88
1 Afrologic Jazz-Studio Non è una scuola né una associazione ma un approccio culturale Afrologic Jazz-Studio [ Il libro on line: “Estetica del jazz” (Manifesto antirevisionista del jazz) è a pag. 5 ] Perché “Afrologic Jazz-Studio”? “Afrologic” perché il jazz è una musica occidentale che ha fatto proprie logiche (strategie e parametri estetici) tipicamente africane; “Studio” è il luogo dove si studia. Perchè “Manifesto antirevisionista del jazz”? Molti si stupiscono del fatto che si usi il termine “revisionismo storico”: ora se i concetti hanno un loro intrinseco significato che va al di là delle interpretazioni viziate dal senso comune, “revisionismo storico” è un termine che appartiene alle “Scienze storiche” e solo secondariamente viene utilizzato nella “Retorica politica”, quindi solo unilateralmente esso può essere associato al significato “barricadero” e “politichese”. Tutto ciò che è avvenuto dagli anni ’70 ad oggi comincia già a “mostrare la corda”, e la presunzione di essere “al pari con i tempi” è destinata a decadere e a lasciare un vuoto incolmabile se non verrà sostituita in tempo da idee realmente nuove, che sintetizzino ciò che di buono vi era in passato con ciò che avverrà in futuro! La tesi sul jazz qui sviluppata è diametralmente opposta a quella oggi dominante e comunemente accettata. Non solo riconoscendo, ma rivendicando l’assunto che in genere, e specialmente per il jazz, non si debba essere conservatori, si ribalta qui l’ordine del discorso ponendo in evidenza come, nel caso del jazz, la rivoluzione sia già avvenuta e pertanto essa debba oggi non solo essere tramandata, ma preservata dal revisionismo storico! La difesa delle fondamentali conquiste rivoluzionare è infatti il presupposto per continuare sulla strada del progresso, una strada che non si svolge certo in linea retta, ma in un intrecciarsi di errori, sconfitte e infiniti conflitti. L’iniziativa “Afrologic Jazz-Studio” (AJ-Studio) costituisce quindi il nucleo di una disinteressata attività culturale esclusivamente rivolta a tutti coloro i quali vorranno liberamente aderirvi e alla unione-spirituale-on- line di tutti coloro che, illuminati dagli alti contenuti insiti nel Jazz, sono

Afrologic Jazz-Studiomedia.dropdo.com.s3.amazonaws.com/7Xk/EsteticaDelJazzLibroOnline… · 1 Afrologic Jazz-Studio Non è una scuola né una associazione ma un approccio culturale

  • Upload
    phamdat

  • View
    220

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

1

Afrologic Jazz-Studio Non è una scuola né una associazione ma un approccio culturale

Afrologic Jazz-Studio

[[ IIll lliibbrroo oonn lliinnee:: ““EEsstteettiiccaa ddeell jjaazzzz”” ((MMaanniiffeessttoo aannttiirreevviissiioonniissttaa ddeell jjaazzzz)) èè aa ppaagg.. 55 ]]

Perché “Afrologic Jazz-Studio”? “Afrologic” perché il jazz è una musica occidentale che ha fatto proprie

logiche (strategie e parametri estetici) tipicamente africane;

“Studio” è il luogo dove si studia.

Perchè “Manifesto antirevisionista del jazz”?

Molti si stupiscono del fatto che si usi il termine “revisionismo storico”: ora se i concetti hanno un loro intrinseco significato che va al di là delle interpretazioni viziate dal senso comune, “revisionismo storico” è un termine che appartiene alle “Scienze storiche” e solo secondariamente viene utilizzato nella “Retorica politica”, quindi solo unilateralmente esso può essere associato al significato “barricadero” e “politichese”. Tutto ciò che è avvenuto dagli anni ’70 ad oggi comincia già a “mostrare la corda”, e la presunzione di essere “al pari con i tempi” è destinata a decadere e a lasciare un vuoto incolmabile se non verrà sostituita in tempo da idee realmente nuove, che sintetizzino ciò che di buono vi era in passato con ciò che avverrà in futuro! La tesi sul jazz qui sviluppata è diametralmente opposta a quella oggi dominante e comunemente accettata. Non solo riconoscendo, ma rivendicando l’assunto che in genere, e specialmente per il jazz, non si debba essere conservatori, si ribalta qui l’ordine del discorso ponendo in evidenza come, nel caso del jazz, la rivoluzione sia già avvenuta e pertanto essa debba oggi non solo essere tramandata, ma preservata dal revisionismo storico! La difesa delle fondamentali conquiste rivoluzionare è infatti il presupposto per continuare sulla strada del progresso, una strada che non si svolge certo in linea retta, ma in un intrecciarsi di errori, sconfitte e infiniti conflitti. L’iniziativa “Afrologic Jazz-Studio” (AJ-Studio) costituisce quindi il nucleo di una disinteressata attività culturale esclusivamente rivolta a tutti coloro i quali vorranno liberamente aderirvi e alla unione-spirituale-on-line di tutti coloro che, illuminati dagli alti contenuti insiti nel Jazz, sono

2

consapevoli e determinati nel voler custodire e tramandare questo bene prezioso, prodotto dello sviluppo spirituale dell’umanità. LA DIDATTICA La didattica AJ-Studio è basata sulla convinzione della necessità non solo di assecondare, ma anche di testimoniare punti di vista differenti e contrapposti, essa quindi non ha solo un indirizzo tecnico-musicale ma, parallelamente, anche estetico. Questo progetto didattico-culturale mette in atto un proposito tanto inedito quanto isolato, è difficile infatti, in un contesto completamente appiattito sulla performance, trasmettere una intenzionalità volta più ad esprimere che a impressionare. Che la didattica sia iscritta in una CORRENTE DI PENSIERO è per noi un requisito irrinunciabile, tanto più se la si persegue anche nella cultura e nell’arte, sempre eluse nelle scuole professionali, non peroriamo quindi IL JAZZ AL CONSERVATORIO quanto IL CONSERVATORIO DEL JAZZ!! La pubblica rivendicazione del nostro orientamento di pensiero e del nostro indirizzo musicale NEOMODERNISTA oltre che sembrarci legittima, è una garanzia di trasparenza che contribuisce non ingenerare equivoci, o peggio, proselitismo occulto. In quest’ottica l’indirizzo dato ai nostri seminari on-line di ESTETICA DEL JAZZ ; PADRONANZA METRICA; LINGUAGGIO JAZZ; IMPROVVISAZIONE, STORIA E DIDATTICA DELLA CHITARRA-JAZZ, ARMONIA-JAZZ assume un rilievo del tutto particolare in quanto parte integrante della concezione “AFROLOGICA” di produzione musicale.

LA CORRENTE DI PENSIERO La attuale conformistica ed unanime celebrazione della contaminazione a discapito dei generi, esternata da chiunque voglia auto-referenziarsi come all’ultimo grido, trascura il fatto elementare che se non esistessero le identità di genere, ovvero i soggetti stessi della contaminazione, quest’ultima non sarebbe possibile! Il fatto poi che il Jazz sia contaminazione non comporta automaticamente che qualsiasi contaminazione sia riuscita e significativa. Quella contaminazione è stata un evento spontaneo e felicemente scaturito da un periodo storico per molti versi diametralmente opposto al nostro. Ciò che oggi avviene potrebbe essere in buona misura mero eclettismo nel senso peggiore del termine. Alla “ideologia della contaminazione” oggi si aggiunge poi “l’ideologia della performance”. Che la performance sia implicita alla strategia di produzione del jazz è un fatto banalmente acquisito, a condizione però che essa non venga sovradimensionata, come oggi si tenta di fare, per ridimensionare i contenuti e aprire la strada alle: “parodie del mondo della finzione contemporaneo, che, simile al matto convinto di essere Napoleone perché ne indossa lo stesso tipo di cappello, si crede un opera d’arte solo perché se lo è messo in testa” (Bruno Pederetti “La forma dell’incompiuto”p. 90,Utet - 2007). La critica radicale delle nuove tendenze non implica necessariamente il perorare una “preservazione forzata” del jazz,

3

bensì il sottoporre al “vaglio della critica” le attuali novità, in molti casi ancora in corso d’opera. Ora le novità si dividono in due categorie:

1) Quelle che rientrano nei ‘paradigmi ’ del jazz;

2) Quelle che, avendo operato una “rivoluzione paradigmatica”, non possono più essere iscritte nel jazz [che è un genere musicale coi suoi canoni e i suoi contenuti semantico-culturali e non musica tout court].

Se parlo francese non mi si può venire a dire che parlo inglese! Così come non si può confondere, ad esempio, lo stile barocco col romanticismo musicale!Vi sembra forse che questo approccio analitico sia “conservatore” ed “eriga degli steccati”? O che buttare il tutto tendenziosamente all’interno di un calderone chiamato impropriamente “Jazz” non sia invece revisionistico e reazionario? Si può quindi prospettare che attualmente il jazz si delinei:

- Da un lato proiettato verso un “jazz d’autore” con “opere organizzate e strutturate nelle quali l’improvvisazione sarà circoscritta agli interventi solistici” (Franco Fayenz), e a ciò si potrebbe aggiungere che, avendo il jazz rappresentato una “straordinaria rivoluzione paradigmatica” (T. Khun) nella musica del ‘900, oggi si stia riallineando, in chiave post-moderna, ai vecchi paradigmi della musica europea. - Dall’altro lato, invece, esso risulti: “...dominato essenzialmente da rigidi schemi consumistici.” (Walter Mauro ”Storia del Jazz” Newton, pag.87); - “Oggi la situazione è grave... ...Questa è la ragione per cui c’è quella stupida combinazione di jazz e rock, chiamata fusion , che secondo me è una cosa orrenda” (Lennie Tristano) [F. Fayenz “ Lennie Tristano “ p.51- 52, ed. Stampa Alternativa]. Ciò accade in un momento in cui la richiesta di questa musica da parte delle nuove generazioni è molto consistente e che, parallelamente, vede una disinformazione dilagante:“I giovani d’oggi hanno il pregio di non essere tra loro conflittuali ma hanno il difetto di essere profondamente ignoranti di tutto... gli studenti mi hanno riempito la testa di musica stupida!“ (Prof. Carlo Sini , 15 marzo 2006 “Incontri filosofici” Società Umanitaria, Milano). L’avanguardista-regredito-postmoderno, che nulla ha a che vedere con la vera avanguardia, attacca i “puristi” e, non volendo sentire ragioni, cerca di screditarli facendo leva sui luoghi comuni più in voga, che noi tutti ben conosciamo, artefatti elucubrati sulle manipolazioni dei revisionisti. Le più stantie ed abusate formulette di stampo bluesy o rockeggianti, quando anacronisticamente inserite nel linguaggio jazz, vengono accolte con conformistico entusiasmo mentre le più significative, colte e raffinate, soluzioni del vero jazz (Konitz; Raney; ecc.) passano assolutamente inosservate da parte di chi, a buon mercato, si auto-referenzia come esperto e si contrappone, ottusamente e con arroganza, alle più ragionevoli e ovvie osservazioni critiche. Chi si gratifica e si accontenta dei meri prodotti contemporanei non ha mai conosciuto la vera arte! Mick Goodrick, smentisce la pratica e la teoria degli odierni epigoni dello status-quo scrivendo quanto

4

segue: ”Di solito, quando pensiamo a chitarristi aventi una “grande tecnica”, il nostro giudizio dipende da: quanto suonano veloci; come suonano puliti [precisi]. Ma la tecnica ha a che fare con ben più altre questioni. Include anche quando suonano lenti; come suonano sporchi [imprecisi]; ed ogni altra cosa che sta in mezzo agli estremi. LA TECNICA E’ TOCCO. In più è anche movimento. La tecnica è il punto dove ciò che sta dentro di voi [intenzioni, pensieri, sentimenti, etc.] incontra lo strumento e si trasforma in ciò che sta fuori di voi [suono, musica]” (M. Goodrick “The advancing guitarist” versione italiana tradotta da Roberto Cecchetto, p.105 Carish [grassetto nostro]). Da un punto di vista strettamente jazzistico, e anche classico-europeo, i segreti dell’incatenatura della tavola armonica, la qualità e la stagionatura del legno, unitamente alla benché minima inflessione e sfumatura del tocco del concertista, costituiscono il requisito strategico e inalienabile di quella concezione “organologico umanistica” che pone al centro la sinergia tra lo strumento di liuteria e l’intervento umano. La sonorità contemporanea vede un uso di reverb e digital-delay che enfatizza il risultato così come una diva del cinema potrebbe usare il fondo-tinta per truccarsi, produce un timbro fittizio, dolciastro, ovattato e stopposo, piatto, uniforme e privo di chiaro-scuri, oppure una timbrica offuscata da una distorsione ruvida, fastidiosamente acida, fredda e priva di profondità. Chi, pur di avvalersi dell’effetto psicologico ottenuto, essa sacrifica l’autenticità del tocco e la plasticità della pennata, non procede sulla strada del progresso, ma regredisce verso i lidi dell’effimero e del consumistico. Lidi ove l’ascoltatore non è stimolato a sviluppare un “ascolto attivo” e pedagogicamente in evoluzione, ma in cui egli è il passivo recettore degli aspetti più esteriori e seduttivi della musica. Il non riuscire a cogliere le preziose sfumature espressive del timbro jazz, e la sua profonda spiritualità, da parte di chi, formatosi al sound delle rock-bands-anni’70 e già vulnerabile per una superficiale e occasionale frequentazione del jazz, ha originato un equivoco che tuttora rimane l’oggetto di una disputa difficilmente redimibile. Dopo anni e anni in cui sono state scritte pagine e pagine di recensioni sul suono naturale e aperto delle trombe di Louis Armstrong e Miles Davis, sul vibrato inimitabile di Coleman Hawkins e di Ben Webster, sugli impasti sonori dell’orchestra di Ellington e le ensemble di Mingus, sulla convergenza stilistica (hard-bop) tra “l’attacco del colpo-di lingua” di Miles Davis alla tromba e “l’attacco” carnale e desublimato del pollice di Wes Montgomery sulle corde della chitarra; sullo spettro sonoro dell’attacco-di plettro di Jim Hall; sulle diverse prerogative che intercorrono tra la chitarra-a plettro con corde di metallo di Charlie Christian, discretamente-amplificata, e la chitarra-a pizzico con le corde di nylon di Charlie Byrd; sul contributo del liutaio italiano Maccaferri al suono evocativo della chitarra manuche di Django Reinhardt; sulle essenziali differenze tra il timbro solare di Stan Getz e quello lunare di Sonny Rollins; per non parlare poi di Ornette e di Coltrane, di Monk e di Bill Evans e via dicendo. Nessuno, dico nessuno (!), ha protestato e ha testimoniato-contro per l’invasione

5

dell’orda di chitarristi super-effettati che ha letteralmente massacrato il jazz mistificandone il suono e continua a farlo impunemente! Francamente non si capisce come mai il vituperato sordo tonfo del basso elettrico, a differenza del caldo e palpitante respiro del contrabbasso, sia sempre stato considerato unanimemente estraneo al jazz, e lo stesso criterio estetico non venga poi applicato alla chitarra elettrica “super-effettata”. Dove è finito oggi il ruolo della critica musicale? Dove è finito il prezioso minimalismo dei musicologi? Perché le poche voci che dissentono vengono aggredite con volgare ignoranza?! Chi snobba la tradizione per “l’idolatria del nuovo in quanto nuovo” trascura il fatto che, come dice il prof. Zecchi docente universitario di estetica: “Il nuovo può anche essere orribile, indecente, può essere fatto da un accozzaglia di babbei!” (TV-La7-“Omnibus” del 23-02-089 - ore 8,30).

Riassunto e frammenti dai libri:

- ”Guida pratica all’improvvisazione jazz” di Giovanni Monteforte [Edizioni Playgame Music]; - “Estetica del jazz” di Giovanni Monteforte [libro on line].

Giovanni Monteforte: “Estetica del Jazz” (Manifesto antirevisionista del Jazz) [Opera depositata alla SIAE; Opera protetta a norma di Legge n. 633 del 22 Aprile 1941; ]

”Non si può dipingere di bianco il bianco e di nero il nero, ciascuno ha bisogno dell’altro per rivelarsi.” (Manu Dibango, musicista di musiche tradizionali africane).

Indice:

1. “Per un estetica neo-modernista del jazz.” p. 7

2. “Monopolismo economico e post-modernismo.” p. 20

3. “Il jazz come metafora epistemologica.” p. 22

4. “Musicologia o indagine poliziesca? ” . p. 44

5. “Afrologia ed Eurologia.” p. 48

6. “Jazz e Fusion.” p. 55

7. “Il revisionismo nel jazz.” p. 70

8. “La strategia di produzione del jazz.” p. 75

9. “Conclusioni.” p. 82 tot. p. 88

6

Prefazione:

Nella stesura di questo lavoro il target di riferimento è stato la comunità del jazz italiano. Essa è rimasta, nel bene e nel male, costantemente presente nello scrivere queste pagine. Una comunità che, per quanto coesa su una delle forme d’arte più significative del 900’, si è mantenuta tuttavia separata ed avulsa dal dibattito culturale sull’arte e sull’estetica che si è svolto negli altri campi artistici. Ciò è particolarmente vero se si pensa ai musicisti e al pubblico! Dagli argomenti dei loro discorsi ai criteri di giudizio adottati, tutto sta a testimoniare un piano di realtà limitato e superficiale rispetto a quello del cosiddetto mondo della cultura con la “C maiuscola”. Ovviamente ho sviluppato questo discorso secondo il mio personale angolo di visuale, utilizzando cioè gli strumenti analitici e quella nuova-sensibilità maturati nell’incomparabile periodo storico degli ‘anni sessanta’ , un periodo in cui l’onda lunga della modernità non si era per il jazz ancora esaurita. Strumenti analitici e nuova-sensibilità che portano a vedere nel Jazz non tanto una fase determinata nell’evoluzione della musica occidentale, quanto una “scoperta”, il venire alla luce di una nuova facoltà espressiva da sempre sopita, l’emergere infine di un momento ricorrente ed eterno dello spirito. Una scoperta rivoluzionaria essenziale per quel nuovo umanesimo modernista oggi prevaricato e de-costruito dall’invasione tecnocratica della più arida insignificanza post-moderna. Insignificanza che riflette la crisi di progettualità di un sistema di dominazione arroccato su ormai estremi meccanismi di auto-difesa. Meccanismi tra i quali in campo artistico predomina il revisionismo-storico il quale, coinvolgendo tutti i campi della cultura, non si vede come mai non debba investire anche il Jazz.

7

“Per un estetica neo-modernista del jazz”

Questo scritto è dedicato ad alcune attuali problematiche che riguardano il Jazz, problematiche che rientrano in quel genere filosofico che si chiama Estetica. Il termine deriva dal greco aisthesis, aistheton (sensazione sensibile) esso designa la dottrina della conoscenza sensibile (G. Reale op. cit), la scienza filosofica dell’arte (Abbagnano op. cit). Con “estetica del jazz” qui si intende la conoscenza filosofica del jazz, ovvero un’ampia riflessione e valutazione sulle caratteristiche di questo genere musicale. Nell’accingersi a questo compito utilizzeremo il “metodo dialettico”: non ci fermeremo cioè al “dato-apparente”, al comportamento fenomenico (“comportamentismo”), ma attueremo quella “negazione” che svelando nascoste “contraddizioni” approda a nuove “sintesi”, Hegel definì la dialettica come: ”...lo spirito di contraddizione organizzato”. Collegando, come qui avviene, il Jazz ad Economia, Filosofia e quant’altro, si procede di fatto ad abbattere steccati e non ad erigerli, logicamente però, dato che ciò và fatto attuando distinzioni e differenze, ci si espone all’accusa di erigere steccati. Prendendo atto che questa accusa, sentenziata peraltro senza addurre motivazioni, viene oggi riciclata con prevedibile puntualità, nel caso ci si chiedesse se chi scrive abbia qui un bersaglio polemico, la risposta non potrebbe essere che affermativa. La vittima sacrificale della contemporaneità-post-modernista è l’anelito spirituale umano proteso verso la verità. Due luoghi comuni utilizzati in questa manipolazione del consenso sono le accuse di “dietrologia” e di “erigere degli steccati”, un terzo è quello da noi definito, come vedremo, “l’ideologia della contaminazione”. Il primo errore da evitare, come sovente accade, è quello di cominciare il discorso parlando di jazz in senso stretto, per ritrovarsi poi, inconsapevolmente, a parlare di musica in senso lato, andando così fuori tema. Ovviamente infatti, anche se il jazz è musica, non tutta la musica è jazz. Il jazz non è musica intesa nella sua astratta vaghezza universalistica, ma musica calata nella concretezza della storia e della società, quindi è storicamente determinato, connotato da determinazioni storiche, attributi e identità poiché “L’arte non può essere concepita al di fuori della storia” (Rocco Musolino, op. cit. pag. 51;). Mentre la musica è una materia tra le arti, il jazz è solo uno dei generi della musica e, in quanto tale, ha una vita propria, con una genesi ed una conclusione del proprio ciclo evolutivo, un processo. Mentre la musica può continuare ad evolversi anche attraverso la contaminazione tra i generi, i singoli generi, invece, da avanguardia sono destinati a diventare tradizione, a meno che, in una sorta di accanimento terapeutico, non si voglia continuare a riproporli artificiosamente come avanguardia perenne e prodotto di consumo (industria del jazz). Una cosa quindi è studiare la storia della musica focalizzando le connessioni tra le varie culture e i diversi generi, altra cosa invece è inquadrare monograficamente, come qui si vuole, la specificità storica ed estetica di un ben determinato genere musicale: “Il fondamento di una critica materialistica dell’arte non può essere che storico- filologica...” (Rocco

8

Musolino, op. cit. pag. 86 ). Nell’accingermi quindi ad esternare il mio libero pensiero, critico e dissidente, sono perfettamente consapevole di poter suscitare diffidenza e ostilità; ma dato che viviamo sottoposti alla dittatura culturale dell’ufficialmente riconosciuto, spero che gli argomenti scelti possano almeno contribuire a smuovere le acque stagnanti e allineate del jazz italiano. La tesi sul jazz qui sviluppata è diametralmente opposta a quella oggi dominante e comunemente accettata. Non solo riconoscendo, ma rivendicando l’assunto che in genere, e specialmente per il jazz, non si debba essere conservatori, si ribalta qui l’ordine del discorso ponendo in evidenza come, nel caso del jazz, la rivoluzione sia già avvenuta e pertanto essa debba oggi non solo essere tramandata, ma preservata dagli attacchi della reazione! La difesa delle fondamentali conquiste rivoluzionare è infatti il presupposto per continuare sulla strada del progresso, una strada che non si svolge certo in linea retta, ma in un intrecciarsi di errori, sconfitte e infiniti conflitti. Si è convinti infatti che, in questa fase storica, sia l’industria della musica nord-americana che i poteri forti della musica classica europea, non essendo riusciti ad arrestare il jazz quando era un avanguardia-rivoluzionaria, ora che il jazz è una tradizione-rivoluzionaria stiano rilanciando su scala mondiale una grande operazione revisionistica e di restaurazione mimetizzata, peraltro, sotto le spoglie di una sterile e insulsa innovazione: “[...] E’ successo che oggi la produzione estetica si è integrata nella produzione di merci in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto con un giro d’affari sempre più grande assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali...tutta questa cultura postmoderna...è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo...” (Fredric Jameson, Duke University North Carolina-Usa, op. cit. p. 7-17 [grassetto nostro]). Gli assertori del nuovo a tutti i costi vorrebbero si firmasse un assegno in bianco per poterci scrivere sopra qualsiasi cifra. Si falsifica la realtà quando si pretende di ridurre l’identità del jazz al solo dato delle sue radici sincretiche, oppure a luoghi comuni astratti e qualunquistici che lo stigmatizzano come “libero da schemi”, “affamato di novità” ed altre facezie oggi in gran voga. Di ben altro spessore è l’identità del jazz e il suo peso specifico nella storia della musica e nella cultura occidentale! E’ questo l’oggetto del seguente studio nel quale si assegna al ciclo musicale del jazz un duplice ruolo:

1) Quello di oggetto d’analisi:

Si ritiene infatti che questo genere si trasformando secondo il tipico modello tripartito antropologico-culturale nel quale si individuano:

- La fase della separazione: (distacco dalla vecchia identità);

9

- La fase liminare (margine): il soggetto “...non è più quello che era prima e non è ancora quello che dovrà essere...si trova in uno stato di sospensione molto pericoloso perché attaccabile da forze distruttive...) forze distruttive come il revisionismo storico.

