35
GAZETA WYBORCZA 8-9 ottobre 2011 Traduzione di Annalia Guglielmi ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK All’ex presidente della Cecoslovacchia e della Repubblica ceca in occasione del suo 75 compleanno La vera prova per l’uomo non è il ruolo che ha ricoperto o che ha pensato per sé, ma come ha svolto il ruolo che gli è stato affidato dal destino (Jan Patocka) LA GRANDE STORIA DI VACLAV HAVEL Havel è stato in politica come l’albatros di Baudelaire. Si è sempre sollevato un po’ sopra la terra, perché “un paio di enormi ali” disturbavano il suo calpestio. I Bohumil Hrabal ha scritto in una delle Lettere a Kwiecienka: “Cara Kwiecienka, in questo giorno in cui Vaclav Havel è divenuto il nuovo presidente di questa nostra Repubblica, mentre l’entusiasmo rompeva gli argini, perché un fiume di lacrime aveva gonfiato la corrente della Moldava, ho percorso la Via Regale, completamente tappezzata di manifesti e scritte, tanto che non c’era più neppure un pezzo di muro o di vetrina libero, e l’entusiasmo degli studenti, che traspariva da tutti i loro gesti, esprimeva la volontà che diventasse il loro presidente questo uomo giovane come gli altri, questo uomo che è la misura non solo della nostra vita politica, ma che è la misura di tutto il mondo…” È evidente che Havel in quel momento, tra il 1989 e il 1990, era l’indiscusso leader della Rivoluzione di Velluto, ed era adorato. Sembra che dietro le quinte, un illustre professore gli abbia detto: “Lei è più importante di Dio”. La sua candidatura alla presidenza era sostenuta dalla piazza, dalle organizzazioni nate dai circoli dell’opposizione democratica, ed anche da tutti gli ambienti ufficiali, dalla Lega delle Donne e addirittura dall’Armata Popolare Cecoslovacca. Tutti i deputati votarono per lui, anche quelli, ricordava Havel a distanza di anni, che “ancora qualche giorno o qualche settimana prima chiedevano di mettermi in carcere”. Il

ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

  • Upload
    others

  • View
    9

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

GAZETA WYBORCZA 8-9 ottobre 2011

Traduzione di Annalia Guglielmi

ADAM MICHNIK

SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

All’ex presidente della Cecoslovacchia e della Repubblica ceca in occasione del suo 75 compleanno

La vera prova per l’uomo non è il ruolo che ha ricoperto o che ha pensato per sé, ma come ha

svolto il ruolo che gli è stato affidato dal destino (Jan Patocka)

LA GRANDE STORIA DI VACLAV HAVEL

Havel è stato in politica come l’albatros di Baudelaire. Si è sempre sollevato un po’ sopra la

terra, perché “un paio di enormi ali” disturbavano il suo calpestio.

I

Bohumil Hrabal ha scritto in una delle Lettere a Kwiecienka: “Cara Kwiecienka, in questo

giorno in cui Vaclav Havel è divenuto il nuovo presidente di questa nostra Repubblica, mentre

l’entusiasmo rompeva gli argini, perché un fiume di lacrime aveva gonfiato la corrente della

Moldava, ho percorso la Via Regale, completamente tappezzata di manifesti e scritte, tanto che non

c’era più neppure un pezzo di muro o di vetrina libero, e l’entusiasmo degli studenti, che traspariva

da tutti i loro gesti, esprimeva la volontà che diventasse il loro presidente questo uomo giovane

come gli altri, questo uomo che è la misura non solo della nostra vita politica, ma che è la misura di

tutto il mondo…”

È evidente che Havel in quel momento, tra il 1989 e il 1990, era l’indiscusso leader della

Rivoluzione di Velluto, ed era adorato. Sembra che dietro le quinte, un illustre professore gli abbia

detto: “Lei è più importante di Dio”. La sua candidatura alla presidenza era sostenuta dalla piazza,

dalle organizzazioni nate dai circoli dell’opposizione democratica, ed anche da tutti gli ambienti

ufficiali, dalla Lega delle Donne e addirittura dall’Armata Popolare Cecoslovacca.

Tutti i deputati votarono per lui, anche quelli, ricordava Havel a distanza di anni, che

“ancora qualche giorno o qualche settimana prima chiedevano di mettermi in carcere”. Il

Page 2: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Parlamento era circondato da un’immensa folla che offriva ai deputati il pane e il sale. Era un modo

per invitarli alla concordia e a votare per Havel.

Il suo nome e la sua fotografia erano dappertutto. Lo scrittore e dissidente, il prigioniero

politico era diventato il biglietto da visita della nuova Cecoslovacchia e la stella dei mass media di

tutto il mondo. Anni dopo, Havel dirà: “In seguito ho pagato cari quei momenti di gloria.

La rabbia per il proprio precedente servilismo non era l’unica ragione della successiva

ostilità di molti nei miei confronti. Non meno importante, anzi, forse molto più importante, fu

certamente il fatto che spesso io ho incarnato le idee della minoranza, e per questo non

corrispondevo all’idea che generalmente si ha dei politici intesi come espressione delle idee o della

mentalità della maggioranza della società. Anche se non l’ho mai voluto, molti – non solo negli anni

della dissidenza, ma anche in quelli della presidenza – mi hanno considerato un pungolo per le loro

coscienze. E questo è imperdonabile”.

II

Nel periodo del comunismo, Havel aveva sentito su di sé i giudizi più disparati, ad esempio

era stato accusato di essere il rampollo borghese di una famiglia di multimilionari, che possedevano

metà di Praga. Aveva, allora, pazientemente spiegato che suo padre era un imprenditore edile (aveva

costruito il quartiere residenziale di Praga Barandov), e che dopo il febbraio 1948 e il colpo di stato

comunista la sua famiglia era stata privata del patrimonio e minacciata di essere espulsa da Praga,

mentre a lui venne impedito di iscriversi all’università. Aveva quindi cominciato a lavorare come

tecnico, mentre contemporaneamente studiava al ginnasio serale.

Ricorda: “Se non ci fosse stato il febbraio 1948, molto probabilmente avrei fatto il ginnasio

inglese e avrei cominciato a frequentare la facoltà di filosofia, mi sarei laureato senza essermelo

veramente meritato, avrei avuto una Mercedes sportiva e sicuramente sarei diventato qualcosa a

metà tra un uomo di cultura (molto più di quanto non lo sia oggi) e un rampollo della gioventù

dorata.”

Cominciò a scrivere presto, e presto cominciò a collaborare con i teatri d’avanguardia e

studenteschi. Cominciò anche a dire quello che pensava della politica. Negli anni ’60 i teatri

iniziarono a mettere in scena le sue prime opere: Garden Party e Memorandum. Nello stesso

periodo era anche uno dei redattori della rivista letteraria “Tvar”, che ben presto però fu chiusa dalla

nomenclatura del partito.

Page 3: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Durante la Primavera di Praga, fece parte del gruppo dei radicali apartitici, che criticavano i

comunisti riformisti per l’eccessiva prudenza e la mancanza di immaginazione sulle intenzioni

dell’Unione Sovietica. Nel periodo della “normalizzazione”, dopo l’intervento sovietico, gli fu

proibito pubblicare. Secondo le parole di un pubblicista ceco, quello fu anche il periodo del “crollo

della società in un baratro morale”, che coinvolse anche molti conoscenti di Havel.

III

In quel triste periodo, l’istinto di uomo di teatro non abbandonò mai Havel. Nel gennaio

1969, trovò nel suo appartamento di Praga un microfono. L’agente di polizia chiamato da Havel si

rifiutò di redigere il verbale e chiese che gli venisse consegnato l’apparecchio. Havel, prima

descrisse l’accaduto sulla stampa (era ancora possibile), provocando quasi uno scandalo, poi ne fece

un aneddoto divertente, che raccontava in modo colorito, facendo divertire gli amici.

Negli anni seguenti – 1970-1974 – visse con la moglie Olga nella sua casa di campagna

“Hradecek” sui monti Sudeti. Era continuamente controllato dai servizi di sicurezza, nei giorni

feriali e in quelli festivi, d’estate e d’inverno.

Una volta, come racconta Pavel Kosatik, biografo di Olga Havel, ebbe compassione per la

sorte degli agenti intirizziti che stazionavano davanti a casa sua e portò loro un grog. In un primo

momento, ligi al regolamento, rifiutarono, ma poi bevvero d’un fiato le tazze lasciate per loro.

I gesti da Buon Samaritano di Vaclav facevano infuriare Olga, invece, Jacek Kuron quando,

in veste di candidato alla presidenza polacca, andò a trovare Havel a “Hradecek” ascoltò questi

racconti con gioia e comprendendoli a fondo. Anche lui era fatto così. Un’altra volta, mentre era in

macchina, Havel si accorse che la macchina dei servizi segreti che lo stava seguendo era finita in un

fosso. Si fermò e tirò fuori gli agenti dal fosso.

Ha ricordato negli anni ’80: “Avevo continuamente una «scorta», spesso venivo interrogato

(…), più di una volta sono finito agli arresti domiciliari, ricevevo ingiurie e minacce da parte di

«ignoti», mi mettevano sottosopra la casa, mi graffiavano la macchina. Era il periodo caldo dei raid

della polizia, delle fughe dalla «scorta», dei nascondigli nei boschi, delle perquisizioni e del

frenetico bruciare o mangiarsi i documenti più svariati, era anche, tra l’altro, il periodo dei nostri

incontri sul confine con i dissidenti polacchi (io, famoso anti-camminatore, fui costretto per ben

cinque volte ad arrampicarmi sul monte Sniezka, ma fui premiato: ebbi la possibilità di conoscere

Page 4: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

personalmente Adam Michnik, Jacek Kuron e gli altri membri del KOR e diventare loro amico per

tutta la vita)”.

Fu allora, nell’estate del 1978, sul monte Sniezka, che cominciò la mia personale avventura

con Vaclav Havel.

IV

Fu un incontro importante: fu la testimonianza simbolica dell’unità degli intenti e dei valori

dell’opposizione democratica in Polonia e in Cecoslovacchia. In quell’occasione noi, uomini del

KOR e di Charta ’77, preparammo una dichiarazione comune per il decimo anniversario della

Primavera di Praga, del Marzo polacco e dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia.

Ascoltai un colloquio di Havel con Kuron. Come erano vicini nel loro anticomunismo e nel

loro antifascismo, nella loro fede nell’importanza di costruire le strutture della società civile, nella

comprensione dei movimenti dissidenti che avevano creato.

Jacek aveva una mentalità a-filosofica: la sua filosofia era l’azione. Per Jacek la politica era

il naturale elemento del suo essere un appassionato educatore. Fin d’allora brillava per il suo talento

di oratore. Vaclav era piuttosto un intellettuale: quello che diceva aveva un grande retroterra

filosofico, e faceva riferimento ad Heidegger e Patocka. Mi colpì il suo sfuggire a qualsiasi

classificazione: non era un comunista ribelle (a differenza di Jacek), non era un cattolico, non era né

un conservatore, né un liberale, né un socialdemocratico. Cordiale, silenzioso, con il distacco dello

scrittore e del filosofo dal rumore della realtà. Semplicemente era un democratico o un uomo

timido, pacifico ed umile, ma dotato di un grande coraggio, di una grande immaginazione e di

un’enorme coerenza.

Verso la fine dell’incontro, Vaclav estrasse dallo zaino un pane, del formaggio e

dell’affettato da offrire a noi Polacchi che non avevamo portato niente da mangiare. Tirò fuori

anche una bottiglia, sull’etichetta c’era un cacciatore. Era una bottiglia di vodka: “La vodka del

cacciatore”. Disse: “Non abbiamo il socialismo dal volto umano, ma almeno abbiamo la vodka dal

volto umano”. E ce la bevemmo.

