pagani. Eusebio paragona la nuova basilica al tempio gerosolimitano ricostruito dopo l'esilio babilonese, citando la profezia di Aggeo secondo cui "la gloria futura di questa casa sarà più grande di

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quella di una volta".Poi, pensando al passo di Isaia dove si legge che, nell'era futura, "gli afflitti di Sion" avranno "una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell'abito di lutto, canti di lode invece di un cuore mesto" perché "rialzeranno gli antichi ruderi, ricostruiranno le città desolate" (61, 3-4), Eusebio afferma che ormai la Chiesa "ha indossato la sua veste nuziale" e può dire, nelle parole d'Isaia: "io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli". Il vescovo di Cesarea ripete infine le promesse e le esortazioni divine, citando sempre Isaia: "Ecco io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa della mia ira; tu non lo berrai più; lo metterò in mano ai tuoi tormentatori". E ancora: "Svegliati, svegliati, rivestiti della tua magnificenza, alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si radunano, vengono da te. "Com'è vero che io vivo", dice il Signore, "ti vestirai di tutti loro come di ornamenti, te ne ornerai come una sposa"".Nonostante il linguaggio biblico, il trionfo della Chiesa era tuttavia un trionfo "romano", concepito nel linguaggio comune del tardo impero. La cattedrale di Tiro, la basilica Liberiana, le altre chiese del tempo non avevano caratteristiche architettoniche specificamente

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"ecclesiastiche", cioè. Tutto ricordava piuttosto le aule dei magistrati o le sale d'udienza degli imperatori: le colonne, identiche a quelle delle basiliche civili; i rivestimenti marmorei, gli spazi ampli, la luminosità proveniente da grandi finestre.Dice Eusebio che il committente della nuova cattedrale di Tiro, il vescovo Paolino, "aprì una porta ampia e molto alta per ricevere i raggi del sole mattutino, offrendo così anche a coloro che restavano fuori del cortile un panorama ininterrotto dell'interno, come per attirare verso l'ingresso gli occhi perfino dei non credenti, così che nessuno potesse passare in fretta senza riflettere con profonda commozione alla desolazione di prima e la miracolosa trasformazione ora. Egli sperava che la sola emozione davanti a questo spettacolo avrebbe toccato le persone, spingendole verso l'entrata".Era un invito a contemplare l'azione di Dio nella contemporaneità della storia: a riconoscere la potenza del Risorto in un'inversione di rotta così profonda da non potersi esprimere superficialmente, in un cambiamento esterno delle cose, ma nel "miracolo" di una conversione di senso che lasciasse invariata l'esteriorità. Roma rimaneva Roma, le sue aule pubbliche rimanevano quelle, con la differenza che ora la plebs che affollava le aule era plebs Dei.Come le altre basiliche romane del IV-V secolo, Santa

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Maria Maggiore in effetti fu concepita per accogliere un popolo numeroso, con una lunghezza di 86 metri. Non era tuttavia la più grande delle nuove chiese: San Pietro era lunga più di 120 metri, San Giovanni in Laterano 98, la basilica cimiteriale di San Sebastiano, sulla via Appia, era lunga 75 metri; l'originaria basilica di San Lorenzo sulla via Tiburtina era lunga 98 metri.La prima rete costantiniana di grandi chiese includeva una basilica sulla via Labicana, attigua al martyrion dei santi Marcellino e Pietro contenente il mausoleo dell'Imperatrice Elena, e un'altra sulla via Nomentana, vicino alla memoria di Sant'Agnese, dove la figlia di Costantino, Constantia, aveva fatto costruire il suo mausoleo (l'attuale chiesa di Santa Costanza). Insieme alla basilica Vaticana costruita sulla tomba di san Pietro, queste strutture, realizzate in tempi record, formavano una prima, prestigiosa "rete" di chiese cristiane a Roma. Queste strutture colossali, mimetizzate sul piano stilistico con altri edifici pubblici, erano tuttavia distanziate dal centro dell'Urbe, situate lungo le vie di accesso (San Sebastiano, Santi Marcellino e Pietro, Sant'Agnese), fuori le porte (San Pietro in Vaticano, San Lorenzo) o nell'immenso parco della reggia imperiale (San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme). Anche la memoria di san Paolo sulla via Ostiense era a venti minuti di cammino dall'omonima porta urbica (questa chiesa, San

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Paolo fuori le mura, verrebbe ricostruita a partire dal 384 dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio in scala gigantesca, una basilica a cinque navate imitante San Pietro).

Il responsabile degli scavi illustra la scoperta della tomba a Hierapolis

Nel luogo del riposo dell'apostolo Filippo

di FRANCESCO D'ANDRIAUniversità del Salento

"Anche in Asia infatti riposano grandi astri, che si leveranno nell'ultimo giorno della parousìa del Signore (...) (tra questi) Filippo, uno

dei dodici apostoli, il quale si è addormentato a Hierapolis (...) anche Giovanni (...) si è addormentato a Efeso". Così scriveva intorno all'anno 190 il vescovo di Efeso,

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Policrate, in una lettera inviata al vescovo di Roma Vittore. Di qualche anno successivo è il Dialogo, un testo in cui il presbitero romano Gaio discute le tesi di Proclo, un rappresentante dell'eresia montanista radicata nella Frigia. Mentre Gaio indica i "trofei" di Pietro e Paolo, fondamenta della Chiesa di Roma, Proclo si riferisce ai sepolcri di Filippo e delle sue figlie profetesse, ubicati a Hierapolis. Numerose altre fonti collegano la città frigia all'apostolo di Betsaida in Galilea e la ricerca archeologica ha permesso di ritrovare il complesso monumentale nel quale si articolava la memoria di Filippo.Già nel 1957, al momento della fondazione della missione archeologica italiana a Hierapolis, Paolo Verzone, docente di ingegneria del Politecnico di Torino, aveva posto con forza la questione portando alla luce sulla collina orientale, fuori le mura della città, una straordinaria chiesa a pianta ottagonale. Si tratta di un capolavoro dell'architettura bizantina del V secolo, frutto delle tradizioni locali nella lavorazione del travertino e del raffinato sapere di architetti legati alla corte imperiale di Costantinopoli. La pianta complessa inoltre fa riferimento alla simbologia dei numeri: gli otto lati del corpo centrale, il quadrato che ingloba l'ottagono, i cortili triangolari, le cappelle a sette lati sviluppano una sottile trama di riferimenti teologici. Verzone aveva identificato nell'ottagono il Martyrion di

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san Filippo e qui aveva cercato la tomba, ma senza risultati.A partire dalla ripresa dei lavori (2001) nell'edificio, si ripresero le indagini anche attraverso prospezioni geofisiche, in particolare nella zona dell'altare, ma senza alcun successo. Nello stesso tempo Giuseppe Scardozzi, un ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) - Istituto per i beni archeologi e monumentali (Ibam) di Lecce, identificava, attraverso lo studio delle immagini satellitari e le indagini topografiche, la grande strada processionale che portava i pellegrini, attraverso la città, sino alla collina del santo. I fedeli, uscendo dalla porta della città, attraversavano un ponte e, prima di affrontare la salita lungo una gradonata in travertino, dovevano lavarsi all'interno di una terma, anch'essa a pianta ottagonale, in cui le esigenze igieniche poste dall'eccezionale afflusso di fedeli, si univano a pratiche di purificazione rituale. Alla sommità della scalinata una fontana permetteva di dissetarsi e di compiere le altre abluzioni prima di salire all'Ottagono. Qui erano predisposte stanze con il pavimento tagliato nella nuda roccia dove i fedeli passavano la notte, forse per entrare in contatto diretto con il santo attraverso pratiche di incubazione attestate anche in altri santuari cristiani di pellegrinaggio come quello intorno alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano a

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Costantinopoli.La campagna di scavi della missione archeologica italiana a Hierapolis su concessione del Ministero della cultura di Turchia, quest'anno ha interessato un pianoro a mezza costa, a pochi metri di distanza dall'Ottagono. Qui emergeva, da un immane cumulo di pietre e di marmi lavorati, la parte superiore del frontone in travertino di una tomba a sacello di età romana. Era un fatto normale poiché la zona era interessata da una vasta necropoli di questo periodo, ma intorno numerose erano le tracce di muri e i frammenti di marmo bizantini. Così gli scavi energicamente coordinati da Piera Caggia (Ibam-Cnr) hanno portato alla luce una grande basilica a tre navate: si sono rinvenuti capitelli in marmo con raffinate decorazioni riferibili al V secolo, croci, tralci vegetali, transenne traforate, fregi con palme stilizzate all'interno di nicchie. Inoltre il pavimento della navata centrale è realizzato a intarsi marmorei (opus sectile) con motivi geometrici a colori molto variati. Sulla cornice di un architrave in marmo era leggibile il monogramma di Teodosio, probabilmente riferibile all'imperatore bizantino. Una ricchezza di decorazioni che ogni giorno si arricchisce di nuovi esempi! Ma il fatto più straordinario è che questa chiesa a tre navate è costruita intorno alla tomba a sacello di età romana che costituisce il fulcro di tutta la costruzione: inglobata in una struttura

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su cui è una piattaforma raggiungibile attraverso una scala di marmo. I pellegrini, entrando dal nartece, salivano nella parte superiore della tomba dove immaginiamo fossero collocate lampade, immagini e reliquie del santo, e scendevano da un altro lato, attraversando un pianerottolo decorato da un raffinato mosaico con raffigurazione di pesci.Un riferimento al miracolo della

moltiplicazione dei pani e dei pesci (Giovanni, 6, 5)?La particolarità di questa scala è data dall'alto grado di usura delle superfici marmoree, segno del passaggio di migliaia di persone e gli stessi segni di usura sono sull'architrave della porta d'ingresso alla tomba dove il travertino è lisciato come l'alabastro. Intorno alla porta della tomba una serie di fori fa pensare a una chiusura metallica applicata e una porta ulteriore in legno era davanti, a giudicare dagli incassi ricavati sul pavimento. 

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Con la scoperta di questa seconda chiesa si scioglie anche l'interrogativo posto da un sigillo in bronzo di dieci centimetri di diametro, di sicuro proveniente da Hierapolis e ora al museo di Richmond negli Stati Uniti. Rappresenta al centro san Filippo, indicato dall'iscrizione, in veste di pellegrino e serviva a segnare i pani distribuiti ai fedeli in occasione della panegyris (festa del santo). Ai due lati del santo sono raffigurati due edifici posti sulla sommità di due scalinate. Quello alla sua destra, a pianta centrale con cupola, rappresenta certamente il Martyrion, quello alla sua sinistra, sinora non spiegato, è stato ora identificato con la chiesa a tre navate in corso di scavo, anche per la facciata con spioventi coperti da tegole. Si direbbe una fotografia del complesso scattata nel VI secolo e il secondo edificio allude, anche per la presenza di una lampada appesa all'ingresso, alle strutture dei sepolcri dei santi. La ricerca archeologica permette ora di mettere insieme tante tessere, raccolte in molti anni di indagini, e di comporre un mosaico coerente. Il sepolcro di san Filippo costituisce il fulcro intorno a cui si articolano gli edifici di questo straordinario santuario di pellegrinaggio, fiorito tra V e VI secolo nella vallata del fiume Lykos in Turchia, di fronte a Colosse, celebre per la lettera di san Paolo, e a Laodicea, una delle sette chiese dell'Apocalisse.

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Sincretismo religioso e cristianesimo nascente nel III secolo 

Cristo e Orfeosull'altare dell'imperatore

di GIANFRANCO RAVASI

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C'è un documento interessante sull'arco di storia romana che va da Adriano (117-138 dell'era cristiana) a Carino (283-285): è quell'Historia Augusta, così denominata dall'erudito svizzero del Cinquecento, Isaac Casaubon, che raccoglie una sequenza di biografie degli imperatori romani di quel periodo. Anche se la fonte è successiva e non priva di svarioni e di anacronismi, essa risulta interessante per ricostruire il fondale che a noi ora interessa, quello della prima metà del III secolo, un'epoca segnata, da un lato, da un'evoluzione storica, sociale e religiosa complessa e significativa e, dall'altro, da un trapasso politico di forte tensione che condurrà la dinastia dei Severi (193-235) a sfociare nell'anarchia militare scandita dai cosiddetti imperatori barbari Massimino il Trace (235-238) e Gallieno (253-268).L'era dei Severi fu segnata da un clima di tolleranza religiosa, ben diverso dall'atmosfera che subentrerà con Decio e Valeriano e le loro pesanti repressioni anticristiane del 250 e del 258. È appunto l'Historia Augusta a ricordarci che l'imperatore Alessandro

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Severo (222-235) venerava all'alba nel suo "larario" i ritratti dei suoi lari antenati, le immagini di alcuni imperatori, la figura di Apollonio di Tiana, ma anche le icone di Cristo, Abramo e Orfeo (così Elio Lampridio nella Vita di Alessandro Severo, 29, 2, presente appunto nell'Historia Augusta). Questo sincretismo era diffuso nell'impero di allora e il pantheon romano accoglieva senza esitazione figure, idee o simboli e culti dell'Oriente, creando un clima di interculturalità e di multireligiosità, rispondente alla composizione multietnica della popolazione della metropoli e dell'impero. È in questa temperie politica, culturale e religiosa che si irradia il cristianesimo. Esso non rivela una sua specifica identità artistica, non tanto per un desiderio di occultamento strategico di autodifesa nei confronti delle prevaricazioni persecutorie o delle eventuali ostilità ambientali, quanto piuttosto per un naturale processo di integrazione nella civiltà dell'epoca. Nei primi due secoli della nostra era, infatti, gli aderenti alla nuova fede mostrarono la tendenza ad usare gli spazi dei pagani, anche per quanto riguardava le sepolture dei componenti delle comunità nascenti. Le tombe dei principi degli apostoli, Pietro e Paolo, all'interno delle necropoli pagane del Vaticano e della via Ostiense, ne costituiscono un'eloquente testimonianza. Anche per gli ambienti del culto, durante questi primi due secoli, come è noto, si

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faceva ricorso alle residenze private dei singoli cristiani: le cosiddette domus ecclesiae, che raramente hanno lasciato segni monumentali o decorativi riconducibili al credo cristiano. Queste domus, dove si svolgeva già la sinassi eucaristica e si celebrava il rito del battesimo, si mimetizzavano nel denso tessuto urbano delle città del tempo e potevano cambiare di volta in volta, attestando come i cristiani desiderassero mostrare la differenza sostanziale tra questi estemporanei luoghi di culto e i templi pagani.È in questo contesto che si colloca lo straordinario monumento sepolcrale degli Aureli (sulle cui scoperte archeologiche "L'Osservatore Romano" ha scritto nel numero dello scorso 10 giugno). Cerchiamo, a questo punto, di delineare l'orizzonte più specifico, quello del genere "cemeteriale" a cui esso appartiene. Sotto gli imperatori Settimio Severo e Caracalla, tra il 199 e il 217, il Pontefice Zefirino incaricò l'allora diacono Callisto di sovrintendere al "cimitero" della via Appia. Questo gesto assume un importante significato nel senso che le catacombe, che avrebbero poi preso la denominazione di San Callisto, divennero il primo cimitero ufficiale della Chiesa di Roma, mostrando subito i caratteri della specificità e della comunitarietà. Nell'area più antica di questo cimitero - scoperta negli anni centrali dell'Ottocento dal celebre Giovanni Battista de Rossi

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(1822-1894) - è stata, infatti, recuperata una sorta di "sacrario pontificio", denominato "Cripta dei Papi", dove furono sepolti molti Pontefici del III secolo. Nello stesso ambito spaziale sono stati individuati alcuni cubicoli dipinti con scene ancora ispirate al repertorio pagano, ma anche con episodi estratti dalle Sacre Scritture, così come era attestata la presenza di committenti autorevoli da identificare con i presbiteri, con i diaconi e con gli altri componenti della gerarchia ecclesiastica.La struttura ecclesiale proprio in quel tempo stava assumendo, anche nell'Urbe, una forma monarchiana, in perfetto ossequio alle varianti dottrinali che si sviluppavano nell'intero orbis christianus antiquus. Ma in quel piccolo cimitero della via Appia, che assumerà le

attuali grandi dimensioni solo a partire dal IV secolo, ci si imbatte anche in un centinaio di loculi, ossia di tombe umili, sobrie ed essenziali, riservate ai fedeli ordinari, obbedendo a quella legge dell'uguaglianza che regolava lo sviluppo dei primi cimiteri cristiani. Nell'Area I di San Callisto - come definì quel primo nucleo catacombale

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Giovanni Battista de Rossi - si riconosce l'organizzazione della comunità cristiana del tempo, che stava assumendo appunto i caratteri della gerarchia piramidale, ma anche e soprattutto della comunitarietà. Altri nuclei cemeteriali comunitari frattanto spuntavano lungo le vie consolari del suburbio romano (Priscilla sulla via Salaria, San Sebastiano e Pretestato sulla via Appia, Domitilla sulla via Ardeatina, Calepodio sulla via Aurelia, Novaziano sulla via Tiburtina). In essi alcuni sepolcri mantenevano i caratteri dell'ipogeo di diritto privato, riservato a un gruppo familiare, più o meno allargato, oppure a una vera e propria corporazione.In molti casi, questi ipogei furono considerati dalla letteratura del passato come eretici, specialmente quando l'apparato decorativo e il corredo epigrafico non dimostravano i sintomi chiari della cristianità. È in questo orizzonte che dobbiamo collocare lo splendido monumento degli Aureli sito nell'attuale viale Manzoni. Scoperto nell'autunno del 1919, il sepolcro, costituito da tre ambienti completamente dipinti, ha ispirato molte letture iconografiche corrispondenti ad altrettante attribuzioni del monumento, ora considerato pagano, ora cristiano, ora eretico. Il programma decorativo presente nell'ipogeo privato di questa famiglia di liberti, gli Aureli - collocato all'interno delle Mura aureliane, non lontano dalla cappella palatina

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di Santa Croce in Gerusalemme - propone alla critica un eloquente esempio di iconografia ove si registra quel sincretismo che abbiamo sopra evocato. Negli affreschi, infatti, si riconoscono chiare reminiscenze del repertorio ellenistico, altrettante evidenti allusioni alla vita terrena dei defunti, presumibilmente proiettata in un non meglio identificato aldilà; si presentano alcune scene plausibilmente riferibili all'epica omerica e alla mitologia classica, ma si scoprono anche segni, appena percettibili, di un cristianesimo incipiente.Ad esempio, le figure del crioforo (pastore con la pecorella sulle spalle) e del filosofo, se da un lato recuperano i concetti della filantropia, della humanitas e della saggezza classica, preparano, dall'altro, i simboli del buon pastore, delle figure dei santi, degli apostoli e di Cristo. L'ipogeo di questi liberti, insomma, rappresenta, sia dal punto di vista monumentale, sia dal punto di vista epigrafico ed iconografico, una soglia privilegiata per chi voglia avvistare i primi sintomi di un linguaggio religioso, che si stava declinando in senso cristiano e che celebrerà successivamente i suoi trionfi iconografici e cultuali. Gli scavi, i restauri, la sistemazione di questo prezioso monumento hanno rappresentato, per i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, l'occasione per studiare, in maniera globale e multidisciplinare, una delle manifestazioni più eloquenti e significative della

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civiltà funeraria tardoantica, ricorrendo alle tecniche di indagine più aggiornate e sofisticate. L'uso del laser per il recupero dell'apparato pittorico - già sperimentato nelle catacombe di Santa Tecla - ha, infatti, fornito nuovi dati iconografici sorprendenti e tali da illuminare la cultura religiosa di una stagione mutevole.Essa non congedava ancora i temi, i miti e i codici figurativi del passato, ma apriva già le porte al nuovo repertorio augurale e spirituale della religione cristiana.

Nuove scoperte nell'ipogeo degli Aureli, monumento funebre a cavallo tra due mondi

Quanta folla nelle tombe di Onesimo, Papirio e Prima

Prometeo ed Eracle vengono raffigurati accanto alla creazione di Adamo,

in una sorta di enciclopedia visiva che riassume i temi più diffusi negli anni sessanta del III secolo

Sono stati resi noti i risultati degli studi archeologici sull'ipogeo degli Aureli, sito nell'area di viale Manzoni a Roma. Pubblichiamo stralci di alcuni interventi tratti dalla conferenza stampa.

di FABRIZIO BISCONTI

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Ci sono dei monumenti che "parlano troppo" e che diventano dei grovigli inestricabili di idee, di pensieri, di vie interpretative, per cui gli archeologi e gli storici dell'arte devono affilare le loro armi per sciogliere i nodi più stretti delle teorie che hanno animato committenti e artifices quando è stato concepito il complesso monumentale o la sua decorazione.È questo il caso dell'ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, un monumento sepolcrale, scoperto durante l'allestimento di un garage della Sta, divenuto poi proprietà della Fiat s.p.a., nel settore sud-orientale di Roma, non lontano dalla basilica di Santa Croce in Gerusalemme. La Soprintendenza del tempo eseguì degli scavi sistematici e l'ispettore Goffredo Bendinelli preparò una prima edizione critica del programma decorativo, poi aggiornata dal grande iconografo Joseph Wilpert e dall'archeologo Orazio Marucchi. Da quel momento, l'ipogeo divenne una vera e propria "palestra" per tutti gli studiosi della storia delle religioni della tarda antichità, che affidarono all'ipogeo, ora

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una committenza pagana, ora una committenza cristiana, ora una committenza gnostica.Il programma decorativo, che interessa, infatti, le tre stanze funerarie propone una tematica complessa, difficilmente riconducibile a un unico filone iconografico, ma mostra quella ecletticità tipica del clima multireligioso, che anima l'atmosfera culturale, che dal tempo dei Severi, tra il II e il III secolo, giunge all'impero di Gallieno, ossia alla fine degli anni Sessanta dello stesso III secolo. Un tempo, questo, percorso da mille problemi di ordine politico, sociale, economico e militare, che trova "rifugio" nel pensiero filosofico e religioso, il quale accoglie nell'ideologia romana le correnti delle nuove credenze e delle forme di fede provenienti dall'Oriente. Il culto per Mitra, il pensiero giudaico, la filosofia neoplatonica, l'orfismo, il cristianesimo, la gnosi vivono e convivono in una Roma multietnica e multireligiosa,

creando anche forme di sincretismo e

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sovrapposizioni complesse di elaborazioni religiose. Ebbene, l'ipogeo degli Aureli esprime proprio questa complessità di un pensiero elaborato da una classe sociale elevata, ambiziosa, forse appartenente all'entourage dei liberti imperiali e, comunque, pronta a emulare le manifestazioni monumentali dei ranghi più alti e danarosi del tempo.La tensione verso l'autorappresentazione suggerisce a questa famiglia, così in vista nella Roma del tempo, di decorare il proprio monumento funerario con i temi che, pur non dimenticando le consuetudini iconografiche della cultura ellenistica e della tradizione romana, aprono le porte a un nuovo immaginario, sospeso tra vita quotidiana e un mondo beato, tranquillo, quieto, proiettato nell'aldilà.Questo felice locus amoenus, di virgiliana memoria, si esprime con molti e diversi espedienti iconografici, che si dislocano nelle pareti dei tre ambienti funerari. Due grandi temi costellano gli affreschi dei tre cubicoli: da una parte, la grande materia filosofica, che propone decine di intellettuali disposti in teorie e muniti di virgae e rotoli della sapienza, dall'altra, l'argomento bucolico, con la rappresentazione di pastori criofori e di un curioso ibrido iconografico, ossia una figura di un pastore-intellettuale, che sembra alludere alla congiunzione dei due temi di base e che vuole rappresentare uno degli Aureli deposti nell'ipogeo. 

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Nell'iscrizione musiva dedicata da un Aurelius Felicissimus si ricorda la sepoltura dei tre fratelli Aurelius Onesimus, Aurelius Papirius e Aurelia Prima. Ebbene, questi tre defunti vengono rappresentati in un lungo ciclo affrescato, ora come il saggio pastore, di cui si è parlato; ora come un cavaliere che entra in una favolosa città, che si propone come una sorta di oltremondo urbano; ora come un retore al centro di un foro; ora come una commensale di un banchetto celeste. Il ciclo si inserisce in un grande quadro omerico, dove, secondo i primi editori, era rappresentato l'episodio di Ulisse che torna a Itaca e incontra Penelope al telaio tra i Proci. Il recentissimo restauro effettuato con il rivoluzionario uso del laser - che lo scorso anno recuperò il cubicolo degli apostoli a S. Tecla - ha permesso di leggere meglio questa singolare megalografia. Nella parte superiore, laddove gli iconografi del passato riconoscevano il palazzo e le greggi di Laerte, è stata

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scoperta ancora Aurelia Prima che, in segno di lutto, si scioglie i capelli per compiangere i due fratelli morti, sistemati sul letto funebre all'interno di un recinto funerario. Nel settore inferiore - sulla scia di qualche interpretazione del passato - si assiste al momento in cui Ulisse ottiene dalla maga Circe che i compagni, trasformati in porci, tornino a essere uomini. Il racconto, che si dispiega nel X canto dell'Odissea, ben si inserisce nella tematica funeraria del tempo, se si tiene conto che fu proprio Circe a indicare la via di un viaggio nell'Ade al curioso Odisseo. Le nuove scene individuate si calano perfettamente nel sistema multireligioso a cui fa capo il sincretismo elaborato dagli Aureli, che comporta anche due enigmatiche scene dove si può riconoscere sia Prometeo che crea l'uomo ed Eracle nel giardino delle Esperidi, sia la creazione di Adamo e la cacciata dall'Eden. Queste incertezze e queste compresenze ci parlano di un'atmosfera ricca di tensioni ideologiche, che mirano, comunque, a creare una condizione oltremondana, sospesa nel cosmo, in equilibrio tra una sede terrena e una ultraterrena, che prepara l'idea di un altro mondo pronto a rappresentare il paradiso dei cristiani, riservato, in questo caso, a un gruppo privato, a una famiglia d'alto rango. Di lì a poco o negli stessi anni, proprio nella prima metà del III secolo, nascono le catacombe comunitarie destinate alla sepoltura di tutti i fratelli che hanno aderito alla nuova

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fede. L'ipogeo degli Aureli, in questo contesto, rappresenta un antefatto singolare, fortemente autorappresentativo, di una gens che, senza abbracciare il pensiero cristiano, lo contempla nell'orizzonte multireligioso del tempo.

Quando il nome raccontava una vita

E dopo sedici secoli Pascasio è ancora in classifica

Già nella prima età costantiniana e, in maniera più evidente, dalla

metà del iv secolo, i tratti identitari di una realtà ecclesiale più

matura e definita cominciano a manifestarsi tangibilmente anche

attraverso la produzione epigrafica che, per non pochi aspetti, dopo

la parentesi dell’epigrafia «minimale» (in realtà non meno

espressiva) del III secolo, si riappropria sul piano formale del

consolidato

patrimonio della

tradizione

romana.Tra l’età

precostantiniana

e quella

immediatamente

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successiva le diversità appaiono subito evidenti e anche molto

profonde.

A giusta ragione il gesuita Antonio Ferrua nel confrontare le

iscrizioni precostantiniane della Regione i-y della catacomba dei

Santi Marcellino e Pietro sulla Labicana con quelle della seconda

metà del iv secolo del cimitero di Commodilla, poteva legittimamente

osservare: «È incredibile come in pochi decenni le usanze cimiteriali

cambino profondamente e in quasi tutti gli aspetti della loro

esplicazione: sembra di entrare in un mondo nuovo».

I primi e più evidenti sintomi del mondo nuovo evocato da Ferrua si

colgono preliminarmente in due aspetti di notevole portata: il rientro

nella prassi corrente di tutto quanto era stato «ideologicamente»

escluso nelle strutture epigrafiche del laconismo «arcaico» (i dati

retrospettivi e dunque le microstorie della vita terrena) e, con

particolare incidenza (anche se non sempre e dovunque) una

maggiore e più articolata visibilità dello specifico cristiano che,

ancora sommesso e quasi reticente nel III secolo, in breve tempo si

configura sempre più come palese segno di appartenenza,

manifestandosi in un cospicuo e variegato repertorio formulare, che

nel corso del tempo tende a cristallizzarsi per poi scomparire quasi

totalmente con la fine del mondo antico, nel corso cioè del secolo vi.

Nel periodo che intercorre che tra la metà del iv e la metà del v

secolo si può senz’altro riconoscere la stagione più creativa nella

acquisizione di moduli espressivi generalmente di tipo formulare,

che entrano stabilmente nel repertorio epigrafico, con un linguaggio

generalmente rarefatto, spesso ellittico e non sempre

immediatamente comprensibile anche per la frequenza dell’uso di

forme, tipicamente epigrafiche, sospese o contratte.

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Sul piano dei nuovi contenuti che si affacciano e si consolidano nella

cultura epigrafica del tempo, quasi all’improvviso e in notevole

quantità emergono termini, espressioni o, semplicemente, «segni»

che, in forme esplicita o implicita, qualificano defunto e dedicanti

come adepti della nuova fede: l’aspetto più tipico e diffuso è la

definitiva affermazione delle formule ireniche in pace - en eirène,

variamente assunte con valenza escatologica (in pace Christi, Dei,

Domini), funeraria (la quies del sepolcro) o retrospettiva in

riferimento cioè a una vita condotta secundum legem domini (ad

esempio Maxema que vi|xit in pace a|nnos triginta; Inscriptiones

Christianae Urbis Romae, iv, 9419). Ed è proprio nell’ambito

formulare più specificamente connotato, molto più che nella stanca

riproposizione del formulario di routine, che si colgono i diversificati

livelli di partecipazione e comprensione dei Christi fideles laici nei

riguardi dei momenti forti e qualificanti che scandiscono

l’avvicinamento e l’ingresso nella comunità dei cristiani.

In questo ambito, a partire dalla metà del iv secolo, un significativo

elemento di novità si può agevolmente individuare nella progressiva

affermazione nelle comunità di una onomastica specificamente

cristiana, che dopo la morte trova il suo pressoché esclusivo alveo di

memoria conservazione nella documentazione epigrafica. Nascono i

nomi «identitari»: in primo luogo quelli di estrazione

neotestamentaria come Petrus (il più diffuso già dal III secolo),

Paulus, Iohannes, Maria, o quelli che ripropongono principi

dogmatici fondamentali come in primo

luogo Anastasius/Anastasia, che in un caso (indubbiamente

eccezionale) sollecitarono un palese svelamento del loro

significato: Anastasia secundum nomen credo futuram, una vera e

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propria professione di fede nella resurrezione finale, espressa con

l’espediente del cosiddetto feronymos.

Ampia accoglienza tra i cristiani ebbero anche i cosiddetti nomi

teofori, tra i quali il più diffuso èCyriacus, il cui significato cristiano

deriva dal fenomeno del cosiddetto «slittamento semantico»

(mutamento di significato) da «appartenente al padrone» a

«appartenente al Signore».

Alcuni nomi cristiani si propongono poi come veri e propri calchi

onomastici del momento forte per eccellenza del calendario liturgico

cristiano: il più caratteritico e diffuso è Pascasius/Pascasia —

derivato ovviamente da Pascha — spesso ricordato nelle iscrizioni in

diretta correlazione con il battesimo che, come è noto, nell’antichità

cristiana veniva amministrato durante la liturgia della veglia

pasquale. E in effetti sono molto numerose le testimonianze

epigrafiche nelle quali, attraverso una specifica gamma formulare,

vengono espressamente menzionati i diversi e progressi passaggi

che conducevano il fedele alla acceptio fidis, alla accoglienza del

battesimo.

Da queste testimonianze si ricava tra l’altro che l’età media della

gran parte dei defunti neobattezzati (dai 20 ai 50 anni) fa

legittimamente supporre un deliberato rinvio del battesimo fino

all’approssimarsi della morte (tra i molti esempi Inscriptiones

Christianae Urbis Romae, i, 2087, 2833, 3202, 3553; ii, 4164; III,

7379; iv, 11806, 11862, 12020, 12459, 12652; v, 13443; VII, 17548,

18469, 18631, 18693, 18979, 19820; ix, 24870):

questi procrastinantes (così venivano definiti dai Padri della Chiesa)

pertanto giungevano spesso al battesimo nello status di audientes,

senza aver percorso i diversi gradi della preparazione, che

prevedevano per i candidati una duplice fase di istruzione, una

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remota (cathecumeni, audientes) della durata di circa un triennio, e

l’altra prossima nel corso della quale i catecumeni, dopo la

valutazione (scrutinio) del vescovo, iscrivevano — prima della

Quaresima — il loro nome nei dittici per il battesimo della notte

pasquale, assumendo così requisito e denominazione

difotizòmenoi (coloro che stanno per essere illuminati),

di competentes (in Occidente) di audientes (a Roma).

Questo percorso di istruzione progressivo ovviamente non poteva

aver luogo per i casi — peraltro numerosissimi — di morte

prematura: in questi casi il battesimo (pedobattesimo) veniva

amministratoin articulo mortis, al di fuori della pratica prevista nel

disciplinare battesimale, che in condizioni normali prevedeva un

lungo e articolato percorso di istruzione.

Per la storia dell’origine del cognomen pasquale Pascasius un

documento (ora perduto) particolarmente significativo è l’epitaffio

posto sulla tomba di un bambino, morto il 28 aprile dell’anno 463 e

sepolto a Roma nella catacomba di Castulo sulla via Labicana. La

vicenda della sua breve esistenza è descritta in termini dettagliati

(Inscriptiones Christianae Urbis Romae, vi, 15895): «Pascasio, nato

col nome di Severo nel corso dei giorni pasquali, giovedì quattro

aprile, nell’anno del consolato di Flavio Costantino e Rufo (457)

uomini chiarissimi, visse sei anni. Ricevette il battesimo (percepit) il

21 aprile e depose nel sepolcro le vesti bianche l’ottava di Pasqua, il

28 aprile, nell’anno del consolato dell’uomo chiarissimo Flavio

Basilio (463)».

La vita, seppur breve, di Pascasio si svolse sotto il segno della

Pasqua, che nell’anno 457 cadde nell’ultimo giorno del mese. Il

quattro aprile, giorno della sua nascita, era dunque incluso (come

specificato nell’epitaffio) nel periodo dei dies pascales, cioè dei

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quindici giorni comprensivi della settimana precedente e successiva

al giorno di Pasqua: la sacralità dei «giorni pasquali» era anche

riconosciuta in una legge del 392, che prevedeva appunto in questo

periodo la sospensione di tutti gli atti giuridici, sia pubblici e privati

(Codex Theodosianus, ii, 8, 21). Alla nascita il defunto aveva assunto

il nome anagrafico di Severus, cui fu aggiunto, al momento del

battesimo, quello specificamente cristiano di Pascasius: natu(s)

Severi nomine, Pascasius, dies pascales, prid(ie) Non(as) April(es),

die Iobis(cioè Iovis) Fl(avio) Constantino et Rufo v(iris) c(larissimis)

cons(ulibus).

Un’altra circostanza, anch’essa del tutto fortuita, contrassegna la

fine di Severus/Pascasius, che nello stesso giorno (l’ultimo dei dies

paschales) insieme al corpo depose nel sepolcro anche «la veste

bianca», assunta al momento del battesimo: percepit xi Kal(endas)

Maias et albas suas octabas Pascae ad sepulcrum deposuit, laddove

l’ottava di Pasqua è appunto la domenica in albis. A quello

di Severus–Pascasius possono coerentemente avvicinarsi gli epitaffi

(rispettivamente del iv e v secolo) della gallicaOptatina Reticia,

originaria di Arles (Corpus Inscriptionum Latinarum XII 956) e della

romana Venerandache, come nutrix, dedicò la sepoltura ai propri

protetti (alumnis suis) Primitiva e Felicio (Inscriptiones Christianae

Urbis Romae, i, 3722): ambedue nel corso della liturgia battesimale

assunsero il supernomendi Pascasia.

La microstoria di questo antroponimo pasquale è sostenuta anche da

altre sporadiche attestazioni, storicamente rilevanti, perché per un

verso documentano (anche attraverso la memoria funeraria) una

ormai diffusa e radicata percezione della centralità della

celebrazione pasquale e battesimale e per l’altro perché consentono

di cogliere o, quantomeno, ipotizzare, le motivazioni «tecniche»

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immediate e nel contempo contingenti — dunque connesse all’evento

e al tempo liturgico — che chiariscono le ragioni della introduzione

nella onomastica cristiana antica di un nome (precedentemente

ignoto) comePascasius/Pascasia.

In taluni casi la motivazione non sempre è quella «rituale» connessa

all’assunzione di un nuovo nome nel corso del rito dell’iniziazione,

ma quella invece della occasionale nascita di un individuo

(evidentemente cristiano) nella settimana precedente o successiva al

giorno della celebrazione pasquale, cioè nel corso dei quindici giorni,

definiti appunto dies pascales, come nel già ricordato epitaffio

diSeverus-Pascasius.

Le iscrizioni in cui vengono ricordati defunti con il

nome Pascasius/Pascasia, se corredate dalla menzione del giorno,

mese e anno della morte, consentono infatti agevolmente —

attraverso il ricorso al calendario perpetuo pasquale — di verificare

se l’opzione per il supernomen Pascasius fosse derivata dalla

coincidenza della nascita nel corso dei dies pascales o, viceversa, da

una scelta genericamente devozionale, svincolata dalla sollecitazione

di un contesto liturgico, e dunque esercitata in un periodo qualsiasi

dell’anno, come peraltro documentato in numerose iscrizioni di

Roma e dell’Africa nel corso dei secoli iv e v.

Una opzione, riconoscibile nella sua consapevole definizione, è

quella che implicitamente si evince nell’epitaffio che commemora

una dulcissima infans morta ad Arles il 29 luglio del 422 a due anni,

tre mesi, dieci giorni: era dunque nata il 19 aprile del 420 e in

quell’anno la Pasqua cadeva il 18 aprile. Ciò spiega pienamente la

motivazione che sollecitò la scelta del cognomen Pascasia, attribuito

alla giovane defunta: hic requiescit Pascasia / dulcissima infans,

quae vixit an(n)i(s) duobus, mens(ibus) tribus et

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dies x.obiit IIIi Kal(endas) Iul(ias) Honorio XIII et Theodosio

cons(ulibus) (Corpus Inscriptionum Latinarum, XIII, 2353). A Roma

un bambino di quattro anni, otto mesi, quattro giorni morì il quattro

dicembre del 382. La sua nascita era allora avvenuta il primo aprile

del 378, che in quell’anno coincideva con il giorno della

Pasqua: pridie Non(is) Decemb(ribus) d(e)p(ositus) Pascasius, qui

vixit ann(is) IIIi m(ensibus) VIIId(iebus) IIIi. Antonio et Syagrio

con)sulibus) (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, ii, 5791).

Questa in sintesi la storia della formazione e della diffusione nel

corso dei secoli iv e v secolo di un nome cristiano, che ebbe nei

secoli successivi una straordinaria fortuna e che tuttora, in

molteplici varianti, occupa in Italia il ventesimo posto nella

graduatoria dei nomi più diffusi.

  CARLO CARLETTI

EXCURSUS NELLA TRADIZIONE DELL'ARTE CRISTIANA

di Rodolfo Papa*

ROMA, lunedì, 21 marzo 2011 (ZENIT.org).- La tradizione dell’arte

cristiana trasmette l’ispirata comprensione della Bellezza della

Rivelazione. Interrogare la tradizione artistica, significa ripercorrere una

storia viva, di visione e di comunicazione fatta con gli occhi della Fede:

dagli affreschi dei loculi catacombali che, con la raffigurazione di Cristo

che resuscita Lazzaro, mostrano la fede dei primi cristiani nella

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resurrezione dei morti, fino alle splendide immagini del Rinascimento o

del Seicento, e poi oltre.

Fin dai primi secoli del Cristianesimo, l’arte ha cercato di rispondere alle

esigenze dell’annuncio (Kerigma) e a quelle della formazione (Didachè),

per la diffusione del messaggio cristiano. L’arte entra fin dall’inizio nella

vita del Cristianesimo, divenendo partecipe del dinamismo della teologia,

nella luce della fede. Ricordiamo come la tradizione veda nell’evangelista

Luca il primo pittore cristiano, in quanto ritrattista di Maria, e in

Nicodemo, il primo scultore cristiano, autore di un crocificisso ritenuto

miracoloso.

Agli albori del Cristianesimo l’arte cristiana va lentamente prendendo

coscienza. Così, nei primi secoli, alcune botteghe di cesellatori e di

scultori in argento, avorio e bronzo, lavorano sia per i pagani che per i

cristiani, come per esempio nei noti casi dei dittici senatoriali e consolari.

Contestualmente però, nasce anche con sicurezza un’iconografia cristiana

legata alla diffusione dei Vangeli e alla stessa forma in parabole della

predicazione di Cristo. Questa iconografia non ha paura di prendere dal

mondo pagano immagini e simboli, riletti però alla luce della verità. Così,

per esempio, il nuovo messaggio del buon pastore si sovrappone alla

iconografia del moscoforo.

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In seguito, una vera e propria presa di coscienza del mezzo artistico come

strumento di indagine, di riflessione, di introspezione propriamente

cristiana.

La fiducia nell’efficacia evangelizzatrice dell’arte ha prodotto nel Medio

Evo molti racconti per difenderne la legittimità contro chi la negava con

forza. Ne sono esempio la sottolineatura della figura di san Luca come

ritrattista di Maria, come anche della figura di Nicodemo quale primo

scultore cristiano, autore del ligneo Crocifisso miracoloso di Beirut, dal

quale si originò la tipologia dei crocifissi detti del “Volto Santo”, come

quello di Lucca, o ancora l’immagine del volto di Cristo impressa sul

lenzuolo detto della Veronica e poi ancora il Mandylion. La tradizione ha,

dunque, cercato di rintracciare una iconografia delle origini, una sorta di

“modello” al quale ispirarsi, per poter vedere, anche solo da lontano, il

volto dell’Amato.

Questa tensione verso il ritratto del volto di Cristo, presente nel

plurimillenario lavoro degli artisti cristiani, è mossa dalla volontà di

immaginare la propria vita come contemporanea a quella del Salvatore.

L’arte cristiana va tutta misurata nella capacità di dire Gesù Cristo, vero

Dio e vero uomo. Spesso gli artisti hanno lavorato insieme ai teologi, per

saper rappresentare le profonde verità del tesoro della Fede.

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Ricordiamo, per esempio, come alla base dell’operare artistico del Beato

Angelico nei monasteri domenicani, ci fosse una precisa teologia della

visione elaborata da S. Antonino Pierozzi, priore del Convento di san

Marco a Firenze, il quale accoglie e valorizza il frate pittore, perché è

convinto che con la sua arte potrà ripresentare agli occhi stessi dei frati la

bellezza di Gesù. Nel monastero di San Marco a Firenze ogni frate

domenicano poteva svolgere i propri esercizi contemplativi con l’ausilio

delle immagini affrescate da Beato Angelico sulle pareti delle celle,

consentendo la contemporaneità tra la vita del frate e l’evento sacro

rappresentato.

In modo particolare, la progettazione architettonica e pittorica viene fatta

in vista di una liturgia contemplativa e immaginativa, in cui ogni pietra,

ogni forma geometrica, ogni richiamo all’antico parlano della vita di Gesù

Cristo. Il convento diviene in questo modo una sorta di Gerusalemme

“ficta”, un ambiente rappresentativo capace di sostenere la vita

spirituale. Questo progetto risponde pienamente alla pratica, diffusissima

nel XV secolo, di arricchire la vita di preghiera mediante rappresentazioni

interiori, come è raccomandato, per esempio, nel Zardino de Oration,

scritto intorno al 1454 e stampato a Venezia nel 1494.

Le opere di arte sacra spesso si pongono come sussidio alla pratica della

meditazione, offrendo la possibilità di vivere come presente quanto viene

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prospettivamente rappresentato. Risulta essere una straordinaria

applicazione pittorica di questa pratica meditativa, per esempio,

la Passione di Cristo di Hans Memling (conservata nella Galleria Sabauda

di Torino), in cui possiamo osservare una rappresentazione della città di

Gerusalemme, con i vari momenti della passione di Gesù ambientati nei

vari luoghi: il fedele può così percorrere il quadro, meditando e

contemplando la passione di Cristo.

L’attenzione principale dell’arte cristiana è sempre data all’aspetto

kerigmatico, cioè all’annuncio ai non credenti, e a quello didascalico, cioè

catechetico per i fedeli. Al centro di tutto c’è il vangelo di Gesù Cristo. Per

essere all’altezza del messaggio, l’arte sviluppa i propri mezzi espressivi;

gli artisti e le loro botteghe, pur ricevendo in eredità dalla tradizione

un’ampia e complessa struttura iconografica, tendono a migliorarla,

affinando i modi e i mezzi per poter dire con più precisione e profondità

qualcosa nel discorso su Dio fatto carne. Questa finalità anima e motiva la

nascita e l’approfondimento della prospettiva, la rinascita e

l’approfondimento della teoria delle luci e delle ombre, e ancora

l’approfondimento della teoria dei colori, fino ad arrivare a vere e proprie

strutture di tipo sintattico, capaci di saper organizzare il discorso pittorico

tanto da farne un discorso compiuto.

Page 51: Actualité des Pères

Questo fiorire di mezzi artistici al servizio del messaggio cristiano, è

protagonista anche nel Rinascimento. A proposito di questo importante

momento della cultura, spesso si sottolinea una rinascita dei culti pagani,

oppure si parla di una permanenza degli antichi dei, tanto da connotare

l’arte rinascimentale come essenzialmente neopagana. In realtà, il

recupero del classico è compiuto in questo periodo nella prospettiva di

una cultura autenticamente cristiana; come chiave di lettura possiamo

utilizzare un esempio noto a tutti, ovvero la tradizionale interpretazione

cristologica del VI canto dell’Eneide di Virgilio, nell’ottica della possibilità

di leggere la cultura greco-romana come una sorta di prefigurazione

dell’era cristiana. Del resto, Virgilio è la guida di Dante nelle prime due

cantiche della Divina Commedia.

Così gli artisti rinascimentali, aiutati da una raffinata e colta committenza

capace di interpretare alla luce del Cristianesimo anche la tradizione

classica, affondano le radici nel mondo pagano, emergendone e

illuminandolo con la forza nuova della Rivelazione. Così nella Stanze della

Segnaturadi Raffaello in Vaticano, nella lunetta dei poeti, accanto ai

cantori del Cristianesimo Dante e Petrarca, troviamo i cantori

dell’antichità: Orfeo, Omero, Virgilio.

Molta trattatistica artistica del ‘600, affiancava il teologo al pittore, nella

necessità che il pittore sapesse “cosa” narrare: così per esempio il pittore

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Piero da Cortona lavora insieme al teologo Domenico Ottonelli, per

il Trattato della pittura, e scutlura, uso et abuso loro, del 1652. Si tratta

della trasmissione del sapere teologico nell’arte, nella consapevolezza

che l’arte ha una dimensione teologica e deve sapersene fare carico, nel

momento in cui si pone a servizio della Chiesa.

Da una ricognizione della tradizione dell’arte cristiana emergono alcune

coordinate fondamentali. Infatti, pur nella successione di stili e tecniche

molto diverse, tutta la tradizione è resa unitaria dalla centralità dei

misteri della Fede, e primo fra tutti l’Incarnazione. In osservanza a questo

mistero, l’arte cristiana appare figurativa, capace cioè di dire il corpo di

Cristo, narrativa, capace cioè di raccontarne la storia vera, e bella,

perché, come scriveva San Francesco «Tu sei bellezza».

Nella Lettera agli artisti del 4 aprile 1999, Giovanni Paolo II offre una

riflessione completa sull’arte, scritta dal punto di vista, anche spaziale,

del Vaticano: «scrivendo da questo Palazzo Apostolico, che è anche uno

scrigno di capolavori forse unico al mondo» (n.24) [1].

Dopo aver illustrato la condizione dell’artefice come imago Dei, Giovanni

Paolo II illumina la condizione di Fede dell’artista; egli scrive di una

«speciale vocazione dell’artista» (n. 2), definisce la vocazione artistica

come «scintilla divina» (n. 3); mostra come la fioritura artistica dell’arte

cristiana tragga “linfa” dall’Incarnazione e consista in «un ampio capitolo

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di fede e di bellezza» (n. 5); afferma che la conoscenza di Fede «può

trarre giovamento dall’intuizione artistica», come nel caso della pittura

del Beato Angelico e della lauda estatica di san Francesco d’Assisi. Agli

artisti spetta il compito speciale di dire con l’arte che «in Cristo il mondo è

redento» e la creazione «aspetta la rivelazione dei figli di Dio anche

mediante l’arte e per l’arte» (n. 14). Infine l’arte risulta essere uno

dei luoghi in cui lo Spirito Santo si esprime: «il divino soffio dello Spirito

creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità

creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce

insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della

mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma

nell’opera d’arte» (n. 15).

1) Giovanni Paolo II, Lettera agli Artisti, 4 aprile 1999, n. 24.

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* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie

estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università

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Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti.

Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di

Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli

pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si

interessa di questioni iconologiche relative all’arte

rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi;

specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose

riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte

cristiana alla Radio Vaticana.

Le catacombe come paradigma della complessità degli ultimi secoli del mondo antico 

Quando i romani dipingevano al buio

di CARLO CARLETTI

Il 23 marzo, nella sala delle conferenze di Palazzo Massimo a Roma, viene presentato il volume di Fabrizio Bisconti Le pitture delle catacombe romane. Restauri e interpretazioni (Tau Editrice, Todi, 2011, pp. XI + 361, euro 90). Anticipiamo ampi stralci di due degli interventi previsti. All'incontro interverranno anche il direttore del Dipartimento di studi storici e artistici, archeologici e della conservazione dell'Università di Roma Tre, Liliana

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Barroero, e il direttore del nostro giornale.

Le pitture delle catacombe romane sono senza alcun dubbio parte costitutiva e dinamica della produzione artistica di età tardoantica, anche se questo ruolo non sempre è stato riconosciuto da quella parte del mondo degli studi e della divulgazione (ad esempio nelle mostre), ancora ingabbiato in un malcelato pregiudizio "classicistico" e condizionato da un inconscio atteggiamento "laicista", pateticamente percepito come politically correct.Ma il dato concreto è quello di una documentazione di enorme consistenza, in cui convivono - talvolta nel medesimo contesto insediativo - manifestazioni di notevole eccellenza qualitativa e prodotti per lo più di livello medio-basso, sia dal punto di vista formale che da quello tecnico-esecutivo: performances di routine di "immediato consumo", condizionate e dalla urgenza dell'irruzione della morte e dalle disagevoli condizioni

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ambientali e strutturali che caratterizzano i siti catacombali. La funzionalità di questo repertorio di immagini nel mondo dei morti, rimane (anche nella percezione dei committenti e degli utenti cristiani) quella tradizionale della decorazione dell'ultima dimora e della autorappresentazione di un singolo o di un gruppo familiare. Sono poi le scelte di determinati temi e soggetti che, attraverso emblematiche schematizzazioni, interazioni e formulazioni, svelano e definiscono la prospettiva entro la quale questi messaggi figurali si inseriscono e prendono significato.Si rimarrebbe nel vago e nell'indefinito se una volta tanto non si entrasse nella reale consistenza di questo patrimonio, se non si percorresse anche con attenzione "computistica" questo microcosmo figurativo capillarmente "invasivo", che tuttora si lascia leggere, apprezzare, studiare negli oltre centocinquanta chilometri di estensione lineare degli ambienti sotterranei catacombali. In questa prospettiva una preliminare analisi quantitativa riveste un ruolo determinante e costituisce un fondamentale plafond di riferimento per qualsiasi successiva indagine non condizionata da pregiudiziali divisive. Il volume complessivo di questo straordinario dossier figurativo, tradotto in numeri, svela ordini di grandezza

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senza dubbio inaspettati, forse anche per gli addetti ai lavori. Negli oltre settanta insediamenti catacombali di Roma si conservano 420 unità monumentali (cubicoli, arcosoli, tratti di gallerie, loculi, cripte, basiliche ipogee), con circa 2.300 contesti decorativi, esiti ultimi della consapevole scelta di temi e soggetti che, per un verso ripropongono la tradizione di un immaginario figurativo connesso alla morte e all'aldilà nelle sue diversificate percezioni e, per l'altro, presentano un nuovo repertorio tematico, che per la prima volta, con la discrezione che contrassegna la nascita di processi innovativi, entra nell'universo figurativo della tarda antichità. Pertanto, accanto al tessuto connettivo costituito dagli innumerevoli dispositivi figurativi che caratterizzano il mondo ultraterreno, emergono le traduzioni figurative di uno specifico "identitario". Qui sono ancora i numeri che forniscono l'entità e lo spessore di una molteplicità di temi e soggetti di diretta estrazione biblica: complessivamente 620 esemplari (420 dall'Antico Testamento, 198 dal Nuovo) che propongono 47 temi, 31 veterotestamentari e 16 neotestamentari. Se ci si spinge più in profondità all'interno di queste indicazioni numeriche, si possono apprezzare, come elemento forse significativo della Biblisierung ("diffusione della Scrittura nelle comunità"), le ricorrenze dei diversi luoghi scritturistici.Al vertice delle preferenze si pongono due eventi

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veterotestamentari, Mosè che batte la rupe (12 per cento di esemplari) e i diversi momenti del ciclo di Giona (10 per cento), cui seguono un tema neotestamentario - il miracolo della resurrezione di Lazzaro, rappresentato in sessantacinque esemplari (10 per cento) - e ancora altri due temi dell'antico Testamento, Daniele nella fossa dei leoni e Noè nell'arca (rispettivamente 8 per cento e 7,50 per cento). Tra i temi di ascendenza neotestamentaria, sono nettamente più diffusi i miracoli di Gesù e, tra questi, particolare predilezione è riservata alla risurrezione di Lazzaro, alla moltiplicazione dei pani e alla guarigione del paralitico. Al di fuori dello specifico religioso, vi sono una moltitudine di rappresentazioni che propongono un amplissimo repertorio di una vera e propria "iconografia del reale", che illustra attività, mestieri, professioni, attitudini dei defunti, proponendo a volte anche momenti salienti connessi al rituale funerario. Il tessuto connettivo concettuale e materiale in cui si dispone questa esplosione di immagini bibliche rimane quello dell'iconografia dell'"irreale", la rappresentazione cioè di un immaginario dell'aldilà che sintetizza in molteplici esiti e soluzioni un patrimonio di idealità secolari. Dietro e dentro questa elencazione di dati, si celano una infinità di questioni che afferiscono agli ambiti storico-culturale, storico-artistico, iconografico e iconologico ma

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anche naturalmente alle metodologie, agli approcci, alla verifica delle correnti storiografiche e della proposizione dei modelli interpretativi. Problematiche che, come ovvio, suscitano interrogativi, impongono riletture, esigono chiarimenti.È questo il perimetro, ampio e articolato, pieno anche di classiche e insidiose questioni lungamente dibattute, in cui si muove il nuovissimo libro di Fabrizio Bisconti, Le pitture delle catacombe romane. Restauri e interpretazioni. Il titolo, come gli studiosi percepiranno immediatamente, richiama un'opera grandiosa, ma ormai ineluttabilmente segnata dal tempo. La raccolta, appunto, delle pitture delle catacombe romane pubblicata a Roma nel 1903 da Giuseppe Wilpert: un libro monumentale che fece epoca e che ha costituito per molti decenni il punto di partenza obbligato per qualsiasi ricerca nel campo della pittura cimiteriale tardoromana, anche se le datazioni di Wilpert (oggi del tutto superate) si muovevano verso confini incompatibili con la realtà del tardo antico, cui concettualmente e cronologicamente appartiene tutta la pittura catacombale. A oltre un secolo di distanza da un precedente così illustre, il libro di Bisconti si muove naturalmente in tutt'altra prospettiva e lungo percorsi impensabili (almeno a Roma) tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. La materia, complessa e articolata nelle problematiche e negli

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strumenti ermeneutici, è presentata attraverso una oculata e meditata riproposizione di quattordici saggi pubblicati nell'ultimo ventennio, disposti in successione secondo la cronologia dei monumenti pittorici esaminati. È un'idea felice perché consente al lettore di seguire fin dalla sua fase genetica la nascita e lo sviluppo di una iconografia paleocristiana e nel contempo la "resistenza" di un immaginario figurativo di tradizione, che non sempre e non necessariamente - anche nei cimiteri cristiani - risponde e si spiega alla luce della categoria religiosa.La raccolta dei saggi è preceduta da una densissima introduzione che ha il taglio di una rimeditazione storiografica e metodologica e che, in trasparenza, fa emergere il percorso di maturazione critica dell'autore. Ma in questa selezione c'è un valore aggiunto: come indicato nel sottotitolo, tutti i saggi muovono dalle risultanze acquisite in seguito a interventi particolarmente rilevanti (conservazione, consolidamento, restauro) eseguiti dalla Pontificia Commissione di archeologia sacra in alcuni importanti e, in più di un caso, fondamentali complessi pittorici. In particolare, quelli del sepolcreto della Piazzola in catacumbas, degli ipogei degli Aureli e di Trebio Giusto, nelle catacombe di Priscilla, di Pretestato, dei Santi Marcellino e Pietro, di via Dino Compagni, di San Callisto, della ex vigna Chiaraviglio, dell'insediamento anonimo della via Ardeatina. La lucida consapevolezza

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dell'inestricabile legame che interconnette (ma non sempre e dovunque è così) la ricerca della conoscenza storica con la vigile preoccupazione della tutela e della conservazione, è la sfraghìs connotativa del libro di Bisconti e del suo modo di interagire - attraverso gli appropriati strumenti critici - con la produzione figurativa dell'antichità cristiana, come è chiarito nell'incipit della nota introduttiva al volume. "Vent'anni di restauri hanno mutato il volto della "Roma sotterranea cristiana", di quel mondo delle catacombe che mai aveva goduto di una vera e propria attenzione conservativa per quanto attiene gli apparati decorativi e, specialmente, per quanto riguarda un grande patrimonio pittorico. (...) Una disattenzione che ha pesato sulla conoscenza della pittura dell'ultima antichità, tanto che, ancora ai nostri giorni, si parla con disinvoltura dell'arte tardoantica, tacendo di questi "affreschi nel buio"". Eppure questi affreschi nel buio svelano storie complesse spesso insospettabili e concorrono a chiarire aspetti di una storia complessa e non sempre leggibile nei dettagli, che riguarda anche problemi nodali, come ad esempio quello del rapporto delle prime comunità con i luoghi della sepoltura. In questa direzione un contributo importante è venuto dall'intervento di pulizia e restauro di un affresco sovrastante il mausoleo di Clodius Hermes nel complesso della Piazzola in catacumbas: qui la rappresentazione

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figurativa era stata letta (sebbene con qualche dubbio) in chiave cristiana con il riconoscimento della parabola del Buon Pastore, della moltiplicazione dei pani, della guarigione dell'ossesso di Gerasa. Ma l'intervento di pulizia e consolidamento dell'intera superficie affrescata ha consentito di riconoscervi alcuni episodi del ciclo omerico (le greggi di Laerte, la gozzoviglia dei Proci, i compagni di Ulisse trasformati in porci) peraltro presenti in altra formulazione anche nell'ipogeo degli Aureli. L'aspetto importante di questa rilettura è la conferma che quello della Piazzola è un insediamento pagano che, nel corso della prima età antoniniana, accolse anche le sepolture di alcuni cristiani della famiglia degli Ancotii. Spostandosi verso la fine del IV secolo, si osserva come momenti nodali della storia della Chiesa di Roma abbiano trovato eco nelle pitture delle catacombe. Nell'arcosolio di Celerina della catacomba di Pretestato, sottoposto a un'accuratissima operazione di consolidamento e restauro guidato da Barbara Mazzei, è stato possibile rileggere e meglio percepire quanto veicolato dalle immagini. Qui - siamo all'inizio del V secolo - si coglie evidente l'eco della questione ariana al tempo di Papa Liberio (352-366) resa allegoricamente dall'immagine biblica di Susanna in forma di agnello insidiata dai seniores (i vecchioni) tradotti come lupi, che rappresentano rispettivamente la

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Chiesa e l'eresia (in questo caso quella ariana), sulla scorta appunto della figura dei due lupi che la tradizione patristica aveva elaborato per significare i persecutori e gli eretici sulla scorta del passo di Matteo, 10, 6: sicut oves in medio luporum. Ancora un altro punto nodale - emerso durante il pontificato di Damaso (366-384) - è quello rappresentato da un affresco della catacomba dell'ex vigna Chiaraviglio, in cui senza alcun dubbio si coglie il riflesso delle deliberazioni del concilio romano del 382, nel quale il primato petrino (e dunque del vescovo romano) viene riproposta come societas beatissimi Pauli, un prestigioso "valore aggiunto" alla apostolicità della sede romana.Questa pregnante definizione è figurativamente tradotta con la scena monumentale dell'abbraccio di Pietro e Paolo, cioè con la concordia Apostolorum, che all'inizio degli anni Sessanta del IV secolo era stata corrosivamente messa in discussione dall'imperatore Giuliano l'Apostata, ispirato dalla polemica anticristiana del filosofo Porfirio di Tiro.Una parte consistente e significativa dei numerosi e complessi problemi affrontati nel libro di Bisconti non si sarebbe nemmeno posta se non ci fosse stata l'azione coordinata della Pontificia Commissione di archeologia sacra nella direzione della conservazione e della tutela delle catacombe, soprattutto nelle sue evidenze più fragili, che sono proprio le pitture ad affresco. A queste

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problematiche connesse alle attività di conservazione è stata dato lo spazio che meritavano, anche con l'esposizione dettagliata (supportata dal contributo degli interventi specialistici di Barbara Mazzei) delle procedure di intervento che hanno attinto alle più sofisticate e aggiornate tecniche. 

Merita di essere segnalata la ripresa fotografica all'infrarosso con il sistema della riflettografia che, nelle

sovrapposizioni di successive stesure pittoriche, consente di leggere lucidamente ciò che l'occhio umano o il tradizionale obiettivo fotografico non consentirebbero: è il caso della concordia Apostolorum dell'ex vigna Chiaraviglio che ha svelato una prima rappresentazione degli apostoli acclamanti alla croce o, ancora, dell'arcosolio di Celerina, in cui sotto la figura di san Paolo è emersa una presenza maschile, appartenente a un precedente e diverso contesto decorativo.Gli esiti degli interventi di consolidamento, restauro, come

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anche del ricollocamento di disiecta membra nei contesti figurativi di appartenenza, hanno consentito di vedere "l'erba dalla parte delle radici", come scrive Bisconti, e dunque di seguire e definire nelle loro caratteristiche i procedimenti tecnico-esecutivi e la presenza di tutto quanto attiene alla fase preparatoria del lay-out (impaginazione) della superficie destinata ad accogliere l'affresco. L'individuazione endoscopica - perciò indolore oltre che non invasiva - di questi elementi fornisce preziosi indicatori per una più dettagliata e documentata definizione cronologica: un aspetto nevralgico tuttora in corso di ridefinizione anche perché condizionato dalla contrapposizione critica (non di rado duramente polemica) alle cronologie pregiudizialmente "alte", spesso insostenibili, ereditate dalla prima scuola romana (de Rossi - Wilpert).In sintesi, sul piano della multiforme e multiculturale vicenda storico-artistica che attraversa i secoli della tarda antichità, il valore e l'utilità di questo nuovo libro si possono agevolmente riconoscere nella ricca molteplicità di elementi e di argomenti che quasi naturalmente conducono - anche attraverso l'ottica della produzione figurativa - a riconoscere anche nell'universo-catacomba una cassa di risonanza non troppo flebile delle complessità, che caratterizzano i secoli ultimi del mondo

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antico, in cui si rincorrono e si integrano, con differenti livelli di incidenza, non sempre lucidamente percepibili, tradizione, creatività, trasformazione.

La Pontificia Commissione d'Archeologia Sacra si rinnova 

Una task force per le cento catacombe d'Italia

di CARLO CARLETTI

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Anche per le istituzioni si succedono le stagioni, che possono rivelarsi luminose o grigie, dinamiche o statiche. Per la Pontificia Commissione di Archeologia l'anno appena trascorso, dopo un quinquennio di decelerazione è stato contrassegnato da un forte rilancio della sua attività istituzionale: una nuova stagione di iniziative, di azioni concrete, di proposte e progetti per l'immediato futuro, inserita in un più generale contesto virtuoso che emblematicamente viene a collocarsi sub temporibus antistitis Benedicti, secondo una formula già in uso nell'epigrafia romana dal tempo di Papa Giulio I (337-352).

Una nuova direzione di rotta, esito non casuale di un appropriato rinnovamento dei vertici dell'istituzione: un nuovo presidente, il

cardinale Gianfranco Ravasi; un nuovo Segretario, monsignor Giovanni Carrù; l'inserimento di un soprintendente, Fabrizio Bisconti, cioè di una figura

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professionale - così come nelle istituzioni di tutela dei beni archeologici dello Stato italiano - specificamente destinata alla guida e al coordinamento delle attività e delle problematiche più propriamente archeologiche, connesse alla tutela, alla conservazione, alle indagini di quell'immenso patrimonio culturale costituto dalle oltre cento catacombe di Roma e d'Italia. In questa prospettiva si è coerentemente inserito il rinnovamento intervenuto nella composizione dell'organismo consultivo della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, modificato per due terzi del suo organico. Ne sono entrati a far parte archeologi ed epigrafisti (Hugo Brandenburg, Carlo Carletti, Jean Guyon) ma anche specialisti di storia della Chiesa, di patrologia, di filologia (Enrico dal Covolo, Angelo Di Berardino, Giovanni Maria Vian), che vengono ad aggiungersi ai componenti già designati nel decennio trascorso (Rosa Maria Carra, Vincenzo Fiocchi Nicolai, Antonio Baruffa).In questa articolazione di competenze, rappresentata dalle nuove scelte, emerge significativamente l'acquisita lucida consapevolezza della complessità storico-culturale di un insediamento catacombale, come "evento monumentale" specificamente cristiano nel suo carattere di spazio sepolcrale non conclusus, cioè "aperto" - dunque ideologicamente né gentilizio né corporativo ma

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comunitario - coerentemente inserito nella dimensione temporale che gli appartiene, che è quella fertilissima della tarda antichità.Ed è in questo panorama storico-culturale che la comunità dei cristiani - anche attraverso i propri luoghi di sepoltura e le pratiche e i dispositivi a essi connessi - comincia progressivamente a rivelare il suo ruolo propulsivo e innovativo nella società del tempo. I cristiani non si nascondevano nelle catacombe ed è pura leggenda la capziosa idea, metastorica nonché scopertamente apologetica, che le autorità romane ne ignorassero l'esistenza. La nozione estensiva di "criptocristianesimo", che tanto ha affascinato e condizionato non pochi studiosi del passato, proprio nelle evidenze monumentali può trovare la più illuminante ed efficace delle smentite.Non è perciò difficile comprendere come una lettura storica delle molteplici testimonianze conservate nelle catacombe debba necessariamente avvalersi di una articolata e specialistica gamma di competenze integrate che ne assicurino tutela, conservazione, conoscenza. E in realtà la sempre più approfondita indagine storico-archeologica dell'ultimo cinquantennio ha posto in evidenza come la pluralità della documentazione conservata nelle catacombe costituisca un vero e proprio archivio di conoscenza storica, conservato in contesti omogenei e cronologicamente definiti. 