- La fase della ri-aggregazione: (ri-aggregazione in una nuova identità musicale).

(Prof. Ugo Fabietti - www.uninettunouniversity.net, Testi: “Cultura e società”; “Elementi di antropologia culturale”).

2) Quello di modello empirico per il metodo dialettico:

”...ogni forma artistica può essere vista...come ‘metafora epistemologica ’ ” (Umberto Eco, op. cit. pag. 50).

Nell’affrontare questa ricerca l’approccio metodologico vuole essere aperto e spregiudicato, ma non nel solco di un pensiero debole che respingendo qualsiasi sostenibile e proficua impostazione organicistica si rivela rinunciatario, normativo e paratattico, quanto invece nell’intento di recuperare tradizioni di pensiero che oggi sono travisate ed oscurate. Rifiuto quindi del pensiero debole quando, dietro una malintesa apertura mentale, assolutizza il relativismo e diviene in realtà totalitario (il relativismo asserendo che tutto è relativo finisce con l’affermare, come nella proposizione ”mai dire mai!”, un concetto assoluto), ma anche accettazione del pensiero-debole nel fare propria quell’agilità metodologica che, travolgendo i residuati pre-modernisti ancora retaggio della modernità, perfeziona il modernismo e lo sospinge sulla strada del neo-modernismo. Apertura che, rievocando ”l’anarchismo metodologico” di Feyerabend, rivisita importanti e variegati aspetti del pensiero filosofico, da Eraclito, Platone ed Aristotele, attraverso San Tommaso, Hegel, Marx e Benedetto Croce sino a Marcuse, Abermans, Khun e Apostel. Un contributo teorico-filosofico, quello dialettico, attualmente vittima di un oltranzismo ideologico che nasce dallo stallo della modernità nel mondo contemporaneo. Crediamo quindi, e cercheremo di dimostrare, che il processo-jazz possa fornire un modello empirico per il metodo interpretativo dialettico. Il nostro discorso vedrà quindi l’intrecciarsi di quattro piani distinti ma interdipendenti:

- Il primo centrato sulla rivisitazione del paradigma di genere del jazz;

- Il secondo su una sommaria ricognizione del panorama più eterogeneo e frammentato delle musiche contemporanee, del quale il jazz è parte integrante e nel quale gioca un ruolo di rilievo;

- Il terzo sulla individuazione del revisionismo storico che dal versante del post-modernismo, dell’industria musicale e del pensiero-unico, investe sia la narrazione del jazz che il jazz-contemporaneo.

10

- Il quarto sulla situazione del jazz contemporaneo il quale, pur avendo perso il carattere di genere d’avanguardia rimane pur sempre una musica della nostra epoca, una “tradizione non tradizionalista”.

Il fenomeno che spesso risulta fuorviante e induce in errore è quello che vede, accanto al protagonismo del jazz nelle musiche contemporanee, gli influssi ibridanti e snaturanti che musiche-estranee al jazz esercitano sul jazz contemporaneo. Tra le due tendenze non è facile distinguere. E’ l’identità del jazz ad essere sottoposta all’azione corrosiva di musiche estranee? O sono la nuove musiche ad essere sottoposte all’azione costruttiva e informatrice del jazz? Sono vere entrambe le cose! Ciò può prestare il fianco ad equivoci ed abbagli che ostacolano e ritardano una doverosa e necessaria presa di posizione da parte della comunità del jazz a tutela della identità di questo genere musicale. La difesa e la conservazione di conquiste progressiste, e la resistenza contro restaurazione e reazione, sono unanimemente riconosciute e legittimate in tutti i campi dell’agire umano, che ciò non avvenga anche nel jazz è sintomatico di una situazione generale che mette sotto accusa i musicisti, il pubblico e la critica stessa! Dicendo questo certamente non si pretende che i jazzisti smettano di contribuire ai nuovi generi e alle nuove sperimentazioni musicali, ma semplicemente denunciare come questi esperimenti, se impropriamente inscritti nel jazz, si possano sovrapporre ad esso oscurandone così la memoria storica. Si intende inoltre sottolineare come non sempre le contaminazioni abbiano un esito felice ed oggi, troppo spesso, esse finiscano con lo sfociare in uno sterile e vano eclettismo. Uno dei presupposti della nostra riflessione si fonda sulla considerazione che col nuovo millennio, radicato nella insolubile crisi intrinseca all’economia “mercatista” e “finanziarizzata” che non riesce più ad adempiere una funzione sociale, si stia delineando l’inizio di un processo di superamento storico del post-modernismo, processo che vede un rilancio delle istanze della modernità. Fase storica neo-modernista quindi, originata dall’andamento a spirale dei corsi e ricorsi storici. Crisi determinata dall’incrementarsi dei processi monopolistico-privati in tutti campi, musica compresa, che penalizzando l’economia reale minano lo sviluppo e il progresso culturale. Anche nel jazz si assiste al sorgere e al predominare di posizioni monopolistiche e protezionistiche che, come tipicamente avviene nei fenomeni capitalistici, sono destinate ad una sempre maggiore concentrazione e centralizzazione. Si è recentemente costituita in Italia una nuova associazione che concentra le più importanti organizzazioni di manifestazioni del jazz nazionale, la nuova struttura attuerà il coordinamento centralizzato dei nuovi progetti. Progetti che, come si evince dai cartelloni, sovradimensionano gli aspetti più spettacolari e performativi del jazz a discapito dei contenuti escludendo ed emarginando le potenzialità più creative di questa musica. Emarginazione che si concretizza non tanto in una divisione dei musicisti tra “buoni e cattivi”, quanto attraverso le scelte

11

estetiche verso le quali i musicisti vengono surrettiziamente indirizzati. Da questa analisi ne consegue che il jazz contemporaneo, se non vorrà mettere a rischio il suo status di musica d’arte e vorrà continuare a chiamarsi jazz, non potrà che giovarsi della neutralizzazione di quei fattori controproducenti del post-modernismo artistico, culturale e politico, che lo stanno sospingendo su strade senza uscita.

Oggi è il jazz nel suo complesso ad essere sotto attacco:

”quello che una volta era il corpo fiorente di una musica fluida ed innovativa è ora vittima di forze artistiche e professionali distruttive e...l’intera “industria” del jazz è controllata da una gestione selettiva che soffoca le più vitali componenti della musica.”

(Eric Nisenson: ”The murder of Jazz” [www.dacapopress.com]);

(Anche in: Giovanni Monteforte, op. cit. pag. 2).

Da questa prospettiva una “verifica di idoneità” (Idoneismo: Leo Apostel, op. cit. pag. 56), procedendo in senso diametralmente opposto a quello oggi dominante, dovrebbe ripulire il jazz da tutte quelle incrostazioni consumistiche e da quelle contaminazioni, passate e presenti, estranee alla sua più profonda intenzionalità. E ciò potrebbe riconciliare il jazz con Theodor Adorno e Aldous Huxley (op. cit. p. 157), il cui giudizio è stato fuorviato dagli aspetti peggiori e non essenziali di questo genere. Per una necessaria e costante verifica di idoneità il jazz non potrà che avvalersi del paradigma della modernità, non potendo così fare a meno di divenire neo-modernista, e ciò non può certamente riuscirgli difficile perché, anche se il processo-jazz dal Dixieland al Free, nei rapporti intrinseci, ha visto il succedersi delle differenti fasi tradizionale, moderna e contemporanea, nei rapporti estrinsechi con la musica della sua epoca, ha complessivamente dato un contributo di modernità. Non focalizzare questa distinzione, tra il ruolo giocato dal jazz nella storia della musica ed il suo autonomo sviluppo interno, può generare confusione e fraintendimenti! Questa distinzione, che valuta nel contempo lo sviluppo estrinseco ed intrinseco dell’arte, è ricca di implicazioni che, come vedremo, sono state oggetto di trattazione. L’arte non è meccanico e mero rispecchiamento dell’estrinseco, ma ha sue intrinseche dinamiche. Chi crede quindi, o vorrebbe lasciar credere, che qui ci si schieri faziosamente a favore di questo o quel differente stile della storia del jazz, come in passato è altrove avvenuto, dovrà ricredersi leggendo questo lavoro. “Il vecchio” infatti, per quanto riguarda il jazz, non è da ricercarsi all’interno del processo-jazz, ma nel paradigma eurologico precedente all’avvento del jazz, paradigma neo-conservatore che oggi si tenta di restaurare a discapito del jazz contemporaneo! Come avviene per tutte le cose anche per il jazz si può dare un giudizio attendibile solo a posteriori. Il fatto che nel corso del suo sviluppo, spurio e contraddittorio, siano stati formulati giudizi ed espresse opinioni successivamente risultati errati, non

12

implica necessariamente che anche oggi, che del ciclo evolutivo di questo genere si ha una visione globale e sedimentata, si continui a perseverare nello stesso errore adottando quello stesso metro di giudizio vago e superficiale. Che negli anni venti tanti jazzisti (e lo stesso Armstrong) non percepissero chiaramente di suonare jazz, credendo se mai di suonare blues e ragtime, o che negli anni quaranta la pubblicistica ufficiale non includesse nel jazz il be-bop, o che negli anni sessanta Coleman, Coltrane e Dolphy siano stati considerati anti-jazz, non comporta necessariamente che anche oggi si debba commettere lo stesso errore di valutazione riguardo le tendenze contemporanee. Oggi che, a giochi fatti, il jazz ci appare come un “campo specializzato maturo” con una “solida struttura di assunti” che “fornisce le regole che dicono” al jazzista “che cos’è...[il jazz]...e la sua scienza”, sono a nostra disposizione tutti gli elementi per formulare un giudizio attendibile e definitivo. Il paradigma del jazz, con tutte le sue connessioni fattuali e concettuali, storiche e stilistiche, è ormai ampiamente delineato e funge da termine di paragone per operare le necessarie distinzioni critiche. Se per Karl Popper risulta vero solo ciò che può essere falsificato, a confermare la verità del jazz (il “vero-jazz”) oggi abbiamo a disposizione un immensa mole di falsificazioni-euristiche. Nell’attuale contesto ogni pretesa di rileggere o ri-narrare il jazz nasconde in realtà il pericolo del revisionismo storico. Odierno revisionismo che insidia per altro ogni tradizione storica rivoluzionaria e realmente democratica!

Che il jazz sia contaminazione non comporta automaticamente che qualsiasi contaminazione sia riuscita e abbia un senso. Quella contaminazione, che ha dato origine al jazz, è stata un evento spontaneo e felicemente scaturito da un periodo storico per molti versi diametralmente opposto al nostro, cioè il modernismo di inizio secolo. Oggi invece viviamo in pieno post-modernismo e il post-modernismo sta insidiando il jazz contemporaneo con i suoi aspetti meno felici: forme velleitarie di eclettismo, il neo-accademismo di fine secolo, e valori tutti appiattiti sulla performance intesa anche come “Cinico criterio dell’efficienza della prestazione” [accezione coniata dal filosofo Lyotard ]. Tutte componenti assimilabili in musica al cosiddetto pensiero debole (leggerezza dei contenuti, relativismo, qualunquismo, senso comune, pensiero volgare) diffuso ormai in tutta la società. Pensiero debole inteso anche come: “rinuncia alle ambizioni universali della storia” (H. Dufourt, op. cit. pag. 339), cioè rinuncia ai valori e ai compiti emancipativi assegnati dalla storia agli uomini (senza i quali, se ci si riflette bene, che senso avrebbe l’umana evoluzione?) abdicazione quindi dalle nostre responsabilità. Valori (“contenuti”) che sgorgano dalla musica di Bill Evans, di John Coltrane, di Miles Davis e tanti altri e che, coloro che hanno effettivamente compiuto l’esperienza musicale del jazz, intuiscono immediatamente a livello, appunto estetico. Nella odierna fase storica di riflusso si ripropongono invece prodotti nei quali la tendenza dominante è dare messaggi frammentati, la cultura della frammentazione:

13

“oggi non è più pensabile proporre delle storie, si offrono invece prodotti consumabili rapidamente, che non prevedono cioè un attenzione continuativa da parte degli ascoltatori“ (V. Andreoli, articolo. cit.),

quella stessa continuità dell’attenzione che è richiesta dall’ascolto di una linea melodica jazz improvvisata, e oggi manifestazioni e jazz-festival sono divenuti un campionario di comunicazione frammentata.

Tendenza che, supportata da gruppi di decisione forti e incontrollati, è stata sino ad oggi clamorosamente priva di contraddittorio e sta, furtivamente e progressivamente, facendo presa sul senso comune di una comunità del jazz non immune dalla conformistica attitudine alla conventicola, ai personalismi e allo snobismo, e nella quale queste nostre argomentazioni certo non mancheranno di essere accolte come lesa maestà da parte delle vigenti baronie del jazz. L’evento-jazz, da sempre più o meno consapevolmente opposto sia alla vecchia tradizione eurologica istituzionalizzata che all’industria musicale commerciale, incontra quindi sulla sua strada maestra reazione e restaurazione. Il vecchio, per accreditarsi, si traveste da nuovo e si insinua subdolamente nel senso comune. Certe attuali tendenze, sempre più spesso improbabili contaminazioni o banali commercializzazioni, risultano offensive nei riguardi non solo del vissuto popolo afroamericano, ma anche di tutti quegli artisti che dedicano la loro vita al jazz con impegno e sacrificio. Queste tendenze non sono il prodotto occasionale e grossolano di qualche operatore inesperto, si tratta bensì di una furtiva campagna, capillare e coordinata, nell’intento surrettizio di modellare e indirizzare lo spontaneo sviluppo del jazz. Campagna della quale, sofisticato prodotto della scienza della comunicazione, tutti i sinceri e competenti cultori del jazz sono all’oscuro, o ne sottovalutano la portata! Nel secondo millennio viviamo in un mondo oggettivo nel quale la realtà supera la fantasia, e in cui la tecnica rende possibile che ciò che viene indotto artificialmente possa essere fatto passare per lo spontaneo sviluppo dei tempi. Nell’intento quindi di sensibilizzare e collegare tutti coloro che rifiutano questa vera e propria controriforma del jazz, e consci del rischio che si tenti di far passare per arrogante e prescrittivo il nostro impegno militante, si vogliono sottoporre al pubblico giudizio argomentazioni alternative, e anche punti di riferimento bibliografici che, contrastando con una tendenza sempre più totalizzante e revisionista, possano contribuire a sollecitare il rilancio del Jazz, ancora una volta oggi come allora, come musica di rivolta: rivolta contro ogni accademismo e la musica commerciale, ribadendo così l’individualità dell’improvvisatore jazz. “Individualità” non intesa come demiurgica separatezza di un soggetto meta-storico, bensì come identità non-alienata, calata nel presente storico. Per dirla con Galvano della Volpe, quella autonomia capace di autoverifica e di inventare nuove tecniche di significazione e ciò oggi non potrebbe risultare più vero come nel caso dell’improvvisatore jazz. Improvvisatore il quale, come vedremo, è affrancato

14

dal dover fornire esecuzioni musicali perfette e di per sé conchiuse (paradigma eurologico del ‘sublime ’), come è sovente lasciato credere, ma è al contrario libero di esprimersi attraverso ”l’estetica dell’imperfezione” (arte nera “forma desublimata” Marcuse “Saggio sulla liberazione” Einaudi pag. 60 ; Davide Sparti: op. cit. p. 151). Un estetica che è sì rivendicazione dell’espressione e della emancipazione individuale ma che, nell’era della sopraffazione tecnologica, è anche rilancio della dimensione naturale e umana in musica (organologico-umanistica). Affermazione di una grandezza artistica non intesa come “genialità” mistico-romantica, ma come quella grandezza tutta umana di chi come il jazzista, è capace di mettersi in gioco “eroicamente”, nel rischioso e libero gioco della vera improvvisazione. La scena contemporanea è ricca di validissimi e innovativi jazzisti neo-modernisti i quali, inconsapevoli e scollegati tra loro, sono tenuti in disparte dal monopolio musicale per fare spazio a prodotti ad esso più congeniali! Si intende per questo prendere posizione nel tentativo isolato di contribuire a stimolare quella presa di coscienza che, mentre in altri campi artistici è attivamente presente, nel jazz inspiegabilmente è tanto assente quanto necessaria! Estetica del jazz quindi come Filosofia del jazz, riflessione e valutazione sulle peculiarità di questa musica. Se una musica, oltre a risuonare dice anche qualche cosa, essa è un fatto semantico, trasmissione di contenuti, a meno che non voler circoscrivere e limitare la semiosi al puro linguaggio verbale! Le varie musiche possono essere, sia “rispecchiamento” universale di un epoca, di una società, di una cultura, che espressione di modi di essere individuali, riflessione della “...morfologia dei nostri sentimenti” (Enrico Fubini). La musica si può concretizzare nella trasmissione di modelli comportamentali etico-pedagogici con i quali le personalità si identificano e si plasmano. Modelli che possono essere edificanti o degradanti, alienanti o emancipativi, che possono approdare all’evasione o alla presa di coscienza, alla rinuncia e all’indifferenza o all’impegno e alla partecipazione, al nichilismo o alla militanza. Si può affermare la concezione di un arte fecondata nella consapevolezza dello splendido e drammatico mistero dell’esistenza umana, o di un arte anestetizzata nell’edonismo, nell’egoismo e nella vana presunzione del rampantismo, ultimo approdo di un esistenza irrisolta. Questi sentimenti umani, o atteggiamenti spirituali, possono essere rivelati e/o ri-vissuti durante la fruizione della grande musica d’arte, arte di cui il jazz è una delle espressioni più significative; inversamente essi possono rimanere eclissati, rimossi o prevaricati da certe attuali musiche alienanti, illusorie, effimere e transitorie, che veicolano modi di essere umani funzionali a politiche non solo consumistiche, ma soprattutto di dominio politico. A questo proposito riteniamo utile rimandare a Nattiez quando pone il quesito: ”La musica è un arte a-semantica o semantica?”. Alla prima concezione estetica, quella a-semantica, appartengono le teorie che sostengono che la musica non esprima dei sentimenti, riducendola quindi a rapporti tra suoni senza alcuna

15

relazione alla sfera delle idee; alla seconda concezione, appartengono le teorie estetiche che sostengono che l’arte musicale riproduca dei sentimenti, e quindi esprima, simbolizzi dei significati riconducibili ad una realtà esterna all’opera stessa (Jean-Jacques Nattiez op. cit. p. 84). Questa disputa, che sino a ieri si è svolta esclusivamente nell’ambito ambito teorico dell’estetica musicale, oggi è oggetto di ricerche sperimentali nell’ambito della psicologia cognitiva, ricerche che sembra possano avvalorare la concezione semantica della musica: “La musica comunica qualcosa che il discorso non può comunicare” “dobbiamo riconoscere i limiti del linguaggio e accettarli”, “Si può sospettare che le lacune riconoscibili nel nostro pensiero discorsivo siano zone di pensiero musicale” (Seeger). Un pool di ricercatori della Università di Baltimora Johns-Hopkins fa notare come in musica, nei processi improvvisati, si siano riscontrati “...un aumento della attività neuronale nella corteccia prefrontale dedicata all’espressione di sé, che ad esempio si accende quando si racconta una storia. Storia fatta invece che di parole di frequenze, di distanze, di durate, di intonazioni” (“Algoritmo del jazz” di Marco Magrini - Il Sole 24 Ore - 6 marzo 2008.).”Cos’è che fa sì che la musica abbia per noi significato?”; e ancora: “...il riferimento musicale ha un valore particolare, perché la musica ha ‘senso’ anche se l’ascoltatore non lo coglie” ; “E’ naturale ritenere, che più la persona è musicalmente esperta, più diventi sensibile alle più fini sfumature...”. (John Sloboda: op. cit. p. 108-109-113). L’arte ha quindi una sua oggettività che il fruitore deve cogliere, e quando non la coglie la deve scoprire, e a ciò non credo proprio si possa contrapporre una malintesa interpretazione relativistica del concetto di “opera aperta“ così come descritto da Umberto Eco (vedi: ivi p. 20*) : “...l’autore produce una forma in sé conchiusa nel desiderio che tale forma venga compresa e fruita così come egli l’ha prodotta; tuttavia...ogni fruitore porta una sua concreta situazione esistenziale...in modo che la comprensione della forma originaria avviene secondo una determinata prospettiva individuale...In tale senso, dunque, un opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì ‘aperta’, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata” “...senza mai cessare di essere se stessa.“ (Umberto Eco, op. cit. p. 34 [grassetto nostro]). Giudichiamo quindi insostenibile la concezione “a-semantica”. Se la musica non esprimesse sentimenti e modi di essere e non fosse capace di comunicare, anche in termini rivelatori, contenuti riconducibili ad umani vissuti, alla sfera extra-musicale, sarebbe ridotta ad un’inutile esercitazione fine a se stessa. Rudolf Steiner riteneva che attraverso ”...gli influssi dell’arte vera”...”...l’uomo penetra con la rappresentazione e col sentimento nei substrati spirituali di essa...” (“La scienza occulta nelle sue linee generali” pag. 58; Oscar Mondatori), e i substrati spirituali dell’arte vera (nel nostro caso il vero jazz) costituiscono oggi uno dei bersagli di chi amministra il mondo contemporaneo, in ultima