Quell’incontro fu certamente un gesto eroico (le conseguenze per tutti noi, ma soprattutto

per i Cechi, potevano essere molto gravi), ma fu anche divertente. Ci faceva ridere la prevedibile

reazione dei servizi di sicurezza di entrambi i nostri paesi se lo fossero venuti a sapere: un incontro

illegale di alcuni criminali di entrambi i paesi, che ritenevano necessario che le loro nazioni

Page 5: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

iniziassero ad essere amiche e a collaborare, c’era qualcosa del teatro dell’assurdo. Pensai: “in

fondo il teatro dell’assurdo è sempre stato la specialità di Havel”.

Havel aveva spiegato che il teatro dell’assurdo non era né patetico, né didattico. Era

“scandalosamente umoristico”. Non era neppure nichilista. “Non offre né consolazione, né

speranza. Ci ricorda semplicemente come viviamo: senza speranza. In questo consiste il suo

compito di monito”.

Nel 1974, per alcuni mesi Havel lavorò in una fabbrica di birra. Quell’esperienza gli ispirò

la trama dell’opera L’udienza.

Il capo della fabbrica di birra, al quale i superiori avevano ingiunto di spiare Vanek, scrittore

e dissidente (alter ego di Havel), gli propone di redigere lui stesso i rapporti alla polizia segreta.

Vanek si rifiuta: “Per una questione di principio”.

In risposta ascolta lo sfogo del capo della fabbrica: “Ah sì? E così tu te ne freghi di me? Io

posso essere un porco! Io posso rotolarmi in questa merda, io non conto, io sono solo un povero

cafone della fabbrica di birra, vero? Ma lei, lei non può entrarci! Io posso sporcarmi di fango,

purché lei rimanga pulito! Perché lei ha dei principi! E quello che succede agli altri non le interessa!

Purché lei rimanga bello e lindo! I principi per lei sono più importanti delle persone! (…)

Voi, intellettuali! Gran signori! Solo parole garbate, solo che voi potete permettervelo,

perché a voi non può succedere niente, tutti si interessano a voi, voi ve la cavate sempre, voi vincete

sempre, anche se siete a terra (…) Principi! Come potreste non difenderli, questi vostri principi? In

fondo vi convengono alla grande, li vendete benissimo, ci guadagnate un sacco, voi vivete grazie a

questi principi, e io? Io posso solo ricevere degli schiaffi (…). Io servo solo per fare il letame su cui

crescono i vostri principi, per procurarvi le stanze al calduccio per il vostro eroismo e perché alla

fine ci sia qualcuno da sbeffeggiare! Tu un giorno tornerai dalle tue attrici e ti vanterai di come hai

fatto rotolare le botti, e sarai un eroe! E io? Da chi potrò tornare? Chi si accorgerà di me?”.

Molti dissidenti in quegli anni hanno ascoltato sfoghi come questo!

V

Prima di conoscere Vaclav Havel, avevo letto il saggio di Karel Čapek, fantastico scrittore

ceco, dal titolo Un posto per Jonathan, scritto nel 1938. Scrive Čapek:

Page 6: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

“Tutta la nazione, tutto il Reich, si è convertito alla fede nel biologismo animale, nella razza

e in altre idiozie del genere, attenzione: tutta la nazione, compresi i professori delle università, i

sacerdoti, i letterati, i medici e gli avvocati. Vi sembra possibile che sia stata propugnata una

dottrina così bestiale e che ogni uomo colto di questo coltissimo Reich si sia limitato solo a scuotere

le braccia e a dire che non si sarebbe lasciato coinvolgere in conflitti e discussioni primitive (…)?

Sembra che nell’attuale situazione del mondo l’intellighenzia abbia davanti a sé tre strade: la

correità, la viltà o il martirio. Però c’è una quarta via: non tradire la propria disciplina spirituale,

neppure nelle circostanze più difficili e non tradire e non rinunciare a nessun costo ad uno spirito

indomito e consapevole (…).

Possiamo in qualche modo aiutare il mondo? Se avessi la certezza che non possiamo fare

niente, deporrei le armi e sarei profondamente angosciato, ma sento che ancora (…) si possono

combattere il fanatismo e la bestialità, che ancora è possibile non imporre, ma comprendere (…),

che ancora tutti possiamo essere ragionevoli, che ancora l’esperienza, la conoscenza, le leggi dello

spirito e le leggi della coscienza possono tornare a guidarci.”.

È difficile immaginare una descrizione migliore dell’eredità storica con cui Havel si è

confrontato per tutta la vita.

Il grande filosofo ceco Jan Patočka ha scritto che i Cechi, una piccola nazione dell’Europa,

hanno avuto la loro “grande” storia e la loro “piccola” storia. “Grande” quando hanno affrontato in

modo autonomo e creativo le grandi problematiche universali. Questo è accaduto, ad esempio,

quando i Cechi sono stati l’avamposto del movimento riformista europeo e hanno aperto davanti al

cristianesimo occidentale la strada verso un cristianesimo “laico”. La “piccola storia” ha dominato i

Cechi quando si sono rinchiusi, o “sono stati rinchiusi”, nella banalità del provincialismo.

L’epoca stalinista è stata certamente un periodo della “piccola storia” dei Cechi. Invece, la

Primavera di Praga del 1968, insieme ai fermenti culturali che l’hanno preceduta, ha portato la

Cecoslovacchia sulla strada della “Grande Storia”. In quel periodo la cultura ceca: cinema,

letteratura, progetti politici, conquistò il mondo. In quel momento la Cecoslovacchia pose al mondo

le domande fondamentali: è possibile un socialismo democratico, un socialismo dal volto umano? È

possibile la fine pacifica della dittatura comunista?

La voce di Havel fu particolarmente importante in mezzo alle tante voci che si levarono per

porre queste domande e cercare una risposta.

Page 7: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Il Cremlino rispose con l’intervento militare, che fermò il cammino verso la libertà. E allora

la piccola nazione dovette cercare una risposta alla domanda su come vivere la sconfitta. Scrisse in

quegli anni Milan Kundera: “E’ piccola la nazione la cui esistenza può essere messa in discussione

in qualsiasi momento, che può scomparire, e che lo sa”.

Questa consapevolezza ha sempre accompagnato i leader della Cecoslovacchia, soprattutto

Benes, presidente della repubblica nel 1938, e Dubcek, capo del Partito Comunista Cecoslovacco

durante la Primavera di Praga. Troviamo una testimonianza del suo modo di pensare nella Lettera

che Havel scrisse ad Aleksandr Dubcek in quel memorabile 1968.

In Cecoslovacchia l’opinione pubblica era divisa. Alcuni dicevano: “Salviamo il salvabile” e

cercavano di convincere Dubcek a cercare un compromesso e a fare concessioni. Altri sostenevano

che con le concessioni non si sarebbe salvato nulla. Dicevano: “Abbiamo perso, era impossibile

vincere lo scontro con l’esercito sovietico. Però almeno, cerchiamo di perdere con dignità, infatti la

dignità e la verità sono il nostro patrimonio più grande”. Havel faceva parte del secondo gruppo.

Scrisse a Dubcek:

“Per l’opinione pubblica mondiale Lei è il simbolo del tentativo cecoslovacco di creare un

«socialismo dal volto umano». La nostra società vede in Lei un uomo onesto, coraggioso e degno di

fiducia. La gente (…) sa che Lei non è capace di tradire.”

Invece, i comunisti che vogliono “ripristinare il vecchio ordine” nascondendosi dietro i carri

armati sovietici, vogliono che “proprio Lei divenga il principale accusatore della propria politica e

che Lei pubblicamente sostenga l’intervento che ha distrutto quella politica (…). Vogliono metterLa

in ginocchio, quindi, a loro non basta che Lei abbia perso il potere. Vogliono di più: vogliono che

Lei perda anche la faccia”.

È in gioco qualcosa di molto più grande dell’onore e della dignità personali di Dubcek,

scrive Havel, è in gioco “l’onore e la dignità di tutti coloro che hanno avuto fiducia nella Sua

politica e che oggi, impossibilitati a parlare, vedono in Lei l’ultima speranza per cercare di salvare

l’unica cosa che ancora si può salvare del tentativo cecoslovacco : il rispetto per se stessi”. Se

sceglierai la strada della verità, spiegò a Dubcek, la gente capirà che “bisogna sempre salvaguardare

gli ideali e la spina dorsale morale”.

E concluse: “A volte ci sono dei momenti in cui un politico può ottenere un vero successo

politico, solo se dimentica tutta la trama delle ragioni politiche, delle analisi o del calcolo e si

comporta semplicemente da uomo per bene. Nel mondo disumanizzato delle manipolazioni

Page 8: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

politiche, alcuni semplici criteri umani possono avere l’effetto di un fulmine, che improvvisamente

illumina il buio circostante con il suo raggio di luce”.

Dubcek non rispose alla lettera. Non condannò mai la propria politica, ma non ebbe neppure

il coraggio, come sappiamo, di scegliere una sconfitta dignitosa e di rimanere fedele alla verità.

Scelse la strategia delle concessioni, del silenzio e dell’attesa, scelta che, del resto, non lo salvò

dall’umiliazione e dall’emarginazione. Percorse la strada dello “scivolare nella storia come il

soldato Svejk”.

Havel percorse un’altra strada.

VI

Da una lettera dalla prigione a Olga:

“Ho sempre messo al di sopra di tutto la fedeltà e – come dico sempre – la perseveranza, e

devo dire che con il passare degli anni apprezzo sempre di più queste caratteristiche. Questo non è

un amore conservatore dello status quo, ma solo il rispetto per l’identità e la tradizione umane”.

VII

Le citazioni dalla lettera di Dubcek per me sono state fondamentali anche per ragioni

sentimentali. Nel 1968 e negli anni seguenti ero rinchiuso in una cella del carcere di Varsavia nel

quartiere di Mokotow e seguivo gli eventi cecoslovacchi con la sua stessa emozione. Ovviamente,

non conoscevo la lettera di Havel, ma osservavo con tristezza la capitolazione dei leader della

Primavera di Praga. Poco tempo fa ho sentito la poesiola “Tutta la Polonia aspetta il suo Dubcek”.

In quel momento non lo aspettava più nessuno. (Solo dopo vent’anni è stata pubblicata da noi la

poesiola “Havel al Wawel”).

La repressione della Primavera di Praga e la capitolazione dei leader del Partito Comunista

cecoslovacco, a parte poche eccezioni, come ad esempio Frantisek Kriegl, fecero morire la speranza

in una forza riformatrice all’interno del partito comunista, nella possibilità di democratizzare il

sistema dall’alto, in un nuovo Ottobre Polacco. Ormai non pensavamo più a come democratizzare il

sistema comunista. Cominciammo a pensare a come bisognava difendersi.

Page 9: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

I percorsi della riflessione polacca e cecoslovacca erano simili, e ci portarono al KOR e a

Charta ’77. Quindi, innanzitutto bisognava osservare attentamente questo sistema e descriverne la

natura dalla prospettiva di uomini preoccupati per i valori che venivano calpestati.

A questo servì in quel periodo la saggistica politica di Leszek Kolakowski; a questo servì la

lettera di Havel a Gustav Husak, il nuovo capo del Partito Comunista Cecoslovacco.