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Una infinità di informazioni che, attraverso la produzione figurativa ed epigrafica, gli oggetti di corredo, le morfologie e le caratteristiche delle sepolture e dei connessi dispositivi per il rituale funerario, riflettono - seppur mediatamente - i processi attraverso i quali passò la nascita e la formazione della chiesa cristiana nell'ambito dei secoli della tarda antichità. E questo significa avvicinare - anche attraverso l'indotto archeologico - le variegate realtà ecclesiali e i molteplici aspetti del vivere quotidiano e dunque, mentalità, immaginario collettivo, consuetudini, atteggiamenti, in rapporto dialettico o di tensione con i diversi livelli di continuità o alterazione della tradizione romana.Il concetto di "archivio storico" legittimamente attribuibile all'universo-catacombe, si sarebbe rivelato pura astrazione in assenza della secolare cura (dal 1851) assicurata alle catacombe dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra che, soprattutto nei momenti di maggiore dinamismo - come quello attuale - ha efficacemente operato per conservare e rendere fruibile "un libro aperto", quale quello che gli storici - ma anche i comuni visitatori se ben guidati e informati - possono vedere, leggere e comprendere scendendo nelle viscere delle catacombe di Roma e d'Italia. I termini concreti di questa complessiva azione sono emersi nel consuntivo dell'attività svolta nel 2010,

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presentata nella riunione plenaria della Commissione del 21 febbraio 2011: un incontro istituzionale - già previsto nel chirografo di Pio IX - di cui si era quasi persa memoria, perché non più convocato dal lontano 2004, come ha voluto ricordare con generosa indulgenza, ma senza sottintesi, il presidente cardinale Ravasi nel suo intervento introduttivo.Nel corso dell'anno trascorso l'attività della Commissione si è manifestata in tutte le sue potenzialità operative con numerosi e spesso complessi interventi sia nelle catacombe di Roma sia in quelle di altri siti d'Italia. I problemi affrontati sono quelli tipici dell'ambito dei monumenti sotterranei, nei quali, oltre all'ovvio degrado imputabile all'ineluttabile trascorrere del tempo responsabile di cedimenti e dissesti strutturali, si registra l'insidioso mutamento del microclima originario degli ambienti, causato dalla frequentazione dei visitatori - molto intensa soprattutto a Roma - e talvolta dalla presenza di infiltrazioni delle acque meteoriche e dei liquami fognari, nonché dalla insidiosa penetrazione delle radici della vegetazione sovrastante gli ambienti sotterranei. L'incidenza, spesso sincronica, di questi fattori genera danni - talvolta irreversibili se non preventivamente valutati - ai reperti costituzionalmente più fragili, come le pitture ad affresco, alle quali il personale specialistico

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della Commissione ha riservato particolare attenzione, con un monitoraggio sistematico per la prevenzione e, laddove necessario, con operazioni di restauro e consolidamento. In questa direzione risultati eccellenti sono stati raggiunti negli interventi sugli affreschi delle catacombe di Domitilla: l'intero impianto decorativo del cubicolo "dei fornai" e dell'arcosolio degli "apostoli piccoli" ha riacquisito anche nei dettagli una totale leggibilità. Nel cimitero ad decimum sulla via Labicana gli affreschi della traditio legis e del presbyter, hanno proposto il problema - non infrequente - del restauro di un precedente restauro evidentemente mal fatto: nel caso specifico gli interventi del passato - ispirati al dannoso e oggi del tutto superato criterio della "ricostruzione" - avevano arbitrariamente modificato i connotati stessi delle figure affrescate. In queste operazioni sono state naturalmente impiegate le tecniche di intervento più aggiornate, guidate concettualmente dal principio cosiddetto del "minimo intervento". Queste stesse procedure di intervento saranno seguite nella monumentale catacomba di San Gennaro a Capodimonte a Napoli con l'avvio di un vasto e articolato progetto per la conservazione e il restauro dei numerosi affreschi e mosaici, profondamente alterati dalla penetrazione nelle gallerie di acque piovane e dei liquami non canalizzati nella rete fognarie. Un'iniziativa particolarmente impegnativa nel corso della quale la

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Commissione agirà d'intesa e in collaborazione con il Provveditorato interregionale alle opere pubbliche di Campania e Molise, su delega della Direzione regionale del Ministero dei Beni culturali.Particolare attenzione la Commissione ha anche riservato alle catacombe d'Italia: allo stato attuale trentasei insediamenti, generalmente di medio-piccole dimensioni, dislocati nella Toscana, nel Lazio, in Abbruzzo, in Campania, nella Sicilia occidentale e orientale, in Sardegna. A queste potranno nel prossimo futuro aggiungersi quelle - non ancora in disponibilità della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra - ubicate a Canosa (disponibilità in via di formalizzazione), Monteleone Sabino, Sutri, Anagni, Formello, Bolsena (località "Le Grotte"), Avellino, Capua Vetere, Pianosa. Un patrimonio monumentale di enorme consistenza ancora poco conosciuto, gestito dalla Pontificia Commissione per il tramite di Ispettorati locali appositamente costituiti. Queste unità periferiche nel corso del 2010 hanno realizzato interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e, dove possibile, di indagine archeologica, nelle catacombe di Monte Stallone presso Formello, di Santa Cristina a Bolsena, di Villa San Faustino a Massa Martana, di Santa Mustiola e Santa Caterina a Chiusi e, nell'Italia insulare, nei cimiteri siracusani di Santa Lucia, Vigna Cassia, San Giovanni e a

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Palermo nella catacomba di Villagrazia di Carini.Nel corso dei secoli le catacombe sono passate attraverso vicissitudini di varia natura che, tra gli altri effetti, hanno causato una consistente dispersione dei materiali, in passato spesso ammassati senza un criterio informatore, senza quelle appropriate operazioni di pulitura e manutenzione che anche i materiali mobili richiedono. In questa direzione la Commissione ha programmato una sistematica campagna di puntuale monitoraggio, nella prospettiva, laddove possibile, di una sistemazione museale o del ricollocamento dei materiali nei rispettivi contesti monumentali di appartenenza: è quanto in corso di realizzazione per i numerosissimi reperti marmorei dei secoli III-VII provenienti dalla estesa catacomba di Priscilla e destinati a essere esposti nella contestuale basilica cimiteriale di San Silvestro. Nel loro originario contesto di appartenenza ritorneranno - dopo una accurata operazione di pulitura e ricomposizione eseguita in laboratorio - le iscrizioni provenienti dall'ipogeo "misto" (cioè con sepolture pagane e cristiane) di Trebio Giusto sulla via Latina. Contestualmente alle attività primarie di tutela e di conservazione la Commissione ha naturalmente proseguito le indagini archeologiche, spesso indotte da eventi estemporanei, come nel caso delle gallerie probabilmente riferibili al cimitero di San Lorenzo, venute

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casualmente alla luce sotto il piazzale del Verano nel corso della posa di cavi elettrici sotterranei; o, come per la catacomba di Sant'Agnese sulla via Nomentana, per la necessità di liberare alcune gallerie dissestate dalla presenza invasiva dei materiali di risulta accumulati in occasione di sommari interventi eseguiti nel XIX e XX secolo, nel corso dei quali si ricorreva ancora alla deprecabile pratica di riempire ambienti già noti e accessibili con le terre estratte dalle gallerie in corso di scavo. Ma accanto a questi lavori direttamente funzionali alla tutela e alla conservazione sono proseguite anche le indagini strategiche, cioè espressamente mirate alla conoscenza storica di nuove realtà monumentali, come quelle tuttora in corso - su concessione del ministero dei Beni culturali e in collaborazione con la cattedra di Archeologia cristiana dell'università di Roma Tor Vergata - nella monumentale basilica circiforme della via Ardeatina che hanno consentito di riportare alla luce un nuovo settore della navata centrale e del deambulatorio. In questa stessa direzione - in collaborazione con l'École Française de Rome e con l'Università di Bordeaux 1 - sono state intraprese indagini antropologiche sugli scheletri deposti nelle stratificazioni più profonde dei poliandri (tombe collettive) rivenute nella regione centrale della catacomba dei Santi Marcellino e Pietro sulla via

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Labicana.Il valore culturale di una istituzione consiste anche nella conservazione della storia della sua attività e nella capacità di mantenere integro e disponibile, anche nella lunghissima durata, tutto il "lavoro nascosto", non più visibile "a lavoro concluso" a "risultati acquisiti": le relazioni degli scavi, delle ricognizioni, dei sondaggi, dei monitoraggi, le schede di lavoro, gli appunti - anch'essi utili - redatti a caldo con le impressioni e le suggestioni del momento, le riproduzioni fotografiche e a disegno. Una miniera di informazioni che spesso si rivelano preziosissimi supporti documentari per la ricostruzione della storia delle scoperte e anche, rispetto allo stato attuale, dei diversificati livelli di conservazione

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delle strutture e dei materiali. Tutte queste informazioni sono oggi disponibili in formato elettronico in uno specifico sito della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, nel quale si possono agevolmente consultare e studiare i verbali delle riunioni plenarie e gli indispensabili - per la scienza archeologica - Giornali degli Scavi dal 1851 a oggi.Non solo un dossier dal puro valore memoriale - da conservare comunque con il massimo della cura - ma anche e soprattutto un indispensabile sussidio per la ricerca archeologica e storiografica, che si integra perfettamente con un'altra fondamentale iniziativa: la schedatura informatica della enorme documentazione fotografica in possesso dell'istituzione, ormai a quota 40.000 unità, che per la parte relativa alle iscrizioni andrà a inserirsi - attraverso un apposito link - nella specifica banca-dati informatica on-line delle iscrizioni cristiane di Roma (Epigraph Databank Bari) inserita nel consorzio internazionale EAGLE (Electronic Archive of Greek and Latin Epigraphy). Tra le rarità conservate in questa collezione di riproduzioni fotografiche e grafiche c'è un "cammeo", degno di particolare menzione: sono le lastre fotografiche di vetro eseguite da John-Henry Parker su commissione di Giovanni Battista de Rossi nelle catacombe di Generosa e di Sant'Alessandro, quando la luce necessaria per

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impressionare le lastre veniva portata sottoterra attraverso una serie di specchi disposti in sequenza dentro i lucernari. Documenti storicamente inestimabili di un passato tecnologicamente lontanissimo, che ripropongono plasticamente i primi pionieristici esperimenti di riproduzione fotografica intrapresi dal padre fondatore della archeologia delle catacombe.

Simboli a confronto tra la fine del paganesimo e gli albori del cristianesimo 

Il pesce e l'àncoraIl 23 febbraio a Roma, alla British Academy, si è tenuta una conferenza sul tema "Dölger, Ichthys e l'ancora". Pubblichiamo ampi stralci di una delle due relazioni (l'altra è stata tenuta da Emanuele Castelli)

di CARLO CARLETTI

L'intervento si propone come un primo e provvisorio contributo al progetto elaborato da Markus Vinzent e Allen Brent su: "Epigrafia ed Iconografia paleocristiane: un nuovo approccio al progetto classico di Dölger". L'intento di questo percorso è naturalmente quello di una rilettura critica della prassi epigrafica e della produzione figurativa di committenza cristiana alla luce di quanto intervenuto nell'ambito delle ricerche specifiche e delle

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relative acquisizioni storiografica, nel corso dei settant'anni trascorsi dalla morte del grande studioso di Sulzbach. Nella proposta di Brent e Vinzent c'è l'espresso invito alla elaborazione e/o alla sperimentazione "di un nuovo approccio". E ciò vuol significare anche una verifica (che può produrre conferme o modifiche) di una straordinaria mole di acquisizioni, quelle appunto maturate da Franz Joseph Dölger (1879-1940), che nelle loro istanze di fondo, non possono considerarsi "superate", ma anzi - proprio per la loro ancora oggi stimolante problematicità - legittimano un confronto, nuovi approfondimenti e riflessioni. L'attualità del Dölger-pensiero consiste non solo e non soltanto nelle molteplici soluzioni raggiunte, nei nodi sciolti per molti momenti e aspetti del cristianesimo antico, ma anche e soprattutto nella vastità e nello spessore dei problemi affrontati, non tutti compiutamente risolti e comunque suscettibili di approfondimenti e nuove riflessioni. Le testimonianze epigrafiche e figurative per Dölger - in seguito soprattutto ai suoi soggiorni a Roma dal 1908 al 1913 e poi nel 1914 - 1915

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- si configurarono come "indicatori" fondamentali per la ricostruzione, come egli diceva, "di una storia culturale del primitivo cristianesimo, con speciale attenzione alle sue relazioni con il mondo circostante". Quest'ultimo aspetto è quello nevralgico e caratterizzante della ricerca di Dölger che egli stesso condensò nel mille volte citato concetto storiografico dell'Auseinendersetzung zwischen Antike und Christentum (Confronto tra mondo antico e cristianesimo). Rispetto agli anni in cui si svolse l'attività di Dölger. oggi vi è stato indubbiamente un notevole incremento di conoscenze, dovuto soprattutto a nuove scoperte (basti pensare ad un eccezionale monumento come quello della catacomba della via Latina, che ovviamente Dölger non poteva conoscere); ma c'è stato anche una crescita sul piano metodologico, che tra l'altro ha contribuito - anche se non sempre e dovunque - al ridimensionamento del cosiddetto "metodo teologico-regressivo", con il quale peraltro lo stesso Dölger si era già trovato a confrontarsi ed anche a scontrarsi. Anch'egli - come altri studiosi - già all'indomani della sua ordinazione sacerdotale (1902, a 23 anni), fu guardato con sospetto dalla autorità ecclesiastica come "rivoluzionario" e "cattolico riformista", in una parola "modernista". Il suo approccio in effetti entrava in conflitto con convinzioni, non di rado più ideologiche che scientifiche, radicate e difese a oltranza specie negli

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ambienti ecclesiastici più conservativi. Vi furono per esempio reazioni pesanti in seguito alla pubblicazione dello studio Der Taufexorcismus im christlichen Altertum. Eine religiongeschichtliche Studie (1909). Va però riconosciuto che proprio a Roma - un ambiente non propriamente aperto alle linee di ricerche da lui perseguite - Dölger trovò accoglienza, benevolenza e aiuto da parte di una figura di mecenate di alto livello come monsignor Antonio de Waal, presso quell'isola felice che a quel tempo era il Camposanto Teutonico in Vaticano (qui soggiornò anche un altro "rivoluzionario" come Paolo Styger). Verso il termine della sua vita, come è ben noto, Dölger, con il consenso di Hans Lietzmann, elaborò il progetto di una grande opera tuttora in corso: il Reallexikon für Antike und Christentum. Ma qui non si vuole riproporre una biografia di Dölger: c'è per questo la biografia (ufficiale) di Theodor Klauser, il più grande dei suoi allievi e continuatori. Tra i tanti temi affrontati in oltre 35 anni di attività da Dölger, quello che più di ogni altro può essere richiamato come vera e propria sfragìs del suo metodo di indagine è certamente quello dell'immagine del pesce e delle sue diverse connessioni e interazioni con altri soggetti figurativi e in primo luogo con l'àncora nell'ambito della prassi epigrafica. Una ricerca capillare che assorbì molti anni della sua attività, condensata in cinque ricchissimi

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volumi contrassegnati non a caso con la titolatura ICHTYHYS quali il quinto, che ha come sottotitolo Testimonianze del pesce nella plastica nella pittura e nelle arti minori paleocristiane (1943 [1957]) raccoglie e discute, in maniera sistematica, una vera e propria miniera di documentazione. Un'opera di grande spessore - anche sul piano materiale (circa 800 pagine) - che nella sua complessità continua a proporsi come un laboratorio, tuttora aperto. L'approccio metodologico, espressamente dichiarato, che guida le sue indagini sulla produzione figurativa come diretto indotto di una storia culturale, si può così condensare: un soggetto figurativo (come appunto il pesce e l'àncora) non può apoditticamente ritenersi specificamente cristiano - e ciò soprattutto per i primi tre secoli - fin quando possa essere spiegato alla luce di consimili testimonianze pagane o come rappresentazione di aspetti della comune vita civile ivi compresi quelli delle pratiche funerarie; e qui emerge anche con chiarezza il ruolo riservato da Dölger al concetto di realien, alle realtà effettuali, alle nozioni positive. Egli prende le distanze dalle letture autoreferenziali e soprattutto dall'invasivo cono d'ombra dell'interpretazione "teologica", che spesso peraltro conduceva a esiti anacronistici con la tendenza ad attribuire a consapevole iniziativa cristiana la formazione genetica di determinati

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soggetti figurativi (qui sta il nocciolo della questione). L'attenzione di Dölger si rivolgeva al Sitz im Leben, diremmo oggi "vissuto religioso", che non sempre corrispondeva al "prescritto religioso". Le dinamiche implicite nella "tensione" prescritto/vissuto potevano trovare specchio di rifrazione anche nella documentazione figurativa che più direttamente veicolava gli usi, le abitudini, i retaggi, le tradizioni di un cristianità vissuta. Di un approccio dialettico come quello perseguito dallo studioso non vi è traccia alcuna nell'unica opera, espressamente dedicata alla immagine del pesce, che precede quella di Dölger di oltre mezzo secolo. È il saggio De christianis monumentis ichtyn exhibentibus corredato da un elenco di 75 iscrizioni con il pesce e / con la scritta Ichthys (pp. 545 - 576), pubblicato in forma di epistola nel 1855 nello Spicilegium Solesmense, su espressa richiesta del monaco benedettino Giovanni Battista Pitra (1812-1889) poi cardinale e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. La ratio di fondo, nelle intenzioni del committente, cioè il Pitra, e dello stesso de Rossi, era in definitiva quella di "confermare" attraverso la documentazione figurativa, quanto era stato elaborato dal pensiero cristiano sul simbolismo del pesce. Nel pesce, o nel termine che lo definiva (Ichthys), il de Rossi, riconosceva pregiudizialmente quasi christianae professionis tesseram. Sicché questo soggetto figurativo

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finiva per diventare per se stesso "fossile guida" di una specificità cristiana (il sensus arcanus del de Rossi), con la conseguenza di considerare come cristiane numerose testimonianze che senza alcun dubbio cristiane non sono. È evidente in questo approccio la funzione strumentalmente "ancillare" riservata alla documentazione epigrafica e, implicitamente, la concezione di una vera e propria gerarchia delle fonti, priva naturalmente di qualsiasi fondamento. Il lavoro di Dölger contribuì in maniera sostanziale a rovesciare la prospettiva di de Rossi.

Si può, allo stato attuale, ritenere che tra la fine del II e l' inizio III secolo comincia a

diffondersi con sorprendente rapidità un apparato figurativo, in precedenza sostanzialmente ignoto, costituito dal pesce, dal connubio pesce-àncora in diverse articolazioni compositive, e - molto più frequentemente di quanto non si creda - della sola àncora, alla quale lo stesso Dölger non aveva dedicato particolare attenzione, se non nelle sue interazioni con il pesce. E a questo proposito Josef Engemann nella voce "Fisch" del Reallexikon für Antike und Christentum (VII, Stuttgart 1969, coll. 959 - 1097) giustamente osservava che, nell'ambito degli studi (da de Rossi in poi non escluso lo stesso Dölger), la

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sopravvalutazione dell'immagine del pesce aveva di fatto lasciato nell'ombra quella dell'àncora. Questa giusta osservazione di Engemann non ebbe eco alcuna nemmeno nello stesso Reallexikon, come si evince dalla voce dalla brevissima e quasi affrettata voce "Anker" redatta da Paul Stumpf (I, Stuttgart 1950, coll. 440 - 443). Il maggiore e quasi esclusivo bacino di utenza di questi moduli figurativi è certamente Roma. Per esporre in sintesi il complesso dei documenti che costituiscono la base del nostro intervento, è forse ancora utile ricorrere al più chiaro (anche se in apparenza elementare) dei sistemi, quello dei quesiti. Non prima di ricordare che le nostre testimonianze sono integralmente riprese dagli apparati figurativi dell'epigrafia funerario: una scelta peraltro obbligata perché - almeno per tutta l'età precostantiniana - è questo sostanzialmente l'ambito pressoché esclusivo in cui furono utilizzati il pesce e l'àncora. Le immagini del pesce e dell'àncora, nella documentazione disponibile, sono una caratteristica quasi esclusiva della prassi epigrafica di Roma. Queste sono le frequenze di uso, in gran parte desunte dall'edizione delle Inscrptiones Christianae Urbis Romae 130 esemplari del pesce: 38 volte unito all'àncora, 16 volte ad altri soggetti figurativi. 20 esemplari in cui il pesce è rappresentato in forma verbale, sempre con il termine greco, in un caso traslitterato in latino (Carletti 1999, p. 17

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n. 3).550 circa esemplari dell'àncora.I contesti di provenienza sono, pressoché esclusivamente, quelli dei nuclei originari delle catacombe, vale a dire ambienti funerari sorti tra l'inizio e la seconda metà del III secolo. La diffusione delle due immagini fin dalle origini è testimoniata quasi sistematicamente in tutti gli insediamenti precostantiniani.

Francesco Stella illustra un nuovo progetto editoriale dedicato alla letteratura latina 

Tra le pagine del medioevo che nessuno legge

di Silvia Guidi "Una piccola nube nera" immersa nella lontananza dei secoli; così Chesterton descrive nella sua Ballad of the White Horse l'era di Alfred The Great, il leggendario re cristiano che difese il Wessex dalle invasioni dei "danesi dalle barbe scarlatte" nel ix secolo; un periodo eroico e affascinante ma inaccessibile, secondo il polemista inglese, un'epoca di cui si possono conoscere solo le leggende tramandate dalla cultura orale, the tales a whole tribe feigns, i racconti che uniscono la tribù accanto al fuoco. A un secolo di distanza, grazie al lavoro di generazioni di filologi e studiosi, aiutati dagli ultimi anni

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del Novecento dalla tecnologia digitale, l'altomedioevo latino non è più così inaccessibile. Possiamo perfino leggere, e in parte, riascoltare, le più antiche canzoni del medioevo occidentale - confessioni, canti scolastici, compianti funebri per duchi longobardi e imperatori carolingi, recitazioni parateatrali di episodi biblici, inni natalizi e odi apocalittiche - raccolte in quella che può essere definita la prima edizione critica digitale di testi mediolatini. Due anni fa la Società internazionale per lo studio del medioevo latino (Sismel - Edizioni del Galluzzo) ha infatti pubblicato i ritmi latini musicati dal iv al ix secolo, il corpus delle più antiche poesie latine altomedievali in versificazione ritmica corredate di musica nei manoscritti originali e di cd rom. Uno dei progetti a cui ha lavorato Francesco Stella, che insegna Filologia latina medievale e umanistica nella facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo dell'università

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di Siena, con la collaborazione di 40 biblioteche europee, che attualmente dirige la collana "Scrittori latini dell'Europa medievale" della Pacini Editore. 

Come è nato questo progetto editoriale? 

L'idea è nata dalla volontà di contribuire, nella misura delle nostre possibilità, a salvaguardare e se possibile incrementare l'accessibilità al mondo medievale - e a tutto quello che ancora rappresenta per noi - rendendo leggibili e consultabili anche a un pubblico non specialistico testi di grande valore culturale mai tradotti prima in italiano e poco praticati anche da medievisti che non siano anche latinisti. A questo scopo abbiamo avuto l'occasione di presentare e di vederci finanziare un progetto europeo del programma Cultura 2000, dedicato appunto alle traduzioni, e nella compilazione della domanda, che richiede l'impegno esplicito di un editore, abbiamo potuto contare sulla disponibilità e sull'efficienza dell'editore Pacini, che ho più volte avuto modo di sperimentare grazie alla collana del dipartimento universitario che mi trovo a dirigere. Nella scelta dei primi titoli abbiamo selezionato testi che sapevamo essere in lavorazione ma soprattutto testi letterari che coprissero aree tematiche abitualmente estranee alle poche collane esistenti, come quelli di contenuto religioso di Città Nuova o quelli di interesse

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filologico della collana "Per Verba" della Sismel. 

L'oscuramento della memoria testuale del medioevo latino almeno in Italia è un fatto, purtroppo; quali le cause secondo lei e quali i possibili rimedi? Negli Stati Uniti l'interesse per il latino è in crescita, come anche in Germania; nella sua esperienza, in quali Paesi, europei e non, questa "censura" è meno presente? 

Il problema è proprio la difficoltà, generata dalla dogmaticità del paradigma classicista ancora dominante, di percepire il medioevo come parte dell'eredità latina, e come patrimonio non solo di arte e architettura, di miti e di saghe, ma anche di testi latini che questi miti e questo patrimonio fondano e spiegano. Perciò le reviviscenze di attenzione verso la latinità, come quelle che si registrano in Germania e a ondate periodiche anche in Italia, non coinvolgono quasi mai il medioevo:  solo negli Stati Uniti il forte interesse e le scarse conoscenze di latino alimentano, come ormai ci avviamo a fare anche qui, un filone assai nutrito di traduzioni dei testi medievali che tuttavia si limitano per ora a una circolazione prevalentemente universitaria. Su questi testi va creata non solo una rete di conoscenze che li impieghino come fonti storiche e depositi di dati, ma anche una critica specificamente letteraria, esercizio finora sentito come

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estraneo - con le eccezioni di Erich Auerbach, Gustavo Vinay e Massimo Oldoni - a un settore, quello medievistico, tradizionalmente concentrato sull'interesse per contenuti esclusivamente storici o religiosi. Ma so che anche in altre parti d'Europa, per esempio in Francia e Svizzera, stanno nascendo collane ispirate a un interesse finalmente "letterario" e culturale al testo mediolatino. 

Qual è il testo più interessante o sorprendente in cui si è imbattuto durante i suoi studi? 

Molte opere riservano sorprese per motivi diversi, ed è difficile isolarne una, se si pensa che il tesoro testuale del medioevo conta qualcosa come oltre 5.000 titoli editi - più quasi altrettanti ancora nascosti nei manoscritti - a fronte delle poche centinaia della latinità classica. Ma non posso dimenticare l'audacia drammatica delle lettere di Eloisa, l'amaro cinismo laico del monaco-lupo Ysengrimus, la dolcezza lirica del carolingio Valafrido Strabone, la sensualità fisica e spirituale di alcune lettere d'amore del xii secolo, l'acume psicologico e razionale di Bernardo di Clairvaux, Riccardo di San Vittore e frate Ivo, il fascino del fantastico "gotico" - quello autentico - in Walter Map, Goffredo di Monmouth e Gervasio di Tilbury, l'esplorazione e il riscatto delle forme più abbiette dell'amore nelle commedie di Rosvita, le autobiografie del

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"nevrotico" Otlone monaco di Sankt Emmeram e la psicopatologia autodichiarata del vescovo Raterio (una delle prossime uscite della collana), l'eleganza delle lettere del monaco Gerberto non ancora Papa Silvestro ii, la sfida intellettuale degli indovinelli "spirituali" di epoca precarolingia, l'accensione mistica di Angela da Foligno, la genialità teologica di Giovanni Scoto Eriugena, l'universo magico e crudele delle saghe danesi di Saxo Grammaticus, l'ironia e il culto dell'amicizia di Alcuino di York, il senso delle rovine in Ildeberto di Lavardin, il catechismo dell'amore cortese insegnato da Andrea Cappellano e Boncompagno da Signa. Non finirei mai di elencare nomi che - tranne le poche, consuete eccezioni - hanno creato la cultura europea prima che il rinascimento la reinventasse, ma ancora non significano nulla per quasi tutti i lettori anche colti. Le "lettere d'amore" che abbiamo scoperto l'anno scorso in un trattato di retorica del xii secolo sono invece una primizia storica - la punta di un iceberg che aspetta lo scavo di filologi e storici - ma non entreranno in una hit parade così competitiva. 

Consigli a un potenziale lettore; da dove partire per iniziare a scoprire questo patrimonio immenso di racconti, visioni, liriche, cronache? 

Un lettore non specialista non può che limitarsi al poco

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disponibile. Se si vogliono scegliere testi di interesse non erudito o devoto ma appunto letterario, con la speranza di avere fortuna nel reperire titoli fuori commercio da tempo, indicherei in primo luogo i tre bestseller assoluti, cioè le Lettere di Abelardo ed Eloisa nelle tante traduzioni esistenti, la Vita di Carlo Magno di Eginardo e i Carmina Burana (di cui non esistono però traduzioni affidabili e complete), ma subito dopo altre letture avvincenti e meno frequentate, come le Storie dei Mongoli di Giovanni di Pian del Carpine (pubblicate dal Cisam di Spoleto), i trattati cristiani d'amore e la Vita di san Francesco di Tommaso da Celano pubblicati dalla Fondazione Valla, gli Svaghi di corte di Walter Map nella vecchia collana medievale di Pratiche, poi passata a Luni e ora a Carocci, le Storie dei Franchi di Gregorio di Tours curate da Oldoni per Liguori, le Gesta dei re e degli eroi danesi di Saxo Grammaticus tradotte dalla grandissima Ludovica Koch per i Millenni Einaudi qualche anno fa e - nella nuova collana Pacini - l'incredibile giallo di Eginardo sul trafugamento delle reliquie di Marcellino e Pietro, la prima visione poetica dell'aldilà narrata da un Valafrido Strabone, implacabile contro gli abusi sessuali del clero, e gli aneddoti magici di Gervasio di Tilbury che ci guida fra veroniche e volti santi, erbe fatate e pietre lunari, fantasmi a cavallo e foreste incantate, sirene e streghe, cavalli

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magici, morti viventi, chimere e licantropi che crederemmo nati dalla fantasia di un narratore moderno. 

Caratteri e contesti delle sepolture paleocristiane 

Tombe umilie sepolcri privilegiati

di Fabrizio Bisconti 

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Rispetto alle consuetudini funerarie elaborate dalle civiltà antiche e, specialmente, dall'esperienza ellenistico-romana, la prassi funeraria paleocristiana presenta immediatamente caratteri e tendenze che conducono verso sistemi sepolcrali più uniformi, omogenei ed egualitari. Tali caratteri dipendono proprio da un mutamento di mentalità, ma anche di ritualità, che comportano, ad esempio, l'uso esclusivo dell'inumazione, la quale, come è intuitivo, dà luogo a un primo livellamento delle tipologie funerarie, che abbatte quell'articolazione delle morfologie sepolcrali provocate dalla coesistenza dell'incinerazione e della inumazione e, dunque, dei contenitori dei resti umani, ora ridotti a semplici urne cinerarie, ora a più importanti monumenti che, dall'umile fossa, giungono al solenne mausoleo. Il livellamento delle tipologie funerarie dipese solo da uno spirito di eguaglianza che, messo in pratica nel vivere quotidiano, va

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a interessare anche il mondo dei morti, il quale si cala, sin dalle prime manifestazioni sepolcrali, in un contesto neutrale, quasi anonimo, talora asintomatico per quanto attiene la dichiarazione del cristianesimo, nel senso che i tipi epigrafici e decorativi non mostrano segnali evidenti di aderenze alla nuova forma religiosa, spesso simbolica, comunque non declinata in senso cristiano. Già dal ii secolo, i cristiani abbandonarono i sepolcreti misti e concepirono aree proprie, distinte da altri insediamenti funerari, connotate da questo forte principio egualitario, che produceva i cosiddetti coemeteria, come ricordano rispettivamente le testimonianze patristiche occidentali e orientali:  da Ippolito per Roma (Philosophumena ix, 12, 14) a Origene per Alessandria (Homeliae in Ieremiam iv, 3, 16). Nello stesso frangente cronologico, intorno al 203, Tertulliano attesta la presenza dei primi insediamenti funerari a Cartagine e, segnatamente, nell'Ad Scapulam (3, 1), dove menziona delle areae sepulturarum nostrarum, la cui proprietà era fortemente osteggiata dalla plebe pagana; la protesta del popolo:  areae non sint, areae eorum non fuerumt ci assicura come l'esclusività dei sepolcreti cristiani non rimontasse a epoca troppo più antica. Oltre a quello dell'esclusività, i primi sistemi funerari cristiani proponevano - come si è anticipato - il carattere dell'egualitarismo e della comunitarietà, ambedue sostenuti dall'irrinunciabile principio della solidarietà,

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della carità in funzione propriamente funeraria, come ricorda ancora Tertulliano, che fa riferimento all'esistenza di una cassa comune, alimentata dalla generosità dei fratres, che serviva, tra l'altro, alla sepoltura dei bisognosi (Apologeticum 39, 6). Alle parole di Tertulliano fanno eco quelle della Traditio apostolica (40), dove si ricorda come a Roma il vescovo dovesse farsi carico della gestione dei cimiteri, affinché in questi potessero accedere tutti i poveri. Ancora negli anni Sessanta del iv secolo, l'imperatore Giuliano l'Apostata dovrà constatare amaramente come proprio "la sollecitudine per i seppellimenti dei defunti" avesse costituito una delle carte vincenti dell'affermazione del cristianesimo. I caratteri dell'uguaglianza, della estrema semplicità delle tipologie, dell'uniformità dei complessi, della comunitarietà, della solidarietà si percepiscono specialmente nei primi insediamenti funerari cristiani, come nel cimitero di San Callisto, gestito dalla gerarchia ecclesiastica, già agli esordi del iii secolo. Nello stesso frangente altre catacombe romane, come quelle di Priscilla, Pretestato, Calepodio e Novaziano, presentano - nei loro nuclei genetici - delle aree egualitarie, sfruttate con il sistema essenziale dei loculi alle pareti ma, lasciando Roma, tali situazioni si ripetono nel complesso di Vigna Cassia a Siracusa, nelle catacombe tunisine di Hadrumetum, in quelle di Santa Caterina di Chiusi, in

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quelle di Bonaria a Cagliari e in quelle di Sant'Agata a Malta. Salendo al sopraterra, molte aree cimiteriali cristiane sub divo mostrano i caratteri dell'omologazione delle tipologie funerarie, con l'allineamento dei sepolcri a cassa scavati come formae nel suolo, secondo un fronte di sfruttamento ordinato e indifferenziato. Così nella necropoli, scavata in anni recenti nei cortili dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, non lontano dal cimitero ad Martyres, con un sistema funerario sparso ma indifferenziato; così nella necropoli all'aperto cielo di Agrigento, prospiciente la catacomba della Grotta Fragapane, tra i templi di Giunone e di Ercole, all'interno della cinta muraria, nel settore meridionale della città; così nello sterminato cimitero di Santa Salsa a Tipasa; in quello salonitano di Manastirine; in quello sardo di Cornus (Oristano) dove risultano molto evidenti i segni della ritualità funeraria, sotto forma di mense marmoree o musive, di pozzi, letti funebri, negozi, elementi questi che non contribuiscono a differenziare alcuni settori dei cimiteri, proponendo qualche motivo di privilegio per alcuni sepolcri, ma che, anzi, sottolineano l'aspetto comunitario. Questo clima comunitario viene spesso infranto dal fenomeno delle "inumazioni privilegiate":  i primi segni del privilegio riguardano questioni eminentemente concrete, legate, per lo più, al potenziale economico del

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gruppo a cui appartiene il defunto, che possono comportare, innanzi tutto, privilegi di tipo monumentale, quando, cioè, si abbandonano le semplici fosse e i poveri loculi, optando per tombe più importanti, come gli arcosoli, i cubicoli e i mausolei. Il privilegio può consistere anche nelle decorazioni che, nei primi monumenti, appaiono appena percettibili e spesso combinate con un epitaffio, la cui presenza può anche essere considerata una vera e propria forma di differenziazione, dal momento che molte tombe risultano anepigrafi e aniconiche. È noto come quest'arte, prima sommessa nelle sue manifestazioni, quasi per proporre dei semplici elementi mnemonici, poi più organizzata e programmata, raggiungerà livelli ragguardevoli, se pensiamo alle "pinacoteche" romane dei Santi Pietro e Marcellino e di via Dino Compagni e ai sarcofagi di produzione romana, ispanica, provenzale e ravennate. Un altro importante segnale del "privilegio" è rappresentato dalla ricchezza e dalle caratteristiche del corredo, solitamente povero e, per molto tempo, confuso, negli scavi del passato con la suppellettile - specialmente ceramica o vitrea - pertinente, invece, al refrigerium. L'aspetto più caratteristico dell'associazione del corredo alle tombe paleocristiane sta, forse, nella consuetudine, più evidente nei complessi catacombali, di esporre i materiali, sistemandoli e fissandoli attorno ai loculi, dando

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luogo a una sorta di esplosione del corredo all'esterno del sepolcro, costituendo un singolare fenomeno di decorazione alternativa e succedanea delle "arti maggiori", ma anche un sintomo evidente di privilegio o, almeno, di distinzione, di caratterizzazione della tomba rispetto alle circostanti sepolture. 

La

monumentalità, la decorazione, la ricchezza del corredo propongono, comunque, aspetti del privilegio molto generali, rispetto a quello rappresentato dalla postazione assunta dalla tomba nell'ambito del contesto in cui è calata. Un primo caso di privilegio, in questo senso, è costituito dal sistema del gruppo di tombe speciali, siano esse riunite in un recinto, che distingue questa realtà dal resto della necropoli, sia quando si creano spazi particolari nell'ambito dei cimiteri comunitari. Per il primo gruppo

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possiamo ricordare i celebri esempi africani e, specialmente, quelli di Tipasa e Cherchel, ma anche quelli della necropoli di Alyscamps ad Arles, del cimitero di San Fruttuoso a Tarragona, dei complessi salonitani e della necropoli di Concordia Sagittaria, non lontana da Aquileia. Per l'altro gruppo dobbiamo citare, ancora a Tipasa, il cimitero orientale del vescovo Alessandro che, nel iv secolo, fece costruire per il clero locale un solenne ipogeo circolare. Anche nelle catacombe del suolo italico, sul modello della cripta dei Papi a San Callisto, si creano - come nel cimiteroad Decimum a Grottaferrata - delle aree riservate a gruppi speciali e, segnatamente, alla gerarchia ecclesiastica o agli operatori dei cimiteri (fossores). Un altro espediente per sottolineare il privilegio di una tomba è quello di isolarla rispetto alle aree comunitarie. Mi riferisco a casi eccezionali, come quello davvero speciale della tomba di Petrus Paparario, l'ebreo convertito sepolto nella basilichetta paleocristiana di Grado, dove il privilegio è vieppiù sottolineato dal fatto che tale monumento è addirittura situato entro la cinta muraria, fornendo, per il v secolo, uno dei primi esempi di sepoltura in urbe. Mi riferisco alla tomba del medico Dioscuro, amico di sant'Agostino, sistemata nell'absidiola della basilica apostolorum fatta edificare a Milano da sant'Ambrogio. E, rimanendo a Milano, vengono in mente le tombe laiche, ma monumentali e destinate, forse, agli

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imperatori, situate rispettivamente a lato della basilica di San Lorenzo e al centro del recinto del complesso di San Vittore al Corpo:  si tratta di due mausolei a pianta ottagonale, che sarà così cara alla cultura tardoantica milanese e al programma costruttivo di sant'Ambrogio, riferiti dalla critica alle tombe, poi non utilizzate, della famiglia di Teodosio e di Valentiniano ii, morto nel 392. Ci siamo, così, inoltrati nel campo delle sepolture imperiali, delle tombe privilegiate per mole, solennità, ma anche - come si diceva - per collocazione che spesso, si attesta nei pressi delle aree cimiteriali prestigiose a contatto con nobili basiliche e venerati santuari. Il fenomeno è ancor più evidente a Roma, quando consideriamo i due mausolei a pianta centrale annessi ai complessi dei Santi Pietro e Marcellino e di Santa Agnese, il primo costruito per Costantino e poi utilizzato per Elena e l'altro destinato a Costantina. Questi monumenti ci accompagnano verso il grande tema delle sepolture ad sanctos, che interessa la cultura cristiana sin dai primi momenti, forse già nelle necropoli miste, quando si innesca il desiderio di far riposare i propri cari presso alcune "tombe eccezionali". Lo si avverte, per esempio, nella necropoli vaticana, nell'area attorno alla tomba di Pietro, che sembra proporre una particolare concentrazione di sepolture, ma il fenomeno si svilupperà in maniera più chiara ed evidente nella seconda metà del

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iii secolo, con la definizione delle manifestazioni devozionali:  ad esempio nella memoria apostolorum della via Appia si accende quel culto martiriale che, di fatto, creerà i presupposti per quel rapporto di "vicinato" con il santo, che ha attratto l'attenzione di Peter Brown, lo studioso che meglio ha compreso gli intimi rapporti che legano, nei primi secoli, i defunti ordinari, i martiri e i santi. 

A due anni dalla morte di Michele Piccirillo archeologo francescano 

Un uomo di pace tra i segreti del monte Nebo

di Raffaele Alessandrini Il pellegrino diretto al santuario - quale che sia - non appena giunga alla mèta, dopo aver percorso un cammino più o meno lungo si sofferma, almeno per qualche istante, sulla memoria, sulle ragioni e sulle vicende che una volta per tutte hanno reso "santo" quel luogo. Degno cioè di attenzione e di venerazione e per questo capace misteriosamente di invitare tutti gli uomini lassù convenuti con animo sincero, a riappacificarsi e a scoprirsi fratelli, oltre le diversità, le distanze e le barriere tanto

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spesso determinate dalla storia. Il "semplice frate di Terrasanta", come si definiva padre Piccirillo, una volta raggiunti poco più che ragazzo i Luoghi santi, non avrebbe smesso per un momento di porsi domande, di studiare la terra che aveva sotto i piedi per portarne alla luce i segreti e le verità che essa conservava. Nel ripercorrere idealmente il cammino tracciato dall'archeologo francescano divenuto celebre nel mondo per gli scavi in Giordania sul Monte Nebo, tutto fa pensare che ad animare in lui lo spirito di ricerca fosse proprio la fresca sapienza del pellegrino che sa sempre trovare qualcosa di nuovo anche nel luogo a lui più familiare. Guarda, medita, e sa, che per conoscere in profondità le cose non basta una vita. Considerando il suo rapporto col monte Nebo, Piccirillo avrebbe potuto parafrasare quanto il pittore giapponese Hokusai era solito ripetere di sé:  "A tredici anni sapevo dipingere un paesaggio, a venti un albero, a quaranta un ramo e oggi, a

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sessanta, una foglia". Tale è l'impressione suggerita dal volume Michele Piccirillo francescano archeologo. Tra scienza e Provvidenza a cura di Giovanni Claudio Bottini e Massimo Luca (Milano, Edizioni Terra Santa, 2010, "Studium Biblicum Franciscanum Museum, 15", pagine 182, euro 18). La Custodia di Terra Santa e la Facoltà di Scienze Bibliche e Archeologia (Studium Biblicum Franciscanum) di Gerusalemme - le due istituzioni che padre Michele ha servito per tutta vita con lo studio, la ricerca e l'insegnamento - con la presente pubblicazione rendono omaggio a questo francescano, umile figlio del bistrattatissimo meridione d'Italia, che è stato uno dei maggiori archeologi del nostro tempo. Nato nel casertano, a Casanova di Carinola, il 18 ottobre 1944, da Giovanni e Antonietta Mignacca, Michele Peccerillo, divenne "Piccirillo" per un evidente errore dell'ufficiale dell'anagrafe quando il suo nome fu registrato un mese dopo la nascita, il 18 novembre di quello stesso anno. Rimase nel suo paese fino a 11 anni dove ricevette la prima formazione scolastica e religiosa quindi, nel 1955, si trasferì a Roma, nel Collegio di Terra Santa dove frequentò la scuola media. Per il biennio ginnasiale fu a Monteripido di Perugia in Umbria. Fin dal quinquennio

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superiore il giovane si distinse per intelligenza e vivacità, manifestando una grande passione per la Terra Santa dove poi si sarebbe trasferito nel settembre del 1960. Visitò Gerusalemme e gli altri luoghi santi quindi entrò al convento di Emmaus Qubeibeh dove compì l'anno di noviziato, vestendo l'abito francescano e pronunciando poi la prima professione di voti il 4 ottobre 1961. Negli anni Sessanta Michele Piccirillo proseguì i suoi studi e dopo una fase di riflessione culminata con un momento di intensa attività caritativa, e di volontariato prestato durante il conflitto arabo-israeliano del 1967 - la cosiddetta Guerra dei sei giorni - si convinse della giustezza della sua scelta di vita. Pronunciò nel giugno dello stesso anno i voti solenni e nel 1969, nel paese natale di Carinola, fu ordinato sacerdote. Anche i suoi interessi culturali che inizialmente si orientavano verso l'arte e la letteratura, durante il corso di teologia si diressero decisamente verso gli studi biblici e l'archeologia. A Roma ultimò i suoi studi. Conseguì la licenza in teologia al Pontificio Ateneo Antonianum, la licenza in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico e si laureò in Archeologia all'Università La Sapienza. Fin dal 1972 padre Piccirillo aveva peraltro iniziato a lavorare sul campo collaborando ai restauri dei mosaici della chiesa dei Santi Lot e Procopio a Città del Nebo (Khirbet el-Mukhayyet) in Giordania, una terra che egli da

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allora avrebbe amato come una seconda patria. Tornato a Gerusalemme, dall'anno accademico 1974-1975 cominciò a insegnare allo Studium Biblicum Franciscanum e allo Studium Theologicum Jerosolymitanum. Nello stesso periodo gli fu anche affidata la direzione del museo della Flagellazione. A tali incarichi, che avrebbe assolto fino alla morte, se ne sarebbero aggiunti altri di diverso genere e di differente durata. Dal 1990 al 2000, tra l'altro, insegnò Archeologia e Geografia biblica al Pontificio Istituto Biblico. Il presente volume si rivela pertanto utile a chiunque non solo voglia conoscere la personalità dell'uomo e del religioso, ma intenda avviare anche uno studio approfondito sull'archeologo. Un'attività che ha conosciuto momenti significativi quali la scoperta del mosaico nel diacronico del Memoriale di Mosè nel 1976; l'identificazione storica di Umm-er-Rasas- Kastron Mefaa della Bibbia - di cui parlano i libri di Giosuè e di Geremia - nel 1986; l'avvio della Madaba Mosaic School nel 1992; la pubblicazione del volume monumentale The Mosaics of Jordan, sponsorizzata dall'American Center of Oriental Research - per il quale ebbe la prefazione di re Hussein di Giordania - nel 1993. E ancora:  il recupero per lo studio archeologico e la visita dei pellegrini dell'antico santuario del Battesimo di Gesù a Betania al di là del Giordano nel 1996, fino ad allora zona

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militare; e l'organizzazione del congresso internazionale per il centenario della Carta Musiva di Madaba del 1997, nel quale Piccirillo riuscì a coinvolgere studiosi di differenti Paesi del Medio Oriente compresi israeliani e occidentali. Sempre a lui si deve l'inaugurazione del Mount Nebo Interpretation Centre del 2001. Infine, ma non ultimo va ricordata la visita al Monte Nebo di Papa Giovanni Paolo II al quale padre Michele fece da guida nel 2000. 

Tra le sezioni del libro risaltano anche un'ampia e articolata bibliografia ragionata nonché una cronologia delle attività archeologiche e di diversi progetti di lavoro. Un repertorio dai contorni ampi e articolati, derivante dagli appunti che il religioso metodicamente

annotava nei suoi diari. 

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Un'idea sommaria della bibliografia di padre Piccirillo la si può avere accennandone alcuni argomenti:  Bibbia e archeologia (Antico e Nuovo Testamento, Santuari cristiani e Altro); Giordania (Nebo, Madaba, Umm al-Rasas, Macheronte, Mosaici, Chiese e monasteri, Altri siti); Israele e Palestina (Archeologia e arte, Sinai, Religione, Vite dei santi, Monachesimo); Gerusalemme (Santo Sepolcro, Tomba della Madonna); e ancora Siria; Geografia; Custodia di Terra Santa (I francescani in Terra Santa, Studium Biblicum Franciscanum); Museo. Padre Michele Piccirillo, che fu anche prezioso collaboratore e amico del nostro giornale, morì il 26 ottobre del 2008, ucciso da un male incurabile affrontato con reattivo coraggio e con fede luminosa nella consapevolezza che "fare la volontà di Dio è il vero fine della nostra vita". Numerose nel volume sono le testimonianze, talune anche molto belle e autorevoli, di amici, conoscenti e confratelli dell'archeologo francescano; particolarmente significativo però sembra soprattutto quanto lo stesso padre Michele da francescano di Terra Santa dice a proposito di tutta la sua opera, da lui intesa come servizio alla causa della pace. Qualche tempo prima di morire scrive così:  "Tra i modi per contribuire all'intesa e alla pace tra le popolazioni del Medio Oriente, al Nebo abbiamo scelto quello che è più congeniale con il nostro lavoro di archeologi. Dopo

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trent'anni di attività dobbiamo confessare che ne siamo stati ampiamente ripagati non soltanto sul piano professionale, ma anche come frati minori seguaci di Francesco che in Egitto andò a parlare pacificamente con il sultano Malik al-Kamil, nipote di Saladino. Il restauro dei mosaici, in gran parte pavimenti delle chiese costruite nella regione dal quinto all'ottavo secolo, ci ha dato la possibilità di conservare un patrimonio d'arte e di fede e di sviluppare parallelamente un'opera di dialogo e di amicizia che sono i fondamenti della pace". 

L'incontro tra la paideia greca e il cristianesimo primitivo 

E l'uomo fu rivelato all'uomo

Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute a San Marino in occasione del convegno "Pensiero classico e cristianesimo antico. A cinquant'anni dalla pubblicazione del volume di Werner Jaeger Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961)" organizzato dalla Fondazione internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa. 

di Leonardo Lugaresi 

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Il grande merito di un libro come Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961) è quello di individuare nella paidèia il terreno di incontro e, più ancora, l'elemento fondamentale del rapporto tra cristianesimo ed ellenismo. L'idea fondamentale della paidèia greca - così come Werner Jaeger l'ha sentita in prima persona e mirabilmente illustrata nella sua opera principale, Paideia. La formazione dell'uomo greco - è che l'uomo diventa uomo solo grazie a un processo di formazione che si compie attraverso la cultura (sia essa cultura retorica, come in Isocrate, o cultura filosofica come in Platone, o la fusione di entrambe, come prevalentemente accade, ad esempio, nella Seconda Sofistica). "Nell'educazione", egli afferma sin dalla prima pagina del suo capolavoro, "opera quella medesima volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo della coscienza e della volontà umana

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consapevoli". L'umanità, dunque, non è un dato naturale, biologico, ma un portato della cultura:  l'uomo è veramente e pienamente uomo solo grazie ai lògoi,

alle humanae litterae. Ora, la posizione del cristianesimo rispetto a questo assunto fondamentale della cultura greca (e poi greco-romana) è dialettica, e non presenta quella totale corrispondenza che sembra emergere dal libro di Jaeger:  sta in questo, a mio avviso, il suo limite principale. A Jaeger preme mostrare la corrispondenza tra cristianesimo ed ellenismo, e certo lo fa in

modo profondo ed efficace, ma il suo corre il rischio di essere un approccio unilaterale, che finisce per vedere nell'ellenismo il momento di inveramento del cristianesimo. Quando, ad esempio, fa sua con entusiasmo l'affermazione di Droysen che senza l'ellenismo "sarebbe stato impossibile il sorgere di una religione cristiana universale", assume una posizione su cui, dal punto di

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vista cristiano, ci sarebbe molto da ridire. Non serve moltiplicare le citazioni:  questa è l'impostazione di Cristianesimo e paideia greca, la lente con cui legge tutta la vicenda dei rapporti tra cristianesimo e ellenismo, e va presa e apprezzata per quello che di importante può dirci ancora oggi, senza però dimenticare quello che non vede. È naturale, per fare un solo esempio, che da quel punto di vista a Jaeger risulti "veramente rivelatore" il profilo che di Origene fa Porfirio,  e  appaia  già risolta la complessa questione del rapporto tra il pensiero origeniano e la filosofia greca. Certo, è indubbio che il cristianesimo assume totalmente la prospettiva della centralità dell'educazione, ed è convinto, sin dalle origini, della necessità di un lavoro culturale perché l'uomo realizzi pienamente la sua umanità. Del resto, qual è la forma iniziale con cui la compagnia di Cristo e dei suoi si presenta nel mondo? Un maestro attorniato dai suoi discepoli. È questo un tratto distintivo che il cristianesimo ha sempre avuto, dagli inizi della sua vicenda storica, quando nel rapporto con il mondo greco-romano ha preso le distanze dagli altri culti e si è voluto piuttosto avvicinare alle filosofie, anzi si è posto come la "vera filosofia", fino ad oggi:  basti pensare a come il magistero di Giovanni Paolo ii si sia incardinato sulla convinzione che genus humanum arte et ratione vivit, secondo la nota formula tomista da lui richiamata sin

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dal suo primo discorso all'Unesco nel giugno del 1980, e a come tutto l'insegnamento di Benedetto XVI si sviluppi in un paziente lavoro di educazione della ragione dell'uomo contemporaneo. Si potrebbe quasi dire, come è stato argutamente osservato, che il cristiano è sempre, per definizione, un intellettuale, anche quando si tratta di un contadino analfabeta, perché gli è comunque richiesto - ovviamente nei limiti e nei modi appropriati alle sue capacità intellettuali - di conoscere e comprendere un credo. La fede, per darsi, deve in qualche modo comprendere ciò che crede, e questo esige da ciascun credente un vero e proprio percorso di conoscenza. Gli studiosi di storia del cristianesimo antico e di letteratura cristiana antica sono abituati, per deformazione professionale, a considerare l'omiletica e la catechetica cristiana dei primi secoli solo dalla parte degli autori, o al massimo a porsi il problema dei destinatari e dei modi di circolazione dei testi ma guardandoli sempre dall'esterno, come termini di un processo di cui conta soprattutto il punto di partenza:  non si pensa quasi mai all'ascolto e all'assimilazione di quegli stessi testi nei termini di un vero lavoro intellettuale. Certo, lo stato delle fonti non ce lo permette più di tanto, ma se un po' lo facessimo - anche solo come esercizio mentale - capiremmo meglio l'eccezionalità, e non solo relativamente a quel tempo, di una prassi catechetica che proponeva a tutti, anche alle

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categorie escluse dalla paideia classica, un vero e proprio percorso di apprendimento. Spunti preziosi, in questo senso, si potrebbero ricavare dalle omelie di Giovanni Crisostomo, dove non sono rari gli accenni che il predicatore fa, anche entrando nei dettagli, al lavoro di ripresa del suo insegnamento che si aspetta dai fedeli una volta tornati a casa. Il principio antropologico cristiano, però, è del tutto diverso da quello greco:  ciò che rende umano l'uomo è la "relazione creaturale", non la cultura. L'uomo è uomo non in quanto sa, ma in quanto ama, e può amare perché prima è stato a sua volta "creativamente amato". L'uomo è uomo perché è l'amore di Dio a costituirlo come tale. È l'amore creativo della Trinità che lo costituisce nella sua umanità, non la cultura. Si noti che questo principio rimane vero anche quando dal piano individuale si passa a quello collettivo, "politico":  non solo l'identità dell'uomo cristiano è costituita dalla relazione, ma anche quella del "popolo" cristiano, giusta la celebre definizione ciprianea della Chiesa come de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata (De oratione dominica, 23) ripresa nel quarto capitolo della Lumen gentium. Quella cristiana è dunque un'"etnia sui generis", per usare l'espressione cara a Paolo vi, perché trova il proprio criterio di identificazione non nel sangue o nella cultura, ma nella relazione trinitaria. 

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Da questo assunto, tuttavia, non scaturisce affatto un atteggiamento anticulturale, nonostante la dichiarata preferenza di Gesù per i semplici rispetto ai sapienti e agli intelligenti (Matteo, 11, 25), la sottolineatura, spesso presente nell'apologetica cristiana, dell'ignoranza degli apostoli e della rozzezza del loro sermo piscatorius e nonostante una certa "posa" che a volte taluni cristiani assumono e che trova la più paradossale espressione nella famosa domanda di Tertulliano:  Quid ergo Athenis et Hierosolymis? quid academiae et ecclesiae? (De praescritione haereticorum, 7). Domanda retorica quant'altre mai, non solo perché contiene già la sua risposta, ma anche nel senso che è il frutto di una retorica raffinata, esibita proprio nel momento stesso in cui se ne rifiuta la pertinenza al cristianesimo. In realtà questa linea "anticulturale", se così possiamo dire, è prevalentemente combattuta dagli autori cristiani e bollata come agroikìa, cioè come rozzezza, e accusata di ostacolare l'approfondimento della fede in conoscenza. Come lamenta Clemente Alessandrino, "a quanto pare, i più di coloro che si fregiano del nome (di cristiani), come i compagni di Ulisse, coltivano il Lògos rozzamente:  essi passano oltre, non alle Sirene, ma al ritmo e alla melodia, essendosi turati le orecchie per ignoranza, giacché sono persuasi che non ritroverebbero più la via del ritorno una volta porto orecchio alle dottrine greche" (Stromati 6, 89,

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1) Questa difesa della cultura non è un elemento accessorio o una conseguenza secondaria del cristianesimo, ma una sua esigenza vitale:  essa ha una motivazione di fondo, che costituisce anche il punto di incontro con la paidèia greca. Il fatto è che la relazione di Dio con l'uomo, di cui sopra abbiamo detto che è costitutiva dell'identità umana, nel cristianesimo è concepita e rappresentata essa stessa in termini di educazione. Quella relazione, cioè, è essenzialmente una relazione educativa, una pedagogia; e ciò è possibile perché il lògos, inteso come ragione (con i lògoi, cioè la cultura, che ne sono il frutto), è il termine comune tra Dio, che si rivela nel Lògos, e l'uomo. Questo è un aspetto che Jaeger coglie molto bene, in uno dei passaggi più felici del libro, quando, rifacendosi al lavoro di Hal Koch, Pronoia und Paideusis(1932), parla di Origene e della sua "concezione del cristianesimo come paideia del genere umano" e in quanto tale "adempimento della divina provvidenza". Questa fondamentale intuizione, che l'amore di Dio verso l'uomo si esplica in una paidèia dell'umanità, che comincia dalla creazione di Adamo ed Eva, prosegue nel rapporto con il popolo eletto e culmina nell'azione pedagogica del Lògos, rende possibile - anzi in un certo senso richiede - l'assunzione da parte cristiana della centralità del concetto di paidèia, come è perfettamente illustrato dal piano generale

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dell'intera opera di Clemente Alessandrino, che si presenta come omologa al piano di Dio, secondo la scansione del Lògos Protrettico, Pedagogo e Didàskalos. Diventa allora assai interessante riflettere sul rapporto tra il cristianesimo e la scuola, tema a cui Jaeger accenna più volte nel corso del libro, in particolare quando parla della scuola di Origene a Cesarea, dell'esperienza formativa ad Atene del giovane Gregorio di Nazianzo e del suo amico Basilio di Cesarea e del famoso Discorso ai giovani in cui quest'ultimo tratta del modo in cui gli studenti cristiani possono trarre profitto dalla lettura degli autori pagani. 

Il culto dei due apostoli nei graffiti della via Appia

Rozzi «viatores»

per Pietro e Paolo

di Carlo Carletti

Nell'opinione corrente,

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abbondantemente alimentata dall'azione di un malinteso turismo religioso-culturale, il culto dei santi Pietro e Paolo è per lo più collegato ai due siti "storici" che, per primi, accolsero la loro memoria funeraria:  le due aree sepolcrali in Vaticano e sulla via Ostiense, rimaste quasi nascoste per tre secoli e poi, nel primo trentennio del iv secolo, "segnalate" e rese visibili dall'iniziativa evergetica di Costantino con la costruzione di due monumentali basiliche, che assolsero alla duplice funzione memoriale e sepolcrale. Ma, in relazione a una diffusa e partecipata utenza popolare, la storia della devozione dei martiri del 29 giugno, trova senza dubbio il suo punto di riferimento più rilevante, in termini di spessore documentario e definizione cronologica, nel complesso della memoria apostolorum sulla via Appia:  un semplice e quasi dimesso cortile porticato su tre lati (triclia), che, dagli anni 250-260 e fino a circa il primo decennio-ventennio del iv secolo (cioè fino alla costruzione della basilica costantiniana che vi si sovrappose), vide la frequentazione di parecchie migliaia di visitatori lì richiamati da una tradizione che in quel sito aveva fissato una memoria dei due apostoli. Che questa tradizione si sostanziasse di una presenza reale o presunta di reliquie o che si fondasse sull'immaginario devozionale di una sosta temporanea degli apostoli al loro arrivo a Roma, è argomento di difficilissima decifrazione, sul quale peraltro in passato si sono affaticate le menti di molti studiosi senza giungere a risultati pienamente plausibili:  a ipotesi sono susseguite altre ipotesi e così via, per quasi un secolo. Al di là delle divergenti posizioni della critica, c'è un dato storico oggettivo e incontestabile:  le infrastrutture della triclia (pozzo,

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canalizzazione, banchi in muratura) e soprattutto le circa cinquecento iscrizioni graffiate sull'intonaco delle pareti indicano in questo ambiente un centro di culto funerario, nel quale i visitatori consumavano il pasto rituale del refrigerium, lasciando testimonianza scritta di un atto devozionale compiuto in onore di Pietro e Paolo. I visitatori, per lo più provenienti dalla città stessa o dalle regioni circonvicine, si rivelano complessivamente poco pratici nello scrivere:  tracciano "a fatica", con strumenti occasionali (chiodi o spilloni) non sempre idonei allo scopo, rozze e spesso deformate lettere capitali (peculiari dei semialfabeti) talvolta alternate a caratteri minuscoli:  esiti grafici tipici di chi era rimasto al livello minimale delle cosiddette competenze "elementari di base", apprese ai primissimi gradini dell'istruzione elementare; analogamente sul piano linguistico - pur trattandosi di testi di estensione mediamente molto ridotta - emergono molteplici e caratteristici fenomeni grafo-fonetici, che riflettono la lingua della quotidianità in uso negli strati sociali di medio-basso livello culturale. La gran parte di queste scritte, latine e in misura minore greche, contiene preghiere e invocazioni rivolte a Pietro e Paolo, espresse generalmente nelle locuzioni "ricordatevi del tale" (in mente habete, eis mneían échete), "proteggete il tale" (synterésate, terésate), "pregate per il tale" (petite, orate, rogate pro), "aiutate il tale" (subvenite, adiutate) sia in riferimento ai vivi sia in ricordo di congiunti defunti. Le strutture formulari, pur stereotipe e ripetitive, lasciano comunque trasparire la spontanea e quasi confidenziale consuetudine di un rapporto interpersonale con i due apostoli, che, per oltre duecento volte, sono direttamente

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evocati per nome, senza - salvo poche eccezioni (Inscriptiones christianae, v, 12955, 13002, 13600) - la titolatura di martyres, sancti, beati, che diverrà ufficiale nella seconda metà del iv secolo e senza le locuzioni fissate nella prassi liturgica, che, in diversa ambientazione culturale, avrebbero per esempio suggerito se non obbligato il normativo Petre et Paule mementote ("Pietro e Paolo ricordatevi di") in luogo del "popolare" Petre et Paule in mente habete, che è la formula incipitaria base che introduce la gran parte delle iscrizioni devozionali della memoria apostolorum:  non a caso tra i visitatori vi è una ridottissima presenza di ecclesiastici che, rispetto ai laici, quasi naturalmente avrebbero potuto veicolare lessico e formule di estrazione liturgica. I viatores - così si autodefiniscono i devoti frequentatori (Inscriptiones christianae, v, 12988, 12963) - si recavano in questo sito della via Appia per lo più in gruppi familiari, ma non mancano aggregazioni più ampie e articolate che possono definirsi comunitarie. Agli apostoli si richiede di "intercedere" per chi era fisicamente presente o per amici e parenti assenti:  "Pietro e Paolo intercedete (petite) per Vittore"; "Paolo e Pietro intercedete (petite) e pregate (rogate) per Eros"; "Pietro e Paolo intercedete per F... e Quinta perché possano raggiungervi (ut possimus ad vos venire)" (Inscriptiones christianae, v, 12989, 12937, 12970). Nelle intenzioni degli scriventi emerge anche un intento devozionale-commemorativo, laddove all'intercessione degli apostoli vengono affidati i fedeli defunti, definiti - con espressione tipicamente popolare - spirita sancta, "anime sante":  "Pietro e Paolo ricordatevi delle anime sante, Marco e...". (Inscriptiones christianae, v, 12954).