16

analisi è della sostanza spirituale dell’uomo che il potere ha paura. Inoltre “La musica, per esempio, può servire per insegnare moltissime cose di grande valore: anche persone di capacità limitate, se ascoltano un brano di buona musica, hanno la possibilità di sperimentare in maniera tangibile il processo di pensiero e di sentimento di un uomo in possesso di un notevole potere intellettuale e di un eccezionale intuito.” (Aldous Huxley, op. cit. p. 146 - 147). Si può quindi sapere tutto del jazz, ma se ci si è resi impermeabili a questi evidenti fatti essenziali, non si può addurre la pretesa di aver capito il jazz! Ci si distanzia anche dalle “teorie riduzioniste dello stile” (Nattiez, op. cit. p. 112) conseguenti anche a certe interpretazioni mistiche e universalistiche del marxismo che vedono nei destini della storia la conciliazione di ogni contraddizione; così come da coloro i quali, per non essere “normativi”, rifiutano i generi ritrovandosi poi fatidicamente a manipolare l’ “aria fritta” e i suoi derivati cioè le: “parodie del mondo della finzione contemporaneo, che, simile al matto convinto di essere Napoleone perché ne indossa lo stesso tipo di cappello, si crede un opera d’arte solo perché se lo è messo in testa” (Bruno Pederetti “La forma dell’incompiuto” pag. 90, Utet - 2007). Il mito del comunismo e il mito della musica-totale vanno di pari passo, lo stesso Lenin affermava: “L’antagonismo e le contraddizioni non sono affatto la stessa cosa, il primo sparirà le seconde sussisteranno nel socialismo...” e la contraddizione è differenza. Siamo convinti e cercheremo di dimostrare che è proprio nel pensiero dialettico, fondato (engelsianamente) sulle categorie della quantità/qualità, che risiede il più sicuro presupposto che individua nel pluralismo dei linguaggi una ricchezza e una risorsa contro il pensiero totalitario. Concordiamo inoltre con coloro i quali ritengono sia “...necessario affrontare l’organizzazione e l’evoluzione proprie di una forma simbolica, prima di tentare di spiegare la sua struttura e la sua storia con criteri esterni [le classi, l’ideologia, la cultura] ” (Meyer: in Nattiez op. cit. pag. 112). Assunto al quale si ricollega il concetto di “aseità semantica” di Galvano della Volpe: ”...un’avvertenza metodica imprescindibile, tale da mettere in guardia da ogni preconcetto o meccanico riscontro fra struttura economico sociale e la sovrastruttura culturale, artistica.” Concetto dellavolpiano che “nega la validità di una verifica che pretenda di esercitarsi in una continua serie di rapporti tra i ‘singoli ’ elementi dell’opera e il contesto storico culturale, cioè d’un esperienza critica che non si costruisca su un analisi interna dell’oggetto artistico...” (Musolino, op. cit. pag. 61). E’ inoltre nostro intento, prendendo spunto da quanto osservato dall’epistemologo e sociologo Davide Sparti nel suo innovativo libro “Suoni Inauditi” (pag. 39-40 Il Mulino), ma anche, diversificandoci a tratti da quella stimolante impostazione, far notare come oggi più che da una “ideologia modernista” la cultura e il senso comune siano dominati da una “ideologia post-modernista”, e che la lettura oggi prevalente del jazz non sia tanto quella organica, quanto quella discontinua e disorganica. Lettura paratattica, quella odierna, che vorrebbe la

17

disintegrazione del jazz per farne assorbire i frammenti da altri generi a loro volta destinati a confluire in un unico genere ”inter-classista”, e che sia proprio questa lettura a fondarsi su un approccio ermeneutico “cumulativo” il quale, concependo l’unità-organica come universo tolemaico immobile e privo di conflitti, legge erroneamente le opposizioni intrinseche al jazz come separatezza invece che come interazione sì contraddittoria ma organica (continuità dialettica). Ed è solo a partire da un approccio dialettico che, liberando gli stili intrinseci al jazz da reciproca alterità, si potrà riconfermare una corretta narrazione del jazz come entità organica e coerente. Non-alterità tra gli stili del jazz conseguente sia ai caratteri comuni prodotti dal reciproco condizionamento, che all’appartenenza allo stesso genere. E’ quindi a partire dall’approccio neo-modernista e dialettico, che si può fornire una confutazione della narrazione del jazz come entità disorganica e frammentata. La lettura dis-organica del jazz è riconducibile all’evoluzionismo-volgare, infatti solo una pregressa visione evoluzionista può portare a scambiare le opposizioni non-antagonistiche insite nella quantità, con mutamenti qualitativi. Evoluzionismo volgare che, mai affrancatosi completamente dal pre-modernismo, oggi ritorna nel post-modernismo, col quale finisce col convergere. Che nella “fase cumulativa” (la scienza normale di Khun) vi sia o meno movimento contraddittorio dovrebbe essere oggetto di maggior approfondimento, così come l’analisi dovrebbe tener conto che la fase della “crescita, della sperimentazione, della accumulazione esperienziale dalla quale è stato estratto quel bagaglio concettuale coerente fatto di regole e consuetudini, etichettabile...” [nel nostro caso] come Jazz, si è delineata con forza prorompente in un lasso di tempo relativamente breve. Dopo la polemica che viene rivolta contro la dialettica materialistica, accusata peraltro di metafisica (polemica non a caso accolta a piene mani dalla attuale pubblicistica politica di regime, i cui argomenti smascherano il retroterra-culturale dei suoi fautori), Mario Dal Pra faceva notare come il neo-positivismo degli ultimi decenni, si spingesse fino a recuperare la dialettica di derivazione hegeliana non più interpretata come principio metafisico “...ma come criterio ermeneutico per lo studio, scientificamente fondato, del nesso che lega i fatti storici fra loro e nell’unità organica di eventi particolarmente significativi.” (Mario Dal Pra “Sommario di storia della filosofia”, volume terzo, ed. La nuova Italia, pag. 421-422). Come abbiamo già detto e come si argomenterà più avanti riteniamo che nel processo-jazz risieda la metafora dell’impianto teoretico della dialettica. Ora riconoscere i processi coerenti, non significa affermare che tutta la realtà debba essere disegnata in base ad essi. Nella realtà concreta esiste una varietà di fenomeni che non corrisponde ad entità definite ed organiche, processi indefiniti e disorganici che vanno rilevati per quello che effettivamente sono (fase liminare). Queste rilevazioni empiriche non costituiscono però ragion-sufficiente per revisionare la categoria (universale) della quantità. Il fatto che esitano tappe intermedie tra diverse quantità (tra

18

sistemi coerenti ed unitari), un fluttuare di frammenti diversificati e compresenti, non comporta che le realtà organiche, i sistemi coerenti, debbano necessariamente essere respinti. Al contrario questi ultimi costituiscono, a maggior ragione, non solo un termine comparativo indispensabile, ma un approdo necessario. Come del resto riscontra anche lo storico della scienza Thomas Khun i periodi delle anomalie e delle aree di penombra della fase pre-paradigmatica si alternano alle fasi paradigmatiche. Il fatto quindi che queste entità frammentarie, monche ed orfane delle originarie connessioni, (“quantità amorfa”) esistano diffusamente nella realtà oggettiva, non è una ragione sufficiente per eleggerle a modello assoluto, ciò equivarrebbe ad assolutizzare il relativismo: senza l’“assoluto” non si avrebbe il “relativo” e viceversa! Vi sono stati fenomeni assoluti “eventi particolarmente significativi” (Dal Pra) che hanno indirizzato lo sviluppo storico in determinate direzioni, eventi senza i quali la storia avrebbe preso strade diverse. Nel caso della Fenomenologia, pur accogliendo l’imprescindibile contributo apportato da questa scuola di pensiero, non ci si può non associare a quelle osservazioni critiche che intravedono in questa corrente filosofica lo squilibrarsi sul versante dell ’ “antropocentrismo”, quando essa pretende che la coscienza sia l’unica realtà originaria e costitutiva del mondo. Concezione per la quale la natura, così come concepita da Galilei in poi, non sarebbe una realtà originaria ma una costituzione della coscienza umana. Per il materialismo scientifico invece, in accordo con Galileo Galilei, la vita (oggetto) è pre-esistente al pensiero (soggetto), la terra è pre-esistente al pensiero e l’universo è più antico della terra; la vita, la terra e l’universo non traggono il loro essere dall’essere della coscienza umana. Anche se per Galileo il mondo esterno è riconducibile alla sola estensione e moto locale, è cioè privo di quelle qualità che sarebbero qualità (..affettive) proprie soltanto del soggetto percepente, il “corpo sensitivo” (“Il Saggiatore”; Opere vol. VI pag. 348), ciò non toglie che l’oggetto sia pre-esistente al soggetto. La realtà oggettiva è quindi indipendente dall’azione dell’uomo e del suo spirito e il pensiero umano non è che materia che prende coscienza di se stessa (v. Mandel, op. cit. p. 105); un laboratorio biochimico che produce anima! Con ciò non si vogliono respingere le posizioni spiritualiste, ma al limite ipotizzarle all’interno di una risoluzione trasversale dell’antica dicotomia “Spirito-contro-Materia”. Sintesi tra le posizioni di coloro che sostengono che tutto sarebbe spirito: “Come si vede condensarsi in ghiaccio ciò che prima era acqua, così, per mezzo dell’osservazione spirituale, si può seguire come da un precedente stato completamente spirituale si siano in certo qual modo condensate le cose, i processi e le entità materiali.” (Rudolf Steiner: “La scienza occulta e le sue linee generali”, pag. 105; Oscar Mondatori), [P.S. Se si accettano le apparizioni Mariane e i miracoli di Padre Pio non vedo perché si debba respingere la scienza occulta cristiana!] e le posizioni di coloro che sostengono che tutto sarebbe materia: “Il materialismo dialettico insiste...

19

sull’inesistenza in natura di limiti assoluti, sul passaggio della materia in movimento da uno stato a un altro che, apparentemente, dal nostro punto di vista, è incompatibile col primo.” (Lenin: “La crisi della fisica contemporanea” - Opere scelte, ed. Progress-Editori riuniti, p. 214). Peraltro anche la scienza occulta, a differenza della logica formale, pone al suo centro il metodo dialettico: ”Nella magia come nella dialettica hegeliana, il progresso avviene grazie alla riconciliazione di due opposti, tesi e antitesi, in una sintesi che li trascende” (Cavendish: ”La magia nera” p. 24, Oscar Mondatori). Se A è identico con B, allora B è identico con A: se tutta la Materia è Spirito, allora tutto lo Spirito è Materia! “Vi sono veramente due mondi?”, così si chiede il chimico e parapsicologo Roberto Cavanna in un intervento mirante a superare in ambito neuro-fisiologico la distinzione tra esperienze “interiori” ed esperienze “oggettive” (Cavanna: ”Aspetti scientifici della parapsicologia”, Edizioni Boringhieri). Così come in natura anche nella materia musicale si passa da uno stato all’altro, da vecchi generi a nuovi generi. La non-incompatibilità, legame che collega ogni cosa, và a mio avviso intesa come legame che si attua in maniere diverse, modalità che rimanda ai concetti di contraddizione antagonistica e non-antagonistica. Non esistono limiti assoluti, separazioni nette ma solo diversi livelli di gradualità, tutto dipende dal peso che si dà a entrambi i termini. Non potrebbe esservi la “compatibilità” senza la “incompatibilità”. Non si può assolutizzare la “sintesi” solo per il fatto che si negano i “limiti assoluti”! Anche se tra fenomeni in contraddizione antagonistica, “incompatibili”, rimane pur sempre il legame della reciproca negazione, non per questo possono essere recepiti come “compatibili”. Se così non fosse, come pretende il relativismo musicale, non si potrebbe più parlare neanche di Jazz e la ricchezza derivante dalle differenze si dissolverebbe: ”Non si può dipingere di bianco il bianco e di nero il nero, ciascuno ha bisogno dell’altro per rivelarsi.” (Manu Dibango, musicista di musiche tradizionali africane). L’incontro tra fenomenologia e materialismo dialettico si è realizzato con il contributo del filosofo italiano Enzo Paci, il quale afferma che solo il materialismo può dare alla fenomenologia ciò che le manca: ”...una considerazione storica nella quale il presente storico si pone come una realtà prima, sperimentata, nella corrente dei vissuti e quindi come un a priori materiale.” (Mario Dal Pra “Sommario di storia della filosofia”, volume terzo, ed. La nuova Italia pag. 415-416). Oggi, dopo la rivoluzione scientifica e in particolare dopo lo sviluppo e l’affermarsi della scienza-medica, il materialismo, inteso in senso lato, ha penetrato e pervade la coscienza collettiva così tanto che il suo impatto culturale risulta considerevolmente attutito. La concezione della vita sia materialistica che scientifica non costituisce più una corrente di pensiero all’avanguardia ed antagonistica poiché, ormai da tempo, è divenuta un comune modo di sentire, una “tradizione”. Essa, intrisa di volgarizzazioni, è talmente penetrata nella coscienza collettiva da far sembrare quasi inutile occuparsene ancora, e così sarebbe se oggi non fosse sottoposta ad un

20

martellante condizionamento mediatico nel tentativo di contenerla e farla debordare in favore di credenze religiose e superstizioni, sistematicamente riproposte e consumate nei mass-media. Mentre materialismo volgare e superstizione convergono, spiritualismo e superstizione non sono affatto la stessa cosa.

Monopolismo economico e post-modernismo.

Se si parla di jazz perché la necessità di un cappello politico? Innanzitutto per inquadrare il contesto strutturale entro il quale prendono forma fenomeni sovra-strutturali che, come il post-modernismo e il revisionismo, investono il jazz; poi per il semplice motivo che a monte dei processi culturali ed artistici si trovano sempre condizionamenti, più o meno pesanti, economici e politici, ad esempio: il grande monopolio del “Supermercato della Musica”, che gestisce i sedicenti Festival del Jazz imponendo le politiche culturali globalizzate, è sostenuto e controllato prevalentemente da gruppi di interesse, pubblici e privati, riconducibili alla politica: “...la complessa e delicata macchina internazionale dei concerti è controllata da gruppi molto esigui che sono inseriti nei sistemi di dominazione” [ Luciano Cavalli: “La democrazia manipolata” pag. 92, Ed. di Comunità Mi-65 ]. Nella attuale fase storica: “...la base più profonda dell’imperialismo è il monopolio, originato dal capitalismo e trovantesi, nell’ambiente generale del capitalismo, della produzione mercantile, della concorrenza, in perpetuo ed insolubile antagonismo con l’ambiente medesimo.” (Lenin). Di questo “ambiente del capitalismo” la spontanea potenzialità economica del jazz è parte integrante (da non confondere quindi con l’industria monopolista del jazz!). Nel settore della cultura, la realtà sommersa del jazz italiano non ufficialmente riconosciuto e non omologato, diffusa tra i giovani e sul territorio, viene soffocata tra l’industria della musica (monopolio privato) ed uno Stato (leggero) che abbandona alla deriva realtà che sono molto interessanti ed essenziali per lo sviluppo di arti e mestieri e per il pluralismo culturale del paese. Lo Stato può somministrare le sue funzioni sia ingerendo pesantemente nel mercato dell’economia popolare che abbandonandolo in balia dei monopoli privati (poteri forti). Lo Stato “Moderno” oggi agisce solo pretestuosamente in nome della società civile ma, essenzialmente, esso è lo strumento degli oligopoli e monopoli privati. Mentre le scuole di musica alternative ai conservatori sono prive di riconoscimento e adeguato sostegno i docenti sono sottopagati e sostanzialmente precari (co.co.pro.) e gli studenti futuri musicisti disoccupati, alla maggioranza di onesti musicisti, militanti della cultura e dell’arte coerentemente non allineati con l’industria della musica di largo consumo né con quella della musica classica sovvenzionata, non è garantita neanche la dignità della sopravvivenza. Sino ad oggi la legislazione vigente, invece di stimolare un basilare e diffuso mercato del lavoro della musica dal vivo ad appuntamento fisso [N.B. da non confondersi col mercato delle attività concertistiche di rilievo nazionale alle quali solo un èlite lottizzata

21

di musicisti accede sistematicamente, cioè festival e rassegne che altro non sono che i sopra-citati grandi supermercati monopolistici della musica!], si rivela burocratica o vessatoria nei confronti delle varie componenti dell’economia reale della musica spontaneamente espresse dalla società. Realtà come quei locali pubblici (Pubs, Birrerie, Ristoranti ecc.) che pur ritagliando una parte delle loro risorse per attività culturali si vedono negare ogni agevolazione, e nei cui confronti le vigenti normative sindacali risultano astratte e controproducenti. Locali la cui attività principale è la ristorazione e non la musica, e che, pertanto, dovrebbero sottostare ad un differente trattamento fiscale finalizzato ad incentivare le loro attività collaterali a favore della cultura e dell’arte. Oltre ad un regime fiscale anacronosticamente pesante il “Proporsi di combattere l’inflazione e ricorrere nel contempo, ad aumenti continui di prezzi amministrati, tariffe, canoni, rivela nient’altro che uno stato intellettualmente confusionale” (Federico Caffe: “Scritti quotidiani” pag. 35, manifestolibri). Come trovare rimedio senza mettere in discussione la radice economica della società? “La riscoperta del mercato...lascia sconcertati, in quanto appare immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui fallimenti del mercato” (Federico Caffè, op .cit.). Da qui emerge tutta l’ambiguità nell’uso del concetto di mercato: una cosa è il mercato popolare dell’economia reale, altra cosa il “mercato” protezionista e spartitorio dei grandi monopoli, un sistema verticista proteso a vampirizzare tutti i settori della società. Oggi anche il jazz subisce questo stato delle cose quando è proprio il Jazz ad essere oggetto di studio per una possibile co-gestione dal basso dei rapporti di produzione: ”Il jazz rappresenta pertanto un esempio di come il gruppo riesca e valorizzare le competenze e le capacità della persona.[...] definire e condividere gli obbiettivi, fornire un percorso di base su cui le persone possono intervenire e promuovere lo spirito di gruppo” (Erika Leonardi: “Azienda in Jazz”, ed. Il Sole 24 Ore; www.erikaleonardi.it).