Dopo l’intervento sovietico, sopraggiunse il triste periodo della “normalizzazione”, in cui gli

scrittori, i filosofi o gli storici disobbedienti potevano lavorare solo come camerieri, fuochisti o

guardiani notturni. La “normalizzazione” trasformò la Cecoslovacchia in un deserto culturale; fu il

periodo della capitolazione di alcuni e dell’emigrazione di altri.

Havel vinse la tentazione di emigrare. Scelse il destino di uomo emarginato, di uomo

spirituale (secondo la definizione di Patocka), il destino del dissidente, rischiando il carcere o

l’annientamento. La lettera a Husak fu un chiaro guanto di sfida lanciato alla dittatura.

In quella lettera Havel scrive apertamente al dittatore che in Cecoslovacchia domina il

terrore. Il terrore, esito dello strapotere della polizia, genera menzogna e conformismo, egoismo e

carrierismo, e la corruzione di tutte le norme morali. Il terrore è necessario alle élite al potere perché

nel paese ci sia pace. E la pace c’è: la pace di un obitorio.

Havel mette in guardia il dittatore: “sotto la crosta dell’immobilismo scorre un ruscello

invisibile, che lentamente ed impercettibilmente la corroderà. Potrà essere necessario molto tempo,

ma un giorno accadrà: la crosta comincerà a spaccarsi”.

Ricorda a Husak che se un uomo deve dichiarare tutti i giorni di amare un potere che non

sopporta, questo non significa che “in lui si sia spento uno dei sentimenti fondamentali: il

sentimento dell’umiliazione”. Chi sa combattere a viso aperto contro la propria umiliazione, riuscirà

anche dimenticare di essere stato umiliato; invece, chi sopporterà a lungo e in silenzio

l’umiliazione, se ne ricorderà per molto tempo. “Nulla sarà dimenticato: tutta la paura, tutta la

doppiezza, tutta questa imbarazzante e indegna pagliacciata (…). In queste circostanze è difficile

prevedere tutte le possibili varianti della futura «ora della verità», cioè di come un giorno questa

società, così ampiamente e palesemente umiliata, chiederà soddisfazione”.

Credo che nessuno di noi sia riuscito ad immaginare la rivoluzione di velluto e la seguente

corsa alla “lustrazione” e alla decomunizzazione.

Page 10: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

VIII

La cancelleria di Husak rispedì ad Havel la lettera scrivendo che l’autore “l’aveva inviata ai

servizi segreti nemici, dimostrando così la propria ostilità verso la patria”.

Quella lettera fu come un lampo nella buia notte della normalizzazione di Husak. E fu anche

il presagio di Charta ’77.

Charta ’77 era una “comunità libera, informale ed aperta di uomini di diverse convinzioni,

diverse religioni e diverse professioni, legati dalla volontà di operare, individualmente e insieme,

per il rispetto dei diritti civili ed umani”. I primi firmatari della Charta furono Jiri Hajek, capo del

Ministero degli Esteri durante la Primavera di Praga, Vaclav Havel e Jan Patocka, che morì di lì a

poco, dopo una serie di pesantissimi interrogatori nella sede dei servizi di sicurezza. Qualche giorno

prima di morire Patocka scrisse:

“Molti mi chiedono se Charta ’77 non faccia peggiorare la situazione della nostra società.

Rispondo loro con chiarezza: nessun servilismo ha mai migliorato le cose, ma le ha sempre fatte

peggiorare. Quanto maggiore sono stati il terrore e il servilismo, tanto più il potere si è spinto, si

spinge e si spingerà oltre. Non c’è altro modo per diminuirne la pressione, se non farlo sentire

insicuro, dimostrargli che l’ingiustizia e la discriminazione non vengono dimenticate, che non

annegano nelle acque del silenzio.”

Non a caso, Havel dedicò il suo famoso saggio Il potere dei senza potere “alla memoria di

Jan Patocka”. Infatti fu Patocka a parlare nei suoi Saggi eretici della solidarietà di “coloro che

hanno subito il crollo” nella fede nel conformismo quotidiano.

Ed è proprio così che Havel ha inteso il senso morale del movimento “dissidente” (benché

non amasse questa definizione) raccolto attorno a Charta ’77. Scrisse: “Finalmente bisogna dire

insieme e ad alta voce la verità, indipendentemente dalle conseguenze, ed indipendentemente

dall’incertezza della speranza che questo gesto possa portare ad un risultato tangibile in un tempo

prevedibile”.

Il potere dei senza potere è la sintesi più matura della genesi, della filosofia politica e

dell’ethos dei movimenti dissidenti dell’Europa Centro Orientale. Durante l’incontro di Sniezka noi,

amici polacchi e cecoslovacchi, decidemmo di preparare un libro comune che raccogliesse alcuni

articoli sulle nostre esperienze e le nostre previsioni. I Cechi scrissero la loro parte, noi non ci

riuscimmo. Invece, pubblicammo Il potere dei senza potere, e altri testi, nella rivista trimestrale

“Krytyka”.

Page 11: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Il saggio di Havel parla della nascita di Charta ’77, di quella solidarietà di “coloro che hanno

subito il crollo” del “potere dei senza potere” (i dissidenti) e dell’”impotenza dei potenti” (gli

uomini dell’apparato). “L’impotenza dei potenti” dipende dalla natura del potere, che può

reprimere, ma non genera nulla, è irrigidito, ha perso ogni moralità. Infatti, coloro che sono costretti

a vivere nella menzogna e nell’umiliazione sono assetati di verità e dignità. Ha scritto acutamente

Havel: “E’ come un’arma batteriologica, con la quale, in condizioni adeguate, un unico civile può

sconfiggere un’intera divisione armata!”

Molte dichiarazioni di Havel erano vicine alle idee della gente raccolta attorno al KOR,

soprattutto a quelle di Kuron. C’erano, però, anche delle differenze.

Entrambi erano distanti dal modello occidentale di democrazia parlamentare. La democrazia

parlamentare, di cui Kuron era comunque un sostenitore, garantisce alla persona la libertà di scelta,

ma le permette di realizzare le sue aspirazioni ideali solo nel tempo libero. Mentre non riesce a

garantirlo durante il tempo dedicato al lavoro. Kuron riteneva quindi che il fine dell’opposizione

democratica fosse l’emancipazione del mondo del lavoro.

L’obiezione di Havel al parlamentarismo è di altro tipo: la crisi delle dittature comuniste, la

cui ideologia era diventata ormai un banale consumismo, è un aspetto di una crisi molto più

profonda: la crisi della “civiltà tecnologica in quanto tale”.

Havel ripete con Heidegger che la crisi nasce dall’impotenza dell’uomo di fronte alla forza

planetaria della tecnologia, che “è sfuggita di mano all’uomo, ha cessato di essere al suo servizio, lo

ha reso schiavo e lo ha costretto a supportarla mentre gli sta preparando lo sterminio”.

In questa situazione, la democrazia parlamentare tradizionale, secondo Havel, non è una

soluzione. “Il modo con cui manipola l’uomo è soltanto infinitamente più sottile e molto più

raffinato rispetto ai metodi brutali del sistema post - totalitario”.

Havel non sapeva come uscire da questa crisi, ma pensava ad una “rivoluzione esistenziale”,

che avrebbe portato ad una “ricostruzione della società”. In altre parole, ripeteva con Heidegger:

“ormai solo un qualche Dio ci può salvare”.

Tuttavia, Havel riconosceva che in un paese del blocco sovietico, il parlamentarismo

tradizionale “potrebbe essere un’adeguata soluzione transitoria, per iniziare a ricostruire

l’autocoscienza ferita dei cittadini, per far nuovamente comprendere il valore della discussione

politica, e per creare le condizioni che portino alla creazione di un elementare pluralismo politico in

quanto intenzione fondamentale della vita”.

Page 12: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Havel inseriva l’ethos del dissidente e il progetto politico di Charta ’77 all’interno

dell’orizzonte della sua visione filosofica del futuro.

Ad una prima lettura non mi risultarono immediatamente chiari alcuni concetti di Havel,

anche se erano tutti affascinanti e fonte di ispirazione. Non mi soffermai troppo sulle profezie di

Heidegger e sulla “rivoluzione esistenziale” di Havel; sapevo e vedevo che Havel, ed insieme a lui

altri dissidenti, stavano realizzando una rivoluzione esistenziale nella propria vita e nel proprio

ambiente, scegliendo la libertà, e pagandone il prezzo, scegliendo quell’unica strada per vivere nella

verità.

IX

Per Vaclav Havel vivere nella verità voleva dire dare testimonianza con la propria vita.

Questo era il suo “potere dei senza potere” e il suo atteggiamento durante la prigionia ne è una

chiara testimonianza. Lo scrittore aveva capito che il potere comunista voleva umiliarlo, ridurlo a

uno straccio, sputargli in faccia.

Quando fu arrestato per qualche mese nel 1977, Havel commise l’errore tipico di ogni

carcerato debuttante: spedì alle autorità una richiesta di scarcerazione, pensando che non avesse

alcun valore. Un brano di questa domanda, avulso dal suo contesto e commentato in modo

tendenzioso fu pubblicato sulla stampa ufficiale. Ed egli venne liberato.

La liberazione venne interpretata da molti come un premio per la sua capitolazione. Queste

calunnie e gli equivoci che ne seguirono lo fecero soffrire molto e rimasero impressi a lungo nella

sua memoria. Anche dopo l’arresto del 1979, gli fecero capire che sarebbe stato liberato subito se

avesse accettato di emigrare negli Stati Uniti. A quei tempi spesso erano questi i dilemmi dei

dissidenti: la libertà all’estero, o il carcere in patria. Molti fecero scelte diverse, Havel scelse il

carcere.

Una descrizione commovente di questa scelta è contenuta nelle lettere che scrisse a Olga dal

carcere.

Subito dopo la sentenza (a quattro anni e mezzo), nel gennaio 1980 scrisse che avrebbe

resistito: “Sono un ostinato di un Ceco e lo rimarrò per sempre”. Qualche tempo dopo (nell’agosto

Page 13: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

1980) si chiese: “è cambiato forse il mondo attorno a noi? Si è forse spostato il significato? Perché

improvvisamente tanti amici partono?”.

Non condannava coloro che se ne andavano. Capiva bene che ad un certo punto non se ne

potesse più di essere continuamente spiati, di aspettare tutti i giorni di essere arrestati e di avere

sempre paura che un manoscritto potesse cadere nelle mani della polizia segreta. Tutto questo

logorava spiritualmente e fisicamente e provocava depressione e rassegnazione. Ecco cosa scrisse

ad Olga (settembre 1980):

“Uno dei temi relativamente più frequenti delle mie riflessioni e fantasticherie, quando la

mia mente ‘vaga’, sono gli amici che sono partiti. L’andamento abituale delle mie meditazioni è

questo: all’inizio ci sono un po’ di tristezza e un briciolo di invidia (per i loro successi artistici) ed

anche un po’ di angoscia (finalmente possono fare di nuovo quello che gli interessa, sono pieni di

lavoro, liberi da tutte queste infinite preoccupazioni, ormai da tempo forse considerano inutili i

nostri sforzi, e dall’altra parte ci sono io, privato di tutto questo e senza alcuna possibilità di

lavorare in un teatro…) – quindi all’inizio le mie meditazioni cominciano così – ma alla fine di

queste riflessioni c’è una particolare gioia interiore, perché sono qui dove devo essere, perché non

ho fatto niente tradendo me stesso, perché non ho approfittato di nessuna scappatoia e perché in

mezzo a tutte queste mie sofferenze non c’è la peggiore delle sofferenze (che ho già conosciuto

sulla mia pelle), e cioè la sensazione di non essere stato all’altezza della situazione”.