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Le richieste di protezione sono talvolta motivate con espliciti riferimenti alla quotidianità:  un tale Restitutus chiede di poter sperare in una buona navigazione (nabiga - cioè naviga - felix) e un visitatore, rimasto per noi anonimo, anche a nome dei compagni di viaggio, chiede protezione per un'imminente traversata:  rogo vos ut bene navigent (Inscriptiones christianae, v, 12973, 12959). In questo ambito non ci si aspetterebbe di trovare un numero consistente di graffiti figurati che rappresentano le immagini di cavalli paludati con la testa palmata (Inscriptiones christianae, v, 13088 a-c, 13089 a-d):  traducono con ogni evidenza - seppure con qualche reticenza - la speranza del favore dei due apostoli per la vittoria del cavallo o dell'auriga preferiti nelle corse del circo ovvero un'ingenua forma di gratiarum actio per una richiesta esaudita. In un ambito come quello della memoria apostolorum, funzionale nelle sue strutture per lo svolgimento della mensa funeraria, vi sono naturalmente espliciti riferimenti al banchetto funerario - il refrigerium - consumato in onore di Pietro e Paolo. Una pratica atavica che dall'ambito familiare e collegiale dei comuni mortali si inserisce nello specifico devozionale connesso al culto dei martiri dove acquisisce una dimensione comunitaria, che proprio nella memoria apostolorum della via Appia trova la sua più antica esemplificazione, in forma di specifici moduli epigrafici:  Tomius Coelius refrigerium fecit; Dalmatius / votum eis (cioè agli apostoli) promisit / refrigerium; xiiii kal(endas) apriles / refrigeravi / Parthenius laddove è da notare l'inserimento del giorno del mese - il 19 marzo - nel quale Partenio consumò un pasto in onore degli apostoli (Inscriptiones christianae, v, 12981). Ma qui refrigerium è anche impiegato in senso traslato (un tipico

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slittamento semantico), in riferimento cioè non più al banchetto reale, ma a quello ultraterreno della felicità eterna:  "Pietro e Paolo prendete con voi nell'eterno refrigerio (ad se adugant et in aeterno refrigerio) le vostre anime sante; Petre et Paule / in mente abete / Ursinum in refrigerium, che anche qui è quello eterno dell'aldilà (Inscriptiones christianae, v, 12975, 12993). Il carattere indubbiamente "popolare" e nel contempo di vasta e pubblica fruizione che emerge in questa documentazione epigrafica, costituisce la cifra caratterizzante dell'origine e del primo sviluppo del culto di Pietro e Paolo a Roma. Quanto tuttora si osserva sulle pareti del cortile porticato al terzo miglio della via Appia, è il segno esplicito di una pratica devozionale venuta e gestita dal "basso", che solo dopo circa un cinquantennio viene ufficialmente legittimata e quindi monumentalizzata con gli interventi prima di Costantino e poi di Damaso. La genesi e il primo sviluppo di questa realtà devozionale insediatasi al terzo miglio della via Appia sfugge totalmente alla rete del modello interpretativo - presuntivamente onnicomprensivo - delineato da Peter Brown (Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino, 2002), che vede nella nascita del culto dei martiri e dei santi un fenomeno di "riassetto sociale" (la riproposizione del rapporto patronus - clientes), voluto, promosso e gestito dall'autorità ecclesiastica e specificamente dal vescovo. E in questo caso nemmeno reggerebbe la vecchia teoria illuministica dei "due piani" (David Hume, Edward Gibbon), cioè della tensione tra le esigenze semplici e banali del "volgo" e quelle più alte ed esigenti delle élites, laiche ed ecclesiastiche.

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La più antica immagine di san Giovanni Battista si trova nelle cripte romane di Lucina

Risalendo dalle acque del Giordano

di Giovanni Carrù Nel settore settentrionale del comprensorio callistiano, si sviluppa una delle aree più antiche delle catacombe romane, riferibile, nella sua prima concezione, già nella seconda metà del ii secolo e definita con il toponimo di "cripte di Lucina", per il fatto che - secondo la tradizione - una matrona di nome Lucina, con l'aiuto di alcuni presbiteri, raccolse le spoglie del pontefice Cornelio (251-253) per deporle in una cripta scavata nel suo praedium sulla via Appia. Ma l'area, come si diceva, presenta segni di antichità, che ci rimandano alle prime manifestazioni catacombali nel suburbio romano. Specialmente un cubicolo doppio presenta decorazioni pittoriche estremamente precoci, da riferire ai primi decenni del III secolo, proponendo, così, una delle espressioni più antiche dell'arte cristiana. I due ambienti sono interessati da affreschi che ricordano le immagini dell'orante, del buon pastore, dei "pesci

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eucaristici", ma anche un'immagine speciale, che rimanda alla prima rappresentazione del battesimo di Cristo, secondo uno schema, estremamente semplice, rispettando i canoni della più antica arte cristiana. L'affresco, benché recentemente restaurato, appare molto svanito, ma lascia intravedere la figura del Battista sulla sponda del Giordano, mentre aiuta il Cristo a risalire dalle acque del fiume. Sulla scena si riconosce la figura della colomba che vola, a mezza altezza, per indicare la presenza dello Spirito, che sovrintende al mistico evento. La semplice raffigurazione sembra tradurre in immagine il luogo evangelico "Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua; ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui" (Matteo, 3, 16). L'ultimo e più grande profeta dell'Antico Testamento e precursore del Cristo nella predicazione e nel battesimo, Giovanni Battista, dopo questa prima suggestiva manifestazione nelle cripte di Lucina, compare in altre scene battesimali, ancora in ambienti catacombali e, in particolare, nei cubicoli dei Sacramenti, sempre a San Callisto, nel cimitero di Domitilla, in quello di Ponziano, ma anche nel sarcofago di Santa Maria Antiqua, nel sarcofago della Lungara e in quello di Giunio Basso, tra la fine del iii e il iv secolo. È sintomatico che l'arte cristiana delle origini selezioni il momento particolare del battesimo, in perfetto ossequio con il carattere cristocentrico della cultura figurativa più antica. Eppure, negli stessi anni, i Padri della Chiesa ricordano la nascita del precursore, i suoi genitori Zaccaria ed Elisabetta (Luca, 1, 5 - 25), la sua attività apostolica, la sua morte (Marco, 6, 17 - 25), mentre nello scritto apocrifo, definito Protovangelo di Giacomo si fa

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riferimento al fatto, secondo cui, dopo la sua morte, il corpo dovrebbe essere stato deposto a Sebaste, dove godeva di un culto, anche se la sua tomba fu distrutta al tempo di Giuliano l'Apostata (Rufino, Historia Ecclesiastica 2, 28). Com'è noto, molte basiliche e, segnatamente, molti battisteri furono dedicati al Battista e, in particolare, ad Alessandria, a Roma e a Ravenna. In quest'ultima città, i due battisteri, rispettivamente degli ortodossi e degli ariani, accolgono nello zenit delle cupole decorate in mosaico, proprio la scena del battesimo del Cristo. In queste scene, fin dalle prime manifestazioni, il Battista assume dimensioni più importanti rispetto al Cristo, nel senso che, nella gerarchia delle proporzioni, san Giovanni è il primo attore ed il protagonista dell'azione del battesimo. Dal v secolo, accanto alla scena dell'iniziazione del Cristo da parte del Battista, si diffondono altri temi ispirati all'annunciazione a Zaccaria ed Elisabetta, alla nascita di Giovanni, al cantico di Zaccaria, alla fuga di Elisabetta, specialmente nei codici miniati, a cominciare dall'Evangelario di Rabbula e continuando con quello sinopense di Parigi. La figura del Battista appare in tutta la sua enfasi nell'arte bizantina e, segnatamente, nell'oratorio di San Giovanni in Laterano, nella cattedra eburnea di Massimiano, nella basilica di Santa Maria Antiqua. Per quanto riguarda gli edifici di culto dedicati al Battista, esiste un antico memoriale in Palestina, forse riferibile al v secolo, nel sito di Qasr el-Jehud, sorto nel luogo dove, secondo la tradizione, avvenne il battesimo del Cristo, mentre, a Sebaste - come si è anticipato - un monumento basilicale doveva essere stato eretto

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sul sepolcro del precursore. A Costantinopoli vennero dedicati a Giovanni Battista oltre una quindicina di edifici di culto. L'iconografia tradizionale del precursore, "vestito di pelli di cammello con una cintura di cuoio attorno i fianchi (...) mentre si cibava di locuste e di miele selvatico" (Matteo, 3, 4) nasce solo nel medioevo.

Dopo quelle di Paolo e di Pietro vengono alla luce nelle catacombe di Santa Tecla

le più antiche rappresentazioni iconografiche devozionali di Andrea e Giovanni

Il laser svela gli apostoli

Risalgono al IV secolo gli affreschi scoperti sulla via Ostiense grazie a moderne tecniche di indagine

Nella mattinata di martedì 22 giugno si è svolta a Roma, presso la basilica di San Paolo fuori le Mura, la conferenza stampa di presentazione delle ultime scoperte archeologiche emerse all'interno delle catacombe romane di Santa Tecla nel corso degli scavi e dei restauri curati dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Pubblichiamo i contributi degli esperti che hanno partecipato all'incontro:  Fabrizio Bisconti, sovrintendente archeologico delle catacombe, Barbara Mazzei, responsabile del restauro, e Giovanni Carrù, segretario della commissione. È intervenuto anche l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di

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Archeologia Sacra che, nel testo seguente, illustra i dettagli della scoperta.

di Gianfranco Ravasi

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Il delicato e meticoloso intervento di restauro, avviato due anni orsono, nel cubicolo dipinto delle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, offrì una importante sorpresa proprio lo scorso giugno, quando si concludevano le celebrazioni dell'anno paolino. In quell'occasione, attraverso le pagine de "L'Osservatore Romano", i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, annunciavano la scoperta di una suggestiva raffigurazione di san Paolo, rappresentato in busto, in un clipeo aureo, databile agli ultimi anni del iv secolo o ai primi del seguente, assurgendo, così, agli onori della più antica icona di san Paolo. L'immagine pensierosa dell'apostolo delle genti fece il giro del mondo, emozionando devoti e studiosi, che cercavano in quel volto il carattere, la sapienza, la psicologia del più raffinato pensatore del cristianesimo della prima ora. Gli occhi spalancati,

le rughe di atteggiamento, le guance scavate, la calvizie, la lunga e scura barba appuntita assicurarono anche i più scettici che ci si trovava dinanzi al ritratto volitivo e graffiante di chi cambiò radicalmente il suo stile di vita, in nome di una folgorante conversione. E proprio mentre il laser, usato dai restauratori per la prima volta in un ambiente catacombale angusto ed

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estremamente umido, definiva, in tutti i suoi particolari, nel soffitto del cubicolo spuntò un altro clipeo campito dal busto di Pietro, riconoscibile dalle peculiarità fisionomiche tipiche dei più antichi ritratti dell'apostolo-pescatore:  la chioma e la barba bianca, il volto squadrato, le sembianze tipiche di un uomo anziano. I responsabili della Commissione chiesero, a quel punto, alla stampa e agli specialisti il tempo utile per restaurare l'intero cubicolo, promettendo altre importanti scoperte, intuite dagli addetti ai lavori, ma bisognose di verifiche, di studi approfonditi, di ordine iconografico, storico artistico e stilistico. I restauratori tornarono al lavoro con il prodigioso strumento nel silenzio e nel buio delle catacombe di Santa Tecla. Non è stato semplice, in questi mesi mantenere la tranquillità necessaria per procedere coerentemente nel lavoro di asportazione delle concrezioni scure che avevano obliterato quelle importanti pitture. E non è stato facile neppure mantenere segrete le scoperte che si succedevano, emozionando, prima, i restauratori e, poi, i responsabili scientifici del restauro che, come è evidente, comunicavano solo ai Superiori le novità, che provenivano da quel fortunato intervento conservativo. Oggi i tempi sono maturi per svelare, nella sua interezza, la scoperta del programma decorativo del cubicolo, che si propone come una sontuosa e decorata tomba di una nobildonna, appartenente all'aristocrazia romana dell'ultimo scorcio del IV secolo, quando a Roma si consumavano gli ultimi tentativi del senato di arroccarsi nella difesa estrema di una religione pagana, che, proprio al tempo di Teodosio, proporrà le sue ultime manifestazioni.

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Ebbene, la Roma degli "ultimi pagani" era anche la Roma di una sistematica cristianizzazione, che, appunto, toccherà anche i più alti livelli della gerarchia dell'impero. San Girolamo è molto vicino a un gruppo di pie matrone, che iniziarono a praticare forme di "ascesi domestica", a cominciare da Marcella, che si rinchiuse in periferia nel suo palazzo dell'Aventino, dando avvio ad un tipo di vita religiosa riservata alle matrone della "Roma bene", che intrattenevano con Girolamo un fitto scambio di lettere e che, in qualche caso, la seguirono sino in Terra Santa, alla ricerca dei luoghi della memoria dei patriarchi, dei profeti, del Cristo e degli apostoli. Le vedove, le vergini, le pie donne dell'aristocrazia romana promossero anche un culto nei confronti dei martiri romani, sulla scia del progetto politico-religioso di Papa Damaso, ma anche nei confronti degli apostoli. Le memorie di questi ultimi, d'altra parte, furono collocate al centro dell'Apostoleion costantinopolitano,

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voluto da Costantino nella nuova Roma per accogliere le sue stesse spoglie. E sant'Ambrogio, nella basilica apostolorum fatta costruire a Milano sulla via romana, fece sistemare al centro della basilica cruciforme le reliquie degli apostoli provenienti da Concordia, da Aquileia o da Roma. Il nostro percorso, che ha attraversato i luoghi salienti del culto per gli apostoli e che potrebbe anche toccare Antiochia, Gerasa, Aosta e infiniti altri centri dell'orbis christianus antiquus, ci riporta a Roma e al cubicolo di Santa Tecla. Su quel soffitto, che imitava un prezioso cassettonato, oltre alle immagini di Paolo e di Pietro, sono venute alla luce altri due clipei che accolgono due apostoli ben caratterizzati fisiognomicamente:  uno mostra l'irruenza e la potenza di Andrea, l'altro la delicatezza e l'aspetto giovanile di Giovanni. Queste ultime identificazioni, confortate dal confronto con monumenti musivi ravennati (Battistero degli

ortodossi, Battistero degli ariani, Cappella arcivescovile, Basilica di San Vitale, Basilica di Sant'Apollinare Nuovo), ma anche orientali (Monastero di Santa Caterina al Sinai), che, spesso, mostravano le

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didascalie di definizione, ci permettono di considerare i due busti come e le più antiche rappresentazioni di Andrea e Giovanni. Il laser ha continuato a svelare, in questi mesi, altre immagini, appena intraviste dagli studiosi del passato e, così, nell'ambiente antistante il cubicolo, modificato per l'apertura di un grande lucernario, accanto alle rappresentazioni del Cristo maestro, del paralitico, di Lazzaro, di Daniele tra i leoni è apparso un maestoso collegio apostolico dipinto su uno squillante fondo rosso definito da fasce azzurre e serti fioriti, mentre, ai piedi degli apostoli, è stata scoperta una teoria di sei ovini che si abbeverano, anticipando un tema caro ai grandi scenari musivi dei catini absidali romani, pronti ad accogliere le teofanie di ispirazione apocalittica. Il cubicolo presenta una semplice pianta quadrata con tre arcosoli ai lati, secondo l'organizzazione dei mausolei nobiliari, che si addensavano attorno ai grandi santuari martiriali del suburbio romano. Ebbene, in uno degli arcosoli è apparsa l'immagine di una nobildonna, sontuosamente abbigliata e ingioiellata, in compagnia della figlia orante, tra due santi che introducono

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le defunte nell'aldilà. Questa defunta va, presumibilmente identificata con una di quelle nobildonne di cui si diceva in apertura. Il resto del cubicolo è costellato di scene bibliche (Giona, Daniele, Pietro che fa scaturire l'acqua nel carcere Tulliano, Maria con i Magi, Abramo e Isacco) rappresentate contro fondali neri incorniciati da fasce gialle e rosse, come per emulare l'opus sectile con cui si decoravano i più prestigiosi edifici della tarda antichità. Il meticoloso intervento di restauro ha, quindi, recuperato uno dei monumenti sepolcrali più tardi e più decorati delle catacombe romane, quando queste stanno per esaurire la loro funzione funeraria, a favore di una stagione devozionale, allorquando i pellegrini dell'intero orbe cristiano si recano a visitare le tombe sante. In questo frangente, alcuni cubicoli monumentali fungono da "mausolei sotterranei", posizionati in una catacomba assai prossima al martyrium paolino, che al tempo dei tre imperatori Teodosio, Valentiniano ii e Arcadio, viene ampliato e decorato, come ricorda Prudenzio (Peristephanon, xii, 24-25), che si sofferma a descrivere proprio il prezioso soffitto, che può aver funzionato come prototipo per la volta del cubicolo di Santa Tecla. Anche i quattro clipei, con le raffigurazioni dei santi Pietro, Paolo e degli appena riscoperti Andrea e Giovanni, in questo senso possono rappresentare uno stralcio di una teoria apostolica o pontificia, di cui conosciamo la redazione leoniana, ma che poteva essere già prevista nell'impianto teodosiano della basilica. La scelta di sistemare il cubicolo in una catacomba non lontana dalla memoria paolina, che, tra l'altro, assumerà la denominazione

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di Santa Tecla - così come un piccolo ipogeo scavato nella roccia di san Paolo prenderà il nome significativo di San Timoteo, disegnando una "mappa paolina" attorno al ii miglio della via Ostiense - rappresenta un importante intervento devozionale nei confronti dell'apostolo delle genti che, sin dal pontificato di Papa Damaso (366-384), vedrà potenziato il suo ruolo, nell'ambito di quel progetto politico-religioso che verterà proprio sulla concordia apostolorum e sulla riabilitazione di Paolo, che verrà considerato il promotore della conversione degli ultimi pagani, di cui si diceva in apertura.

(©L'Osservatore Romano - 23 giugno 2010) [Index] [Top] [Home]

  Cronaca di un restauro

E con una buona terapiai colori tornano a brillare

di Barbara Mazzei La cronaca dell'eccezionale rinvenimento dei più antichi ritratti degli apostoli non può che prendere avvio dal momento in cui, durante la programmazione delle attività per l'anno 2008 della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, si verificava la possibilità di potersi dedicare, senza essere pressati da "lavorazioni d'urgenza", ad un progetto di restauro di più ampio respiro. Si decise, quindi, di accogliere i numerosi appelli, giunti negli anni passati ripetutamente e da più parti ai responsabili della

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Commissione, riguardanti il desolante stato in cui versavano le pitture del cubicolo doppio delle catacombe romane di Santa Tecla. L'ambiente decorato non presentava, fortunatamente, condizioni di precarietà strutturale, né si osservavano evidenti segnali di distacchi degli strati d'intonaco, in più, la scarsa frequentazione del singolare impianto ipogeo aveva preservato le superfici affrescate da nocivi attacchi biologici. Il danno più evidente era costituito, fondamentalmente, da uno spesso strato di incrostazione calcarea omogeneamente disteso sulle superfici, che offuscava pressoché totalmente le pitture del cubicolo. La favorevole circostanza di poter intraprendere un intervento di restauro senza particolari "pressioni" ha determinato sin da subito l'impostazione sperimentale del cantiere, stabilendo di cogliere l'opportunità per procedere ad un approfondimento della tecnica esecutiva della pittura catacombale e ad una messa a punto delle metodologie di restauro più idonee per questa peculiare tipologia di monumenti. L'esperienza oramai ventennale che la Commissione di Archeologia Sacra ha acquisito

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nell'intervenire all'interno degli ambienti delicati e sensibili delle catacombe, ha portato alla consapevolezza di dover stilare un protocollo d'intervento autonomo e specifico per questi manufatti, selezionando dall'ampio panorama di esperienze conservative le operazioni più caute e le procedure più "innocue" per il fragile ambiente catacombale, condizionato da un incomparabile livello di umidità relativa. Per affrontare una tale impresa si è, quindi, stabilito di mettere in campo una équipe specificatamente preparata nell'affrontare le differenti problematiche, con consulenze proprie per i vari aspetti scientifici. L'impostazione del lavoro, come anticipato, prevedeva l'acquisizione di maggiori informazioni riguardo la tecnica esecutiva impiegata dagli antichi artifices nella realizzazione delle pitture, argomento ampiamente dibattuto nel passato sia remoto che prossimo, ancora dominato da una oramai vetusta impostazione che relega l'arte catacombale in un limbo decadente della parabola evolutiva dell'arte classica. Per scandagliare la materia pittorica ci si è quindi avvalsi della consulenza dell'Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali del Consiglio nazionale delle ricerche italiano di Sesto Fiorentino (Firenze); lo studio della chimica dei composti pittorici ha rilevato l'impiego di differenti tecniche, dalle più semplici, come una sottile scialbatura a calce con colori applicati a fresco, alle più raffinate e articolate, come stratificazioni di varie stesure di colore con progressivo aumento di legante, mai di natura organica, dimostrando la compresenza di diversificati livelli qualitativi dell'esecuzione. In seguito si è passati alla redazione di un'ampia documentazione

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grafica, fotografica e macrofotografica (microscopio a contatto) attraverso cui sono state registrate le cause del degrado, registrate su una puntuale mappatura delle pareti redatta sfruttando il preciso rilievo scanner-laser dell'ambiente. Il fenomeno più macroscopico si è rivelato essere una variegata e tenace incrostazione calcarea, caratteristico degrado degli ambienti catacombali, che si manifesta sotto forma di uno strato carbonatico di colore scuro, più o meno sottile, particolarmente presente sulle volte e sulle zone alte delle pareti dei cubicoli. Ulteriori approfondite indagini hanno permesso di riconoscere la genesi del fenomeno, definito "del carsismo", che, con una alternanza di fasi, dissolutiva e costruttiva, provoca il sovrapporsi degli strati all'interno dei quali rimangono inglobate particelle di nerofumo. Del degrado, frequentemente incontrato in altri cantieri in ambienti ipogei, si era in precedenza giunti a determinare l'impossibilità della completa rimozione, vista l'eccessiva adesione sulla pellicola pittorica. Comunque, una volta acquisiti tutti i dati necessari per la conoscenza del manufatto su cui intervenire, si è dato avvio al lavoro secondo le modalità stabilite inizialmente, che prevedevano, principalmente, l'asportazione meccanica delle tenacissime croste calcaree. Il lavoro procedeva con lentezza e particolare difficoltà, le potenzialità di asportazione di bisturi, trapanini e frese erano, considerato anche il pericolo di danneggiare l'opera, assai limitate. Ma, sebbene scarsi, i risultati così ottenuti iniziavano a far intravvedere brani di pittura estremamente interessanti, accrescendo il desiderio di pervenire a risultati di maggiore soddisfazione. L'aggiornamento costante sulle novità apportate nel campo della

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conservazione, ha suggerito, a questo punto, la possibilità di sperimentare una recente tecnologia introdotta nel restauro delle pitture murali:  l'ablazione laser. Ampiamente applicata su manufatti lapidei e metallici, questa tecnica era stata da poco tempo testata, con ottimi risultati, anche su intonaci scialbati, ma la perplessità maggiore rimaneva nell'efficacia della tecnica applicata in ambiente ipogeo, avendo avuto esperienze pregresse in cui sistemi impiegati in monumenti subaerei si erano rivelati inefficaci, quando non dannosi, all'interno delle catacombe. Una seppure vaga speranza di addivenire ad una soluzione positiva ha portato alla esecuzione di un test di prova. L'aspettativa è stata ampiamente ripagata:  il laser agiva risolutamente sulle incrostazioni calcaree, lasciando inalterata la pellicola pittorica che, finalmente, poteva mostrare tutta la sua vasta gamma di cromie e brillantezza. A seguito di questo primo eclatante risultato, lo spirito di cautela ha portato al coinvolgimento dell'Istituto di Fisica applicata "Nello Carrara" (Cnr, Sesto Fiorentino) per ottenere un sostegno scientifico all'impresa che si stava per intraprendere. I risultati dei test, ampiamente documentati, hanno assicurato l'effettiva efficacia del procedimento di pulitura laser, accertando, di contro, l'innocuità dell'azione ablativa. La sperimentazione è risultata doppiamente soddisfacente visto che il particolare caso di Santa Tecla ha fornito un contributo interessante anche per lo sviluppo della ricerca scientifica sulla tecnica esecutiva dell'ablazione laser. Il laser non si è comunque rivelato uno strumento "miracoloso"; il lavoro è proceduto per gradi e con non poche difficoltà. Sono stati impiegati macchinari con differenti caratteristiche a secondo del

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grado di spessore e tenacità della concrezione, fattore che ha comportato un diverso approccio al lavoro rispetto alle procedure standard, seguendo il percorso degli strati concrezionali piuttosto che affrontando omogeneamente porzioni di pareti. È doverosa anche una piccola nota sulle difficoltà di ordine prettamente pratico costituite dalla non agevole operazione di trasporto dei macchinari all'interno delle gallerie catacombali e dalla nociva influenza della condensa; per questo sono stati concepiti dalla El.En. di Calenzano (Firenze), ditta che ha fornito i laser, numerosi accorgimenti ad hoc per adattare la strumentazione alle particolari condizioni microclimatiche in cui si doveva operare. La felice conclusione dell'intervento di restauro conservativo ha restituito leggibilità al partito decorativo, rivelando particolarità iconografiche e iconologiche particolarmente avvincenti per gli studiosi dell'arte tardoantica, che con entusiasmo si sono avvicinati alle "nuove" pitture per indagarne le peculiarità esecutive e per apprezzarne le suggestioni, al fine di ricucire le linee evolutive che hanno portato al concepimento di un così articolato e complesso programma iconografico, che si pone quale testimonianza tangibile del pensiero storico-religioso dello scorcio del iv secolo. Coerentemente alla linea intrapresa della massima condivisione, parallelamente alla pubblicazione del presente volume ci si è rivolti alla dottoressa Laura Pecchioli (Ruprecht-Karls-Universität, Heidelberg) che ha ideato un sistema informatico grazie al quale, all'interno di una ricostruzione tridimensionale virtuale degli ambienti, è possibile inserire e visualizzare, anche automaticamente durante l'esplorazione, un'ampia mole di informazioni di natura eterogenea come foto, filmati, testi. Le

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informazioni acquisite - sia storico-artistiche che tecnico-scientifiche - sono state inserite nell'applicazione informatica Isee, ideata a questo scopo.

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  Quando il culto approdò nelle famiglie aristocratiche

della città

Una pia donna della Roma "bene" di allora

di Fabrizio Bisconti

Ancora prima del sacco del 410, che, per la popolazione romana, e per tutto il mondo antico, rappresentò un poco il corrispettivo del trauma violento, che, ai nostri giorni, ha provocato nell'immaginario collettivo l'episodio delle "torri gemelle", le catacombe romane avevano subito un progressivo fenomeno di abbandono; nel senso che il suburbio non rappresentò più l'unica sede preposta ai sepolcreti cristiani, che, in parte, furono sistemati all'interno della cinta muraria aureliana e, in parte, comunque, lasciarono i siti ipogei, per insediarsi e addensarsi all'interno e nei dintorni immediati dei più importanti santuari martiriali:  inaugurando una consuetudine, che si diffonderà in tutto l'orbis christianus antiquus. Il declino della funzione funeraria delle catacombe, comunque, non si consuma in maniera traumatica e anzi, in corrispondenza

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delle tombe dei martiri, si assiste, nell'ultimo scorcio del iv secolo, in corrispondenza con il pontificato di Papa Damaso (366-384),  a una densissima concentrazione di sepolture intorno ai sepolcri di quei primi "testimoni" della fede cristiana, che documentano concretamente un improvviso incremento della devozione. Alcune di queste sepolture denunciano, per sistemazione, decoro e arredo una committenza estremamente elevata, vuoi per quanto riguarda il rango attinente alla più alta gerarchia ecclesiastica e/o aristocratica, vuoi per il cospicuo potenziale economico. Questo intenso sfruttamento degli spazi funerari a ridosso delle "tombe eccellenti" dà luogo a speciali aree funerarie, definite eloquentemente retrosanctos.

Come si diceva, il fenomeno si verifica anche attorno ai santuari martiriali del sopraterra e, specialmente, in corrispondenza delle basiliche circiformi, che spuntarono al

tempo dei Costantinidi, presso le tombe di san Lorenzo, di sant'Agnese, dei santi Pietro e Marcellino, di Papa Marco e nella memoria apostolorum sulla via Appia Antica. Alcune di queste tombe assumono le proporzioni e le caratteristiche  del  mausoleo

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imperiale, come nei casi celebri dei grandi sepolcri a pianta centrale dove furono sepolte rispettivamente Costanza, sulla via Nomentana, ed Elena, sulla via Labicana. Accanto a queste tombe imperiali, che presentano sontuose decorazioni in opus sectile e in mosaico, dobbiamo segnalare tutta una serie di mausolei meno impegnativi per dimensioni e arredo, ma ugualmente rappresentativi di una tensione, che dimostra il desiderio di emulare i sepolcri dei potentiores. Anche nelle catacombe, nell'ultimo segmento della loro vita funeraria, sorgono importanti cubicoli dipinti, che, pur rinunciando alla vicinanza con le tombe dei martiri e anche al privilegio di sistemarsi nelle sedi visibili del sopraterra, sviluppano "architetture negative" complesse e programmi decorativi di elevato impegno artistico e devozionale. Così, nelle catacombe di Domitilla, viene realizzato il sontuoso cubicolo della corporazione dei pistores; così, nelle catacombe di Commodilla, viene scavato nel tufo e decorato con un apparato pittorico estremamente sofisticato il cubicolo dell'officiale dell'annona Leone. Ancora più significativo risulta l'ipogeo di diritto privato rinvenuto lungo la via Latina, i cui committenti, appartenenti alla più elevata aristocrazia senatoriale, fanno capo a un gruppo di famiglie, in parte pagane, in parte già convertite al cristianesimo, dando luogo a una curiosa forma di sincresi religiosa. Questo monumento, pure collocato nella seconda metà del quarto secolo, dimostra il travaglio della conversione al cristianesimo degli ultimi pagani, arroccati, come è noto, nell'entourage senatoriale dell'Urbe. In questo contesto si inserisce un cubicolo dipinto nelle catacombe romane di Sant Tecla sulla via Ostiense, noto già dal

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Settecento, ma sottoposto a un intervento di restauro estremamente sofisticato, che ha restituito un complesso programma decorativo, commissionato alla fine del quarto secolo da un'abbiente e aristocratica famiglia romana che fece creare, nelle propaggini di un cimitero comunitario, il sontuoso cubicolo duplex, nel senso che il vero e proprio ambiente sepolcrale è fornito di un avancorpo, che reimpiega un più antico cubicolo di età costantiniana. Ebbene, il primo ambiente, viene riconcepito e fornito di un grande lucernario, che enfatizza il nostro ambiente con una maestosa rappresentazione di quel collegio apostolico, arricchito da un gregge di ovini, che vuole esprimere la solidarietà della Chiesa e la sua potente coesione nei confronti delle eresie e, specialmente, dell'affaire ariano, che aveva messo in dubbio la consustanzialità del Padre e del Figlio. Il cubicolo vero e proprio, dopo il fortunato restauro, ha rivelato, nel soffitto, che imita un cassettonato, assai simile a quello che doveva decorare la basilica di San Paolo fuori le Mura, voluta dai tre imperatori Teodosio, Valentiniano ii e Arcadio, nell'ultimo scorcio del quarto secolo, cinque suggestivi clipei figurati. Al centro è l'immagine del buon pastore, ai quattro angoli si riconoscono i busti di san Paolo - di cui si ragionò nelle pagine di questo giornale proprio lo scorso anno - quello di san Pietro, quello di sant'Andrea e quello di san Giovanni. I quattro apostoli sono riconoscibili dai tratti fisionomici:  Paolo mostra le sembianze intimidenti del pensatore pneumatico; Pietro quelle del concreto e sicuro punto di riferimento della Chiesa romana; Andrea quelle dell'irruenza scomposta e rude; Giovanni quelle della dolcezza e dell'amabilità.

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Se le immagini di Pietro e Paolo rappresentano il manifesto di quella concordia apostolorum, che, dai tempi di Papa Damaso, era diventata lo slogan di una politica religiosa, che vede nella riabilitazione dell'apostolo delle genti, un tentativo di riequilibrare le partes della Chiesa e dell'Impero, le effigi di Andrea e Giovanni, che qui affiorano per la prima volta, sorprendendo tutti coloro che rimandavano quest'apparizione all'avanzato quinto secolo se non alla stagione bizantina, ci parlano di un culto allargato nei confronti degli apostoli. Tale culto doveva essere alimentato dalla circolazione delle reliquie degli apostoli e da una devozione proveniente dai pellegrinaggi praticati nei memoriali apostolici in Terra Santa. Per quanto riguarda il primo punto, non possiamo dimenticare che Costantino fece erigere nella capitale d'Oriente una basilica apostolorum a pianta cruciforme - che sarebbe diventata anche la sua tomba - al centro della quale, nei pressi di una sorta di grande ciborio, erano sistemate delle stele, che ricordavano proprio i dodici apostoli. Ambrogio, per quanto attiene il secondo punto, fece edificare a Milano una basilica apostolorum, pure a pianta cruciforme, laddove depose le reliquie degli apostoli - forse provenienti da Aquileia, da Concordia o da Roma - in un prezioso cofanetto argenteo. È questo il tempo dei grandi viaggi in Terra Santa, finalizzati a frequentare le sedi delle memorie bibliche, dalle quali venivano riportate in patria i ricordi dei grandi prodigi del Vecchio Testamento e dei miracoli operati dal Cristo e dagli Apostoli. Se, nella maggior parte dei casi, i pellegrini riportarono dai santuari piccole ampolle in metallo o in ceramica colme d'acqua e di sabbia o medagliette devozionali, in altri casi recano nella loro

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memoria l'immagine dei protagonisti della storia della salvezza. Il viaggio di Egeria è celebre, ma altre nobildonne, rimaste anonime, o menzionate nell'epistolario di san Girolamo, viaggiano alla volta di quei suggestivi santuari. Anche i presbiteri, i diaconi e i cristiani ordinari - sull'esempio illustre di Elena - si posero alla ricerca di reliquie da sistemare nei monumenti dell'ecumene cristiano, all'interno di contenitori preziosi, come la celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, pure della fine del quarto secolo, che riproduce, tra l'altro, i clipei del Cristo e degli apostoli o l'ancor più famosa capsella eburnea di Samagher, riferibile, però, già al quinto secolo e decorata con spaccati di santuari presumibilmente romani. e, dunque, collegabile a un pellegrinaggio alla "città santa" d'Occidente. La decorazione del cubicolo di Santa Tecla, quindi, si inquadra proprio in questo spirito, che si inserisce in quel filone del "culto apostolico", inventato da Ambrogio e approdato a Roma, presso le famiglie aristocratiche della città. Sono presumibilmente le matrone, per prime, a venerare i martiri, ma anche gli apostoli, in quell'incipiente forma di monachesimo inaugurato - come si diceva - da san Girolamo, che promosse una sorta di "ascetismo domestico", che si sviluppò attorno al palazzo della vedova Marcella all'Aventino. È sintomatico che nel cubicolo di Santa Tecla sia rappresentata l'immagine di una nobile matrona, sontuosamente vestita con tunica, palla, acconciatura raffinata e preziosi gioielli, mentre mostra il rotolo della Legge, che ben conosceva, dal momento che - secondo quanto ricorda Girolamo - alcune vedove e vergini del "circolo dell'Aventino" conoscevano i Sacri Testi in greco e in latino. La nobildonna è rappresentata assieme alla figlioletta, che

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si atteggia nel gesto della preghiera, mentre due santi (ancora Pietro e Paolo ?) le accolgono nell'aldilà, dimostrando una sorprendente confidenza con gli apostoli e i martiri, rompendo ogni forma di tabù e inaugurando una religio amicitiae tra questi cristiani eccellenti e privilegiati e i santi. Se il resto del cubicolo accoglie altre scene bibliche (Daniele tra i leoni, Pietro che percuote la roccia, l'adorazione dei Magi, il sacrificio di Isacco), lo sguardo del visitatore si ferma su quelle prime immagini degli apostoli, che la defunta e/o la sua famiglia scelgono come protettori, facendo assurgere quei busti al rango di vere e proprie icone che rivelano, per la prima volta, i caratteri, le peculiarità, la psicologia dei primi seguaci di Cristo. Ma questa non è l'unica scoperta! Non ci dobbiamo tanto meravigliare dell'apparizione dei busti degli apostoli nel buio di una catacomba pressoché sconosciuta, in un tempo, che si considera, al solito, di passaggio, di congedo della prima grande stagione cristiana, in attesa della civiltà bizantina che, più in Oriente che in Occidente, inventa il tipo e il culto delle icone. Dobbiamo sicuramente salutare l'antichità inaspettata di queste effigi, così caratterizzate, così riconoscibili, pronte a donare le sembianze degli apostoli all'arte ravennate, con quasi un secolo di anticipo. Ma, poi, dopo il momento della meraviglia e della sorpresa, dobbiamo calare l'importantissima scoperta nell'atmosfera storica e devozionale di un frangente che conosce la conversione degli "ultimi pagani, delle aristocrazie, del senato, all'insegna di un dialogo internazionale, che vede protagonisti gli "aristocratici" Padri della Chiesa Damaso, Ambrogio, Paolino di Nola e Girolamo veri promotori e "direttori d'orchestra" di quel culto dei santi, che inciderà, connoterà e segnerà profondamente

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l'ultima antichità e l'alto medioevo, con la creazione dei grandi martyria romani, con la dislocazione strategica dei santuari milanesi, la caratterizzazione monastica del grande centro della venerazione per il confessore Felice a Cimitile, con la frequentazione "guidata" dei pellegrini presso le memorie bibliche in Terra Santa.

(©L'Osservatore Romano - 23 giugno 2010) [Index] [Top] [Home]

  Istituita il 6 gennaio 1852 per volontà di Pio IX

Le attività della Pontificia Commissionedi Archeologia Sacra

di Giovanni Carrù Il restauro del cubicolo doppio di Santa Tecla sulla via Ostiense si inquadra in un progetto, oramai ventennale, inaugurato dai responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra per recuperare il ricco patrimonio pittorico - oltre quattrocento manifestazioni - conservato nelle catacombe romane. Oltre tre quarti delle decorazioni ad affresco sono state meticolosamente restaurate, sotto la guida attenta dei curatori della Commissione, che hanno acquisito esperienza attraverso un lungo percorso di esperimenti, utili ad affrontare un tipo di degrado estremamente complesso, dovuto all'alto tasso di umidità degli ambienti catacombali. Queste operazioni, lente e onerose, hanno riconsegnato agli esperti e ai visitatori un patrimonio

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iconografico molto importante per ricostruire la storia della comunità cristiana di Roma. Il restauro delle pitture catacombali si inserisce coerentemente nell'attività della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra che, come è noto, fu istituita a partire da un'idea di Giovanni Battista de Rossi, l'archeologo romano che gettò le basi scientifiche dell'archeologia cristiana, studiando e scavando le catacombe romane secondo un moderno metodo topografico, che tiene simultaneamente in considerazione fonti storiche e monumenti. Tale istituzione fu suggerita a Papa Pio IX per meglio organizzare scavi, restauri e tutela del grande complesso catacombale che stava tornando alla luce sulla Via Appia. La notizia si diffuse il 7 febbraio del 1852, anche se l'istituzione vera e propria va riferita al 6 gennaio. Nel 1925 la Commissione fu dichiarata "Pontificia" da Pio xi e ne vennero particolarmente definite le competenze, ribadite, ancora di recente, nelle convenzioni tra la Santa Sede e lo Stato Italiano. Durante l'ultimo ventennio, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha ricevuto un grande impulso, sia per quanto riguarda le attività archeologiche e conservative, eseguite secondo i più moderni criteri di scavo e di restauro, sia per quanto attiene l'organizzazione tecnica, documentaria e operativa, che vede impegnata una équipe molto giovane, ma estremamente efficiente. I responsabili della Commissione, durante questi ultimi anni, hanno intensificato le loro attività per adeguare i monumenti e le strutture di accoglienza al cospicuo incremento di visitatori. Nell'ambito di questi interventi, si sono stabiliti proficui rapporti

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con le istituzioni preposte alla salvaguardia dei monumenti dello Stato Italiano, prima tra tutte la Soprintendenza Archeologica di Roma. Ma altri contatti, sempre estremamente positivi, sono stati istituiti con il Comune di Roma, con l'Istituto Centrale del Restauro, con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il Consiglio Europeo per il Patrimonio, con i Comuni e le Diocesi d'Italia. Importanti indagini archeologiche, si sono svolte anche nel sopratterra delle catacombe, con la concessione del Ministero italiano per i Beni e le attività culturali. Secondo questa prassi, sono state indagate la basilica di Papa Marco nel comprensorio callistiano, la basilica di Santa Mustiola a Chiusi, la basilica di Villa San Faustino a Chiusi, la basilica di San Ilario a Valmontone. Altre importanti indagini archeologiche si sono svolte nelle catacombe romane. Sono stati inoltre scavati, studiati e restaurati molti monumenti del Lazio, tra cui le catacombe di Zotico sulla via Labicana, di Santa Vittoria a Monteleone Sabino, di Santa Cristina a Bolsena, di Santa Teodora a Rignano Flaminio, di San Senatore ad Albano Laziale, di Roma Vecchia agli Acquedotti di Paliano. Alcuni scavi sistematici si sono svolti, infine, nelle catacombe di Pianosa e in quelle di Porta d'Ossuna a Palermo. Ma le attività della Commissione si sono concentrate in modo particolare nel settore del restauro degli affreschi. Gli interventi hanno interessato specialmente le catacombe romane e, segnatamente, quelle di Priscilla; dei Santi Pietro e Marcellino; di via Dino Compagni; di Ponziano; di Generosa; di Pretestato; di San Callisto; di San Sebastiano; dell'Ardeatina; di Domitilla; di Chiaraviglio; nell'ipogeo degli Aureli e nelle catacombe dei

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Giordani. Tutte queste attività hanno contribuito a recuperare e a conoscere in maniera più approfondita le catacombe cristiane d'Italia, ma, nello stesso tempo, hanno permesso di valorizzare un patrimonio culturale e religioso che, rappresenta una testimonianza eloquente e significativa del cristianesimo delle origini.

L'Italia è ricca di biblioteche ecclesiastiche; si va dalle antichissime biblioteche capitolari che conservano codici e documenti rari e pregiati, alle moderne biblioteche delle Pontificie Università romane, dotate di migliaia di volumi e delle più sofisticate tecniche informatiche; dalle biblioteche monastiche a quelle parrocchiali. Un tesoro che l'Associazione dei bibliotecari ecclesiastici italiani (Abei) - presieduta da monsignor Michele Pennisi, vescovo di Piazza Armerina - si propone l'obiettivo di valorizzare. Se ne parlerà anche quest'anno durante il tradizionale convegno di studio in occasione dell'assemblea dei soci, che si svolgerà a Chieti dal 22 al 23 giugno. Tra i più importanti temi affrontati la ricerca di una uniformazione dei cataloghi per soggetto in campo religioso:  un modo per superare le diversità che gli utenti incontrano nelle loro ricerche e armonizzare i criteri della catalogazione per materie. All'apertura dei lavori verrà presentato il quarto volume di Acolit (sigla che sta per Autori cattolici e opere liturgiche) che l'Abei sta redigendo, un elenco di tutte le possibili denominazioni di persone, enti, opere rientranti nel campo religioso, dedicato ai Padri della Chiesa e agli scrittori ecclesiastici occidentali fino al xii secolo;

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un volume ponderoso (1.300 pagine), costato cinque anni di lavoro. È in preparazione la parte riguardante i santi e i beati.

Utopia e società nel mondo antico

Dall'età dell'oro al realismo cristiano

di Giuseppe Zecchini >L'Utopia di san Tommaso Moro inaugura in pieno rinascimento (1516) la moderna letteratura dedicata a immaginare mondi e modelli perfetti, forse non realizzabili, ma a cui riferirsi nei nostri progetti terreni:  lo fa coniando un termine greco, che significa "non luogo". Ma la cultura antica ebbe una visione utopistica della realtà, segnatamente di quella politica, ed ebbe una produzione letteraria corrispondente? L'attualità di questa domanda è confermata da un volume curato da Maria Teresa Schettino e Chiara Carsana su Utopia e utopie nel pensiero storico antico (Roma, 2008), che è stato oggetto di un seminario alla Sorbona nel dicembre 2009 e a cui si

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riallacciano queste mie osservazioni. I greci sapevano che la costituzione perfetta secondo natura era quella monarchica; secondo Isocrate c'era stata un tempo ad Atene una costituzione democratico-moderata quasi perfetta, quella di Solone, destinata però a non tornare più, oppure una mitica "costituzione patria" posta in un passato indeterminato; Polibio invece identificava in quella achea la costituzione democratico-moderata quasi perfetta, ma sapeva anche che ogni costituzione è corruttibile nel tempo; incorruttibile poteva essere immaginata solo una costituzione mista, che riunisse le virtù di quelle monarchica, aristocratica e democratica:  per Dicearco di Messene quella di Sparta si avvicinava a questo ideale e per Aristotele alcuni suoi tratti si coglievano nella costituzione di un popolo barbaro, i cartaginesi, ma una sua vera attuazione concreta non si era mai verificata. La sorprendente realizzazione di questa utopia della costituzione mista e quindi perfetta era stata infine trovata da Polibio presso altri barbari, i romani. Alla meraviglia subentrò però il dubbio, alimentato dai romani stessi, Catone su tutti:  la luxuria, noi diremmo il consumismo, era in grado di corrompere ogni tipo di società. Silla cercò di restaurare la costituzione aristocratica vigente - si favoleggiava - ai primi tempi della repubblica, diede in realtà a Roma una costituzione di quel tipo, ma la cruda realtà delle guerre civili la spazzò via:  Cicerone ne resta il cantore nostalgico, mentre un secolo e mezzo dopo, Tacito più semplicemente non crede più a nessuna utopia "costituzionale". Tuttavia nello stesso periodo (primo e secondo secolo) l'utopia "costituzionale" diventa realtà per le élites dell'Oriente romano:  un prestigioso retore come Dione di Prusa delinea una

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costituzione mista come collaborazione tra l'imperatore e le élites intellettuali, Elio Aristide la dà per acquisita, il grande storico e senatore bitinico Cassio Dione la ripresenta a Settimio Severo come l'attuazione della costituzione perfetta. In effetti questo equilibrio di poteri tra imperatore, senato e élites provinciali è la soluzione ideale per i notabili orientali, che nel frattempo sono stati ammessi al senato e vi si mescolano coi patres. Nell'alto impero, accanto a queste utopie politiche, che sono conservatrici ed elitarie, di ambiente senatorio, affiora un altro tipo di utopia, che definirei "sociale" o "privata":  essa sogna viaggi in altri mondi, oltre la mitica Tule (Antonio Diogene) o addirittura sulla Luna o negli abissi dell'oceano (Luciano), a cercarvi salute, longevità, ricchezza; è un'età così politicamente stabile che la politica è "ciò che si ha già", ma che non elimina i mali del mondo (così ancora Luciano nel Menippo), mentre le aspirazioni dell'uomo si volgono altrove. La tarda antichità segna il grande ritorno dell'utopia in tutte le sue accezioni. L'Historia Augusta alla fine del iv secolo delinea il grande progetto della conquista del mondo intero (India, Cina ed Etiopia, cioè Africa, comprese) da parte degli invincibili eserciti di Roma:  allora, in un mondo finalmente pacificato, senza nemici, non ci sarà più bisogno di soldati, che potranno darsi al lavoro nei campi; alla fine, dopo un regno felice un imperatore ultracentenario morirà senza figli:  questa morte è il segno della benevolenza degli dei e della loro volontà che il governo del mondo ritorni al suo legittimo proprietario, il senato di Roma:  questo sarà l'inizio di una nuova età dell'oro. Questa visione, del tutto utopica per noi, ma non tale per il senatorio autore dell'Historia Augusta, rientra ancora nel quadro

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politico-costituzionale, che di questi ambienti è proprio; però le si affianca qui anche l'utopia militare, laddove si prefigura la conquista del mondo. Utopia militare e utopia letteraria si fondono invece in un altro testo coevo, Sulle genti dell'India e i Brahmani, che fu scritto forse verso il 413 dal vescovo Palladio di Elenopoli, fu tradotto in latino (la traduzione fu attribuita a sant'Ambrogio, peraltro morto già nel 397) e divenne un autentico bestseller dell'epoca. Qui gli abitanti dell'India manifestano il loro terrore davanti alla prospettiva di essere invasi dagli eserciti dell'onnipotente imperatore di Roma:  ora, nel pieno delle invasioni barbariche affermazioni di questo genere rivelano un grado di utopismo davvero drammatico. Utopia costituzionale, esotico-letteraria, militare:  la tarda antichità è feconda di utopie, come in tutti i tempi di crisi e nostalgia, ma è anche il tempo in cui l'utopia viene negata e superata. Quando sant'Agostino nella Città di Dio immagina una Gerusalemme celeste, che riunisce parecchi aspetti dell'antica utopia - dislocazione nell'al di là, vita eterna, felicità perenne - e le oppone l'al di qua, la città degli uomini, egli non afferma un'utopia, ma l'unica vera realtà, di fronte alla quale questo mondo è il prodotto di una dimensione spazio-temporale effimera, mentre ciò che potrebbe parere utopico (la Città di Dio) vive in una dimensione ben più reale della nostra, perché eterna. Se l'utopia diventa realtà, a che serve l'utopia? Certo, il genere utopico e la tensione verso l'utopia non cessano col cristianesimo, come ci ha mostrato Tommaso Moro - o anche, con qualche riserva, Campanella - e come ci confermano i commoventi sforzi di realizzare la città ideale sulla terra, dalla Theopolis gallica di Claudio Postumo Dardano, un amico di

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sant'Agostino, alle reducciones gesuitiche nell'America meridionale del XVIii secolo; tuttavia credo che il realismo cristiano possa e debba costituire l'antidoto a ogni tentazione utopistica.

(©L'Osservatore Romano - 11 giungo 2010) [Index] [Top] [Home]

  Elogio del sacerdozio firmato Francesco d'Assisi

Quel testamentoche non si cita mai

Pubblichiamo alcuni stralci del libro Dio nelle nostre mani. Lettera di Francesco sul sacerdozio e l'Eucarestia (Assisi, Edizioni Porziuncola, 2010, pagine 32, euro 3).

di Marco GuidaPontificia Università Antonianum

Nella primavera del 1226 frate Francesco è a Siena, dove le sue condizioni di salute si fanno sempre più gravi. I frati temono che la morte del loro fratello e padre sia ormai imminente. Così chiedono a Francesco di lasciare loro un memoriale della sua volontà, che questi prontamente detta a un frate sacerdote:  "Scrivi che benedico tutti i miei frati, che sono in questa Religione e quelli che vi entreranno sino alla fine del mondo (...) E siccome a motivo della debolezza e per la sofferenza della malattia non posso parlare, brevemente manifesto ai miei frati la mia volontà in queste tre parole, e cioè:  in segno e memoria della

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mia benedizione e del mio testamento, sempre si amino gli uni gli altri, sempre amino e osservino nostra signora la santa povertà, e sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa". All'amore vicendevole e all'amore per la signora santa povertà - cardini della sua esperienza cristiana - Francesco unisce indissolubilmente la fedeltà e la sottomissione ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa, quale garanzia e condizione per vivere cattolicamente la comunione fraterna e la povertà. Non è irrilevante che Francesco, prossimo alla morte, ribadisca e ricordi ai frati questa priorità. La sua salute sembra ristabilirsi, ma l'appuntamento con "sorella morte" giunge nell'autunno dello stesso anno. Così al Testamento di Siena, breve ed essenziale, Francesco può aggiungere e dettare per i suoi frati un ampio e pensato Testamento nel quale ripercorre la sua esperienza cristiana, e che definisce "un ricordo, un'ammonizione, un'esortazione e il mio testamento" (Testamento, 34) ricordo della sua conversione e della nascita della fraternità, ammonizione a non allontanarsi dalla vocazione ricevuta dal Signore, esortazione a vivere la vita e la Regola evangelica in piena comunione con la Chiesa. Anche in questa occasione Francesco ricorda la sua fede e sottomissione ai chierici perché anche i suoi frati facciano lo stesso:  "Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e trovassi dei sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio

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considerare in loro il peccato, poiché in essi io discerno il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri" (Testamento, 6-

10). È l'eucaristia il motivo della grande fede di Francesco nei sacerdoti, lo stupore del suo cuore e dei suoi occhi nel contemplare il Figlio di Dio presente nel pane e nel vino consacrati. Così si esprime nella Ammonizione sul Corpo del Signore:  "Perciò:  Figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore? (Salmi, 4, 3). Perché non conoscete la verità e non credete nel Figlio di Dio? (cfr. Giovanni, 9, 35). Ecco, ogni giorno egli si umilia

(cfr. Filippesi, 2, 8), come quando dalla sede regale (Sapienza, 18, 15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre (cfr. Giovanni, 1, 18) sull'altare nelle mani del sacerdote" (Ammonizione, 1, 14-18). È questa la ragione per cui Francesco rivolgendo ai frati un'altra Ammonizione li esorta a onorare i chierici:  "Beato il servo di Dio che ha fede nei chierici che

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vivono rettamente secondo la forma della santa Chiesa romana. E guai a coloro che li disprezzano; quand'anche infatti siano peccatori, tuttavia nessuno li deve giudicare, poiché il Signore in persona riserva solo a se stesso il diritto di giudicarli. Infatti, quanto maggiore di ogni altro è il ministero che essi svolgono riguardo al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri, così quelli che peccano contro di loro hanno un peccato tanto più grande, che se peccassero contro tutti gli altri uomini di questo mondo" (Ammonizione, 26, 1-4). Le affermazioni di Francesco sono un'attestazione chiara e decisa della sua estraneità alle posizioni dei movimenti ereticali del tempo ostili ai chierici che vivevano nel peccato e vuole che i fedeli, imparando dal suo esempio e da quello dei suoi frati, abbiano venerazione per i chierici ministri dell'eucaristia:  "Dobbiamo anche visitare frequentemente le chiese e venerare e usare riverenza verso i chierici, non tanto per loro stessi, se sono peccatori, ma per l'ufficio e l'amministrazione del santissimo corpo e sangue di Cristo, che essi sacrificano sull'altare e ricevono e amministrano agli altri. E tutti dobbiamo sapere fermamente che nessuno può essere salvato se non per mezzo delle sante parole e del sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che i chierici pronunciano, annunciano e amministrano. Ed essi soli debbono esserne ministri e non altri" (Lettera ai fedeli, 2, 33-35). Negli ultimi anni della sua vita Francesco, gravato dal peso delle malattie e non potendo più raggiungere i frati e i fedeli per predicare loro e incontrarli di persona, intensifica il suo apostolato epistolare (alla parola scritta riconosceva una grande importanza, contrariamente a quanto si crede). Scrive ai fedeli e

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scrive ancor più ai frati. A loro radunati in Capitolo - l'incontro che annualmente si teneva alla Porziuncola in occasione della Pentecoste - invia una lettera nella quale scrive parole di accorata intensità e partecipazione, rivolgendosi soprattutto a coloro che nella fraternità sono anche sacerdoti:  "Prego poi nel Signore tutti i miei frati sacerdoti, che sono e saranno e desiderano essere sacerdoti dell'Altissimo, che quando vorranno celebrare la Messa, puri e con purezza compiano con riverenza il vero sacrificio del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, con intenzione santa e monda, non per motivi terreni, né per timore o amore di alcun uomo, come se dovessero piacere agli uomini (cfr. Efesini, 6, 6; Colossesi, 3, 22)" (Lettera a tutto l'Ordine, 14). Francesco non solo vuole che i suoi frati venerino i sacerdoti a motivo del loro ministero, ma che gli stessi frati sacerdoti siano santi e abbiano in grande venerazione il corpo e sangue del Signore di cui sono ministri e servi:  "Ascoltate, fratelli miei. Se la beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo grembo; se il Battista tremò di gioia e non osò toccare il capo santo del Signore; se è venerato il sepolcro, nel quale egli giacque per qualche tempo; quanto deve essere santo, giusto e degno colui che tocca con le sue mani, riceve nel cuore e con la bocca e offre agli altri perché ne mangino, Lui non già morituro, ma in eterno vivente e glorificato, sul quale gli angeli desiderano volgere lo sguardo (1 Pietro, 1, 12)!" (Lettera a tutto l'Ordine, 21-22). Francesco esige che i suoi frati sacerdoti siano santi giusti e degni di toccare con le proprie mani il corpo del Signore. Ed è questo contatto diretto, materiale, delle mani con l'eucaristia che suscita in Francesco l'atteggiamento di venerazione per i chierici di cui le antiche fonti biografiche ci

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danno notizia. Tommaso da Celano negli anni 1246-1247 scrive che Francesco "voleva che si dimostrasse grande riverenza alle mani del sacerdote, perché a esse è stato conferito il potere di consacrare questo sacramento. Diceva spesso:  "Se mi capitasse di incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il sacerdote e correrei a baciargli le mani. Direi infatti:  Oh! Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo della vita (cfr. 1 Giovanni, 1, 1) e possiedono un potere sovrumano!" (Tommaso da Celano, Memoriale nel desiderio dell'anima, 201). Francesco non si limita a esortare e ammonire solo i sacerdoti del suo Ordine, ma, quale vero dispensatore dei doni ricevuti dal Signore, vuole che a tutti i chierici giunga la sua convinta esortazione attraverso i suoi scritti, o attraverso alcuni fratelli da lui incaricati.

La novità della pace costantiniana

Per il conferimento del dottorato "honoris causa" il cardinale bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa ha preparato una lectio magistralis di cui diamo ampi stralci.

di Raffaele Farina Da un anno circa sono iniziati i preparativi per le celebrazioni dei 1700 anni dalla promulgazione del cosiddetto Editto di Milano del febbraio del 313. Altri due anniversari sono già stati celebrati, per citare gli eventi più significativi:  nel 2006 quello di York per la proclamazione di Costantino imperatore Augusto nel 306, e nel 2007 quello di Treviri per la nomina a Cesare del medesimo. Tali manifestazioni hanno richiamato l'attenzione dei media e delle

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istituzioni scientifiche e culturali su quella che rimane pur sempre una figura controversa, l'imperatore Costantino il Grande. Su tale personaggio si possono in genere ritenere acquisiti i punti fondamentali di quella che è stata la sua storia, la vita, l'azione, le scelte politiche e religiose, nel periodo che va dal 306, l'inizio dell'ascesa al potere, fino al 337, la data della sua morte. Tale ristretto spazio di tempo è stato, a giusta ragione, definito "epoca costantiniana", per i cambiamenti verificatisi, la pregnanza di essi e le conseguenze nello spazio e nel tempo in riferimento alla persona dell'imperatore Costantino. Egli viene ritenuto dai contemporanei e dai posteri il primo imperatore cristiano e fu onorato nella storia, a breve distanza dalla sua scomparsa, con il titolo di Grande. Quanto al titolo di Grande questo gli è stato dato, in qualche maniera, già dai suoi contemporanei. Il panegirista del 313 lo definisce maximus imperator, Constantinus maximus (Panegirici latini, 9, 26, 5; 10, 3, 1). E

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Prassagora di Atene, storico pagano contemporaneo di Costantino, è stato, a dire di Fozio, il primo a dare questo titolo all'imperatore, in un panegirico tenuto dopo la vittoria su Licinio, nel 324. È da notare come dal 325 in poi l'imperatore viene raffigurato nella monetazione non più con la corona d'alloro, come i suoi figli, ma con il diadema. Eusebio conferma l'uso della porpora e del diadema da parte dell'imperatore nella descrizione della salma esposta dopo la sua morte. La più incisiva epigrafe della grandezza dell'imperatore nella considerazione dei contemporanei fu espressa dal panegirista Nazario nel discorso, tenuto a Roma per il quinquennale dei figli di Costantino, Crispo Cesare e Costantino ii Cesare:  Una demum Constantini oblivio est humani generis occasus. Consideriamo ora Costantino e la sua ideologia della pace. So che il termine ideologia è ambiguo. Il mio uso è strumentale al discorso che sto per fare. Intendo con esso l'intuizione di un progetto; progetto, in questo caso, di una pacificazione universale che si va precisando mano a mano che esso viene realizzato e che potrà essere definito nel momento stesso in cui sarà completato e non sarà più un progetto ma una realtà. L'idea di pace nel IV secolo fa riferimento all'organizzazione generale del mondo in quel tempo. L'organizzazione della pace, allora, anziché essere una sovrastruttura dell'ordinamento internazionale, come possiamo pensarla oggi, era compito e prerogativa dell'impero Romano, al quale, per il suo carattere etico e religioso, si pensava fossero affidate le sorti dell'umanità intera. L'idea di pace si era evoluta fino ad assumere, in quel tempo, il significato vasto e generale di eliminazione di ogni contrasto violento interno ed esterno.

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Nella concezione poi dell'investitura divina del potere imperiale (l'imperatore considerato come vicarius Dei), la pace e la concordia che dovevano regnare nel mondo erano frutto di un ordine che proveniva dall'alto, ai sudditi attraverso gli imperatori, agli imperatori dalla divinità. I gruppi di porfido della facciata della basilica di San Marco a Venezia e dei Musei Vaticani, che raffigurano i quattro principi (Diocleziano, Massimiano, Costanzo e Galerio) abbracciati insieme unum in Rempublicam sentientes, rappresentano tangibilmente l'immagine della "concordia" imperiale, sulla quale era fondata l'unità dell'impero e la pace nel mondo, riflesso della concordia fra gli dei, esempio dell'unità dell'impero e suo simbolo. "Pace e concordia - ha scritto Bruno Paradisi - fondatrici dell'unità, erano in tal modo divenute piuttosto la conseguenza di un ordine predeterminato, che non la causa esse stesse di quella unità". Completava questa concezione l'idea che l'unità, l'eternità e l'universalità fossero qualità inseparabili dell'impero. Dagli scritti e dalla politica di Costantino risultano evidenti alcune caratteristiche che determinano l'ideologia della pace. La pace ha una data, il 324, e si configura come "assenza di guerra", interna ed esterna, con la conseguenza dell'unificazione dell'impero e la sicurezza dei confini. Idealmente la securitas, che è la parte visibile della pace, garantisce la continuità e come tale viene definita perpetua:  securitas perpetua. Oggettivamente però l'assenza della guerra, altrimenti detta "pace negativa", indica una situazione molto vicina a quella che noi chiameremmo oggi una lunga tregua. Una tale situazione comporta all'interno l'esercizio della tolleranza, ma non oltre un certo limite e lasciando sempre uno spazio al privilegio. La religione cristiana viene coinvolta in

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tale progetto e talvolta ne occupa lo spazio privilegiato. L'imperatore, come vicarius Dei e primo responsabile, ne è il protagonista con tutte le sue titolarità di propagator imperii, victor, e via dicendo, e l'elenco delle virtù da praticare:  pietas, iustitia, clementia, providentia, philantropia, megalopsychia, moderatio, indulgentia, che rendono degno l'imperatore del suo incarico e producono come effetto securitas, tranquillitas, hilaritas, pax. Infine le "opere del regime", il cerimoniale di corte, la propaganda (la panegiristica e la monetazione) sono espressione - almeno erano intese così a quel tempo - della prosperità, segno questo della benevolenza divina ed effetto della pace. Si possono ricordare la costruzione della nuova capitale Costantinopoli, la costruzione di edifici pubblici, le basiliche cristiane, gli archi di trionfo. Una chiesa della Santa Pace fu costruita a Costantinopoli, in corrispondenza (concorrenza?) con l'ara pacis di Augusto a Roma. Questa pax illa sanctissimae fraternitatis è prima di tutto un dono interiore di Dio - riporto qui dagli scritti di Costantino e da citazioni in Eusebio di Cesarea - e poi è un suo comandamento, un dovere nei riguardi della legge divina, di custodirla, la pace, e di ricomporla non appena si sia in qualche modo incrinata. Essa è il desiderio primo dell'imperatore, è il senso della sua azione nei riguardi della Chiesa (anche, se è il caso, con l'aiuto dell'imposizione delle tasse). La fede, la pace e la concordia (pìstis, eirène, homònoia) sono come l'aria vitale del popolo di Dio. L'impero stesso ne trae sicuro giovamento. È perciò del tutto incomprensibile compromettere un tale incomparabile dono in una lotta per il dogma. Naturalmente, leggendo tante espressioni

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di preoccupazione per la pace della Chiesa (e dell'impero), ci si domanda quanto di convinzione religiosa e quanto di responsabilità (calcolo?) politica vi fossero nell'imperatore. Un punto di soluzione a questo problema, tipico del nostro tempo, sta nel fatto che, nella mentalità di quel tempo, e specificamente in quella di Costantino, c'era sì una distinzione di piani (religioso e politico), ma non di ambiti in cui si esercitava l'unico potere politico-religioso. E ciò per una ragione più profonda, come fa giustamente notare Dörries. Le parole, le espressioni allèlon filìa, symphonìa, agàpe, eirène e homònoia indicano quella pax fraternitatis, che non è nient'altro che l'amore fraterno cristiano, e che, pur nell'approssimazione di una Soldatenglaube (Josef Vogt), come è quella di Costantino, rimane tuttavia qualcosa di completamente nuovo e diverso.