Il jazz come metafora epistemologica. Essendo chi scrive non un filosofo ma un jazzista-critico e un libero-pensatore, è con l‘intento dello studente alle prese con una ricerca che è stato compilato questo capitolo. Non ho qui voluto fare un capitolo sull’Epistemologia, ma sul jazz in quanto “metafora epistemologica” del modello dialettico, modello che comprende le categorie della quantità, qualità, identità, contraddizione, ecc. Per far ciò mi è sembrato gioco-forza soffermarmi su quei concetti basilari che certamente risulteranno scontati e “vetero-modernisti” ai filosofi più aggiornati, e impegnativi e noiosi al jazzofilo medio al quale però, questo tipo di approccio, può testimoniare tutte le implicazioni a cui il jazz può essere soggetto, e quindi l’importanza culturale di questo genere musicale. Capitolo filosofico nel quale dico sul jazz sì “solo

22

qualcosa”; ma solo perché, sia prima che dopo, in tutti gli altri capitoli, parlo ampiamente ed esclusivamente “solo di jazz” facendo dei continui rimandi a questo capitolo filosofico! Inoltre ho qui voluto ribadire un impostazione teoretica che, per quanto “passata”, non è però “superata”, e rilanciare quindi (...con Habermans!) una sfida “neo-modernista” in Filosofia, ed “essenzialista” riguardo al Jazz! E’ inoltre stato utilizzato tutto quello che potrà risultare utile alla chiarificazione delle tesi qui sostenute anche ricorrendo ampiamente alle citazioni. Perché un uso così sistematico delle citazioni? Per comprovare quanto generico, superficiale, demagogico e menzognero sia il discorso che nella pubblicistica corrente sia fa oggi sul jazz! Il carattere-corsivo invece vuole inoltre indicare il rimando a ben precise categorie filosofiche. Come abbiamo visto etimologicamente il termine estetica significa percezione, dal greco aìsthesis, e con esso, specificamente, si intende la filosofia dell’arte [dottrina della conoscenza sensibile]. Arte che comprende la pittura, la scultura, l’architettura, il cinema, la letteratura, la poesia, il teatro, la musica, (ecc.). Estetica musicale intesa quindi come filosofia della musica. Se Cinema e Musica sono materie artistiche autonome, allora il Western (ad esempio) è un genere del cinema, così come il Jazz, a sua volta, un genere della musica. Se poi il Western All’ Italiana è uno stile del genere Western, allora il Be-Bop è uno stile del Genere-Jazz. La Materia-Cinematografica sta quindi alla Materia-Musicale, come il Genere-Western sta al Genere-Jazz e come lo stile Western All’ Italiana sta allo stile Be-Bop. Il sottolineare “alterità” o diversità tra i generi non significa svalutare un genere a favore di un altro ma, al contrario, valorizzare ogni genere in base alla ricchezza delle sue preziose peculiarità, presupposto del pluralismo e della reciproca coesistenza. Non si intende quindi delegittimare neanche quei generi nazional-popolari che, oltre a svolgere una funzione sociale di svago e intrattenimento, non di rado rivelano significative qualità artistiche. Ogni genere musicale, costituisce un processo in cui coesistono varie opposizioni o contraddizioni, le quali presentano sempre un elemento di connessione e di unità (unità degli opposti). Ne consegue che se non si focalizza questo elemento, risulta impossibile percepire la diversità tra i generi. Il genere Jazz costituisce un vero e proprio sistema, cioè un tutto in cui le parti si lasciano derivare l’una dall’altra, un tutto organizzato finalisticamente e “non ammucchiato” (Kant); “...si svolge in sé e si raccoglie e si mantiene in unità...” (Hegel) (Diz. Fil. Abbagnano). Alcune correnti di pensiero relativistiche vogliono ridurre unilateralmente il concetto di sistema alla sua accezione più negativa di dogma e totalitarismo, dimostrando con ciò di essere totalitari essi stessi, come se nella realtà i sistemi, intesi come “quantità”, cioè organismi in evoluzione e quindi non dogmatici, non esistessero! Con aggregato al contrario si può indicare il raggruppamento arbitrario, una “ammucchiata” (Kant), di oggetti tra loro inconciliabili o sconnessi, il contrario di sistema organico. Con stile si intende l’insieme di proprietà o caratteri che risultano

23

distinguere un genere dall’altro: “il particolarizzarsi del genere” (Benedetto Croce: traduzione commentata della “Enciclopedia delle Scienze Filosofiche” di Hegel, Laterza pag. 629 ed. 2002) o anche “ciò che è situato sotto il genere“ (Porfirio). E’ quindi appropriato parlare di “stile di genere”, Stile-Jazz. Gli stili del jazz sono con-sustanziali tra loro e con il genere al quale appartengono, e con ciò si intende che gli stili del jazz hanno in comune tra loro, e con il genere al quale appartengono, proprietà essenziali e differiscono tra loro per proprietà non-essenziali; ad esempio Dixieland e Free sono diversi per differenze non-essenziali e uguali per qualità essenziali: come avviene per tutti gli stili del jazz si tratta di differenti fasi evolutive dello stesso contenuto-semantico culturale, basti pensare alle desublimate e caotiche improvvisazioni collettive di entrambi gli stili! Non a caso l’Art-Ensemble of Chicago fonde in un unica esecuzione caratteri Dixie e Free e James Carter di solito si esprime dando luogo, in una stessa interpretazione, alla fusione di differenti stili del jazz (...che è cosa diversa dalla “fusione” di generi tra loro per nulla o scarsamente compatibili. In psicoterapia ad esempio oggi vi è la tendenza a praticare sinergicamente differenti metodi terapeutici e coloro che interpretano ciò come la legittimazione a mischiare i generi dimenticano che in questo caso non sono differenti generi ad essere mischiati ma, dato che si tratta pur sempre di psicoterapia, differenti modalità di uno stesso genere!). Con “poetica” si intende non tanto lo stile di un genere, quanto il peculiare stile personale del singolo artista; da non confondere con ”poietica” è invece la strategia di produzione artistica. Classica e Jazz invece sono diversi per differenze essenziali le quali, nonostante occasionali affinità non-essenziali, li rendono esteticamente incompatibili. Keith Jarret, che di ciò ne ha fatto l’esperienza, ha successivamente dichiarato: ”Mischiare classica e jazz sarebbe letale per il Jazz!”. Con il concetto di identità in Arte si è intesa la più intima e preziosa spiritualità contenuta nell’opera artistica. Coerenza spirituale incompatibile con elementi estranei e perturbanti. Ciò è particolarmente vero riguardo al jazz! Solo per fare due esempi basti pensare al pianista Bill Evans o al sassofonista Lee Konitz. Non tutti riescono a cogliere questa spiritualità, e ciò rende il jazz vulnerabile alla volgarità degli stolti e dei mercanti. Con identità si rimanda anche all’identità di materia e forma, per esempio: Domanda: “che materia hai a scuola stamattina?” Risposta: “Inglese”. [Inglese è materia o...forma? Inglese è forma, Lingue è materia. La risposta avrebbe dovuto essere: “ - Che materia hai a scuola stamattina? – Lingue! ”, “- E che genere di materia hai? - Inglese!” Nel nostro esempio: con “Inglese” si sottintende quindi “Lingua inglese”, il soggetto di cui si parla nella proposizione interrogativa, cioè la materia Lingue, viene implicitamente incluso nel predicato (Inglese), attuandosi così l’unità di materia e forma anche nel senso comune!]. Il concetto di identità

24

può stare ad indicare sia una relazione unitaria tra soggetto e predicato, tra materia e forma, tra universale e particolare, che gli ”indiscernibili”, l’indistinguibilità (si rimanda al Dal Pra: Storia della filosofia - Enrico Bergson). Sui concetti di eclettismo e sincretismo vale invece la pena soffermarsi un po’ di più. Essi sono considerati, pur con differenti accentazioni, sinonimi (Giovanni Reale: ” Storia della Filosofia Antica” Vol. V). In arte le categorie dell’incompiuto e dell’imperfetto non sono di per sé un disvalore, possono anzi rivelarsi in certi casi un valore aggiunto! “Per realizzare l’ambiguità come valore gli artisti contemporanei fanno spesso ricorso all’informale, al disordine, al caso, all’indeterminatezza dei risultati” (Umberto eco “L’ouvre ouverte” Paris 1965; ed. Seuil; pag. 66): senza voler necessariamente identificare le opere aperte, così come intese da Umberto Eco, con le opere sincretiche o eclettiche (ciò necessiterebbe di un approfondimento a parte: vedi cit.* [ ivi ] a p. 11 !), ciò non toglie che aggettivi come informale, disordinato, casuale, indeterminato ben si prestino a descrivere anche queste ultime e che pure esse intendano realizzare l’ambiguità come valore. Ignorando questa fondamentale premessa alcuni potrebbero sostenere, pur di non svalorizzarle, che le opere eclettiche e sincretiche possano essere eterogenee ed omogenee al tempo stesso (!), il che equivarrebbe ad ammettere la possibilità di “pseudo-idee” come il circolo- quadrato (Bergson) o il ferro-di legno (Schopenhauer) ovvero, passando a Totò: ”Hai presente quel tipo alto? Bassino! Grasso! Magro-magro!?”...quando l’assurdo diventa comico! Anche Freud lamentava questo paratattico modo di ragionare da parte di chi non voleva ammettere l’inconscio: ”Se i filosofi trovano difficoltà a credere nell’esistenza di pensieri inconsci, l’esistenza di una coscienza inconscia mi sembra ancor più discutibile” (Freud: “La negazione” ed. Biblioteca Boringhieri, pag. 34 - 35). Riconoscendo invece immediatamente le opere eclettiche come incompiute e imperfette, non si sottrarrebbe loro alcun valore! Nel caso poi di compresenza tra elementi omogenei ed eterogenei, ciò sarebbe di per sé sufficiente a rendere l’oggetto disomogeneo! Non necessariamente però eclettismo e sincretismo devono concretizzarsi in opere di valore artistico, essi possono anche spesso debordare in accostamenti velleitari e insignificanti che nulla hanno a che vedere con l’arte! Nel definire l’eclettismo e il sincretismo non soltanto si vuole qui rimandare al carattere eterogeneo di certi processi di sviluppo, ma si vuole in questo caso sopratutto sottolineare l’esistenza di opere di per sé stabilmente incompiute, sincretiche ed eclettiche, e come queste ultime siano caratterizzate da qualità opposte alle opere organiche e compiute. Inversamente è necessario evidenziare come dagli stessi processi sincretici possano concretizzarsi fenomeni stabilmente compiuti, privi cioè delle tipiche anomalie ed irregolarità del sincretismo. In entrambi i casi si tratta di processi sincretici il cui sviluppo storico si è concretizzato in forme simboliche relativamente stabili. Così come i fenomeni

25

organici e compiuti sono relativamente stabili, così vi sono fenomeni disorganici e incompiuti che non per questo sono meno stabili ed autonomi, fenomeni da considerare opere a tutti gli effetti (”La forma dell’incompiuto. Quaderno, abbozzo e frammento come opera del moderno” di Bruno Perdetti, Utet-Università, Torino 2007). Le parti costitutive di un organismo compiuto sono tra loro legate finalisticamente da reciproca necessità, sono tra loro dipendenti e subordinate. Invece le parti costitutive degli aggregati stabilmente incompiuti e sincretici sono autonome ed indipendenti e non legate da continuità logica, potrebbero anche vivere di vita propria. Ora si potrebbe ipotizzare che questo tener insieme in un aggregato elementi disomogenei possa indurre, per assuefazione, a percepire l’aggregato come organico. Se così avvenisse sarebbe un sincretismo fallito, l’aggregato perderebbero il carattere discrasico necessario ad esprimere quell’ ambiguità e quel contrasto tipici del sincretismo e dell’eclettismo, non sarebbe più tale, perderebbe senso, o potrebbe apparire palesemente né organico né disorganico, né carne né pesce, insignificante, oppure apparirebbe di una organicità fittizia, solo apparente, una organicità non riuscita. In una terza ipotesi, nel caso invece si riscontrasse una piena organicità, significherebbe che in realtà non si trattava di sincretismo (o meglio “sincreticità” ?), verrebbe a cadere così la sua stessa identità in quanto opera sincretica stabile. L’ammettere ed accogliere anche gli aggregati-sincretici non significa tuttavia smentire l’opera organicamente compiuta e sistematica, come oggi da tante parti sembra pretendersi. Riteniamo quindi necessario insistere sull’inesattezza del definire ‘sincretismo ’ (o meglio sincreticità ?) l’epilogo stabilmente compiuto di un processo storico sincretico! Se una cosa nasce da pratiche sincretiche non necessariamente deve stabilizzarsi nel ‘sincretismo ’ o nella ‘sincreticità ’ ! In altre parole si possono concepire processi storici sincretici con esiti differenti: processi storici sincretici che si sono stabilizzati in aggregati con i caratteri del sincretismo e dell’eclettismo: e questo non è il caso del jazz! Oppure processi storici sincretici che si sono progressivamente stabilizzati in sistemi-coerenti, in forme-compiute, in strutture estranee alla sincreticità, e quindi impropriamente etichettati come sincretici: e questo è il caso del jazz! Ciò che favorisce l’equivoco è l’errata identificazione dell ’ “imperfezione” dell’opera-jazz con il jazz come linguaggio. O ancora: il fatto che l’estetica del jazz sia un estetica dell’imperfezione non significa che il linguaggio jazz debba essere un aggregato sincretico. In questo caso si tratta infatti di un’imperfezione tutta interna alle dinamiche di un linguaggio di per sé coerente e paradigmatico! Un imperfezione estetica insita in un linguaggio tutt ’ altro che imperfetto, non quindi l’imperfezione del linguaggio di per sé, ma un’imperfezione inerente alle sue modalità d’esplicazione, l’uso aperto di un linguaggio conchiuso, come del resto accade nella nostra ordinaria conversazione verbale: nessuno si sognerebbe, per il solo fatto che quando parliamo lo facciamo in modo improvvisato ed imperfetto, di sostenere che la

26

lingua italiana non sia un linguaggio organico e conchiuso!! Un altro equivoco può ancora derivare dall’errata identificazione del sincretismo della genesi del jazz con la sua strategia di produzione ‘improvvisativa ’ ma non ‘improvvisata ’ (!). La tecnica dell’improvvisazione-jazz è tutt’ altro che sincretica, è bensì rigorosa e colta come lo è la tecnica dei ritmi africani! (Schuller, “Il jazz Classico v. v. pag. 36, prima edizione). Una tecnica rigorosamente fondata su ben precise regole d’ esecuzione, un vero e proprio sistema-applicato! Una tecnica ben determinata, sistematica, è allora l’esatta antitesi del sincretismo dei metodi. Il sincretismo della tecnica, per definizione stessa, consta nella compresenza di varie tecniche fra loro confuse o malamente assortite, assortite in modo ‘improvvisato ’ come solo l’incontro spontaneista tra etnie sradicate e sottoculturali potrebbe determinare. La cultura musicale africana non credo proprio che sia una sottocultura etnica, né tanto meno spontaneista! Anche se metodologie casual o random in arte possono portare, ed hanno portato, a risultati creativi (musiche aleatorie), tuttavia esse non hanno niente a che vedere con la tecnica dell’improvvisazione-jazz. Tecnica nella quale la cultura musicale africana si è organicamente fusa con la musica occidentale. Tecnica nella quale anche la fase intermedia, a tradizione orale, a cavallo tra composizione e improvvisazione, costituisce un tassello connettivo, con precise regole (Mingus), che risulta estraneo ai metodi disconnessi e frammentati del sincretismo. Il fatto che si tratti di un sistema di produzione dinamico, che gioca sul movimento, sulla velocità d’esecuzione, sulla memoria e non sulla scrittura, non sottrae, ma incrementa quella precisione che solo può essere cagionata dalla rapidità dell’esecuzione. Un esecuzione che nulla vuole avere a che fare a che fare con procedimenti stocastici e aleatori. Una rigorosa tecnica così precisa che tiene conto e reintegra persino l’errore! E questo gli improvvisatori lo sanno bene! Non bisogna poi neanche confondere la genesi storica del linguaggio-jazz con la genesi poietica del livello neutro dell’opera-jazz. Affermando: ”L’importante è notare l’esistenza di processi a fianco degli aspetti stabili delle forme simboliche musicali” con “processi” Nattiez non intende i processi storici, bensì i processi poietici, così come per ”aspetti stabili delle forme simboliche musicali” non intende il genere-musicale ma le sue singole opere. Inoltre: “L’analisi dei processi presuppone, in effetti, un rapporto dialettico tra l’analisi del livello neutro, relativamente statico, e analisi poietica, sicuramente dinamica” (Nattiez, op. cit. pag. 70), un opera di jazz registrata su supporto audio, anche se è solo una delle tante varianti possibili, è ormai stabilmente definita e, benché “opera aperta” non può essere considerata “sincretica” solo perché la sua genesi poietica è stata dinamica (...come abbiamo già detto non bisogna confondere l’Opera-Aperta di Eco con il sincretismo!). In questo senso si può affermare che il jazz non è un genere musicale sincretico, infatti, le originarie differenti e contraddittorie radici culturali sincretiche si sono tra loro selezionate, escluse e connesse a tal punto da non permettere

27

più di catalogare il fenomeno jazz come genere stabilmente sincretico. Anzi, per meglio approfondire, l’ibridazione originaria del jazz và distinta dalle ibridazioni originarie delle diversificate musiche afro-americane, una ibridazione che nel jazz è stata, precisa e netta, tra la tradizione di una ben localizzata area dell’Africa, la sub-sahariana, e un ben preciso repertorio armonico nord-americano (... “Body & Soul” era suonato sia da Armstrong che da Coltrane!). Un ibridazione quindi essenzialmente “a due voci” che (pur tra mille germinazioni fallite!) ha contribuito a quella organicità del jazz che è a sua volta approdata in un approccio estetico “essenzialista” e modernista. La fase ibridante e sincretica del jazz-primordiale ha tante analogie col post-moderno perché corrisponde alla fase pre-moderna del jazz, confermando così la convergenza di pre-modernismo e post-modernismo! Pre-moderno e post-moderno sono le due facce di una stessa medaglia, Habermas parla di: “...ricaduta in posizioni immobilistiche ed oscurantiste, suggellate dall’alleanza in atto fra post-modernisti e pre-modernisti”. Nel post-moderno l’austero-dogmatismo del pre-modernismo (...”neo-accademismo di fine secolo”; “neo-autoritarismo politico”, ecc. [Doufourt]) convive in opposizione-non-antagonistica con il relativismo-nichilista postmodernista perché sono tenuti insieme dalla comune opposizione- antagonistica con la modernità. Pre-modernismo e post-modernismo sono oggi “alleati” e “sintetizzati”, “unificati” e “coordinati” (...estremità convergenti e sovrapposte di un cerchio in un processo storico “a spirale” [Lenin e Vico]): essi non potranno che dissolversi nel neo-modernismo col quale sono in contraddizione antagonistica! (...il “Mao Tse-Tung-Pensiero” serve ancora a qualcosa e ha facoltà “divinatorie” perché permette di prevedere la tendenza del futuro!! [In internet nella “Biblioteca-Marxista” si trovano ancora tutti i testi!]) Se decostruzione e ibridazione sono inoltre qualità essenziali del postmoderno allora il Jazz non può essere considerato postmoderno perché i caratteri ibridanti della sua ontogenesi, successivamente superati nella modernità, risalgono alla sua fase pre-moderna e, ritornando oggi con la post-modernità, come prima lo avevano generato adesso lo decostruiscono. Nella fase pre-moderna il jazz non era ancora jazz, nella fase post-moderna il jazz non è più jazz, e ciò fa del jazz un evento eminentemente moderno! Nessuno vuole poi prescrivere che il jazz non debba contribuire oggi a nuove sperimentazioni mettendosi così in discussione, però non si può fingere di non vedere quanto ciò comporti la metamorfosi dal jazz in un nuovo paradigma, e non possa quindi essere più iscritto nella sua vecchia identità! Identità storicizzata che va preservata, perpetuata e praticata (!) come tutta la grande arte! Genere-Jazz, la cui struttura-linguistica e la cui natura-estetica, stabilmente organiche, rimandano ancora una volta all’ “essenzialismo”, quello stesso essenzialismo delle poetiche di tutti i grandi dal jazz (ad esempio Bill Evans!). La prima cosa che impara il vero jazzista è “l’essenzialismo” e nel Jazz le

28

diverse poetiche che differenziano tra loro gli artisti dei vari stili sono legate dal comune denominatore dell’essenzialismo! E’ poi vero che vi sino state mille ibridazioni con altre tradizioni, indiana, araba, flamenco, indo-europea, cubana, ecc., ibridazioni che hanno prodotto anche dei piccoli gioielli musicali di successo, particolarmente graditi sia alla “borghesia ignorante” (Doufourt) che alla fascia amatoriale dei “consumatori di jazz”, ma pur sempre prodotti ai confini del jazz e che, in ogni caso, non hanno avuto seguito, non hanno improntato di sé il jazz. Ciò rende il jazz un miracolo di unità sintetica! Un processo generativo sincretico che ha prodotto sì un linguaggio organico e conchiuso anche se, a sua volta, “aperto” ad un infinità di “degustazioni” estesiche (Eco). Un genere che per quanto duttile e aperto nelle sue dinamiche intrinseche, rimane pur sempre compiuto (“conchiuso”) nei suoi rapporti estrinseci con gli altri generi musicali. Talmente “conchiuso” che esso reagisce agli input-estrinseci con quel meccanismo di selezione da sempre riscontrato nella storia del jazz! Un meccanismo che permette al jazz, sistema semantico stabile consustanziale ad una estetica ormai storicizzata, di improntare altre musiche ma non più di essere improntato! A dimostrazione di ciò le su citate ibridazioni si sono inesorabilmente arenate: dal flamenco alla musica cubana, dal classico europeo alla musica indiana, dalla musica country al rock, il jazz si è sempre dimostrato in grado di difendere con sdegno la propria identità, di respingere ogni contaminazione incompatibile. Questi esperimenti sono rimasti esperienze isolate, anche se a volte musicalmente splendide (Davis, Russell, Schuller, ecc.), ma non hanno fatto scuola all’interno del jazz, non hanno attecchito perché accostamenti fondamentalmente estranei all’identità di un genere rigorosamente “essenzialista” e niente affatto sincretico! Ed è stata proprio questa fusione riuscita, questo un miracolo di unità sintetica, che ha reso il jazz un evento di risonanza storica! Non riuscire a cogliere questa qualità essenziale significa avvallare e perpetuare una lacuna, un errore, che si sta rivelando fatale per il jazz perché è proprio sulla rinuncia ad essere “essenzialisti” che fa leva l’ideologia postmodernista per revisionare la tradizione del jazz e per scardinare il jazz!! Da qui nascono equivoci e strumentalizzazioni che vengono cavalcati come un “cavallo di Troia” per una narrazione revisionistica del jazz o peggio per avvallare gli attuali prodotti velleitari, le clonazioni mantenute in vita con l’accanimento terapeutico e che nulla hanno a che vedere col jazz e con l’arte. Prodotti che, ovviamente, non dovrebbero essere neanche presi in considerazione ed invece sono l’attuale merce venduta dall’industria musicale, (Riuscireste a immaginare “Requiem” di Tristano contaminato dal “Ballo del quà-quà”? Sarebbe un buon esempio di attuale eclettismo! Sradicando i presupposti e cambiando il contesto tutto si può fare.... e sicuramente a qualche jazzista nostrano piacerà l’idea!). In certi ambienti, per una certa cultura, quel miracolo di unità sintetica non è mai stato gradito, e sempre stato respinto con sospetto o recepito come la smentita dei presupposti razzisti e classisti e oggi, approfittando della

29

inesperienza delle nuove generazioni, dell’ignoranza del grande pubblico e della colpevole complicità dei poteri dominanti la scena del jazz, si mette in atto l’attacco finale, il colpo mortale! Tornando alle nostre nozioni, con eclettismo si è generalmente inteso il tenere insieme, raggruppare, qualità, materie, generi o stili tra loro così diversi da non trovare punti di convergenza e che, se riuniti, smarriscono il senso della identità producendo una intrinseca forzatura sul piano formale (v. anche Giovanni Reale, “Storia della filosofia” vol. V ed. Vita e Pensiero). Per sincretismo, similmente, si è inteso: la “conciliazione mal fatta” e confusa tra diversi elementi, o il fenomeno della compresenza, in un aggregato, di fattori tra loro parzialmente conciliabili o in permanente contrasto assoluto! Il pensiero debole, con le sue ripercussioni relativistiche, non si arresta neanche di fronte agli odierni dizionari, da più parti infatti si lamentano spiegazioni sommarie e superficiali. Paradossalmente i vecchi dizionari del primo novecento si rivelano, se non infallibili, almeno più approfonditi e specifici dei nostri. Ad esempio nell’edizione del 1939 del dizionario Palazzi della lingua italiana per sincretismo tra gli altri, si evidenzia almeno il concetto di mescolanza inconciliabile di opposti. Oppure nel dizionario filosofico di Abbagnano (seconda edizione 1971) non si tralascia di riportare, pur senza avvallarlo poiché inteso come giudizio svalutativo, il concetto di sincretismo in quanto conciliazione malfatta o sintesi mal riuscita. Ancora una volta va ribadito che per quanto ci riguarda con “mal fatto” e “confuso” non si attua un giudizio-valutativo ma un giudizio-descrittivo! Si vuole solo descrivere il risultato di una genesi incompiuta stabilizzata in un aggregato che pur essendo ”mal riuscito” e ”incompiuto”, anzi proprio per questo, può risultare tuttavia interessante e valido in un estetica dell’imperfezione consustanziale ad una costellazione di linguaggi eterogenei! La nostra è quindi un’interpretazione, che pur accogliendo il contenuto dei termini considerati, respinge la negatività di giudizio ad essi associata. E’ ovvio ed elementare che non si possa dare sincretismo in assenza della natura sincretica dell’oggetto! Una “forma” stabile sincretica dovrà di per sé mantenere la eterogeneità e l’incompiutezza di un entità informale, disordinata e confusa, nella quale accostamenti casuali e arbitrari rimpiazzano le interne connessioni tra le parti (v. cit. U. Eco)! Più che di una forma in senso stretto si tratta quindi di un aggregato. Nulla può impedire però che un processo sincretico possa trasformarsi, nel suo sviluppo, in una forma di per sé omogenea e coerente. Nel “mostrar differenze” qui si vuole semplicemente distinguere ciò che è sistemico da ciò che non lo è. Ribadiamo quindi che qui non si intende affermare che solo ciò che è organico possa essere arte, né che tutto ciò che è sistematico e compiuto sia necessariamente artistico, così come non si intende affermare che incompiutezza e imperfezione siano sempre da respingere o che, inversamente, siano da accogliere sempre e comunque. Le stesse logiche valgono per l’eclettismo: anche qui, nel caso in cui le