Il problema della “libertà pagata con l’emigrazione” si era già presentato ad altri prigionieri

e alle loro mogli, tra gli altri a Vaclav Benda, condannato nello stesso processo di Havel.

Benda, scrisse Pavel Kosatik, aveva considerato due conseguenze di un eventuale esilio: “da

un lato le conseguenze morali sugli amici, dall’altro la consapevolezza, relativamente consolatoria,

che la cosa peggiore che potesse capitare ad un attivista della Charta in fondo non erano né la

morte, né lunghi anni di carcere, ma la proposta di ricevere il passaporto per emigrare”.

La moglie di Benda, Kamila, con cui Olga Havel parlò a lungo di questo problema, formulò

delle indicazioni molto chiare per i prigionieri: 1) i topi abbandonano la nave per primi, e il capitano

per ultimo; 2) proprio perché erano in prigione stavano facendo un grande lavoro per la Charta; 3)

se una persona rinuncia a portare fino in fondo ciò che ha iniziato, questo di norma ha delle

conseguenze molto pericolose su tutto il resto della sua vita. Disse anche che “l’eventuale partenza

di Havel avrebbe avuto delle conseguenze gravi sul senso morale degli altri dissidenti e avrebbe

distrutto l’autorità morale di cui godeva in quell’ambiente; secondo lei, per il lavoro che stava

Page 14: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

facendo quando era stato arrestato nel 1977, la partenza di Havel sarebbe stata considerata un

tradimento”.

Penso che Vaclav (e Olga) avessero questa stessa filosofia. Nel marzo 1982 Vaclav scrisse a

Olga che grazie alla prigione poteva provare “a me stesso, a quelli che mi circondano e a Dio di non

essere un pagliaccio, come forse hanno pensato alcuni (…), che alle mie parole seguono i fatti”. In

ultima analisi si trattava proprio di questo: “essere e rimanere me stesso anche qui, e soprattutto

qui”.

X

Vivere nella verità può sembrare una formula patetica, ma a quei tempi non c’era molto

spazio per il pathos. Si correva continuamente da tutte le parti, si parlava senza fine, c’erano molti

problemi con i servizi segreti e solo raramente avevamo la sensazione di vivere da uomini liberi.

Eppure anche questa sorta di sotto cultura dissidente aveva le sue trappole. Havel sapeva, e lo

scrisse, che anche lo status di dissidente può portare al conformismo attraverso comportamenti da

pecora all’interno del proprio stesso ambiente, a demonizzare il nemico (ad esempio i comunisti) e

ad angelicare se stessi. Lui non vedeva il nemico nei comunisti, ma nel sistema comunista.

Guardava lucidamente ai comunisti: ricordava sia la loro opposizione alla capitolazione di

Benes nel 1938, sia il colpo di stato del 1948, quando Gottwald distrusse lo spirito democratico

della repubblica. Riteneva normale che alcuni di loro fossero fra i firmatari di Charta ’77, di alcuni

aveva un rispetto enorme, basta leggere il suo bellissimo saggio su Frantisek Kriegel, Ebreo di

Stanislavov, comunista prima della guerra, medico, volontario nella guerra civile spagnola, poi

funzionario di partito ed infine uno dei riformatori della Primavera di Praga. Nell’agosto del 1968 a

Mosca, Kriegel fu l’unico membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco a

rifiutarsi di firmare la dichiarazione della sconfitta. “Salvò l’onore della repubblica cecoslovacca”,

ha scritto di lui Havel.

Vedeva in Kriegel una figura tragica. Era un uomo che sapeva sempre “che cosa è bene e che

cosa è abbietto”, che cosa sono “l’onore e il tradimento”. “Come ha potuto un uomo come lui

rimanere dentro un movimento che, quando ne ha avuto bisogno, ha violentato i sentimenti degli

Page 15: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

uomini e il buon senso e li ha ritenuti una congerie di pregiudizi e menzogne?” – si è chiesto Havel.

Come ha potuto decidere di contribuire al rafforzamento del potere del partito comunista?

La tragicità della figura di Kriegel sta nel suo essere stato contemporaneamente un uomo di

coscienza e un uomo di fede. All’inizio c’era stata la fede in un’ideologia “che riesce a giustificare

il male presente con la visione utopica di un futuro luminoso, anche se lontano”; poi venne la fede

nella democratizzazione del sistema comunista. Kriegel non rinnegò mai la sua fede nel “socialismo

dal volto umano”.

Ha scritto Havel: “I tragici paradossi che vedo nel destino di Kriegel non sono solo i suoi, e

neppure solo dei comunisti”. Secondo Havel sono “i paradossi fondamentali del nostro tempo”. E si

chiede: “Chi ha veramente un cuore puro e uno spirito indipendente, ed è determinato a farsi

guidare solo da essi, potrà mai conquistare un vero potere in un mondo dominato da interessi di

parte, da passioni irrazionali, dal «realismo politico», da poteri ideologici e da ribellioni cieche, in

una parola, potrà mai conquistare il potere nel caos della civiltà contemporanea? O non ha altra

possibilità se non quella di cedere, per un compromesso dettato dal realismo o per una fede

idealistica, a ciò in cui il mondo ripone la propria fiducia, a ciò che, forse, in un primo momento,

sembra corrispondere alla sua coscienza, ma che in ogni istante può rivoltarsi contro di essa?”

No, Havel non è mai stato “un cavernicolo anticomunista”; per lui ogni uomo era un mondo

a parte degno di una giusta considerazione. In tal modo egli ha creato un particolare modello di

ethos del dissidente.

Una volta ha scritto che il “dissidente” è simile a Sisifo, che spinge in alto la sua pietra “pur

sapendo che le possibilità di raggiungere la cima della montagna sono quasi nulle, la spinge

semplicemente perché non ha altra possibilità per essere in sintonia con se stesso e per dare, almeno

in questo modo, un senso alla propria vita e scoprire così l’orizzonte della speranza”.

Ritengo che per i miei amici dissidenti, ed anche per me, questa filosofia di vita del

dissidente fosse sufficiente. Ad Havel non bastava. Egli lottava non solo contro la dittatura

comunista, ma anche contro il male della civiltà contemporanea. Ha scritto: “Ogni tentativo di

rinchiudere nelle mani dell’uomo tutta la natura e di deriderne il mistero, in poche parole, di far

fuori Dio e di fingere di essere Dio, dovrà prendersi la sua vendetta sull’uomo. (…) Semplicemente:

l’uomo non è Dio”.

Questo non lo ha scritto il dissidente politico, ma l’homo religiosus che si occupa di

filosofia, cosa che Havel in fondo è sempre stato.

Page 16: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Havel rifiutava la concezione atea del mondo. Il protagonista della sua opera La tentazione

(alter ego dell’autore) dice:

“Quando l’uomo scaccia Dio dal proprio cuore, apre la porta al diavolo. Quell’immensa

opera che è stata l’Olocausto, insieme all’ottusa arroganza del potere e all’ottusa obbedienza dei

senza potere, quell’opera che è stata l’Olocausto realizzata sotto le bandiere della scienza – e anche

noi siamo i grotteschi alfieri di quelle bandiere – non è forse un’opera diabolica? Sappiamo bene

che il diavolo è il maestro del travestimento. E possiamo forse immaginare un travestimento

migliore di quello che propone il laicismo contemporaneo? Per il diavolo, il miglior spazio di

manovra deve essere proprio là dove si è smesso di credere nel diavolo!”.

A proposito della propria religiosità, Havel scrive ad Olga:

“La fede per me è semplicemente un certo stato dell’animo, uno stato di continua apertura

costruttiva, di continua domanda, di bisogno continuo e (…) immediato «di fare esperienza del

mondo», e quindi la fede non mi raggiunge sgorgando da un oggetto concreto che sta al di fuori di

me”.

In un’altra lettera precisa: “Sicuramente non sono né un vero cristiano, né un buon cattolico,

(come tanti miei buoni amici), per molti e svariati motivi, ad esempio perché non presto alcun culto

a questo mio dio e anzi non capisco per quale motivo dovrei farlo. Quello che il mio dio è –

l’orizzonte senza cui nulla avrebbe senso e non ci sarei neppure io – lo è per sua natura e quindi non

grazie ad un qualche suo gesto eroico che meriti un gesto di culto da parte mia (…). Accolgo la

Buona Novella di Cristo come sfida a cercare la propria strada”.

E infine collega tutto questo alla politica. Cerca “la genesi dello stato contemporaneo e del

potere politico contemporaneo” nel momento in cui “la ragione comincia a svincolarsi dall’uomo,

dalla sua esperienza personale, dalla sua coscienza e dalla sua responsabilità personale, e quindi

anche da ciò a cui ogni responsabilità personale fa inevitabilmente riferimento all’interno del

mondo naturale, cioè dall’orizzonte del suo assoluto”.

In altre parole, Havel da un lato ha smascherato il marxismo-leninismo, in cui vedeva una

para-religione che offriva all’uomo una risposta pronta a tutte le domande, e dall’altro rispettava, e

a modo suo professava, la religione, che impone di essere umili davanti al Mistero.

Guardava così anche alla morte: “la consapevolezza della morte è alla base di ogni volontà

di vita veramente umana, cioè cosciente (…). Se viviamo, nonostante la coscienza della nostra

inevitabile morte, e di più, se viviamo da uomini, cioè in modo dignitoso e consapevole, questo è

Page 17: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

possibile solo grazie ad una forte esperienza interiore della presenza dell’orizzonte assoluto

dell’esistenza, e all’origine di questa percezione c’è proprio la consapevolezza della morte”.

Molti anni dopo, nel dicembre 2005, annotò:

“Cerco continuamente di essere pronto per il Giudizio Finale. Per il giudizio di fronte al

quale nulla resterà celato, che giudicherà tutto (…). Però, perché per me è così importante il

giudizio ultimo? In fondo, a quel punto potrebbe essermi del tutto indifferente. Ecco, non mi è

indifferente perché sono convinto che la mia esistenza, come tutto ciò che è accaduto, ha fatto

increspare la superficie dell’essere, che, ormai è, e rimarrà per sempre, diverso da prima, dopo

questo moto d’onda provocato da me, per quanto sia stato marginale, insignificante e fuggevole”.

Vaclav Havel, che secondo le sue stesse parole era “figlio della borghesia, operaio, soldato,

montatore si scena, autore di teatro, dissidente, carcerato, presidente, pensionato, fenomeno

pubblico ed eremita, supposto eroe e segreto codardo”, credeva che sarebbe “rimasto qui per

sempre”. Nel 1986 disse che “è meglio non vivere affatto, che vivere senza onore”. Per questo ha

sempre vissuto, e vive, con onore. Come molti altri.

Si chiese se sarebbe stato possibile “mettere la morale davanti alla politica e la

responsabilità davanti alla rincorsa del fine, restituire significato alla comunità umana, e contenuto

all’esistenza dell’uomo.”

Queste domande non hanno mai abbandonato Havel.

XI

La concezione che i dissidenti avevano della politica era completamente diversa dall’attività

politica negli stati democratici. Generalmente, i dissidenti non si reputavano dei politici: erano

scrittori, fisici, sociologi, architetti o studenti, e c’erano anche dei dissidenti che non avevano alcuna

professione.

Havel ripeteva di non aver mai voluto fare il politico. Le questioni politiche lo interessavano

e vi si coinvolgeva spesso, ma non voleva fare politica in modo attivo e concreto. Non aveva

l’ambizione di diventare un dissidente “di mestiere”. Voleva fare lo scrittore e lavorare in teatro.