Il linguaggio dei gesti e dei segni nell'iconografia paleocristiana

In battaglia a braccia distese e mani aperte

di Fabrizio Bisconti

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Il repertorio dei gesti assunti dai personaggi, che animano le scene della più antica arte cristiana, assume un significato di estrema importanza per l'interpretazione degli episodi e delle figure

simboliche, che si affacciano sullo scenario iconografico tardoantico. È vero che il linguaggio dei gesti e degli atteggiamenti aveva sempre rivestito un ruolo di rilievo nelle manifestazioni figurative antiche, ma è anche vero che in tali espressioni artistiche, complicate dalla convergenza di molti altri elementi, sia per quanto attiene il vero e proprio apparato figurativo, sia per quel che riguarda l'ambientazione, intesa come assieme di attributi più o meno complementari, i gesti assurgono a un livello di secondaria importanza, per l'interpretazione globale della scena. Nelle prime manifestazioni iconografiche cristiane, invece, quando le scene mostrano un accelerato impoverimento delle presenze figurative, si acuisce il significato delle pose, degli atteggiamenti e dei gesti, talché alcuni di essi denunciano immediatamente un'evidente ventaglio di significati. In questo contesto può essere collocata una gamma di gesti-base, come

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quelli che ruotano attorno all'orbita filosofica che vedono i saggi e i santi levare le braccia nel gesto dell'adlocutio o sorreggere la virga, per potenziare la forza taumaturgica di questi personaggi eccezionali. Altri gesti denunciano un'ascendenza diretta dal patrimonio iconografico classico, come quello che comporta una mano sollevata all'altezza del mento, in atteggiamento altamente riflessivo, per indicare l'humor melanconicus, che la letteratura attribuisce agli eroi della tragedia e della mitologia come Medea ed Eracle. Ebbene, nell'arte paleocristiana, tale gesto pare significare una presa di coscienza nei confronti di un destino infausto. Per questo assumono l'atteggiamento melanconico alcune figure che si concentrano verso un futuro tormentato, come quello di Pietro nell'episodio della negazione, dei protoparenti dopo il peccato, di Giuseppe e Maria nella scena di natività, di Isacco nel momento del sacrificio, di Pilato in occasione del giudizio. Un significato polivalente assume, infine, il gesto dell'impositio manuum che serve a indicare l'accusa, la benedizione, la guarigione e la grazia del battesimo. Ma il gesto più diffuso nell'arte cristiana delle origini è quello comunemente conosciuto come l'atteggiamento di orante, nel quale si intravede una continuità tra la posizione assunta dalla personificazione pagana della pietas e la condizione cristiana della preghiera. Nei coni monetali di epoca romana, infatti, appare spesso una figura femminile in atteggiamento di orante, commentata dalle legende:  vota publica, pietas, pietas publica, pietas Augustae, pietas Augustorum. La figura appare con le mani levate all'altezza del petto, in un atto di virtuale proposizione

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verso un interlocutore, collegandosi al concetto più intimo della pietas, che pone l'uomo nella condizione di adempiere ai propri doveri nei confronti dei genitori, dei figli, della famiglia, della gens, della razza. Questa virtù si dirige verso due diverse vie interpretative, ossia verso i componenti della famiglia in vita, ma anche verso i defunti, verso i parentes, nei confronti dei quali si praticavano veri e propri atti cultuali. E poiché gli dei romani erano considerati un po' i parentes della patria, la devozione nei loro confronti veniva intesa proprio come l'espressione della pietas. Ne consegue un reciproco rapporto tra imperatore e popolo:  mentre il primo, come pater patriae, riceveva una forma di rispetto e devozione, il secondo riconosceva al sovrano l'appellativo di pius, che si estendeva anche agli altri componenti della famiglia imperiale. Insomma, il termine pietas riunisce due vie significative difficilmente conciliabili:  da una parte emerge la pietas adversus deos, secondo la formula ciceroniana, dall'altra, possiamo intravedere la pietas erga homines, nel senso più ampio del termine, che include i concetti di rispetto, devozione e pietà. Mentre, in epoca molto antica, la componente umana prevale su quella cultuale, in età imperiale le due componenti sembrano combinarsi, come dimostra la monetazione, dove la pietas assume l'atteggiamento solenne del voto, dell'impegno, del giuramento, della promessa. Nella cultura figurativa paleocristiana, il gesto dell'orante appare come la posizione più naturale che l'uomo assume nel momento della preghiera, quasi a instaurare un intenso rapporto con il Signore.

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Questa urgente interpretazione proviene direttamente da alcuni luoghi veterotestamentari:  "Quando Mosè alzava le mani Israele era più forte, ma quando le lasciava cadere era più forte Amalek " (Esodo, 17, 11); "Innalziamo i nostri cuori al di sopra delle mani verso Dio nei cieli" (Lamentazioni, 3, 41); "Alzerò le mani verso i tuoi precetti che amo, mediterò le tue leggi (Salmi, 118, 48); "Come incenso salga la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera" (Salmi, 140, 2):  "Tutto il giorno ti ho chiamato, o Signore, verso di te protendo le mie mani" (Salmi, 138, 10); "Ho teso le mani ogni giorno a un popolo ribelle" (Isaia, 65, 2). Anche nella letteratura romana si desume che il gesto fosse utilizzato nella preghiera, a cominciare da Catullo, il quale riferisce che a Calvo, accusato di broglio elettorale, non rimane che rivolgersi agli dei, levando loro le mani (Carmina, 53, 4-5); Virgilio, nell'ambito del racconto della tragica fine di Troia narrata da Enea a Didone, ricorda che Anchise, accingendosi a pregare Giove, levò gli occhi pieni di speranza verso le stelle e tese le mani al cielo (Eneide, ii, 687) e ancora nell'Eneide (vi, 314), le anime, che attendevano di essere traghettate da Caronte, levano le mani in segno di preghiera; Cicerone, infine, attesta di elevare le mani anche in occasione di preghiera rivolta ad altri uomini (Epistulae ad familiares, vii, 5). Il gesto delle mani levate compare, nel corso del iii secolo, nei cosiddetti sarcofagi criptocristiani e nelle pitture delle catacombe, interessando alcune immagini maschili e femminili, assieme a figure di filosofi, pescatori e pastori. Da quel momento, il gesto interessò i personaggi più diversi:  quelli veterotestamentari (fanciulli nella fornace, Daniele tra i

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leoni, Noè nell'arca, Susanna tra i vecchioni) per indicare la salvezza già avvenuta; quelli neotestamentari (il cieco, il lebbroso); quelli dei defunti, dei martiri e dei santi, per rendere il concetto della condizione beatifica, di ricongiunzione alla grazia divina, dopo il peccato. Pian piano, il gesto assume un significato simbolico, allontanandosi dal concetto stretto di preghiera per approdare alla manifestazione della felicità nella pace divina e nella beatitudine celeste. Non possiamo, comunque, allontanarci completamente dall'idea della preghiera, che nutre il significato fondamentale dell'atto in riferimento speciale a quella preghiera continua che, per il cristiano, non finisce in terra, ma perdura anche nell'aldilà e che si era iniziata con il battesimo:  da quel momento l'uomo, coerente alle sue promesse e fedele al consiglio di Paolo (1 Tessalonicesi, 5, 17), canta incessantemente, senza mai interrompersi, la gloria di Dio. Tale interpretazione è sostenuta dalle fonti patristiche, anticipate da un altro eloquente luogo paolino:  "Voglio, dunque, che gli

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uomini preghino dovunque si trovino, alzando le mani pure, senza ire e senza contese (1 Timoteo, 2, 8), mentre Clemente di Roma nella sua lettera ai Corinzi puntualizza:  "Avviciniamoci a Lui nella santità dell'anima, alzando le mani pure e senza macchia" (29, 1). Ancora più precisa appare la testimonianza di Minucio Felice, che, tra l'altro, farebbe intuire la perfetta identità di atteggiamento tra pagani e cristiani (Octavius, 19), mentre Tertulliano tiene a precisare:  Nos, vero, non attollimus tantum, sed etiam expandimus manus (De oratione, 16, 1). Oltre a Origene e a Tertulliano - che dedicarono opere specifiche alla preghiera - si riferiscono al gesto Ambrogio, Ireneo, Ippolito di Roma, Clemente Alessandrino e Cipriano. Dall'esame di questi testi risulta sostanzialmente che il gesto ha, innanzi tutto, un significato antropologico, nel senso che l'elevazione delle mani esprime la tensione di tutto l'essere umano verso Dio, collegando il singolo fedele all'opera redentrice del Cristo, dal momento che riproduce la posizione assunta dal Salvatore sulla croce.

Sant'Ambrogio confessore misericordioso

Se vuoi guariremostra al medico la tua ferita

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di Inos BiffiSecondo sant'Ambrogio il Cristo misericordioso o la misericordia che da lui proviene è il motivo per cui Dio ha creato il mondo e particolarmente ha creato l'uomo. Il perdono è la prima e l'ultima parola del mondo e della sua storia. Di conseguenza, ai suoi occhi il peccato non ha la competenza di decidere e di riuscire, ed è già, in certo modo, preventivamente perdonato e sciolto. Anzi:  esso stesso ha una sua positività, servendo per l'esaltazione dell'opera autentica cui Dio mirava, che non è la creazione, bensì la redenzione, incomparabilmente più stupenda. Più di tutti gli altri Padri della Chiesa egli ha sentito la potenza della grazia che ricrea e per la quale la colpa si

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dissolve. Egli ha scritto:  "Dove si tratta di elargire  la  grazia,  là Cristo è presente; quando si deve esercitare il rigore, sono presenti solo i ministri, ma Cristo e assente" (De Abraham, i, 6, 50). Il Cristo di Ambrogio è specialmente il medico, che cura le ferite dell'anima. Egli così faceva pregare Levi:  "Recidi, Signore Gesù, con la tua spada affilata quanto in me è corrotto a causa dei miei peccati. Elimina tutto ciò che è guasto, mentre ancora mi tieni avvinto con le catene dell'amore". E riconosce:  "Anch'io ero piagato dalle passioni:  ho trovato un medico, che abita in cielo ed effonde la sua medicina sulla terra:  egli solo può risanare le mie ferite, perché non ne ha di proprie. Egli solo può cancellare il dolore del cuore, il pallore dell'anima, poiché conosce i mali nascosti" (Expositio evangelii secundum Lucam, v, 27). "Scopri al medico - esorta il vescovo - la tua ferita, per poter guarire. Anche se non la mostri, egli la conosce, e tuttavia attende di sentire la sua voce. Cancella le tue cicatrici con le lacrime:  così la donna nel vangelo cancellò il suo peccato e allontanò il fetore delle sue colpe" (De paenitentia, ii, 66-67). Il Cristo che sant'Ambrogio si compiace di rievocare è il Cristo che guarda Pietro e ne riempie gli occhi di pianto salutare.

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Ambrogio non esita a confessarsi, quando pensa allo sguardo del Signore, sommamente e continuamente desiderato - ad affascinarlo, di Cristo, è particolarmente lo sguardo - e non è difficile immaginare la sua conversione come un'esperienza intensa di questa carità misericordiosa, che trasfonderà nei suoi inni, perché i suoi fedeli la imprimano nella memoria e nel cuore. E con la figura di Pietro in lacrime, a fissare l'ammirata considerazione di sant'Ambrogio è quella del ladro che, morendo perdonato, passa in un attimo nella vita e nel regno, dal momento che "la vita consiste nell'essere con Cristo, poiché dove c'è Cristo, là c'è il regno" (Expositio evangelii secundum Lucam, x, 121). Canta nell'inno pasquale (Hic est dies verus Dei):  "Agli smarriti Dio ridonò la fede; ridiede luce, con la vista, ai ciechi. Chi sarà ancora oppresso da timore dopo il perdono al ladro? Questi mutò la sua croce in un premio, Gesù acquistando con rapida fede; così, giustificato, arrivò primo nel regno di Dio. Persino gli angeli ne stupiscono, contemplando lo strazio  delle  membra, e, tutto stringendosi a Cristo, il reo carpire la vita beata". Il seguito è tutto un canto all'onnipotenza e alla riuscita della misericordia:  "Che c'è di più sublime? Cerca la grazia la colpa (...) è dall'amore vinta la paura, la morte ci ridona a vita nuova". La conclusione è

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l'annientamento della morte, la sola a perire nella salvezza universale. La visione cristiana e pastorale di Ambrogio, per il quale il Signore Gesù si fa trovare anche da chi terribilmente ritarda, non ha nulla di deprimente:  la sua concezione cristiana rasserena e infonde fiducia, proprio perché tutta affidata alla tanta pietas del Signore Gesù (Epistula iii, 10). Ma il testo più stupefacente e più rivelatore della teologia di Ambrogio sulla misericordia come sostanza e motivo della creazione si legge al termine del commento all'opera dei sei giorni:  "Il Signore Dio nostro - osserva - (...) creò il cielo e non leggo che si sia riposato; creò la terra e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna le stelle, e non leggo nemmeno allora che si sia riposato; ma leggo che ha creato l'uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati" (Exameron, vi, ix, 10, 76). L'uomo, "preziosissima opera di Dio (pretiosissimum opus Dei)" (Expositio Psalmi cii, 10, 6), - "senza del quale il mondo sarebbe risultato vano" (ibidem, 10, 7) - è creato da Dio fin dal principio come "essere perdonabile", anzi, come un essere "da perdonare". Nel suo disegno misterioso e imperscrutabile il tratto divino che Dio vuole avanzare e rivelare, in cui di fatto

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unificare tutti gli altri, è l'amore misericordioso, o l'amore che perdona. Il Cristo redentore o il Cristo crocifisso appare,  così, il motivo per cui Dio crea il mondo. Per questo dove si esercita la misericordia si fa festa in cielo:  la creazione raggiunge il suo fine e la sua gloria. Sant'Ambrogio non cesserà di rievocare questo disegno che apparirà come la ragione per la quale la Chiesa e i suoi ministri devono essere, contro il rigorismo di un Novaziano, i segni delle pietà; per questo soprattutto ricercherà il volto o lo sguardo di Cristo. Egli giungerà a dire:  "Beata la caduta, che da Cristo viene in meglio riparata (Felix ruina, quae reparatur in melius)" (Explanatio Psalmi xxxix, 20):   vengono  in mente le parole dell'Exsultet romano:  "O felice colpa, che meritò di avere un così qualificato e così grande redentore! Non ci sarebbe stata di vantaggio la creazione, se ci fosse mancato il beneficio della redenzione":  parole in qualche manoscritto medievale cancellate o mancanti, perché ritenute eccessive. Ma ascoltiamo ancora da Ambrogio:  "Non mi glorierò perché sono giusto, ma mi glorierò, perché sono redento. Mi glorierò non perché sono vuoto di peccati, ma perché i peccati mi sono rimessi. È più proficua la colpa dell'innocenza. L'innocenza mi aveva reso

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arrogante, la colpa mi ha reso umile" (De Iacob, i, 6, 23). E rivolgendosi a Cristo dirà:  "Signore Gesù, sono più debitore alle tue sofferenze, per le quali sono stato redento, che non alla potenza delle tue opere, per le quali sono stato creato. Non sarebbe stato utile nascere, se non avessi avuto il vantaggio della redenzione" (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 41-42). Un ultimo testo di Ambrogio:  "Anche la colpa dei santi è utile:  Non mi ha nociuto per nulla la negazione di Pietro, mentre mi è stato di vantaggio il suo ravvedimento" (ibidem, x, 89). Istituito così il Cristo misericordioso nel suo primato, Ambrogio è soprattutto a lui che si affida e che affida il ministero della Chiesa e la speranza degli uomini. Ed è la vicissitudine di Pietro - che, dopo aver rinnegato, allo sguardo di Cristo piange e si ravvede - che ritorna per animare la confidenza per sé e per i suoi fedeli, ai quali ogni giorno, nell'inno "al canto del gallo" (Aeterne rerum conditor), rievocava quel pianto e quel perdono:  "Il gallo canta. La sua voce placa il furioso fragore dell'onda; e Pietro, roccia che fonda la Chiesa, la colpa asterge con lacrime amare". E dalla narrazione passa alla preghiera:  "Gesù Signore, guardaci pietoso, quando tentati incerti vacilliamo:  se tu ci guardi, le macchie dileguano e il peccato si stempera

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nel pianto". Ambrogio si soffermerà sul perdono di Pietro con evidente agio e soddisfazione nell'Esamerone, nel Commento a Luca, nel De paenitentia. Soprattutto in questo testo troviamo la teologia, la spiritualità e la pastorale della misericordia secondo Ambrogio, insieme - potremmo dire - con le sue confessioni, commosse, pur nel loro riserbo. È un messaggio di fiducia:  "Cristo verrà alla tua tomba, e se vedrà piangere per te Marta, donna impegnata in un premuroso servizio, Marta, che ascoltava attentamente la parola di Dio, come la santa Chiesa, che "ha scelto per sé la parte migliore", sarà mosso a compassione" (De paenitentia, ii, 52). Ed ecco la preghiera:  "Signore Gesù, con piena fiducia sono venuto alla tua Chiesa. Manda i tuoi servi ai crocicchi delle strade, raccogli i buoni e i cattivi, fa' entrare nella tua dimora storpi, ciechi e zoppi. Comanda che essa sia strapiena, introduci tutti alla tua cena:  tu renderai degno chi inviterai e ti avrà seguito. Manda a invitare tutti. La tua Chiesa non declina l'invito al tuo banchetto. La tua Chiesa confessa le sue ferite e vuole essere curata. Anche tu, Signore, desideri guarire tutti e nel più debole di noi esperimenti la nostra infermità" (ibidem, i, 30-32).

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Abbiamo parlato delle confessioni di Ambrogio. Le ascoltiamo in questo vibrante e commovente brano del De paenitentia, che ci introduce ai suoi sentimenti più personali e più umili, dov'è rievocata l'inattesa e non desiderata nomina episcopale e la sua condotta mondana che l'aveva preceduta. Egli sa bene quello che dicono di lui:  "Ecco quello che non è stato allevato nel grembo della Chiesa, non è stato domato fin da ragazzo, ma è stato trascinato a forza dai tribunali, strappato dalle vanità di questo mondo; quello che, abituato un tempo alla voce del banditore, si è avvezzato al cantico del salmista, rimane nell'episcopato non per suo merito ma per grazia di Cristo, e siede tra i convitati della mensa celeste". Ma questo giudizio non deprime Ambrogio; al contrario, esso gli accende nel cuore l'implorazione ancora più ardente:  "Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo. Per la tua grazia sono quello che sono, e sono senz'altro l'infimo tra tutti i vescovi e il meno meritevole; tuttavia, siccome anch'io ho affrontato qualche fatica per la tua santa Chiesa, sèrbane i frutti. Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quando era perduto, hai chiamato all'episcopato; e soprattutto concedimi la

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grazia di condividere con intima comunione il dolore dei peccatori:  questa è la virtù più alta (...) Ogni volta che si tratti del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione, di non rimproverarlo altezzosamente, ma di gemere di piangere con lui, così che, mentre soffro per un altro, io pianga su me stesso, dicendo "Tamar è più giusta di me"" (ibidem, ii, 73). Paolino scrive nella sua Vita di Ambrogio che il vescovo "ogni qualvolta uno, per ricevere la penitenza, gli confessava le sue colpe, piangeva in modo tale da indurre anche quello al pianto; gli sembrava infatti di essere caduto insieme con quello che era caduto peccando" (Vita Ambrosii, xxix, 1). E, continuando le sue confessioni, Ambrogio aggiungeva in un crescendo di umiltà e di compassione:  "Può darsi che sia caduta una giovinetta, ingannata e travolta delle occasioni, che sono un incitamento ai peccati. Pecchiamo noi vecchi; la legge di questa nostra carne si ribella in noi alla legge del nostro spirito e ci trascina prigionieri verso il peccato, così che facciamo ciò che non vorremmo. Quella ha una scusa nella sua età, io non ne ho nessuna:  essa infatti deve imparare, noi insegnare. Dunque, "Tamar è più giusta di me"" (De paenitentia, ii, 72-73). E tuttavia la coscienza della propria indegnità non

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deprime il vescovo:  egli per primo confida nella pietà del Signore Gesù.

Il santo vescovo di Milano e la confutazione degli ariani

Ambrogio e il segreto della libertà

di Inos Biffi

Gran parte delle più note e talora drammatiche scelte di sant'Ambrogio trovarono la loro origine e la loro forza nella sua coscienza di vescovo, libera da qualsiasi condizionamento che non fosse quello della verità, cioè di Dio, che in tale coscienza traspare con la sua legge. Ed è, così, subito menzionata la relazione "teologica", che per Ambrogio istituisce e fonda la stessa coscienza con i suoi imperativi e la sua indipendenza; o, più concretamente, la relazione cristologica, cioè la signoria di Cristo. Egli afferma:  "Cristo solo è il Signore" (De Ioseph Patriarca, 9, 49); "Chi ha molti padroni non può dire a uno solo:  "Signore Gesù, io appartengo a te" (Explanatio ps. 118, 12, 41). E, d'altra parte, proprio questa appartenenza esclusiva, mentre lo vincolava interiormente, lo liberava da ogni potere esteriore, fosse pure quello degli imperatori e della loro corte, che pretendesse di contrastare alle ragioni di verità della sua "coscienza interiore

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(interior coscientia)". Un vescovo ariano, che non riconosceva la divinità di Gesù e quindi la sua assoluta signoria su ogni potere umano, non poteva che essere cortigiano, e per ciò non libero, come il predecessore di Ambrogio, Aussenzio. Il vescovo di Milano dichiarerà senza timore alcuno:  "Per quanto grande sia il potere imperiale, considera, o imperatore, quanto sia grande Dio:  egli vede i cuori di tutti, interroga la coscienza interiore, conosce tutte le cose prima che avvengano, conosce l'intimo del tuo cuore" (Epistula extra collectionem, 10, 7). "È indegno di un imperatore - asseriva Ambrogio - soffocare la libertà di parola, ma è indegno di un vescovo tacere il proprio pensiero" (Epistula extra collectionem, 1a, 2). La coscienza è una luce che rischiara nell'intimo:  "La tua coscienza, che bene riluce in questo corpo, è la luce della lampada:  essa stessa è il tuo occhio" (Explanatio ps. 118, 14, 7); "Il tuo cubicolo è il segreto delle tue cose interiori:  esso è la tua coscienza" (De institutione Virginis, 1, 7), la quale rimane infrangibile di fronte a tutti e solo giudicabile da Dio, che vede nel segreto. Nella "coscienza interiore" - come Ambrogio amava chiamarla - echeggia la voce di Dio, al quale essa è primariamente aperta e trasparente, al quale ultimamente risponde, con la conseguente libertà rispetto a qualsiasi altro giudizio:  la legge e la presenza di Dio nella "retta coscienza dell'uomo" (De apologia David, 14, 66) generano l'incondizionabile e infrangibile libertà dell'uomo, che ritrova la garanzia di Dio. Per questa illustrazione della coscienza, Ambrogio torna spesso alla vicenda di Susanna. Egli osserva:  di fronte ai lacci della falsa

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testimonianza "solo la sua coscienza restava libera in Dio" (Explanatio ps. 118, 17, 25). La coscienza sa parlare anche là dove non se ne sente in maniera sonora la voce; essa non chiede il giudizio dell'uomo, avendo la testimonianza e l'arbitrio del Signore. Susanna, "tacendo davanti agli uomini, parlò a Dio. (...) Parlava con la sua coscienza là dove non si udiva la sua voce" (De officis, i, 3, 9); e "sola, priva di ogni aiuto, in mezzo a uomini, nella coscienza della propria onestà, invocava Dio come giudice. (...) Accusata, taceva, e, condannata, stava silenziosa, contenta del giudizio della propria coscienza" (De Spiritu Sancto, IIi, 40-41). Sono ancora parole di sant'Ambrogio:  "La buona coscienza non ha bisogno della difesa delle parole:  fondata sulla propria testimonianza, è giudice di se stessa" (Explanatio ps. xII, 38, 13, 1), e "lieta rifulge della sua luce (laeta lucet conscientia)" (ibidem 37, 38, 2). Per Ambrogio "la disgrazia più grande" sarebbe "la coscienza incatenata" (Epistula extra collectionem, xi, 3). "Libero - insegnava sant'Ambrogio - è colui che lo è dentro di sé" (Epistula 7, 17) ; "schiavo chi non possiede la forza di una coscienza pura" (De Iacob et vita beata, II, 3). E ancora una vòlta alla radice della libertà sta Gesù Cristo, il quale ha redento l'uomo, e, sciogliendolo dalla schiavitù e affrancandolo per sé, lo ha reso suo liberto, "liberto di Cristo" (De Iacob et vita beata, i, 12).

I Padri della Chiesa e la visione del mondo prima di Tolomeo

Chi l'ha detto che i medievali

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pensavano che la Terra fosse piatta?

Pubblichiamo la parte iniziale di uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento.

di Agostino Paravicini Bagliani

Secondo un'opinione ancor oggi diffusa, l'Occidente medievale avrebbe creduto che la terra non aveva la forma di una sfera ma di un disco piatto e circolare. Accogliendo l'idea di una terra piatta, l'Europa medievale avrebbe abbandonato una delle più importanti concezioni cosmografiche e geografiche dell'antichità classica, che aveva trovato le sue più alte riflessioni teoriche nelle opere di un Cratete di Mallo o del grande geografo Tolomeo. Il rifiuto della sfericità della terra sarebbe uno dei tanti elementi dell'oscurantismo del medioevo, e una vera e propria discriminante tra medioevo e Rinascimento. I progressi della scienza geografica astronomica greca si sarebbero perduti sull'altare di una cosmologia teologica di stampo cristiano; la sfericità della terra sarebbe stata condannata nel medioevo perché

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contraria al dogma dell'unicità del genere umano o per altre ragioni. Viceversa, la sfericità avrebbe riguadagnato terreno nel corso del rinascimento italiano, grazie all'introduzione in Occidente della Geografia di Tolomeo (all'inizio del XV secolo), alle grandi scoperte nautiche e ai viaggi di Cristoforo Colombo. Il medioevo costituirebbe una sorta di "vasta parentesi da Tolomeo a Tolomeo", dal secolo d'oro dell'Impero romano alla rinascita intellettuale dell'epoca delle grandi scoperte. A diffondere queste tesi, i manuali scolastici dell'Ottocento hanno svolto un ruolo determinante, in Italia e altrove. Essi riprendevano le grandi storie generali di quel periodo, relative alla storia della geografia, della cartografia e delle scienze naturali. Ma ciò che è storiograficamente ancora più curioso è che la tesi secondo cui la progressiva affermazione di una delle più importanti trasformazioni mentali del Rinascimento - la nascita della concezione del "globo terraqueo" - si sarebbe imposta contro le tradizionali concezioni cosmologiche del medioevo ostili alla sfericità della terra, è stata avanzata ancora qualche anno fa in un volume pubblicato dalla prestigiosa collana degli Annales di Parigi. Il passaggio de la terre plate au globe terrestre per riprendere il titolo dell'opera, costituirebbe persino una

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mutazione epistemologica del medioevo verso la modernità: "Durante tutto il medioevo, dal xii al XV secolo, spiriti sottili hanno tentato con diverse arguzie di elaborare sintesi per tentare di conciliare il mito biblico della terra piatta con l'idea greca di una terra rotonda: piatta a livello dell'ecumene abitabile, sferica soltanto a livello dell'astronomia. Alla fine del XV secolo questo fragile edificio, coerente in apparenza, si è infranto. L'esperienza della navigazione iberica, dall'Atlantico al di là dell'equatore, ha spezzato un'immagine rassicurante, alla quale ci si era abituati da tre secoli". Ora, ciò che mi interessa mettere in evidenza è che l'argomentazione del Randles - e più in generale di coloro che fin dall'Ottocento hanno messo in circolazione il mito della credenza medievale alla non sfericità della terra - si basano essenzialmente sulle celebri affermazioni di Lattanzio (250-317), che contengono la più categorica condanna della concezione sferica della terra. Come è noto, nelle Divinae institutiones, l'apologeta cristiano aveva sferrato un'acerba polemica contro "coloro che pensano che vi sono antipodi", i quali "hanno immaginato che il cielo era rotondo [...] e che anche la terra era rotonda come una palla, e che se il cielo è rotondo, anche la terra doveva essere rotonda" (Divinae institutiones, 3, 24).

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Il mito di un medioevo ciecamente favorevole a una concezione della terra non sferica appare in opere di alto livello storiografico (vi si riferiva ad esempio Aaron Jakolewitsch Gurjewitsch), anche se in questi ultimi decenni il problema è stato affrontato criticamente da numerosi specialisti della geografia medievale che hanno dimostrato la sua infondatezza. Sono studi che hanno condotto a conclusioni radicalmente opposte a quelle cui si riferiva la tradizione ripresa dal Randles. Già all'inizio degli anni Settanta del Novecento, lo storico americano della scienza medievale Edward Grant affermava: "Contrariamente a un moderno errore popolare, per il quale prima della scoperta di Cristoforo Colombo si sarebbe pensato che la terra fosse piatta, non si conoscono flat-earthers di una qualsiasi importanza nell'Occidente latino (medievale)". E come ha ricordato più recentemente Patrick Gautier Dalché: "Non vi è nessun testo latino medievale che sostenga che la terra è un disco piatto". Testi di questo genere non esistono anche perché, come è ben noto, Lattanzio fu riscoperto soltanto nel Quattrocento e non ha potuto quindi nutrire una discussione medievale in proposito. E quando fu riscoperto, non riuscì a convincere uomini di scienza come Copernico, che nella sua lettera dedicatoria al De revolutionibus, considerò "infantili" le opinioni di

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Lattanzio sulla forma della terra. Lattanzio impressionò però gli umanisti per le sue altissime qualità letterarie. Lorenzo Valla ne elogiò la qualità ciceroniana del suo stile. Una forte opposizione alla teoria della sfericità della terra fu enunciata nel vi secolo da un Alessandrino nestoriano, Cosma Indicopleuste. Nella sua Topografia cristiana, Cosma polemizza con la cosmologia pagana, proponendo di considerare l'universo (cielo e terra) non come una sfera ma come un tabernacolo, di larghezza due volte superiore all'altezza. Elaborando questa sua curiosa concezione cosmologica in aperta rottura con la cultura classica, Cosma infierisce contro i sostenitori della concezione di una terra come sfera e contro coloro che credono agli antipodi (4, 30-31), tentando in ogni modo di rendere ridicola la loro visione del mondo. La Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste conobbe un certo successo in Oriente e all'interno del mondo bizantino, ma è errato affermare, come è stato fatto, che tale opera abbia influenzato profondamente le concezioni geografiche dell'Occidente latino medievale: nel medioevo latino, essa, infatti, non fu né letta né tradotta. Se non si può ricorrere né a Lattanzio né a Cosma Indicopleuste per confermare la leggenda moderna della

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credenza medievale alla non sfericità della terra, ciò non elimina affatto il problema di una possibile influenza dei Padri della Chiesa sulle concezioni cartografiche e della visione del mondo. Il problema va però trasferito dalla non sfericità della terra alla questione degli antipodi, un problema a proposito del quale le affermazioni di sant'Agostino hanno esercitato una millenaria influenza fino al tardo Quattrocento. Nel De civitate Dei, sant'Agostino non aveva messo in dubbio la sfericità della terra in quanto tale, ma aveva dichiarato che credere che esistessero persone che vivevano agli antipodi della terra corrispondeva a una "favola" (16, 9). Anche l'unico testo medievale che sembrava poter confermare la credenza medievale alla non sfericità della terra riguarda di fatto soltanto la questione degli antipodi, di chiaro stampo agostiniano. Si tratta di una lettera di papa Zaccaria (741-752) al duca di Baviera, nella quale il pontefice risponde a una denuncia di Bonifacio contro l'irlandese Virgilio (+784), suo rivale per il titolo di vescovo di Salisburgo. In questa lettera, Virgilio viene definito sostenitore di una concezione cosmologica "perversa e iniqua", "contro Dio e la sua anima", poiché asseriva che "esiste un altro mondo e altri uomini sotto terra, ossia il sole e la luna". Per questa

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ragione egli sarebbe stato privato "dell'onore sacerdotale dal concilio". Le affermazioni di papa Zaccaria sono state oggetto di numerosi commenti, perché sembravano fornire la prova di una condanna pontificia della sfericità della terra. Ma un'analisi più accurata ha permesso al Gautier Dalché di dimostrare che ciò che era in gioco non era affatto la concezione di una terra sferica, ma l'idea che uomini o popoli potessero vivere al di là della zona equatoriale, ossia "agli antipodi". La discendenza di Adamo era unica e non avrebbe potuto espandersi al di là della zona torrida equatoriale, priva di vita. Sempre secondo il Gautier Dalché, noi non sappiamo se Virgilio fu processato, né tanto meno se fu condannato. Di un suo viaggio a Roma, in relazione con le accuse di Bonifacio, non si hanno notizie, anzi alla morte di Bonifacio, Virgilio fu nominato vescovo di Salisburgo, e dopo il 748 non sembra che egli sia stato oggetto di accuse. Al contrario, Alcuino lo elogia quale egregius praesul meritis et moribus almus e vir pius et prudens, nulli pietate secundus. E alcuni secoli dopo, nel 1233, Virgilio fu persino canonizzato, il che significa che né a Salisburgo né a Roma era rimasta traccia di un qualsiasi sospetto di eresia.

Letteratura cristiana antica e cultura occidentale

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Il medioevo dimenticatodei Padri della Chiesa

Pubblichiamo uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento.

di Claudio Leonardi

Esiste un medioevo dei Padri? L'interrogativo è evidentemente provocatorio. Ma la mia risposta nega questa provocazione, perché la risposta, se posso subito anticiparlo, è no: non esiste un medioevo dei Padri, storiograficamente non esiste. Il medioevo è stato classificato e inteso, genericamente, nella cultura illuminista, come un'età di mezzo tra le due grandi stagioni culturali dell'umanità, l'epoca classica con il pensiero greco e il diritto romano, e l'epoca moderna, con il predominio della ragione, nella convinzione che l'uomo con le sue qualità potesse guidare e dominare la storia. Questa "medietà" del medioevo, il medioevo come oscurità e negazione del vero, è storiograficamente esaurita, poiché è finita quella convinzione che la ragione

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dell'uomo, che l'uomo stesso, possa dominare l'evento storico; e tuttavia essa rimane latente, quella a cui si ricorre quasi istintivamente e che domina ancora di fatto la grande editoria e le aule universitarie; e questo, credo, perché nessuna altra idea generale del medioevo si è imposta. Questa condizione negativa lascia spazio alle ipotesi storiografiche più diverse ed è dunque una condizione aperta e diventa per questo una condizione positiva. Uno dei fatti di questa apertura è l'emergere a livello storiografico di studi non prima accolti nell'accademia e relegati soprattutto all'interno del mondo ecclesiastico. Finito il tempo in cui si poteva ritenere e sostenere che la fede cristiana era un inganno ed era perciò corruttoria, gli studi che avevano rapporto con fonti non solo e non tanto ecclesiastiche (giuridiche e teologiche in senso stretto), ma a fonti cristiane più tipicamente religiose, sono poco per volta riemersi come studi degni di questo nome e sono stati accolti nei corsi universitari. Hanno ottenuto, per così dire, il sigillo di una singolare laicità, cioè di studi sul tema religioso, e in particolare cristiano, a carattere filologico e storico. Il caso emblematico è quello dell'agiografia, che era sino almeno agli anni Cinquanta dello scorso secolo un tema sconosciuto nelle università, tutta presa nel considerare più ancora che le istituzioni i rapporti sociali ed

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economici delle classi medievali. Quando questo approccio al medioevo, che tuttavia opportunamente continua, è stato di fatto contrastato da altre esigenze (...) allora l'agiografia è ricomparsa al di fuori delle scuole teologiche, ma non si è fermata alla pratica strutturalista, tendenzialmente disinteressata a ogni discussione propriamente storica della ricerca, ha accolto domande filologiche (...) e persino domande storiche, con la formulazione dei modelli agiografici. L'aspetto più sorprendente di questa nuova nascita è, lo sappiamo, il fatto che l'agiografia è diventata in Italia una disciplina universitaria, prevista negli ordinamenti e di fatto insegnata da ordinari e associati in parecchie università. Si può intendere certo un testo agiografico come l'ha inteso la storiografia di matrice positivistica, cioè come un serbatoio di notizie e di fatti, ma la si è ora anche intesa nella sua natura strettamente agiografica, come la vita di un santo, una vita esemplare, misurata sul canone evangelico e quindi testimone di un modello di santità. Questo era assolutamente inconcepibile un secolo fa. Si potrebbe fare un discorso analogo per un'altra componente della tradizione cristiana, cioè sul binomio mistica-profezia, che indica la profonda intima esperienza di Dio nel cristiano o più in generale nell'uomo, e il parlare alla storia in nome di Dio, anche se il suo nome

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non viene fatto. Per queste componenti siamo ben lontani da riconoscimenti accademici, che forse non ci saranno mai e si può discutere se sia bene o meno, che ci siano. Ma da qualche parte si insegna, credo, storia della spiritualità, che tuttavia è un termine equivoco su cui non si riesce a trovare un accordo. Su mistica-profezia c'è ormai tuttavia un riconoscimento culturale sempre più ampio. Nel nostro mondo dove è in crisi l'identità personale come l'identità di gruppo, è cresciuta, e non solo né tanto tra i fedeli cristiani, che della mistica poco si fidano e s'aggrappano alle "cerimonie" (come diceva Savonarola), un'esigenza spirituale molto forte, che è dunque in grado di ascoltare le voci dei mistici, uomini e donne, che raccontano quella esperienza di Dio che ha loro dato una identità assoluta e una fermezza prima sconosciuta. È la stessa incertezza del futuro storico (...) che provoca curiosità verso il singolare fenomeno della profezia. Non si possono dire le stesse cose per l'attenzione ai Padri della Chiesa. La disciplina che li riguarda è da decenni insegnata nelle Università, sotto la direzione di letteratura cristiana antica, che ha suoi canoni e una sua dignità certificata. Ma non è questo il nostro problema, bensì il ruolo che i Padri hanno avuto nel medioevo. La medievistica non si è che marginalmente occupata del tema. Anzi, la storiografia medievistica ha

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prevalentemente, se non assolutamente, visto il momento dinamico della cultura medievale nella sopravvivenza e nell'uso dei classici greci (Platone e poi Aristotele) e soprattutto latini (Virgilio e Cicerone, Ovidio e Orazio, Giovenale e Seneca). Una presenza senza dubbio importante. Ma veramente si può dire che essa rappresenta la dinamicità della cultura medievale? Si ritorna al tema di ciò che il medioevo abbia potuto rappresentare. L'eredità classica-pagana ne è certo una componente; ma credo lo sia anche l'eredità cristiana (la Bibbia e, appunto, i Padri), come anche l'eredità germanica, elemento che solitamente viene messo in ombra anche perché per vari secoli si è espresso prevalentemente con un linguaggio orale. In realtà occorre comprendere il medioevo nella sintesi di queste tre componenti, che rappresenta la sua novità e originalità. Di essa fa parte, ben più di quanto la storiografia abbia voluto vedere, la cultura patristica. Si pensi a un mondo dove - del resto come nella cultura classica - il popolo è analfabeta e l'istruzione è affidata a scuole in sostanza elitarie. Riché ha dimostrato che la scuola classica non è tramontata neppure nei secoli vii e viii, quando minori se non minime sono le testimonianze scritte - vista l'egemonia orale germanica - ma le tradizioni scolastiche sono riprese in pieno con i capitolari di Carlo Magno,

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fissandone la sede presso gli episcopi e i monasteri. La cultura classica serve questa scuola, innanzitutto per la grammatica e la retorica (il cristianesimo infatti non è un'arte liberale) e per i poeti (ma Francesco Stella ha mostrato che le fonti della poesia carolingia sono sì Virgilio ma soprattutto i poeti cristiani tardo-antichi). È noto per altro che i giovani che si facevano monaci o preti, studiavano il latino sui Salmi, che ogni giorno avevano occasione di recitare o di cantare (non a caso, in molti codici, nei fogli di guardia, tra le prove di penna si trova spesso l'incipit del primo salmo: Beatus vir). È noto anche che la Bibbia nei dotti e nel popolo andava accompagnata da una esegesi come necessità assoluta, non solo e tanto per convenienza o autorità ecclesiastica, ma anche per necessità culturale. Il ricorso ai Padri era un passo ovvio e non evitabile. Per la scuola carolingia, che costituisce il piano educativo per molti secoli, cioè sino alle università, i corpora di commenti alla Bibbia sono per lo più semplici o complessi accorpamenti di passi patristici, in cui tagli, sovrapposizioni di testi diversi e aggiunte testimoniano l'attività non meramente compilatoria di quei maestri, che forniscono, appunto, la base patristica di tutta l'esegesi biblica medievale. Nel popolo la Bibbia era appresa attraverso la liturgia e attraverso la predicazione, oltre che mediante le illustrazioni iconografiche.

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Soprattutto la predicazione è carica di patristica. L'omeliario di Paolo Diacono, alla fine del secolo viii, ma resta in vigore per secoli, si compone di passi dei Padri a commento dei testi biblici della liturgia. È ben evidente che non c'è solo la liturgia nella formazione della consapevolezza e dell'identità medievale, c'è molto altro; ma la componente cristiana è certamente capitale e Bibbia e Padri ne sono il tramite fondamentale. Il cristianesimo impiegherà secoli a introiettare, pur mediandola, la componente germanica (e Alcuino ne dà testimonianza) e tanti più secoli a introiettare l'eredità classica, finché nel secolo xii questo processo è compiuto e l'uso dei classici avviene ormai senza più barriere di protezione. Il Comitato nazionale per celebrare Gregorio Magno nel centenario della morte, ha costruito, con la Sismel, un catalogo di codici gregoriani che ha dato lo stupefacente risultato di circa novemila schede. Mi chiedo quale autore classico abbia un numero così alto di testimonianze. I cataloghi di Munk-Olsen danno cifre molto ma molto più basse. Ma la ricerca sulla fortuna dei classici è storiograficamente accolta nell'accademia, quella dei Padri è quasi completamente, se non respinta, intravista o giudicata come non significativa. Per questo bisogna dire no all'interrogativo posto all'inizio. Si dice che l'alto medioevo è culturalmente nel segno di Platone e il basso nel segno di Aristotele. Ma le traduzioni da

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Platone sono poche e il loro uso non centrale, come le ricerche di Klibanski hanno fatto vedere. C'è sì molto Platone, ma mediato da Agostino, come forse più ancora molto medio e neoplatonismo, ma sempre con la mediazione di Platone. Dopo il secolo xii Aristotele invece non ha mediatori, o almeno opera anche direttamente, con le traduzioni dall'arabo e dal greco. Ma tutta la tradizione francescana da Alessandro di Hales a Bonaventura a Duns Scoto accetta di Aristotele solo il linguaggio razionale e una serie di concetti metafisici, ma lo combatte o lo limita e critica fortemente; e la fonte del limite è sempre e soprattutto Agostino, la Bibbia spiritualmente, ma culturalmente i Padri. Persino Tommaso è agostiniano, anche se - come molti affermano - opera una rivalutazione nella tradizione cristiana: l'influenza, pur ripensata, di Aristotele lo porta a una filosofia tutta costruita secondo ragione e una politica che opera, non secondo la fede, ma secondo razionalità - e consuetudines. Non più come ancora in Bonaventura, la reductio della filosofia alla teologia, ma una distinzione intellettuale dei due sistemi di pensiero, che appare il migliore inveramento della conquista spirituale e storica di Gregorio vii, la distinzione tra il potere politico e il potere ecclesiastico. La difesa della tradizione agostiniana operata dai francescani ha portato invece alla chiusura

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del tempo medievale. Il primato della volontà già presente in Bonaventura è stato da Giovanni Duns Scoto ulteriormente sottolineato, lasciando poco o nessun spazio alla volontà umana, e sviluppando una antropologia dove la volontà divina tende a essere tutto. Questa posizione non è estranea, evidentemente, al formarsi dell'umanesimo, che era antiscolastico perché anti-scotista, e afferma l'umano contro il pan-divino di Scoto. Si può proporre che con l'anti-scolastica l'influenza della patristica latina nella coscienza occidentale tenda a scomparire; in essa verrà tra poco a operare la patristica greca. Quella latina infatti, proprio perché debitrice di Agostino, è una cultura cristiana che vede l'uomo profondamente toccato dal peccato e che attende la salvezza da Cristo. Quella greca invece vede l'uomo avviato in un percorso che lo porta di tappa in tappa nella Trinità. Non si parla di salvezza ma di divinizzazione. Questa versione cristiana è quella che sola era pensabile dagli umanisti. Il medioevo aveva conosciuto relativamente pochi padri greci, in particolare il grande Dionigi pseudo-Areopagita e la sua concezione dell'inconoscibilità di Dio, che aveva segnato un filone secondario del cristianesimo medievale. Ora molti altri Padri greci vengono conosciuti, anche in particolare per l'insegnamento e le traduzioni di teologi e dotti che hanno

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lasciato Bisanzio per il concilio fiorentino e per l'invasione dell'islam. Da questo mio punto di vista, lo studio dei Padri nella storia culturale del medioevo e dell'umanesimo è una necessità storiografica che andrebbe affermata e resa operativa: censimenti di manoscritti, edizioni di testi, storia della fortuna all'interno della cultura medievale (sull'esempio dei lavori pilota di de Ghellinck): una prospettiva di lavoro gigantesca. Se storiograficamente il medioevo dei Padri non esiste, dovrebbe essere formato. Questa è del resto, se posso così finire, la coscienza storiografica che ha presieduto a molte iniziative della Sismel e della Fondazione Ezio Franceschini negli ultimi trent'anni, con cataloghi, edizioni, studi e convegni, tra i quali, benemeriti, quelli sui Padri e l'umanesimo indetti e guidati da Mariarosa Cortesi.

Esegesi biblica alla scuola dei padri

Dalla sapienza medievale i quattro sensi delle Scritture

di Inos Biffi

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Una delle eredità che i medievali raccolsero dai padri della Chiesa è quella del metodo esegetico simbolico, che, al senso storico immediato, aggiunge "un secondo modo di leggere e di intendere il testo" (Yves Congar). E, infatti, "sull'esempio dei padri i medievali saldano in uno stesso comportamento esegetico i procedimenti e le categorie ereditate dalla cultura ellenistica. Presso gli autori pagani, presso Filone, presso Origene, si era costituito un genere letterario per interpretare i testi (Omero, Virgilio, e così via) di là dalla loro lettera, con uno sdoppiamento, in cui il corpo del racconto, del mito, del mistero, era di fatto disgiunto a supposto vantaggio di uno "spirito", divenuto eterogeneo alla lettera. I cristiani (e Filone stesso) mantenevano certamente il dato storico primitivo:  essi accettarono tuttavia, specialmente ad Alessandria, i metodi dei loro contemporanei. Attraverso Ambrogio, Agostino, Gregorio, questi metodi penetrarono l'esegesi medievale occidentale. L'allegorismo unisce, così, la trasfigurazione cristiana della storia con una trasposizione morale nella quale i racconti biblici simboleggiano la vita interiore del giusto". Si tratta di una interpretazione della Bibbia "in cui la storia - la littera - è il supporto di una trasposizione continua a realtà soprastoriche di cui gli eventi terreni sono figura" (Marie-Dominique Chenu). Esattamente, quindi, come i padri, i medievali sono portati a cogliere nella Scrittura una "lettera" e uno "spirito", e viene in mente il libro di Henri-Marie de Lubac Histoire et esprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène. Sono, infatti, tratte dalle omelie di Origene le espressioni:  "Nelle Sante Scritture difendiamo la lettera e lo spirito", la "narrazione della storia", e

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realtà soprastoriche di cui gli eventi terreni sono figura" (Marie-Dominique Chenu). Esattamente, quindi, come i padri, i medievali sono portati a cogliere nella Scrittura una "lettera" e uno "spirito", e viene in mente il libro di Henri-Marie de Lubac Histoire et esprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène. Sono, infatti, tratte dalle omelie di Origene le espressioni:  "Nelle Sante Scritture difendiamo la lettera e lo spirito", la "narrazione della storia", e l'"intelligenza mistica". Ed è il principio che Alano di Lilla nel De planctu naturae enunciava in questi termini:  "Nella corteccia esteriore della lettera il suono della lira è inautentico; ma in maggior profondità esso rivela agli ascoltatori il segreto di una intelligenza più penetrante; in tal modo, rimosso il guscio esterno di un'ingannevole apparenza, il lettore trova all'interno, come in segreto, un più dolce nucleo di verità". Per esprimere i diversi livelli, cioè i quattro sensi, della Scrittura, i medievali composero un celebre distico sui quattro sensi della Scrittura:  "La lettera insegna quanto è avvenuto, / l'allegoria quello che devi credere, / la morale quello che devi fare / l'anagogia il fine a cui devi tendere". (Littera gesta docet, / quid credas allegoria, / moralis quid agas, / quo tendas anagogia) (Nicola di Lyre, Postilla in Gal., 4, 3; cfr. H. de Lubac, Esegesi medievale, ii, Milano, Jaca Book, 1988, pp. 345-364). Sono in tal modo rilevati il senso letterale o storico, il senso allegorico, quello morale o tropologico e quello anagogico:  "Sui quali come fossero ruote, si muove tutta la sacra pagina" (Guiberto di Nogent, Moralia in Genesim. Liber quo ordine sermo fieri debeat, Proemium, in Patrologia Latina 156, 25).

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Nicola di Lyre commenta così il distico citato:  "Secondo il primo significato, che si manifesta attraverso le parole, si coglie il senso letterale o storico; in rapporto poi al secondo significato - che si esprime attraverso i fatti stessi - si percepisce il senso mistico o spirituale, che in generale presenta tre dimensioni; precisamente:  se le cose significate attraverso le parole rivelano ciò che nella nuova legge si deve credere, si attinge il senso allegorico; se rivelano quello che si deve sperare nella beatitudine futura, si attinge il senso anagogico, e da qui il verso citato; se poi si fa riferimento a quanto dobbiamo fare, si attinge il senso morale o tropologico" (Patrologia Latina 113, 28). Quanto a Stefano di Langton ricorda:  "Il maestro Ugo di san Vittore dice:  la sacra pagina è talmente superiore rispetto alle altre discipline che ciò che è da queste significato in teologia ha funzione significante. Le realtà che nelle altre facoltà sono indicate dai nomi e dalle parole, in teologia corrispondono a dei nomi" (da Beryl Smalley, Lo studio della Bibbia, p. 280). D'altra parte, questa viva sensibilità alla stratigrafia scritturistica - che certamente non mancò di essere rischiosa nel suo declinare in un allegorismo arbitrario, evacuante la "realtà" e attentante, alla fine, lo stesso spessore simbolico - si accordava felicemente, oltre che alla Scrittura stessa, a tutto l'orizzonte del medioevo, ossia alla "mentalità" universalmente simbolica, che contrassegnava i diversi settori della sua cultura, tutta impregnata di "segni", dalla teologia, alla filosofia, all'arte. Secondo Marie-Dominique Chenu, al quale dobbiamo gli studi più acuti e suggestivi sull'argomento, non si può "fare la storia delle dottrine cristiane, senza prendere in considerazione le risorse del simbolismo che nella natura, nella storia, nella pratica

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del culto, le ha continuamente alimentate". Scrive:  "Maestri di scuola e mistici, esegeti e naturalisti, religiosi e profani, scrittori e artisti, gli uomini del xii secolo, fra tutti i medievali, hanno in comune, imposta dal loro ambiente e come regolante il loro giudizio in una tavola innata delle categorie e dei valori, la convinzione che ogni realtà naturale o storica ha un significato che trascende il suo contenuto immediato, e che è rivelato al nostro spirito da una certa densità simbolica. Rendere ragione delle cose non vuol dire soltanto offrirne la spiegazione mediante le loro cause interne, ma scoprire questa misteriosa densità", e non attraverso una "dimostrazione" (demonstratio) intesa come prova aristotelica, ma una "ostensione" (monstratio). Senza dubbio non è possibile ripetere semplicemente il metodo simbolico sia dei padri sia dei medievali, non solo per un mutamento di mentalità simbolica - anche se questa è, in ogni caso, una risorsa della realtà e della sua intelligenza e la nostra cultura la va sempre più scoprendo - ma anche e soprattutto per una più acuta sensibilità e possibilità nei confronti del senso "letterale" o "storico" della Scrittura, scientificamente studiata. Non esiste, tuttavia, un'opposizione tra esegesi scientifica ed esegesi simbolica, se questa è intesa come

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sforzo per ritrovare e leggere compiutamente la Parola di Dio. Questa Parola è in atto all'interno del testo e della storia scritturistica con i suoi avvenimenti, ed è espressa in una pluralità di linguaggi, compreso quello simbolico ossia quello della relazione e connessione non solo tra le parole ma anche tra gli eventi che sono segni o profezia. In tal modo, non ci si sovrappone alla Parola di Dio con gli artifici dell'allegoresi, né ci si dedica a estrarre dalla Scrittura delle tesi o enunciazioni, bensì a ritrovare in essa tutta l'infinita e inesauribile "realtà", che Dio manifesta e comunica, non solo per l'illustrazione della mente, ma altresì per il coinvolgimento dell'esperienza - è il senso "morale", cui faceva riferimento il distico medievale - e per l'adombramento e la rappresentazione escatologica, cioè l'"anagogia", ossia il quarto senso inteso dagli esegeti e teologi medievali, che non cessano di fare scuola.

«Eagle» punta a catalogare e a rendere disponibile in rete l'intero patrimonio epigrafico greco e latino

Le antiche iscrizioni sulle ali di un'aquila

di Carlo Carletti

Nei giorni 7-8 novembre 2008, a Roma, presso il Centro Linceo Interdisciplinare "Beniamino Segre" dell'Accademia Nazionale

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dei Lincei si terrà il convegno internazionale:  "Eagle - Electronic Archive of Greek and Latin Epigraphy. Epigrafia, Informatica e ricerca storica". Promosso dalla università di Roma La Sapienza per iniziativa di Silvio Panciera (docente di Epigrafia romana), il convegno prevede numerosi interventi sullo stato di avanzamento, sulle prospettive, sui problemi di crescita di un grande progetto internazionale proposto nel 1999 nell'ambito della Commissione epigrafia e informatica dell'Associazione Internazionale di Epigrafia Greca e Latina (Aiegl) e concretamente avviato nel 2002. Obiettivo di questa impresa è la memorizzazione e il trattamento informatico dei dati testuali di tutte le iscrizioni antiche (anche di tradizione indiretta), latine e greche, prodotte nell'ambito del mondo romano:  una documentazione immensa che abbraccia circa tredici secoli di storia - dal vii-vi secolo prima dell'era cristiana fino all'età di Gregorio Magno (590-604) - valutata allo stato attuale in circa 400.000 esemplari, destinati a

un continuo incremento se si considera che soltanto in Italia ogni anno vedono la luce circa 1.000 nuove iscrizioni. Non è superfluo chiarire subito che

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"memorizzazione" e "trattamento" di una iscrizione attraverso un apposito programma informatico, comportano un lavoro non breve e certamente impegnativo:  non solo si tratta di immettere un testo in memoria, ma anche di corredarlo di quelle fondamentali informazioni che ne consentono di fatto il suo pieno impiego in molteplici ambiti di ricerca. Agli operatori si richiede non solo una mera digitazione dei dati (che peraltro non è lavoro puramente meccanico) ma anche, a corredo di ciascuna iscrizione, l'inserimento di una serie di indicatori, che forniscono all'utente informazioni fondamentali:  dati topografici di provenienza e di attuale ubicazione; tipologia e descrizione del supporto che accoglie l'iscrizione, cioè del "monumento" per il quale il testo scritto è stato concepito e realizzato; cronologia - a seconda dei casi - definita ad annum o approssimata; indicazione dei tipi di scrittura impiegati (lettere capitali, corsive maiuscole o minuscole, onciali) e delle tecniche esecutive (incise, dipinte, a mosaico, in opus sectile, graffite, dipinte, tracciate a carbone); registrazione dell'apparato figurativo che spesso si accompagna a un'iscrizione; immagine fotografica. Allo stato attuale, attraverso il portale che consente l'accesso ai dati, cioè l'Eagle, è possibile consultare simultaneamente 87.000 iscrizioni, distribuite in tre grandi contenitori:  Edr (Epigraphic Database Roma) dell'università di Roma La Sapienza, per le iscrizioni d'Italia, di Roma, della Sicilia, della Sardegna; Edh (Epigraphische Datenbank Heidelberg) dell'università di Heidelberg per le iscrizioni delle Province romane (39.200 esemplari); Edb (Epigraphic Database Bari) dell'università di Bari per le iscrizioni cristiane di Roma (25.625 esemplari). Un'impresa delle dimensioni dell'Eagle non nasce dal nulla:  alla

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sua origine c'è l'elaborazione di una idea. È quella concepita e strutturata nelle sue coordinate fondamentali e nelle sue funzionalità da Geza Alföldi (dell'università di Heidelberg) e da Silvio Panciera (della Sapienza) e in breve tempo divenuta operativa anche con il contributo di numerosi studiosi, italiani ed esteri. Intorno a questo progetto nel giro di pochi anni si è andata costituendo una vera e propria comunità scientifica articolata ma nel contempo coesa, cui aderiscono diciassette unità - ciascuna con un definito ambito territoriale di indagine - afferenti a numerose università estere e nazionali:  Alcalá, Barcelona, Eichstätt, Heidelberg, Lubiana, Osnabrück, Oxford, Vienna, Bari, Bergamo, Genova, Macerata, Milano, Napoli, Perugia, Roma, Siena, Trieste, Venezia. Si tratta complessivamente di circa 100 specialisti che operano simultaneamente con metodi e procedure comuni con l'obiettivo - ormai non più ambizioso - di arrivare entro i prossimi 10-15 anni ad archiviare nelle tre banche-dati consorziate nell'Eagle le oltre 400.000 iscrizioni antiche, latine e greche attualmente disponibili. Una partecipazione indubbiamente straordinaria e - forse - inattesa se solo si considera che la ricerca antichistica universitaria, e in particolare quella italiana tradizionalmente "brilla" per l'individualismo e l'autoreferenzialità che contraddistingue non pochi dei suoi protagonisti. La documentazione di base delle tre banche dati è in prima istanza quella fornita dalle grandi raccolte epigrafiche moderne avviate, intorno alla metà del xix secolo - con il sostegno di Bartolomeo Borghesi (1781-1860) - dalle grandi "icone" della ricerca epigrafica:  Teodoro Mommsen (1817-1903), Guglielmo

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Henzen (1816-1887), Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) per le iscrizioni latine (Corpus Inscriptionum Latinarum, 35 tomi dal 1863; Inscriptionae christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, 12 volumi dal 1857-1861), August Boeckh per le iscrizioni greche (Corpus Inscriptionum Graecarum, 4 volumi 1828-1877). Senza il lavoro di questi grandissimi precursori e di tutti coloro che ne raccolsero il testimone fino ad oggi, un'impresa come l'Eagle sarebbe stata inattuabile e forse nemmeno proponibile:  lo strumento informatico facilita e velocizza considerevolmente l'organizzazione del lavoro e l'accesso ai dati già elaborati, ma in alcun modo può sostituirsi alla ricognizione diretta dei materiali e alla loro prima edizione (questo l'impareggiabile merito di quegli studiosi) a meno che le ricerche sull'intelligenza artificiale e sulla robotica, al "domestico automatico" non riescano ad affiancare anche l'"epigrafista artificiale". Una esemplificazione, tra le moltissime proponibili, può fornire un'idea seppure approssimativa, delle straordinarie potenzialità di questo strumento di ricerca. Chi, ad esempio, volesse predisporre la base documentaria di una ricerca sulla presenza e sulle funzionalità dei signa Christi nelle iscrizioni funerarie cristiane di Roma (contenute nella banca-dati Edb), combinando diversi parametri di ricerca, acquisirebbe in prima istanza, e in tempo reale, il primo macroesito:  2.502 occorrenze dei signa Christi su 25.625 iscrizioni disponibili. In questo quadro complessivo si possono poi agevolmente isolare le diverse "forme" con cui si manifesta il signum Christi e ottenere, sempre in tempo reale, la seguente articolazione tipologica:  71 compendia scripturae del tipo i(esoùs) Ch(ristòs), graficamente reso ix; 22 croci decussate

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(o latine); 59 croci gammate (o swastike), 205 croci quadrate (o greche); 296 croci monogrammatiche (accompagnate o meno dalle lettere apocalittiche); infine le 1860 attestazioni del segno cristologico in senso assoluto più diffuso, il cosiddetto monogramma costantiniano, costituito dalla sovrapposizione delle due lettere iniziali del greco Xristòs. Tutte queste indicazioni, complessivamente o nelle singole tipologie ricercate, possono naturalmente combinarsi con altri indicatori, come quello cronologico, topografico, tecnico-grafico, nonché della tipologia del supporto (marmo, pietra, intonaco, malta semidura) su cui il signum Christi è inciso, graffito, dipinto, tracciato. Il programma di questo congresso internazionale, cui hanno aderito tutte le unità di ricerca dell'Eagle, oltre alla presentazione dello stato di avanzamento delle tre Banche-dati, prevede la discussione di nuove iniziative e programmi di ricerca sia sul fronte informatico e organizzativo sia sul versante della ricerca storica e sul tema - certamente stimolante - dell'uso dell'archivio epigrafico in rete come strumento didattico nello studio del mondo antico. Questo insieme di temi e problemi testimonia che un progetto come l'Eagle, seppure definito nei suoi aspetti fondamentali, non ha carattere statico ma si apre ed eventualmente si modifica e si migliora nella costruttiva dialettica tra le esperienze e progetti che vanno maturando al suo interno. Un'ultima informazione, che forse può interessare i lettori, come potenziali utenti dell'Eagle:  chiunque, specialista o semplice cultore che sia, può già oggi accedervi dal suo computer personale (se ovviamente collegato in rete) digitando Edr, Edh o Edb e, seguendo le agevoli spiegazioni plurilingue esposte nella home-page di ciascuno dei tre siti, può intanto servirsi di 87.800

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iscrizioni, delle quali 25.650 sono titoli cristiani di Roma (21.767 latini, 3858 greci) provenienti dal più vasto e articolato archivio di "scrittura epigrafica" tardoantica, quello che nel corso di cinque secoli (iii-vii) si è andato sedimentando nelle catacombe romane.