30

contaminazioni riuscissero pienamente, non si avrebbe più eclettismo ma nuovi sistemi e nuovi generi. Deve essere chiaro tuttavia che la nascita di nuovi generi non abolisce i generi precedenti! Vogliamo forse buttare via l’arte dell’antica Grecia o l’arte Rinascimentale? Non bisogna applicare all’arte le logiche del consumismo! Nelle arti si parla di generi-eclettici e ciò, se interpretato in senso stretto, potrebbe risultare assurdo, un controsenso poiché ciò che rende il Genere tale è la coerenza, coerenza che risulta dagli spontanei processi generativi-sintetici del Genere stesso! L’eclettismo, e con esso il sincretismo, possono essere letti come aggregati o raggruppamenti non endo-geneticamente coesi, bensì eso-geneticamente coatti, tenuti insieme dall’azione dell’artista. Ciò che rende l’Eclettismo tale è l’incoerenza, incoerenza volutamente perseguita nell’attuazione artificiosa di accostamenti eclettici! Non si può avere Genere senza coerenza, così come non si può avere Eclettismo senza incoerenza. Il peggior servizio che si potrebbe fare all’eclettismo sarebbe quindi quello di attribuirgli coerenza, perché così facendo significherebbe disintegrarlo in quanto tale. Non a caso oggi, quando si vuole valorizzare qualcuno si ricorre a luoghi comuni del tipo: ”Il tal artista è difficilmente etichettabile!”, “E’ poliedrico!”, “Le classificazioni gli vanno strette”, l’incoerenza stilistica viene data in questo caso come valore aggiunto! Al termine del processo evolutivo una cosa può però trasformarsi nel suo contrario (Mao), essa può ad esempio cessare il suo status organico, disgregarsi, e mutando natura rientrare come componente o in un aggregato disorganico, o in un nuovo genere: ed è proprio quello che sta oggi accadendo al jazz il quale, disgregandosi e atomizzandosi si sta trasformando nel contrario di quello che era, altre musiche si stanno riappropriando dei suoi frammenti in fenomeni prevalentemente sincretici, esso non può più essere considerato jazz! Come dice il filosofo Vittorio Mathieu: “Dal Jazz tuttavia non può dirsi che sia nato un nuovo ciclo musicale” (Vittorio Mathieu, ordinario di Filosofia Morale, Università di Torino, Accademico dei Lincei; articolo ”Musica senza parole”, Atti del Convegno: ”Giovani di oggi, musica di sempre” Gioventù Musicale D’Italia” Milano 25-10-2002, p. 26 ). Ma questo naturale epilogo storico non sancisce la fine delle forme del passato poiché se è il presente a trasformarsi, il passato, ormai storicizzato, va riconosciuto per quello che è! Nella realtà concreta, in effetti, tutte le combinazioni possono trovare attuazione, il problema è saperle riconoscere e definire con i termini appropriati, così come è necessario distinguere i fenomeni di maggior valore artistico dai fenomeni minori e da quelli assolutamente privi di qualità artistiche e velleitari. La contaminazione tra Rock e Jazz si è potuta realizzare in quanto si sono trovati punti di convergenza sufficienti per far nascere un nuovo genere, la Fusion: genere-altro, ma non completamente estraneo rispetto al jazz e al rock. La Fusion, a differenza di tanti odierni esperimenti, non è quindi una musica eclettica, altrimenti non potrebbe essere un sistema, un genere a sé stante. Questa autonomia dovrebbe essere rivendicata con orgoglio dai fautori di questo

31

genere, ci si imbatte invece troppo spesso nella pretesa di includerla nel jazz e ciò può rivelarsi pericoloso per entrambi i generi in quanto mina la loro stessa identità e coerenza. Passando ora alla dialettica per Herbert Marcuse la critica dialettica implica di per sé la negazione metodologica, la messa in discussione, una sorta di dubbio metodico. Nell’enunciato “Questo cane è bianco” l’opposizione tra individuale (questo cane) e universale (la bianchezza), che si sintetizza in cane-bianco, nasce a posteriori, deriva dall’esperienza. Ma vi sono casi in cui il giudizio è a priori, trascende l’esperienza, e nel metodo dialettico “L’opposizione a priori tra giudizio di valore e fatto” viene respinta in favore dell’ ”opposizione a posteriori tra giudizio di valore e fatto” (Marcuse, “Ragione e rivoluzione”) a patto che questa ultima non si appiattisca sul dato apparente. Perché riprendere queste tematiche moderniste? Quella “nuova-sensibilità” ? Marcuse scrive che c’è “una facoltà mentale che rischia di scomparire”: il potere del pensiero negativo. Riassumendo questo suo passo egli sostiene che il pensiero filosofico è la negazione di ciò che ci sta immediatamente dinnanzi; che i concetti trascurano le essenziali contraddizioni che formano la realtà, sono un astrazione; il pensiero filosofico rifiuta di accettare tali concetti perché i fatti non corrispondono ai concetti. Il pensiero negativo nega non solo tali concetti ma anche la realtà di fatto. Nello status-quo della realtà di fatto il progresso diviene quantitativo e tende a rimandare all’infinito il passaggio della quantità alla qualità. (Marcuse: “Ragione e rivoluzione”, pag. 6 - 7). Oggi rivisitare la dialettica è più necessario di ieri perché il problema di un atteggiamento arroccato su posizioni di principio o appiattito sul fatto isolato, è una questione che, paradossalmente, non solo non è ancora stata superata, ma è costantemente rilanciata! Le nuove generazioni sono surrettiziamente indirizzate verso questa sensibilità. Con un sottile venatura poetica si potrebbe così descrivere il post-modernismo: “Il velato oscurantismo del pensiero debole, in una segreta crociata contro la modernità, mimetico e suadente, aleggia planando con meravigliosa leggerezza nel secondo millennio, per placare gli animi con garbati sofismi. Chimere pervase di seduzioni libertarie ammiccanti e allusive alla ‘ricchezza della persona difficilmente fissabile in una identità ’ si insinuano con tolleranza tra le coscienze (...’come ti piacerà scegliere! ’ ) spianando la strada all’estetica dell’ insignificanza” e mentre si plasmano nuove generazioni di “Vispe Terese” della politica e dell’arte nel resto del mondo si muore per carestia ed epidemie, l’eco-sistema è in tilt e le “Nazioni Civili” altro non sanno esportare se non la guerra! Vi è oggi il luogo comune relativista, e meramente quantitativo, che un artista possa applicarsi alla propria arte indifferentemente in diversi stili. In quanti più stili l’artista sarebbe in grado di prodursi maggiormente aumenterebbe la sua artisticità! A dimostrazione di questa ingenuità viene portato come esempio Leonardo Da Vinci, ma chiunque abbia la benché minima infarinatura di arte sa benissimo che non potrebbe esserci una maggiore unicità e coerenza

32

estetica nella pittura di Leonardo, e che Leonardo non avrebbe potuto dipingere diversamente da come dipingeva senza disintegrare la sua unicità di pittore. Tutti i dipinti di Leonardo sono plasmati da un quel tratto comune e inconfondibile che ha fatto di lui un artista, appunto, unico! Altrimenti a che cosa si potrebbero riferire i critici d’arte nel riscontrare l’autenticità e la paternità delle opere? Solo l’artigiano, o il professionista in musica, proprio per il fatto di non avere nessun peculiare messaggio da trasmettere, può permettersi di applicarsi indifferentemente a tanti stili contemporaneamente, perché nel suo caso, non avendo nulla da dire, il nulla ben si concilia con il tutto. Far capire oggi questo basilare principio, universalmente riconosciuto in tutte le arti, è un impresa titanica! Parlando con i giovani, anche studenti universitari progressisti, ci si scontra spesso con l’effetto psicologico del significato corrente delle parole. Parole viziate dal senso comune e da pregiudizi emotivi che si ripercuotono sulla effettiva comprensione, ciò li sospinge con convinzione a sostenere l’insostenibile con quella inconsapevole e candida supponenza che solo il conformismo può dettare, per poi accettare con stupore l’ovvia realtà come fosse rivelazione! Gli effetti del pensiero debole? “Lo sforzo dei contemporanei di ridurre la portata e la verità della filosofia è enorme [...] Il modo sprezzante con cui Austin tratta le alternative all’uso comune delle parole, l’affermazione di Wittgenstein che ”la filosofia lascia tutto come si trova” – tali dichiarazioni tradiscono, secondo me, il sado-masochismo accademico, l’autoumiliazione, e l’autodenigrazione dell’intellettuale la cui fatica non dà risultati di tipo scientifico o tecnico apprezzabili .” (Marcuse: “L’uomo a una dimensione” p. 186 Einaudi-Nuovo politecnico 67 - cap. “Il trionfo del pensiero positivo”.) E così Lenin: ”Nel campo della filosofia il revisionismo si è messo a rimorchio della scienza borghese professorale. I professori ‘ritornano a Kant’ e il revisionismo si trascina dietro i neo-kantiani.”(Lenin ”Marxismo e revisionismo”). E così la pensava Feuerbach: “Il tratto caratteristico del professore di filosofia è quello di non essere un filosofo, il tratto caratteristico del filosofo è di non essere un professore di filosofia” (Lenin: Quaderni, pag. 636). E dopo il filosofo-dialettico Lenin così il filosofo-analitico Bertrand Russell su Kant: ”...vi è un obiezione fondamentale che sembra rendere impossibile di trattare il problema della conoscenza a priori con il suo metodo. Ciò che richiede spiegazione è la nostra certezza che i fatti debbano sempre conformarsi alla logica e all’aritmetica.”(B. Russel: “I problemi della filosofia” p. 102 - Feltrinelli.). E ancora si ricollega così il filosofo dialettico Mao Tse-Tung: “...la conoscenza logica si distingue dalla conoscenza percettiva in quanto la conoscenza percettiva coglie gli aspetti singoli, fenomenici delle cose, i loro

33

nessi esterni, mentre la conoscenza logica fa un grande passo in avanti, abbraccia l’insieme, l’essenza, il nesso interno delle cose...” (Mao Tse-Tung: ”Sulla pratica“ pag. 316 – Opere Scelte vol. 1). Trascendendo sia i giudizi a priori che i meri-fatti la dialettica prescrive quindi di risalire a tutte le variabili con disincanto e senza pregiudizi, sapendo misurare la portata dei pesi e dei contrappesi e tenendo conto dell’insieme nel suo movimento. Il tutto in un intreccio filogenetico di cause-effetti (onnilaterale) che costituisce l’oggetto dell’indagine storico-scientifica. Intreccio nel quale non bisogna confondere i fatti con i fattori, gli effetti con le cause, l’apparenza con la realtà-concreta, e quest’ultima, a differenza del “noumeno” kantiano, si ritiene conoscibile. ”Certamente qualsiasi fatto può essere sottomesso a un’analisi dialettica; per esempio un bicchier d’acqua, come nella famosa esemplificazione di Lenin. [...] Lenin afferma che ‘deve entrare nella “definizione” dell’oggetto tutta l’attività umana nel suo insieme”; l’oggettività indipendente del bicchier d’acqua viene così a dissolversi.” (Marcuse: ”Ragione e rivoluzione”; parte seconda - I; pag. 349, Il Mulino, ed. 1968). L’esempio di Lenin è solo apparentemente paradossale, l’Antropologia Culturale studia strumenti e recipienti come il bicchier d’acqua per risalire ”in migliaia di trapassi” a “tutta l’attività umana nel suo insieme”: “I recipienti e le tecniche per fabbricare gli strumenti sono altrettanto universali quanto gli strumenti da taglio e, a quanto sembra, altrettanto necessari per le attività umane, anche nelle società che hanno le culture più semplici...Benchè molte popolazioni pre-letterate non facciano mai bollire i loro cibi, altre invece lo fanno anche quando mancano i recipienti adatti ad essere posti sul fuoco o su una superficie calda.” (Beals-Hoijer” Introduzione all’antropologia culturale” p.118-119, ed. il Mulino.). Ecco come da un bicchier d’ acqua si può risalire alle culture umane! La dialettica, nella Cina antica, ha avuto origine con la filosofia stessa. E’ propria di questa tradizione, oltre che di quella occidentale classica (Eraclito), l’idea di contraddizione come sdoppiamento dell’uno: “In fin dei conti le due realtà opposte si escluderanno sempre l’un l’altra.” (Pan Ku); “Le cose sono in opposizione fra loro ma si condizionano a vicenda” (Pan Ku); “...che le vostre parole siano sempre opposte” (Houei-Neng). E così diceva Eraclito di Efeso a proposito del divenire dialettico: “...le cose fredde si riscaldano, le cose calde si raffreddano, le cose umide si disseccano, le cose vecchie si inumidiscono.” (Giovanni Reale: “Storia della filosofia antica” vol. I, p. 75, ed. Vita e Pensiero). “A chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre nuove”; “Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi siamo e non siamo.”; ”Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento si disperde e si raccoglie, viene e và.” (Reale op. cit. pag. 73).

34

Ecco alcune citazioni di Mao Tse-Tung tratte dal saggio filosofico “Sulla contraddizione”:

- “Senza alto non c’è basso; senza basso non c’è alto. Senza infelicità non esiste felicità; senza felicità non esiste infelicità. Senza il facile non esiste il difficile; senza il difficile non esiste il facile...”

- “Nel processo di sviluppo di una cosa complessa esistono numerose contraddizioni, tra cui vi è necessariamente la contraddizione principale; la sua esistenza e il suo sviluppo determinano o influenzano l’esistenza e lo sviluppo delle altre contraddizioni.” (p. 349)

- “Gli aspetti contraddittori, in ogni processo, si escludono a vicenda, sono in lotta tra loro, si oppongono l’uno all’altro.”

- ”A tutti gli aspetti contraddittori è inerente in determinate condizioni la [...reciproca*...] non-identità e perciò essi si chiamano ‘opposti ’.”

- “...in determinate condizioni essi da una parte sono opposti tra di loro [...non-identità*...], e dall’altra sono reciprocamente connessi, si compenetrano, si permeano reciprocamente, sono interdipendenti: questo è ciò che si chiama identità.”

- “Alcune contraddizioni sono caratterizzate da un aperto antagonismo, altre no . In conformità con lo sviluppo concreto delle cose, alcune contraddizioni, inizialmente non antagonistiche, si sviluppano in contraddizioni antagonistiche, mentre altre, inizialmente antagonistiche, si sviluppano in contraddizioni non antagonistiche” (op. cit. pag. 363, [note* e grassetto nostro] ).

- “Ogni cosa, per ciò che riguarda il suo movimento, ha due stati: uno stato di riposo relativo, e uno stato di cambiamento evidente. Ambedue sono dovuti alla lotta reciproca dei due elementi contraddittori, contenuti nella cosa stessa…”

- “...Quando una cosa nel suo movimento si trova nel primo stato, subisce soltanto modificazioni quantitative e non qualitative...” “...questa situazione non è statica: gli aspetti di una contraddizione...si trasformano l’uno nell’altro e il carattere della cosa cambia”,

prosegue Mao:

- “...Quando invece una cosa nel suo movimento si trova nel secondo stato, poiché le modificazioni quantitative hanno raggiunto il punto massimo...” “...si verifica la dissoluzione della cosa come entità, avviene un cambiamento qualitativo”;

- “noi parliamo spesso di sostituzione del vecchio con il nuovo...una legge generale e assoluta dell’universo”;

35

Il filosofo della scienza Ludovico Geymonat così scriveva a proposito del saggio di Mao Tse-Tung “Sulla contraddizione”:

“…è un saggio a mio giudizio importantissimo da un punto di vista teoretico...”; “Il pensiero di Mao, a parte i difetti che ha (e li ha), a parte le superficialità a cui si è prestato nelle interpretazioni...mi sembra che possegga un valore teoretico veramente notevole, ed è proprio per questo che io voglio qui in un certo senso difendere il Mao che è stato male interpretato e in un certo senso travisato. Purtroppo, invece di cercare di coglierne il valore, si sono sottolineati i difetti che questo ha. Per altro, in qualsiasi pensatore dell’antichità, del pensiero moderno, ecc. si trovano dei difetti gravi, e per ricavarne un succo positivo bisogna farne un analisi qualche volta anche andando al di là dei testi stessi” (“Mao Zedong, dalla politica alla storia”; autori vari; Editori Riuniti-Politica p. 212, 213)

Thomas Khun, il cui pensiero costituisce ancora oggi un importante punto di orientamento del dibattito epistemologico contemporaneo, scriveva nel 1961:

”La scienza non si sviluppa secondo sistematici incrementi e secondo organiche accumulazioni, bensì secondo differenti linee di sviluppo, che si incentrano intorno a perni costituiti da vere e proprie rivoluzioni scientifiche“ (“La struttura delle rivoluzioni scientifiche” Einaudi;); ed ecco una citazione di Mao del 1937:

”La metafisica o evoluzionismo volgare, considera tutte le cose del mondo come isolate e statiche. [...] Anche se riconosce le modificazioni, le considera soltanto come aumento o diminuzione quantitativi o semplice spostamento [...] La natura contraddittoria insita nelle cose è la causa fondamentale del loro sviluppo...” .

Thomas Khun suddivide lo sviluppo delle scienze in due periodi, il periodo della scienza-normale e il periodo delle rivoluzioni scientifiche. Il periodo della scienza normale è anche definito periodo paradigmatico, una fase cioè non-rivoluzionaria in cui i progressi non registrano e non ricercano novità bensì la genesi e il mantenimento di una particolare tradizione di ricerca (p. 30); questo periodo è preceduto da un altro periodo definito pre-paradigmatico (pag. 70), caratterizzato da frequenti e profondi dibattiti, discussioni ed attacchi: “Questi dibattiti [...] Sebbene siano quasi inesistenti durante un periodo di scienza ”normale”, essi hanno regolarmente luogo poco prima e durante le rivoluzioni scientifiche, ossia in quei periodi in cui, dapprima, i paradigmi sono sottoposti ad attacchi e in seguito soggetti a modificazioni.” (op. cit. p. 70 -71 [grassetto nostro]). Affermando ciò Thomas Khun rompe con la tradizionale impostazione cumulativa del neo-positivismo di orientamento Popperiano (Abbagnano: “Storia della filosofia” Tomo IV pag. 789), ovvero “l’evoluzionismo volgare”, e finisce col riscoprire una dialettica sotto mentite spoglie! La “Scienza normale”, col suo paradigma, rimanda così ai sistemi-coerenti di Mandel e/o al concetto hegeliano di quantità (...nel

36

nostro caso il genere- jazz). Nel materialismo dialettico, nella prima fase dello sviluppo di una cosa (Mao), la continuità nella quantità non ha nulla a che vedere con l’evoluzionismo cumulativo e senza conflitti del neo-positivismo, ma è anch’essa un processo dialettico, processo che procede, in “stato di riposo relativo”, da differenze non-antagonistiche verso differenze antagonistiche: “...in ogni differenza è insita una contraddizione, ...la differenza stessa è contraddizione.” Riguardo la “Scienza normale” Khun non fornisce un chiaro approfondimento a proposito di dinamiche contraddittorie ad essa intrinseche anche se parla di “dibattiti...quasi inesistenti”, mentre Mao, a proposito del “primo stato di sviluppo di una cosa”, parla di “stato di riposo relativo”. Per Khun poi i paradigmi della scienza normale sono poi: ”essenziali al mantenimento di una tradizione scientifica” senza la quale si avrebbe “una scienza immatura”, “priva di criteri di selezione”, “la preistoria della scienza” perché così ”può accadere che tutti i fatti sembrino ugualmente rilevanti” (“La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, Einaudi pag. 31 - 35). Senza quindi i paradigmi (cioè i generi) ‘tutti i fatti possono sembrare egualmente rilevanti’: siamo quindi alle entità frammentarie, orfane e monche? Alla “quantità amorfa”? A quell’ eclettismo velleitario che non vuole riconoscere la proprietà dei generi-artistici di non essere un’arte “immatura”, “priva di criteri si selezione”, “la preistoria” dell’ arte? Se non si tratta di ciò vi assomiglia molto! A questa fase “normale” [non-antagonistica?] subentrano poi le “anomalie” e le “crisi” [l’antagonismo e il punto nodale di Hegel?]. Sono solo indizi o conclamate analogie? Nella dialettica poi il passato si conserva sempre nell’avvenire, non si tratta quindi di un suo “scomparire e dissolversi” (Mao) assoluti quanto, più precisamente, di una sua uscita, per così dire, “dalla scena del nuovo”, per continuare poi a sussistere nella tradizione. Nell’estetica del materialismo storico si parla di “esemplarità e sopravvivenza dei valori artistici” in quanto “l’arte non si estingue nel processo storico ma è destinata a restare nella storia come valore proprio di quel periodo” “inscindibile dai suoi caratteri storici” “verità che l’uomo rivive esteticamente”. Caratteri storici, quindi l’identità, rivissuti esteticamente. (Rocco Musolino” Marxismo ed estetica in Italia” capitolo ”Appunti su una questione marxiana” pag. 94 Editori Riuniti). Nella fase antagonistica col raggiungimento del punto nodale avviene quindi il “superamento”, superamento che però conserva in sé le tracce di quella negazione “intrisa di conservazione” (Apostel, pag. 16) senza la quale il presente non sarebbe possibile e, con esso, la storia stessa. Anche nella scienza per Thomas Khun: “Le teorie fuori moda non sono in linea di principio prive di valore scientifico per il fatto di essere state abbandonate” (op. cit. pag. 21). Rimane così implicita ”la richiesta di una soluzione integralmente storicistica”, diversamente ci si esaurirebbe in “semplificazioni riduzionistiche” e in quel “meccanicismo deterministico” di cui il materialismo storico è accusato impropriamente. Marx insiste sul fatto che l’arte non è mero effetto (effectus) ma vi è una dialettica (opus) tra l’artista e la cultura del