Anche per questo non aveva riflettuto a fondo sulle riforme dell’economia o del servizio

sanitario. La sua personale “utopia” consisteva nel pluralismo economico e politico, nel dialogo fra

la rappresentanza democratica e il giudizio dei tecnici.

Page 18: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Era scettico a proposito del sistema dei partiti politici. Pensava che si dovessero eleggere al

parlamento delle persone concrete e non un partito. Riteneva molto importante la società civile.

Temeva tutte le ideologie chiuse. Dalla prigione aveva scritto a Olga che temeva “il momento in cui

un sistema ideologico diventa chiuso e completo, perfetto e universale”, più di una volta ha

descritto questo momento come il momento in cui il sistema “finisce in macerie come per un crollo

fisico”, perché “la realtà gli sfugge di mano”.

Di solito, il risultato di questo crollo dell’ideologia è una generale disillusione. L’uomo

disilluso perde la fiducia nel mondo e negli uomini; si convince, scrive Havel a Olga, che “tutti i

valori morali, gli scopi più elevati e gli ideali, non siano altro che un’ingenua utopia, e non ci sia

altro da fare che accettare che il mondo «è così come è», cioè immutabile e ignobile”. Mentre,

invece, “non è l’ignobiltà del mondo a portare l’uomo alla rassegnazione (…) è la sua rassegnazione

a portarlo a teorizzare l’ignobiltà del mondo”.

E poi l’uomo disilluso si evolve. Nella misura in cui si adatta a “questo mondo ignobile”,

questo mondo comincia a trasformarsi in una realtà che non è più “la peggiore in assoluto”, ma è

certamente migliore delle destabilizzazioni che possono provocare gli “utopisti ingenui”, che

vogliono migliorare il mondo. “In questo modo”, scrive Havel, “si arriva al triste finale, al momento

in cui il critico implacabile del mondo, si trasforma nel suo strenuo difensore”.

Havel riconosceva di comprendere la disillusione di tanti, perché provocata dalla debolezza,

dalla solitudine e dall’impotenza dell’uomo. “Però”, scrive, “sono convinto che in questa valle di

lacrime non esista nulla che possa togliere all’uomo la speranza, la fede, il senso della vita: li

perdiamo solo quando siamo noi a venir meno”.

Questo commovente annuncio e questa definizione dell’atteggiamento irriducibile del

dissidente, contiene alcune trappole pericolose. La più pericolosa è la trappola del fanatismo.

Scrive ad Olga: “Il fanatismo è una fede che tradisce se stessa”.

Il fanatico, dapprima crede di essere “responsabile per tutto”, quanto più questa

responsabilità è sconfinata, “tanto più è indifesa davanti al trauma provocato dall’evidenza della

realtà del mondo così come è stato appena descritto”. E allora la fede in un’idea si trasforma nella

fede in una concreta istituzione. Ed è qui “l’errore fatale”. Trasferire un’idea “dalla sfera di un

sogno senza confini al terreno dei gesti umani concreti” porta l’uomo ad essere ciecamente

obbediente all’istituzione in cui vede il compimento dei suoi ideali. Spesso questo è allettante:

l’obbedienza sostituisce la riflessione, l’uomo è esonerato dall’imperativo di pensare in modo

Page 19: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

autonomo per passare a servire l’istituzione (ambiente, partito, setta), in cui vede la strada per

realizzare il proprio “sogno sconfinato”.

E Havel aggiunge: “Il fanatico è colui, che senza rendersene conto, sostituisce l’amore per

Dio con l’amore per una religione creata da lui; l’amore per la verità con l’amore per un’ideologia,

una dottrina o un setta, che gli hanno promesso che la realizzeranno definitivamente; l’amore per gli

uomini con l’amore per un progetto, che sostiene di essere in grado, e naturalmente di essere

l’unico, di servire veramente gli uomini.

Quanto maggiore è il fanatismo di una persona, tanto più facilmente essa cambia l’oggetto

della sua «fede», le basta un attimo per passare dalla fede nel maoismo alla fede nei Testimoni di

Geova, o viceversa, senza minimamente diminuire la propria dedizione”. Il fanatismo può rendere

la vita più facile, ma il prezzo è la distruzione della vita stessa. Il destino tragico del fanatico sta in

questo: il bel sogno umano di “farsi carico della sofferenza di tutto il mondo, alla fine non fa altro

che moltiplicare la sofferenza: organizzando i campi di concentramento, l’inquisizione, omicidi e

sentenze di morte”.

XII

Torniamo adesso a Jan Patocka, mentore intellettuale e autorità morale per i dissidenti cechi.

Nel periodo della “normalizzazione” scrisse:

“Oggi l’intellettuale ha tre modi possibili di agire: l’emigrazione interiore, come Platone, il

compromesso, come i Sofisti, o una coerente vita nella verità, il conflitto con il potere e la morte,

come Socrate”.

E scrisse nel saggio su Tomas Garrigue Masaryk, il primo presidente della Cecoslovacchia:

“La maggior parte dei filosofi ha immaginato uno stato ideale, ma nel corso di tutta la storia solo ad

un pensatore è stato concesso di poterlo realizzare, attraverso una concreta azione politica: a

Masaryk, appunto”.

Havel ha fatto un secondo tentativo del genere e, come Socrate, scelse senza compromessi di

essere in conflitto con il potere. E inaspettatamente, per un concorso di circostanze, ecco che

Socrate diviene Pericle: nel dicembre 1989, Havel viene eletto presidente della Cecoslovacchia.

Già nel suo primo discorso in occasione del nuovo anno, il primo gennaio 1990, descrivendo

le condizioni dello stato dopo anni di dittatura, pronunciò queste frasi memorabili: “Siamo malati,

Page 20: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

perché ci siamo abituati a dire una cosa e a pensarne un’altra (…). Penso a tutti noi. Infatti, tutti ci

siamo abituati al sistema totalitario e lo abbiamo ritenuto immutabile. In questo modo lo abbiamo

tenuto in vita. In altre parole, tutti, anche se, ovviamente, in misura diversa, siamo responsabili per

il funzionamento della macchina totalitaria. Nessuno di noi è stato soltanto una vittima, ma tutti ne

siamo stati anche i co-autori”.

Il nuovo presidente parlò anche della necessità di far memoria di coloro che “durante la

guerra salvarono l’onore delle nostre nazioni, che hanno opposto resistenza ai governi totalitari o

che, semplicemente, sono riusciti a rimanere se stessi, a pensare in modo libero”. Parlò della

necessità di una giustizia applicata da tribunali indipendenti. Sottolineò che il pericolo maggiore

non era rappresentato dai comunisti o dalle “mafie internazionali”. “Il pericolo maggiore”, disse,

“sono i nostri difetti: indifferenza verso la cosa pubblica, orgoglio, eccessive ambizioni personali,

egoismo”.

Si riferì alla tradizione di Masaryk, che “aveva fondato la politica sui principi morali”.

Disse: “Proviamo a far rinascere una politica come quella”, cioè una politica capace di contribuire

alla felicità dell’uomo senza ingannarlo. Infatti, “la politica non deve essere solo l’arte del possibile,

soprattutto se con la parola arte si intendono speculazione, calcolo, intrighi, accordi segreti e

manovre pragmatiche, ma può anche essere l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se

stessi e il mondo”.

Concludendo, disse di sognare “una repubblica umana, al servizio dell’uomo” e per questo

di sperare che anche “l’uomo possa essere al servizio della politica”.

Questo era il credo di Socrate ormai divenuto Pericle. La storia della vita di Havel fino al

primo gennaio 1990 era stata una specie di bella favola con un finale meraviglioso. In quel

momento molti di noi, dissidenti fino al giorno prima, la pensavano allo stesso modo: poiché fino a

questo momento era andato tutto bene, anche adesso…

Di lì a poco, però, la favola finì.

XIII

Già nel febbraio 1990, nell’anniversario del febbraio 1948, Havel ebbe una brutta sorpresa.

In quel momento era al massimo della popolarità, parlava ad un pubblico ben disposto, ma quando

annunciò l’abolizione della pena di morte, si levò un brusio di protesta. “A quanto pare”, disse anni

dopo, “per una qualche ragione, la pena di morte piace molto al popolo”. Quello fu uno dei primi

Page 21: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

segnali della “fine dalla favola”: si era rivelato un altro volto di quella società che per anni aveva

tenuto nascoste tutte le sue facce, quelle migliori e quelle peggiori.

Anni dopo (nel 2005) parlò dell’”atmosfera soffocante” che aveva intorno dopo la “fine

dalla favola”. Scrisse: “Sembrava che l’ideale della solidarietà fosse al di sopra di tutto, invece in

sostanza si trattava dell’ideale della mediocrità, della banalità, di un oscurantismo piccolo borghese

(…). Fu allora che l’ostilità verso gli ex dissidenti raggiunse il suo apice”.

Molti anni dopo annotò: “Subito dopo la rivoluzione, e dopo la riconquista della libertà, si

diffuse un’ossessione anticomunista molto particolare. Come se alcuni, che per anni avevano taciuto

(…) ed erano stati ben attenti a non esporsi, improvvisamente sentissero il bisogno di reagire con

grandi gesti alle precedenti umiliazioni o alla consapevolezza di non essere stati all’altezza. Per

questo presero di mira coloro che meno di altri li giudicavano, cioè i dissidenti. Infatti, per loro

erano una spina nel fianco, l’esempio del fatto che, volendolo, era stato possibile non essere

completamente sottomessi.

È curioso che negli anni in cui i dissidenti sembravano un gruppo di folli don Chisciotte,

l’ostilità nei loro confronti non era stata così forte come negli anni successivi, quando la storia

aveva dato loro ragione. Questo era troppo, questo era imperdonabile! E quanto più era evidente che

i dissidenti non rimproveravano nessuno e non accusavano nessuno (e, Dio ce ne scampi, non si

ritenevano un esempio per nessuno) tanto più, paradossalmente, cresceva la rabbia contro di loro.

Quindi, in ultima analisi, qualsiasi neo anticomunista se la prendeva di più con i dissidenti che con i

rappresentanti del vecchio regime.

Da qui nacque la leggenda sull’estremismo di sinistra dei dissidenti, sul loro essere una

“élite” chiusa (come possono ritenersi una élite uomini che per interi decenni sono stati chiusi nei

locali caldaia o in prigione e non per questo si sentivano superiori?), che non avevano il giusto

rispetto per le illuminate istituzioni occidentali, eccetera, eccetera (…). Questa ideologia è ben

contenuta in un articolo in cui si affermava che i dissidenti non avevano avuto nessun merito

particolare nella caduta del comunismo, il comunismo era caduto grazie ai cittadini «normali» che

si erano comportanti in modo «normale», perché, occupandosi solo dei propri interessi, di tanto in

tanto avevano rubato un mattone dai cantieri.

Ovviamente, questa interpretazione è molto gradita ad una società che vi trova la conferma

ultima della ragionevolezza delle proprie scelte: adesso che possiamo farlo, esaltiamo il capitalismo

e condanniamo tutti quelli che lo criticano, mentre un tempo, quando non lo potevamo fare,

Page 22: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

andavamo obbedientemente a votare per i comunisti (…) per difendere noi stessi. E chi è che non fa

altro che agitare sempre le acque? I dissidenti di estrema sinistra”.

Havel vedeva in tutto questo “la piccolezza ceca” e la sua filosofia: “Non immischiarti in

questioni non tue, piegati e inchinati: siamo circondati dalle montagne, tutte le tempeste del mondo

voleranno sopra le nostre teste, e noi continueremo a razzolare nel nostro cortile”.