Il passaggio dalla vita alla morte e l'ingresso in paradiso nell'iconografia cristiana dei primi secoli

Quel limite infranto tra la terra e il cielo

di Fabrizio Bisconti

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Durante i primi secoli del cristianesimo e, segnatamente, tra il ii e il iii, quando nasce un'arte propriamente cristiana in tutto il mondo antico, non viene immediatamente inventato un immaginario nuovo e autonomo rispetto alla cultura figurativa profana coeva e precedente. Molte immagini, scene e situazioni figurative recuperano schemi e temi già sperimentati dalla civiltà iconografica del passato, denunciando una continuità artistica, che, però, prevede un ricarico semantico rinnovato e aderente alla nuova dottrina. In quest'ottica mentre da un lato sorge un repertorio direttamente ispirato alla Bibbia - pronto ad accogliere il messaggio delle due economie testamentarie per mezzo di pure rievocazioni degli episodi della salvezza così come si dipana tra il Vecchio e il Nuovo Testamento - dall'altro lato non muore il tradizionale riferimento al vissuto quotidiano dei cristiani ordinari e alla societas christiana della prima ora. Il duplice binario, parallelo e talora giustapposto, dà luogo a un immaginario iconografico misto, dove la componente religiosa si associa, in maniera armonica e coerente, alla storia privata dei singoli componenti delle comunità cristiane più antiche. Questo sentimento della concordia tra le sofisticate idee religiose

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elaborate dai Padri della Chiesa e il pensiero semplice degli uomini convertiti al cristianesimo, ci immette in un mondo funerario estremamente compromesso, per i primi tempi, con quel naturale e lento divenire delle usanze e dei riti provenienti dalla civiltà romana. Proprio i romani, d'altra parte, affidarono una particolare importanza a tutti quei gesti intimamente legati al momento della morte, alla sistemazione dei corpi dei defunti, alle feste e alle commemorazioni funebri, recuperando le credenze e i riti dalle culture preromane. Tali usanze, come è noto, si muovono attorno all'orbita di una tensione comune che prevede la "sopravvivenza" del defunto oltre la tappa traumatica della morte. Anzi, nella cultura romana, nacque ben presto la credenza di un naturale prolungamento della vita per tutti i trapassati, secondo quanto assicurano Cicerone (Tusculanae disputationes i, 16, 36) e Virgilio (Eneide, vi, 743). Nella prassi funeraria romana si diffuse, per questo, l'usanza di un'immediata sepoltura dei morti, per assicurare una serena vita nell'aldilà e per evitare che le anime dei trapassati vagassero, in attesa della tumulazione. Nacquero, così, i collegia funerari, che si preoccuparono di sostenere l'onere economico per la sepoltura di coloro che non potevano permettersi un dignitoso funerale. Questo permetteva anche che i defunti non stazionassero nell'abitato, nel perfetto ossequio di una legge delle Dodici Tavole che prescriveva che:  hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito. Tale legge induceva a svolgere tutte le pratiche funerarie, sia per quanto riguarda l'inumazione, sia per quel che attiene all'incinerazione, fuori dalle mura urbiche. La ritualità funeraria romana comportava una sequenza di gesti che, in parte, si sono protratti nel tempo, come il bacio estremo al

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defunto, la chiusura degli occhi, la conclamatio, ossia il richiamo ad alta voce del nome del defunto per verificarne la morte, la sistemazione del cadavere, la vestizione, la coronazione, la consegna di una moneta - il cosiddetto obolo di Caronte per accedere nell'oltremondo - l'esposizione del corpo, le esequie, con il relativo seppellimento, che si svolgeva, assai spesso, notte tempo. Con l'avvento del cristianesimo, al rito dell'incinerazione, tanto amata dai romani, in quanto collegata alla eroizzazione del defunto, si sostituì quello dell'inumazione, già noto, ma meno diffuso per questioni di spazio e di economia. I cimiteri cristiani, meglio noti come catacombe, raccolsero, sin dagli esordi del iii secolo, intere comunità cristiane, specialmente a Roma, ma anche in altri centri dell'Italia centrale, meridionale e insulare, dove il sistema delle sepolture in ambienti ipogei e la moltiplicazione dei sepolcri - che raggiunsero in certi casi decine di migliaia di unità - caratterizzarono un nuovo approccio con la ritualità funeraria e con il sentimento religioso, che si incentrò, come è intuitivo, sul mistero fondamentale della resurrezione della carne. La grande rivoluzione del pensiero religioso influì sicuramente sulla creazione di queste enormi città della morte o meglio in questi dormitori provvisori, dove i fratelli della fede attendevano fiduciosi la resurrezione. Se, da un lato, le catacombe mantennero uno stile sobrio ed essenziale nell'allestimento delle sepolture volutamente tutte uguali, con qualche rara eccezione riservata alle sepolture privilegiate dei potentiores e di alcuni ecclesiastici, dall'altro, vogliono esprimere un forte e insopprimibile spirito comunitario. Le catacombe rappresentano il luogo naturale dell'attività dei

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fossores, ai quali spettano la progettazione, lo scavo, la decorazione e la gestione dell'area sepolcrale. La figura del fossor assurge, insomma, a vero e proprio genius loci dei cimiteri paleocristiani e viene anche definito arenarius, in quanto scavatore di gallerie nelle cave arenarie, vespillo, lectiarius, copiatae ed entra nella gerarchia della chiesa locale, inserendosi nella dinamica associativa delle corporazioni. Il potere assunto dai fossori, specialmente in relazione alla compravendita delle sepolture, indusse nel corso del v secolo, a riconsegnare questa fruttuosa attività ai mansionarii, ai cubicularii e ai presbyteri. Proprio per il diagramma che il ruolo dei fossori disegna nella carta sociale delle prime comunità cristiane, questi furono tra i primi a essere rappresentati in pittura e nelle incisioni sulle lastre funerarie delle catacombe romane, ora intenti a scavare le gallerie, ora occupati alla sistemazione del corpo dei defunti, ora in posa autorappresentativa, per dimostrare il loro rango, raggiunto nell'ambito della struttura della Chiesa primitiva. Queste semplici rappresentazioni oscillano tra l'iconografia del vissuto quotidiano, a cui ci si riferiva in apertura, e un intento figurativo di tipo simbolico, quando si vuole attribuire alle loro

immagini, già nel cuore delle catacombe di San Callisto, nelle cosiddette cappelle dei sacramenti, riferibili alla prima metà del

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iii secolo, un significato più sofisticato, che attinge proprio a quel senso di guardiano eccezionale del sito cimiteriale, a cui si alludeva, ossia al ruolo di genius loci delle catacombe. Ben presto, accanto alle figure dei fossori, appaiono le immagini dei defunti ordinari, per lo più isolati e atteggiati nel significativo gesto dell'expansis manibus, che vuole sollevare i cristiani dei primi secoli in una condizione beatifica e paradisiaca. L'atteggiamento dell'orante, attribuito alla maggior parte dei defunti, rappresentati in pittura, in scultura e nelle incisioni funerarie non vuole significare una tensione verso la salvezza, ma uno status positivo, che comporta l'idea di un percorso già tracciato, che ha condotto il defunto fino alla salvezza finale. Per questo motivo l'atteggiamento delle braccia sollevate interessa, in queste prime rappresentazioni, tanto i semplici defunti quanto i protagonisti degli episodi veterotestamentari, che hanno superato diluvi, condanne ad bestias, insidie, violenze, pericoli e prove di ogni tipo. Sollevare le braccia e aprire le palme delle mani significa esprimere quel concetto della preghiera continua che, per il cristiano, non finisce in terra, ma perdura anche nell'aldilà e che si era iniziata con il battesimo:  da quel momento, l'uomo, coerente con le sue promesse e fedele al consiglio di Paolo (i Tessalonicesi, 5, 17) canta incessantemente, senza mai interrompersi, la gloria di Dio. Accanto a queste rappresentazioni ispirate, compaiono raffigurazioni più tradizionali che "fotografano" i defunti mentre svolgono la loro attività professionale di fabbri, fornai, macellai, pescivendoli, ortolani, come per ricordare la loro condizione terrena, secondo un uso e una mentalità che non si differenzia da quella profana. A questo riguardo ci aiuta Tertulliano, quando si

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interroga sul motivo delle persecuzioni nei confronti dei cristiani, se, in realtà, essi frequentavano gli stessi fori dei pagani, lavoravano negli stessi mercati, negli stessi negozi, nelle stesse officine, praticavano le stesse arti, navigavano e combattevano insieme a loro (Apologetico, 42, 2-3). Ancora nel solco della tradizione ellenistica e romana dobbiamo collocare le rappresentazioni dei defunti più prevedibili, ossia quelle che si preoccupano di riprodurre, nel dettaglio, i ritratti dei personaggi, ora scegliendo l'antico espediente della imago clipeata, ora sistemando la figura intera tra due introduttori, che spesso si identificavano con i principi degli Apostoli, ora rappresentandoli in vere e proprie "foto di famiglia". Ma i defunti sono calati in situazioni figurative anche più complesse, come quando divengono protagonisti dei banchetti. Nelle scene di convito coesistono i sensi di diversi banchetti, non solo quelli funerari, come si tenta di affermare da più parti in tempi recenti, ricollegando l'immagine alle agapi e ai refrigeria, per scorgervi, dunque, un riflesso immediato di pratiche quotidiane e reali. Nei banchetti dipinti nelle catacombe romane, così come in quelli scolpiti sui coperchi dei sarcofagi, è possibile individuare gran parte dei modelli iconografici e dei significati simbolici creati dalla cultura figurativa precedente, anche se l'accezione cristiana, in chiave rituale e simbolica, prevale ed emerge sugli altri temi. Le scene di banchetto riecheggiano, innanzi tutto, gli antichi pranzi funerari classici ed ellenistici, di memoria omerica, che comportavano sacrifici, pranzi veri e propri e ludi in onore del defunto:  dal silicernium, che si teneva dopo la sepoltura, al novemdial che, nove giorni dopo la tumulazione, segnava il ritorno della famiglia nella società, sino

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ai più noti banchetti tenuti durante i parentalia e, segnatamente, a quello che si organizzava il 22 febbraio (caracognatio), un convito solenne, che si svolgeva presso il sepolcro a cui partecipavano solo i parenti del defunto, i quali, in quell'occasione, potevano ricomporre i malumori familiari, approfittando del clima affettuoso che si veniva a creare. A questi banchetti e all'atmosfera di amicizia e concordia, declinata in senso spirituale dai cristiani, sembrano ispirarsi direttamente le scene delle catacombe romane, ma questa continuità è solo apparente e non serve, da sola, a spiegare la grande fortuna del tema nel repertorio cristiano. Occorre ricordare che, per i romani, quella dei parentalia non era l'unica occasione per pranzare in onore dei defunti:  durante i rosalia e i violarla, feste primaverili ed estive, si svolgevano altri banchetti e già, tra i pagani, anche se eccezionalmente, si pranzò nella ricorrenza del giorno anniversario dello scomparso. Si deve, poi, distinguere, in tali conviti, una componente evergetica, che proveniva dalla tradizione ellenistica e che, per la solennità e l'aspetto pubblico, riferisce l'intenzione di fissare la memoria del defunto in senso civico e storico e una componente familiare, che esprime il desiderio di descrivere il ruolo del congiunto nell'ambito del gruppo sociale di appartenenza. Le due componenti sembrano perdurare nell'immaginario figurativo paleocristiano in maniera talora ben distinta se, come sembra, prevale l'aspetto evergetico nelle rappresentazioni multiple contornate da cesti colmi di pani, mentre predomina quello familiare nelle scene affrescate, con vivacità gestuale e rari tocchi d'ambiente, nel cimitero dei santi Marcellino e Pietro. Ma anche in queste scene, eccessivamente alleggerite dalla critica moderna di ogni carica simbolica,

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dobbiamo leggere meglio la stratificazione dei significati. Se, infatti, alcune scene presentano chiari riferimenti a un pasto funerario organizzato per o dalla famiglia del defunto, con cenni reali che riflettono pratiche e rituali sepolcrali concreti, la ieraticità di alcune immagini e l'atmosfera che si respira intorno ad altre ci sollevano verso un livello eminentemente simbolico. Nella lastra incisa di Criste in Domitilla, ad esempio, la piccola defunta, collocata in paradiso con pochi ma efficaci espedienti - colombe noetiche, atteggiamento expansis manibus - è commemorata dal padre Cristor che si raffigura bevendo e offrendo l'ultimo boccone del pasto a un cagnolino, forse molto caro alla padroncina. Proprio la catacomba di Domitilla ci permette di agganciare l'antica commemorazione dei defunti nella cultura paleocristiana con quella spontanea e urgente riservata, negli stessi secoli, ai santi che, in quei primi momenti, si identificano specialmente con i martiri. In un affresco del complesso di Domitilla, sulla via Ardeatina, e, segnatamente, nella lunetta di un arcosolio non lontano dalla basilica dei santi Nereo e Achilleo, la matrona Veneranda viene rappresentata mentre viene introdotta in un giardino paradisiaco dalla martire Petronilla, che godeva di fama e culto estremamente diffusi in ambiente romano. L'introduzione - che comporta un confortante gesto di incoraggiamento da parte della santa, che poggia la mano sulla spalla della defunta - avviene in un'atmosfera di grande confidenza, recuperando i rassicuranti atteggiamenti delle antiche introduzioni in paradiso e annunciando gli ingressi monumentali e ufficiali dei catini absidali romani, come accade, ad esempio, in quello protobizantino della basilica romana dei santi Cosma e Damiano,

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dove i due santi medici sono accompagnati al cospetto del Salvatore dai principi degli Apostoli. Tra martiri e defunti si stabilisce una sorta di religio amicitiae, di rapporto inter pares, che qualifica i santi come patroni, intercessori e protettori:  essere vicino a loro, essere rappresentati in loro compagnia, significa rompere quel limite tra terra e cielo, ancora ben percettibile nella mentalità comune del tempo. L'arte delle catacombe esprime l'abbattimento di questa barriera, mettendo in diretto contatto i defunti con il martire, in un rapporto protetto-patrono, che ben riflette nell'iconografia quanto succede attorno alle tombe dei santi all'interno delle catacombe. Nei pressi di questi sepolcri eccellenti, infatti, vuole essere sepolto un numero elevato di defunti, creando quei retro-sanctos, che vorrebbero riprodurre il concetto della comunione dei santi e l'eloquente formula epigrafica in pace cum sanctis che caratterizza molti epitaffi paleocristiani del iv secolo dell'era cristiana. Dopo un lungo periodo in cui la rappresentazione dei martiri viene evitata per non affrontare il delicato momento della loro morte violenta, ecco che - con la pace della Chiesa e specialmente nella seconda metà del iv secolo, in corrispondenza con il pontificato di Papa Damaso (366-384) - spuntano le immagini di questi uomini santi. Essi vengono rappresentati come filosofi, intellettuali, saggi, spesso muniti della corona trionfale del martirio, atteggiati secondo gesti solenni ed enfatici, con volti ieratici, ma rassicuranti. La loro fisionomia, il loro vestiario, costituito semplicemente dalla tunica e dal pallio, non è diverso da quello dei personaggi biblici, dei patriarchi, dei filosofi, ma anche degli apostoli e del Cristo. Le loro immagini appaiono negli oscuri itinera ad sanctos che, nei labirinti bui e oramai

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abbandonati delle catacombe romane, conducono i pellegrini del medioevo verso le tombe sante, semplici, ma estremamente venerate, come dimostrano le centinaia di graffiti lasciati dai devoti lungo le pareti di quelle strade sotterranee della fede. Mentre ai nostri giorni le commemorazioni dei santi e dei defunti si susseguono a distanza di un giorno, nell'antichità le loro figure, prima distinte e poco definite, si uniscono in un destino comune, che vede i defunti "eccellenti" e quelli "ordinari" disposti fianco a fianco, come per anticipare quella resurrezione finale che rompe tutte le barriere sociali e le categorie religiose e che riconduce alla nostra mente le semplici ed emozionanti parole di Lattanzio, quando descrive la società cristiana dei primi secoli:  "Tra noi non ci sono né servi né padroni; non esiste altro motivo se ci chiamiamo fratelli se non perché ci consideriamo tutti uguali" (Divinae institutiones, 5, 15).

Riso e comicità nel cristianesimo anticoScherzi e parodie nei PadriMa attenti a non ridere troppo

di Manlio Simonetti

È vero e proprio luogo comune che la religione cristiana sia intrinsecamente ostile al riso e alla comicità e, quanto al cristianesimo antico che qui direttamente c'interessa, è a portata di mano una documentazione quanto mai varia ed estesa, che ha trovato e tuttora trova il suo puntello nella constatazione che i vangeli non presentano mai Gesù che ride. Per Efrem il riso

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contribuisce a rovinare l'uomo perché contrasta l'impegno ascetico, Basilio afferma che per il credente non è mai tempo di ridere, Gregorio Magno racconta che la Vergine Maria, apparsa alla giovane Musa, "le impose di non comportarsi più con leggerezza giovanile, di astenersi dal riso e dal gioco" (Dialoghi, 4, 18, 1); nella stessa opera, poche pagine prima (3, 14, 10), dopo aver esaltato le virtù di un sant'uomo Gregorio continua: "L'unica cosa che in lui appariva biasimevole, era la grande gioia che talora dava a vedere"; il tempo monastico non è "di letizia per ridere, ma di penitenza per piangere i peccati" (Regola del maestro, 11, 76). Il riso pare apprezzato positivamente solo in proiezione escatologica: leggiamo infatti nel Vangelo di Luca le dure parole di Gesù: "Guai a voi che ora ridete, perché piangerete; beati voi che ora piangete, perché riderete" (6, 25. 21). Ma i concetti di riso e comicità si concretano in un largo ventaglio di significati, e a più di uno di essi svariati antichi testi cristiani non sembrano estranei: s'imponeva perciò, come per altri luoghi comuni relativi all'antica letteratura cristiana, un'attenta revisione critica che, al di là delle affermazioni comunemente addotte per supportare l'ostilità di quella letteratura nei confronti del riso, spaziasse più vastamente nei testi, mirando a conclusioni più articolate e puntuali. Proprio questo scopo si è prefisso un convegno tenuto a Torino, dal 14 al 16 febbraio 2005, i cui atti sono stati pubblicati, con il titolo Riso e comicità nel cristianesimo antico, a cura di Clementina Mazzucco, per le Edizioni dell'Orso di Alessandria. In un volume di ben 854 pagine sono raccolti 34 contributi, alcuni dei quali non presentati al convegno e consegnati in un

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secondo tempo, che spaziano sull'antica letteratura cristiana sia d'oriente sia d'occidente, a cominciare dal Nuovo Testamento fino alle soglie del medioevo, con ampie aperture sul mondo classico ed ebraico. Le conclusioni, dovute al grecista Guido Paduano, rilevano quanta varietà di temi e di atteggiamenti spingano, se non a respingere in toto il luogo comune dell'estraneità del cristianesimo al riso, a sfumarlo e sfaccettarlo con una serie di precisazioni che danno a vedere in materia di riso e comicità, nell'antica letteratura cristiana, un panorama ben più vario e variegato di quanto il rifarsi a quel luogo comune non facesse prevedere. In primo luogo va comunque rilevato che, variando il senso del comico da età a età e da ambiente ad ambiente, alcuni tratti di antichi testi cristiani, soprattutto d'argomento agiografico, che oggi a noi appaiono francamente comici, non lo erano affatto nell'intenzione dei loro scrittori. Per esempio, quanto leggiamo nei Dialoghi di Gregorio Magno (3, 7) riguardo alla rassegna dei diavoli, alla nostra sensibilità risulta oggi racconto quanto mai umoristico, ma per certo tale non era per Gregorio. Cominciamo col constatare che, se il riso non trovava molta accoglienza nel mondo cristiano, nel mondo classico, almeno a livello di precettistica, nonostante le commedie di Aristofane e di Plauto non era tutto rose e fiori. Alcune correnti filosofiche condannavano il riso come manifestazione priva di serietà: pitagorici e stoici erano definiti aghèlastoi ("coloro che non ridono"). In ambito latino Cicerone osserva che l'oratore fa uso del motto di spirito per conseguire un preciso scopo, non per essere soltanto divertente (De oratore, 2, 247), e Quintiliano constata che raccontare in modo spiritoso richiede finezza e

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capacità oratoria, perché l'oratore non deve ricercare l'effetto comico in modo rozzo e forzato. Il riso, autorizzato, anzi imposto, in particolari contingenze, soprattutto teatrali, era in complesso sottoposto ad appositi controlli. In ambito antico ebraico non stiamo molto meglio, anche se ora si tende a respingere come eccessiva l'affermazione che la Bibbia sia priva di effetti comici: ma a conferma si adducono solo giochi di parole ed espressioni ironiche e parodiche, cioè un comico inteso in senso piuttosto lato. In effetti il riso di Sara all'annuncio della prossima maternità è valutato negativamente in Genesi 18, 12-15 e, tra i testi di Qumran, secondo la Regola della comunità, chi ride stupidamente viene punito per trenta giorni (1QS, 7, 16-17). In ambito cristiano rileviamo subito la presenza di almeno un'opera volta apertamente a suscitare il riso, la cosiddetta Coena Cypriani, un breve scritto che descrive una cena fittizia, ispirata, non tanto alla lontana, dalla Cena di Trimalchione di Petronio, alla quale partecipano, in un susseguirsi di vicende tragicomiche, a volte blasfeme, numerosi personaggi biblici, tra cui anche Gesù, insieme con altri inventati, tra i quali la petroniana Trifena. Ma la cronologia dell'opera è incerta, e io ritengo che i suoi caratteri aberranti si spieghino meglio in età medievale che non patristica. Siamo in terreno ben più solido con Clemente di Alessandria, un autore che più di altri ha avvertito, nel contesto di un'etica ispirata al Vangelo, l'influsso della paidèia greca, che gli ha ispirato sotto vari aspetti atteggiamenti originali. In materia di riso, se da una parte ne biasima le manifestazioni esagerate, dall'altra considera il riso, il gioco, la gioia come espressioni di un'anima semplice e ingenua nella manifestazione della propria fede.

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Anche Basilio mette in guardia contro il riso smodato e incontinente, mentre considera non indecoroso mostrare con un sorriso l'allegrezza dell'anima. Di contro altri è meno permissivo: Ambrogio (I doveri, 1, 103), correggendo Cicerone il quale aveva affermato che il genere faceto di espressione non deve essere eccessivo e sguaiato ma garbato e spiritoso, afferma che debbono essere evitati non solo i motti di spirito smodati ma tutti tout court. Anche Ambrogio, per altro, non disdegna il divertire senza cadere nel riso volgare e smodato, ed è questa in sostanza la concezione che appare prevalente negli antichi scrittori cristiani, ai quali perciò appare del tutto inaccettabile il riso come espressione di ciò che è comico nel senso stretto del termine. Pare superfluo aggiungere che il riso è del tutto proscritto dall'orizzonte della vita femminile: per Gregorio Nazianzeno, se è sconveniente il riso maschile, lo è ancora di più il riso femminile. Se passiamo dalla teoria alla pratica, troviamo conferma di questo atteggiamento, nel senso che, con l'eccezione della Coena Cypriani, manca nelle antiche lettere cristiane l'espressione effettivamente comica, quella che vuole muovere il riso, non il sorriso, mentre vi riscontriamo più volte l'espressione genericamente umoristica, mirante soprattutto a irridere, in contesto in prevalenza polemico. Per soffermarci ancora sul Nazianzeno, egli non esita a servirsi del riso di scherno, di dileggio, a spese sia dei suoi avversari, sia anche dei vescovi che così amaramente avevano eluso le sue aspettative nel concilio costantinopolitano del 381 (carme 2, 1, 12). Un ingenium per sua natura polemico come quello di Girolamo era portato, in modo direi esemplare, all'irrisione dei

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suoi tanti avversari. Così la celebre Melania senior, il cui nome significava "nera", in quanto fautrice del suo nemico Rufino di Aquileia fu da lui definita nera di nome e di fatto, e quanto a Rufino, fu da lui costantemente bollato, forse a causa di un certo prognatismo della faccia, come grunnius, cioè "porco che grugnisce". Una particolare forma di irrisione consisteva nell'alterazione del nome della persona che si intendeva colpire. Per esempio, nel iv secolo un importante eretico fu Fotino, vescovo, poi deposto, di Sirmio, il cui nome significa "luminoso" (photeinoòs): di qui la contraffazione del nome in Scotino, cioè "tenebroso" (skoteinòs). Lucifero di Cagliari definisce più volte l'importante capoparte ariano, che fu anche vescovo di Costantinopoli, Eudossio, il cui nome significa "glorioso", come Adossio (Adoxius), cioè "inglorioso, spregevole". In ambito monastico un tema specifico fu quello dell'applicazione del riso al diavolo, nel senso che il riso sottolinea l'influsso malefico del diavolo il quale spinge il monaco al peccato, come leggiamo in un racconto di Rufino (Storia dei monaci, 1, 4, 1-6): un monaco, insuperbito per le sue virtù, è indotto al peccato dal diavolo, che gli si presenta in allettante figura muliebre e rende più efficaci le sue blandizie col riso e lo scherzo (iocus risusque miscentur). Per concludere, il volume che abbiamo cursoriamente presentato rappresenta un contributo fondamentale per approfondire, al di là dei soliti apprezzamenti generici, che cosa effettivamente l'antico mondo cristiano abbia pensato del riso e della comicità, intesi nel senso più ampio. Letto il volume, l'impressione complessiva conferma l'abituale giudizio secondo

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cui gli antichi cristiani erano, o almeno affermavano di essere, più amici del pianto che del riso, ma una serie di "distinguo" attutisce il drastico impatto di questa categorica affermazione. È fuor di dubbio che fu loro del tutto estranea la comicità forte, quella che si esprime soprattutto nel teatro, e lo stesso si può dire del riso sguaiato e incontrollato. Ma intendendo il concetto del comico in senso più lato, in modo da comprendervi la derisione, il dileggio dell'avversario, fino alla parodia, non è di poco conto quel che si raccoglie dagli scritti patristici. Ed è soprattutto evidente l'apprezzamento per il sorriso, espressione di uno stato di letizia che caratterizza il fedele in pace con la sua coscienza.

"Exempla". Da Federico ii ad Andrea Pisano, in mostra a Rimini fino al 7 settembre

Il battesimo dell'antichità

ovvero lo "stupor" dell'arte medievale

di Alfredo Tradigo

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Si presenta con il titolo originale e sintetico di "Exempla" (Rimini, Castel Sismondo. 20 aprile - 7 settembre 2008) questa mostra di scultura - ma non solo - nata nell'ambito della xxix edizione del Meeting per l'amicizia dei popoli e in collaborazione con i Musei vaticani. "Exempla", cioè modelli, esempi da seguire. Esempi di forme antiche - spesso provenienti da materiali di spoglio greco-romani - come gli scavi per la costruzione dei castelli di Federico ii di Svevia in Puglia che vengono riutilizzate in altro contesto; oppure riprese - non copiate - con un forte senso di continuità col passato; come se l'antico non fosse mai venuto meno; anzi, come fosse il miglior linguaggio del presente dopo una notte d'oblio durata in realtà quasi un millennio. E questo risveglio non è vissuto nella nostalgia di un ritorno all'antico - come sarà nel più maturo rinascimento - ma come un "dato" concreto in cui ci si imbatte; e che il realismo cristiano naturalmente fa proprio. Il risveglio della scultura nella prima metà del Duecento in Italia ha un luogo e dei protagonisti precisi, come il sottotitolo della mostra esplicita: "La rinascita dell'antico nell'arte italiana. Da Federico ii ad Andrea Pisano". Il "luogo" è la bottega artistica di Castel del Monte - una delle corti di Federico ii, puer Apuliae - là dove un altro figlio di questa terra, Nicola - de Apulia, ma poi diventato celebre come Pisano - inizia una scuola che dalla Puglia alla Toscana culminerà nel pulpito del battistero di Pisa e del Duomo di Siena, suoi massimi capolavori. Di Nicola sono visibili in mostra due calchi in gesso dal portale esterno del Duomo di Lucca. Si formeranno sotto di lui in Toscana il figlio Giovanni - grandissimo scultore - Andrea Pisano e Arnolfo di Cambio

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"Exempla" è una mostra di alto livello scientifico, difficile da un lato, come riconoscono gli stessi suoi ideatori; ma godibilissima dall'altro, per chiunque ne segua semplicemente il percorso nella penombra suggestiva di castel Sismondo, roccaforte dei Malatesta, signori di Rimini. Il fascino e la rarità dei pezzi esposti, alcuni per la prima volta; le sculture in pietra calcarea pugliese o in candido marmo di Carrara, le monete d'oro e i preziosi cammei - in onice, agata, sardonica, calcedonio e diaspro - irraggiano un senso di antichità ritrovata. Il confronto si gioca in continui ammiccamenti e rimandi che segnano il passaggio dall'arte antica al romanico-pugliese per approdare al gotico toscano, con influssi d'oltralpe e qualche accenno alla scultura etrusca e normanna. La romanitas si rinnova, secondo il programma culturale di Federico ii. E ne guadagna la scultura cristiana. Infatti, mentre la statuaria classica greco-romana si rivela fredda nella sua perfezione - gli dei e gli eroi non provano emozioni, sono al di sopra dell'umano sentire - con la nuova scultura della generazione dei Pisano e di Arnolfo la pietra "sorride" grazie all'influsso del cristianesimo, che pone al centro la persona. Un solo Dio si incarna nel grembo di una Vergine e gli uomini, ciascun uomo, è chiamato per nome e può incontrarlo. Così la scultura a tutto tondo del Duecento, liberata dai limiti del bassorilievo e dalla paura iconoclasta di creare nuovi idoli, nel tredicesimo secolo si fa autonoma e trasforma l'eredità greco-bizantina del maestoso volto del Pantocrator (o della Testa di Zeus o Silvano esposta a Rimini) nei tratti più dolci del Cristo patiens: scandalosa condiscendenza del Padre che nel Figlio rivela al mondo "il sorriso di Dio". Pur rimanendo Signore e Re dell'universo, come

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si vede nella bellissima triade pittorica esposta a Rimini: la Testa di Cristo di Pietro Cavallini (tempera, fine tredicesimo secolo); il Volto del Creatore di Jacopo Torriti (sinopia, 1290-95); infine l'icona del Redentore di scuola romana (tempera, quattordicesimo secolo). I tratti del Dio giusto e tremendo giovano al programma imperiale di rinascita del Sacro romano impero d'Occidente. Federico ii - stupor mundi - è una figura modernissima e contraddittoria di imperatore, illuminato e tiranno, coltissimo e multietnico, amante della caccia col falcone - in mostra il manoscritto miniato De arte venandi cum avibus - e degli studi universitari. Nel 1224 Federico ii aprirà l'università di Napoli con le facoltà delle arti, teologia e medicina. E all'università di Napoli Tommaso d'Aquino potrà accostare, pochi anni dopo - siamo nel 1239 - i testi di filosofia naturale di Aristotele, che lo aiuteranno a rifondare il concetto di bello (pulchrum) in senso ontologico, legandolo al buono e al vero. La terribilità del potere imperiale di Federico ii si esprime in uno dei pezzi più belli esposti: il leone di Lagopesole, uno dei duecento castelli federiciani sparsi nel meridione d'Italia. Questo leone dalla folta criniera e dallo sguardo ferino - e che sta azzannando un'antilope - è un frammento in marmo bianco di sarcofago del terzo secolo forse proveniente da Roma. Venne riutilizzato e riadattato intorno agli anni quaranta del tredicesimo secolo dagli scultori di corte per decorare il trono di Federico ii e incutere deferenza e sottomissione nei suoi sudditi. Il leone può essere letto come simbolo araldico degli Altavilla, dinastia normanna dalla quale discendeva Federico ii da parte materna - Costanza d'Altavilla - o, più semplicemente, rappresentare il potere dell'imperatore svevo

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che cercava di legittimare in ogni modo la sua sacralità. Con riferimenti biblici al re Davide che giocava con le fiere. Ma in quell'antilope morente e indifesa tra le sue zanne potremmo anche vedere la Chiesa, soffocata dal potere imperiale. Per questo Dante, pur essendo ghibellino, mette Federico ii e il suo notaio Pier delle Vigne all'Inferno; e noi li ritroviamo entrambi esposti a Rimini in due busti-ritratti. Un altro straordinario frammento - che insieme con il leone di Lagopesole costituisce uno dei pezzi più emozionanti di "Exempla " - è rappresentato dalle due teste accostate di Cristo Giudice e dell'animula della Vergine, che viene assunta in cielo tra le braccia del Figlio. Questi due frammenti sono quanto rimane di una Dormitio Virginis realizzata dalla bottega di Arnolfo di Cambio - ultimo decennio del tredicesimo secolo - per la lunetta del portale destro della facciata di Santa Maria del Fiore. Il volto di Cristo, dalla folta barba e capigliatura, è chiuso nella sua maestosa selvaticità e domina il volto della piccola Maria, che qui davvero appare "figlia del suo Figlio" così come Dante la invoca nell'Inno alla Vergine (Paradiso, canto xxxiii). Maria è una bimba timorosa, ma piena di speranza, sotto lo sguardo di Cristo, temibile come il leone di Lagopesole. Ma, se guardiamo bene in faccia questo volto di pietra, vi scopriamo un sorriso; o addirittura una smorfia che lo scultore inventa "torcendo" in modo innaturale la bocca e il naso. Il volto di Cristo si piega verso Maria, quasi a sussurrarle qualcosa all'orecchio; o, forse, baciarle una guancia con una tenerezza che contrasta con la sua ferinità. In questo bacio impossibile si coglie già una deformazione in senso espressionistico, nordico, gotico e moderno.

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La figura femminile è un'altra grande conquista del cristianesimo: in Maria tutte le donne sono benedette e diventano madonne e signore. Ecco allora la bella Ifigenia, frammento di sarcofago della seconda metà del secondo secolo, volgere pudica le spalle in un panneggio che ne evidenzia le rotondità accanto al simbolo stesso della donna: l'anfora. E subito dopo Donna con brocca in marmo bianco, di Arnolfo di Cambio, figura sdraiata e di spalle, mostra i fianchi prosperosi, il braccio appoggiato a un brocca vuota e rovesciata. Il volto è corroso, manca il naso ma lo sguardo è ancora vivo, lo stesso dell'animula di Maria: è lo sguardo della speranza cristiana. Davanti a questa scultura, che faceva parte della fontana di una piazza di Perugia (quella del Grifo), ritornano le parole di Dante dello stesso inno alla Vergine: "Sei di speranza fontana vivace". Ecco allora come il marmo antico in Nicola Pisano, Giovanni, Andrea e Arnolfo di Cambio riesce a sorridere e a prendere vita, speranza. E addirittura a "danzare" con il passo di un'antica vestale, ma all'interno di un significato culturale nuovo che il cristianesimo immette nella forma classica: La danzatrice (acefala) di Giovanni Pisano è infatti una profetessa inebriata, le vesti del panneggio mosse dallo Spirito. Con la stessa leggerezza si muove l'accolito di spalle che scosta la cortina funebre nel sepolcro del cardinale Guillaume de Braye scolpito da Arnolfo di Cambio.

La teologia dello Pseudo-Dionigi Areopagita nella catechesi di Benedetto XVI

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La liturgia manifestazione della realtà sacra di Dio

di Nicola Bux

La lode cosmica "che va dai serafini, agli angeli e arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e sono lode a Dio" è la caratteristica essenziale del pensiero di un misterioso teologo del sesto secolo che si cela sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita, il nome di uno degli ascoltatori che si aprì alla fede dopo il celebre discorso di san Paolo (Atti, 17). Lo ha richiamato il Santo Padre nella catechesi di mercoledì scorso, annotando inoltre che "essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica:  Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa unione di noi con il linguaggio di tutte le creature". Questa visione della liturgia che non è solo dell'Oriente bizantino, come sanno gli studiosi, ma è pure alla radice delle liturgie latine, in specie la romana e la ambrosiana, chiede di essere riscoperta. La catechesi del Santo Padre può essere una opportunità per un confronto tra quanti vedono la liturgia per così dire "dal basso" e

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quanti la ammirano soprattutto "nell'alto", invece che consumarsi in censure reciproche. Ma c'è di più:  la teologia cosmica e liturgica di Dionigi è anche mistica, perciò personale e sacramentale. Dio sa quanto ci sia bisogno di recuperare tale dimensione dopo l'enfasi sulla dimensione comunitaria:  la gente chiede sempre più rispetto per lo spazio personale del silenzio, della partecipazione intima della fede, anche della celebrazione dei sacramenti. Si può, per esempio, trascurare che i rituali prevedono la celebrazione del battesimo per un solo bambino analogamente al modo in cui è previsto il rito del funerale per una sola persona? Perché non deve essere possibile ad una sola persona ricevere la comunione così come è prevista la confessione del singolo? Perché tutto deve essere ridotto al comunitario? Gesù nel Vangelo incontra singolarmente tanti e si dà personalmente a ciascuno. Il passaggio avvenuto con Pseudo-Dionigi dal mistico come equivalente di sacramentale al mistico inteso come personale e intimo "esprime il cammino dell'anima verso Dio", ha sottolineato il Papa. La liturgia deve infatti stimolare la ricerca di Dio e l'incontro con Lui, la conversione a Lui. Ci invita a rivolgerci al Signore distogliendo lo sguardo da noi stessi o da altre creature, anche dallo stesso sacerdote celebrante:  è questi a richiederlo col Sursum corda e noi rispondiamo Habemus ad Dominum. Si può dire che la vera arte di celebrare sia di aiutare a rivolgere se stessi al Signore. Allora, la liturgia di Dionigi non è altro che la manifestazione della realtà sacra di Dio. Si usa dire che la vita è sacra, ci si ferma in silenzio dinanzi alla sacralità della morte o ancora a pensare che il bene e il male si giochino nella nostra mente a partire da quanto sa sul sacro,

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dall'idea che si ha del misterioso, affascinante e spaventoso, attraente e terribile. Quale essere umano non sente giocare al suo interno tale mistero nel campo dell'esperienza della vita? Il sacro è proprio questo ambito nel quale le risposte possibili sono unicamente quelle della morale. E questa è tale solo se fondata su un Dio che è totalmente altro rispetto all'uomo. Ecco che nella liturgia del battesimo e della Pasqua, dell'eucaristia e della morte l'uomo tocca il sacro. La liturgia è sacra perché scende dall'alto, da Dio che è nei cieli, perciò è "il cielo sulla terra"; è divina, dice l'Oriente e anche i "grandi" Papi come Gregorio e Leone, ma anche il concilio di Trento e il Vaticano II con la costituzione De sacra Liturgia. Allora la liturgia è là dove cielo e terra si toccano, dove Dio si è incarnato e si sacrifica per me:  "Mi ha amato è ha dato se stesso per me" (Galati 2, 20). Questa frase di san Paolo è il culmine e la fonte della partecipazione alla liturgia:  dall'ascolto della parola del Signore discende la comunione con Lui. L'anima dell'uomo ha bisogno di questo e il movimento liturgico del secolo scorso lo aveva agognato:  al centro la Persona di Dio prima del rito, affinché a lei si rivolga la persona umana; dal rito al mistero, alla mistica e alla morale, è l'itinerario che dalla Mediator Dei di Pio XII giunge alla Sacrosanctum concilium del Vaticano II. La catechesi del Papa su Dionigi aiuta a comprendere meglio il sacro, cioè il mistero presente che opera la elevazione morale dell'uomo. Allora, il sacro è la "legge fondamentale" della liturgia, perché discende dalla presenza di Dio; di conseguenza, disobbedire alle norme che esprimono tale sacralità in nome dell'arbitrio che porta a crearsene una propria, significa de-sacralizzare la liturgia. In tal modo la liturgia non è più il ricevere

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dall'alto come al Sinai la parola divina che è legge ai nostri passi, ma costruire in basso il vitello d'oro con le nostre mani e danzarvi attorno. Quanta responsabilità hanno i sacerdoti! Significa in pratica cadere nella tentazione di prendere il posto di Dio:  ne è sintomo la sede del prete che occupa il centro, al posto o di spalle al tabernacolo, e il relegare questo in un luogo secondario. Se i segni valgono qualcosa! La sacra liturgia ha bisogno della nostra umiltà:  "Ti preghiamo umilmente". L'umiltà è la vera misura della liturgia e di conseguenza di noi stessi, perché siamo creature e bisognosi di tutto. Così intesa l'umiltà è verità. Non è la vera adorazione quella fatta in spirito e verità? È alla verità che tende l'intelletto. La disobbedienza alle norme della liturgia è immorale, perché si accoda al tentativo della cultura dominante senza regole e punti fermi,  cosa  che  è  alla  radice  anche del crollo della moralità pubblica e privata. È urgente perciò continuare il cammino della riforma liturgica restituendo il sacro al culto, cioè al rapporto con Dio trascendente che si è incarnato. Infatti, la rivelazione è diventata liturgia, come scrive il Papa nel Gesù di Nazareth. Dunque, la liturgia deve imitare quella dell'Apocalisse, scendere dal cielo sulla terra - ecco la grandezza di Dionigi - non può essere una "liturgia fai da te". Se la liturgia non fosse sacra, se il culto non fosse divino, a nulla servirebbe se non a rappresentare se stessi e soprattutto non salverebbe l'uomo e il mondo, non lo trasformerebbe in santo. Lo Pseudo-Dionigi, esponente della "teologia negativa", sta a ricordare che la liturgia non può dire e spiegare tutto, perché di Dio non si può sapere tutto ma solo quello che Gesù Cristo ha rivelato e la Chiesa propone a credere. Perciò la liturgia è anche

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apofatica:  "Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente - ha detto il Papa - ... E benché Dionigi ci mostri, seguendo Proclo, l'armonia dei cori celesti, così che sembra che tutti dipendano da tutti, resta vero che il nostro cammino verso Dio resta molto lontano da Lui; lo Pseudo-Dionigi dimostra che alla fine la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si fa vicino a noi in Gesù Cristo. E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nell'interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo". Il mettersi in ginocchio diventa l'espressione più eloquente della creatura dinanzi al mistero presente. Perciò l'obbedienza alla sacra liturgia è misura della nostra umiltà. Di tutto questo il prete è ministro, servo e non padrone. Si dimostra quanto insipiente sia il tentativo di accusare la liturgia tridentina di essere dionisiana:  invece, proprio gli studi comparativi dimostrano quanto sia vicina a quella bizantina. Perciò, bisogna essere grati al Santo Padre che anche con la sua catechesi aiuta a riscoprire ecumenicamente l'influsso che la teologia dionisiana ha avuto su quella medievale, mistica e liturgica d'oriente e occidente.

La cultura secondo Ambrogio

L'oro? Preferisco conservare le anime

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La cattedra di Letteratura cristiana antica dell'università di Foggia organizza la "Lectura Patrum Fodiensis" che, attraverso incontri periodici, si propone di promuovere e diffondere, con la conoscenza della produzione letteraria e del pensiero dei Padri, la voce di una tradizione che dal mondo antico arriva ai nostri giorni. Il ciclo di conferenze è quest'anno dedicato alla figura di sant'Ambrogio. Anticipiamo alcuni stralci della relazione del 16 maggio intitolata "Il progetto culturale di Ambrogio".

di Luigi F. PizzolatoPreside della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

La spiegazione della dottrina cristiana fu per Ambrogio una delle priorità del suo mandato episcopale. In particolare, nella sua visione, l'esegesi della Scrittura doveva seguire le piste attraverso le quali Dio stesso e il suo Verbo si erano fatti pedagoghi dell'umanità nella rivelazione. Ambrogio aveva di fronte un pubblico modesto e un pubblico assai esigente. A Milano - città imperiale e centro di vivaci interessi culturali - egli sapeva farsi sempre interprete del pubblico umile, al quale proponeva un discorso che muoveva dalle più vicine declinazioni morali, per approdare a scenari sempre più avanzati di comprensibilità, fino al più elevato incontro dell'anima col divino; ma sapeva anche soddisfare la presenza di intellettuali. La sua spiegazione della Scrittura non poteva permettersi di essere incomprensibile né banale. In ciò lo aiutava il suo temperamento di poeta, legato alla forza evocativa della parola che rendeva interessanti le Scritture per via

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immaginifica e intuitiva più che filosofica e concettuale. In più egli proponeva una catechesi diversificata per chi proveniva dai pagani, dagli ebrei o per i più avanzati nella fede. Strettamente legata alla catechesi orale fu l'attività di edilizia sacra di Ambrogio, per il quale essa è sempre segno di spiritualità, non solo opera funzionale o frutto di estetismo costruttivo. L'arte per Ambrogio si fondava sul simbolo che concentra e trattiene la verità:  in essa il pubblico semplice abbracciava coi sensi quanto spesso non riusciva a concettualizzare, mentre il dotto godeva nel contemplare la verità espressa senza depotenziamento. La tradizione attribuisce ad Ambrogio la costruzione di quattro basiliche. Esse rispondevano forse al bisogno di rispondere all'aumento di popolazione cristiana della Milano capitale. Più decisivo sembra, però, lo scopo pastorale didattico:  erano significativamente poste ai quattro punti cardinali della città. Ambrogio dettò anche i temi dei mosaici della basilica martyrum (oggi scomparsi), di cui ci sono giunti i tituli, cioè le descrizioni delle scene bibliche raffigurate, collocati sotto di esse:  erano una vera catechesi che da Noè a Cristo, dai patriarchi ai profeti a Maria, agli apostoli, fino all'ultima cena, riportava la storia della salvezza, raffrontando, da una parete all'altra, scene dell'Antico e del Nuovo Testamento. Per attirare anche il pubblico pagano, che non coglieva il senso dei riti cristiani, Ambrogio inventò un segno geniale. Fuori Porta Vercellina c'era il mausoleo di Massimiano, a pianta ottagonale, probabilmente perché gli architetti pagani avevano recepito indicazioni della dottrina gnostica secondo la quale il riposo finale degli uomini spirituali era simboleggiato dall'otto. Stessa

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forma ha il mausoleo di epoca teodosiana presso la basilica di San Lorenzo. Sette sono i giorni del mondo, della vita e della morte, simboleggiati nei giorni della creazione e del riposo. Oltre il sette - il settimo giorno è il riposo tra la morte e la resurrezione - sta il giorno eterno, senza sera né mattina, che l'uomo trova nella resurrezione:  "Nel numero otto c'è la pienezza della resurrezione". Ambrogio pensò alla costruzione d'un battistero ottagonale per la basilica nova - battistero detto di San Giovanni - simile al mausoleo funerario pagano, segno della morte e della rinascita dell'uomo nuovo. Qui avviene la morte dell'uomo carnale e la rinascita in uomo spirituale:  "Il fonte è come una sepoltura". Il pagano, che leggeva nel mausoleo la divinizzazione dell'imperatore, era portato così a vedere nel battistero un luogo sacro, nel quale la vasca battesimale - ottagonale essa pure - gli ricordava il sepolcro e la divinizzazione del defunto. Per rendere più perspicuo questo segno, Ambrogio appose al suo battistero, dietro la basilica nova, una lapide in poesia. Ma questo amore per l'edificio di culto e per un culto ben fatto non prevale sulle necessità di quel culto primo e vero che è l'uomo. Sicché, quando molti cittadini romani vennero fatti prigionieri dai Visigoti dopo la battaglia di Adrianopoli, nel 378, Ambrogio non esitò a fondere e vendere arredi sacri preziosi per riscattarli. A chi lo rimproverava rispondeva:  "È stato molto meglio conservare al Signore le anime che non l'oro. Colui che inviò gli Apostoli senza oro, senza oro convocò anche la chiesa. Se la Chiesa ha dell'oro, non è per custodirlo, ma per donarlo, per recare soccorso nelle necessità (...) Altrimenti il Signore mi potrebbe dire:  "Come hai sopportato che tanti poveri morissero

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di fame? Eppure avevi oro, avresti potuto dare loro del cibo. Come mai hai permesso che tanti prigionieri fossero venduti schiavi o, se non riscattati, fossero uccisi? Sarebbe stato meglio conservare quei calici che sono gli uomini vivi che non i calici di metallo". Avrei potuto forse rispondere che non potevo privare il tempio del conveniente splendore? Mi direbbe il Signore:  "I sacramenti non hanno bisogno dell'oro, e non vale per l'oro ciò che non si compra con l'oro" (...) E veramente preziosi sono quei calici che riscattano anime dalla morte. Vero tesoro del Signore è quello che produce ciò che produsse il Suo sangue (...) Questo è l'oro che il santo martire Lorenzo conservò al Signore" (De officis ministrorum, II, 136-140). Ambrogio, infine, conosceva il valore della poesia e del canto sacro, che ha nei salmi il luogo più pregnante. La nota principale pareva essere per lui quella della delectatio che, pur essendo qui un fatto estetico, ha una forte caratterizzazione morale, perché il piacere costituiva nel piano originario di Dio "il più grande stimolo alla virtù", che è stato sfruttato dal demonio come "sprone alla colpa" (Explanatio Psalmorum, I, 1). Infatti, dopo la caduta originaria, quel piacere che inizialmente portava alla virtù e l'accompagnava e poi è stato fomite del peccato, è riproposto nella sua forza positiva dal salmo.

La notion de communion, de Saint Hilaire de Poitiers à nos joursUn prêtre français reçoit le Prix Bellarmin

ROME, Mardi 13 mai 2008 (ZENIT.org) - La notion de communion est aujourd'hui une notion très importante dans la

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réflexion sur l'Eglise, mais aussi pour mieux vivre l'œcuménisme, affirme dans cet entretien le lauréat 2008 du prix Bellarmin en théologie.

C'est au début de la messe en l'honneur de saint Robert Bellarmin (célèbre théologien jésuite du XVIe siècle), présidée ce mardi par le cardinal Giovanni Lajolo, président du gouvernorat de l'Etat de la Cité du Vatican, que le prix Bellarmin en théologie a été décerné. Il récompense la meilleure thèse défendue au cours de l'année à l'Université pontificale grégorienne de Rome. C'est le père Denis Dupont-Fauville, du diocèse de Paris, qui en est le lauréat 2008, pour sa thèse intitulée : « Saint Hilaire de Poitiers, théologien de la communion ». Il dresse pour ZENIT un panorama de ses recherches et en décrit l'actualité.

ZENIT - Vous avez travaillé à partir des textes et réflexions de Saint Hilaire de Poitiers. Qui est ce Père de l'Église ?

P. Denis Dupont-Fauville - Saint Hilaire de Poitiers est un homme exceptionnel, qui est assez peu connu en France. Il était évêque de Poitiers au milieu du IVe siècle et a été l'un des seuls à résister à une grande hérésie qui s'appelle l'arianisme, que les empereurs romains de l'époque voulaient imposer. Il a résisté à l'empereur, un des seuls parmi les évêques, et il est célèbre parce que l'empereur l'a exilé en Turquie, et comme en Turquie il commençait à retourner l'opinion aussi en faveur de la foi catholique véritable, l'empereur l'a ramené en Gaule où il est mort quasiment chef de l'Église des Gaules, en réunissant des synodes à Lutèce, etc...

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C'est chronologiquement le premier docteur de l'Église, on le sait peu, et il a écrit des ouvrages relativement nombreux que l'on peut classifier en trois catégories : des ouvrages d'historien, très minutieux, où il fait la chronique de tous les débats théologiques de son époque, avec tous les conciles, les synodes qui se réunissaient pour faire des définitions, etc... Il y a également des ouvrages plus de circonstance avec des lettres qu'il écrit, des hymnes qu'il a composés pour les fidèles... Et une troisième catégorie, qui est la plus importante sans doute, qui sont les ouvrages de commentaires d'Écriture et de réflexion sur la foi. Il y notamment un grand ouvrage sur la Trinité qui est très célèbre, un grand commentaire des psaumes, et aussi un commentaire sur l'Évangile selon saint Matthieu, qui est le premier commentaire en latin d'un Évangile que l'on ait en intégralité. C'est une figure un peu oubliée aujourd'hui, mais très importante dans l'histoire du dogme.

ZENIT - Et que dit saint Hilaire à propos de la communion ?

P. Denis Dupont-Fauville - La communion, c'est une notion dont on parle beaucoup aujourd'hui, que l'on met à toutes les sauces. L'objet de la thèse était de se dire : chez quelqu'un comme saint Hilaire, qui a une pensée très dense, qui dit beaucoup de choses à la fois, est-ce que cette notion est déjà présente, et comment ? Le résultat peut se résumer en deux points. Premièrement, saint Hilaire est le premier théologien de langue latine qui utilise le mot de communion dans un sens théologique, donc c'est la première fois qu'on parle de communion théologiquement dans le

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monde latin. La deuxième chose, c'est qu'il avait plusieurs mots pour exprimer ce concept, et il en emploie principalement un, qui est communio, pour désigner des réalités très différentes, comme la communion entre évêques, ce qui est très commun à l'époque, mais aussi la communion entre le Père, le Fils et le Saint Esprit, la communion entre chrétiens, la communion eucharistique à la messe, etc... Et pour désigner toutes ces réalités apparemment très différentes les unes des autres, il emploie le même mot, communio. Pourquoi, comment, c'est ce que la thèse essaie d'expliquer.

ZENIT - Quelle est l'importance de cette notion de communion au temps d'Hilaire ?

P. Denis Dupont-Fauville - Avant Hilaire, ce n'est pas tellement une notion théologique, c'est plutôt une notion disciplinaire. C'est-à-dire que le mot est employé par la Bible, par le Nouveau Testament avec un sens théologique, mais à l'époque d'Hilaire, c'est surtout un sens disciplinaire pour dire si on est en communion avec les autres évêques, quand on est en communion avec son propre évêque quand on est chrétien, et donc c'est plutôt quelque chose de réglementaire. Hilaire a redonné un contenu théologique à la notion de communion, et en fait ce contenu théologique est devenu le centre de la notion. Il a montré que c'est en réfléchissant d'abord sur les relations à l'intérieur de la Trinité, entre le Père, le Fils et le Saint Esprit, qu'on pouvait savoir ce qu'était la communion, avec des dimensions parfois paradoxales. À partir de la Trinité, on pouvait comprendre ensuite la communion qu'il était donné à l'Église de vivre et on pouvait

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comprendre ce qu'était la vie que les chrétiens devaient avoir entre eux et la façon dont le Christ leur communiquait le don qu'il est lui-même et qui est une communion.

ZENIT - Quelle est, aujourd'hui, dans le prolongement du concile Vatican II, l'importance de la communion pour une théologie ecclésiale ?

P. Denis Dupont-Fauville - Aujourd'hui, c'est une notion très importante, surtout dans la réflexion sur l'Église. Jean Paul II disait que cette notion était au cœur de la compréhension que l'Église a d'elle-même. C'est aussi une notion importante quand on réfléchit sur la Trinité ou sur la christologie. Après Vatican II, il devient plus clair que les Églises ont à vivre une communion qui n'est pas une uniformité mais où tous doivent s'accueillir les uns les autres, ce qui ne peut se vivre qu'en s'accueillant de Dieu qui est lui-même communion. Cela manifeste le lien entre la vie de l'Église et la vie divine elle-même. Et cela rejoint des concepts orientaux, par exemple le concept de sobornost chez les orthodoxes, où l'on parle beaucoup de communion, de collégialité. Finalement, ces notions qui sont parties de milieux différents convergent aujourd'hui sous l'appellation globale de communion.

ZENIT - On cherche aujourd'hui à fonder les bases de notre foi. La patristique peut-elle nous aider à retrouver ces bases ?

P. Denis Dupont-Fauville - Oui, pour au moins trois raisons. D'abord parce que les Pères sont proches de l'origine. Leur

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préoccupation n'est pas de construire des systèmes intellectuels, mais de rendre compte d'une vie, où tout est proche de Jésus. Du coup, ça amène un deuxième caractère, qui est que les différents éléments de la foi sont liés entre eux, de façon organique. Troisième élément, cette vie affecte toute l'Église de leur époque, avant les divisions actuelles. Et ils s'enrichissent mutuellement entre Orient et Occident. Il est très frappant que, quand Hilaire de Poitiers a été exilé en Turquie, il ne connaissait pas les débats théologiques du monde grec. Quand il est revenu, il parlait grec ; il a traduit les documents grecs pour les évêques gaulois, il a constitué un pont entre l'univers latin et l'univers grec, ce qui fait qu'il est vénéré aussi par l'Église d'Orient. Et en ce sens, ce type de Père de l'Église peut nous aider à retrouver des liens entre les diverses parties de la chrétienté.

ZENIT - Comment le concept de communion peut aider à mieux vivre l'œcuménisme aujourd'hui ?

P. Denis Dupont-Fauville - De plusieurs manières. Il y aurait des manières théologiques « techniques », que l'on pourrait détailler. Mais je dirais que le plus important, c'est de considérer nos frères non pas d'abord comme des gens avec lesquels nous devons nous accommoder, ou avec lesquels trouver une organisation qui soit à peu près possible, mais comme des dons de Dieu. Ce sont des dons que Dieu nous fait et nous sommes aussi des dons de Dieu pour nos frères. Quand nous les accueillons de cette manière-là, il n'y a pas d'abord des choses à organiser, des choses à admettre ou des choses à concéder, mais il y a une découverte mutuelle à faire, et ça c'est la charité, c'est la vie de l'Église.

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ZENIT - La recherche de communion dans nos communautés n'est-elle pas, aujourd'hui, parfois un peu fade vis-à-vis de celle des premiers chrétiens ou des chrétiens du temps d'Hilaire ?

P. Denis Dupont-Fauville - Oui, bien sûr, parce que c'est devenu un mot un peu passe partout : communion, on ne sait plus trop bien ce que ça veut dire. Ce qui est frappant à l'époque d'Hilaire, c'est que d'une part il y a de grands affrontements entre les différentes théologies, l'arianisme et l'orthodoxie. Donc les gens se battent beaucoup pour préserver ou pour reconquérir la communion. Pour eux c'est un enjeu très important. Et puis d'autre part, c'est une notion qui à leur époque était très complexe déjà du point de vue rhétorique, grammatical, du point de vue du sens profane, et comme nos théologiens étaient des hommes cultivés, ils ont récupéré tous les sens, toutes les harmoniques de cette notion pour les intégrer théologiquement. Du coup ça n'est pas encore une notion passe partout, mais au contraire c'est une notion complexe qui a une puissance d'intégration absolument phénoménale d'un point de vue conceptuel, et qui a des conséquences pratiques très fortes puisque toutes les Églises, à l'époque, sont à la recherche de la communion.

Propos recueillis par Stéphane Lemessin

Chiesa e Stato nel pensiero di sant'Ambrogio

Vuoi governare? Studia le api

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Si conclude il 22 maggio presso la chiesa di San Giovanni di Dio a Foggia la "Lectura Patrum Fodiensis", organizzata dall'università di Foggia d'intesa con l'arcidiocesi di Foggia-Bovino. Pubblichiamo uno stralcio della conferenza finale.

di Antonio V. NazzaroUniversità di Napoli Federico II

Sant'Ambrogio preferiva decisamente una forma democratica di governo, che per lui era il pulcherrimus rerum status. Tale preferenza si può spiegare sia con l'educazione filosofica, influenzata da idee platoniche, sia con l'entusiasmo del civis Romanus per le imprese gloriose dell'antica Res publica. L'ideale forma di governo repubblicana è efficacemente delineata

nell'excursus sulle gru contenuto nell'omelia esameronale, predicata nel pomeriggio del mercoledì santo di un anno compreso tra il 386 e il 390 (forse il 387). La società delle gru - nella quale l'organizzazione politica e il servizio militare (politia quaedam et militia) sono un fatto naturale - si regge sull'equa distribuzione dei carichi di

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lavoro e sull'assunzione in comune del labor e della dignitas; sull'avvicendamento degli oneri e degli onori; sulla solidarietà fra governanti e governati:  "Che c'è di più bello del fatto che la fatica e l'onore siano comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l'esercizio proprio di un'antica repubblica, quale conviene in uno stato libero. Così da principio gli uomini avevano cominciato ad attuare un'organizzazione politica ricevuta dalla natura sull'esempio degli uccelli, in modo cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le responsabilità, venissero ripartiti obbedienza e comando, nessuno fosse escluso dalle cariche, nessuno esente dalla fatica. In questa situazione politica ideale nessuno insuperbiva per l'esercizio ininterrotto del potere né si abbatteva per il lungo servire, perché da un lato l'avanzamento, conferito com'era secondo un ordine di funzione e per un periodo limitato, non suscitava invidia e dall'altro sembrava più tollerabile perché comportava un comune compito di sorveglianza. Nessuno osava tiranneggiare un altro, del quale, perché destinato a succedergli nella carica, avrebbe dovuto sopportare a sua volta l'alterigia; a nessuno era grave la fatica, perché la dignità che sarebbe venuta in seguito l'avrebbe compensato" (cfr Exameron, 5, 15, 51-52). La forma di governo repubblicana - di cui le gru offrono un efficace modello - è entrata in crisi, quando la libido dominandi, scovolgendo il rapporto di solidarietà tra governanti e governati e liquidando l'avvicendamento delle cariche, ha condotto a dispotiche forme di governo. Nonostante le sue spiccate simpatie repubblicane, Ambrogio accetta realisticamente il governo monarchico imperiale, convinto che il potere non è in

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sé un male:  da Dio, infatti, proviene l'ordinamento del potere, mentre dal maligno proviene l'ambizione del potere. Il potere unico e assoluto dell'imperatore ha oltre tutto assolto una funzione provvidenziale, agevolando attraverso la pacificazione del mondo la diffusione del cristianesimo. Si capisce in quest'ottica l'atteggiamento intransigente del vescovo nei riguardi sia degli usurpatori, che mettono in crisi l'ordine costituito, sia dei barbari che premono ai confini dell'impero. Il vescovo riconosce il governo imperiale e invita i cristiani a essere leali nei suoi riguardi, ma non rinuncia alla libertas repubblicana che può realizzarsi anche sotto l'impero, a condizione che questo sappia accettare i limiti della potestas e quell'integrazione di potestas e di servitium, che caratterizzano, al di là dell'unità o della pluralità del comando, la caratteristica della politia a natura accepta. Alla società delle gru nella citata omelia esameronale il vescovo affianca quella altrettanto egualitaria delle api - che hanno in comune le leggi, la fatica, il cibo, il lavoro - in cui però il potere supremo è affidato a un rex, scelto non in base alla sorte, né alla successione dinastica, né all'elezione della moltitudine, ma a chiari segni di natura:  la grandezza e la bellezza del corpo e, soprattutto, la mansuetudo morum. La consimile terminologia, impiegata per esprimere le due forme di governo, rappresentate dalle gru e dalle api, sottolinea il fatto che anche nel regnum la fida devotio verso il potere imperiale non è incompatibile con la libertas. Un regnum, fondato sulla comunione di tutti nei diritti e nei doveri, è, insomma, anch'esso una res publica. Sembra avere colto nel segno la Sordi, affermando che le idee politiche emergenti da questi brani sono state coerentemente

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messe in pratica da Ambrogio e, in particolare, che gli atteggiamenti da lui assunti di fronte al potere imperiale sono l'attuazione consapevole del rapporto tra libertas e potestas, teorizzato nei suoi scritti. Insomma, la devotio naturalis delle gru e la fida devotio delle api, così come la fides degli uomini è possibile solo quando la maxima potestas lascia uno spazio adeguato alla libertas. Nella storia della lenta e faticosa definizione dei rapporti fra lo Stato romano, totalitario e imperialistico, giuridicamente fondato sull'auctoritas e sull'imperium, e la Chiesa, che ha una missione divina da svolgere nel mondo, il vescovo di Milano occupa un posto di rilevante importanza. Grazie al coraggio e alla coerenza della sua azione politico-religiosa e alla chiara formulazione delle sue idee, egli ottiene che lo Stato, divenuto cristiano, si assuma le sue responsabilità nei riguardi della Chiesa, alla quale non solo deve garantire la libertà, ma deve assicurare una continua assistenza, che si esplica nell'esecuzione dei decreti conciliari, nell'assunzione di misure legislative contro il paganesimo e l'eresia, e nel pubblico riconoscimento della legge morale cristiana. Il che comporta per lo Stato la subordinazione all'autorità religiosa nelle materie religiose o che riguardino la religione e per i vescovi il diritto-dovere di intervenire in questioni riguardanti la fede e la morale. Ambrogio si pone come il campione della libertà, che non è ancora la libertà di coscienza che lo Stato ha il dovere di garantire, ma è piuttosto la libertà della Chiesa, che si esprime nell'affermazione della superiorità della potestas spiritalis sul potere civile. La libertà che egli rivendica alla Chiesa ha una dimensione essenzialmente religiosa:  è libertà nelle deliberazioni

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dogmatiche come nella disciplina ecclesiastica, nella scelta dei vescovi come nell'intangibile possesso degli edifici di culto. Nella scia di altri vescovi (Atanasio, Lucifero di Cagliari, Ilario di Poitiers), che prima di lui avevano rivendicato la libertà e l'indipendenza della Chiesa nell'esercizio delle proprie funzioni, il vescovo di Milano ribadisce l'esigenza della Chiesa di esplicare liberamente la sua missione spirituale, senza patire azioni di forza o intromissioni statuali, spettando ai vescovi il compito di assicurare la disciplina interna e il rispetto degli interessi supremi di Dio e dell'anima. Dello Stato non sollecita e non tollera l'intervento, neppure nei casi in cui esso potrebbe svolgere la funzione di "braccio secolare":  si pensi alla vibrata protesta che insieme con Martino di Tours e con Papa Siricio elevò contro i vescovi che nel 385 fecero condannare sotto l'imputazione di magia e giustiziare Priscilliano dall'usurpatore Massimo. L'intervento dello Stato, invocato nella lotta contro le eresie, in base a principi, che fanno pensare alla moderna teoria del braccio secolare, non si risolve mai in nocumento per le persone, né è diretto a giustificare le latenti tentazioni di cesaropapismo. Ad Ambrogio è sufficiente che lo Stato, impedendo all'errore di propagarsi, aiuti la Chiesa nella sua missione spirituale. La tutela offerta alla Chiesa e le garanzie assicurate alla sua libertà, garantendo la pace e il benessere dei popoli, finiscono con il coincidere con gli interessi stessi dell'impero, sicché l'invocata Libertas Ecclesiae s'identifica con il baluardo delle pubbliche libertà. Il capovolgimento del pensiero politico cristiano attuatosi nel corso del iv secolo spiega il progressivo allineamento della

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Chiesa, sul piano politico, alle posizioni dell'autorità imperiale. Gli scrittori cristiani non sostengono più l'illiceità del servizio militare e non ne predicano più la diserzione; accettano anzi la situazione politica e si sforzano persino di giustificare il cristiano che combatte per l'imperatore e la fede. I vescovi, e cioè i dirigenti cristiani che per tre lunghi secoli avevano sognato la caduta dello Stato romano, trepidano ora dinanzi al pericolo delle invasioni barbariche e si pongono come i più validi difensori delle città dell'Impero. Ambrogio, convinto che l'impero garantisca la difesa del diritto, della libertà e della vita civile contro la barbarie, assicura una franca collaborazione agli imperatori cristiani, di cui riconosce l'autonomia nell'ambito civile. (...) La battaglia di Ambrogio per l'indipendenza della Chiesa contro l'ingiustificata intromissione dei poteri statali, la cui  mancanza di scrupoli dogmatici era stata sperimentata nel corso del governo di Costanzo ii, ha come obiettivo il pubblico riconoscimento di un'unica, vera Chiesa cattolica, fondata sull'insostituibile base della professione ortodossa, che è unica e quindi la sola legittima.

Eucaristia e poesia in Tommaso d'Aquino

Una goccia di sangue per sollevare il mondo

di Inos Biffi

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Il primo splendore che promana dal linguaggio lineare, rigoroso, intellettivamente trasparente delle composizioni poetiche eucaristiche di san Tommaso d'Aquino è lo splendore della verità:  splendor veritatis. Ma a questa precisione teologica, propria di uno "scolastico", si uniscono mirabilmente la pietà e lo stupore ammirato e contemplativo, che accendono e trasfigurano quella teologia. Il mistero irraggia dall'esperienza del credente divenuto poeta; la teologia ineccepibile si riveste della bellezza e dell'emozione della lirica. La fides - direbbe sant'Ambrogio - si fa canora.