37

suo determinato periodo, ad esempio tra l’arte greca e la mitologia ellenistica (Rocco Musolino, op. cit.). Così è avvenuto nel jazz tra il “presente storico” dell’etnia nero-americana e la sempre presente mitologia delle proprie radici culturali africane. Anche nel caso di uno degli eroi eletti dal pensiero post-modernista, Popper, la dialettica scacciata dalla porta rientra poi dalla finestra.... “Karl Popper, uno dei grandi nemici della dialettica, è stato probabilmente uno dei suoi migliori interpreti in un articolo pubblicato nel 1940, What is dialectic?, (“Mind” numero speciale) nel quale ha introdotto il concetto di dialettica in rapporto a un processo di prova errore.” (Leo Apostel: “Materialismo dialettico e metodo scientifico” Cibernetica, logica, marxismo; Einaudi - Nuovo Politecnico pag. 51), commentando poi che si sarebbe trattato solo di una dialettica “generica”, “vaga ed empirica”. Secondo Marcuse, che nel 1976 ha pubblicato insieme a Popper il libro “Rivoluzione o riforme?”, “Ogni modo di pensiero che esclude la contraddizione dalla sua logica è una logica difettosa” (Herbert Marcuse: “Ragione e rivoluzione” pag. 8, il Mulino - 1968). A mio avviso contro la post-filosofia dovrebbero valere le stesse accuse che Popper rivolge contro Hegel: ”Credo che abbiamo più che sufficienti ragioni per sospettare che la sua filosofia fu influenzata dagli interessi del governo prussiano del quale era impiegato” basta sostituire a “governo prussiano” “revisionismo globale”. L’Arte è costituita da varie materie (Architettura, Pittura , Letteratura, Musica, Cinema, ecc.), così come la Scienza è costituita da varie materie (Fisica, Chimica, Biologia, ecc.), come l’Arte sta alla Scienza così la Musica, in quanto materia, sta alle materie della scienza, il Jazz poi, come genere, ha rappresentato una “straordinaria rivoluzione paradigmatica” nella musica del 900’, ma i paradigmi di Thomas Khun, nonostante la assonanza evocata dalla parola, non vanno intesi come rigidi schemi o formule da applicare meccanicamente (così come per i generi in Musica!) bensì come: “…quelle concezioni e quelle convinzioni che costituiscono punti fermi della scienza in un dato momento…” (Giovanni Reale), essi costituiscono dei “modelli che danno origine a particolari tradizioni di ricerca scientifica con una loro coerenza.” (Khun). Indubbiamente il jazz rappresenta un modello espressivo, una concezione musicale, una strategia di produzione “...la musica può essere intesa come risultato di determinati atteggiamenti, di certe particolari concezioni del mondo...” [Baraka, op. cit.], “consuetudini e credenze” che originano una particolare “tradizione” con una sua “coerenza” ed una sua dialettica interna. Coerenza paradigmatica che, quando rivoluzionata, dovrebbe segnare il passaggio da un genere musicale ad un altro. Ciò si ricollega ad altri due concetti del pensiero dialettico indispensabili alla nostra piccola ricerca filosofica: i concetti di Qualità e Quantità. La qualità, difficilmente riducibile a un concetto unitario, qui può essere intesa non tanto come “accidente”, ma come “peculiarità” (diz. Lingua Italiana Palazzi 1939) non tanto come “determinazione qualsiasi” ma come “qualità che individualizza l’oggetto stesso ed è perciò propria di esso” (Abbagnano, Diz.

38

Fil. Utet); Per Hegel: “La determinazione dell’essere ‘che semplicemente è’ “quindi la qualità essenziale, non qualsiasi determinazione; “Essa [...la qualità*...] trapassa nella quantità” (Hegel: ”Enciclopedia delle Scienze filosofiche” ed Laterza: Glossario, pag. 617. B. Croce [nota* nostra]); per gli Stoici: “forma che determina la materia” (Giovanni Reale: St. Fil. V; ed. Vita e Pensiero), ciò che dà forma alla materia amorfa. Quindi proprietà essenziale di un oggetto. Per il concetto di quantità invece ”L’espressione grandezza non è l’espressione adatta per la quantità poiché essa designa principalmente la quantità determinata” (Benedetto Croce: Hegel ”Enciclopedia delle Scienze filosofiche” ed Laterza: Glossario, p. 115). La quantità non va confusa con la misura di grandezza, ma va intesa come concetto della “Continuità del molto” (Benedetto Croce; Hegel, op. cit): si ha quantità in presenza di una moltitudine di oggetti legati tra loro da un filo di continuità. “La quantità resta unita in quanto è in essa la determinatezza in genere, e questa è da porre come contenuta in essa” (Hegel, op. cit. pag. 116 [26]): gli elementi costitutivi la quantità rimangono tra loro legati (uniti) in virtù di quella sostanza comune che è la “determinatezza in genere” (qualità), la quale è a sua volta racchiusa nella quantità (la qualità e racchiusa nella quantità). Le differenze quantitative non sono quindi sufficienti per sancire la diversità di genere. Una cosa, nonostante una variazione quantitativa di intensità od estensione, non cessa di essere di tal genere. Una casa, più o meno estesa, o un rosso, più o meno intenso: “non cessa di esser casa, rosso, ecc” (Benedetto Croce; Hegel, op. cit.). Fermo restando un determinato genere, le determinazioni del genere possono diversificarsi tra loro solo quantitativamente, perché dal momento in cui si diversificassero anche qualitativamente muterebbe il genere. Ma riprenderemo questo discorso più avanti. La conversione della quantità in qualità è considerata una fase fondamentale della dialettica hegeliana. Il materialismo dialettico non rifiuta la logica classica e la logica formale, ma le specifica e le integra, come nel caso del principio di identità e del principio di non-contraddizione o di contraddizione. Nella logica classica la contraddizione non-antagonistica viene denominata “contrasto”, la contraddizione antagonistica semplicemente ”contraddizione”, e al ”principio di contraddizione” (o ”non- contraddizione”), viene spesso attribuito lo stesso significato, ed essi vengono a loro volta ricondotti al principio di identità:

“ogni ente è se stesso e non altro”(Sofia Vanni Rovighi: “Elementi di filosofia” vol. 2; pag. 28) - ”...il principio di non-contraddizione é ricondotto a quello di identità-determinazione” (Sofia Vanni Rovighi: “Istituzioni di filosofia”, pag. 66 – 65, ed. La Scuola - “Elementi di filosofia”, vol. 2; pag. 34-35);

Principio di non-contraddizione (o “contraddizione”):

“Niente simultaneamente può essere e non essere” (Aristotele, Metafisica) [non (A e non A)]; Principio del terzo escluso: [A o non A], (A può essere A o non A, non è possibile un terzo elemento, altrimenti sarebbe B !). Secondo la

39

logica hegeliana, da un punto di vista rigorosamente astratto, ogni affermazione porta con sé simultaneamente e necessariamente la propria negazione: “... A è uguale ad A solo in quanto opposto a non-A, cioè l’identità di A risulta dalla contraddizione e ha in sé la contraddizione. A non contraddice secondo Hegel un non-A che gli rimane estraneo, ma un non-A che appartiene alla stessa identità di A . In altri termini A è contraddittorio di se stesso.” (Marcuse, “Ragione e rivoluzione” p. 147). La negazione prodotta dall’affermazione del termine, è una attività riflessa ed intrinseca che deriva dalla natura stessa dell’essere, dal suo status ontologico: l’opposizione dell’essere col non-essere [A o non-A > “terzo escluso”]. E’ dall’abisso del nulla che emerge l’essere? La semplice affermazione di uno dei due termini implica immediatamente l’affermazione della sua negazione: se è necessario affermare l’essere è perché è necessario negare il non-essere (e viceversa: la vita e la morte;) (..e sul concetto di “Nulla” si aprirebbe un discorso così vasto da oltrepassare i confini di questo capitolo!). Leo Apostel scrive che: “Sia Engels che Lenin insistono sul fatto che i principi della logica classica devono restare validi. In particolare il principio di non contraddizione”... Primo problema: ...“Come possiamo interpretare la legge dell’esistenza, della lotta e dell’unità dei contrari senza rompere col principio di non contraddizione?” (Leo Apostel: ”Materialismo dialettico e metodo scientifico” p. 15 Einaudi 1968, Nuovo Politecnico): se A è identico con A come può essere, nello stesso tempo, diverso da A! Secondo problema: “...secondo le definizioni di Lenin, tutte le contraddizioni sono necessariamente sia antagonistiche che non-antagonistiche nello stesso tempo” (Leo Apostel, op. cit. pag. 15). E così scrive Popper: ”[Hegel] sostenne che si doveva alterare la logica per fare della dialettica una parte importante, se non la più importante della teoria logica. Questo lo costrinse ad abbandonare il principio di contraddizione, che costituisce chiaramente un grave ostacolo alla accettazione della dialettica” (Popper: “Contro Hegel”, pag. 15 ed. Armando). Pensiamo che a questi due quesiti possano dare una risposta Mandel e Marcuse:

- Ernest Mandel: la logica formale “...è inapplicabile ai fenomeni di movimento, ai processi di cambiamento. Appena si è in presenza di tali fenomeni, il ricorso alle categorie della dialettica – della logica del movimento - categorie differenti rispetto a quelle della logica formale - s’impone” (E. Mandel, op. cit. pag. 107 - 108.);

- Herbert Marcuse: ”La contraddizione o...l’opposizione, non nega l’identità della cosa ma produce questa identità nella forma di un processo in cui si sviluppano le potenzialità della cosa stessa” (H. Marcuse: “Ragione e rivoluzione” pag. 147, Il Mulino).

Infatti questi problemi insorgono se si continua a considerarli esclusivamente nell’astrazione della logica formale. Il divenire non può quindi darsi se non come divenire di un mondo materiale e del suo riflesso sentimentale e simbolico (lo spirito e il concetto). Il divenire non può svolgersi se è assente il

40

soggetto stesso del divenire, come si potrebbe infatti stabilire una semplice differenza o una alterità, senza mantenere costante l’identità a cui indirizzarle? Senza l’identità originaria verrebbe a mancare il termine di paragone col quale stabilire la diversità. Così come non potrebbe esservi il divenire senza la progressiva differenziazione del soggetto del divenire, che sarà identico a sé nella connotazione globale del processo, e differente da sé nelle connotazioni puntuali del processo. Presupposto del cambiamento è quindi la presenza costante dell’identità di ciò che cambia “ciò che perdura in ogni cangiamento” (B. Croce) senza di essa non vi può essere cambiamento: Cosa si trasforma? Cosa cambia? Una identità che si sviluppa nella fenomenologia della sua estensione nello spazio (il jazz in nord-america), e nel suo movimento nel tempo (il jazz nel XX secolo), quindi nella materia e nella storia! Una determinata qualità che nel suo sviluppo si modifica quantitativamente sino a giungere alla fase terminale del processo (“punto nodale”) oltre la “misura della quantità” (Hegel), trasformandosi così anche qualitativamente e divenendo “altro da sè” (...se per “alterità” qui si intende “negazione” e non “il nulla”, il “non-essere” parmenideo). Nella metamorfosi dell’ identità del soggetto, decade il soggetto stesso e ne nasce uno nuovo. Anche il secondo problema sollevato da Apostel [“... secondo le definizioni di Lenin, tutte le contraddizioni sono necessariamente sia antagonistiche che non-antagonistiche nello stesso tempo”] dipende, come sopra, dal senso che si dà al concetto di “nello stesso tempo”, che và inteso “nello stesso lasso di tempo” o meglio “potenzialmente nello stesso processo di tempo”: tempo che non và quindi inteso come attimo-cristallizzato, ma come attimo-fuggente (è forse possibile fermare il tempo?); il termine A del principio di contraddizione solo astrattamente può darsi come cristallizzato nel tempo, nella realtà, come dicevano Eraclito e Mao, tutto cambia! Con ciò quindi non solo non si respinge il principio di contraddizione, ma lo si accoglie approfondendolo. La contraddizione è quindi di per-sé ancora non-antagonistica, e in-sé potenzialmente antagonistica: ”... processo in cui si sviluppano le potenzialità della cosa stessa.” (Marcuse, op. cit.); Questo destino di ogni processo, non è casuale o ad esso esterno, ma è una sua determinazione ontologica, una causa prima ed interna, che però troverà attuazione solo quando favorevoli cause esterne interagiranno con esso: “..le cause esterne operano attraverso le cause interne”...“ l’uovo, quando riceve una adeguata quantità di calore, si trasforma in pulcino, ma il calore non può trasformare in pulcino una pietra” (Mao Tse-Tung); Il sancire che ogni contraddizione abbia il destino della inevitabile “soluzione” non significa stabilire o pretendere deterministicamente, anche “l’esito” e “la natura” di questa soluzione; le soluzioni potrebbero essere differenti, anche una rivoluzione sconfitta è una “soluzione” di questa contraddizione; Mao lo dice chiaramente quando scrive: “In conformità con lo sviluppo concreto delle cose, alcune contraddizioni, inizialmente non antagonistiche, si sviluppano in contraddizioni antagonistiche, mentre altre, inizialmente

41

antagonistiche, si sviluppano in contraddizioni non antagonistiche”. (Mao “Sulla contraddizione” pag. 363, [grassetto nostro]). Quindi non tutte le contraddizioni antagonistiche debbono necessariamente sfociare in una rivoluzione. Così come vi possono essere rivoluzioni di natura differente. Ad esempio l’odierno grande rivolgimento sociale, che vede l’ingresso di milioni di migranti dal terzo mondo nel primo mondo, potrebbe essere interpretato come la conferma della marxiana “rivoluzione proletaria”, proletariato che non ha nulla da perdere “se non le proprie catene” ! Una rivoluzione che scaturisce dalla contraddizione antagonistica tra lavoro-salariato e capitale poiché anche la non-occupazione è una variabile indiretta di questa stessa contraddizione! Non quindi una rivoluzione politica, ma sociologica! Anche se con grandi implicazioni politiche. Solo chi è attaccato spasmodicamente ai propri privilegi, alle proprie abitudini o credenze ideologiche, potrebbe desiderare una realtà statica ed immutabile, un “universo tolemaico”! Sul versante del positivismo, i criteri e la legittimità di ciò che sarebbe, o non sarebbe, scientifico sono circoscritti all’ “operazionismo” e al “comportamentismo” (Marcuse ”L’uomo a una dimensione“ pag. 32-33), ma una più recente tendenza, prendendo atto che solo una minima percentuale dei fenomeni naturali si può replicare in laboratorio e quindi dimostrare empiricamente, rompe con queste catene in favore di una visione più flessibile che, lasciando spazio ad altre variabili, si dischiude alla dialettica in tutta la sua attualità. In questo suo voler risalire al di là dell’apparenza sino alla causa prima, dalla sovrastruttura alla struttura, nel suo voler trascendere gli effetti per giungere alle cause, il materialismo è stato tacciato di essere una “metafisica”. Anche la scienza medica in quanto dal sintomo ridiscende alla causa diventerebbe quindi una metafisica? E’ anch’essa “dietrologia”? “Ogni singolo fatto è più di un mero fatto; è la negazione e la limitazione di possibilità reali” (Marcuse: ”Ragione e rivoluzione” ed. Il Mulino, 1968, pag. 315). E’ significativo come proprio la dottrina che aveva decretato “la miseria della filosofia” (il materialismo dialettico) finisca di fatto con l’esserne in realtà la continuatrice in una nuova epistemologia. Così come ogni superamento è intriso di conservazione, così i vecchi valori illuministici e garantisti della rivoluzione francese è necessario continuino a vivere come tradizione e patrimonio dell’umanità. Così accade anche in musica, e il classico e il jazz e tutte le altre tradizioni, continueranno a coesistere con i futuri generi musicali d’avanguardia (sempre che non ne avvenga il genocidio per mano del monopolismo culturale!). Riepilogando le nostre premesse la categoria della quantità comprende tutti quei mutamenti che nel loro sviluppo mantengono costantemente la stessa qualità, qualità che costituisce la sostanza unificante degli opposti (continuità qualitativa). Nel passaggio da uno stile ad un altro stile dello stesso genere, può avvenire un mutamento qualitativo? No, altrimenti cesserebbe la loro comune appartenenza a quel determinato genere: “la determinatezza in genere” è “contenuta” nella “quantità” (Hegel), la qualità è contenuta nella quantità. Da qui ne risulta che il concetto di

42

qualità non va inteso sommariamente, alla stregua degli attributi non-essenziali, ma molto peculiarmente nella accezione di sostanza od essenza (“ciò che perdura in ogni cangiamento”, B. Croce). La qualità può però presentarsi intrecciata ad attributi non-essenziali che potrebbero essere scambiati per essenziali e trarre in inganno la lettura. Che uno stesso genere mantenga sempre (in intrinseco fermento) una stessa qualità (auto-affermandosi nella contrapposizione antagonistica con gli altri generi), non significa che le sue variabili non-strategiche, i suoi attributi non-essenziali, non possano eclissarsi e riproporsi, sintetizzarsi o inter-scambiarsi in rapporti non-antagonistici con attributi di altri generi. Nello scontro antagonistico non può avvenire una sintesi perché uno dei due aspetti contradditori dovrà essere divorato (incompatibilità), ma nei rapporti non-antagonistici sia intriseci che estrinsechi avviene un continuo interscambio ed arricchimento di tipo sintetico (compatibilità), ciò corrisponde ad un primo stato nel quale “...la tesi viene arricchita dall’antitesi in una sintesi superiore” (Lenin). Dopo tutta una serie di ulteriori arricchimenti, il processo, avendo realizzato tutte le sue potenzialità, sperimentate tutte le permutazioni possibili, messe a frutto tutte le sue risorse e raggiunto il punto massimo attua così una repentina metamorfosi. Possibilità che una volta realizzate producono, un nuovo potenziale di forze essenzialmente diverso: un nuovo genere! Engels nel capitolo XII dell’ ”Anti-Duhring” cita tutta una serie di efficacissime esemplificazioni di come ”un cambiamento quantitativo cambia la qualità” e come ”un cambiamento qualitativo cambia la quantità”. Gli esempi sono tratti dalla fisica, la chimica, la matematica e l’economia, ma forse per l’arte vi potrebbe essere una peculiarità! Nella tradizionale letteratura del materialismo dialettico anche se con differenti accentazioni e sfumature, la quantità è vista come un processo evolutivo relativamente stabile (“riposo relativo”), come la realizzazione di varie combinazioni e sintesi quantitative.

Quel che più importa è che tendenzialmente:

la assenza di salti viene considerata una proprietà esclusiva della continuità qualitativa (prima fase), mentre la presenza di salti viene attribuita esclusivamente alla discontinuità qualitativa (seconda fase). Ma questo aspetto è stato oggetto di ulteriori approfondimenti che si sono spinti al di là di questa rappresentazione tendenzialmente schematica. Ricerche filosofiche condotte alla fine degli anni 50’ e inserite nella letteratura del materialismo-dialettico, hanno posto la possibilità di salti che non interrompano la continuità evolutiva della qualità stessa (Leo Apostel “Materialismo dialettico e metodo scientifico: Cibernetica, Logica, Marxismo” pag. 17, Einaudi 1968, e in “Le socialisme” vol. 7, n. 4 Bruxelles 1960). Un esempio ci potrebbe venire dalla musica: l’ identità tonale di una data tonalità musicale non cambia anche se le note, invece di susseguirsi per gradi congiunti, si susseguono in ordine diversificato! Una cosa è quindi la discontinuità-quantitativa (sviluppo interno) altra cosa la discontinuità-

43

qualitativa (metamorfosi). In pratica nella prima fase dello sviluppo di una cosa sarebbero possibili processi a velocità differente. Anche nel caso dell’arte quindi, nello sviluppo intrinseco ai singoli generi, nelle fase quantitativa si possono riscontrare dinamiche più disordinate ed irregolari, una disordinata sperimentazione per tentativi ed errori: “genio e sregolatezza”, uno “sviluppo ineguale”. Nel genere musicale la categoria della quantità si produce nella messa in atto di tutte quante le possibilità della qualità, di tutte le permutazioni e le combinazioni compatibili con il paradigma qualitativo costante. Paradigma caratterizzato dal comun-denominatore dei contenuti culturali, l’idioma, i vernacoli, le tecniche e le strategie: bagaglio di consuetudini che vengono a formare, come abbiamo visto, il linguaggio di genere. Questa fase sperimentale in arte si svolgerebbe quindi con modalità non necessariamente lineari, con differenti velocità, direzioni-random e imprevedibili salti. La presenza di salti non compromette, ma dinamizza, arricchisce e completa il paradigma di genere. Anche nel jazz ciò è avvenuto senza compromettere la continuità evolutiva dei suoi contenuti-sociali (continuità intesa come graduale presa di coscienza dei neri in quel periodo storico) così come la continuità del suo stile-improvvisativo (la “variabile-strategica autonomizzata” v.v. Nattiez, op.cit.) che non solo permane, ma si incrementa nell’arco di tutto il suo sviluppo sino alla assoluta libertà del Free-Jazz. I “salti non-discontinui” riscontrabili tra gli stili del jazz non interrompono quindi quella continuità dialettica in cui “le novità emergenti sono preparate e spiegate dagli sviluppi precedenti” (Leo Apostel op. cit.) e si contrappone a quanto sostenuto da Scott De Veaux a proposito dell’ ”...ovvia discontinutà” tra gli stili del jazz che minerebbe la concezione del jazz come “entità organica” (Scott De Veaux: ‘Creare la tradizione ‘ da “Il Jazz tra passato e futuro” pag. 31 ed. Lim). Eccoci quindi all’esito finale del nostro discorso sull’evoluzione del jazz: la nostra tesi è quindi che il modello empirico del processo jazz, tumultuoso e relativamente breve, si spieghi con la fenomenologia sopra descritta e quindi come questo genere musicale si configuri come una “metafora epistemologica” (Umberto Eco). Questo spiegherebbe come il processo evolutivo del jazz abbia visto, nonostante i salti tra uno stile e l’altro, la conservazione della qualità essenziale! Questa è più di una semplice ipotesi, infatti che nel jazz ormai tutte quante le possibilità quantitativamente siano state, nel bene e nel male, esperite è comunemente accettata. Ciò consente di spingersi ad affermare che se qualcosa attualmente fosse necessario compiere, ciò sarebbe piuttosto una ricognizione retrospettiva per ripulire il jazz da tutto ciò che gli è stato attribuito in passato e che non gli apparteneva!