“Nella nostra storia – Havel torna spesso su questo concetto – abbiamo visto ripetersi

situazioni, in cui la società si è lanciata in un’azione, ma poi i suoi capi hanno fatto un passo

indietro (…) hanno ceduto davanti a qualcosa, hanno sacrificato qualcosa, ovviamente sempre per

salvare l’esistenza della nazione. La società ne è stata dapprima traumatizzata, ma poi ben presto ha

rinunciato a tutto (cioè «ha capito le ragioni dei propri capi»), ed infine è caduta nell’apatia, o

addirittura nell’incoscienza (…). Così è accaduto negli anni dopo Monaco, nel periodo del

Protettorato, negli anni ’50, e nel 1968, dopo l’occupazione sovietica. In un primo momento, si

sentono frasi del tipo: «Ci hanno tradito», «Si sono alleati tutti contro di noi», e poi: «Non c’è

nessun senso», e alla fine qualcuno lancia il grido del nazionalismo, e arrivano gli slogan sugli

«interessi nazionali», e la tacita approvazione della persecuzione di una qualche minoranza. Vince

la «super-cechicità» nella sua versione peggiore”.

Il “Super-ceco” è il simbolo dell’oscurantismo e dell’odio verso tutti coloro che la pensano

in modo diverso. E allora, ecco gli appelli: “Liberiamoci degli Ebrei, poi dei Tedeschi, poi dei

borghesi, poi dei dissidenti, poi degli Slovacchi – e chi sarà il prossimo? I Rom? Gli omosessuali?

Tutti gli stranieri? Chi rimarrà qui? I «Super-cechi» dal sangue puro, nel loro cortile.”

Dopo il 1989, il “Super-ceco” ha trovato una formula più sottile: l’antieuropeismo che però

secondo Havel racchiude “un identico rapporto con il mondo: perché mai dobbiamo consultarci con

qualcuno? Perché dobbiamo ascoltare un altro? Perché dobbiamo condividere il potere con un

estraneo? Perché dobbiamo aiutare uno straniero? A cosa ci servono le loro norme tecniche? (…)

«Noi ce la facciamo da soli», e questo altro non è se non il nuovo volto della «super-cechicità»”.

“Ma attenzione” –sottolinea Havel – “il «Sper-ceco» ha il coraggio di mostrare i denti e di

strillare i suoi slogan di guerra, solo quando non c’è niente che lo minacci. Invece, se ha a che fare

con un avversario forte, abbassa le orecchie e diventa servile”.

Penso che ami davvero la propria patria solo chi ha il coraggio di dirle le verità più

scomode.

XIV

Page 23: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Dopo qualche decina d’anni (settembre 2002), Havel disse: “Solo adesso comincio a capire

che in realtà tutto questo non è stato altro che una diabolica trappola del destino. Infatti, da un

giorno all’altro sono stato catapultato nel mondo delle favole, per poi crollare a terra e rimanervi per

molti anni”.

Queste parole di Havel mi stupirono molto: per lui il mondo delle favole era cominciato

quando fu eletto presidente; per me in quel momento la favola era già finita. Infatti, fin dai primi

giorni di libertà cominciò il tempo della lotta con quella dura materia che è la realtà. I discorsi di

Havel Presidente riflettono in modo perfetto i dilemmi e le ambiguità, i successi e le delusioni di

quel periodo.

Nell’agosto del 1990, cogliendo di sorpresa molti amici, Havel disse: “la nostra rivoluzione

è incompiuta”, perché dietro i problemi quotidiani “si celano i tentacoli di mafie invisibili”, che

cercano “di impadronirsi di un patrimonio che non appartiene loro, di creare delle società per azioni

sospette, di trovare il modo per far fruttare capitali ottenuti illegalmente. In modo invisibile, questi

tentacoli si avvinghiano a tutta la nostra economia”.

Erano giudizi sconvolgenti. Nel linguaggio di quel periodo risuonavano come un appello a

purghe personali e creavano un clima di terrore davanti ad un nemico onnipresente. Appelli di

questo tipo, del resto, si sentivano anche al di fuori della Cecoslovacchia: dopo la fase della lotta

per la libertà, era cominciata la fase della lotta per il potere. Secondo una successiva definizione di

Havel, “alcuni pensatori nazionali improvvisamente illuminati” si servivano di questi slogan, e

degli appelli alla de-comunizzazione e alla lustrazione, per denigrare “coloro che, bene o male,

provavano a ripristinare la democrazia”. Per questo mi sono chiesto più volte se quelle formule

“rivoluzione incompiuta” e “tentacoli invisibili” esprimessero una vera convinzione di Havel, o se

egli stesse usando tatticamente gli slogan dei populisti radicali per dare un altro significato a quelle

parole, che suonavano così minacciose.

Non so rispondere a questa domanda. In ogni caso penso che, se Havel ha sbagliato la

diagnosi parlando di “rivoluzione incompiuta”, certamente non intendeva scatenare una “caccia alle

streghe” e non auspicava lo scoppio di un’ondata di odio post-rivoluzionario. Sicuramente egli

comprendeva bene il senso della tattica in politica, ma non accettò mai la tesi secondo cui “la

politica deve essere sporca”. Ripeteva cocciutamente: “Chi dice che la politica è sporca, la rende

sporca”.

Page 24: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Anche per questo, nei suoi discorsi era molto diretto e brutalmente sincero, anche quando

parlava dei propri errori e delle proprie illusioni. Riconosceva spesso di peccare di impazienza. “Ho

ceduto alla convinzione idiota di essere il signore sovrano della realtà” - ammise- “Questo è stato un

errore!”.

La storia cambia per gradi e per accelerare il cambiamento non la si deve manipolare

violentemente. Il mondo non è una macchina. “Bisogna seminare la semente e con pazienza

innaffiare la terra che la copre, lasciando alla pianta tutto il tempo di cui ha bisogno. Non possiamo

ingannare la pianta, e neppure la storia. Anch’essa va innaffiata e curata. Con pazienza, umiltà e

amore.”

XV

Havel fece anche osservare che la perdita dei vecchi valori e un certo vuoto assiologico

generano frustrazione. E la frustrazione provoca tendenze pericolose: si cominciano a chiedere un

governo dal pugno di ferro e uno stato nazionalistico, etnicamente “puro”. Si comincia a cercare il

“colpevole della frustrazione, per sconfiggerlo e curare così la ferita inferta al sentimento del

proprio valore”.

Nel 1993 Havel fece un elenco: “il significativo aumento della criminalità, la violenza

collettiva, l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia cui si resta indifferenti, la

crescente corruzione, la «febbre dell’oro» e la convinzione che la vita sia una jungla, che homo

hominis lupus sono i sintomi più evidenti della particolare condizione in cui si trova la società dopo

il crollo del sistema di valori dello stato totalitario”. Da qui nasce un atteggiamento di generale

sospetto, la ricerca degli scandali, “questo sbraitare per soffocare i propri complessi”. Tornano sulla

scena le tradizioni peggiori della storia ceca: il provincialismo, il servilismo davanti ai potenti e la

brutalità davanti ai deboli, il tentativo di “scivolare nella storia ad ogni costo, anche a costo di

perdere la faccia”.

Leggendo queste parole così dure di Havel, uomo mite e delicato, ho pensato che stavo

leggendo un rapporto dall’”inferno polacco” di quegli anni e degli anni seguenti.

Nonostante l’evidente successo della trasformazione democratica, Havel subì anche alcune

sconfitte dolorose. Una di queste fu il dissolvimento della repubblica cecoslovacca. Havel era

contrario, e fece molto per costruire “una vera federazione democratica, in cui potessero sentirsi

bene tutti”. Ma dovette riconoscere che “questi sforzi non ebbero successo”.

Page 25: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Havel è sempre rimasto fedele alla sua convinzione che le istituzioni della società civile

avessero un grande valore. Era convinto che “lo stato democratico non possa essere composto

unicamente dall’amministrazione, dai partiti politici e dalle aziende private”, perché in uno stato di

tal genere “la nostra vita si appiattirebbe, appassirebbe, si ridurrebbe solo alla ricerca del

guadagno”.

Questa posizione fu oggetto di conflitto, spesso mascherato, con Vaclav Klause. Havel fece

un’allusione molto chiara:

“Oggi sentiamo spesso la parola «standardizzato»: creiamo un’economia di mercato

standardizzata, un sistema politico standardizzato, partiti standardizzati, votiamo decreti e leggi

standardizzati (…), guardiamo pubblicità standardizzate … Però dovremmo stare attenti a non

cominciare a professare la fede nella «standardizzazione» in quanto tale (…). Perché è la vita stessa

a non essere un fenomeno standardizzato, e sarei terrorizzato da un mondo che mi imponesse di

avere una moglie standardizzata, un sorriso standardizzato o un’anima standardizzata, o di essere

uno scrittore o un presidente standardizzato.

Sì, certo, vorrei una società civile standardizzata. Ma questo che cosa significa? Nient’altro

che il rispetto per tutto ciò che non è standardizzato, che è eccezionale, non comune, individuale, o

addirittura, in un modo o nell’altro, provocatorio. Questo significa avere rispetto per la vita e il suo

mistero, avere fiducia nell’animo umano e simpatia per tutti gli esseri non standardizzati, che sono

felici nel rendere felici gli altri”.

Havel ha sempre, e con coerenza, criticato di qualsiasi stato ideologico: la Seconda Guerra

Mondiale e la guerra in Jugoslavia hanno mostrato l’essenza dello “stato etnicamente puro”. Il

comunismo ha mostrato l’essenza dello stato “ideologico e classista”. L’idea dello stato religioso è

evidente nel fondamentalismo di alcuni stati islamici. “Un’ideologia che costruisce lo stato

unicamente su ciò che divide gli uomini, non può che portare alla violenza”.

“Oggi uno stato fondato sui principi civili, sui principi che uniscono gli uomini e non su

quelli che li dividono, e non soffocano nessuna diversa identità dell’uomo” è l’unica alternativa ad

uno stato programmaticamente nazionalista. La condizione per realizzare uno stato di questo genere

è l’esistenza della società civile.

Havel non era un cosmopolita. Ha sempre sottolineato il proprio orgoglio per la sua identità

ceca e per la tradizione ceca resa illustre dai nomi di Hus e Comneno, Masaryk e Patocka. Ma,

Page 26: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

come ogni vero patriota democratico, sapeva anche guardare criticamente ai momenti oscuri della

storia della sua patria.

XVI

Già nella lettera ad Aleksandr Dubcek (1969), Vaclav Havel aveva ricordato l’esempio di

Edward Benes e il 1938.

“In quel periodo, proprio voi, i comunisti, rifiutaste decisamente la suggestiva ideologia

della capitolazione, perché avevate giustamente compreso che una sconfitta di fatto non deve

significare anche una sconfitta morale, che una vittoria morale, con il passare del tempo, può

trasformarsi in successo, ma questo non potrà mai accadere ad una sconfitta morale.”

Alla radice del drammatico dilemma di Benes c’era il tradimento suicida della Francia e

della Gran Bretagna, che consegnarono la Cecoslovacchia nelle mani di Hitler. Benes si trovò

davanti ad una scelta: combattere da solo Hitler, o capitolare?

“Sapeva bene” – scrisse Havel – “che era giusto non cedere a quel diktat e decidere di

difendere il paese. Ma sapeva anche che cosa poteva significare: decine o centinaia di migliaia di

vittime, distruzioni belliche e (…) una sconfitta davanti ad un nemico incomparabilmente più forte.