Del resto, di là dagli inni letterariamente poetici, un diffuso soffio di viva poesia pervade e anima tutta la composizione dell'ufficio e della messa in onore del Corpo e del Sangue del Signore, di cui

l'Angelico è autore, dove largamente si incontrano e si fondono la limpidità e la precisione dell'idea con la vibrazione e l'abbandono del sentimento. All'origine di questa diffusa poeticità si trova la sorgente stessa, a cui attinge tutta questa esuberante composizione, ossia la

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Scrittura, i cui testi riccamente intessono questo ufficio e questa messa. E, tuttavia, non si tratta di semplici citazioni ripetute fedelmente e opportunamente scelte e collocate:  spesso un tocco felice di artista le rimodella e le ricrea, rivestendole di bellezza e di attrattiva nuova. Tutta una poesia biblica si diffonde dalla innumerevole serie di antifone e responsori, che a sua volta la musica e il canto liturgico hanno concorso a esaltare e a rendere ancora più appassionata e contemplativa. Ma volgiamo qui l'attenzione agli Inni eucaristici dell'Angelico, in cui è possibile cogliere, in una varietà di intrecci, la storia e la teologia dal linguaggio puntuale, la lode, l'adorazione e l'implorazione. Il "mistero del corpo glorioso, e del prezioso sangue (gloriosi corporis mysterium, sanguinisque pretiosi)" porta alla memoria di Tommaso anzitutto l'ultima cena, con i tratti di amicizia e di fraternità che l'hanno contrassegnata. Così egli canta nel Pange, lingua:  "Dato a noi e per noi nato da una vergine illibata, trascorsa nel mondo la sua vita e sparso il seme della parola, mirabilmente concluse il suo soggiorno. La notte dell'ultima cena, giacendo a mensa coi fratelli, osservata fedelmente coi cibi rituali la legge antica, dona se stesso in cibo ai dodici". E nel Verbum supernum:  "Il Verbo celeste, veniente dal Padre, e sempre alla sua destra, portando a compimento la sua opera, giunse alla sera della vita. Uno dei discepoli lo consegnava ai suoi nemici per esser messo a morte, ed egli si offrì loro in cibo di vita". E, allo stesso modo, nel Lauda, Sion:  "Solenne è celebrato il giorno che ricorda la prima istituzione di quest'agape". Il "pane vivo e vitale (panis vivus et vitalis)" "nella mensa della santa cena alla compagnia dei dodici fratelli senza dubbio fu donato",

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mentre, insieme, "Cristo dispose che in sua memoria si compisse quello che egli fece nella cena". Nell'Eucaristia le antiche prefigurazioni si compiono e i vecchi riti sono finiti, e sopraggiunge una realtà nuova:  "Il pane del cielo porta a compimento le prefigurazioni (dat panis caelicus figuris terminum)" (Sacris sollemniis). Esso "nei simboli è prefigurato:  quando è immolato Isacco, quando è scelto l'agnello della Pasqua e ai padri è offerta in dono la manna. In questa mensa del nuovo re, la nuova Pasqua della legge nuova svuota la Pasqua (il passaggio) antica. La novità fa fuggire la vecchiezza, la verità fa dileguare l'ombra, la luce dissipa le tenebre" (Lauda, Sion). "Dopo la consumazione dell'agnello che lo adombrava ai discepoli fu dispensato il Corpo del Signore (Post agnum typicum expletis epulis, / corpus dominicum datum discipulis)" (Sacris sollemniis). E, cantando l'istituzione dell'Eucaristia, l'Angelico illustra il suo mistero. L'Eucaristia è il ricordo della morte di Cristo. In uno dei suoi versi più appassionati egli esclama:  "O memoriale della morte del Signore (O memoriale mortis Domini)" (Adoro te). Essa è "il corpo glorioso (gloriosus corpus)" e "il prezioso sangue (sanguis pretiosus)" (Pange, lingua). Il tema speciale del suo canto - dichiara il poeta - è il "pane vivo e vitale (Laudis thema specialis, panis vivus et vitalis)", "il pane degli angeli" che "diviene il pane degli uomini (Panis angelicus fit panis hominum)" (Lauda, Sion). Da qui la sorpresa ammirazione, che un altro verso esprime con vibrante commozione:  "O cosa mirabile:  il servo, povero e umile, si nutre del Signore" (Sacris sollemniis). E, se "nascendo

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Cristo si è fatto compagno, e alimento cenando con i suoi", "nella morte si offre in riscatto, e si dà come premio nel regno" (Verbum supernum). Ma al poeta teologo preme precisare con rigore i vari aspetti del mistero eucaristico:  la sostanza, la conversione, le specie eucaristiche, la loro frazione, i ministri e quanti ricevono il sacramento. Il Lauda, Sion li fa passare analiticamente:  "Ai discepoli di Cristo questo dogma è consegnato:  il pane si trasforma in carne e il vino in sangue. Sotto diverse apparenze - segni senza sostanza - realtà sublimi si nascondono:  la carne che è nutrimento, il sangue che è bevanda. E, pure, sotto l'una e l'altra specie Cristo resta tutto intero:  non spezzato da chi lo assume, non infranto, non diviso, viene assunto nella sua integrità. Lo riceve uno, lo ricevon mille:  quanto questi tanto quello, né assunto è consumato. E alla frazione del sacramento, non turbarti, ma ricorda:  tanto Cristo è celato nel frammento, quanto lo è nella totalità. La realtà non patisce divisione, la frazione coinvolge solo i segni, né lo stato si riduce e neppure la statura di chi è simboleggiato. Lo ricevono i buoni, lo ricevono i cattivi, ma con esito ineguale, di vita oppur di morte:  di morte per gli iniqui, di vita per i buoni:  vedi dunque di una stessa comunione quanto l'effetto sia dissimile". L'inno Verbum supernum focalizzerà:  ai discepoli "sotto le due specie donò la carne e il sangue, al fine di nutrire con la duplice sostanza tutto l'uomo". Quanto ai ministri dell'Eucaristia, sono unicamente i presbiteri:  "Ha istituito così questo sacrificio, di esso incaricando i soli presbiteri:  a loro incombe di consumarlo e di elargirlo agli altri" (Sacris sollemniis). E un'altra sottolineatura degli Inni eucaristici di Tommaso - e di

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tutta la sua teologia eucaristica - è la necessità assoluta e imprescindibile della fede:  sola fides. I sensi giudicano e si fermano secondo le apparenze:  non sanno andare oltre, non riescono a raggiungere, sotto le specie, la presenza della sostanza, cioè del Corpo e del Sangue di Cristo. Vedono giusto solo quanto alle apparenze; ma, di là da esse, non sono in grado di percepire nulla. Perciò è detto che essi vengono meno, e falliscono. La presenza reale del Signore è attestata unicamente dalla fede, che si pone in ascolto della sua Parola:  "Il Verbo fatto carne con la sua parola rese la propria carne pane vero, mentre il vino diventa il sangue di Cristo; che, se i sensi si smarriscono, la sola fede basta a rassicurare il cuore sincero". "La fede sopperisca all'infermità dei sensi (praestet fides supplementum sensuum defectui)" (Pange, lingua). "La fede ardimentosa, di là dall'ordine naturale, conferma quello che non comprendi e quello che non vedi" (Lauda, Sion). "La vista, il tatto, il gusto non ti avvertono:  si crede senza esitazione solo per quello che l'udito ha ascoltato. Credo a tutto quello che il Figlio di Dio ha asserito:  nulla è più vero della parola di verità" (Adoro te). Il Corpus Domini è sorto come festa speciale dedicata al culto e all'esaltazione del Corpo e del Sangue di Cristo, ed è esattamente l'invito alla lode e all'adorazione che ricorre negli Inni eucaristici di san Tommaso. Così nel Pange, lingua:  "Canta, o lingua, il mistero del corpo glorioso e del prezioso sangue, effuso, per riscattare il mondo, dal re delle genti, frutto di un grembo generoso". "Prostràti, veneriamo un così grande sacramento (Tantum ergo sacramentum veneremur cernui)". La memoria dell'istituzione dell'Eucaristia e l'adorazione del

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Corpo e del Sangue del Signore si accompagnano e si alternano negli Inni di san Tommaso con una intensa e calda implorazione:  "Ti chiediamo, o Dio trino e uno:  come noi ti onoriamo, così vieni a visitarci, e sulle tue vie sii guida alla mèta cui tendiamo:  alla luce che tu inabiti" (Sacris sollemniis). "O Gesù, Pastore buono, veramente pane, abbi di noi pietà:  sii tu a pascolarci e a custodirci; facci tu vedere il bene nella terra dei viventi. Tu, che conosci tutto e tutto vali, che qui pasci noi mortali, rendi i tuoi commensali di quaggiù, i coeredi e i compagni dei santi cittadini" (Lauda, Sion). Ma soprattutto nell'Adoro te devote la lode al Corpo e al Sangue del Signore mirabilmente si fonde in appassionata e lirica preghiera. La sacra dottrina del teologo, tutta intrisa di Scrittura, e la vena ispirata del poeta si fondono con la devozione accesa dell'orante, quasi con lo spasimo del mistico, che parla dall'abbondanza del cuore e che brama di vedere Cristo di là dai veli e dai nascondimenti del sacramento. L'inno è stato definito "una di quelle composizioni armoniose e geniali, insieme ricche e semplici, che sono servite, più di molti libri, a formare la pietà cattolica" (Wilmart). "Poema teologico", accuratamente strutturato nel ritmo e nelle assonanze, è, insieme, tutta una invocazione personale a Gesù nell'Eucaristia:  "Devotamente ti adoro, o verità nascosta, che ti celi veramente sotto queste forme. Il mio cuore tutto a te si sottomette, poi che a contemplarti si sente tutto venir meno (Adoro te devote, latens veritas, / te quae sub his formis vere latitas. // Tibi se cor meum totum subicit, / quia te contemplans totum deficit)". La non visione di Cristo, che nell'Eucaristia è assoluta, non deve attenuare l'adesione; la deve, anzi, accrescere, suscitando

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l'abbandono confidente del ladro in croce o la confessione dell'apostolo Tommaso, pur nella mancanza della constatazione e del contatto delle piaghe. Le assenze dell'Eucaristia devono incrementare la fede, che dà inizio all'intimità divina, la speranza e l'amore:  "Sulla croce era nascosta solo la divinità, ma qui è occulta anche l'umanità; e, pure, l'una e l'altra credendo e professando, chiedo quello che ha implorato il ladro penitente. Con Tommaso non ravviso le ferite, e tuttavia ti proclamo mio Dio. Fa' che sempre più io creda, che in te speri e che ti ami". L'Eucaristia è il memoriale della morte del Signore. La definizione di Tommaso diventa una piissima esclamazione:  "O memoriale della morte del Signore, pane vivo e fonte di vita per l'uomo (O memoriale mortis Domini, / panis vivus vitam praestans homini)". Memoriale della morte e pane vivo, del quale si domanda di vivere per sempre e di gustare la dolcezza, l'Eucaristia è anche sangue che fluisce dal petto squarciato di Gesù, assimilato a un pio pellicano e invocato a purificare dall'immondezza:  un sangue tanto prezioso, di cui anche una sola goccia sarebbe bastata a salvare da ogni delitto il mondo intero:  "Donami di vivere sempre di te, e di non cessare mai di assaporare la tua dolcezza (Praesta mihi semper de te vivere, / et te mihi semper dulce sapere)". "Pio pellicano, Gesù Signore, mondami col tuo sangue nella mia impurità:  una sua sola goccia basterebbe a salvare da ogni crimine il mondo intero". Soprattutto gli ultimi devoti e commossi accenti rivolti personalmente a Cristo rivelano in tutto il suo incanto e la sua emozione la poesia eucaristica di san Tommaso teologo e mistico

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del Corpo e del Sangue del Signore. La tradizione non conosce elevazioni eucaristiche più devote e più belle di queste e si comprende perché la Chiesa le abbia assunte ancora le usi per cantare la propria adorazione e il proprio fervore. "O Gesù, che ora scorgo ancor velato, quando si avvererà quello di cui ho tanta sete? Cioè di contemplarti apertamente e quindi di essere beato nella visione della tua gloria (Ihesu, quem velatum nunc aspicio, / quando fiet illud quod tam sicio? / Ut te revelata cernens facie, / visu sim beatus tuae gloriae)". Per altro, questi versi rivelano il senso e l'esito della teologia e del lavoro teologico di Tommaso, che nella conclusione della sua vita sentiva e giudicava tutti i suoi scritti come "paglia". Egli era impaziente che tutto l'enuntiabile, tutto il castello dei concetti si convertissero e sfociassero alla res, alla realtà. Ma questa è la sete di ogni credente, cui la Rivelazione, grazie allo Spirito, abbia confidato i "segreti di Dio":  lo prende l'accoramento di vedere Cristo e in lui di vedere Dio. Com'è detto da Dante nella Commedia:  "Che del disïo di sé veder n'accora" (Purgatorio, canto V, 57). Così, per sua natura, dovrebbe sempre essere la vera teologia:  non quella che si attarda nel sospetto o perde troppo tempo a dialogare con una cultura che, mancando della fede, neppure può capire che cosa sia un sapere tutto sospeso alla divina Parola. Se, poi, in tema di Eucaristia oggi c'è un'urgenza, è quella di ridire e di ammirare il miracolo e la grazia della presenza reale, in virtù della transustanziazione, che tanto ha attratto la mente e il cuore del Dottore Angelico.

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LU ET A UTILISER

St Augustin Confessions, livre X, CHAPITRE XXIII.

AMOUR NATUREL DES HOMMES POUR LA VÉRITÉ

ILS NE LA HAÏSSENT QUE LORSQU’ELLE CONTRARIE

LEURS PASSIONS.

33.       Tous les hommes ne veulent donc pas être heureux, car il en est qui, refusant de se réjouir en vous, seule vie bienheureuse, refusent leur félicité. Serait-ce plutôt que, malgré leur désir, les révoltes de la chair contre l’esprit, et de l’esprit contre la chair, les réduisent à l’impuissance de leur vouloir ( Galat. V, 17), les précipitent dans la faiblesse de leur force, dont ils se contentent, faute d’une volonté qui prête la force à leur faiblesse?

Je leur demande à tous s’ils ne préfèrent pas la joie de la vérité à celle du mensonge. Et ils n’hésitent pas plus ici que pour la réponse à la question du bonheur. Car la vie heureuse c’est la joie de la vérité; c’est la joie en vous, qui êtes la vérité ( Jean, XIV, 6), ô Dieu! ma lumière, mon salut ( Ps. XXVI, 1), mon Dieu. Nous voulons tous cette vie bienheureuse, nous voulons tous cette vie, seule bienheureuse; nous voulons tous la joie de la vérité.

J’en ai vu plusieurs qui voulaient tromper, nul qui voulût l’être. Où donc les hommes ont-ils pris cette connaissance du bonheur, si ce n’est où

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ils ont pris celle de la vérité? car ils aiment la vérité, puisqu’ils ne veulent pas être trompés. Et ils ne peuvent aimer la vie heureuse, qui n’est que la joie de la vérité, sans aimer la vérité. Et ils ne sauraient l’aimer, si la mémoire n’en avait aucune idée.

Pourquoi donc n’y cherchent-ils pas leur joie, pour y trouver leur félicité? C’est qu’ils sont fortement préoccupés de ces vanités qui leur créent plus de misères que ce faible souvenir ne leur laisse de bonheur. Il est encore une faible lumière dans l’âme de l’homme. Qu’il marche, qu’il marche, tant qu’elle luit, de peur d’être surpris par les ténèbres (Jean, XII, 31).

34.       Mais d’où vient que la vérité engendre la haine? D’où vient que l’on voit, un ennemi dans l’homme qui l’annonce en votre nom, si l’on aime la vie heureuse qui n’est que la joie de la vérité? C’est qu’elle est tant aimée, que ceux même qui ont un autre amour veulent que l’objet de cet amour soit la vérité; et refusant d’être trompés, ils ne veulent pas être convaincus d’erreur. Et de l’amour de ce qu’ils prennent pour la vérité vient leur haine de la vérité même. Ils aiment sa lumière et haïssent son regard. Voulant tromper sans l’être, ils l’aiment quand elle se manifeste, et la haïssent’ quand elle les découvre; mais par une juste rémunération, les dévoilant malgré eux, elle leur reste voilée.

C’est ainsi, oui c’est ainsi que l’esprit, humain, dans cet état de cécité, de langueur, de honte et d’infirmité, prétend se cacher et que tout lui soit découvert; et il arrive, au contraire, qu’il n’échappe pas à la vérité qui lui échappe. Et néanmoins dans cet état de misère, il préfère ses joies à celles du mensonge. lisera donc heureux lorsque, sans crainte d’aucun trouble, il jouira de la seule Vérité, mère de toutes les autres.

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. (Augustin, de la Foi, Espérance et Charité - CHAPITRE CXIV. DE L'ESPÉRANCE. - L'ORAISON DOMINICALE RENFERME TOUT CE QU'IL FAUT ESPÉRER.)

30. De la foi, contenue en abrégé dans le Symbole, dont les expressions sont comme le, lait des petits enfants, mais dont le sens profond fait la nourriture des forts, naît la solide espérance des fidèles, et sa compagne, la sainte charité

L'Epifania nella tradizione bizantina

Nato senza padre dalla Madree senza madre dal Padre

di Manuel Nin

In tutte le tradizioni cristiane d'Oriente l'Epifania celebra la manifestazione del Verbo di Dio

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incarnato, in un contesto trinitario e cristologico. I testi liturgici riassumono in qualche modo i principali misteri della fede cristiana:  il mistero trinitario, l'incarnazione del Verbo di Dio e la redenzione ricevuta nel battesimo, evento celebrato durante la grande benedizione delle acque che ricorda il battesimo di Cristo e quello di ognuno dei fedeli cristiani. Nella tradizione bizantina l'Epifania è una delle dodici grandi feste, con una "pre-festa" che inizia il 2 gennaio e un'ottava che finisce il 14 gennaio. Questo tempo vuole mostrare come la Chiesa, docile alla liturgia, si prepara alla celebrazione di un grande evento di salvezza e come lo vive per otto giorni che rendono evidente la pienezza del mistero celebrato. I testi innologici del vespro e dell'ufficiatura mattutina sono dei grandi innografi bizantini vissuti dal vi al IX secolo - Romano il Melode, Sofronio di Gerusalemme, Germano di Costantinopoli, Andrea di Creta, Giovanni di Damasco, Giuseppe l'Innografo - e sottolineano lo stupore e la meraviglia del Battista e di tutta la creazione (angeli, firmamento, acque del Giordano) di fronte alla manifestazione umile di Cristo che si avvia a ricevere il battesimo. Uno dei testi più significativi è la grande benedizione delle acque, celebrata alla fine del vespro oppure alla fine della divina liturgia del giorno e che si svolge di solito al fonte battesimale della chiesa. La preghiera, attribuita a Sofronio di Gerusalemme, è un lungo testo che costituisce una celebrazione a sé stante, benché si collochi senza soluzione di continuità con il vespro o con la Divina liturgia. Dopo il canto dei tropari la celebrazione prosegue con diverse letture dell'Antico e del Nuovo Testamento:  tre brani profetici di Isaia (35, 1-10; 55, 1-13; 12, 3-6), poi san Paolo (1 Corinzi, 10, 1-

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4), quindi il vangelo di Marco (9, 1-11). Segue la grande litania diaconale con una invocazione dello Spirito Santo per la consacrazione delle acque, perché esse siano fonte di perdono, di purificazione e di vita nuova per i battezzati:  "Affinché sia santificata quest'acqua con la virtù e la potenza e la venuta dello Spirito Santo. Affinché discenda su queste acque l'azione purificatrice della sovrasostanziale Trinità. Affinché noi possiamo essere illuminati con la luce della conoscenza e della pietà per la venuta dello Spirito Santo. Affinché quest'acqua possa divenire dono di santificazione, lavacro dei peccati per la guarigione dell'anima e del corpo". La preghiera di consacrazione dell'acqua inizia con una prima parte in cui il sacerdote loda la Trinità divina, come nelle anafore eucaristiche:  "Trinità sovrasostanziale, buonissima, divinissima, onnipotente, onniveggente, invisibile, incomprensibile, creatrice, innata bontà, luce inaccessibile". La preghiera si rivolge poi direttamente a Cristo, con titoli che indicano un contesto chiaramente calcedonese:  "Ti glorifichiamo Signore, amico degli uomini, onnipotente, eterno re, Figlio Unigenito, nato senza padre dalla Madre e senza madre dal Padre. Nella precedente festa infatti ti abbiamo visto bambino, in questa invece ti vediamo perfetto, essendoti manifestato Dio nostro perfetto". Il testo prosegue con l'enumerazione dei fatti salvifici celebrati nella festa; nelle ventiquattro invocazioni che iniziano con la parola "oggi" il testo descrive non solo i fatti avvenuti nella storia della salvezza e oggi commemorati, ma la parola "oggi" prende una forza di attualizzazione nella celebrazione e nella vita della Chiesa:  "Oggi la grazia dello Spirito Santo, in forma di colomba, è discesa sulle acque. Oggi l'increato, per sua volontà, viene

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toccato dalle mani della creatura. Oggi le rive del Giordano vengono tramutate in farmaco per la presenza del Signore. Oggi siamo riscattati dalla tenebra e veniamo resi sfavillanti dalla luce della divina conoscenza". Due frasi del sacerdote invocano per tre volte la santificazione delle acque:  "Tu, Signore, re e amico degli uomini, sii presente anche ora per la venuta del tuo Spirito Santo e santifica quest'acqua. Tu stesso anche ora, o Signore, santifica quest'acqua con il tuo Spirito Santo". Finita la preghiera il sacerdote introduce la croce benedizionale con un rametto di erbe aromatiche nell'acqua cantando per tre volte il tropario della festa:  "Al tuo battesimo nel Giordano, Signore, si è manifestata l'adorazione della Trinità:  la voce del Padre ti rendeva infatti testimonianza, chiamandoti "Figlio diletto', e lo Spirito in forma di colomba confermava la sicura verità di questa parola. O Cristo Dio che ti sei manifestato e hai illuminato il mondo, gloria a te". Alla fine i fedeli passano a baciare la croce e sono aspersi con l'acqua consacrata, che poi secondo la tradizione portano a casa. Della festa si possono sottolineare tre aspetti. In primo luogo, la manifestazione della divinità in chiave trinitaria:  il battesimo di Cristo nel Giordano manifesta sì la rivelazione del Verbo di Dio, ma include anche quella del Padre e dello Spirito Santo. In secondo luogo, la celebrazione manifesta l'opera salvifica di Cristo, evidenziata nel battesimo e portata a compimento nella sua umiliazione. In terzo luogo, la celebrazione dell'Epifania significa anche la comunicazione agli uomini della grazia dello Spirito Santo per mezzo dell'acqua del battesimo.

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I Magi, il battesimo nel Giordano, le nozze di Cana nell'inno di sant'Ambrogio

Più luce alle stelle Più sapore al vino

di Inos Biffi

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L'inno canta le epifanie del Signore o le manifestazioni del suo intimo mistero avvenute nel battesimo al Giordano, nella luce della stella apparsa ai Magi come guida verso Betlemme, e nella conversione dell'acqua mutata in vino a Cana:  i tre "miracoli". La Chiesa di sant'Ambrogio celebrava i tre "miracoli" - gli stessi oggi commemorati della liturgia milanese - ormai distintamente dalla memoria del Natale, per il quale lo stesso vescovo aveva composto l'inno che celebrava la venuta del Verbo nella carne e il suo presepe.

"Il disegno è originale - scrive Giacomo Biffi - il movimento è sciolto e ricco di fantasia". Si apre con una vibrante invocazione a Gesù, come a Colui che crea e fa risplendere le luci del firmamento, ed è fonte della verità e della luce, della vita e della pace. "Se salirai al cielo - predicava - Gesù è

là", "Cristo è tutto e tutto è in Cristo", egli "è il seme di tutto", il "Creatore di tutte le cose", "Signore, - esclamava in una delle preghiere, che spontaneamente gli prorompevano dal cuore e

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abitualmente incastonavano la sua prosa - tu hai creato il mondo".

Ecco i primi versi ardenti e a loro volta ripieni di splendore:  "Tu che nei cieli altissimo accendi / i rilucenti globi degli astri, / Gesù - verità, luce, vita, pace - / ascolta chi ti implora":  le luci celesti incantavano il poeta, che parla altrove dei "globi delle stelle lucenti (stellarum lucentium globi)", "sant'Ambrogio ha una vera predilezione per questo modo di indicare gli astri" (Giuseppe Del Ton). Il primo mistero, in cui è avvenuta l'epifania di Gesù, è quello del suo battesimo, quando egli santifica le acque del fiume che vide i prodigi al tempo di Giosuè, di Elia e di Eliseo, e dove è proclamato Messia e Figlio di Dio:  "Col mistero del tuo battesimo / in questo giorno consacrasti il corso / del Giordano, che un tempo tre volte / a ritroso sospinse i suoi flutti":  "In questo giorno (praesenti die)", dice il poeta, ed è "il presente celebrativo" dell'antica ottica liturgica di grande valore teologico, per la quale i misteri celebrati "avvengono" nel giorno stesso della celebrazione (Giacomo Biffi). Segue il mistero della stella apparsa per annunziare ai Magi la nascita di Cristo e condurli alla grotta. Chi opera è il Signore Gesù:  "In una stella fulgente dal cielo, / oggi annunziasti il parto della Vergine, / e fosti guida ai Magi / ad adorare il presepio". E, anche qui va notato, nell'"oggi". È il pensiero che torna nel commento di Ambrogio al vangelo di Luca (ii, 45):  "Dove c'è Cristo, la stella si fa nuovamente vedere e indica la via. Questa stella è la via, e Cristo è la via, perché Cristo è la stella. Dove c'è Cristo, c'è anche la stella; egli, infatti, è la stella fulgida del mattino. Egli si manifesta con la sua stessa

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luce". A Cana "Gesù manifestò la sua gloria" (Giovanni, 2, 11), ed è la terza epifania cantata da Ambrogio. Come fu Cristo ad accendere le stelle, a consacrare il Giordano, ad annunciare la natività e a guidare i Magi, così fu lui a infondere vino prelibato nelle idrie, con lo stupore del servo al vedere la conversione dell'acqua:  "Nell'idrie colme d'acqua / oggi vino infondesti:  / ne attinse il servo, pur non ignaro / di non averle in tal guisa colmate". "Si meraviglia che l'acqua s'imporpori, / che doni ebbrezza l'onda, / che gli elementi trasmutino / piegandosi a nuovi fini". Vari concetti e vocaboli, qui vòlti in poesia, si riscontrano, com'è d'abitudine in Ambrogio, nella sua prosa. Ancora commentando Luca, egli scrive:  "Nelle nozze il vino, attinto alla fontana, prende colore, mentre i servi lo stanno distribuendo, e gli stessi che avevano riempite le idrie d'acqua mescevano un vino che non avevano portato a mensa(...) Gli elementi sono mutati in un altro aspetto (...) Per di più, la natura del vino trasformato è migliore di quello originale, poiché il Creatore ha piena libertà di attribuire gli usi che vuole alle sostanze naturali (...) Mentre il servo mesce l'acqua, la fragranza che si diffonde inebria, il colore che si è cambiato ammaestra e anche il sapore che viene gustato porta al colmo la fede" (vi, 87). E poiché il tema è quello della potenza di Cristo che domina e trasmuta gli elementi, il pensiero di Ambrogio si porta alla moltiplicazione dei pani, sulla quale gli piace soffermarsi per ben tre strofe, le ultime, e come nel canto del vino a Cana, non è difficile avvertire nel canto al pane moltiplicato un'allusione eucaristica. "Tra cinquemila uomini ugualmente / tu cinque pani soltanto dividi:  / sotto l'avido dente / cresceva in bocca il cibo".

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"Di là dal suo consumo / il pane si moltiplica:  / chi al fluire perenne delle fonti / stupirà più, dopo un tale spettacolo? / Tra le mani di chi lo spezza / copioso il pane scorre; / tozzi, che non avevano spezzato, / intatti ad essi spuntano". E sempre nel commento a Luca, come per il miracolo di Cana, troviamo una ricca sequenza di vocaboli, di immagini e di concetti, ricorrenti nei versi:  "Ha un significato mistico il fatto che il popolo venga saziato durante quel pasto, mentre gli apostoli lo servono:  in quell'essere saziati vien dato il segno che la fame è stata eternamente vinta, perché colui che riceve il cibo di Cristo non avrà più fame, mentre nel servizio degli apostoli è preannunziata la distribuzione del corpo e del sangue del Signore, che sarà fatta un giorno. Ed è già cosa degna di Dio il fatto che cinque pani abbiano sovrabbondato per cinquemila persone:  si sa infatti che quella gente fu saziata con un cibo non scarso, ma che era moltiplicato. Avresti potuto vedere le porzioni di pane scorrere in modo sorprendente e fruttificare tra le mani di coloro che le distribuivano. Chi legge queste cose non può stupirsi delle perenni correnti delle acque, e meravigliarsi che da limpide sorgenti sgorghino fiotti continui, se persino il pane trabocca, e una sostanza più solida scorra (...) Questo pane, che Gesù spezza, - e in senso mistico è senz'altro il Verbo di Dio e la parola di Cristo - mentre si divide, cresce. Egli, infatti, con parole scarne somministrò un cibo che fu sovrabbondante per tutti i popoli. Ci ha dato le sue parole come pane, che, mentre le assaggiamo, ci si moltiplicano in bocca. Questo pane, inoltre, mirabilmente si ammucchia mentre si spezza, mentre viene distribuito e si mangia, senza che se ne avverta alcun calo. Non mettere in dubbio che quel cibo cresca o tra le mani di chi lo serve o in

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bocca di chi lo mangia... Per la gente che sta mangiando, i pezzi di pane crescono mentre si consumano". Il brano - come quello precedente su Cana - è del più grande interesse, non solo come indice chiaro di chi ne sia l'autore, ma come segno che gli accenti rapidi e poetici degli inni riscontravano nella predicazione di Ambrogio, che li aveva composti, la loro più distesa esegesi. E in tal modo la sua Chiesa poteva elevare, con più vivo e illuminato fervore, il suo canto. Come in queste "epifanie":  appuntamento provvido e lieto per esaltare Gesù, che era il cuore della pietà e della parola di sant'Ambrogio e che luminosamente appariva come Figlio di Dio.

Il 6 gennaio 1852 per volontà di Papa Pio IX nasceva la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

Anche le catacombe, a volte, hanno bisogno di riposo

di Carlo Carletti

Il 6 gennaio 1852, con biglietto inviato al cardinale Costantino Patrizi, vicario generale (protocollo n. 32288), Pio IX istituiva ufficialmente la Commissione di Archeologia Sacra "per la più efficace tutela e sorveglianza dei cemeteri e degli antichi edifici cristiani di Roma e del suburbano, per la sistematica e scientifica

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escavazione ed esplorazione degli stessi cemeteri, per la conservazione e custodia di quanto dagli scavi si venisse ritrovando o si fosse riportato alla luce"; per il suo funzionamento ordinario la nuova istituzione veniva dotata della somma annuale di "scudi milleottocento". Legittimazione e ratifica di quanto, seppure in via sperimentale, era già esistente e funzionante dal 5 luglio 1851 per iniziativa del gesuita Giuseppe Marchi (1795-1860), già conservatore dei sacri cimiteri, e del "padre fondatore" degli studi sulle catacombe, Giovanni Battista de Rossi (1822-1894), che aveva già suggerito e sollecitato con più di "qualche insistenza" Pio IX ad istituire una stabile commissione con competenze specifiche per le indagini archeologiche nelle catacombe. De Rossi, come di fatto imponevano prassi e circostanze, si era servito dei canali di comunicazione mediata di cui poteva disporre:  "Pregai allora alcuni prelati della chiesa romana e gli eminentissimi cardinali Antonelli Segretario di Stato e Patrizi Vicario di Sua Santità affinché chiamassero l'attenzione del sovrano Pontefice sopra le escavazioni sotterranee, che tanto bene promettevano" (La Roma sotterranea cristiana, i, Roma

1864, pp. 72-73).

Papa Mastai Ferretti valutò questa fase sperimentale come un esame positivamente superato, anche perché aveva

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potuto osservare direttamente le straordinarie evidenze che stavano emergendo negli scavi delle catacombe di Domitilla e di Callisto - come riportato con dovizia di particolari in un cronaca sul "Giornale di Roma" del 5 giugno 1852 - e nel contempo prendere atto sul campo delle non comuni capacità che caratterizzavano la già matura personalità scientifica di de Rossi il quale fin dall'inizio si andò configurando come anima e mente della Commissione di cui fu ininterrottamente Segretario dal 1874 fino alla morte (1894). Tutti o quasi i risultati delle indagini nelle catacombe passarono attraverso la sua penna, come si può leggere nei numerosissimi articoli scritti per il "Bullettino di archeologia cristiana" - da lui fondato nel 1864 - nonché nei tre monumentali volumi de La Roma sotterranea, la prima sintesi scientifica sul "fenomeno catacomba" dalle origini al loro definitivo abbandono (VIII-IX secolo). La collaborazione tra la sensibilità e la preveggenza di Pio IX e la non comune statura scientifica di de Rossi - "genio italico" lo definì un grandissimo suo contemporaneo come Theodore Mommsen - costituì una svolta storica non solo per la ricerca archeologica in senso stretto ma anche, e soprattutto, per l'evoluzione del concetto stesso di catacomba:  non più o non più soltanto il luogo che aveva accolto corpi di martiri, ma un monumento complesso che nella molteplicità dei suoi elementi documentari si proponeva agli occhi dello storico come un archivio originale - non mediato né selettivo - della vita della Chiesa antica. La nascita della Commissione pose definitivamente fine ad una pratica che, avviatasi all'indomani delle prime grandi scoperte di Antonio Bosio (1575-1629), fin dalle sue prime manifestazioni

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per il vigore e la determinazione con cui venne perseguita e per i protagonisti che direttamente o indirettamente ne furono partecipi poteva far presagire un percorso senza ritorno:  il riferimento è al fenomeno della "estrazione dei corpi santi", una sinistra denominazione che, giudicata con il senno del poi, esprime eloquentemente il concetto di una operazione traumatica subita dalle catacombe e dalle povere salme in esse conservate. L'insensibilità e la non adeguata preparazione degli archeologi dei secoli XVII e XVIII congiunta alla crescente polemica contro la Riforma, avevano fatto emergere la convinzione che nei cimiteri sotterranei cristiani si conservassero migliaia e migliaia di corpi santi. Nessuna attenzione fu rivolta ad un dato storico ineccepibile che quantomeno avrebbe dovuto consigliare maggiore cautela e rispetto. Infatti, l'abbandono definitivo delle catacombe avviatosi nel corso dei secoli VIII e IX per l'insicurezza sempre crescente delle aree suburbicarie, aveva già indotto alcuni pontefici a procedere alla traslazione delle reliquie venerate:  i martiri lasciarono le sedi originarie - cymeteria seu cryptae - per essere accolti nelle chiese urbane. A sigillo reale e simbolico di questo passaggio epocale può essere assunta l'iscrizione di Papa Pasquale I (817-824) esposta nella chiesa di Santa Prassede, che certifica la traslazione di 2300 corpi santi:  temporibus s(an)cti ac ter beatissimi et apostolici d(omini) n(ostri) Paschalis | papae, infraducta sunt veneranda s(an)c(t)orum cor|pora in hanc s(an)c(t)am et venerabilem basilicam | beatae Chr(isti) virginis Praxedis - segue per quarantaquatto righe l'elenco dei resti mortali traslati (Monumenta epigraphica Christiana, i, In Civitate Vaticana 1943, tavola XXIX, 1).

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La convinzione che tutte le catacombe, quasi di necessità, conservassero una turba piorum - come avrebbe detto Damaso - rimase inalterata e anzi si andò rafforzando ed estendendo:  bisognava soltanto ricercare criteri identificativi almeno formalmente plausibili. Furono individuati già all'inizio del XVII nei cristogrammi, nelle sagittae, nelle palmulae spesso tracciate sulle iscrizioni e, soprattutto, nella presenza dei cosiddetti "vasi di sangue", in realtà null'altro che vasetti o fiale contenenti essenze odorose. L'elaborazione di questo armamentario e l'uso concreto che se ne fece indica con il massimo dell'evidenza "in quale ambiente, con quali idee e con che pratica si procedeva a quelle ricognizioni" (G. B. de Rossi, Sulla questione del vaso di sangue. Memoria inedita con introduzione storica e Appendici di documenti inediti per cura del padre Antonio Ferrua S. I., Città del Vaticano 1944, p. XV). In questo orizzonte, come deriva estrema si segnala il singolare trattatello (De coemeteriis ad Eminent.m et R.m. D. Card.m Ginettum S. D. N. Urbani viii Vic.m Hieronymi Bruni Commentarius) scritto nel 1632 dall'oratoriano Girolamo Bruni su espressa committenza del cardinale Marzio Ginetti di Velletri (1590-1670):  secondo i calcoli del Bruni il numero complessivo dei martiri

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deposti a Roma raggiungeva l'incredibile cifra di 64.000.000, "resultabit num. 64.000.000 idest sex centies quadragies centina milia, quod vulgo dicimus sexaginta quattuor milione" da questa moltitudine - aggiungeva con serietà - tolto il numero dei confessori, "adhuc remanebit martyrum poene infinitus exercitus". I criteri per il riconoscimento dei corpi santi, seppure attenuati negli aspetti più deteriori, trovarono ratifica e ufficiale legittimazione nel celebre decreto del 10 aprile 1668 (Sacra Congregatio indulgentiis sacrisque reliquis praeposita) nel quale si stabiliva che la palma e il vaso con il sangue dei martiri "pro signis certissimis habenda esse" (Decreta authentica Sacrae Congretationis Indulgentiis sacrisque reliquiis pareposita, edita iussu et auctoritate sanctissimi D. N. Leonis PP. XIII, Ratisbonae 1883). Il vaso di sangue, fino al tempo del de Rossi e della costituzione della Commissione di Archeologia Sacra, fu considerato come primario e indiscutibile criterio identificativo e a nulla erano valsi i dubbi sollevati da studiosi di alto livello come il padre bollandista Daniel Papenbroch (1628-1714), Thierry Ruinart (editore degli Acta martyrum sincera, Parigi 1689), Jean Mabillon (1632-1707) nonché il grande Louis-Sébastien Lenain de Tillemont che con il suo giudizio anticipò alcune delle acquisizioni cui poi pervenne de Rossi, rilevando che la realtà storica - la vraie marque - di un martire, in termini monumentali, può trovare autorevole conferma soprattutto attraverso la testimonianza delle antiche iscrizioni (Mémoires pour servir à l'histoire écclesiastique, V, 1698, art. II):  queste autorevoli cautele, alle quali non fu riservato ascolto alcuno, furono anzi

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stigmatizzate come malevole e sospette. Con queste premesse non era evidentemente difficile trovare reliquie di martiri e farne circolare nell'ecumene cristiano una quantità innumerevole. La altrimenti ignota Aurelia Theodosia nati(one) Ambiana - cioè originaria della zona dell'attuale Amiens - ricordata in un'iscrizione - non anteriore al IV secolo avanzato - trovata il primo aprile (sic) 1842 nel cimitero di Sant'Ermete (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, X, 27032), fu elevata alla dignità del martirio:  i cittadini di Amiens ne accolsero trionfalmente le reliquie e la relativa iscrizione, che furono deposte in una sontuosa cappella della cattedrale. Allo stesso modo una sepoltura ancora intatta ritrovata nel maggio del 1802 nel cimitero di Priscilla fece nascere il culto di una santa Filomena:  i segni (frecce e palme) tracciati sui margini dell'iscrizione che copriva la sepoltura (ibidem, VIII, 23243), insieme a un vaso di sangue rinvenuto all'interno della tomba, erano "indicatori" più che probanti per ampliare il martirologio:  reliquie e iscrizione furono recapitate in gradito omaggio alla chiesa di Mugnano del Cardinale a Nola. In questa atmosfera quasi naturalmente si sviluppò un'ulteriore deriva:  quella della creazione ex novo di iscrizioni, funzionali a incrementare la schiera - già foltissima - degli eroi della fede. La palma di campione in questa attività va certo assegnata all'abate Giacomo Crescenzi che nel corso della metà del XVII secolo, produsse una serie di iscrizioni false tanto ingenue e banali da apparire ridicole:  quelle ad esempio - anacronisticamente scritte in latino - che avrebbero testimoniato la dignità del martirio per i papi Felice i (269-274) e Gaio (283-296) (ibidem, I, supplemento, 1915, editore Gatti, p. 3), il cui epitaffio autentico, redatto in

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greco, fu peraltro ritrovato da de Rossi intorno al 1870 nel suo originario contesto monumentale, il cimitero di Callisto (ibidem, IV, 10584). Al Crescenzi, tra l'altro, era anche sfuggito che nella seconda metà del terzo secolo la lingua ufficiale della Chiesa di Roma era ancora il greco. La gestione materiale di tutte le operazioni connesse alla "estrazione dei corpi santi", dopo un primo periodo di sostanziale assenza di regole definite, dal 1737 al 1850 fu affidata al custode della lipsanoteca del Vicariato e collateralmente (ma con minore incidenza operativa) al sagrista pontificio. I due uffici agivano di fatto in concorrenza, disponendo ciascuno di una propria squadra di "cavatori":  "Il lavoro consisteva essenzialmente nella ricerca di corpi santi(...) che poi venivano distribuiti in tutto il mondo come oggetti di culto. Se ne trovavano tanti e se ne distribuivano ancor di più, perché grande era la fame di siffatte reliquie e c'era sempre modo di compensare bene la "domanda"" (Antonio Ferrua, I primordi della Commissione di Archeologia Sacra, in "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 91, 1968, p. 252). Al custode della lipsanoteca e al sagrista pontificio può almeno essere riconosciuto il merito della redazione dei verbali - che servivano come base per le autentiche - in cui venivano registrati luogo e data delle "estrazioni" nonché i testi delle iscrizioni:  questi dati (Acta custodiae sanctorum martyrum ab a. 1737 ad a. 1850, exstant in Lipsanotheca card. Vicarii Urbis; Regestum Sacrarii pontificii ab a. 1780 ad a. 1814) in mancanza di meglio si sono infatti rivelati un importante sussidio documentario per gli editori delle Inscriptiones christianae urbis Romae. Questa collettiva infatuazione, se fosse rimasta nella sfera della teoria e del libero confronto, non avrebbe provocato gran danno

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se non quello della memoria storica di una sfrenata e in fondo irrispettosa deriva devozionale. Ma nella realtà si rivelò foriera di gravi e irreversibili alterazioni per le catacombe e naturalmente per la stessa conoscenza storica del culto dei martiri. Era venuta meno anche la tradizione secolare - profondamente radicata nella cultura sia pagana sia cristiana - della intangibilità della sepoltura, recepita nella teoria e nella prassi legislativa come res sacra:  un principio che era stato "religiosamente" osservato da Costantino e Damaso, come dire dai fondatori della ricognizione e della monumentalizzazione delle tombe dei martiri. Di fronte alla irreversibilità dei danni prodotti dai cercatori di corpi santi de Rossi non seppe trattenere una sdegnata reazione:  "Non trovo parole bastanti a lamentare tanta negligenza, e la jattura inestimabile di monumenti, di memorie e di osservazioni, che a veruno mai non sarà dato di compensare. Imperocché in que primi lavori di sterramento le vie sotterranee coi loro sepolcri cadevano vergini e intattissime sotto le mani devastatrici degli escavatori(...) Io confesso, che mi freme l'animo al pensare come la cripta di Damaso, quella di Balbina, la cripta del martire Ippolito sono state all'età denostri avi rinvenute, frugate dai fossori e forse irreparabilmente devastate; e che un Gaetano Marini lo seppe e non stimò doverne cercare pur una superficiale notizia. In tanto oblio erano caduti la grande impresa del Bosio e i suoi dotti insegnamenti" (La Roma sotterranea i, pp. 49, 61). Con la creazione della Commissione di Archeologia Sacra iniziava un'epoca nuova che, in virtù dell'opera di de Rossi e dei suoi successori, poteva ormai agire come un'istituzione specificamente deputata alla tutela, alla conservazione e alla

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indagine archeologica nelle catacombe. Questo profondo mutamento di rotta fu lucidamente percepito da Pio XI, quando nel motu proprio dell'11 dicembre 1925, dopo aver premesso che "nei primi mesi del Nostro Pontificato ricorrevano il settantesimo anniversario della Istituzione della Commissione ed il centesimo della nascita del de Rossi, vero innovatore della scienza archeologica cristiana" (p. 2), attribuì alla Commissione il significativo titolo di "pontificia" dotandola di un nuovo regolamento che ne fissava in termini più definiti competenze e funzioni. L'intervento di Pio XI precede di quattro anni un ulteriore mutamento, questa volta relativo allo statuto del monumento-catacomba nei riguardi dei rapporti tra la Santa Sede e l'Italia:  come qualsiasi altro monumento esistenti nel sottosuolo del territorio nazionale, anche le catacombe venivano rivendicate al patrimonio archeologico dello Stato, ma nondimeno venivano concesse in "disponibilità" alla Santa Sede che si impegnava a curarne conservazione e tutela. È quanto definito nell'articolo 33 del concordato tra la Santa Sede e l'Italia l'11 febbraio del 1929 (legge n. 810 del 27 maggio 1929), poi ripreso e parzialmente modificato nell'articolo 12 comma bis delle Inter Sanctam Sedem et Italiam Conventiones initae diebus 18 februarii et 15 Novembris 1984 ("Acta Apostolicae Sedis" 87, 1985, p. 530) che reca testualmente:  "La Santa Sede conserva la disponibilità delle catacombe cristiane esistenti nel suolo di Roma e nelle altri parti del territorio italiano con l'onere conseguente della custodia, della manutenzione e della conservazione, rinunziando alla disponibilità delle altre catacombe. Con l'osservanza delle leggi dello Stato e fatti salvi gli eventuali diritti di terzi, la Santa può

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procedere agli scavi occorrenti e al trasferimento delle sacre reliquie". L'elemento nuovo, rispetto all'articolo 33 del concordato del 1929, è nella definizione di "catacombe cristiane" attribuita ai monumenti dati in disponibilità alla Santa Sede; ciò evidentemente ha comportato l'espunzione dalla "disponibilità" delle tre catacombe ebraiche della via Appia e di Villa Torlonia che, di conseguenza, a partire dal 1984 rientrano nella tutela e nelle competenze della Soprintendenza ai beni archeologici di Roma. In ragione di queste premesse, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra opera con il ruolo e tutte le prerogative di un organo di tutela statale e, in questa direzione, osserva le relative disposizioni di legge, sia nell'ambito della indagine archeologica sia, soprattutto, in relazione a tutti quegli interventi, spesso molto complessi nella progettazione e nella esecuzione, relativi alle operazioni di conservazione, di consolidamento, di restauro. Il filo conduttore, istituzionale e culturale, che unisce il motu proprio del 1924 al concordato del 1929 e alla sua revisione del 1984, aveva posto tutte le premesse per l'avvio di una fase di forte rilancio, nel corso del quale la Commissione viene progressivamente proponendosi come soggetto dialogante con il mondo della ricerca archeologica e con le esigenze che venivano sempre più maturando dalla progressiva richiesta di fruizione da parte di un pubblico sempre più vasto. I decenni che intercorrono tra gli anni Venti e gli anni Novanta possono senz'altro definirsi come la stagione d'oro nella storia della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, non inferiore a quella delle origini dominata dalla grande personalità di

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Giovanni Battista de Rossi. Chiunque oggi può prendere atto, dalla diretta osservazione dei contesti monumentali e dalle pubblicazioni specialistiche e divulgative, dell'enorme rilevanza dei risultati acquisiti nella tutela e conservazione e, soprattutto, nell'indagine archeologica. Tra i moltissimi risultati possono ricordarsi le scoperte di complessi catacombali prima del tutto ignoti, e dunque miracolosamente sfuggiti alla rapace attività dei cercatori dei corpi santi:  le catacombe di Panfilo (sulla Salaria Vetus), Novaziano (via Tiburtina), Calepodio sulla via Aurelia con la scoperta del luogo di deposizione di Papa Callisto, Aproniano e santi Gordiano ed Epimaco sulla via Latina, Anonima di via Anapo - la prima delle catacombe venuta alla luce a Roma il 31 maggio 1578, di cui poi si smarrì l'ubicazione - e ancora nuove regioni cimiteriali di complessi in parti già noti come quelle del cubicolo di Leone nella catacomba di Commodilla, delle "Agapi nuove" nel cimitero dei santi Marcellino e Pietro - importantissima anche per la sua cronologia proto costantiniana - della regio IV nel coemeterium Maius, dell'area di sant'Eutichio nel cimitero di san Sebastiano che conferma clamorosamente con dati monumentali ed epigrafici quanto fino ad allora documentato solo dal damasiano elogium Eutychi. Di importanza epocale rimane la scoperta - peraltro del tutto casuale - della catacomba anonima della via Latina:  un piccolo insediamento funerario che, con le sue oltre 150 pitture ad affresco, oltre a costituire un caposaldo nella storia della pittura tardoromana, documenta uno dei tratti culturali tipici della tarda antichità, quello della dialettica tra cultura antica e cristianesimo, come rappresentato dalla compresenza in un medesimo contesto monumentale di soggetti biblici e della mitologia classica.

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In tutti questi complessi sono stati innumerevoli gli interventi di conservazione, consolidamento e restauro eseguiti sia sulla plastica funeraria - sarcofagi e elementi architettonici - come per i circa mille esemplari del Museo di Pretestato, sia sulle testimonianze costituzionalmente più fragili come le pitture ad affresco che, come nel caso dei 150 esemplari della catacomba della via Latina, comportò un impegno pluriennale di altissimo impegno, con esiti di cui ognuno può oggi prendere atto. A monte di questi risultati vi era anche il valore aggiunto - fin dal tempo di Pio IX - costituito dalla presenza nell'ambito stesso della Commissione, appunto di una "commissione" - non è una tautologia - cioè di un insieme di specialisti specifici nel campo dell'archeologia, della topografia, della storia dell'arte, che agivano in qualità di esperti e di consultori e collaboravano con il segretario, il direttore tecnico e gli ispettori. Vi era poi un altro aspetto che si andò affermando soprattutto a partire dagli anni Sessanta e che contribuì non poco, particolarmente nell'ambito delle tecniche e delle metodologie, alla crescita qualitativa dei progetti di indagine archeologica e della loro realizzazione:  la collaborazione strategica con istituzioni culturali e università italiane e straniere che, solo per ricordare gli interventi più rilevanti, operarono nel complesso dei santi Marcellino e Pietro sulla Labicana - équipe francese - di Sant'Agnese sulla Nomentana - équipe tedesca - nell'area di Papa Cornelio e di Gaio ed Eusebio nella catacomba di Callisto - équipe belga - e, nelle catacombe fuori di Roma, a Massa Martana (Università di Perugia), Cava d'Ossuna (Università di Palermo), Castelvecchio Subequo (Università di Chieti), Ponte della Lama (Università di Bari). Ma la collaborazione più assidua

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e continuativa nel tempo si instaurò con la più giovane istituzione "sorella" - fondata nel 1924 da Pio XI - del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, cioè con la scuola di specializzazione che preparava e formava i futuri addetti ai lavori.

Non è difficile intuire che queste molteplici forme di progetti condivisi, tra gli altri risultati, ebbero come ulteriore valore aggiunto quello di contribuire alla formazione di almeno due generazioni di specialisti in archeologia, epigrafica e antichità cristiane:  non a caso sono numerosi i titolari di cattedre universitarie in Italia e in Europa che hanno maturato la loro professionalità anche con la partecipazione ai cantieri di scavo nelle catacombe. Allo stato attuale, soltanto a

Roma, la Santa Sede conserva la disponibilità, e quindi la custodia e la cura, di 67 catacombe distribuite lungo le antiche vie consolari che si dipartivano dalla città:  sei sulla via Aurelia, due sulla Portuense, cinque sulla Ostiense, quattro sull'Ardeatina, quattordici sull'Appia, quattro sulla Latina, cinque sulla Labicana, sei sulla Tiburtina, cinque sulla Nomentana, cinque sulla Salaria nuova, tre sulla Salaria vecchia, una sulla Flaminia. L'estensione lineare complessiva delle gallerie di questi

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insediamenti sotterranei supera i 150 chilometri:  una città sepolta che ha finora restituito oltre trentamila iscrizioni latine e greche, 400 contesti pittorici ad affresco, oltre 10.000 esemplari di scultura funerari nonché circa 50.000 oggetti di corredo:  ma, è ovvio, si tratta di dati provvisori suscettibili di continuo incremento, e per le scoperte occasionali - sempre numerose - e per il prossimo rilancio di una progettualità archeologica strategica. Fuori Roma sono in disponibilità della Pontificia Commissione trentaquattro insediamenti catacombali distribuiti tra Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo, Sicilia, Sardegna. Questo patrimonio - com'è naturale - non è dominio dei soli addetti ai lavori ma, seppure parzialmente - cinque a Roma le catacombe aperte al pubblico - è anche fruibile per il più vasto pubblico dei visitatori che, soltanto a Roma, raggiungono mediamente la non trascurabile cifra di un milione e mezzo all'anno. Un dato che rimanda implicitamente al delicatissimo problema dell'equilibrio tra le due esigenze, ambedue inalienabili, della fruizione e della conservazione:  basti pensare che oltre mezzo milione di persone all'anno percorrono l'Area i di Callisto e la Cripta dei Papi, la più antica delle catacombe romane istituita da Papa Zefirino (199-217) e affidata al futuro successore Callisto. Un flusso di visitatori di queste dimensioni, specialmente per un insediamento sotterraneo, non può essere indolore:  sarebbe ingenuo e forse irresponsabile negarlo. Aprire al pubblico un'area catacombale impone - è ovvio - impianti elettrici fissi, possibilità di ricambio d'aria e via di fuga, sistemi di sicurezza e di allarme, nonché corrimano, transenne, scale artificiali, pedane:  tutti elementi che, insieme alla presenza dei visitatori, concorrono a modificare l'integrità degli assetti

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originari e del sempre instabile livello di conservazione. La Commissione si era già posta nel passato recente questo problema ed aveva iniziato ad elaborare un preliminare progetto di osservazione delle zone più frequentate:  non chiusure indiscriminate, ma turnazioni tra diverse aree cimiteriali strutturalmente idonee alla pubblica fruizione, per consentire - come avviene per i campi di grano - di far "riposare" periodicamente gli ambienti e le strutture più logorate dal passaggio dei visitatori, restituendo loro quel "buio" e quel naturale microclima interno, che rimangono i soli veri antidoti non traumatici contro tutti i fenomeni esterni ed interni che, con diversa incidenza, possono potenzialmente compromettere salvaguardia e conservazione. Questa complessità di problemi, direttamente o indirettamente connessi alla gestione del monumento-catacomba, era già stata intuita e, in qualche caso, implicitamente prefigurata, da Pio XI che nel motu proprio del 1924 (p. 3) sottolineava, senza reticenze, come la rinnovata Pontificia Commissione dovesse autoimporsi una "delicata e piena responsabilità(...) ben più difficile e gravosa rispetto a quella dei primi esploratori" (p. 3).

Celebrato nell'arcidiocesi di Vercelli il decimo meeting del Columban's Day

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San Colombano anima cristiana dell'Europa

In  occasione  dell'xi  meeting  del  Columban's Day, svoltosi quest'anno a Biandrate (Novara), nella parrocchia di San Colombano Abate, monsignor Enrico Masseroni, arcivescovo di Vercelli, durante la solenne concelebrazione eucaristica, ha pronunciato un'omelia, di cui pubblichiamo, qui di seguito, ampi stralci.

Due grandi correnti spirituali monastiche attraversano l'Europa nel vi secolo:  la prima sale verso il nord, verso il continente ed è il monachesimo di fondazione benedettina. Benedetto infatti aveva costruito il grande monastero di Montecassino, dove morì nel 547.

La seconda corrente monastica, nello stesso secolo vi, discende dal nord verso il sud, dall'"isola verde" dell'Irlanda verso il continente. In Irlanda il monachesimo era fiorente e il secolo vi fu il secolo d'oro della vita monastica; la Chiesa era addirittura guidata dai monaci. Anche nel paese nord-europeo i centri di cultura erano i monasteri; e proprio dal monastero di Bangor, sul finire del secolo, partì san Colombano, con dodici compagni,

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per portare il Vangelo sul continente in profonda trasformazione. I due monasteri più famosi fondati da san Colombano furono quello di Luxeuil in Borgogna (Francia) e in Italia il monastero di Bobbio, a sud di Piacenza, in territorio occupato dai Longobardi, di religione ariana, l'eresia che negava la divinità di Cristo. Non è un luogo comune, ma una verità storica, il riconoscere che non si può capire l'Europa ignorando la sua anima cristiana, divenuta cultura dei popoli del vecchio continente attraverso la presenza ramificata del monachesimo, che dal secolo vi accoglierà l'impronta di Benedetto. Anche i monasteri fondati da san Colombano e organizzati da una regola breve e severa, adottarono in seguito la regola benedettina, più mite e più armonica tra valori dell'evangelo e valori umani; scandita dal noto binomio vissuto nel quotidiano:  Ora et labora prega e lavora. San Benedetto e san Colombano sono stelle di prima grandezza nel firmamento del vi secolo, in cui sulle ceneri fumanti dell'impero romano nascono in Europa i nuovi regni romano-barbarici. Allora vale la pena riproporci la domanda:  dove sta l'attualità di san Colombano. Che cosa potrebbe dire a noi oggi? San Colombano fu uno straordinario conoscitore della parola di Dio, della Bibbia. Fondate testimonianze storiche ci ricordano che Colombano aveva una personalità forte, severa con se stesso e con gli altri; aveva una grande cultura:  conosceva gli antichi autori della letteratura latina come Virgilio, Orazio, Ovidio; ma soprattutto conosceva a fondo la parola di Dio come strumento di annuncio e di formazione spirituale. I monaci irlandesi svilupparono una grande azione missionaria, che li portò non solo sulle coste occidentali d'Inghilterra, ma su tutta l'Europa cristiana

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bisognosa di evangelizzazione, anche a motivo dell'impreparazione del clero e della superficialità delle conversioni dei nuovi popoli germanici. E c'è infine un terzo messaggio nella testimonianza cristiana di san Colombano:  nell'esperienza dei suoi monaci trova particolare rilievo il pellegrinaggio, la peregrinatio Christi, l'andare lontano dalla propria terra, come forma di rinuncia, come esperienza itinerante e penitenziale (anche per questo, bene ha fatto la comunità parrocchiale di Biandrate a promuovere un pellegrinaggio presso l'urna di san Colombano a Bobbio). Il pellegrino inerme, nella sua immagine medioevale, è riconoscibile per il suo abbigliamento e gode di particolare protezione da parte della Chiesa. Anche Vercelli era una città attraversata dai pellegrini della via francigena. Forse sta qui la più scomoda attualità di san Colombano. Certo nessuno di noi è chiamato a farsi monaco per diventare cristiano. Ma il monaco Colombano ricorda all'uomo smemorato e distratto del terzo millennio che c'è un essenziale da recuperare dentro l'orizzonte della vita:  tutti siamo in pellegrinaggio, la vita è vigilia; e in pellegrinaggio non si porta un bagaglio ingombrante e inutile:  bisogna portare l'essenziale:  che è la vita di Dio, che è la sua grazia, la sua amicizia, la sua presenza nella nostra coscienza sgombra da idolatrie inique e ingannevoli.

Il luogo della beatitudine secondo la più antica iconografia cristiana

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Quel paradiso sembra proprio un giardino

di Fabrizio Bisconti

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L'immaginario iconografico della tarda antichità e cioè del tempo in cui il cristianesimo diventa cultura prevalente e si diffonde per ogni territorio del mondo antico, recupera le sedi beate e amene delineate dalla poesia classica e, specialmente, da quella virgiliana che, nell'Eneide, fa esplicito riferimento ai locos beatos et amoena virecta / fortunatorum nemorum sedisque beatas (VI, 639-640). Da qui proviene una concezione che, dagli aerei e sconfinati spazi dei paesaggi di genere, fa emergere prati, cespugli, fiori, petali, boccioli, ghirlande e festoni, che si snodano nei monumenti funerari, svincolando il concetto del locus amoenus dalla mera convenzione letteraria e sollevandolo a idea utopica ed escatologica, specialmente nelle speculazioni di carattere misteriosofico e orfico e nel pensiero neoplatonico. A tali sostrati si giustappone la concezione giudaica del paràdeisos, inteso come parco recintato, come giardino edenico,

in chiaro riferimento a Genesi, 2, 3; quest'ultimo riguardo non è sostenuto soltanto da alcuni significativi passi dell'apocalittica giudaica (Enoch, 2, 8, 1-7; Apocalisse di Pietro, 15-16; Apocalisse di Paolo, 22), ma anche da altrettanti documenti iconografici ebraici e cristiani, dove comunque la componente veterotestamentaria è prevalente. Si tratta delle scene che

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discendono dalle visioni apocalittiche dove, appunto, la sede edenica è descritta come un profumato giardino interessato da una primavera continua. Così, nella Passio Perpetuae et Felicitatis, una celebre visione disegna il paradiso come uno splendido giardino:  Factum est nobis spatium grande, quod tale fuit quasi viridarium arbores habens rosae et omne genus flores. Altitudo arborum erat in modum cypressi quarum folia cadebant sine cessatione (11, 5-6). È sorprendente come questa visione riecheggi un celebre luogo ovidiano:  Est mihi fecundus dotalibus hortus in agris / aura fovet, liquidae fonte rigatur aquae / hunc meus implevit generosus flore maritus (Fasti, V, 209-211) e anticipi il testo di un'iscrizione giudaica del cimitero tardoantico romano di Monteverde:  Rursum victura reditura ad lumina rursum / nam sperare potest ideo quod surgat in aevom / prossimum quae vera fides dignisque piisque / quae meruit sedem venerandi ruris habere (Corpus Inscriptionum Judaicarum, 476). Ma è un passo tertullianeo dell'Apologeticum, degli esordi del iii secolo, che meglio definisce il concetto di giardino-paradiso, improntato alla visione dei campi Elisi, ma attento alla visione del campo recintato:  Et si paradisum nominamus, locum divinae amoenitatis recipiendis sanctorum spiritus destinatum, maceria quodam ignae illius zonae a notitia orbis communis segregatum, Elysii campi fidem occupaverunt (47, 13-14). Una visione, quest'ultima, che avrà lunga fortuna sino alla poetica del più tardo iv secolo, come dimostrano alcuni suggestivi versi di Prudenzio:  Felices animae prata per herbida / concentu parili suave sonantibus / hymnorum modulis dulce canunt melos / calcant et pedibus lilia candidis (Cathemerinon, V, 121-124). Il pensiero patristico fluisce naturalmente nell'arte funeraria, a

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cominciare dai sarcofagi del iii secolo, specialmente di produzione romana, dove si ricreano delle vere e proprie situazioni bucoliche anticipando l'immagine cristologica del buon pastore. Il tema del giardino è svolto nelle pareti delle catacombe romane, napoletane e siciliane in mille modi:  vuoi con rappresentazioni megalografiche, vuoi con accenni più discreti che alludono all'aldilà con petali, boccioli, ghirlande sparse un po' ovunque. Tali decorazioni richiamano alcune ritualità tanto radicate nel costume romano da sopravvivere anche con l'avvento del cristianesimo, come quella di cospargere il sepolcro di fiori, di cui ci ha lasciato una preziosa testimonianza san Girolamo:  Ceteri mariti super tumulum coniugum spargunt violas, rosas, lilia floresque purpureus (Epistolae, 66, 5), un'usanza che diviene più concreta quando si dotano le tombe di veri e propri giardini, come per realizzare e anticipare, con questi horti terreni, il paradiso. Ma il paradiso, per i primi cristiani, non si identifica sempre e sistematicamente con un tranquillo habitat bucolico. Può anche essere ambientato in una sede urbana, o anche in una semplice abitazione, una domus, secondo un topos letterario che da Ambrogio (De bono mortis, 10, 45) giunge a Gregorio Magno (Dialogi, IV, 36). Per quanto riguarda la vera e propria sede urbana, in verità, si assiste, nei primi secoli, alla diffusione di una polemica anticittadina, che tocca il suo apex

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estremo nell'invettiva di Arnobio che, nell'Adversus nationes, condanna Roma come humani generis perniciem (VII, 51). Ma quell'assunto e quella constatazione possono essere meglio considerati seguendo la dinamica di un atteggiamento emozionale, quasi istintivo, che viene da lontano e che conosce molti paradossi, inversioni di tendenza e opposte visioni, a cominciare dalla giustapposizione tra barbaritas e disabitato, che sfocia nella visione bipolare, che indovina nella città le nozioni di civitas, di romanità e cristianesimo e nella campagna un insidioso territorio da cristianizzare, dove ancora pullulano le superstizioni pagane. Visione paradossalmente opposta al tòpos georgico di Virgilio che, com'è noto, affida qualitates solo positive alla rusticitas e negative alla urbanitas, disegnando un'antinomia, che trova l'ultima soluzione nel pensiero di Girolamo, che alla città oppone il deserto, alla societas la solitudo, specialmente nella celebre lettera a Marcella, in cui suggerisce la fuga da Roma, dai suoi tumulti, dalle arene, dai circhi, dai teatri, per placarsi in una campagna silenziosa (Epistolae, 43, 2); la stessa campagna descritta in una lettera altrettanto famosa, a Paolino, al quale suggerisce di cercare Cristo in un rustico appartato, piccolo, silenzioso (Epistolae, 58, 4-5). Posizioni estreme, da considerare con molte cautele, specialmente se pensiamo al fatto che la società del tempo è fondata sulla città che, anzi, rappresenta la cellula elementare della trama politico-economica della tarda antichità. Va solo precisato che le città in questione non sono più le grandi metropoli ellenistiche, ma i nuovi centri di potere delle province, e tra gli uomini delle province sembra nascere o rinascere il

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tormentato rapporto tra i due modi di vita, opposti ma complementari, che vedono i rappresentanti dell'aristocrazia muoversi tra la città, intesa come sede del cursus e la campagna, vista come sede dell'otium spirituale. L'iconografia cristiana più antica esprime questa concezione paradisiaca declinata in maniera urbana, prima in maniera rara e incerta, come nella megalografia dell'ipogeo degli Aureli, dove un defunto, forse neppure convintamente cristiano, entra solennemente in una città vista dall'alto, popolata di anime beate; e poi - alla fine del secolo IV - in modo più esplicito, nei sarcofagi "a porte di città", dove si dispiegano aulici collegi apostolici e altre selezionate scene bibliche contro un connettivo di fondo con porte urbiche e mura turrite, così come succede nel celebre sarcofago milanese detto di sant'Ambrogio o di Stilicone, che annuncia, proprio con il simbolico sfondo urbano, le situazioni figurative delle absidi romane, prima tra tutte quella celebre di Santa Pudenziana all'Esquilino. Ormai la città eterna, intesa come sede oltremondana, si identifica con la Gerusalemme celeste che, a sua volta, allude all'Ecclesia e questa serie di passaggi viene da lontano, dal pensiero paolino:  "Così - ricorda l'apostolo delle genti in Efesini, 2, 20 - voi non siete né stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo". Ma torniamo al maturo iv secolo e agli esordi del seguente, quando vengono concepite le prime città apocalittiche, che si ispirano a quella Gerusalemme eccezionale descritta nel piccolo libro di Giovanni:  "Il suo splendore era simile a pietra preziosa come pietra di diaspro cristallino. Aveva un muro di cinta grande

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e alto con dodici porte" (Apocalisse, 21, 11-12). Mentre queste immagini entrano nei programmi decorativi delle più sontuose arche marmoree e dei più preziosi apparati musivi degli edifici di culto, l'idea del De civitate Dei di Agostino si affaccia, già negli anni Novanta del secolo iv, nel De vera religione, dove si delinea l'antitesi in seno al genere umano (27, 50), ripresa e approfondita, di lì a pochi anni nell'Enerrationes in psalmos (9) e nel De Cathechizandis rudibus (19, 31) tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste. "Esiste una città di Dio - conclude il vescovo di Ippona - di cui ci fa ardentemente desiderare d'essere cittadini quell'amore che ci ha ispirato il suo fondatore" (De civitate Dei 11, 1) ed esiste un mediatore, il Cristo, come meta del cammino attraverso cui camminare. Quel Cristo che, nell'arte del tempo, è fulcro e calamita figurativa dell'ambientazione urbana:  sul fondo  della civitas Dei tutto scorre inesorabilmente, tutto si svolge incessantemente, scorgendo nitidamente il traguardo  e la sede ultima dell'umanità. Disattesa dagli studiosi e certamente più rara al momento delle origini è l'iconografia che colloca il paradiso nel firmamento. Eppure, se sfogliamo i repertori epigrafici, non sarà difficile individuare trasparenti riferimenti all'aldilà inteso come Caelestia regna, regna beata poli, sidera onnipotentis aula, lux, lumen, astra. A queste testimonianze rispondono due sole manifestazioni pittoriche catacombali, che collocano altrettanti defunti in un ingenuo cielo costellato di stelle, rispettivamente nei cimiteri di Sant'Ermete e dei Santi Pietro e Marcellino. Siamo nel pieno iv secolo e può sembrare strano che durante i secoli precedenti mai il paradiso venga rappresentato come firmamento. Una ragione può risiedere - secondo quanto rilevò André Grabar - nella

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difficoltà della rappresentazione grafica, nel senso che la sede celeste, nell'immaginario cristiano, è un cielo virtuale e dunque invisibile. Eppure, ogni volta lo si voglia rappresentare, si deve ricorrere al cielo fisico, alla volta celeste, al firmamento reale, a quello che sovrasta il mondo. Così il "cielo dell'illuminazione" appare nelle volte dei battisteri, ma, come si diceva, è assai più raro nell'arte funeraria se, oltre ai due affreschi romani già menzionati, possiamo contare solo alcune lastre incise, specialmente d'area alto adriatica, che riproducono i defunti oranti tra due o più stelle. L'innesto della chiave apocalittica nell'iconografia del firmamento, così come si propone negli edifici battesimali, deve aver scoraggiato gli artifices, che volevano semplicemente collocare in paradiso i defunti ordinari. La volta celeste costellata dagli astri luminosi sembra più adatta per tradurre in figura la luce della lunga veglia pasquale, che si consumava in attesa del rito solenne del battesimo. Il paradiso illuminato dagli astri si addice più naturalmente alla sede ultima dei martiri, come dimostra un ingenuo vetro dorato che situa la martire Agnese orante tra due stelle, che indicano appunto il paradiso; due rotoli, che alludono alla legge, attraverso cui si accede all'aldilà; due colonne, su cui si posano altrettante colombe, che ci parlano della ianua coeli. Molti, dunque, sono gli espedienti iconografici paleocristiani per situare in un habitat paradisiaco i defunti, i martiri, il Cristo e talora vengono usati mezzi semplici e simbolici, come quando i beati assumono il largo gesto dell'expansis manibus, che allude a una condizione, nel senso che, con questo atteggiamento, non si vuole esprimere una supplica, ma quella preghiera continua, che

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infiamma la vita del cristiano durante tutto il suo itinerario terreno, ma anche nell'oltremondano. E spesso il defunto orante è rappresentato dinnanzi a grandi tende e cortine (parapetàsmata), o a porte dischiuse, che lasciano intravedere un viridarium, un giardino nascosto e riservato ai beati, o a piccoli edifici domestici, quasi per ricordare il famoso luogo giovanneo "nella casa del Padre mio vi sono molte dimore" (14, 2). In tutte queste rappresentazioni si respira un'atmosfera serena, sostanziata dalle immagini care alla sfera religiosa pagana, ma sovraconnotata dal pensiero cristiano che, con tanta semplicità, ricostruisce un paradiso verde e ridente, dove ogni forma di nostalgica memoria della vita e della condizione terrena dei defunti si dissolve e si elide dinnanzi alla nuova eccezionale situazione. Alla fine del IV secolo l'epitaffio d'Evodia, sepolta nel cimitero di Sant'Agnese, riassume ed esprime, con formule e clausole desunte dal patrimonio virgiliano, la levità, la quies, la tranquillitas, la beatitudo del nuovo mondo:  Ne tristes lacrimas ne pectora tundite vestra / o pater et mater, nam regna caelestia tango / non tristis Erebus non pallida mortis imago / sed requies secura tenet ludoque choreas / inter felices animas et amoena piorum /prata Erodia decorant (Inscriptiones Latinae Christianae Urbis Romae, VII, 21015).