Musicologia o indagine poliziesca?

L’osservatore attento alla corrente pubblicistica sul jazz, leggendo articoli e recensioni (di taglio sempre più spesso musicologico), o partecipando a

44

conferenze e dibattiti, non può fare a meno di appurare con inquietudine il suo frequente allinearsi a quella ben nota critica musicale predisposta a compiacere sia l’industria musicale [”...servizio dell’industria discografica, lubrificando il desiderio di acquisizione di prodotti” (pag. 199) “...uno spauracchio, le case discografiche” (pag. 208 - 209) (Gianni Sibilla:”I linguaggi della musica pop” ed. Bompiani)] che il potere politico ”...le pressioni strutturali si esercitano eminentemente attraverso il mercato dominato dal grande capitale...le ideologie estetiche elaborate dai servi culturali del potere nei seggi istituzionalizzati della critica...” (Luciano Cavalli op. cit. pag. 92 ). Nell’assecondare il monopolio politico del jazz certa attuale pseudo-musicologia finisce con l’assumere quella “colorazione di materialismo volgare” dalla quale si distanzia Nattiez trasformandosi così, pericolosamente, in qualcosa di analogo ad una indagine poliziesca. Con questa provocatoria affermazione nulla si vuol togliere all’efficacia delle moderne indagini di polizia, l’analogia consisterebbe più che altro nel voler trattare il jazz alla stregua di una specie di inquisito da perseguitare, colpevole di essersi da sempre millantato ed auto referenziato come diverso e migliore di quanto in realtà sia. Questa pericolosa inclinazione può portare a voler dimostrare acrobaticamente l’esatto contrario della verità storica, e per far ciò non potrebbe esservi strumento migliore che l’empirismo volgare. L’opzione di spiegare il jazz e l’improvvisazione basandosi eccessivamente sugli aspetti quantitativi e su dati empirici avulsi dal contesto è, già di per sé, insufficiente e parziale ”E’ illusorio stabilire verità assolute in modo meccanico...anche in matematica non tutto il vero è dimostrato con metodi automatici” (Giuliano Spirito). Nel volersi affidare a storiografie, biografie, documentazioni archivistiche e dati empirici, come partiture o registrazioni fonografiche, suddetta pseudo-musicologia finisce col sommergere i fattori con i fatti. Essa, invece di avvicinarsi al suo obbiettivo se ne allontana, naufragando nel nomadismo, nel relativismo, nel soggettivismo, nello scientismo, tutte derive che trovano il loro epilogo nel revisionismo storico. Ora non credo proprio che la vera-musicologia e la semiologia possano essere accusate di empirismo, anche perché le analisi dialettiche di Nattiez e di Umberto Eco stanno lì a dimostrare il contrario (dialettiche in senso lato poiché si tratta di una dialettica fra differenti metodi, inclusi anche quelli empiristici). Ciò non toglie che, per lo meno oggi, la corrente musicologia-jazz faccia eccezione. Ad esempio quando l’oggetto dell’osservazione musicologica sono i processi improvvisativi del jazz, si deve necessariamente tener conto anche di altre variabili che finiscono col trascendere la testimonianza empirica del supporto audio-tattile o la sua analisi meramente quantitativa. “Per poter stabilire se un certo tratto è universale, bisogna dimostrare che si può incontrare effettivamente ovunque o che non risente di contro-esempi. Finché questa dimostrazione non viene fatta, i tratti devono essere considerati ipoteticamente universali...” (Nattiez, op. cit. pag. 49). In altre parole, che a volte Parker nei vari takes eseguiti in sala d’incisione

45

riproponesse sempre lo stesso assolo, non dimostra assolutamente che l’improvvisazione sia simulazione. Un artista innovatore come Parker, nella fase della creazione di un nuovo linguaggio musicale, si preoccupava di poter codificare su disco le ultime acquisizioni della sua ricerca linguistica. Acquisizioni avvenute sulla lunghezza d’onda della forza propulsiva dell’improvvisazione. Il supporto audio-tattile veniva quindi utilizzato come strumento di conservazione non tanto di una tecnica improvvisativa, quanto dei suoi risultati sul piano dell’innovazione di un sistema di fraseggio determinato dall’improvvisazione e finalizzato all’improvvisazione! E ciò è molto di più di un ipotesi perché attuato e dimostrato da tutti quei jazzisti (quelli ”veri”) effettivamente impegnati in una autonoma ricerca linguistica ed espressiva, e non solo preoccupati di ostentare un pedigree stilistico, o peggio una immeritata appartenenza araldica (...i “neo” di tutti gli stili individuali!). L’abuso dell’ empirismo in musicologia fa allontanare, per assuefazione, da quelle che in filosofia si chiamano “verità immediate evidenti”. Verità che si colgono intuitivamente nella fruizione musicale e si razionalizzano nell’esperienza musicale. Indagine musicologica che rischia di perdersi in interventi estenuanti, sovraccarichi di date, discografie, citazioni e verbalismo accademico, con risultati spesso vaghi e indeterminati e conclusioni retoriche che perdono di vista i contenuti semantico-culturali, ovvero quella intenzionalità “petardo epistemologico in musicologia” [Nattiez] che prima di tutto definisce l’essenza e la ragion d’essere di una musica. “Intenzionalità” quindi come connotazione tesa ad una realizzazione mai completamente attuata, ma pur sempre percepibile nell’azione creativa. Intenzionalità che è da sempre descritta dall’estetica musicale poiché non misurabile. Ben lungi dal voler cadere nel vecchio luogo comune che vorrebbe sacrificare la musicologia all’estetica, non si può tuttavia far finta di non vedere come in Italia e non solo, il drastico passaggio dall’estetica alla musicologia stia oscurando la peculiarità del jazz, e consenta l’applicazione a questo genere musicale di anacronistici criteri a lui estranei. Non a caso i contributi che in Italia maggiormente rendono giustizia al jazz provengano da lavori redatti da filosofi e non da musicologi. Oltre a Massimo Donà col suo bellissimo “Filosofia della Musica” (Bompiani), mi riferisco in particolare al qui ampiamente citato Davide Sparti, filosofo le cui opere sono state fatte oggetto di critiche viziate da un tale trasporto emotivo che, al di là delle intenzioni, finiscono col produrre un effetto denigratorio. Reazioni di tale natura da costringerlo a controbattere quanto segue: “Per non suscitare l’astio di qualcuno, dichiaro sin d’ora di non essere musicologo, né musicista e nemmeno storico della musica. Essendo un filosofo e uno scienziato sociale, si potrebbe porre la questione della mia legittimità in questa sede. Cosa ci si può aspettare da chi lavora sui concetti che stanno alla base di pratiche estetiche? Ebbene la capacità di mettere in questione, di problematizzare una serie di presupposti assunti come ’ovvietà’ e interrompere così il circuito ‘virale ’ della loro replicazione. (Davide Sparti: ”Il

46

corpo sonoro”; Introduzione pag. 11; Il Mulino). Ciò nonostante è proprio da importanti studi musicologici che provengono contributi strategici per il jazz. Se infatti è vero che: “...possiamo vedere la storia della musica occidentale come la differenziazione successiva dei parametri, l’autonomia crescente e l’eventuale sintatticizzazione dei parametri così differenziati” (Meyer) e ancora “...di fatto nel corso della storia della musica tonale abbiamo assistito all’integrazione del parametro timbro, al punto che questo diventa la variabile strategica fondamentale della musica elettroacustica; la musica seriale integrale applica al ritmo, alla durata e al timbro i principi che riguardavano solo le altezze…” (Nattiez, op. cit. pag. 113), è altresì vero che nel jazz il parametro melodico-improvvisazionale ha assunto una sempre maggiore “autonomizzazione” (Molino) sino a divenire la “variabile strategica” e ribaltando così radicalmente l’ordine del discorso. Di regola nella musica classica, o generalmente composta, tutte le variabili sono equilibratamente interattive o altalenanti rispetto alla produzione contrappuntistico-orchestrale di un’opera dalla forma compiuta e definitiva (...forma che costituisce spesso un limite anche per la libertà d’interpretazione!). Nel Jazz al contrario è il contesto generale, benché essenziale [ ! ], ad essere funzionale, e in certo qual senso, interattivamente subordinato, rispetto alla produzione di una variabile strategica completamente autonomizzata: la melodia improvvisata! Melodia che dall’humus e dal clima del contesto in cui si svolge prende la mosse per il suo sviluppo discorsivo. Tutta la storia del jazz procede nel senso di una melodia che si sviluppa (sino a disintegrarsi nel Free Jazz). E’ quindi su questa variabile essenziale che va focalizzata l’analisi. Che la scienza non sia neutrale e se ne faccia un uso politico non è una novità. Anche certa musicologia, sbilanciandosi e appiattendosi miopemente sugli aspetti quantitativi, oltre a denotare una malcelata incapacità di saper cogliere pienamente la sostanza qualitativa dell’arte, potrebbe in realtà nascondere finalità politiche indirizzate a censurare i contenuti sociali insiti nel messaggio artistico. Contenuti evidentemente non graditi perché non allineati alle politiche culturali del potere costituito e degli interessi vigenti: un uso quindi politico della musicologia? Marcuse distingue la logica dei fatti dalla logica dialettica: “La realtà è qualcosa di diverso da ciò che è codificato nella logica e nel linguaggio dei fatti;“ “E’ questo l’intimo legame tra pensiero dialettico e il tentativo della letteratura d’avanguardia: lo sforzo di superare il potere dei fatti sul mondo” “ La dialettica e il linguaggio poetico, piuttosto, si trovano sullo stesso piano” (H. Marcuse “Ragione e rivoluzione”, op. cit. pag. 10). Senza necessariamente aderire al suo pensiero, si potrebbe tracciare un collegamento con Nelson Goodman e il suo: “rifiuto del dato, di qualsiasi teoria o piano osservazionale neutrale rispetto ai dati culturali” e che “l’opera d’arte è percepita attraverso i sentimenti così come attraverso i sensi” (Abbagnano “Storia della filosofia” Utet ). Ed i sentimenti sono prodotti dell’elaborazione, sia inconscia che morale, di precedenti vissuti significativi, sono quindi cosa diversa dalla percezione che ha più a che vedere con le

47

emozioni (ivi. Andreoli: ”Musica delle emozioni-musica dei sentimenti”); tuttavia nel linguaggio comune le dicotomie “impulsi/emozioni” ed “emozioni/sentimenti” sono spesso sinonime ed intercambiabili: il termine “emozioni” è a volte assunto per significare “impulsi”, ed altre volte, in una accezione più profonda, per significare “sentimenti”. Da un’angolazione sociologica, focalizzando l’osservazione sulla funzione giocata dall’evento rispetto al suo contesto storico se ne possono trarre chiarificanti contributi. L’analisi funzionale, metodo tradizionalmente usato in etnologia, ben accolto in sociologia e accuratamente evitato dalla pubblicistica musicologia-jazz corrente, è impegnata a determinare i sistemi (economici, socioculturali ed istituzionali), rispetto ai quali altri eventi culturali e comportamentali possono essere funzionali o dis-funzionali. Considerando il jazz situato nel suo contesto storico sociale, non si incontra nessuna difficoltà nel rilevare il ruolo dis-funzionale giocato da questa musica nei confronti del sistema istituzionalizzato, quando si applichi lo stesso criterio alle nuove tendenze oggi così potentemente sponsorizzate, con altrettanta facilità si potrebbe constatare come, non solo non stia avvenendo nulla anche di solo lontanamente paragonabile ai “tempi d’oro del jazz” ma che, al contrario, oggi prevalga un atteggiamento tutto funzionale agli attuali rapporti di produzione: “A quel tempo a New York, specialmente nella parte sud di Manhattan, c’era una scena artistica molto vivace, accessibile a tutti. Nella pittura un grande fermento: dall’espressionismo sino a Larry Rivers o Jeff Koonse. Alle mostre d’arte si suonava jazz. Tra pittori, poeti e musicisti c’era una relazione molto intima...Credo fosse come a Parigi negli anni venti...Oggi invece...non c’è più quella scena artistica, quel tipo di comunità...Forme d’arte così rivoluzionarie che l’industria non ha potuto far proprie. Ma è successo. Oggi c’è meno urgenza o senso di rilevanza nei confronti del mondo. Non vedo in giro la potenza, la forza di certe opere di allora, che ti colpivano in fondo, che ti facevano strabiliare. Vedo ad esempio tanta arte visiva che è molto ’hip ‘, molto intelligente, ma sembra condurti verso il nulla. Nel jazz o nel teatro nemmeno ci si avvicina alla forza di una volta.” (Intervista ad A. B. Spellman; “Musica jazz” Maggio 2007”).

Afrologia ed eurologia.

Il jazz ha visto il suo sviluppo articolarsi nel periodo relativamente breve di cinquant’anni (’20 – ’70), periodo brevissimo se paragonato alla storia della musica classica europea. E’ proprio il paragone con la musica classica ad essere sproporzionata e fuorviante. La musica classica si è sviluppata in una storia che è stata secolare. Essa rispecchia l’altrettanto secolare sviluppo storico della società europea e delle classi dominanti, vecchie e nuove, dalle quali è stata storicamente condizionata ed istituzionalizzata; mentre il jazz,

48

genere con caratteristiche popolari e sottoculturali (anche se non determinante, è tuttavia significativo guardare alle biografie della maggior parte dei suoi più importanti artisti da Armstong a Christian, etc.), rispecchia un periodo recente e circoscritto della storia di una minoranza etnica, quella afro-americana, che è stata emarginata e accolta solo se omologata, che è cosa diversa dall’emancipazione. Scrive l’estetologo musicale Janos Maròty, “La ‘storia della musica’ [...] è la storia delle culture musicali dominanti” [...] “Lo stesso sistema istituzionale della cultura musicale nasce e si mantiene in buona parte sul terreno della cultura dominante [...] l’istituzionale significa anche l’ufficiale, l’accettato, il non-istituzionale spesso il solamente tollerato, o anzi l’escluso, il perseguitato...” “E’ nella natura delle cose, inoltre, che la musica popolare sia di solito più rivoluzionaria di quella delle classi dominanti”. Se non altro per interessi di classe: l’interesse peculiare dei potenti è la conservazione, quello dei subalterni il cambiamento.” (Maroty: “Musica e Uomo” p. 222 - 223, ricordi/unicopli, Le Sfere). L’analogia tra jazz ed altre forme, risulta invece calzante se fatta con generi artistici (correnti letterarie, pittoriche ecc.) della stessa epoca storica, il cui sviluppo è stato altrettanto rapido. Il cinema, prodotto della stessa epoca, non è però un genere, bensì un’arte-autonoma, questo spiega come mai, a differenza del genere-jazz e analogamente all’arte-musicale, potrà continuare a svilupparsi, attraverso diverse forme. Il jazz è invece solo un genere e, in quanto tale, è destinato a passare alla storia come tradizione, se mai dopo avere dato origine a nuovi generi. Come tutte le arti moderne del 900’ il jazz ha dato un peculiare contributo in termini di tecniche di produzione, di poietica. Il linguaggio verbale e quello melodico, pur nelle differenze, presentano affinità e analogie (“...un aumento della attività neuronale nella corteccia prefrontale dedicata all’espressione di sé, che ad esempio si accende quando si racconta una storia. Storia fatta invece che di parole di frequenze, di distanze, di durate, di intonazioni” [“Algoritmo del jazz” di Marco Magrini - Il Sole 24 Ore - 6 marzo 2008.]). Ciascuno di noi, quando conversa nella vita quotidiana, improvvisa [!] e comunica con un discorso ricco di inflessioni, tono, ritmo e dinamiche, così come avviene nell’improvvisazione musicale. In Africa la musica è sempre stato un evento sociale allargato all’ascolto partecipante, essenziale anche della dimensione estetica della musica, il suono e il pulsare dei tamburi costituiscono un vero e proprio mezzo di conversazione. Nella comunità nera schiavizzata del nord-america la riappropriazione in chiave afrologica di musiche occidentali, (canti religiosi, ballate popolari, canzoni nord-americane eseguite con la peculiare inflessione e carica ritmico propulsiva dell’Africa nera), innescò una spinta compulsiva (quindi non sempre consapevole), alla rottura degli argini inibitori della ribellione contro la cultura dell’oppressore, una musica anti-borghese: “Le marce dell’esercito della salvezza inglese e gli alleluia sentimental-religiosi si son trasformati nei canti rivoluzionari dei neri d’America” (Maròty op. cit. p. 224). Ribellione a sfruttamento e razzismo, ma anche alle rigide

49

consuetudini della musica colta, gerarchiche e repressive, e quindi ad una instintualità sublimata. Ribellione che ha ritrovato nella improvvisazione non solo le libertà negate, ma il vessillo per rivendicare le radici di una cultura che concepisce la musica come “flusso degli eventi nel tempo” (“Musica dell’Africa nera” D’Amico, ed. L’Epos p. 62). La rottura dei freni inibitori indotta dall’improvvisazione, collettiva prima e individuale poi, ha fatto tracimare incontenibilmente il doloroso vissuto di un popolo riversandolo nei contenuti semantico-culturali, la proprietà di significazione della musica e i suoi contenuti sociali. Reperti semantici che significano contenuti estetici socialmente condivisi ed eticizzanti e reperti culturali che significano la società e la storia (quindi non equivocabili!). I modelli espressivi: “...sono sempre acquisiti all’interno, e per il tramite, delle relazioni sociali e delle emozioni ad esse associate, il principale fattore della formazione dello stile, quando si debbano esprimere dei sentimenti in musica, non può che essere il suo contenuto sociale.” (John Blacking: “ Come è musicale l’uomo? ” pag. 89 Ricordi-Lim, Le Sfere.), che questa rivolta sia perfettamente riuscita non è ancora stato perdonato al jazz, da qui l’odierna revisione e restaurazione! Lo stile-improvvisazionale, forma simbolica stabile, generato e alimentato da quella peculiare disciplina dell’improvvisazione storicamente determinatasi come nuova e sincretica, è rimasto e rimane il codice genetico del jazz, la sostanza ontologica del suo linguaggio e della sua estetica. Proprietà semantiche e culturali destinate ad essere esportate nel mondo interpretando la modernità. Oggi questa musica, disattendendo alcuni suoi peculiari attributi essenziali, percorre un falso sentiero, una deviazione negativa che rischia di rivelarsi esteticamente insignificante e culturalmente pericolosa. Non è lo status di musica d’avanguardia (così caro ai jazzofili!) a costituire per il jazz uno degli attributi essenziali, questo status ha solo corrisposto ad una sua fase storica ormai conclusa, è invece un attributo essenziale la sua strategia di produzione: l’improvvisazione! Eppure oggi, pur di non rinunciare allo status di avanguardista, il jazzofilo-medio è disposto a sacrificare perfino l’improvvisazione, a…“vendere sua madre a un nano!” direbbe De Andrè. L’improvvisazione jazz, (“...non significa che questa pratica musicale [...] si verifichi solo quando la musica è molto semplice o primitiva, ché l’esempio del jazz sta a dimostrare il contrario” Fubini: “Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea” Einaudi, pag. 94) anche se fondata su di una rigorosa e consapevole metodologia, non può essere iscritta nella didattica-ministeriale della musica colta così come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, ma al contrario costituisce una sua clamorosa smentita. Con ciò non ci sogniamo neanche di delegittimare, o tanto meno scalfire, l’immortale tradizione della musica classica, ma ci riferiamo esclusivamente al “sadismo pedagogico” di quella mentalità rigida e amministrativa che ha censurato l’informazione e bloccato il pluralismo nella didattica musicale nella storia recente del nostro paese. Didattica che ha penalizzato il genere classico stesso: “Entrai al conservatorio...dove mi insegnarono molte cose noiose e