Sapeva che quella decisione avrebbe certamente suscitato le incomprensioni e le proteste del mondo

democratico, che avrebbe considerato Benes il distruttore della pace, un provocatore e un azzardato.

che sperava ingenuamente di coinvolgere anche le altre nazioni in una guerra inutile. Decise,

quindi, di capitolare senza combattere, perché gli sembrò una posizione più responsabile rispetto al

rischio di una sconfitta che sarebbe costata tante vittime”.

Il risultato della capitolazione di Benes del 1938, ed anche di quella del 1948, provocò un

“profondo trauma nella società e la perdita per molto tempo dei suoi valori morali”. Fece la sua

comparsa anche un “particolare tipo di frustrazione”: la democrazia si era arresa senza combattere.

Havel riconobbe onestamente che negli anni della dissidenza aveva sempre giudicato la decisione di

Benes un “errore fatale”, e che in quegli anni non gli era difficile avere un giudizio netto. Adesso,

invece, che era divenuto presidente, aveva la consapevolezza del peso che grava su chi è

responsabile “del destino dei propri concittadini e dei loro discendenti”.

E nel 1995 si chiese che cosa avrebbe fatto al posto dei suoi predecessori. Rispose

prudentemente: “non lo so”. La scelta di una resistenza armata avrebbe certamente causato molte

Page 27: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

vittime e sofferenze. Però, forse, avrebbe evitato altre perdite “provocate da una ferita così

all’integrità morale della comunità nazionale”.

Havel disse sinteticamente: “Penso solo che avrei preso decisioni diverse dalle loro”. Però

non escluse di pensarla così, perché sapeva “quello che loro non sapevano: a che cosa avrebbero

portato quelle decisioni”.

“In ultima analisi” – aggiunse – “mi sarei rivolto alla mia coscienza, al mio istinto morale, a

ciò che è in me e mi trascende”.

Leggendo le riflessioni di Havel, mi sono soffermato spesso sul dilemma di Benes.

Comprendo l’assiologia di Havel, ma comprendo anche le argomentazioni di Benes. Ognuno ha il

diritto di rischiare la propria vita: Havel lo ha fatto sopportando delle conseguenze che meritano

tutta la nostra ammirazione. Ma è lecito mettere a repentaglio la vita di centinaia di migliaia di

persone?

Max Weber vedeva in questo il conflitto tra l’etica delle convinzioni e l’etica della

responsabilità. Havel lo ha definito come conflitto tra il pragmatismo e la morale. Per un politico

onesto spesso questa è una scelta tragica: questo è, infatti, il senso di tutto il dibattito sul “male

minore”. Nella situazione dei Cechi del 1938, ritengo che la resistenza fosse indispensabile, e che

invece il confronto militare (a meno che non fosse stato solo simbolico), forse, sarebbe stato un

errore. In questo deve consistere la saggezza politica di “una piccola nazione”.

Del resto, Havel precisò il proprio punto di vista nell’intervista fiume con Karel Hvizd’ala:

“Se lei vuole sacrificare la vita per la libertà di tutti noi, può farlo. Posso farlo anch’io. Ma né lei, né

io, abbiamo il diritto di costringere qualcun altro a farlo o di sacrificare la vita di chicchessia, senza

chiedergli il permesso”.

Dopo qualche tempo, tornò nel dibattito europeo il tema delle cosiddette deportazioni, e con

esso dei decreti di Benes sull’espulsione dei Tedeschi dalla Cecoslovacchia. Per alcuni politici

tedeschi Benes era il simbolo del male. Havel allora scrisse un articolo dedicato ai dilemmi di

Benes.

In quell’occasione pose l’accento su alcuni punti. Ricordò di essere sempre stato critico

verso la decisione di Benes di capitolare nel 1938, e verso i decreti sulla deportazione di un milione

di Tedeschi dal territorio della Cecoslovacchia dopo la sconfitta del Terzo Reich. Al tempo stesso,

ricordò tutto ciò che Benes aveva realizzato: nel 1930 aveva incarnato le migliori tradizioni

democratiche europee, era stato uno degli artefici della Lega delle Nazioni, aveva messo in guardia

Page 28: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

dal nazismo e “aveva cercato di strappare dal sonno l’Occidente. Purtroppo senza risultati”. Hitler

aveva mandato in campo di concentramento i parenti di Benes. Durante l’emigrazione a Londra, era

diventato il simbolo della lotta dei Cechi contro il nazismo, come De Gaulle lo era stato per i

Francesi.

Perché aveva ritenuto che per una pace duratura fosse necessario espellere i Tedeschi?

Scrisse Havel: “Possiamo rispondere a questa domanda in modo superficiale, e mettere sullo stesso

piano Benes, Stalin e Milosevic, ma questo sarebbe veramente troppo riduttivo. Infatti, anche

politici del calibro di Churchill e Roosvelt erano convinti, come il presidente della Cecoslovacchia,

che l’espulsione fosse indispensabile”.

Allo stesso tempo, Havel individuò la ragione segreta della campagna anti-Benes scatenata

dall’Associazione dei deportati: “Dobbiamo chiederci se, scaricando tutta la responsabilità su un

uomo solo, non ci sia per caso qualcuno che vuole sfuggire alle proprie responsabilità”.

Le affermazioni di Havel su Benes non contengono giudizi diversi, ma è il contesto in cui

vennero pronunciate ad essere diverso. Il primo articolo di Havel era rivolto ai Cechi, e la sua linea

era la ricerca della verità nel linguaggio dell’etica delle convinzioni; nel secondo articolo scriveva

agli stranieri e la sua linea era la ricerca della verità nel linguaggio dell’etica della responsabilità.

XVII

La tensione fra l’etica delle convinzioni e l’etica della responsabilità accompagnò anche

l’azione politica di Havel presidente. Egli si trovò di fronte ad un dilemma difficile: “Il parlamento

ha deliberato una legge, che dal punto di vista morale ritengo cattiva, ma che secondo la

costituzione devo firmare”.

Si trattava della legge che proibiva di lavorare per l’amministrazione statale a chi in passato

aveva violato i diritti umani.

Secondo Havel, “questa legge si basa sul principio della responsabilità collettiva e proibisce

ad alcune persone di svolgere determinate funzioni, unicamente per la loro passata appartenenza a

determinate organizzazioni, o istituzioni, descritte in modo sommario, senza riconoscere loro il

diritto ad essere giudicate individualmente, e questo costituisce un’evidente violazione dei principi

dello stato democratico di diritto. Inoltre, in questo caso i documenti interni della polizia segreta

comunista sono l’unica, più autorevole, e definitiva «testimonianza di moralità»”.

Page 29: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Ricordo le discussioni su questa legge. Personalmente la giudicavo molto più negativamente

di quanto non facesse Havel e gli consigliai di non firmarla. Vi scorgevo un elemento della strategia

dei populisti radicali, che volevano trasformare l’anticomunismo d’ufficio in ideologia della

repubblica. Vaclav, nel suo giudizio, era più prudente. Scrisse: “E’ una legge molto severa, ma si

tratta di una norma straordinaria e necessaria. Però, dal punto di vista dei diritti umani fondamentali

è una legge che solleva molti problemi”.

Rifiutarsi di firmare poteva scatenare un conflitto aperto tra il presidente e il parlamento e

una crisi politica nello stato. Spiegò Havel: “Sarebbe stato un gesto di disobbedienza civile tipica

del dissidente, moralmente ineccepibile, ma politicamente molto rischioso.”

Havel firmò la legge. Essa apriva la strada ad una “lustrazione selvaggia”. In un’intervista

per “Gazeta Wyborcza” disse che “la pubblicazione su «Rude Pravo» della lista dei supposti

collaboratori dei Servizi di Sicurezza causò molte tragedie umane”. I due autori di quella

pubblicazione (d’altro canto ex firmatari di Charta ’77) intentarono ad Havel una causa per

diffamazione. La dichiarazione di Havel al tribunale di Praga è un classico della pubblicistica anti

lustrazione.

L’imputato Havel citò molte delle lettere che aveva ricevuto, che descrivevano le tragedie

umane provocate dalla pubblicazione della lista. Le persone della lista, benché spesso fossero

assolutamente innocenti, “furono diffamate per sempre senza nessuna possibilità di ripulirsi”.

Disse ancora Havel: “Molte persone si sono ritrovate sulla lista senza saperlo, molte altre

perché avevano accettato un invito di qualche agente segreto al ristorante, altre, invece, hanno

ceduto e hanno firmato un qualche pezzo di carta, perché si trovavano in un momento di difficoltà

(di cui voi qui presenti, che mi accusate, non potete neppure avere una vaga idea), erano straziate

fisicamente e psicologicamente, o erano ricattate nei modi più diversi, il più delle volte erano

minacciate di ritorsioni sui loro figli, o i loro parenti. Spesso non sapevano neppure che cosa

stessero firmando; spesso la cosa finì con quella firma apposta qualche decennio prima, perché in

seguito queste persone trovarono il coraggio di rifiutarsi di collaborare, e per questo furono poi

punite”.

E aggiunse: “Non escludo che una parte di coloro che mi hanno scritto abbia una coscienza

non totalmente pulita, e cerchi di presentare di se stesso un’immagine migliore di quanto non sia in

realtà”.

Page 30: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Poi si chiese: “Però, sulla base di quale diritto, una persona può essere condannata senza

processo, in modo selvaggio e sospetto, senza darle la possibilità di difendersi? Sulla base di quale

diritto devono soffrire i suoi figli e i suoi parenti, che non sapevano niente di quel suo momento di

debolezza? Perché devono essere messi alla berlina uomini ormai defunti, che si sono portati la

propria storia nella tomba?

La nostra società per interi decenni ha subito le illegalità di un potere, che non esitava ad

usare tutti gli strumenti della violenza e del ricatto (…). Tenevano in ostaggio soprattutto i figli,

perché il loro futuro dipendeva dall’obbedienza dei genitori. La nostra nazione, come altre, non è

composta solo da eroi, e per questo molti hanno cercato, più o meno bene, di ingannare il potere,

appagandolo con piccole concessioni, senza consegnargli l’anima, ad esempio riferendo colloqui

del tutto innocenti con gli inquisiti. Ma relazioni di questo genere hanno potuto far iscrivere decine

di persone nei registri della polizia.

Le ricerche serie ci dimostrano che i delatori attivi erano una minoranza, mentre la maggior

parte delle persone contenute nelle liste sono colpevoli solo di avere accettato un contatto passivo

con i servizi di sicurezza, o addirittura non hanno fatto neppure questo. In gran parte, le persone di

queste liste erano state perseguitate e avevano sofferto in un modo che difficilmente possono

immaginare coloro che sono riusciti a scivolare indenni attraverso la vecchia epoca solo perché

valevano così poco da non suscitare alcun interesse nei servizi di sicurezza.

Le cosiddette liste dei cosiddetti collaboratori dei servizi hanno un’origine molto poco

chiara, sono piene di dati sbagliati e molte cose fanno supporre che siano opera di qualche astuto

«disinformatore» che milita nelle fila dei servizi, e questo vale sia per coloro che negli anni le

hanno compilate, sia per coloro che le hanno passate alla stampa (…). Ritengo che tutta questa

faccenda sia uno dei maggiori successi dei servizi segreti. Per molti anni sono riusciti ad avvelenare

l’atmosfera dello stato democratico, a mobilitare la plebaglia, che gode soprattutto quando riesce a

far del male agli altri, e a metterle cinicamente in mano la bandiera dell’anticomunismo (…).