  Restaurato il cubicolo dei cinque santi nelle catacombe di

San Callisto

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Tre donne e due uomini pregano sottoterra da diciassette secoli

di Barbara Mazzei Nei mesi scorsi si è concluso un delicato intervento di restauro conservativo promosso dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nel cubicolo dei cinque santi nella catacomba di San Callisto in Roma volto al recupero e alla salvaguardia dei frammenti di affresco che costituiscono la splendida decorazione di questa camera sepolcrale. Il partito decorativo interessa esclusivamente la parete di fondo dell'ambiente dove cinque personaggi oranti, tre femminili e due maschili, sono immersi in un rigoglioso giardino, ricco di fiori multicolori e piante con frutti variegati, nel quale lietamente volano uccelli di varie specie, mentre due pavoni affiancano l'imboccatura dell'arcosolio e zampillanti acque sgorgano dal

centro di grandi cantari a cui si dissetano alcuni animali. L'ameno ambiente paradisiaco così rappresentato era minacciato da un progressivo fenomeno di disgregamento

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degli intonaci causato da una costante attività di percolamento dell'acqua di condensa che si concentrava sulla parete affrescata. Inoltre, deturpanti e poco idonee stuccature in cemento scuro, eseguite nel passato per fissare i lacerti di intonaco, contribuivano a rendere fastidiosamente discontinua la percezione della scena dipinta. Una delicata pulitura della superficie pittorica, un'accurata e attenta asportazione dei residui carbonatici e delle efflorescenze saline e microbiologiche, eseguita sia con mezzi meccanici che chimici, una capillare rimozione delle stuccature cementizie, resa possibile nelle zone ove si sovrapponeva alla pellicola pittorica dall'impiego di strumenti di precisione, e infine una ragionata reintegrazione delle lacune prodottesi per l'erosione dello strato superficiale, hanno permesso di riacquisire e riproporre alla godibilità dei visitatori una delle pagine più eloquenti e brillanti prodotte dall'immaginario paleocristiano relativamente alla concezione della vita oltremondana. L'intervento di restauro è stato anche l'occasione per osservare a distanza ravvicinata questa preziosa testimonianza artistica. Dal punto di vista tecnico si sono potute apprezzare alcune peculiarità esecutive, così rare nel repertorio della pittura catacombale. Per la decorazione parietale è stata impiegata una tecnica mista, tra affresco e pittura alla calce, con colori particolarmente liquidi e trasparenti per le ampie campiture, ottenendo un effetto di leggerezza e freschezza, e colori piuttosto densi e pastosi per la realizzazione dei particolari decorativi. Nella gamma cromatica, piuttosto ristretta e limitata ai consueti Cinabro (un rosso), Vermiglione (una sorta di arancio), terra verde e nero di carbone, si nota la presenza della cosiddetta "fritta di Alessandria", un

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pregiato e costoso pigmento azzurro; la cromia si amplia ulteriormente proprio grazie alla stesura sovrapposta dei vari pigmenti e all'impiego delle differenti tecniche esecutive. Altra peculiarità riguarda la tecnica adottata per l'organizzazione preliminare dello spazio in cui eseguire la composizione:  oltre alla usuale presenza di incisioni, in questo caso limitate alla funzione di linee guida delle iscrizioni onomastiche associate ai personaggi, è stato possibile rilevare l'insolito impiego di un reticolato ottenuto a spolvero funzionale all'armonica disposizione dei vari elementi vegetali all'interno dell'ampio spazio bianco. Non è possibile sorvolare sulla resa dei volti, molto accurata e particolareggiata; quello rimasto maggiormente apprezzabile è il viso di Dionisia. Ben marcate appaiono le linee costruttive degli occhi, del naso e della bocca, mentre la volumetria delle guance e del mento è ottenuta grazie a sfumate ombreggiature che, unitamente al lieve dischiudersi delle labbra e allo sguardo leggermente rivolto verso l'alto, contribuiscono ad assegnare al volto una velata espressione melanconicamente sognante. Particolarmente curata risulta anche la resa dell'elaborata capigliatura, composta da due bande laterali, profondamente e simmetricamente ondulate, sormontate da una treccia molto alta che corona il capo. Le acconciature maschili risultano molto più semplici, corte e composte, con scriminatura laterale e breve frangia, ben aderenti al capo da cui sporgono i lobi delle orecchie.

L'alto livello tecnico-esecutivo, la ricchezza e lussuosità degli abbigliamenti dei personaggi effigiati, la tipologia dell'ambiente, particolarmente ampio, munito di lucernario e con un numero

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limitato di sepolture, la localizzazione in un'area esclusiva e molto ambita della catacomba di San Callisto per la prossimità con la cripta dei Papi, uno dei luoghi più venerati di tutto il cimitero, e in una zona ove furono poste altre sepolture papali tra la fine del iii e l'inizio del iv secolo, sono tutti elementi che aiutano a riconoscere nei personaggi oranti gli appartenenti a una classe piuttosto elevata e abbiente della società romana del tempo.

Rispetto alle più antiche rappresentazioni di defunti diffuse nelle catacombe romane, generalmente più genericamente allusive a una aspettativa verso una vita oltremondana serena, pienamente appagata e permeata da un'intima gioiosità, l'affresco di San Callisto denuncia, invece, una evidente e fortemente sentita esigenza dei committenti di perpetuare la propria memoria ai posteri; tale tendenza, riscontrabile anche in altri monumenti coevi, è stata recentemente interpretata come sintomo per un attaccamento quasi inconsapevole alle tradizioni funerarie precedenti, tanto più sentite e sostenute dagli appartenenti alla classe sociale individuata.

Il Natale nella poesia liturgica di Romano il Melode

Adamo ed Evaalla grotta del nuovo bambino

di Manuel Nin Le tradizioni liturgiche orientali, molto spesso con forme letterarie belle e nello stesso tempo contrastanti, ci propongono la

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contemplazione del mistero della nostra fede. Romano il Melode, teologo e poeta bizantino del vi secolo, nel suo primo kontàkion (poema a uso liturgico) come ritornello ripete le parole "nuovo bambino, il Dio prima dei secoli" che riassumono il mistero celebrato:  il Dio eterno, esistente prima dei secoli, diventa nuovo nel bambino neonato. La tradizione bizantina, celebrando la "nascita secondo la carne del Dio e salvatore nostro Gesù Cristo" accosta, sia nell'iconografia che nell'eucologia, la celebrazione del Natale a quella della Pasqua. L'icona del Natale nel bambino fasciato messo in un sepolcro vuole prefigurare già il sepolcro dove il Signore, di nuovo fasciato, verrà messo il Venerdì Santo per risuscitarne glorioso all'alba di Pasqua. I testi della liturgia con immagini molto profonde e vivaci ci propongono così tutto il mistero della nostra salvezza. Nelle settimane precedenti il Natale, senza un vero e proprio periodo corrispondente all'Avvento delle tradizioni latine, la liturgia bizantina in bellissimi tropari ci ha fatto pregustare tutto il mistero dell'Incarnazione:  l'attesa fiduciosa e la povertà della grotta, prefigurazione della miseria dell'umanità che accoglie il Verbo di Dio; e ancora, tutta la serie di figure e personaggi che si

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affacciano nella vita liturgica di questi giorni:  i profeti Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Daniele e i Tre Fanciulli; Betlemme, quasi personificata e collegata con l'Eden; Isaia che si rallegra, Maria, la Madre di Dio presentata come "agnella", cioè colei che porta in seno Cristo, l'Agnello di Dio; infine, nelle due domeniche che precedono il Natale, i Progenitori di Dio da Adamo fino a Giuseppe, cioè la lunga serie di figure che hanno atteso il Cristo e che ci ricordano il fatto che anche noi siamo parte di una storia e di una umanità che l'accolgono nella veglia fiduciosa, ma anche nel buio, nel dubbio e nel peccato. Nel secondo dei kontàkia Romano il Melode narra la visita di Adamo ed Eva alla grotta del neonato. Il canto di Maria all'orecchio del bambino sveglia Eva dal sonno eterno ed essa persuade Adamo di recarsi nella grotta per capire cosa sia quel canto. Nel dialogo tra Eva e Adamo svegliati ormai dal loro sonno la donna gli annuncia la buona notizia:  "Ascoltami, sono la tua sposa:  io, che sono stata la prima a provocare la caduta dei mortali, oggi mi rialzo. Considera i prodigi, guarda l'ignara di nozze che guarisce la nostra piaga con il frutto del suo parto. Il serpente una volta mi sorprese e si rallegrò, ma al vedere ora la mia discendenza fuggirà strisciando". La nascita verginale di Cristo diventa guarigione, salvezza per il genere umano ferito dal peccato. E le risponde Adamo:  "Riconosco la primavera, o donna, e aspiro le delizie da cui decademmo allora. Scorgo un nuovo, diverso paradiso:  la Vergine che porta in grembo l'albero di vita, lo stesso albero sacro che custodivano i cherubini per impedirci di toccarlo. Ebbene, guardando crescere questo intoccabile albero, ho avvertito, o mia sposa, il soffio vivificante che fa di me,

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polvere e fango immoti, un essere animato. Adesso, rinvigorito dal suo profumo, voglio andare dove cresce il frutto della nostra vita, dalla Piena di grazia". Il risveglio di Adamo è una prefigurazione, in quanto viene collocato nella primavera, cioè nel contesto pasquale in cui sarà definitivamente riportato in paradiso. E questo è anche cambiato, rinnovato:  "Scorgo un nuovo, diverso paradiso", che altro non è se non il grembo della Vergine che porta il nuovo albero della vita. "Sono sopraffatto dall'amore che sento per l'uomo" risponde il Creatore. "Io, o ancella e madre mia, non ti rattristerò. Ti farò conoscere tutto ciò che sto per fare e avrò rispetto per la tua anima, o Maria. Il bambino che ora porti tra le braccia, lo vedrai fra non molto con le mani inchiodate, perché ama la tua stirpe. Colui che tu nutri, altri l'abbevereranno di fiele; colui che tu chiami vita, dovrai tu vederlo appeso alla croce, e di lui piangerai la morte. Ma tu mi stringerai in un abbraccio allorché sarò risuscitato, o Piena di grazia. Tutto questo sopporterò volentieri, e causa di tutto questo è l'amore che ho sempre sentito e sento tuttora per gli uomini, amore di un Dio che non chiede altro che di poter salvare". All'udire queste parole Maria grida:  "O mio grappolo, che gli empi non ti frantumino! Quando sarai cresciuto, o Figlio mio, che io non ti veda immolato!". Ma egli risponde:  "Non piangere Madre, su ciò che non sai:  se tutto questo non sarà compiuto, tutti coloro, a favore dei quali mi implori, periranno, o Piena di grazia". Un Dio il quale "non chiede altro che di poter salvare". Questa è la realtà, l'unica realtà che celebriamo in questi giorni nella nostra fede cristiana:  l'amore di Dio per gli uomini manifestatosi pienamente in Gesù Cristo. E viviamo questa realtà in tutta la

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nostra vita come cristiani. Come cristiani nel condividere - e forse anche nel mettere in contrasto la nostra fede - con un mondo segnato fortemente dall'individualismo, dall'oblio dell'altro, dall'ignoranza degli altri; una fede che dovrà predicare un Dio che è dono gratuito, che perdona, che ama, e perché ama si sacrifica per gli altri e non chiede altro che poter salvare. Lui "nuovo bambino, il Dio prima dei secoli".

Riaperta alla Pinacoteca Vaticana la sala dedicata alla tipica arte figurativa orientale

Le icone come il canto gregoriano

Nella mattinata di giovedì 22 gennaio, dopo oltre cinque anni di restauri, è stata riaperta la Sala delle Icone, diciottesima nel percorso della Pinacoteca Vaticana. Pubblichiamo parte del discorso inaugurale tenuto dal cardinale presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.

di Giovanni Lajolo

L'attenzione della Chiesa di Roma verso le Chiese dell'Oriente è una costante della sua storia, non affievolita dallo scisma del 1054. In essa ben si inserisce, come un segno di particolare attenzione, la collezione di immagini sacre - espressione della teologia, della religiosità e dei

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canoni estetici del cristianesimo greco-bizantino e slavo - che in più riprese, attraverso un lungo arco di tempo, sono entrate a far parte delle raccolte museali vaticane.

Il primo nucleo di trenta Icone venne esposto nel 1762 nel Museo Sacro della Biblioteca Apostolica, regnando Papa Benedetto XIV Lambertini. In seguito altri nuclei collezionistici, databili fra XV e XIX secolo, si aggiunsero al gruppo originario. Oggi la Sala delle Icone, diciottesima della Pinacoteca, ospita centocinquanta pezzi di varia provenienza geografica e culturale: la Grecia postbizantina, i Paesi balcanici, la Russia, l'area veneziana e dalmata, il Vicino Oriente.

Le iconografie ricorrenti sono quelle tipiche dell'area ortodossa: La Dèesis (Cristo intercessore Pantocràtor), la Discesa di Cristo risorto agli Inferi (Anàstasis), il Transito della Vergine (Kòimesis), il Menologio (le immagini dei santi secondo il calendario liturgico), san Nicola e san Giorgio protettori della Russia, la Vergine Maria in tutte le tradizionali varianti dell'iconografia mariana. Uno dei pezzi più vistosi, anche se non dei più antichi, è l'Iconostasi di Cefalonia, realizzata nel 1808.

Questo prezioso insieme di arte e di fede è stato oggetto negli ultimi mesi di un accurato lavoro di restauro, di corretta revisione ambientale, di riordino scientifico e di informazione didattica. Sono state coinvolte le professionalità più diverse: storico artistiche, climatologiche, illuminotecniche, di falegnameria, di arredo e così via. A tutti coloro che a diverso livello hanno

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collaborato per il lungo e meritorio impegno nella ricomposizione di questa sala desidero esprimere ammirazione per il risultato raggiunto e la gratitudine del Governatorato, della Santa Sede e mia personale.

Nell'ambito della Pinacoteca Vaticana questa sala ha, mi sembra, un suo significato culturale e religioso che non dovrebbe sfuggire. Balza infatti subito all'occhio che l'arte delle icone non ha avuto un'evoluzione parallela a quella della pittura nell'arte sacra della Chiesa Latina: un fenomeno che - se mi è concesso il salto in un'altra arte - trova una certa analogia solo nella fissità del canto gregoriano rispetto all'altra musica ecclesiastica.

L'arte dell'icona si è sviluppata a partire dalla più antica tradizione, e in aderente conformità a essa, traendo ispirazione da una sua propria teologia fondamentale o, propriamente, fondante, rimasta immutata nei secoli. Essa ha la sua magna charta nel concilio ecumenico Niceno II, su cui tornerò brevemente appresso. Determinante è stata anche la iconografia, cioè i precisi canoni di pittura, sia formali e tecnici che contenutistici, che reggono la produzione delle icone, e, non meno influente, la sua ricca spiritualità che quasi avvolge il divenire e l'essere dell'icona. È una spiritualità che congiunge, da una parte, l'immagine stessa e il suo termine di riferimento soprannaturale, così come colui che ha il privilegio spirituale di portarla alla luce, l'iconografo, che pertanto accompagna e sostiene il proprio dipingere con la preghiera; e, dall'altra, coloro a cui l'immagine è diretta, e

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che ne sono attesi come fruitori nell'azione liturgica o nella devozione domestica e privata. L'arte delle icone è sempre intesa come arte sacra, arte cultuale, anche quando non è destinata allo specifico servizio liturgico.

La volontà di lasciare trasparire in qualche modo la realtà divina a cui la figura dipinta è strumentale, così come l'intenzione di attirare e avvicinare alla realtà divina i fruitori dell'immagine, in atteggiamento di venerazione, richiede nell'iconografo purezza d'intenzione, umile volontà di servire; e per questo la firma, la personalità dell'autore scompare, pienamente soddisfatta di essere come assorbita e perduta in tale soprannaturale dinamismo (e per questo anche, a differenza dell'arte occidentale, non v'è - come noi oggi diremmo - "un diritto d'autore" o "diritto d'immagine", e la copia dell'immagine di una icona, o sue varianti, sono cose del tutto ovvie).

Questa grande, severa, ma anche feconda tradizione è stata osservata ovunque nelle diverse Chiese orientali con religiosa fedeltà, il che non significa con rigidità, potendosi facilmente riconoscere stilemi propri alle diverse epoche, ai diversi luoghi, e alle diverse scuole.

Nel rinnovamento dell'arte sacra occidentale, del quale da troppo tempo si avverte il bisogno, tali caratteristiche dell'arte delle icone, quale arte sacra esemplare, pongono qualche interrogativo. Certo la risposta - per essere valida - dovrà essere data congiuntamente dalla Chiesa e dagli artisti, nella consapevolezza di ciò che significa arte sacra. Il suo significato, per dirla con la formula lapidaria dello

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stesso concilio ecumenico Niceno II, che, come ho detto, è alla base della teologia delle icone, è questa: "La venerazione dell'immagine passa al soggetto originario (tò protòtypon), e chi venera l'immagine, venera in essa la persona di chi vi è iscritta". È gàr tès eikònos timè / epì tò protòtypon diabàinei, / kài o proskynòn tèn eikòna / proskynèi èn autè toù eggrafomènou tèn upòstasin. I termini essenziali, come si vede, sono due: tò protòtypon e ò proskynòn.

Con riferimento a essi l'impegno dell'artista di arte sacra deve essere sostenuto da una vigilante e pura sensibilità per il rapporto spirituale al cui servizio si pone, e nel quale quindi anch'egli non può essere estraneo. Il che significa almeno questo: un soggettivismo o un relativismo oltranzisti non rispondono né al dettato né all'intenzione del concilio ecumenico Niceno II.

Tenersi per mano o rivolgere le braccia allargate al cielo?

Breve nota su di una questione significativa nella preghiera del Padre nostro durante la Messa.

di d.Andrea Lonardo

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I tre giovani del libro di Daniele in preghiera

nella fornace (affresco

dalle catacombe)

E' ormai apparentemente “normale” che durante la preghiera del Padre nostro nella celebrazione eucaristica in Italia, molti si prendano spontaneamente per mano o spontaneamente allarghino le braccia al cielo.

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L'unità dei gesti nella celebrazione eucaristica Vorremmo sottolineare innanzitutto come la preghiera liturgica si differenzi profondamente dalla preghiera personale (pur essendo ovviamente ad essa legata), nel suo essere la preghiera di un “popolo unito”, la preghiera della Chiesa. L'Institutio generalis del Messale Romano (ossia il testo che accompagna, dando i motivi ed i principi, le parole ed i gesti del Messale con il quale ogni eucarestia è celebrata) così si esprime, al numero 20 e 21: “ Gli atteggiamenti comuni che tutti i partecipanti al rito devono assumere, sono un segno della comunità e dell'unità dell'assemblea: essi esprimono e favoriscono i sentimenti dell'animo dei partecipanti. Per ottenere l'uniformità nei gesti e negli atteggiamenti, i fedeli seguano le indicazioni che vengono date dal diacono o dal sacerdote o da un ministro, durante la celebrazione”.

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Orante (affresco del

III secolo dalle

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catacombe)

Questa unità nei gesti aiuta ogni fedele a vivere la comunione dell'azione liturgica, a non vivere la messa come una propria azione unicamente personale, ma come la preghiera che è la più alta preghiera della Chiesa. Per questo riteniamo sia allora da scoraggiare ogni forma di gesto, ben inteso durante la liturgia divina, che non sia comune. Se qualcuno è abituato ad alzare le mani al cielo durante la liturgia della sua parrocchia e si reca in un'altra, è bene che si astenga da quel gesto perché il suo gesto non sia diverso da quello dei fratelli con i quali in quel momento celebra la liturgia. E' compito di chi presiede, come abbiamo visto, indicare i gesti che di volta in volta possono essere compiuti, se diversi dall'ordinario della messa.

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Orante nelle catacombe di

Priscilla

Il gesto del “levare le mani al cielo” e non quello del “prendersi per mano” Un secondo elemento importantissimo che vorremmo sottolineare è dato dal profondo significato che la tradizione della Chiesa ha dato al gesto di “levare le mani al cielo”. E' il gesto dell'“orante”, dell'uomo che prega Dio, che si rivolge al Padre.

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Lo troviamo già raffigurato nei primissimi affreschi paleocristiani delle catacombe, come nel prosieguo della storia della Chiesa. Una nota del 1983 della C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana) - Precisazioni sulla celebrazione eucaristica – proprio questo gesto suggerisce, al numero 1: “Durante il canto o la recita del Padre nostro, si possono tenere le braccia allargate; questo gesto, purché opportunamente spiegato, si svolga con dignità in clima fraterno di preghiera”. I vescovi erano a conoscenza dell'usanza di molte comunità di prendersi per mano. Tuttavia non ne parlano e non lo consigliano (ci fu esplicito dibattito su questo). Concordiamo totalmente, poiché il gesto della fraternità viene vissuto poco dopo dall'assemblea nello scambio di pace. Il prendersi per mano non solo vuol dire duplicarlo inutilmente, ma soprattutto distoglie l'attenzione da quel “rivolgersi in alto” che è il fondamento della comunione. E' questo esattamente uno dei punti fallaci che conduce all'attuale analfabetismo sui sentimenti e sull'amore in

Il vescovo S.Apollinare in preghiera, nel mosaico del catino absidale della basilica di S.Apollinare in Classe a

Ravenna

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cui la nostra cultura moderna si dibatte: senza il “guardare in alto”, alla verità, all'amore che è creatore e sorgente e redenzione di ogni sentimento umano, la persona umana facilmente chiama “amore” ciò che è il suo contrario. Se Dio è amore, ciò non vuol dire che il nostro amore sia Dio. Lasciamo allora – e consigliamo – che le mani durante il Padre nostro si levino in alto, che chiedano “che sia santificato il suo nome, che sia fatta la sua volontà, che venga il suo regno, che Lui dia il pane, il perdono, la forza dinanzi al male e la liberazione da esso”, per poter poi scambiarci il segno fraterno della pace, radicando la carità nella fede che nasce dall'alto. Aiutiamo il nostro contemporaneo e fratello a scoprire “l'altezza e la profondità” (Ef 3, 18) insieme “all'ampiezza e alla lunghezza” (ciò che il linguaggio comune chiama spesso il “verticale” e l'“orizzontale”). Non restringiamo l'orizzonte a quel buonismo sentimentale e a quell'infantilismo a cui tanta parte della nostra cultura ci induce.

L'organizzazione sacerdotale del mondo classico e la novità del diaconato cristiano : La follia di aiutare vedove, anziani e malati

Pubblichiamo quasi integralmente la relazione che ha concluso il XXXVIII Incontro di studiosi dell'antichità cristiana all'Augustinianum.

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di Giulia Piccaluga Università di Roma La Sapienza

Una volta che la civiltà superiore arcaica si venne diffondendo, dalla Mezzaluna fertile, sia in Medio Oriente che in ambiente mediterraneo portando con sé, consequenzialmente, la forma religiosa politeistica e, quindi, la costruzione di grandi complessi templari nei quali le divinità, concepite come antropomorfe, potessero avere un'abitazione, si rese ovviamente necessaria, per la conduzione di questi edifici, la formazione di organizzazioni sacerdotali quanto mai articolate in tutta una serie di compiti e incombenze di vario genere, comunque polarizzatisi attorno all'esigenza di servire in modo adeguato i componenti del pantheon. Questo, a seconda dei casi, sia rappresentandoli in terra col riprodurne, nel comportamento e/o nell'abbigliamento le caratteristiche di base, sia attendendo alle loro minute esigenze giornaliere, sia occupandosi concretamente degli infiniti problemi legati al funzionamento materiale di questi complessi templari: si pensi al riguardo, tanto per fare qualche esempio più che noto a tutti, al Flamen Dialis e alla sua consorte, che, nell'ambito della religione romana, dovevano impersonare in ogni istante della loro esistenza la coppia divina Iuppiter e Iuno ottemperando a tutta una serie di obblighi sovente assai pesanti e decisamente condizionanti, sì da richiedere, per entrambi, l'assistenza di uno speciale personale subalterno che li coadiuvasse nell'espletamento dei loro compiti; oppure alla necessità di provvedere, nella religione sumera, a vestire, ornare, nutrire, intrattenere con canti

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ed esecuzioni musicali nei vari momenti della giornata, le diverse divinità del pantheon, il che esige, ovviamente, l'impiego di un gran numero di operatori sacri, opportunamente addestrati a svolgere questi compiti ciascuno nell'ambito della propria specializzazione. Pur originatasi dalla competenza della forma politeistica delle religioni, l'esistenza di organizzazioni sacerdotali complesse e articolate in tutta una varietà di incombenze può talvolta svincolarsi da tale struttura sacrale, restando tuttavia legata alle esigenze dell'edificio templare, anche se questo, all'occorrenza, si trova ad ospitare, invece di un intero pantheon, un dio unico. È, questo, il caso dell'organizzazione sacerdotale del tempio di Gerusalemme, che vede, pur al servizio del solo Jahvè, oltre a un vero e proprio complesso sacerdotale agli ordini del sommo sacerdote discendente da Aronne che, per inciso, viene a frapporsi in quello che originariamente era il contatto diretto tra Dio e il suo popolo, mediato, tutt'al più, dal profeta di turno, ma anche tutto l'insieme dei leviti che, tradizionalmente adibiti, nel tempo del deserto, alla custodia e alla gestione dell'arca santa, una volta che gli ebrei si saranno stanziati nella terra promessa e avranno costruito una "casa" per il loro unico dio, saranno di norma destinata far fronte alle molteplici esigenze del santuario. Il cristianesimo nascente, in aperta polemica col tempio e con la gerarchia templare di Gerusalemme, sembra fare a meno, agli inizi, di una organizzazione di tipo sacerdotale, non disponendo ancora di specifici edifici di culto, e proponendosi, come è noto, gli apostoli, il compito precipuo di dedicarsi alla preghiera e al ministero della Parola (Atti, 6, 4) che va diffusa tra le genti. Ma, proprio per lasciarli liberi di adempiere a tale dovere, si

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presenterà ben presto anche per questa nuova fede, l'esigenza di procedere all'istituzione di ciò che si prospetta quale primo passo verso l'impianto di una vera e propria gerarchia religiosa, anche se non più di tipo templare: il diaconato. Riflettere sulla sua istituzione, forse più che al cristianista, pone non pochi problemi a chi lavora, invece, nel campo delle religioni del mondo classico, ambito, questo, in cui, appunto in quel preciso momento storico il cristianesimo ai suoi albori sta per diffondersi. Lo storico delle religioni, infatti, per quanto tentato di inquadrare automaticamente il diaconato sullo sfondo del sacerdozio minore che si riscontra a più livelli sia nel politeismo greco che in quello romano, non è affatto disposto ad accontentarsi di quella che, almeno da un punto di vista meramente tipologico, sarebbe una valutazione tendente a vedere sbrigativamente, nel diaconato, una specie di operatore sacro in sott'ordine rispetto al sacerdozio vero e proprio. Se, infatti, il motivo che ne determina l'istituzione sembra destinarlo ad un compito assai modesto, quello di servire a mensa le vedove, fermamente respinto dagli apostoli che non trovano conveniente per loro trascurare la parola di Dio per attendere a questa incombenza (Atti, 6,1-4 sg.), perché allora il diaconato richiede, già in fieri, per la consacrazione dei suoi ministri, addirittura l'imposizione delle mani preceduta dalla preghiera da parte dei dodici (Atti, 6, 6) ed esige preventivamente, da costoro, la presenza di alti requisiti morali e comportamentali non troppo dissimili da quelli richiesti ai vescovi (1 Timoteo, 3, 2-13) e, soprattutto, la sapienza e la pienezza di Spirito (Atti, 6, 3)? In quella specie di carta di fondazione delle varie componenti della comunità cristiana, attribuita addirittura a Paolo, che è la prima

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Lettera a Timoteo, infatti, le norme comportamentali destinate a circoscrivere il modo di essere dei diaconi, venendo dopo le disposizioni relative a quanto andrà richiesto ai maschi, alle donne, e quindi ai vescovi, costituiscono il culmine di un crescendo continuo teso a sottolineare un'importanza massima degli appartenenti a quest'ordine che mal si concilia con quanto dovrebbe essere richiesto a dei subalterni: "devono essere dignitosi, non doppi nel parlare, non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni" (ibidem, 3, 8), devono custodire "il mistero della fede in una coscienza pura"; devono essere "prima provati, e poi svolgano il loro servizio se sono irreprensibili" (ibidem, 3, 9). Se sono donne "siano dignitose, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa" (ibidem, 3, 11). Se maschi "siano mariti di una sola moglie, e governino bene i loro figli e le loro famiglie perché quelli che hanno svolto bene il loro compito di diaconi si acquistano un grado onorabile in una grande franchezza nella fede che è in Gesù Cristo (ibidem, 3, 12 e seguenti) L'ovvia riflessione che, evidentemente, nell'epistola si prospettino già i requisiti per quello che, successivamente ai primi tempi, diventerà il ruolo sociale ed economico del diacono ormai preposto all'amministrazione dei beni della Chiesa, sembra, d'altra parte, perlomeno riduttiva di fronte all'enormità di un ulteriore constatazione, destinata, forse più di ogni altra, a suscitare perplessità infinite: perché mai, in rapporto ad un ruolo di tipo subalterno quale, programmaticamente, parrebbe dover essere quello in causa, la componente mitopoietica della tradizione cristiana si mette subito in moto, sublimandone ulteriormente l'importanza col destinarne alcuni dei rappresentanti al martirio? Questo spetta già al protodiacono Stefano (Atti, 7, 57-60) e a

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Lorenzo. Ma questo martirio, si badi bene è ancora più significativo al fine di mettere a fuoco il peso dell'istituzione in causa, perché, non è solo, semplicemente, quello in cui poteva incorrere chiunque facesse professione di fede, bensì, da come ce la presentano i testi relativi, la sua narrazione risulta impostata in modo da renderlo funzionale al ben più ampio ruolo sacrale svolto dai suoi ministri. Stefano, il primo ad essere scelto per servire a mensa le vedove, non parrebbe dedicarsi più di tanto a questa incombenza, ma fa ben altro e ben di più: "compiva grandi prodigi e segni tra il popolo" (Atti, 6, 8) parlando "con sapienza e Spirito" (6, 10); inoltre, accusato presso il sommo sacerdote di preannunciare la distruzione del tempio di Gerusalemme (ibidem, 6, 14) - del quale, si ricordi, Cristo aveva detto che non ne sarebbe rimasta pietra su pietra - è in grado di ripercorrere in sintesi la storia sacra di Israele in modo da demolire verbalmente il santuario dimostrandone l'inutilità se considerato quale dimora per un Essere; che ha invece a disposizione l'intero universo (ibidem, 7, 28), sì che la conseguente lapidazione da parte degli astanti si rivela quanto mai in carattere con la specificità dell'accusa mossagli. Dal canto suo Lorenzo, che è addirittura preposto ad amministrare a pro' dei poveri le finanze della Chiesa di Roma, finisce arrostito sulla graticola come una spigola, pesce notoriamente avido, appunto perché accusato dal persecutore pagano - avido di impadronirsi dei tesori da lui gestiti - di "avidità" nel catturare anime da convertire. A questo punto si impone da sé, proprio al fine di verificare la specificità di questo particolare operatore sacro che è il diacono, un confronto con il personale sacrale subalterno delle religioni del

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mondo classico, la cui esistenza è più che documentata sia in Grecia che a Roma, ma i cui compiti particolari sovente sfuggono dato il silenzio delle fonti, spesso frammentarie. Se, tanto per fare qualche esempio più che noto, si sa che ad Atene le arrephoroi avevano il compito di tessere - raffigurandovi obbligatoriamente la Gigantomachia - il peplo da offrirsi ad Athena nei grandi Panathenaia, "raccontando" così, al telaio, con periodicità quadriennale, quella vicenda sacra alla quale la dea aveva preso parte svolgendovi un ruolo decisivo ai fini della fondazione dell'ordine cosmico, che viene, così, ad essere di volta in volta ristabilito, che cosa avranno mai fatto di specifico, a Roma, quelle Saliae virgines che affiancavano i Pontifices allorché questi facevano l'offerta nella regia? se ai mastigophoroi era affidata la custodia dell'ordine pubblico nel corso delle rappresentazioni teatrali che avevano luogo ad Atene nelle feste di Dionysos, quale sarà stata la funzione liturgica dei pueri che affiancavano i Fratres Arvales nei loro rituali? Pur nell'incertezza, tuttavia, possibile constatare come la situazione di questi operatori sacri di rango subalterno delle religioni del mondo classico si discosti nettamente da quella dei diaconi. A loro, infatti, non sembrano richiesti, come a questi ultimi, alti requisiti morali o una specifica attitudine alla sapienza, ma, a quanto risulta, solo particolari qualità fisiche - l'essere privi di difetti, l'avere entrambi i genitori viventi onde non essere funestati dal lutto - o determinate condizioni sociali - l'appartenenza a famiglie illustri, talvolta la condizione di libero. I loro compiti specifici poi, se documentati, sembrano costantemente ed esclusivamente rivolti all'esigenze del sacerdote di cui sono al servizio, o ai bisogni del santuario cui sono legati: gli scribi affiancano i Pontefici e gli Arvales nella

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stesura dei loro atti; i camilli e le camillae sono al servizio dei Flamines e delle loro mogli; il Flaminius aiutava il Flamen di Iuppiter nella celebrazione dei sacrifici, così come pueri e puellae accompagnavano le Vestali sul Campidoglio, e le virgines ingenuae erano tenute a confezionare il velo della Flaminica Dialis; e via dicendo. Non risulta nessuna loro attività, di alcun genere, nei confronti della massa, che, d'altra parte, in queste religioni non appare sempre coinvolta nella celebrazione delle pratiche sacrali, di norma affidate ai sacerdoti pubblici che rappresentano lo stato e che sovente le compiono in luoghi riservati e alla presenza di pochi, mentre una grande affluenza di pubblico la si ha solo in certe occasioni festive, quali, ad esempio, le rappresentazioni teatrali, i giochi del circo, i rituali a carattere di capodanno, le cerimonie di purificazione della città. Né, tantomeno, risulta che questo personale subalterno sia mai impiegato in compiti di tipo caritatevole, dal momento che, notoriamente, l'amore verso il prossimo non fa parte delle caratteristiche di queste religioni, i cui dèi non devono essere necessariamente benevoli, né, tantomeno, richiedono, come farà il Dio cristiano, che ci si ami l'un l'altro. La solidarietà nei confronti della massa è, casomai, specie in occasione di crisi, atto sovrano delle autorità, in specie di quella imperiale, nel quale nessuno dovrà interferire, ed è di solito determinata dall'esigenza di venire incontro alla parte valida della popolazione, in primis all'esercito e quindi a quei gruppi su cui è basato l'equilibrio sociale, o comunque a quanti conviene tenersi buoni per ogni evenienza, mentre non va sprecata per le fasce deboli - vecchi, malati, emarginati di vario genere - in quanto considerati a tutti gli effetti pesi morti di cui liberarsi al più presto. L'amore per il prossimo

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sofferente, e, consequenzialmente, l'obbligo morale di recargli soccorso, fa parte di quella "follia" di cui venivano tacciati i cristiani, i quali, in attesa di una fine dei tempi ritenuta ormai prossima, erano portatori di valori assolutamente ribaltati rispetto a quelli, tradizionali, delle culture classiche, e tali da spingerli addirittura al sacrificio di sé pur di non rinnegarli. Come fanno, appunto, Stefano e Lorenzo.

Poesie spirituali delle romite ambrosiane

Quella vita che parla alla vita

di Cesare Pasini

Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana

È sempre gradito ogni tentativo di declinare insieme arte e spiritualità, anche se si percepisce subito quanto sia delicato e impegnativo inoltrarsi in percorsi del genere. Quando però un'iniziativa in questo ambito si presenta con un risultato ben curato nei particolari: geniale nella composizione; signorile e insieme semplice nel suo complesso; immediato nella comprensione, ma non per questo meno ricco e profondo nel messaggio; non rimane che esprimere la propria positiva valutazione e comunicarne la scoperta anche ad altri.

È stato infatti pubblicato di recente, dalle romite dell'ordine di Sant'Ambrogio ad Nemus, monache a Santa

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Maria del Monte sopra Varese, un volume in cui arte e spiritualità concorrono a donare al lettore un'esperienza del luogo suggestivo e della singolare vita che vi si svolge.

In precedenza erano stati pubblicati alcuni fascicoli ("Civiltà Monastica", 1-6, Gavirate, Nicolini, 2001-2003) per far conoscere all'esterno del monastero alcune opere d'arte che vi sono conservate, dalle ancone lignee della Crocefissione e della Flagellazione di uno scultore lombardo di fine Quattrocento, alle statue di un antico Calvario, attribuite a Giulio da Oggiono (prima metà del XVI secolo) al Presepio e all'Adorazione dei Magi in terrecotte dipinte di Benedetto Cacciatori (xix secolo). Si trattava non solo di offrire ottime riproduzioni ma - secondo le parole con cui le romite introducevano la serie dei fascicoli - di riconoscere nell'arte sacra una "via regale al mistero di Dio" e di facilitare questo percorso accompagnando le illustrazioni, insieme alle doverose informazioni storico-artistiche, con frasi e commenti che aiutassero a provcedere sul cammino spirituale.

Nello stesso tempo le romite affrontavano un'altra pubblicazione (Pellegrinaggio e ascesa al Sacro Monte di Varese attraverso i disegni di Leonardo Bellaspiga, Varese, Lativa, 2001), questa volta però volgendosi all'arte contemporanea: nella pubblicazione erano infatti raccolte venticinque stampe che riproducevano disegni a china vergati da Leonardo Bellaspiga, un artista amico del monastero, nato nel 1925 a Osimo, nelle Marche.

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Ingegnere di professione, amante della bellezza della natura e della scienza, cultore dell'arte, pittore e disegnatore, Leonardo Bellaspiga in questa sua prima raccolta aveva preso a soggetto le quattordici cappelle mariane che scandiscono il percorso che i pellegrini compiono per salire al Sacro Monte di Varese; le romite vi avevano aggiunto, con lo stesso spirito dell'altra pubblicazione, frasi bibliche e brevi brani tratti dagli scritti di sant'Ambrogio e di sant'Agostino.

Con la pubblicazione che si presenta ora: Una casa sulla roccia: il tempo nell'eternità. Luoghi e parole di vita, (Varese, Lativa, 2009, pagine 59, euro 35) troviamo riprodotti in un volume venticinque nuovi disegni a china, opera ancora della paziente maestria e dell'entusiasmo di Leonardo Bellaspiga, ma, come per la prima impresa, rientriamo nel monastero, e vediamo scorrere di immagine in immagine, nelle tavole artistiche, gli ambienti stessi del monastero: non tanto le opere d'arte ivi conservate, ma i luoghi di vita e di preghiera, di incontro comunitario e di esperienza in solitudine; gli interni e gli spazi all'aperto. In parallelo a ogni raffigurazione è inserito un brano, composto dalle romite: si tratta di meditazioni e preghiere che scaturiscono, brevi e incisive, dalla fede cristiana vissuta nel carisma monastico, sempre sensibile ai linguaggi della bellezza, e tendono all'arte. Sono testi intrisi di allusioni e di citazioni scritturistiche e impreziositi, come da luminose pennellate, da frasi tratte dalle opere di sant'Ambrogio, antico e sempre attuale

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padre e maestro per la nostra fede.

Le romite - ci viene detto nel risvolto di copertina - sono una presenza contemplativa nella Chiesa milanese da oltre cinquecento anni, avendo preso inizio dall'esperienza eremitica delle beate Caterina e Giuliana in pieno Quattrocento. Si ispirano alla spiritualità ricca ed equilibrata di sant'Ambrogio, pregano nella liturgia ambrosiana con il suo antico canto, lavorano, vivono la solitudine e la fraternità, offrono il servizio dell'ospitalità. Il monastero sorge abbarbicato alla cima rocciosa del monte, da dove lo sguardo spazia sulla città di Varese e, tutt'attorno, all'arco delle Alpi, ai laghi prealpini e alla pianura sottostante. Quasi un simbolo dell'esistenza stessa delle monache, "attaccata" alla roccia di Cristo, da cui si impara a guardare lontano, per raggiungere ogni fratello, ogni uomo, per dire a tutti qualcosa del suo amore che salva.

Il libro desidera far intuire, nella bellezza delle immagini e dei testi, il significato più profondo dell'esperienza delle monache. Sembra infatti suggerire un limpido parallelismo. Come la bellezza, che ammiriamo nei disegni e nelle parole, rimanda a quella Bellezza a cui tutta la vita tende, così anche la quotidianità di vita che si svolge in quei luoghi, nella sua semplicità e fragilità, esprime qualcosa di quanto sta oltre: dice che in quella casa sulla roccia il tempo che passa è già nell'eternità e che la fragilità della vita è resa solida come una roccia dalla fede. Il monastero, poggiato sulla roccia - dichiarano

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le romite concludendo l'introduzione al volume - è immagine del miracolo che avviene nella vita di chi accetta il rischio della fede: costoro si trovano nella normale - e pur fragile - esistenza di ogni giorno e, allo stesso tempo, vivono in un'esperienza di eternità, "là dove Gesù Cristo è il Signore".

Così i disegni e le meditazioni sono fusi in un unico racconto.

È un libro anzitutto da sfogliare, dunque; ma poi da guardare e da leggere con calma. Un libro che fa pensare, non perché pieno di concetti, ma perché immagini e parole comunicano un'esperienza di vita, che nasce dentro le cose solite, come il lavoro, la morte, la mensa, l'amicizia, il riposo; e nei luoghi di sempre, come la cucina, il giardino, la chiesa, la cascina: una vita che parla alla vita. Un libro da guardare e da leggere con cuore contemplativo.

Banchetti funebri nelle pitture delle catacombe

Fumetti e pic-nic

tra terzo e quarto secolo

di Fabrizio Bisconti

I pasti dei primi cristiani erano assai simili a quelli dei pagani, seppure più frugali e poveri. Lo ricorda Clemente

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di Alessandria nel Pedagogo, una sorta di manuale di comportamento del "buon cristiano", redatto negli ultimi anni del ii secolo: "Coloro che hanno un'alimentazione estremamente frugale sono più robusti, più sani e più belli; tali sono, ad esempio, i servi rispetto ai loro padroni e i contadini rispetto ai proprietari" (Pedagogo, 11, 5, 1-2). "Se gli altri uomini vivono per mangiare - scrive ancora Clemente - noi (cristiani) mangiamo per vivere; per questo i nostri pasti devono essere parchi e leggeri (...) la carità è una buona nutrice, che ci educa alla comunione (fraterna) e alla generosità e dispensa un prezioso viatico: il bastare a se stessi" (ibidem, 11, 3). Il Pedagogo suggerisce di non procacciarsi cibi d'oltremare: "Io sento pietà per questo comportamento, essi invece non si vergognano di inneggiare alle passioni della loro gola: cercano le murene dello stretto di Sicilia, le anguille del Meandro, i muggini dello Sciato, i crostacei del Capo Faro, le ostriche di Abido, e non tralasciano le acciughe di Lipari, né le rape di Mantinica, né le bietole di Ascra; cercano le conchiglie di Metimna, le sogliole dell'Attica, i tordi di Dafne, e i fichi neri come rondini per i quali i Persiani veleggiano verso la Grecia con cinque milioni di uomini. Comprano i fagiani di Fasi, le pernici d'Egitto, i pavoni di Media (ibidem, 11, 3, 1).

La vita dei ghiotti è considerata scandalosa, così come è condannata la scorrettezza a tavola, ricordando alcune norme ancora valide presso il nostro galateo: "Astenersi da gesti volgari e intemperanti; non sporcare il letto

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tricliniare, le mani e il mento; non provocare rumore deglutendo; non tendere la mano per avere il cibo, se non quando è il proprio turno; non parlare con la bocca piena; non mangiare e bere nello stesso tempo" (ibidem, ii, 11-13).

Se il Pedagogo consiglia di mangiare il pane, che è alla portata di tutte le borse, e il pesce, in memoria del miracolo della moltiplicazione, suggerisce pure di bere il vino con moderazione, secondo quanto scrive Paolo a Timoteo, che lo raccomanda, ma solo come medicamento (1 Timoteo, 5, 23). L'esagerazione in questo senso, sottolinea san Giovanni Crisostomo, conduce al peccato dell'ubriachezza (Sulle statue, 2, 5). Alcuni movimenti rigoristi proibivano l'uso del vino, considerato sostanza diabolica e, per questo, vennero definiti aquarii.

Anche i cristiani, proseguendo usanze diffuse presso genti e culture di ogni epoca, riservano un'importanza particolare ai banchetti funebri. Già presso i romani si usava "cibare" i defunti, attraverso fori o tubi praticati nelle tombe per introdurre le libagioni, specialmente vino, latte e focacce, tanto che intorno alle sepolture è facile rinvenire pergolati, bancali, pozzi, letti in muratura e giardini, dove venivano organizzati dei veri e propri banchetti per i morti, specialmente in occasione di ricorrenze comunitarie, che ricordano le nostre commemorazioni funebri. Durante questi conviti era bandita ogni forma di tristezza e, anzi, si coglieva l'occasione per ricomporre le liti familiari e per radunare

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le confraternite di amici o gli aderenti a una medesima corporazione.

Riti tanto radicati non potevano arrestarsi con il cristianesimo, con la sola differenza che i banchetti vennero definiti refrigeria: un termine che, nel senso stretto, voleva significare "rinfreschi" per il fisico, ma che presto passerà a indicare il riposo e il sollievo spirituale, per esprimere, infine, la felicità futura, quella paradisiaca.

I refrigeria si svolgevano proprio in corrispondenza delle tombe dei defunti: nelle catacombe di Malta sono state trovate grandi mense circolari per i conviti comunitari, mentre nei cimiteri all'aperto sono stati rinvenuti altri manufatti, ossia mense lunate, rettangolari, in muratura, in marmo, mosaicate, specialmente nelle necropoli cristiane dell'Africa settentrionale e nel complesso funerario di Cornus in Sardegna. Durante questi conviti, si riteneva fossero presenti i defunti stessi dei quali si festeggiava il dies natalis, ossia il giorno della morte, che rappresentava il momento della nascita alla nuova vita, quella eterna. Tale presenza suggeriva, talvolta, di creare dei luoghi appositi per i defunti, come dimostrano alcune cattedre scavate nel tufo della catacomba Maggiore sulla via Nomentana a Roma: esse indicano, con ogni probabilità, il posto riservato al defunto, durante il banchetto celebrato in suo onore.

Ancora più suggestive e vivaci risultano le rappresentazioni figurate che alludono a questi pasti così frugali ed estremamente simbolici, tanto è vero che alcune

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di esse sembrano delle vignette allusive a questi singolari banchetti. Nel cimitero di Domitilla, ad esempio, su una lastra marmorea per la chiusura di un loculo è incisa la figura di un padre (Cristor) colto nel momento in cui brinda in onore della piccola figlia defunta (Crista); pure la bambina orante appare tra due colombe per significare che già gode della pace paradisiaca, anche se ancora sembra assistere alla gustosa scenetta del padre che offre un avanzo del pranzo a un cane, forse particolarmente affezionato alla padroncina.

Ancora più concitate appaiono alcune scene di banchetto dipinte, tra il iii e il iv secolo, nelle catacombe dei Santi Pietro e Marcellino sulla via Labicana. I commensali sono distesi dietro tavole sigmoidi imbandite, serviti da camilli e ancelle che portano le vivande e il vino appena scaldato: si mangiano specialmente pani e pesci, ma in un caso, sul tripode, si riconosce anche un volatile arrostito. Gli inservienti sono richiamati dai commensali con veri e propri fumetti: Agape mesce nobis (Agape versaci da bere); Irene porge calda (Irene servi i cibi caldi); Sabina misce (Sabina versa da bere); Misce mi Irene (Versami da bere Irene); Irene da calda (Irene portaci le vivande calde).

Queste scene, corredate dai singolari fumetti, dimostrano come l'arte delle catacombe, probabilmente tesa verso un significato salvifico e verso un immaginario biblico, non dimentica la tradizione popolare della più genuina arte romana, dando sostanza a un filone artistico,

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che, pur sensibile a una mentalità religiosa in mutazione, propone ancora la visione concreta della vita reale.

Per quanto riguarda i pasti funebri, con il passare del tempo divennero un rito più allargato a tutta la comunità, per commemorare anche i martiri, e assunsero un ruolo di carità pubblica verso gli indigenti. Ben presto, però, i conviti funebri raggiunsero eccessi e abusi, che misero in guardia la Chiesa ufficiale, tanto che, dallo scadere del iv secolo, si tentò di ridimensionare il fenomeno, senza però prendere provvedimenti definitivi che, presumibilmente, avrebbero causato l'esito contrario di un ritorno alle antiche credenze e agli usi pagani.

Celebrato nell'arcidiocesi di Vercelli il decimo meeting del Columban's Day

San Colombano anima cristiana dell'Europa

In  occasione  dell'xi  meeting  del  Columban's Day, svoltosi quest'anno a Biandrate (Novara), nella parrocchia di San Colombano Abate, monsignor Enrico Masseroni, arcivescovo di Vercelli, durante la solenne concelebrazione eucaristica, ha pronunciato un'omelia, di cui pubblichiamo, qui di seguito, ampi stralci.

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Due grandi correnti spirituali monastiche attraversano l'Europa nel vi secolo:  la prima sale verso il nord, verso il continente ed è il monachesimo di fondazione benedettina. Benedetto infatti aveva costruito il grande monastero di Montecassino, dove morì nel 547.

La seconda corrente monastica, nello stesso secolo vi, discende dal nord verso il sud, dall'"isola verde" dell'Irlanda verso il continente. In Irlanda il monachesimo era fiorente e il secolo vi fu il secolo d'oro della vita monastica; la Chiesa era addirittura guidata dai monaci. Anche nel paese nord-europeo i centri di cultura erano i monasteri; e proprio dal monastero di Bangor, sul finire del secolo, partì san Colombano, con dodici compagni, per portare il Vangelo sul continente in profonda trasformazione. I due monasteri più famosi fondati da san Colombano

furono quello di Luxeuil in Borgogna (Francia) e in Italia il monastero di Bobbio, a sud di Piacenza, in territorio occupato dai Longobardi, di religione ariana, l'eresia che negava la divinità di Cristo. Non è un luogo comune, ma una verità storica, il riconoscere che non si può capire l'Europa ignorando la sua anima cristiana, divenuta cultura dei popoli del vecchio continente attraverso la

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presenza ramificata del monachesimo, che dal secolo vi accoglierà l'impronta di Benedetto. Anche i monasteri fondati da san Colombano e organizzati da una regola breve e severa, adottarono in seguito la regola benedettina, più mite e più armonica tra valori dell'evangelo e valori umani; scandita dal noto binomio vissuto nel quotidiano:  Ora et labora prega e lavora. San Benedetto e san Colombano sono stelle di prima grandezza nel firmamento del vi secolo, in cui sulle ceneri fumanti dell'impero romano nascono in Europa i nuovi regni romano-barbarici. Allora vale la pena riproporci la domanda:  dove sta l'attualità di san Colombano. Che cosa potrebbe dire a noi oggi? San Colombano fu uno straordinario conoscitore della parola di Dio, della Bibbia. Fondate testimonianze storiche ci ricordano che Colombano aveva una personalità forte, severa con se stesso e con gli altri; aveva una grande cultura:  conosceva gli antichi autori della letteratura latina come Virgilio, Orazio, Ovidio; ma soprattutto conosceva a fondo la parola di Dio come strumento di annuncio e di formazione spirituale. I monaci irlandesi svilupparono una grande azione missionaria, che li portò non solo sulle coste occidentali d'Inghilterra, ma su tutta l'Europa cristiana bisognosa di evangelizzazione, anche a motivo dell'impreparazione del clero e della superficialità delle conversioni dei nuovi popoli germanici. E c'è infine un terzo messaggio nella testimonianza cristiana di san Colombano:  nell'esperienza dei suoi monaci trova particolare rilievo il pellegrinaggio, la peregrinatio Christi, l'andare lontano dalla propria terra, come forma di rinuncia, come esperienza itinerante e penitenziale (anche per questo, bene ha fatto la

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comunità parrocchiale di Biandrate a promuovere un pellegrinaggio presso l'urna di san Colombano a Bobbio). Il pellegrino inerme, nella sua immagine medioevale, è riconoscibile per il suo abbigliamento e gode di particolare protezione da parte della Chiesa. Anche Vercelli era una città attraversata dai pellegrini della via francigena. Forse sta qui la più scomoda attualità di san Colombano. Certo nessuno di noi è chiamato a farsi monaco per diventare cristiano. Ma il monaco Colombano ricorda all'uomo smemorato e distratto del terzo millennio che c'è un essenziale da recuperare dentro l'orizzonte della vita:  tutti siamo in pellegrinaggio, la vita è vigilia; e in pellegrinaggio non si porta un bagaglio ingombrante e inutile:  bisogna portare l'essenziale:  che è la vita di Dio, che è la sua grazia, la sua amicizia, la sua presenza nella nostra coscienza sgombra da idolatrie inique e ingannevoli.

Il luogo della beatitudine secondo la più antica iconografia cristiana

Quel paradiso sembra proprio un giardino

di Fabrizio Bisconti L'immaginario iconografico della tarda antichità e cioè del tempo in cui il cristianesimo diventa cultura prevalente e si diffonde per ogni territorio del mondo antico, recupera le sedi beate e amene delineate dalla poesia classica e, specialmente, da quella virgiliana che, nell'Eneide, fa esplicito riferimento ai locos beatos et amoena virecta / fortunatorum nemorum sedisque beatas (VI,

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639-640). Da qui proviene una concezione che, dagli aerei e sconfinati spazi dei paesaggi di genere, fa emergere prati, cespugli, fiori, petali, boccioli, ghirlande e festoni, che si snodano nei monumenti funerari, svincolando il concetto del locus amoenus dalla mera convenzione letteraria e sollevandolo a idea utopica ed escatologica, specialmente nelle speculazioni di carattere misteriosofico e orfico e nel pensiero neoplatonico. A tali sostrati si giustappone la concezione giudaica del paràdeisos, inteso come parco recintato, come giardino edenico, in chiaro riferimento a Genesi, 2, 3; quest'ultimo riguardo non è sostenuto soltanto da alcuni significativi passi dell'apocalittica giudaica (Enoch, 2, 8, 1-7; Apocalisse di Pietro, 15-16; Apocalisse di Paolo, 22), ma anche da altrettanti documenti iconografici ebraici e cristiani, dove comunque la componente veterotestamentaria è prevalente.

Si tratta delle scene che discendono dalle visioni apocalittiche dove, appunto, la sede edenica è descritta come un profumato giardino interessato da una primavera continua. Così, nella Passio Perpetuae et Felicitatis, una celebre visione disegna il paradiso come uno splendido giardino:  Factum est nobis spatium grande, quod tale fuit quasi viridarium arbores habens rosae et omne genus flores. Altitudo arborum erat in

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modum cypressi quarum folia cadebant sine cessatione (11, 5-6). È sorprendente come questa visione riecheggi un celebre luogo ovidiano:  Est mihi fecundus dotalibus hortus in agris / aura fovet, liquidae fonte rigatur aquae / hunc meus implevit generosus flore maritus (Fasti, V, 209-211) e anticipi il testo di un'iscrizione giudaica del cimitero tardoantico romano di Monteverde:  Rursum victura reditura ad lumina rursum / nam sperare potest ideo quod surgat in aevom / prossimum quae vera fides dignisque piisque / quae meruit sedem venerandi ruris habere (Corpus Inscriptionum Judaicarum, 476). Ma è un passo tertullianeo dell'Apologeticum, degli esordi del iii secolo, che meglio definisce il concetto di giardino-paradiso, improntato alla visione dei campi Elisi, ma attento alla visione del campo recintato:  Et si paradisum nominamus, locum divinae amoenitatis recipiendis sanctorum spiritus destinatum, maceria quodam ignae illius zonae a notitia orbis communis segregatum, Elysii campi fidem occupaverunt (47, 13-14). Una visione, quest'ultima, che avrà lunga fortuna sino alla poetica del più tardo iv secolo, come dimostrano alcuni suggestivi versi di Prudenzio:  Felices animae prata per herbida / concentu parili suave sonantibus / hymnorum modulis dulce canunt melos / calcant et pedibus lilia candidis (Cathemerinon, V, 121-124). Il pensiero patristico fluisce naturalmente nell'arte funeraria, a cominciare dai sarcofagi del iii secolo, specialmente di produzione romana, dove si ricreano delle vere e proprie situazioni bucoliche anticipando l'immagine cristologica del buon pastore. Il tema del giardino è svolto nelle pareti delle catacombe romane, napoletane e siciliane in mille modi:  vuoi con rappresentazioni megalografiche, vuoi con accenni più discreti

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che alludono all'aldilà con petali, boccioli, ghirlande sparse un po' ovunque. Tali decorazioni richiamano alcune ritualità tanto radicate nel costume romano da sopravvivere anche con l'avvento del cristianesimo, come quella di cospargere il sepolcro di fiori, di cui ci ha lasciato una preziosa testimonianza san Girolamo:  Ceteri mariti super tumulum coniugum spargunt violas, rosas, lilia floresque purpureus (Epistolae, 66, 5), un'usanza che diviene più concreta quando si dotano le tombe di veri e propri giardini, come per realizzare e anticipare, con questi horti terreni, il paradiso. Ma il paradiso, per i primi cristiani, non si identifica sempre e sistematicamente con un tranquillo habitat bucolico. Può anche essere ambientato in una sede urbana, o anche in una semplice abitazione, una domus, secondo un topos letterario che da Ambrogio (De bono mortis, 10, 45) giunge a Gregorio Magno (Dialogi, IV, 36). Per quanto riguarda la vera e propria sede urbana, in verità, si assiste, nei primi secoli, alla diffusione di una polemica anticittadina, che tocca il suo apex estremo nell'invettiva di Arnobio che, nell'Adversus nationes, condanna Roma come humani generis perniciem (VII, 51). Ma quell'assunto e quella constatazione possono essere meglio considerati seguendo la dinamica di un atteggiamento emozionale, quasi istintivo, che viene da lontano e che conosce molti paradossi, inversioni di tendenza e opposte visioni, a

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cominciare dalla giustapposizione tra barbaritas e disabitato, che sfocia nella visione bipolare, che indovina nella città le nozioni di civitas, di romanità e cristianesimo e nella campagna un insidioso territorio da cristianizzare, dove ancora pullulano le superstizioni pagane. Visione paradossalmente opposta al tòpos georgico di Virgilio che, com'è noto, affida qualitates solo positive alla rusticitas e negative alla urbanitas, disegnando un'antinomia, che trova l'ultima soluzione nel pensiero di Girolamo, che alla città oppone il deserto, alla societas la solitudo, specialmente nella celebre lettera a Marcella, in cui suggerisce la fuga da Roma, dai suoi tumulti, dalle arene, dai circhi, dai teatri, per placarsi in una campagna silenziosa (Epistolae, 43, 2); la stessa campagna descritta in una lettera altrettanto famosa, a Paolino, al quale suggerisce di cercare Cristo in un rustico appartato, piccolo, silenzioso (Epistolae, 58, 4-5). Posizioni estreme, da considerare con molte cautele, specialmente se pensiamo al fatto che la società del tempo è fondata sulla città che, anzi, rappresenta la cellula elementare della trama politico-economica della tarda antichità. Va solo precisato che le città in questione non sono più le grandi metropoli ellenistiche, ma i nuovi centri di potere delle province, e tra gli uomini delle province sembra nascere o rinascere il tormentato rapporto tra i due modi di vita, opposti ma complementari, che vedono i rappresentanti dell'aristocrazia muoversi tra la città, intesa come sede del cursus e la campagna, vista come sede dell'otium spirituale. L'iconografia cristiana più antica esprime questa concezione paradisiaca declinata in maniera urbana, prima in maniera rara e

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incerta, come nella megalografia dell'ipogeo degli Aureli, dove un defunto, forse neppure convintamente cristiano, entra solennemente in una città vista dall'alto, popolata di anime beate; e poi - alla fine del secolo IV - in modo più esplicito, nei sarcofagi "a porte di città", dove si dispiegano aulici collegi apostolici e altre selezionate scene bibliche contro un connettivo di fondo con porte urbiche e mura turrite, così come succede nel celebre sarcofago milanese detto di sant'Ambrogio o di Stilicone, che annuncia, proprio con il simbolico sfondo urbano, le situazioni figurative delle absidi romane, prima tra tutte quella celebre di Santa Pudenziana all'Esquilino. Ormai la città eterna, intesa come sede oltremondana, si identifica con la Gerusalemme celeste che, a sua volta, allude all'Ecclesia e questa serie di passaggi viene da lontano, dal pensiero paolino:  "Così - ricorda l'apostolo delle genti in Efesini, 2, 20 - voi non siete né stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo". Ma torniamo al maturo iv secolo e agli esordi del seguente, quando vengono concepite le prime città apocalittiche, che si ispirano a quella Gerusalemme eccezionale descritta nel piccolo libro di Giovanni:  "Il suo splendore era simile a pietra preziosa come pietra di diaspro cristallino. Aveva un muro di cinta grande e alto con dodici porte" (Apocalisse, 21, 11-12). Mentre queste immagini entrano nei programmi decorativi delle più sontuose arche marmoree e dei più preziosi apparati musivi degli edifici di culto, l'idea del De civitate Dei di Agostino si affaccia, già negli anni Novanta del secolo iv, nel De vera religione, dove si delinea l'antitesi in seno al genere umano (27, 50), ripresa e approfondita,

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di lì a pochi anni nell'Enerrationes in psalmos (9) e nel De Cathechizandis rudibus (19, 31) tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste. "Esiste una città di Dio - conclude il vescovo di Ippona - di cui ci fa ardentemente desiderare d'essere cittadini quell'amore che ci ha ispirato il suo fondatore" (De civitate Dei 11, 1) ed esiste un mediatore, il Cristo, come meta del cammino attraverso cui camminare. Quel Cristo che, nell'arte del tempo, è fulcro e calamita figurativa dell'ambientazione urbana:  sul fondo  della civitas Dei tutto scorre inesorabilmente, tutto si svolge incessantemente, scorgendo nitidamente il traguardo  e la sede ultima dell'umanità. Disattesa dagli studiosi e certamente più rara al momento delle origini è l'iconografia che colloca il paradiso nel firmamento. Eppure, se sfogliamo i repertori epigrafici, non sarà difficile individuare trasparenti riferimenti all'aldilà inteso come Caelestia regna, regna beata poli, sidera onnipotentis aula, lux, lumen, astra. A queste testimonianze rispondono due sole manifestazioni pittoriche catacombali, che collocano altrettanti defunti in un ingenuo cielo costellato di stelle, rispettivamente nei cimiteri di Sant'Ermete e dei Santi Pietro e Marcellino. Siamo nel pieno iv secolo e può sembrare strano che durante i secoli precedenti mai il paradiso venga rappresentato come firmamento. Una ragione può risiedere - secondo quanto rilevò André Grabar - nella difficoltà della rappresentazione grafica, nel senso che la sede celeste, nell'immaginario cristiano, è un cielo virtuale e dunque invisibile. Eppure, ogni volta lo si voglia rappresentare, si deve ricorrere al cielo fisico, alla volta celeste, al firmamento reale, a quello che sovrasta il mondo. Così il "cielo dell'illuminazione" appare nelle volte dei battisteri, ma, come si diceva, è assai più

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raro nell'arte funeraria se, oltre ai due affreschi romani già menzionati, possiamo contare solo alcune lastre incise, specialmente d'area alto adriatica, che riproducono i defunti oranti tra due o più stelle. L'innesto della chiave apocalittica nell'iconografia del firmamento, così come si propone negli edifici battesimali, deve aver scoraggiato gli artifices, che volevano semplicemente collocare in paradiso i defunti ordinari. La volta celeste costellata dagli astri luminosi sembra più adatta per tradurre in figura la luce della lunga veglia pasquale, che si consumava in attesa del rito solenne del battesimo. Il paradiso illuminato dagli astri si addice più naturalmente alla sede ultima dei martiri, come dimostra un ingenuo vetro dorato che situa la martire Agnese orante tra due stelle, che indicano appunto il paradiso; due rotoli, che alludono alla legge, attraverso cui si accede all'aldilà; due colonne, su cui si posano altrettante colombe, che ci parlano della ianua coeli. Molti, dunque, sono gli espedienti iconografici paleocristiani per situare in un habitat paradisiaco i defunti, i martiri, il Cristo e talora vengono usati mezzi semplici e simbolici, come quando i beati assumono il largo gesto dell'expansis manibus, che allude a una condizione, nel senso che, con questo atteggiamento, non si vuole esprimere una supplica, ma quella preghiera continua, che infiamma la vita del cristiano durante tutto il suo itinerario terreno, ma anche nell'oltremondano. E spesso il defunto orante è rappresentato dinnanzi a grandi tende e cortine (parapetàsmata), o a porte dischiuse, che lasciano intravedere un viridarium, un giardino nascosto e riservato ai beati, o a piccoli edifici domestici, quasi per ricordare il famoso

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luogo giovanneo "nella casa del Padre mio vi sono molte dimore" (14, 2). In tutte queste rappresentazioni si respira un'atmosfera serena, sostanziata dalle immagini care alla sfera religiosa pagana, ma sovraconnotata dal pensiero cristiano che, con tanta semplicità, ricostruisce un paradiso verde e ridente, dove ogni forma di nostalgica memoria della vita e della condizione terrena dei defunti si dissolve e si elide dinnanzi alla nuova eccezionale situazione. Alla fine del IV secolo l'epitaffio d'Evodia, sepolta nel cimitero di Sant'Agnese, riassume ed esprime, con formule e clausole desunte dal patrimonio virgiliano, la levità, la quies, la tranquillitas, la beatitudo del nuovo mondo:  Ne tristes lacrimas ne pectora tundite vestra / o pater et mater, nam regna caelestia tango / non tristis Erebus non pallida mortis imago / sed requies secura tenet ludoque choreas / inter felices animas et amoena piorum /prata Erodia decorant (Inscriptiones Latinae Christianae Urbis Romae, VII, 21015).

  Restaurato il cubicolo dei cinque santi nelle catacombe di

San Callisto

Tre donne e due uomini pregano sottoterra da diciassette secoli

di Barbara Mazzei

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Nei mesi scorsi si è concluso un delicato intervento di restauro conservativo promosso dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nel cubicolo dei cinque santi nella catacomba di San Callisto in Roma volto al recupero e alla salvaguardia dei frammenti di affresco che costituiscono la splendida decorazione di questa camera sepolcrale. Il partito decorativo interessa esclusivamente la parete di fondo dell'ambiente dove cinque personaggi oranti, tre femminili e due maschili, sono immersi in un rigoglioso giardino, ricco di fiori multicolori e piante con frutti variegati, nel quale lietamente volano uccelli di varie specie, mentre due pavoni affiancano l'imboccatura dell'arcosolio e zampillanti acque sgorgano dal centro di grandi cantari a cui si dissetano alcuni animali.

L'ameno ambiente paradisiaco così rappresentato era minacciato da un progressivo fenomeno di disgregamento degli intonaci causato da una costante attività di percolamento dell'acqua di condensa che si concentrava sulla parete affrescata.

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Inoltre, deturpanti e poco idonee stuccature in cemento scuro, eseguite nel passato per fissare i lacerti di intonaco, contribuivano a rendere fastidiosamente discontinua la percezione della scena dipinta. Una delicata pulitura della superficie pittorica, un'accurata e attenta asportazione dei residui carbonatici e delle efflorescenze saline e microbiologiche, eseguita sia con mezzi meccanici che chimici, una capillare rimozione delle stuccature cementizie, resa possibile nelle zone ove si sovrapponeva alla pellicola pittorica dall'impiego di strumenti di precisione, e infine una ragionata reintegrazione delle lacune prodottesi per l'erosione dello strato superficiale, hanno permesso di riacquisire e riproporre alla godibilità dei visitatori una delle pagine più eloquenti e brillanti prodotte dall'immaginario paleocristiano relativamente alla concezione della vita oltremondana. L'intervento di restauro è stato anche l'occasione per osservare a distanza ravvicinata questa preziosa testimonianza artistica. Dal punto di vista tecnico si sono potute apprezzare alcune peculiarità esecutive, così rare nel repertorio della pittura catacombale. Per la decorazione parietale è stata impiegata una tecnica mista, tra affresco e pittura alla calce, con colori particolarmente liquidi e trasparenti per le ampie campiture, ottenendo un effetto di leggerezza e freschezza, e colori piuttosto densi e pastosi per la realizzazione dei particolari decorativi. Nella gamma cromatica, piuttosto ristretta e limitata ai consueti Cinabro (un rosso), Vermiglione (una sorta di arancio), terra verde e nero di carbone, si nota la presenza della cosiddetta "fritta di Alessandria", un pregiato e costoso pigmento azzurro; la cromia si amplia ulteriormente proprio grazie alla stesura sovrapposta dei vari

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pigmenti e all'impiego delle differenti tecniche esecutive. Altra peculiarità riguarda la tecnica adottata per l'organizzazione preliminare dello spazio in cui eseguire la composizione:  oltre alla usuale presenza di incisioni, in questo caso limitate alla funzione di linee guida delle iscrizioni onomastiche associate ai personaggi, è stato possibile rilevare l'insolito impiego di un reticolato ottenuto a spolvero funzionale all'armonica disposizione dei vari elementi vegetali all'interno dell'ampio spazio bianco. Non è possibile sorvolare sulla resa dei volti, molto accurata e particolareggiata; quello rimasto maggiormente apprezzabile è il viso di Dionisia. Ben marcate appaiono le linee costruttive degli occhi, del naso e della bocca, mentre la volumetria delle guance e del mento è ottenuta grazie a sfumate ombreggiature che, unitamente al lieve dischiudersi delle labbra e allo sguardo leggermente rivolto verso l'alto, contribuiscono ad assegnare al volto una velata espressione melanconicamente sognante. Particolarmente curata risulta anche la resa dell'elaborata capigliatura, composta da due bande laterali, profondamente e simmetricamente ondulate, sormontate da una treccia molto alta che corona il capo. Le acconciature maschili risultano molto più semplici, corte e composte, con scriminatura laterale e breve frangia, ben aderenti al capo da cui sporgono i lobi delle orecchie.

L'alto livello tecnico-esecutivo, la ricchezza e lussuosità degli abbigliamenti dei personaggi effigiati, la tipologia dell'ambiente, particolarmente ampio, munito di lucernario e con un numero limitato di sepolture, la localizzazione in un'area esclusiva e molto ambita della catacomba di San Callisto per la prossimità

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con la cripta dei Papi, uno dei luoghi più venerati di tutto il cimitero, e in una zona ove furono poste altre sepolture papali tra la fine del iii e l'inizio del iv secolo, sono tutti elementi che aiutano a riconoscere nei personaggi oranti gli appartenenti a una classe piuttosto elevata e abbiente della società romana del tempo.

Rispetto alle più antiche rappresentazioni di defunti diffuse nelle catacombe romane, generalmente più genericamente allusive a una aspettativa verso una vita oltremondana serena, pienamente appagata e permeata da un'intima gioiosità, l'affresco di San Callisto denuncia, invece, una evidente e fortemente sentita esigenza dei committenti di perpetuare la propria memoria ai posteri; tale tendenza, riscontrabile anche in altri monumenti coevi, è stata recentemente interpretata come sintomo per un attaccamento quasi inconsapevole alle tradizioni funerarie precedenti, tanto più sentite e sostenute dagli appartenenti alla classe sociale individuata.

L'immagine episcopale nell'arte cristiana dei primi secoli

E il vescovo entrò nell'immaginario

di Fabrizio Bisconti

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Tra il II e il III secolo, la personalità del vescovo comincia a emergere anche a Roma, provocando, a livello monumentale, un intimo intreccio tra i temi dell'autorappresentazione e, dunque, della creazione di un vero e proprio immaginario episcopale, e quello, pure fondamentale della committenza, che, com'è intuitivo, si allungherà sino al medioevo. Alle origini, le due questioni furono poco giudicabili dal punto di vista iconografico e persino il gesto forte, come quello che condusse, ancora nel III secolo, alla creazione della Cripta dei Papi a San Callisto, nel cuore del cimitero ufficiale della chiesa di Roma, parla una lingua piuttosto monumentale che decorativa se, come si è appreso dagli esiti delle ricerche più recenti, il primo sacrario pontificio, concepito tanto precocemente, comporta l'impianto di un semplice e sobrio cubicolo doppio, appena decorato da linee rosso-verdi e, presumibilmente, da elementi non proprio diversi

da quelli che decorano i cubicoli circostanti del cimitero. Il gesto, comunque, traduce in maniera monumentale quel delicato passaggio dalla chiesa di tipo collegiale e presbiteriale di ascendenza giudaica a quella episcopale che, a Roma, sembra strutturarsi - secondo quanto Manlio Simonetti ha desunto dalle fonti più antiche:  dal

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Pastore di Erma alla lettera di Clemente - proprio nel corso del III secolo. Se la chiesa di Roma, insieme a quella di Alessandria, approda abbastanza tardi al sistema episcopale monarchico, forse per il carattere multietnico della comunità internazionale e poco coesa nelle tradizioni, per lo più africane e orientali, e sconnessa dalle frange rigoriste di Ippolito e di Sabellio, che erano entrati nel merito della visione cristologica di Zefirino e Callisto; se, dunque, la creazione della prima Cripta dei Papi tiene conto di una sequenza episcopale, occorrerà riflettere sulla scelta certamente cristiana, direi neutrale dei programmi decorativi selezionati proprio per questo monumento eccellente, ma anche per i cosiddetti cubicoli dei sacramenti, per le cripte di Lucina nonché per il misconosciuto cubicolo di Orfeo, sempre nel cuore del comprensorio callistiano. Qui il passato e il presente si incontrano, recuperando, o meglio, non abbandonando il repertorio ordinario dei pictores imaginarii, che cautamente inseriscono scene bibliche e personificazioni augurali in contesti di collaudata tradizione e di estrazione profana. Questa prassi, tanto cara alla cultura romana di carattere aulico, direi aristocratico, ben si addice alla classe selezionata della più alta gerarchia della Chiesa, proiettandosi nel tempo, sino alla tetrarchia, sino alle soglie dell'età costantiniana, laddove si colloca l'impianto, sicuramente episcopale, del complesso teodoriano di Aquileia. Ebbene, la singolare basilica doppia, o tripla per essere più precisi, è "siglata" da quel Teodoro, che, con il diacono Agatone, prese parte allo storico concilio arelatense del 314. Il vescovo di Aquileia, pur vigilando sul grande cantiere basilicale, può essere stato affiancato da un volitivo entourage ecclesiastico e anche

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civile. Lo suggerisce la stretta parentela iconografica e stilistica tra i mosaici pavimentali della basilica e quelli dei triclini delle domus più o meno limitrofe e coeve, un tempo definiti "oratori cristiani". Anche ad Aquileia, i temi cristiani (Giona e buon pastore) si innestano come cunei in un contesto ancora neutrale. Questa ampia domus episcopale, sontuosamente decorata e strutturata, come quella sicuramente costantiniana di Treviri, accoglie un repertorio iconografico selezionato direttamente dal presule della città altoadriatica e dal suo entourage. Complessivamente, comunque, i vescovi, che vivono all'ombra dei costantinidi e anche quelli che si trovano a confrontarsi con gli "ultimi pagani", propongono, secondo una strategica e sotterranea polemica anticesarea, delle risposte monumentali e decorative analoghe a quelle manifestate dalla corte imperiale e dai potentiores dell'aristocrazia romana. Così, anche nell'ultimo vivace scorcio del IV secolo, i vescovi parlano la stessa lingua degli auctores pagani, usano gli stessi stratagemmi retorici, aderiscono ai medesimi programmi monumentali, elaborano piani decorativi degni della più enfatica iconografia aulica. E anche l'ambizioso piano "agiografico" di Papa Damaso (366-384),

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così simile a quello ambrosiano, non elabora un programma figurativo rivoluzionario e, anzi, affida le sue imprese di monumentalizzazione a pochi gesti strutturali e ai solenni epigrammi dedicati ai martiri sepolti nel suburbio romano. Non un segno dell'evocazione figurata di questi campioni della fede:  tutto confluisce all'interno di quelle lastre confezionate da Furio Dionisio Filocalo. Tutta l'attenzione dei fedeli si arresta dinnanzi a quei versi recitati, quasi intonati, da qualche presbitero addetto alla visita guidata dei santuari, dove le flebili lame di luce lanciate dai lucernari e dai lumi a olio colpiscono ora la tomba, ora l'epigrafe d'apparato, ora le fessure delle transenne. E Damaso, che è l'architetto di questi organismi sobri, inventati per immaginare il santo, piuttosto che per riconoscerne il volto, sta un passo indietro, insieme a una committenza privata che lo aiuta economicamente per assicurarsi una postazione ravvicinata del proprio sepolcro, rispetto alla tomba del martire. Il pontificato di Damaso, l'episcopato di Ambrogio, quello di Paolino di Nola, quello di Severo di Napoli inaugurano, proprio sul crinale tra il IV e il V secolo, una stagione frenetica, dove le idee si intrecciano con quelle di Sulpicio Severo, di Agostino, di Girolamo, di Rufino e quando spuntano i cantieri più complessi, frutto di un pensiero comune o in continuo confronto. Dapprima sembra prevalere e proseguire quel "vuoto figurativo", che aveva caratterizzato i primi secoli, ma poi avvertiamo i primi segnali di una "rappresentazione episcopale" esplicita nella celebre lettera che Paolino fece giungere - per il tramite di Vittore - all'amato Sulpicio Severo, affinché confrontasse le idee architettoniche, iconografiche ed epigrafiche, che si stavano definendo nel cantiere, sempre aperto, di Cimitile e nell'altro, appena avviato, di

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Fondi, con quelle che avevano ispirato la costruzione del complesso di Primuliacum. È qui, che si apre un singolare problema iconografico, quando si affronta la questione relativa alla decorazione del nuovo battistero di Primuliacum, per la quale Sulpicio aveva richiesto il ritratto di Paolino, da riprodurre a fianco di quello di Martino. L'audace accostamento, seppure deplorato dal vescovo di Nola, non doveva impressionare chi, di lì a poco, avrebbe potuto ammirare il ritratto di Ambrogio, insieme a quello di Materno, tra le effigi dei martiri milanesi di San Vittore in Ciel d'Oro. Sono questi i tempi, d'altra parte, della nuova stagione ritrattistica in Occidente, che tocca le punte più alte con le celebri effigi della cripta napoletana dei vescovi, prime fra tutte quelle di Giovanni I e Quodvultdeus, già nel V secolo. La figura del vescovo entra prepotentemente negli apparati decorativi delle cappelle episcopali, dei martyria, delle basiliche, proponendo tutto lo spettro della sancta imago di ascendenza filosofica, nella versione della figura stante, del mezzo busto e dell'apoteotica imago clipeata. Ed è questo ultimo espediente - il più fortunato e il più collaudato tra le effigi d'epoca - a travalicare la tarda antichità per moltiplicarsi all'infinito nelle interminabili serie episcopali e pontificie, prima fra tutte quella leonina di San Paolo fuori le Mura. Qui l'autorappresentazione diviene storia e l'effige del vescovo rappresenta l'ultimo anello di una catena che, da un lato, vuole autenticare l'intervento decorativo pontificio e, dall'altro, vuole raccontare la successione naturale delle figure, che hanno fatto brillare la chiesa di Roma. E mentre le teorie dei clipei episcopali sfilano nelle navate delle basiliche napoletane e romane, i vescovi siglano dei veri e completi programmi decorativi, passando, con disinvoltura, dall'autorappresentazione

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alla committenza architettonica dei più prestigiosi edifici di culto. In questo senso, è ancora Paolino di Nola a stupirci, quando racconta il festoso ritorno a Cimitile di Niceta di Remesiana, nel 403, tre anni dopo il suo primo soggiorno nel santuario di San Felice, come per diffondere la fama delle nuove costruzioni del complesso oltre i confini dell'Occidente (Carmina, 27). Il respiro internazionale del pellegrinaggio feliciano è curato da Paolino nei minimi particolari, sino a descrivere i dettagli del programma absidale della basilica nova, ma anche quello della perduta cattedrale di Fondi, secondo lo stesso spirito che animò il pensiero del presule partenopeo Severo, che, con tutta probabilità, dovette apprestare il programma musivo di San Giovanni in Fonte e quello absidale della basilica severiana. E quanto succede nelle nobili diocesi napoletane doveva capitare, con maggiore ragione di causa, nell'Urbe, proprio nei primi anni del V secolo, poco prima o durante lo shock del 410. Dalle ombre lunghe di quel disastro emerge il mosaico inquietante della basilica innocenziana di Santa Pudenziana, dove un'ondata apocalittica sembra infrangersi sulla città del giudizio, presieduta da un Cristo severo, che ha tra le mani un codice, che suggerisce l'antichità, la dignità, la valenza del titulus Pudentis, dichiarando il Cristo rex, imperator e iudex come Dominus conservator ecclesiae Pudentianae, come per proiettare la Roma di Innocenzo I (401-417) verso quella comunità ancora frazionata in tituli decentrati, che facevano capo a piccoli gruppi di fedeli, ancora nei primi due secoli dell'era cristiana. E se la basilica del vicus Patricius ci parla di un'operazione retrospettiva, che si scontra con l'intimidente avvento della lingua apocalittica, di lì a un ventennio, all'indomani del concilio di

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Efeso del 431, pure traumatico dal punto di vista dogmatico, un altro vescovo costruttore e decoratore, Sisto III (432-440), ancora sull'Esquilino, innalza il "monumento boa" per l'arte paleocristiana d'Occidente, che chiude il capitolo della tarda antichità e apre le porte all'argomento oramai collaudato dell'Apocalisse, ma anche a quello, nuovo e bizzarro, degli scritti apocrifi. La novità del progetto decorativo non sta tanto nella definizione di questi due nuovi filoni tematici, né in quella assodata concordia testamentaria, che unisce la fitta sequenza veterotestamentaria delle navate all'inaspettata novella dell'infantia Salvatoris, proiettata sull'arco, ora trionfale, di Santa Maria Maggiore. L'imbarazzo si addensa proprio nello zenit di questo arco che, intanto, accoglie il cumulo apocalittico attorno all'inedita figura dell'etimasìa, proiettata come con un disco di luce nel luogo più attraente del manifesto musivo di Efeso e che, poi, in caratteri maggiorati, dispiega quella sintetica iscrizione d'apparato:  Xystus episcopus plebi Dei, che rimbomba come un tuono e che funge da vero glutine di tutto quel formicolare di scene, figure, simboli, allusioni e cifre dogmatiche. Quella esplicita "autentica pontificia" ci accompagna a ritroso nel tempo, verso le più autentiche radici della comunità cristiana di Roma, dove emerge il confronto duale del populus, inteso come plebs Dei o Christi e l'ordo, il clerus, con il suo cursus, che già, secondo il concilio di Serdica (343-344), conosce diversi interstitia, che per l'honor e la dignitas, conducono l'homo ecclesiasticus al rango di summus sacerdos, il ministro che ha la funzione di vegliare sul popolo di Dio, insegnare e amministrare i sacramenti, ma anche il prescelto della plebs Dei, secondo quanto ricorda Leone Magno:  "Chi

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dovrà essere proposto a tutti dovrà essere eletto da tutti". Leone Magno (440-461) dunque, il vescovo più impegnato della tarda antichità nel risollevare una città provata da ben due carestie negli ultimi venticinque anni del IV secolo (376, 384), dal devastante sacco del 410, dalla invasioni di Genserico nel 455, dai fenomeni della mendicità e della xenofobia, a cui egli cerca di provvedere con l'istituzione del soccorso, della carità, della colletta cristiana, ma anche e ancora con l'uso dell'immagine nella predicazione. Nel sermone per l'epifania del 443 (33) l'esegesi della Scrittura corre sul filo delle immagini stesse della pagina biblica, consegnando all'uditorio un vero e proprio programma iconografico, che sembra corrispondere con i quadri dell'arco di Santa Maria Maggiore. Qui il cerchio si chiude e i temi dell'autorappresentazione e della committenza convivono e derivano dal pensiero dei vescovi romani che, di lì a pochi anni, vestiranno i sacri panni dell'"architetto" degli edifici di culto, sostenendo il modellino delle chiese da loro promosse ed edificate, come trofei della loro potentia:  così Papa Felice IV (526-530) nell'abside dei Santi Cosma e Damiano al Foro romano, monumento-cerniera tra la possente tradizione romana e l'incipiente linguaggio orientale; così, molti anni dopo, Pasquale I (817-824), nel remake dell'abside della basilica di Santa Prassede.

L'ingresso di Cristo a Gerusalemme e la conversione del pubblicano di Gerico nell'arte paleocristiana

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Sugli alberi per vederci meglio

di Fabrizio Bisconti

Con la svolta costantiniana, l'arte elaborata dagli artifices cristiani e, in particolare, quella prodotta negli ateliers romani, dove si scolpiscono i sarcofagi per l'aristocrazia dell'Urbe, che aveva abbracciato la nuova dottrina, propone manifestazioni auliche, improntate al clima di tolleranza inaugurato con l'editto di Milano, ma pure influenzate da una sorta di emulazione del cerimoniale imperiale, replicato per una latente vena polemica anticesarea che attraversa, anche nel più sereno frangente della pace, il pensiero della comunità cristiana. In questo orizzonte figurativo caratterizzato da un'atmosfera trionfale può essere calato il tema gioioso dell'ingresso di Cristo in Gerusalemme, che proprio negli anni centrali del iv secolo trova le manifestazioni più definite sulle fronti dei sarcofagi romani e anche in un riquadro del sarcofago più celebre dell'arte paleocristiana, quello del prefectus Urbi Giunio Basso, morto e sepolto a Roma nel 359. L'ingresso messianico del Cristo a Gerusalemme (Matteo, 21, 6-9; Marco, 11, 4-11; Luca, 19, 32-38; Giovanni, 12, 14-16) viene scolpito su questo e su altri sarcofagi - circa una ventina - conservati a Roma e negli altri centri del Mediterraneo, secondo un'enfasi e uno schema iconografico che, come si anticipava, si

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modella sull'adventus imperiale, con il preciso intento di contrapporre all'imperatore in trionfo la figura del Christus rex. Per questo motivo, nelle rappresentazioni, vengono tralasciati alcuni particolari, come la ricerca dell'asina e del puledro da parte degli apostoli, per fotografare il momento culminante del racconto, quando il Cristo, vestito di tunica e pallio, monta l'asina, facendo il largo gesto della parola, attorniato dagli apostoli e da un giovane che stende il mantello dinanzi a Gesù, mentre, talvolta, un asinello galoppa tra le zampe della madre, in perfetta coerenza con il racconto di Matteo: "Quando furono vicini a Gerusalemme (...) Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: "Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un'asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me" (...) condussero l'asina e il puledro (...) ed egli vi si pose a sedere. La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via" (Matteo, 21, 6-9). L'ingresso trionfale - come si diceva - sembra annunciato da una prefigurazione messianica, per sottolineare il carattere pacifico e umile del regno del Cristo: "Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina, con un puledro figlio di bestia da soma" (Matteo, 21, 5), che allude a Isaia, 62, 11 e a Zaccaria, 9, 9. Con l'andar del tempo, sullo scorcio del iv secolo, in età teodosiana, ancora a Roma, vennero concepiti alcuni sarcofagi scolpiti con scene cristologiche, disposte secondo una stessa sequenza, che sistema, al centro, la guarigione del paralitico presso la piscina probatica e per questo definiti

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"sarcofagi di Bethesda". Ebbene, nei settori a destra della fronte viene riproposto l'ingresso di Cristo in Gerusalemme secondo il consueto adattamento e recupero delle epifanie imperiali e, in particolare, di quelle rappresentazioni che ritraggono l'imperatore a cavallo, accolto da una folla acclamante davanti a una porta della città. Accanto a questa scena, o assemblata a essa, si riconosce un episodio gustoso, legato alla chiamata di Zaccheo, riferita unicamente da Luca (19, 10) e ambientata nella città di Gerico: "Entrato nella città di Gerico Gesù attraversava la città. Ed ecco che un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse e salì su una pianta di sicomoro (...) Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, poiché oggi devo fermarmi a casa tua". In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò mormoravano: "È andato ad alloggiare da un peccatore". Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: "Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto". Gesù gli disse: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo, il figlio dell'uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto"". La letteratura patristica, riguardo a questo episodio, riflette specialmente sulla condizione del peccatore del nostro personaggio; così Tertulliano nell'adversus Marcionem (4, 37), Agostino in alcuni sermoni (14; 25; 39; 113; 174) e Cipriano che, in un'epistula, considera Zaccheo il

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prototipo del pagano convertito e del peccatore che viene salvato (43, 4, 2). Più in dettaglio, torna sull'argomento Ambrogio nell'Expositio in Lucam, dove Zaccheo viene esplicitamente definito typus populi gentilis, rispetto all'emorroissa considerata ecclesia ex gentibus (6, 59). Le scene della chiamata di Zaccheo e dell'ingresso di Cristo nei "sarcofagi di Bethesda" devono essersi attratte a vicenda per analogia di elementi e non di situazione o di significato. In ambedue i casi, infatti, la scena comporta la presenza di alberi e di uno o più personaggi qui arrampicati. L'unione delle due raffigurazioni si protrarrà nel tempo se si può riscontrare anche in una formella eburnea della cattedra del vescovo di Ravenna al tempo di Giustiniano. Le vivaci scene dell'ingresso in Gerusalemme e della chiamata di Zaccheo animano l'immaginario letterario, che attraversa tutta la civiltà paleocristiana, sino a toccare quello agiografico, come dimostra una efficace similitudine che Ponzio ideò per rendere la partecipazione della folla cartaginese al martirio di Cipriano: "Mentre usciva fuori dal Pretorio, lo accompagnava una gran quantità di soldati e, perché nulla mancasse alla sua passione, centurioni e tribuni gli stavano a fianco. Il luogo dove subì il martirio è una valle che offre un bello spettacolo, con alberi da ogni parte. Poiché l'ampiezza del luogo e la calca della folla disordinata impedivano la vista, alcuni dei fedeli erano saliti sui rami degli alberi, perché a Cipriano neppure questo fosse negato, di essere visto dall'alto degli alberi, come aveva fatto Zaccheo"

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(Vita Cypriani, 18, 1).

Il mistero dell'Incarnazione nei Padri e nell'arte bizantina

Il paradosso di una piccola città

di Alessandro Scafi

Il Signore, il cui volto non si poteva vedere senza morire, e il cui nome gli ebrei non volevano nemmeno pronunciare, si è fatto carne nel seno di una donna, diventando un uomo. Su questo paradosso scriveva nel IX secolo Teodoro Studita, il monaco di Costantinopoli che avversava la politica iconoclasta dell'imperatore bizantino Leone v:  "l'Inconcepibile viene concepito nel grembo di una Vergine; l'Incommensurabile si fa alto tre cubiti; l'Inqualificabile acquista una qualità; l'Indefinibile si alza, si siede e si corica; e l'Incorporeo entra in un corpo". L'arte di rappresentare il Figlio di Dio è proprio fondata su questa antinomia fondamentale del credo cristiano:  il Verbo che si fa carne, un Dio assolutamente Altro e intimamente presente che esiste prima del tempo e oltre lo spazio, ma che poi nasce nel tempo, duemila anni fa, e nello spazio, in Giudea. I cieli non possono contenerlo, ma il mistero di Dio viene contenuto nel

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grembo di Maria. Nel V secolo Cirillo di Alessandria così formulava il paradosso della fede cristiana:  "Riconosciamo che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, è perfettamente Dio e perfettamente uomo, generato prima dei secoli dal Padre secondo la divinità; nato dalla vergine Maria secondo l'umanità". La Chiesa dei primi secoli è giunta alla contemplazione del mistero trinitario e dell'incarnazione soffrendo eresie e organizzando concili, attraverso un lungo travaglio teologico. Origene, il pensatore alessandrino che scrisse poderose opere in difesa del cristianesimo, confessava già nel III secolo il suo disagio intellettuale di fronte all'idea di un uomo-Dio:  "Accade che, di fronte a taluni aspetti umani, simili alla nostra fragilità di mortali, e, nello stesso tempo, ad altri divini, di nessun'altra propri se non di una natura superiore ed ineffabile; accade, dicevo, che la miseria dell'intelletto umano, sbalordita e sconcertata al cospetto di un fenomeno così straordinario, si trovi in imbarazzo e non sappia verso qual partito orientarsi, cosa concludere, dove dirigersi. Se, infatti, vogliamo riconoscere di trovarci dinanzi a

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Dio, ecco che, allora, ci imbattiamo nei suoi caratteri mortali; allorché, invece, lo riteniamo come un uomo, eccolo ritornare dai morti con tutto il suo corpo, dopo aver abbattuto la signoria della morte". Le eresie cristologiche dei primi secoli costituiscono in realtà una tentazione perenne per i cristiani di tutte le epoche:  sottolineare l'umanità di Cristo per mettere in ombra la sua divinità oppure sottolinearne la divinità, trascurando la sua umanità. Anche gli artisti, che erano chiamati a esaltare il divino nell'uomo e l'uomo in Dio, oscillavano nella loro immaginazione tra un Cristo divinizzato, trascendente e pantocratore, ed un uomo storico, Gesù di Nazaret, il profeta crocifisso della Galilea. Anche questo imbarazzo dell'arte cristiana ci dice quanto l'umano sia intrinsecamente legato al divino ed il divino definitivamente compromesso con l'uomo. Tutta l'iconografia cristiana si fonda sul mistero dell'Incarnazione. Così scriveva nell'VIII secolo Germano, patriarca di Costantinopoli:  "In memoria perenne della vita nella carne del nostro Signore Gesù Cristo(...) noi abbiamo ricevuto la tradizione di rappresentarlo nella sua forma umana, cioè nella sua teofania visibile, ben sapendo che in questo modo esaltiamo l'umiliazione del Verbo di Dio". Giovanni Damasceno, domandandosi perché nell'Antico Testamento vi fosse la proibizione di dipingere immagini sacre, rispondeva che allora non si conosceva l'incarnazione. Una volta però che l'incorporeo si è fatto uomo, cioè Cristo si è incarnato, Dio può essere dipinto. Anzi, proprio vedere la sua forma umana equivale alla salvezza. Giovanni di Damasco riconosceva che il mistero dell'incarnazione aveva reimpostato totalmente i rapporti tra Creatore e creature, Dio e

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uomini, spirito e materia:  "Dio, senza corpo né forma, non poteva in nessun modo essere rappresentato. Ma oggi, da quando è apparso nella carne e ha vissuto in mezzo agli uomini, posso rappresentare ciò che è visibile in Dio". Dipingere il volto di Cristo era allora rappresentare l'oggetto della fede. Eppure il paradosso rimaneva, perché il divino conserva sempre la sua trascendenza e il suo mistero. Così si esprime il vii Concilio di Nicea, del 787:  "Sebbene la Chiesa cattolica rappresenti con la pittura Cristo nella sua forma umana, essa non separa la sua carne dalla divinità che vi si è unita:  al contrario, crede che la sua carne è deificata e la confessa una con la divinità". Questa carne deificata del Verbo ha investito di energia sacra tutta la materia, saldando divino e umano, effimero ed eterno. La santità di quel corpo si è comunicata al creato, divenuto allora sacramento della sua presenza. L'arte cristiana celebra proprio questa bellezza del cosmo riflessa nel Verbo, questo corpo che trabocca di energia divina. Un grande interesse assume in questo contesto l'arte delle icone, il cui splendore si è sviluppato in intimo legame con l'arte bizantina, dal IV al XV secolo. Le icone sono immagini sacre rappresentate su tavola. Lo scopo di quest'arte, la cui tecnica prevede la graduale sovrapposizione dei colori, a partire da quelli più scuri, fino a giungere alla luce, è quello di ristabilire nel fedele la dignità e la bellezza originaria della sua icona interiore. Per chi dipinge o per chi contempla un'icona, infatti, si rivela il mistero dell'Incarnazione e della trasfigurazione della materia, in un dialogo che coinvolge la totalità della persona. Il Figlio di Dio è rappresentato nelle icone in un'umanità concreta

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ma universale, capace di raccogliere in sé tutti gli uomini, proprio perché indissolubilmente legata alla divinità che trascende tutto. Per questo il suo volto non è fissato in un atteggiamento naturalistico, ma è ampliato all'infinito, e può rivelare la più intima struttura dell'essere. Uno studioso di icone russe, Romano Scalfi, ha parlato di "unità dell'immanente e del trascendente", di "esaltazione dell'umano" e "venerazione del divino". A suo avviso, non c'è nell'icona un equilibrio faticoso tra umano e divino ma una vera e propria "sinfonia". Il miracolo dell'icona riflette allora il miracolo quotidiano di una vita che si trasfigura continuamente. I cristiani possono "unire la natura creata con l'energia deificante increata", per usare le parole di Massimo il confessore. Ma questo è possibile proprio grazie al paradosso dell'incarnazione. Nel 1938 una commedia trionfava a New York, la Piccola città, garantendo al suo autore, lo statunitense Thornton Wilder, il premio Pulitzer. Alla fine del primo atto, due personaggi, George e Rebecca Gibbs parlano di una lettera spedita dal pastore della piccola cittadina di Grover's Corners ad una parrocchiana ammalata. Sulla busta il parroco aveva scritto l'indirizzo della sua parrocchiana:  "Jane Crofut - Fattoria Crofut - Grover's Corners - Contea di Sutton, New Hampshire - Stati Uniti d'America - Continente dell'America Settentrionale - Emisfero Occidentale - Terra - Sistema solare - Universo - Mente di Dio". L'indirizzo collegava in uno strano crescendo una convalescente di un'oscura cittadina di provincia alla Mente di Dio. E, almeno nella finzione teatrale, la lettera è stata recapitata. La connessione è possibile anche nella realtà, appunto perché il Signore degli angeli è stato partorito.

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Personaggi singolari nelle scene dell'«Infantia Salvatoris»

L'uomo che indica la stella

di Fabrizio Bisconti È significativo che accanto alla commovente immagine della natività dipinta, nella prima metà del III secolo, nelle catacombe romane di Priscilla, compaia la singolare figura di un personaggio che indica una stella e che, in tale personaggio, alla luce delle più recenti acquisizioni iconografiche, sia stato riconosciuto un profeta. È ancora più significativo constatare che si tratta di un unicum nell'arte delle catacombe e che, anzi, quel personaggio compaia anche isolato, fuori da ogni contesto narrativo, assurgendo a simbolo della profezia messianica. Nel corso del IV secolo, vari personaggi con un simile atteggiamento appaiono negli affreschi dei cimiteri cristiani di Roma e, segnatamente, nelle catacombe dei santi Marco e Marcelliano, dei santi Marcellino e Pietro, di santa Tecla, di Ciriaca. L'immagine significativa compare nell'ipogeo di diritto privato, scoperto nel 1955 sulla via Latina e riferibile alla seconda metà del IV secolo. Il personaggio veste la tunica clavata e un ampio pallio raccolto dignitosamente dalla mano sinistra, mentre con la destra indica un astro a otto punte. L'immagine sembra alludere, a un primo impatto, alla profezia di Balaam e, in particolare, al suggestivo versetto dei Numeri, che annuncia:  "Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele" (24, 17-18). Ma non è mancato chi ha legato la figura a Isaia, in

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riferimento alla profezia, che recita:  "Ecco:  la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele" (7, 14).

Altri hanno pensato a un accenno alla profezia di Michea "E tu, Bethlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele" (5, 1-4). Non è mancata una suggestiva ipotesi che lega la figura al re David e, particolarmente, ai Salmi (109, 3) laddove si proclama "Dal grembo, prima della stella del mattino, ti ho generato". Quest'ultimo salmo è assai considerato dall'esegesi patristica più antica ed è interpretato, oltre che come

annuncio della generazione del Lògos, anche come profezia della incarnazione. È, forse, per questo che l'immagine dell'uomo che indica la stella entra anche nelle scene di presepe o dell'adorazione dei magi. Esemplare, in questo senso, il corredo figurativo inciso sull'epitaffio marmoreo della defunta Severa, proveniente presumibilmente dalle catacombe di Priscilla e ora conservato al Museo Pio Cristiano. La lastra, riferibile agli ultimi anni del III secolo, propone, innanzi tutto, il testo laconico, ma estremamente suggestivo per la componente augurale:  Severa in Deo vivas.

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Attorno all'iscrizione si organizza l'apparato figurativo, a cominciare da sinistra, dove si incontra il busto-ritratto della defunta in tunica e palla, con il capo scoperto e acconciato a boccoli allineati, con orecchini ad anello e il rotolo tra le mani, all'altezza del petto, che infonde alla figura un aspectus filosofico. I tratti del volto, estremamente espressionistici, ci accompagnano, come si diceva, verso l'età tetrarchica. Subito dopo l'iscrizione, si svolge, sulla destra, una figurazione piuttosto complessa, con i tre magi vestiti all'orientale che procedono verso la Madonna, solennemente seduta su un trono vimineo dall'alta spalliera, con il bambino sulle ginocchia. Tra i magi e la Madonna, in alto, è incisa una stella con tondo centrale e cinque punte, verso cui indica un personaggio con la mano destra. Si tratta del medesimo "uomo biblico" sinora considerato e assume la posizione, la gestualità e l'impostazione del profeta che, additando l'astro, vuole annunciare la venuta del Messia. La scena, nel complesso, desidera esprimere, intanto, la valenza cristocentrica dell'arte primitiva, ma anche la congiunzione dell'Antico e del Nuovo Testamento, suggerendo, in un unico quadro, la profezia messianica e l'attuazione della stessa, rispondendo, così, alle polemiche cristologiche che si stavano consumando, proprio nello scorcio del III secolo, a Roma e in tutto il mondo cristiano. Per molto tempo, il personaggio che indica la stella è stato riconosciuto come Giuseppe, ma la critica iconografica ha escluso la presenza del padre putativo di Gesù nelle più antiche rappresentazioni dell'Infantia Salvatoris, almeno sino al V secolo, quando gli scritti apocrifi (vangelo dello pseudoMatteo, protovangelo di Giacomo, Storia di Giuseppe il falegname) entrarono nell'immaginario delle comunità cristiane,

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sino a ispirare alcune, pur rare, rappresentazioni artistiche. Per il periodo più antico, invece, anche alcuni personaggi che compaiono nell'ambito delle scene di presepe, pure complesse e ricche di figure, vanno ricondotti alla personalità dei pastori e possono essere riferiti al momento della loro adorazione. L'unica fonte che rievochi questo episodio è il vangelo di Luca, il cui resoconto, così dettagliato, trova espressione e sintesi nell'arte paleocristiana e, segnatamente, in un coperchio di sarcofago del Museo Pio Cristiano, riferibile al pieno IV secolo. Qui, si assiste all'adorazione congiunta dei Magi e dei pastori, anche se questi ultimi sono sintetizzati da un unico personaggio in tunica corta, ritratto presso la mangiatoia, dove il bambino è scaldato dal bue e dall'asino, mentre, in alto, risplende una stella. Ma il luogo lucano è seguito alla lettera, talché la Madre è rappresentata seduta, affranta, in una riflessione intima e silenziosa; anche in questo caso, è assente Giuseppe, mentre sono presenti i Magi, quasi per riprodurre - secondo il dibattito patristico del tempo - le due estremità della società umana. Il concetto sarà perfezionato, nel tempo, dallo splendido Sermone sull'Epifania (PL, 65, 733), dove Fulgenzio riconosce nei pastori i rappresentanti dei Giudei e nei Magi quelli dei pagani, che, poi, non sono altro che due pietre per la costruzione dello stesso edificio. Il piccolo "popolo" dei personaggi, più o meno enigmatici o, comunque, difficilmente decodificabili, costruisce gradualmente l'iconografia del presepe, da cui sembra assente, in un primo momento, Giuseppe, lo sposo della Vergine, che, pure, presentato dai vangeli di Luca (3, 23-38) e di Matteo (1, 2-16) come "uomo giusto", israelita perfetto, giudeo modello e attento esecutore della volontà di Dio, ebbe certa fortuna nella letteratura patristica, specialmente in funzione

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del suo ruolo di padre putativo del Signore e di elemento provvidenziale del disegno della redenzione. Di lì a qualche tempo, d'altra parte, anche la figura disattesa di Giuseppe entrerà ufficialmente nel repertorio figurativo cristiano, ora con gli attributi del faber lignarius, ora nell'ambito di storie apocrife e di vere e proprie affabulazioni visionarie, come nel mosaico dell'arco trionfale di Santa Maria Maggiore, dove viene enfaticamente rappresentato l'episodio dell'annuncio dell'angelo al vecchio sposo di Maria, affidando umana dignità a una figura disattesa dagli artifices e sostanziando l'accostamento che propongono i Padri della Chiesa tra la figura di Giuseppe e quella degli apostoli, che "donano" Cristo ai gentili, con la stessa dinamica con cui i pastori, con il loro bastone ricurvo (comune anche a Giuseppe), guidano il gregge con dignità e potenza, come Davide, che assurge alla carica di re dall'umile condizione di pastore, da cui Giuseppe discendeva.

Chiesa e popolo secondo Eusebio di Cesarea Il "vescovo" che sconfisse MassenzioDal volume Laicità tra diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca a cura di Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalco (Roma, L'Erma di Bretschneider, 2009, pagine 236), che raccoglie gli atti del xiv seminario "Da Roma alla Terza Roma" pubblichiamo quasi integralmente il contributo del cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa.

di Raffaele Farina

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Eusebio esprime le sue idee sulla Chiesa in quasi tutte le opere, in modo particolare e più ampio nel Commento a Isaia e nel Commento ai Salmi. Egli non tratta del laicato, come tale, dei "laici" ma dà largo spazio a quello che egli chiama il popolo, "i popoli della Chiesa" (òi tès ekklesìas laòi), il "gregge", il "coro", e così via. La Chiesa, secondo Eusebio, è distinta in gerarchia e popolo. Il popolo, i fedeli, a loro volta, si distinguono in "illuminati in Cristo" e in quelli che sono "ammessi all'iniziazione". La gerarchia sale dai diaconi - e qui sta il primo grado di distinzione tra gerarchia e popolo - ai presbiteri, ai vescovi. La Chiesa, "fecondata dal fiume che è il Lògos, genera la moltitudine del popolo di Cristo". Eusebio distingue il popolo dalla Chiesa. Sembra che questa sia più che una distinzione verbale. Eusebio esprime questa distinzione, descrivendo il rapporto Chiesa-popolo come rapporto tra contenente e contenuto, isole e suoi abitatori; oppure come rapporto tra madre e figli o come rapporto tra comunità (koinonìa) e singoli che la compongono. Eusebio, come vedremo più avanti, distingue la Chiesa come istituzione, cioè la Chiesa come "città di Dio", dalla Chiesa come popolo. Da chi è formato il popolo della Chiesa? Il popolo della Chiesa è costituito dal "resto d'Israele", apostoli e discepoli di Cristo costituenti il nucleo giudaico della Chiesa primitiva, e inoltre dal popolo dei gentili. Quest'ultimo v'entra in prevalenza: la Chiesa viene detta perciò "Chiesa dalle genti", "Chiesa delle genti". Il popolo della Chiesa così come si distingue assolutamente dal popolo della sinagoga si distingue pure dal popolo delle genti

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come tali, dai gentili o elleni, dai quali pure esso proviene. Questa distinzione è detta con l'espressione "Chiesa nelle genti". Dalle genti sono venuti nella Chiesa quelli che ne difendono la dottrina (i vescovi) e gl'imperatori che respingono coloro che le preparano insidie. Un flusso continuo di genti nella Chiesa vi porta il fior fiore degli scienziati e sapienti, che ne saranno il decoro e la gloria; vi porta le persone che prima la bestemmiavano. Anche se la Chiesa è perfetta, senza macchia, il popolo della Chiesa è fatto di buoni e cattivi. I giusti (dìkaioi) si rassomigliano contemporaneamente alla palma, che ha una espansione verticale verso il cielo, verso Dio, e al cedro, che ha un moltiplicazione orizzontale d'influsso e di salvezza sul prossimo. I non-perfetti (òi atelèsteroi) sono coloro che non attuano in sé completamente la doppia immagine della palma e del cedro, pur trovando anche essi posto nella Chiesa. Il popolo della Chiesa dunque è il popolo nuovo piantato nella Chiesa terrena, in cui vi sono buoni e cattivi, per fiorire poi nella Chiesa celeste, perfetta e senza macchia. La Chiesa terrena non è dunque definitiva, perché serve a uno scopo, raggiunto il quale, essa non ha più ragioni di esistere. In conclusione: il popolo della Chiesa si distingue dalla Chiesa stessa come istituzione terrena e questa, a sua volta, si distingue dalla Chiesa celeste. La "città di Dio" o "Gerusalemme celeste" è il tempio in cui Dio abita. I suoi cittadini sono i santi, i quali posseggono finalmente il Lògos. Essi sono detti "re", in quanto hanno conseguito nella "città di Dio" il Regno dei cieli e in quanto in essa regnano con Cristo; sono detti "sacerdoti", in quanto, sotto la guida di Cristo,

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principe dei sacerdoti, offrono doni a Dio in quel tempio celeste. La "città di Dio celeste" è il Regno di Cristo in atto in cielo, il Regno dei cieli, il Regno del Padre. La Chiesa invece, città di Dio terrena, è detta "Regno" in quanto è preparazione al "Regno dei cieli". Eusebio applica questa dottrina della Chiesa come immagine del Regno dei cieli in tre modi: 1) Cristo è capo e Re della Chiesa, il novello Ciro che ha edificato la nuova Gerusalemme. 2) I cristiani, suoi sudditi, sono, oltre che in cielo, anche nella Chiesa. Essi sono singolarmente immagine di Lui e collettivamente immagine del suo Regno in cielo. Essi sono il popolo regale, la corona e il diadema che il Padre ha posto sul capo del Figlio. Essi sono i soldati di Cristo Re vittorioso ai quali Egli ha dato come bottino il genere umano. 3) La Chiesa conserva i simboli del regno di Dio la croce cioè, strumento della conquista del Regno e le norme di vita secondo il Vangelo e l'eusebèia degli antichi cristiani, dei patriarchi. Nella descrizione delle due città, quella celeste e quella terrena, gli abitanti di essa, i cristiani, i fedeli, hanno caratteristiche regali e sacerdotali, che derivano loro dalla comune partecipazione al sacerdozio regale del Lògos-Cristo (come si esprime Eusebio). Mentre degli abitanti celesti, per dir così, si sottolinea il carattere "sacerdotale", di quelli terreni se ne mette in rilievo piuttosto quello "regale". La concezione della Chiesa e conseguentemente del popolo e della gerarchia di essa, così come emerge dal Commento ai Salmi e dal Commento ad Isaia di Eusebio - pur riferita a confronto con le altre opere del cesariense - non è del tutto in linea con il resto del pensiero eusebiano, soprattutto quello delle opere

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panegiristiche in onore dell'imperatore Costantino. Di ciò non si ha una spiegazione soddisfacente, a parte la considerazione sulla natura, l'indole e i destinatari, nonché i modelli cui fanno riferimento le due categorie di opere totalmente diverse. È necessario dunque dire una brevissima parola sulla posizione che Eusebio ha teorizzato per il più eminente dei fedeli - usare la parola laico è qui fuor di luogo - prima simpatizzante, poi "ammesso all 'iniziazione" e quindi "illuminato", per usare le espressioni sopra citate. Voglio dire di Costantino. È nota la controversa affermazione, riferita da Eusebio, rivolta dall'imperatore a dei vescovi, in occasione di un convito, quando dice loro: "Voi siete vescovi di quelli (o per gli affari) che sono dentro la Chiesa, io invece sono vescovo di coloro (o per gli affari) che sono fuori della Chiesa". Prescindiamo qui dalla storicità del pronunciamento e dal pensiero dell'imperatore in esso contenuto. Il compito di Costantino come epìskopos tòn ektòs si riferisce al campo statale-politico, dentro il quale il "vescovo" imperiale riesce a imporre comandamenti e concezioni di fede cristiana. Ai vescovi infatti e alla Chiesa mancano i mezzi legali e potenziali per trasformare questo ambiente statale-politico. L'imperatore quindi è "vescovo" non solo di quei sudditi dell'impero che stanno al di fuori della Chiesa, ma anche di quegli altri che come membri della Chiesa nello stesso tempo sono anche membri dello Stato romano e sudditi dell'imperatore, e perciò anche come cristiani sottomessi agli ordini e leggi statali. Epìskopos tòn ektòs non è una formula sanzionante la libertà della Chiesa. L'imperatore è sì "vescovo" costituito da Dio per ciò che è al di fuori della Chiesa; ma non nel senso, secondo

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concezioni moderne, di una progettata divisione di poteri tra Stato e Chiesa, nella quale divisione lo Stato sarebbe una potestà ordinatrice puramente secolare, separata dalla Chiesa. La pretesa è quella di una posizione di padrone non profana, fuori della Chiesa - parallela a quella dei vescovi dentro la Chiesa - un "ufficio di vescovo cristiano" per l'ambito che è fuori della Chiesa. L'imperatore, cristiano ante litteram, non-battezzato e non-ordinato è chiamato da Dio, secondo Eusebio, a coprire nel campo statale compiti cristiani e compiti vescovili: penetrare lo Stato dello spirito cristiano, dare una mano al cristianesimo per la vittoria sui culti pagani e far valere i comandamenti della fede cristiana su tutti i sudditi dell'impero. Poiché a far questo non sono capaci gli epìskopoi tòn èiso e la Chiesa ha bisogno dell'epìskopos tòn ektòs.

Per sant'Ambrogio quei barbari senza legge non erano la minaccia più seria

Macché Gog e Magog! Sono solo gli Unni

Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni pronunciate nel convegno "Ambrogio e i barbari" organizzato dall'Accademia Ambrosiana che si è tenuto a Milano nella Biblioteca Ambrosiana e nell'Università degli Studi.

di Luigi F. Pizzolato

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Qualcuno rinviene notizia degli Unni già in Erodoto, ma è probabile che questi parli di una popolazione genericamente scitica, che è stata da qualcuno identificata con gli Unni per l'assonanza linguistica, con un apparentamento agli Xiongnu (o Hsiung-nu), gruppo nomade stanziato nella Mongolia ai tempi della dinastia Han - dal 206 prima dell'era cristiana all'anno 220. Fino alla fine del quarto secolo le fonti sono avare di notizie sugli Unni probabilmente perché una serie di circostanze, e politiche e religiose e culturali, tendevano a spostare il pericolo barbarico in altre direzioni. O si voleva col silenzio rimuovere una paura che con gli Unni si farà quasi di natura apocalittica? Una prima ondata di tale paura si ebbe già sotto l'impero di Giuliano, quando Ilario (364) prospettava la venuta dell'Anticristo durante la sua generazione:  ma il pericolo era forse collegato non tanto ai barbari, quanto agli ariani, e precisamente all'imperatore Valente, e ai vescovi ariani Ursacio e Aussenzio; o ai barbari in quanto ariani. Secondo la documentatissima storia degli Unni di Maenchen-Helfen, la paura s'impenna verso il 378, data della battaglia epocale di

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Adrianopoli. Ambrogio non manca di riportarne il clima nel coevo discorso funebre per il fratello Satiro:  "Se tu sapessi che ora l'Italia è minacciata da un nemico tanto vicino, come saresti afflitto, come deploreresti che nel baluardo delle Alpi consiste tutta la nostra salvezza e che con tronchi d'alberi si costruisce il muro di difesa del nostro pudore". Si tratta di un nemico "impurus atque crudelis che non risparmia né la pudicizia né la vita". Il nemico che al momento atterrisce non è però, direttamente, l'Unno, ma il Goto; e peraltro solo Rufino di Aquileia in Occidente vedrà in Adrianopoli il punto di partenza della crisi finale dell'Impero:  "Questa battaglia fu allora e successivamente l'inizio del male per l'Impero romano", mentre altri autori cristiani videro, per lo più, nella sconfitta di Valente, il trionfo dell'ortodossia nicena sull'arianesimo prodotta anzi proprio a opera di barbari ariani. Ciò poté - come vedremo - alimentare perfino l'illusione che i barbari potessero svolgere una funzione provvidenziale e non solo negativa. Agostino - sempre restio a lasciarsi affascinare da una escatologia anticipata, e dettagliata - ancora negli anni venti del v secolo rifiuta la tesi terroristica escatologica che, rifacendosi alle iniziali G e M, nei Geti e nei Massageti vede l'incarnazione di Gog e Magog. Il suo discepolo Orosio, più giocondo negatore di paure escatologiche, in compagnia degli altri autori d'Occidente, non dimostra alcun interesse per gli Unni. Agli inizi della seconda decade del secolo v, Girolamo stesso riprende e rifiuta tale interpretazione etnica nominativa che "Giudei e cristiani giudaizzanti" davano a Gog e Magog, e li connetteva però a barbari che avevano la collocazione geografica degli Unni e anche un collegamento con le potenze diaboliche escatologiche.

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Quodvultdeus identificherà Gog e Magog con altri barbari, come i Goti e i Mauri o i Massageti. Il fatto che questi ultimi fossero allora già scomparsi dalla scena ha fatto pensare che sotto quel nome si celino gli Unni, che sarebbero significati da Magog. Ma siamo ormai nel 445/455, quando il pericolo unno è incarnato ormai ravvicinatamente da Attila. Ritornando al tempo circostante Adrianopoli si può dire che Ambrogio teme principalmente i Goti, che pure sono visti come punitori della trasgressione alla fede verso Dio nell'Impero romano postcostantiniano - con il filoariano Valente. Ambrogio insomma colloca il pericolo in un popolo che a quel momento è più strutturato, con una gerarchia, e che è ostile anche in forza della sua stessa appartenenza ereticale. Ne ricorda le uccisioni di fedeli, le torture, l'esilio, le ordinazione di impii, i favori (munera) concessi ai traditori. Ma i seri preparativi militari di Graziano e di Teodosio, assunto a Imperatore della pars Orientis nel 379, danno ad Ambrogio la certa confidenza che quei barbari che hanno per di più violato la fede, non possano sentirsi ormai sicuri. E infatti, prima della fine del 379, i Goti con gli Alani e gli Unni saranno già risospinti dalle regioni meridionali dei Balcani. Gli Unni, a differenza di altre grandi popolazioni barbariche sviluppate in grandi nazioni, attendevano ancora, alla periferia dell'ecumene, l'avvento di un capo, mentre erano ancora sine legibus. Se solo dopo il 390 in Occidente prendono rilievo gli Unni, in Oriente qualcosa cambiò proprio poco dopo la chiusura delle Storie di Ammiano. Girolamo nel 391 identifica ormai gli Sciti di Erodoto con gli attuali Unni e così - seguendo Giuseppe Flavio che identifica gli Sciti con Magog - viene a identificare gli Unni con Magog. Nel 393 gli Unni rappresentano, tra gli Sciti, la noua

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feritas. E quando nel 395 entrano da devastatori nelle province orientali, egli si spaventa:  Romanus orbis ruit. Quattro anni più tardi identificherà gli Unni coi popoli transcaucasici che Alessandro aveva contenuto fortificando le porte del Caucaso ed esclamerà:  auertat Iesus ab orbe romano tales ultra bestias!. Nell'estate 395 grandi orde unniche valicarono il Don verso la foce. Alcuni gruppi si diressero verso sud-est in Persia, altri entrarono nelle province romane e segnatamente nell'Armenia e altri arrivarono a Osroene e a Ctesifonte. Un gruppo si diresse verso l'Asia minore e la Siria, mentre un loro passaggio in Tracia e nei Balcani è attestato da fonti orientali ma le fonti occidentali tacciono. Girolamo è però prossimo e attendibile per il vicino Oriente:  "In questo tempo l'armata romana era lontana e trattenuta da una guerra intestina in Italia". Quando un gruppo di Unni cavalcò fino alla Celesiria, era in corso il conflitto tra Stilicone e Rufino. Poi gli Unni barbari portarono attacchi a varie città sull'Halys, sul Cydnus, sull'Oronte oltre che sull'Eufrate, fino a porre assedio ad Antiochia. Nel suo Commentario a Ezechiele, scritto prima del 435, Teodoreto di Ciro identifica Gog e Magog coi popoli Sciti che non vivevano lontano dalla Palestina e dice che "nei nostri tempi tutto l'Oriente era occupato da essi". Egli - nato nel 393 - era ancora infante quando fu minacciata la sua città natale di Antiochia, e dagli anziani verosimilmente conobbe il fatto. Ma questi Sciti sono proprio gli Unni di Girolamo, perché, per una specie di metonimia, Sciti era il nome globale che in questo caso designava la parte più pericolosa di essi, gli Unni, appunto. Già in bocca di Martino di Tours, Sulpicio Severo pone l'affermazione:  "Non c'è dubbio che l'anticristo, concepito dallo

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spirito maligno, sarebbe già nato e ha già raggiunto l'età della fanciullezza, pronto ad assumere il comando (imperium) con l'età legale". Età che, a ben vedere e se non cadiamo in un eccesso di sottigliezza, corrisponde a quella degli Unni nell'Impero, per il quale essi nascono nel 375. Quello del 395 risultò peraltro una specie di blitz, e la paura si riassorbì ben presto e con essa si rianimò l'illusione. Già nel 397-398 Eutropio ricacciò gli Unni dalla Frigia e dalla Cappadocia fino ai piedi del Caucaso. Addirittura verso il 400 Girolamo constatava con soddisfazione:  Huni discunt psalterium. Anche Prudenzio, in quel torno d'anni, fa un elenco irenico dei vari popoli barbarici - tra i quali gli Unni - che insieme coi Romani "camminano tutti sull'unico suolo, che hanno tutti un unico cielo e un unico oceano che racchiude il nostro mondo". Orosio stesso testimonia la sostanziale convivenza pacifica degli Unni coi Romani e la loro ricerca di stanzialità proprio in quella fase in cui insiste Ambrogio, tra gli anni 388-395, e perfino constata una loro predisposizione alla conversione. La grande paura in seguito riprenderà a partire dall'Oriente, nel 405, quando essi rinnoveranno la pressione sull'Impero sospingendo gli altri popoli barbarici, soprattutto i Goti e i Vandali. Ambrogio però abbandona, per così dire, gli Unni verso il 390, senza averli mai considerati un pericolo grave. Non accenna nemmeno agli avvenimenti del 393-395. Se fosse vissuto di più, Ambrogio si sarebbe dovuto ricredere. Ma il successo futuro degli Unni sotto Attila sarebbe stato comunque in linea con la diagnosi di Ambrogio, perché allora quella congerie di bande era diventato un popolo.

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Nella più importante epigrafe cristiana di Siracusa la devozione a santa Lucia 

L'ombrosa e la luminosa

di Mariarita Sgarlata 

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Può una lapide possedere una forza evocativa e una valenza documentaria superiore all'intera gamma di fonti primarie e secondarie di cui si può disporre? Sì, se si tratta dell'iscrizione di Euskia. È quanto emerso durante un lavoro di revisione del materiale epigrafico proveniente dal cimitero comunitario di San Giovanni a Siracusa, nell'ambito dei lavori dell'Ispettorato per le catacombe della Sicilia Orientale della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Nessuna decorazione aggiunta, nessun segno distintivo accompagnano la modesta sepoltura di Euskia, una delle tante fosse scavate nel suolo di un cubicolo, ma soltanto un'iscrizione marmorea che, nell'esitante impaginazione e nell'affollamento dei nessi fra le lettere, assume una valore particolare per la storia del cristianesimo delle origini a Siracusa. "Euskia l'incensurabile, che visse onestamente e nobilmente anni più o meno 25, morì nella festa della signora mia Lucia, per

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la quale non è necessario pronunciare encomio. Cristiana fedele (e) perfetta, gradita al proprio marito  per le (sue) molte grazie, affabile". Nella traduzione dal greco, questo è il testo della più importante epigrafe cristiana di Siracusa. È cristiana nel formulario che ripropone l'elogium, i dati retrospettivi della vita della defunta e il monogramma cristologico, affiancato dalle lettere apocalittiche, patrimonio comune delle iscrizioni delle catacombe; è uno straordinario esempio di devozione perché Euskia aveva ottenuto il privilegio di morire nel giorno sacro a Lucia, protettrice dei siracusani, martire durante la persecuzione di Diocleziano il 13 dicembre del 304. La heortè (la festa) corrisponde al dies natalis di Lucia e, ricordandola, il marito, che aveva presumibilmente commissionato la lapide, cercava di assicurare la protezione della martire alla sposa, morta nello stesso giorno. Ma c'è di più, perché il nome della defunta Euskia contrasta con il nome di Loukia:  l'Ombrosa si contrappone alla Luminosa e tutto questo potrebbe non essere casuale. Già dal primo scopritore nel 1895, l'archeologo Paolo Orsi, ha iniziato a prendere forma l'idea che l'epigrafe, riferendosi a una donna che soffriva di una malattia agli occhi, potesse configurarsi come il più antico documento relativo al protettorato della vista riconosciuto alla martire

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Lucia dai suoi devoti. Anche non volendo accreditare una suggestione di tale natura, appare incontrovertibile che Lucia sia comunque kyria (signora) e ci chiediamo se il termine sia da intendere come sinonimo di haghìa (santa), cosa che garantirebbe l'ufficialità del culto, o come semplice titolo onorifico. Quale che sia la risposta, l'importanza dell'iscrizione di Euskia non ne uscirebbe scalfita poiché attesta, se non ancora la santità di Lucia, la devozione locale e il culto di cui la martire era oggetto nel v secolo a Siracusa. Siamo dunque in presenza della prima attestazione del culto di Lucia, che conferma la storicità della notizia fornita dal martirologio geronimiano sulla devozione popolare nei confronti della santa, manifestatasi fin dall'inizio con la celebrazione di una festa. Le altre testimonianze si riferiscono tutte a periodi successivi:  tra queste merita di essere ricordato il più antico documento letterario che abbia tramandato la memoria di Lucia, un martyrion greco datato alla fine del v secolo, la cui attendibilità è stata a lungo discussa e, a tutt'oggi, non ancora palesemente dimostrata. L'iscrizione, ascrivibile agli inizi del v secolo, precederebbe così la contestata passio e confermerebbe l'antichità del culto di Lucia, le cui spoglie erano conservate nell'omonima catacomba a Siracusa. Insieme con l'iscrizione catanese di Iulia Fiorentina, l'epigrafe di Euskia si configura come

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il più antico documento siciliano che si possa mettere in relazione con l'esperienza del martirio. L'opera di potenziamento del culto tributato a Lucia, legata all'iniziativa di Gregorio Magno, trova a Siracusa una conferma anche nella fondazione di un monastero sul luogo della sepoltura della santa, che viene dunque rilanciato dalla fine del vi secolo come polo devozionale. Mentre la fondazione del monastero è certificata da fonti contemporanee e attendibili, la costruzione della basilica, destinata a custodire le reliquie della martire e ad accogliere i fedeli, viene attestata solo dalla passio menzionata, che insiste sulla funzione aggregante della tomba - "attrae fedeli dalle città vicine e favorisce il flusso dei pellegrinaggi". I due oratori, ricavati in età bizantina, all'interno della catacomba rivelano in pianta una contiguità topografica evidente con il sepolcro della santa e, grazie alla presenza di graffiti nella fase più antica, sono la prova più convincente dell'incessante movimento dei pellegrini, che doveva interessare l'intera zona. Se l'affresco che decora l'oratorio dei Quaranta Martiri si ferma alla data della prima metà dell'viii secolo, i diversi strati pittorici del secondo oratorio  indicano una prosecuzione del culto fino alla seconda metà del xiii secolo. Appare evidente come il culto di santa Lucia fosse destinato a sopravvivere nei santuari sotterranei

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extramuranei di Siracusa anche oltre il momento della traslazione del corpo a Costantinopoli, a opera di Giorgio Maniace nel 1039, perché l'asportazione delle reliquie non snaturava la funzione aggregante legata alla collocazione originaria. A questa funzione se ne potrebbe affiancare un'altra, di natura difensiva. La dislocazione topografica di questi, come degli altri santuari martiriali della città (in particolare, la cripta di San Marciano), assolverebbe infatti a un compito, più volte segnalato per altri centri, di proteggere per un lungo tratto la città più di quanto non sarebbero riuscite a fare le mura stesse, difendendola simbolicamente grazie alla presenza delle tombe venerate, che rinnovavano la memoria del martirio e della santità sia ai pellegrini che agli invasori. Se l'iscrizione di Euskia, datata agli inizi del v secolo, conferma l'antichità della devozione popolare nei confronti di Santa Lucia, l'archeologia attesta la continuità del culto in un arco di tempo straordinariamente lungo, che si rinnova e si consolida di anno in anno, da heortè a heortè. 

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