Questi giudici auto referenziati che siedono qui, sul banco dell’accusa, non sono altro che i

continuatori dell’ideologia comunista dell’odio, della vendetta e delle violazioni della legge tipiche

del totalitarismo. Quello che hanno scritto è soltanto una cloaca che diffonde male e odio”.

Vaclav Havel, presidente–dissidente, fece una diagnosi perfetta. In quanto presidente si

lasciò guidare dall’etica della responsabilità, in quanto accusato attinse all’etica delle convinzioni

del dissidente.

Page 31: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

XVIII

Negli scritti di Havel non c’è mai odio. Una volta ammise di non essere capace di odiare. La

sua divisa, spesso schernita dai cinici, dai furbi e dagli stupidi, era questa frase: “La verità e l’amore

devono vincere sulla menzogna e sull’odio”.

Però, Havel sapeva anche osservare con attenzione, benché senza alcuna empatia, “gli

uomini dell’odio”. Descrisse le sue osservazioni nel magnifico saggio Anatomia dell’odio; si tratta

di una conferenza pronunciata nell’estate del 1990 ad Oslo. Ascoltai quella conferenza e ricordo

bene che fui affascinato dalla semplicità e dalla logica ferrea di quelle riflessioni.

E allora, chi sono secondo Havel “gli uomini dell’odio”? Sono persone molto operose. “Il

loro odio mi sembra sempre che nasca da un qualche grande sogno incompiuto (…), o da

un’enorme ambizione (…). Si tratta di uomini che si sentono sempre, ostinatamente ed

esageratamente vittime di un torto (…). Vorrebbero essere stimati ed amati da tutti, e sono

dolorosamente convinti che gli altri siano ingiusti ed ingrati nei loro confronti, poiché non solo non

li rispettano e non li ammirano come dovrebbero, ma al contrario – per lo meno così pensano – li

disprezzano (…).

Chi odia, inconsciamente, crede di essere l’unico vero depositario della verità e quindi di

essere una specie di super uomo, o addirittura di essere un dio (…). L’odio è la caratteristica

diabolica dell’angelo caduto: è la condizione di un’anima che vorrebbe essere Dio, o crede di

esserlo, che però sperimenta continuamente e dolorosamente di non esserlo (…). Per chi odia,

l’odio in sé è più importante dell’oggetto cui è rivolto, e quindi riesce a cambiare oggetto molto

rapidamente, benché il suo atteggiamento di fondo non muti (…).

Chi odia, non sa sorridere, sa solo fare delle smorfie. Non è capace di vera ironia, perché

non conosce l’autoironia. Infatti, sa ridere veramente solo chi sa ridere di se stesso (…). Chi odia un

singolo uomo, è capace quasi sempre di cedere all’odio collettivo e di diffonderlo attivamente (…).

L’odio collettivo libera gli uomini dalla solitudine, dal senso di abbandono e di impotenza e

dall’anonimato, e per questo li libera dal complesso di essere sottovalutati e di non avere successo.

Infatti, propone loro una comunità e crea una sorta particolare di fratellanza (…). Questi uomini

possono continuamente rassicurarsi a vicenda sul proprio valore, facendo a gara nel mostrare il

proprio odio per il gruppo in cui individuano i supposti colpevoli dei torti da loro subiti.”

Page 32: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

L’odio collettivo nasce in modo impercettibile. “Infatti, c’è tutta una serie di gradi del

pensiero collettivo, apparentemente innocenti, che inavvertitamente, ma inesorabilmente gettano le

basi per i successivi livelli dell’odio, ci sono dei campi fertili ed ubertosi in cui i semi attecchiscono

facilmente e cominciano a germogliare abbondantemente”.

In conclusione Havel osserva:

“Diversi osservatori ritengono che l’attuale (1990) Europa Centro Orientale sia una

potenziale polveriera, perché sarebbe un territorio in cui si stanno diffondendo nazionalismi,

intolleranze etniche e in cui si vedono molti segnali di odio collettivo (…). Non condivido il

pessimismo di questi osservatori, anche se riconosco che se non saremo vigili e non avremo un

grande buon senso, questa parte d’Europa potrebbe diventare la miccia per un’esplosione di odio

collettivo”.

Vaclav Havel fu vigile e mostrò sempre grande buon senso in tutti gli anni a seguire.

Queste citazioni danno un’immagine della profondità delle riflessioni di Havel sul tema

dell’odio. Chi ha osservato le vicende delle trasformazioni delle società postcomuniste, e soprattutto

la tragedia della guerra in Jugoslavia, può facilmente apprezzarne la precisione. Per questo, il

saggio di Havel dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole di tutti i paesi dell’Europa

Centro Orientale.

XIX

È impossibile prendere in esame tutta la ricchezza degli scritti di Vaclav Havel, nemmeno

con un articolo molto più lungo di questo. È saggistica al massimo livello, dello stesso livello della

saggistica di George Orwell e Hanna Arendt, Josif Brodski e Istvan Bibò, Leszek Kolakowski e

Czeslaw Milosz. Havel è uno scrittore estremamente sensibile all’annuncio cristiano. Si è detto

convinto che “alla base di tutte le religioni ci sono le idee di tolleranza, aiuto al prossimo e

comprensione dell’altro, cioè semplicemente le idee del bene che Dio si aspetta dall’uomo”.

Ricevendo nel 1999 il premio di san Wojciech (sant’Adalberto N.d.T.), disse del santo

patrono:

“Nelle sue azioni terrene riportò, di fatto, solo sconfitte, fu incompreso, continuamente

perseguitato dal destino e dal suo ambiente”. E allora chi è per i nostri giorni? “E’ lo specchio della

nostra piccolezza e del nostro egoismo, è un continuo richiamo per la nostra coscienza”. “Il suo

Page 33: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

annuncio è un delicato, ma continuo, smuovere l’acqua stagnante, facendoci vedere che ci stiamo

allontanando dagli ideali in nome della cosiddetta realtà”.

Non sono uno specialista della storia di san Wojciech, però ritengo che gli storici parleranno

di Havel nello stesso modo, anche se Havel in politica non ha subito un così gran numero di

sconfitte: anche di lui scriveranno che è stato la coscienza del suo tempo, un profeta in mezzo ai

pragmatici, uno che smuoveva l’acqua ferma dello stagno europeo.

Oggi Havel non è più un politico. È di nuovo uno scrittore originale e indomito, che non

lascia tranquilli. Ma è stato anche un tipo particolare di politico, come Martin Luther King, il

Mahatma Gandhi, Nelson Mandela, Andrej Sacharov, Jacek Kuron; in politica è stato un uomo della

testimonianza, una delle grandi autorità morali del proprio tempo.

Inoltre, è stato un presidente assolutamente non banale, perché non è banale come uomo. Si

sentiva legato alla tradizione della contestazione del 1968; ha detto di sé: “sono della generazione

dei Beatles”. Guardava con simpatia al movimento degli hippies, alla musica e all’arte degli anni

’60, ai ragazzi e alle ragazze che passeggiavano scalzi per New York con le catenine al collo.

Da dissidente adorava la musica dei Rolling Stones o di Franck Zappa, che poi da presidente

ospitò a Praga. Sempre da dissidente organizzò la protesta di massa contro il processo ai musicisti

del gruppo “The Plastic People of the Universe”. Vide nella loro musica e nel loro atteggiamento

“l’espressione degli uomini oppressi dalla miseria di questo mondo”, una purezza e un pudore e una

tristezza metafisica. La protesta contro il processo ai Plastic People unì i più diversi ambiti

dell’opposizione, e portò alla nascita di Charta ’77. Anni dopo, da presidente, Havel partecipava

volentieri ai concerti dei Plastic.

Da dissidente, era un lettore appassionato della filosofia di Heidegger, di Patocka e di

Levinas, e possiamo ritrovare facilmente le tracce di questa sua passione nei discorsi che pronunciò

da presidente.

Quando era ancora un letterato alle prime armi, fu il primo a scrivere un saggio sui testi di

Bohumil Hrabal; da presidente della repubblica, invitò Hrabal a bere un boccale di birra con il

presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.

Non trovava piacere negli incontri con il primo ministro Vaclav Klaus. Erano diversi in

tutto: nel temperamento, nella statura, nel sistema di valori, nella biografia, nel senso

dell’umorismo. Klaus era abile e diligente, ma era anche un narcisista senza scrupoli, un uomo di

cui Havel scrisse: “o teme qualcuno, o umilia qualcuno”.

Page 34: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Dopo le prime elezioni democratiche al parlamento, il Forum Civico Ceco e la slovacca

Società Contro la Violenza decisero insieme che Klaus non sarebbe stato il ministro delle finanze

del nuovo governo. Gli Slovacchi volevano quel ministero. Ad Havel, in quanto presidente, fu

affidato “lo sgradito compito” di informare Klaus che non sarebbe diventato ministro, ma presidente

della Banca Nazionale.

“Purtroppo” – scrive Havel – “ho fallito vergognosamente quella missione. Quando lo dissi

a Klaus, mi rispose che era escluso, che tutto il mondo lo conosceva come ministro cecoslovacco

delle finanze, che non poteva ricoprire nessun altro incarico e che la sua uscita dal governo sarebbe

stata una catastrofe per tutto il paese. E io, invece di dirgli che quella era la decisione della forza

politica che aveva vinto le elezioni e che se non voleva andare alla Banca, poteva fare quello che gli

pareva, cedetti con educazione e mormorai qualcosa del tipo «Sì, va bene». Il Forum Civico si

arrabbiò con me, perché non avevo fatto quello che dovevo, e l’ostilità di Klaus nei miei confronti

si trasformò in odio. Mi comportai veramente da pessimo politico: non avevo fatto quello che avevo

promesso e in più ero riuscito a far arrabbiare tutti.”

Lo si vede benissimo nel film Il cittadino Havel, documentario fiume girato durante

entrambi i suoi mandati presidenziali. Quanti politici sanno parlare di sé con questo distacco e

questa ironia?

Havel è stato un politico atipico. Infastidiva per il suo idealismo, per il suo modo di dire la

verità, per il coraggio con cui si opponeva all’opinione pubblica istupidita. Ha realizzato una

politica che veniva dalla convinzione che “benché nessuno di noi da solo” possa salvare il mondo,

tuttavia egli doveva “agire come se lo potessi fare”.

Parlando così, era irritante. In questo senso non è stato un politico dei suoi tempi, benché

abbia lasciato un segno forte sul proprio tempo.

Quindi, in politica chi era? Era – ripeto una metafora di Havel – “come l’albatros di

Baudelaire – che continuamente si solleva un po’ da terra, perché un paio di «enormi ali» disturbano

il suo calpestio”.

Questo albatros della politica ceca ha cocciutamente fatto i conti con una domanda

evidentemente non politica: con la domanda sul senso della vita. Per lui questa domanda si

identificava con la domanda religiosa sull’”orizzonte assoluto”.

XX

Page 35: ADAM MICHNIK SAGGIO SU DIO, IL DIAVOLO E L’AMICO VACEK

Jan Patocka aveva messo a confronto le tradizioni della grande storia ceca e della piccola

storia ceca. G. Masaryk era il simbolo della prima: un uomo coraggioso, deciso e coerente. Benes

era il simbolo della seconda: “una mediocrità ambiziosa, diligente, chiacchierona, un uomo debole”.

Scrive Patocka: “E su un uomo del genere ricadde (nel 1938) il fardello di decidere il futuro profilo

morale della nazione ceca. Dovette scegliere, e scelse la meschinità”.

Non so se Patocka sia troppo severo nei confronti di Benes. So, però, che Havel ha guidato i

Cechi sul cammino della Grande Storia.

Continueranno a percorrerlo?