50

spesso false” (Intervista a Luigi Nono in “Vi insegnerò differenze” pag. 14. Edizione non venale per conto della BPM; ottobre 2000). Il jazz ha minacciato e minaccia pericolosamente la supremazia storica e l’egemonia della musica colta ed istituzionalizzata europea: “Nei ritmi sovversivi e dissonanti, piangenti e urlanti nati nel continente nero e nel profondo Sud della schiavitù e della miseria, gli oppressi rifiutano la Nona Sinfonia e danno all’arte una forma desublimata, sensuale, di spaventevole immediatezza, mobilitando, elettrizzando il corpo, e l’anima in esso materializzata” (H. Marcuse: “Saggio sulla liberazione” Einaudi - 1969 pag. 59 - 60). Oggi si riscontra quindi una frenetica attività revisionistica per “aggiornare” la didattica ministeriale, quella stessa didattica che per anni ha emarginato i timbri colorati e popolareschi della chitarra classica, e che non a mai voluto riconoscere il jazz come genere autonomo, ostinandosi a considerarlo come uno stile sincretico, di derivazione etnica, del genere pop. Didattica ministeriale che invece di procedere dalla pratica alla teoria (formazione e non solfeggio!) è sempre andata in senso opposto provocando discrasie neuro-percettive se non disturbi della personalità e che, dopo aver vessato col divisionismo-ritmico intere generazioni di giovani, per aggiornarsi è ora costretta a ricorrere, guarda caso, a quegli ex-orchestrali da night-club (...per giunta autodidatti!), che sono i jazzisti i quali, dopo la riforma, rischiano di essere trasformati gradualmente in neo-diplomati accademizzati, pronti a scandire il “4/4 swing“(...si fa per dire!) con bacchetta in mano e cipiglio dirigista. Didattica-jazz che, se non ne viene preservata la tradizione, rischia di venir reintegrata entro le compatibilità di un sistema che reiteratamente ne falsificherà la narrazione per attribuirsene i meriti. Ridimensionare prima, per abbandonare poi, la tradizione dell’improvvisazione equivarrebbe a condannare il jazz alla progressiva estinzione. Il “jazz al conservatorio” può andare benissimo solo se si concretizza in “conservatorio del jazz”! Altrimenti si rischia di sottoporre il jazz allo stesso trattamento del rock (col quale amava civettare Luciano Berio, che invece poco amava il jazz!) che, partito da premesse afro-americane, a forza di attingere dalla classica si è geneticamente-modificato sino divenire europeo, gotico, celtico, e…satanico! Appare paradossale poi la pretesa del pensiero eurocentrico di dimostrare le origini europee del jazz (musica afro europea [?]) partendo dal riscontro che esso, come genere musicale, si è strutturato all’interno della forma canonica e della sintassi tonale (nate in Europa): ma l’armonia non è una ragion sufficiente per la determinazione di genere! Avete mai sentito parlare di genere armonico? Se così fosse tra i Concerti Brandeburghesi e il Festival del Liscio non ci sarebbe diversità: “E’ pur vero che esso [il jazz] deriva da pratiche sincretiche, le quali però hanno sempre dovuto sottostare alle priorità del Canone africano-americano, ivi compresa l’armonia di derivazione europea” (Gianni Gualberto). Mentre i puristi del jazz-musica della nostro tempo vengono liquidati come conservatori che guardano al passato, nei luoghi istituzionali della Musica Classica si ripropongono e si celebrano le

51

opere dei tempi passati focalizzando con scrupolo minimalista ogni passaggio del repertorio, enfatizzandone i momenti di libertà compositiva. (salvo poi riproporle discutibilmente in veste post modernista per sancirne artificiosamente l’attualità!). Se una simile meticolosità filologica dovesse essere applicata al Jazz, verrebbero appropriatamente garantiti non solo la sua memoria storica, ma specialmente il suo futuro come musica d’arte. Futuro che in parte dipende da quello che i musicisti decideranno di dire e di fare nella situazione attuale contro le direzioni impresse dall’establishment della musica! Ciò esigerebbe il recupero dell’originario spirito militante e rivendicativo del Bop-Movement e presupporrebbe quindi quella consapevolezza che è oggi assolutamente disattesa: i jazzisti tradiscono il jazz? Si potrà anche dibattere di gradualità e prevalenza tra scrittura e oralità nella genesi del jazz (...alcuni studiosi sostengono che: “il jazz è nato come musica scritta”), ma per il momento ci accontentiamo di constatare, rivisitando la nostra discoteca, che comunque lo si voglia far nascere: “Il Jazz è in primo luogo l’arte dell’esecuzione e dell’improvvisazione” (Gunther Schuller). Oggi, nell’era della tecnologia audio, il ruolo svolto dal supporto audio nella trasmissione del jazz è di gran lunga più diffuso e importante di quello da esso svolto nel periodo fertile di questa musica. Allora la tradizione orale svolse un ruolo centrale, la musica dal vivo sul territorio era diffusa enormemente, chiunque avesse voluto commissionare della musica era costretto a ricorrere ai musicisti in prima persona, e i contatti diretti tra musicisti e pubblico erano all’ordine del giorno, sia negli innumerevoli locali, che nelle sale da concerto. Oggi, che col disco la tradizione “audio-tattile” (Vincenzo Caporaletti: ”I processi improvvisativi nella musica” LIM Ed.) è predominante e che lo spirito originario della tradizione orale va disperdendosi, la scena è essenzialmente dominata da quei super-mercati che sono i festivals. Il problema attuale dell’improvvisazione è l’uso che se ne fa, dovuto all’approccio manieristico scolastico oggi dominante, la perfetta de-costruzione reazionaria dell’approccio artistico bop: ”Ci sono tanti bravi musicisti ma pochi grandi jazzisti, gente che inventi qualcosa di nuovo. Non abbiamo più un Ornette Coleman che cerca di imparare da solo a suonare e inventa uno stile facendo tesoro dei propri errori. Appena si ascolta un musicista si può dire immediatamente chi ha studiato...in passato... il lavoro era più personale, autoctono” (Intervista ad A. B. Spellman; “Musica jazz” Maggio 2007”). Approccio il primo che cerca ossessivamente una rivincita negli aspetti artigianali della musica e nella prestazione fine a se stessa e che, non riuscendo ad approdare a nulla, al di là della mera clonazione degli stili personali, rifluisce nella composizione e nell’arrangiamento con prodotti accuratamente confezionati, immancabilmente seduttivi e rigorosamente alla moda, l’ideale per i referendum delle riviste specializzate (…una cosa è la composizione come mezzo, altra cosa come fine!!). Solo che il jazz ha sempre implicato, e continua ad implicare, ben altro che questi prodotti da degustare con autocompiacimento nei salotti esclusivi e radical-schic sotto

52

l’ala protettiva dell’ufficialmente riconosciuto. Ai Monk e ai Bud Powell certe frequentazioni sarebbero andate strette, ambizione e rampantismo non si possono sostituire al dolore della vita reale, per dirla con De Andrè: ”...non mi piaccion le gran dame, preferisco le puttane!”.

L’ improvvisazione melodica del jazz, nella sua estemporanea auto-generazione, è un fenomeno dinamico con profonde ed inesplorate implicazioni psicologiche subliminali determinate dalla velocità d’esecuzione, nei cui confronti non vi è superamento storico da parte delle nuove musiche elettroniche euro-colte, ma se mai, analogia e reciprocità, come evidenziato dalla loro presenza simultanea nella storia dell’arte moderna.

Nella musica del 900’ il timbro-organologico dell’improvvisazione (afrologico!) e l’azione spazializzante del suono-tecnologico, convivono nella medesima concezione dialettica dell’espressione, centrata non tanto sul prodotto quanto sul processo. Presso la tribù sud-africana dei Venda “...è il procedimento del fare musica ad essere valorizzato, non meno, ed a volte anche di più, del prodotto finale” [Blacking pag. 69]), entrambi contribuiscono alla modernità musicale in virtù anche delle rispettive peculiarità ricche di soggettivismo umanistico il primo, e di architetture dinamiche il secondo. Dinamismo dialettico che non è ottenibile esclusivamente dalla decostruzione della sintassi tonale e timbrica della musica passata (che per altro, in ambito Jazz, avviene con il Free) e dalla conversione di timbro e melodia in Suono. Se superamento storico vi è da parte delle nuove musiche improvvisate ed elettroacustiche del ‘900, esso avviene nei confronti di musiche a morfologia statica, appartenenti a generi ed epoche diverse, ma così presenti nella tradizione della musica italiana, dalla Lirica a San Remo. Vi sono melodie orecchiabili e ripetitive che risolvono in breve su se stesse (prodotti finiti), e melodie sempre cangianti dalla linea complessa e potenzialmente inesauribile (processi). Dato che, nell’800 ed oltre, le melodie della musica euro-colta sono state prodotti-finiti di una estetica compositiva che rispecchiava i rapporti familiari repressi e sublimati della società, è comprensibile che nella prima metà del secolo successivo (‘900) si siano affermate concezioni musicali che cercassero di superare quel tipo di melodie, e si siano invece ricercate, tout-court, al di là della melodia, quella estemporaneità e quella instintualità divenute pulsioni sociali emergenti: “E’ comunemente acquisita la svalorizzazione dell’improvvisazione nella cultura occidentale, in cui si è affermato, in particolare nella seconda metà dell’ottocento, l’ideale della fedeltà all’opera...” (Vincenzo Caporaletti: ”I processi improvvisativi nella musica” LIM ed pag. 63.). Da qui la presenza simultanea di elettronica, alea ed improvvisazione-jazz. Per il jazz l’ottocento è il secolo meno libero, il secolo dell’autoritarismo musicale al quale si reagisce con una pulsione verso la rivolta e la libertà da ogni dover-essere e ordine accademico; si reagisce con la ricerca di uno stile fantasiosamente disordinato (alla Tal Farlow), sino all’angoscia e al deserto esistenziale che

53

trapelano dalle poetiche di Miles Davis e di Steve Lacy. Autoritarismo e ordine accademico che oggi ritornano insieme alle nuove tendenze. Se si negasse la morfologia dinamica della melodia improvvisata jazz, sempre aperta sviluppi imprevisti (regno della possibilità), a maggior ragione si dovrebbero negare tutte le analoghe forme di produzione artistica in arte figurativa, letteratura, poesia, prosodia-bop, cinema e, con loro, la stessa “azione spazializzante” dell’ elettronica musicale (”Musica e Realtà” n. 77, luglio 2005, Ugues Dufourt: “Il dinamismo genetico del materiale musicale e il suo movimento generatore di spazio”). In ultima analisi l’esplorazione elettroacustica dello spettro sonoro non è l’unica forma di produzione musicale moderna e rivoluzionaria del ‘900. Il mancato riconoscimento della melodia-improvvisata del jazz (che oggi ancora una volta si vorrebbe imbrigliare nella variazione tematica) tradisce quindi la vecchia pretesa egemonica, di origine classista, della musica colta ed eurocentrica che elude e disconosce il jazz cercando di appropriarsi furtivamente dei sui meriti, come testimoniato dagli studi di George E. Lewis (Davide Sparti “Suoni Inauditi” il Mulino 2005, pag. 34 - 35). Ricollegandomi alle preziose considerazioni fatte da Ted Gioia (pag. 136, 148, 155, 156 e 157) del suo libro “L’Arte imperfetta” (ed. Excelsior 1881) ci terrei ad aggiungere che il jazz “è noioso” solo per chi non lo capisce, e a ribadire che la melodia-jazz per continuità, articolazione e profondità, non solo non ha nulla da invidiare a qualsiasi melodia di Bach (...avete mai provato a memorizzare vocalmente una improvvisazione di Parker o di Tristano, di Konitz o di Marsh, di Jimmy Raney o di Billy Bauer?), ma anzi costituisce un suo superamento storico per i contenuti sociali da essa significati! In ultima analisi oggi si ricicla il vecchio arnese razzista e colonialista eurocentrico che da sempre distorce e sottovaluta l’apporto culturale dell’Africa nella storia dell’umanità. Allorché, con il jazz, questo apporto ha oltrepassato il nostro cortile di casa, si è sempre cercato di corromperlo, sofisticarlo e omologarlo. Euro Centrismo paratattico che, per insinuarsi, adotta reiteratamente l’espediente della inversione delle variabili, scambiando la eccezione con la regola. L’improvvisazione nel Jazz è l’obbiettivo e la regola, invece nel Classico è l’eccezione, la ricreazione, la “rottura delle righe” , ...o meglio del rigo musicale, visto che i professori d’orchestra sono tutti “rigo-dipendenti” perché gli indirizzi didattici reali sono sempre stati la “lettura a prima vista”, l’interpretazione e la composizione. E ciò risulta chiaro a chiunque abbia compiuto un esperienza didattica o concertistica nella Musica Classica, a meno che non si voglia acrobaticamente estendere il significato di improvvisazione all’interpretazione! Quanti sono nell’800, nel ‘900 ed oggi, gli orchestrali classici in grado di improvvisare rispettando correttamente i canoni della sintassi tonale? Una volta tanto un dato statistico può essere posto al servizio della verità storica! Ciò nonostante gli opinionisti di regime, sguinzagliati in tutte le principali testate giornalistiche, continuano a insinuare, tra le righe, che in fondo il jazz non avrebbe poi inventato nulla di

54

nuovo perché nel classico si sarebbe sempre improvvisato! Peccato che tutta la più importante letteratura musicale della storia della musica classica si edifichi esclusivamente su composizioni!! “Se si concepisce il termine improvvisazione in modo così ampio da comprendervi l’intera prassi musicale della società primitiva e di molte civiltà oggi ancora fiorenti da un lato, e dall’altro, ad esempio, l’improvvisazione estemporanea di un Bach o di un Mozart, e infine ancora, determinati aspetti dell’odierna pratica musicale – ad esempio le libere combinazioni dei jazzisti – è chiaro che il contenuto del termine non potrà essere che molto vago: andrebbe poco più in là di una definizione di attività musicali non scritte.” (Georg Knepler: ”La storia che spiega la musica” pag. 18 Ricordi Unicopli - Le Sfere) - Nel Jazz quindi la composizione può essere funzionale all’improvvisazione, nella Classica l’ improvvisazione può essere funzionale alla composizione: “...quello di Schubert non è un caso di improvvisazione ma una forma di composizione il cui processo compositivo ha delle somiglianze e richiama l’improvvisazione. Il fatto che si possa improvvisare per individuare spunti compositivi non significa che il musicista abbia composto improvvisando, poiché si tratta di schizzi musicali che vengono poi confrontati coi requisiti di correttezza e coerenza legati alla partitura o all’opera nel suo complesso.” “Nel metodo compositivo di Cage [...]: l’inatteso ha così luogo per necessità, senza che il compositore abbia alcuna possibilità di controllarne o anche solo influenzarne il risultato finale. Ma nessuna improvvisazione jazz è puramente aleatoria; non si basa cioè sull’idea di fare un ‘testa o croce ‘ per stabilire quale evento sonoro seguirà.” (D. Sparti: ”Suoni inauditi” Il Mulino, pag. 35-36). Inversamente, su un secondo versante, si affaccia poi la pretesa euro centrica di ricondurre il jazz entro le proprie logiche insinuando che il jazz non sarebbe “poi così tanto” improvvisazione, ma piuttosto composizione e arrangiamento [!?], e l’improvvisazione, “a ben vedere”, sarebbe tutto sommato “simulazione”. Si giunge inoltre a manipolare la narrazione delle radici stesse del jazz: tradizioni afroamericane, debitrici di musiche occidentali colte, vengono così arbitrariamente riciclate come pedigree per il jazz, come già respinto a suo tempo da Gunther Schuller: ”Queste ricerche hanno confermato che molta di questa musica arcaica o non era jazz, o non voleva neanche esserlo” - “Molti di quegli uomini non erano jazzisti; molti ebbero un educazione regolare, o strettamente classica” (op. cit. Cap.: ‘I Primi passi’ pag. 99), e invece le tradizioni strettamente africane, diversificate ed eterogenee dell’area sub-sahariana, vengono utilizzate come piattaforma girevole dalla quale i revisionisti possono attingere per avvalorare le proprie tesi pretestuose.

Jazz e Fusion Nel cercare di delineare un modello dell’estetica del jazz-moderno ribadiamo che non si vuole arrivare ad affermare che tutto quello che esula dal purismo

55

non sia musicalmente e artisticamente valido, l’eclettismo in musica può essere insignificante come invece stimolante e produttivo. Va valutato caso per caso! Da un punto di vista estetico e filologico rimane però fuorviante e illegittimo inscrivere nel jazz opere che, anche quando musicalmente significative, non appartengano a questo genere musicale. Esse peraltro attuano ibridazioni tra generi diversi che sembra non stiano portando alla nascita di nuovi cicli musicali, “...bellissime case in strade senza uscita“ (cit. Marsalis) e che troppo spesso rimangono prigioniere del consumismo industriale. Anche se vi può essere, e vi è, grande musica che vede al suo interno componenti spurie ed eterogenee, tra le quali anche il jazz, in ogni caso non si può far finta di non vedere il revisionismo. Ai confini del jazz si è venuta a creare una zona franca, nella quale si clonano organismi geneticamente modificati nei quali il jazz è dosato artificiosamente insieme ad elementi jazzisticamente snaturanti quali il flamenco, il country-western, il pop, il rock, la musica indiana, la musica celtica, ed oggi, ultimo grido, anche il classico-romantico ! Anche quando ciò possa risultare musicalmente interessante non si toglie il fatto che, se inscritto nel jazz, ciò comporti una revisione e una falsificazione storica. Così come è da respingere qualsiasi pretesa del jazz di collocarsi su un piano di superiorità rispetto alla fusion, così sono da respingere le pretese di quest’ultima, non solo di essere la continuatrice del jazz, ma anche soltanto di essere iscritta in quel genere musicale. Dicendo questo, non solo non si giunge a sminuire la fusion ma, al contrario, le si riconosce uno status, ed una dignità di genere, che neanche i suoi sostenitori le hanno mai conferito! Nel contempo, il riconoscimento di questo status non solo non la esenta, ma la espone maggiormente al vaglio della critica mettendola in guardia dalle derive consumistiche. Quando la Fusion viene invece arbitrariamente inscritta nel jazz si giunge ad un ennesimo tentativo di snaturare e revisionare il jazz che ha visto e vede contro di sé, combinati e persecutori un pre-modernismo austero e conservatore, e un post-modernismo qualunquista e radical-chic. “L’unica musica autenticamente popolare, il jazz, è stata implacabilmente combattuta dalla strategia erosiva dei media americani, che si sono adoperati per imborghesirla all’interno delle società postindustriali che pretendono di aver abolito la divisione in classi. Il jazz ha rappresentato una forza espressiva rivoluzionaria, che non aveva nulla in comune con la fabbricazione standardizzata di prodotti di consumo destinati dalla cultura commerciale popolare alla piccola borghesia ignorante. La storia del jazz è caratterizzata dalla lotta per la sopravvivenza combattuta senza tregua contro l’appiattimento e lo sfruttamento commerciale. La musica autentica nera che canta il sesso, la miseria, la derisione, la protesta, l’impegno politico, è stata impietosamente braccata e respinta dalla società americana,

56

che ne ha lasciato sopravvivere solo le forme atrofizzate: accettazione passiva, redenzione mistica, rassegnazione. Il jazz è stato in gran parte ridotto a un prodotto inoffensivo, sdolcinato, estetizzante. Il free jazz, che si è rifiutato di piegarsi alla logica liberista e predeterminata, è stato allora inesorabilmente rifiutato e condannato al silenzio” (Hugues Dufourt “MUSICA, POTERE, SCRITTURA” Le Sfere, ed. LIM-Ricordi - pag. 81). Vi sono degli assunti espressivi, ma anche deontologici che, nel caso del jazz, risultano cruciali, essi coinvolgono l’intenzionalità e il suono (“feeling”). Quella naturalezza e sincerità nel porsi che risulta innanzitutto dal suono, ma anche da quel particolare modo di costruire il ragionamento melodico che implica un costante e sottinteso mettersi in discussione, una sorta di epoché sottoposta al giudizio del pubblico il cui ascolto partecipato svolge un ruolo attivo. Una comune lunghezza d’onda che rinvia (religiosamente) ad un esoterico idem-sentire che non può assolutamente essere disatteso in quanto principio essenziale del fare jazz. E’ questa sottile linea di demarcazione a separare il pubblico-jazzista dalla massa inconsapevole degli occasionali, disponibile per tutte le stagioni, sulla quale oggi fa leva il revisionismo per corrompere e sofisticare uno degli afrologici-attributi-essenziali del jazz. In questo un colpo ferale è inferto dalla tecnologia elettronico-consumistica nel rendere banalmente grossolano il timbro jazz, privandolo di quel retrogusto essenziale che, tanto per farci capire, in enologia è sacro e inviolabile. L’africanità del timbro si coglie anche nell’individualità dell’inflessione del jazzista, il suo infatti non è il timbro curato e studiato della musica occidentale: ”non lo si compra nel negozio assieme allo strumento.” (Gunther Schuller). Il non riuscire a cogliere le preziose sfumature espressive del timbro jazz, e la sua profonda spiritualità, da parte di chi, formatosi al sound delle rock-bands-anni ’70 e già vulnerabile per una superficiale e occasionale frequentazione del jazz, ha originato un equivoco che tuttora rimane l’oggetto di una disputa difficilmente redimibile. La fusion è in realtà un genere musicale altro dal jazz, e il fatto che sia poi tendenzialmente consumistica è un problema che non tocca il jazz, ma la fusion stessa! La chitarra jazz, benché nata e sviluppatasi come espressione eminentemente artistica, si dirige oggi pericolosamente verso lidi disimpegnati e consumistici. La chitarra jazz-contemporanea oscilla quindi, con esiti eterogenei, tra la chitarra jazz-moderna e la chitarra-fusion. Questa oscillazione la rende esposta ai peggiori parametri del post-modernismo, con le sue ibidrazioni. Dato che l’estetica del jazz non ha mai avuto nulla a che vedere con l’estetica dell’ “orrido e del mirabolante” o del “magico incantatorio”, che felicemente caratterizzano la musica fusion, ne consegue che più la chitarra-jazz contemporanea rimarrà ancorata alla tradizione moderna, maggiormente essa potrà rimanere inscritta nel jazz, diversamente la sua identità risulterà più evanescente e

57

difficilmente catalogabile, ciò ovviamente non le impedirebbe di produrre opere interessanti e artisticamente valide. Esemplificativo e chiarificante può risultare il confronto tra due concezioni collocate agli estremi: l’estetica della chitarra-cool da un lato, e il chitarrismo-fusion dall’altro. Senza voler istituire sterili gerarchie si può, anzi si deve, nell’interesse di entrambe le concezioni, contribuire ad enucleare essenziali differenze, tratti peculiari, diversità di presupposti. La chitarra-cool di gran lunga si distanzia non solo dalla chitarra-fusion ma anche dalla chitarra jazz post-modernista che della Fusion mantiene l’indelebile impronta: introversa ed intimista la prima, estroversa ed eclatante la seconda, la chitarra-cool rifugge l’ostentazione virtuosistica dell’esecuzione, è nella spiritualità che sgorga da un timbro plastico e magnetico, nella attitudine meditativa e assorta, nella riflessione introspettiva, nella rilassatezza ritmica, nella profondità contenutistica e nel razionalismo-nobile dove la ragione opera spoglia da artifici intellettualistici e gli affetti si manifestano nella continua ricerca di una sempre più intima e ricca conoscenza della propria personalità, non mortificati né repressi da un’ansiosa ricerca nella quale gli aspetti più esterni e appariscenti hanno un rilievo predominante ed esclusivo. Essenziale nell’improvvisazione cool è la estroversione dei processi animici interiori, la riproduzione musicale della tensione delle dinamiche affettive e dei ragionamenti subliminali su di esse radicati. Mai, come per la chitarra Cool (steinerianamente) la melodia è pensare, l’armonia è sentire, il ritmo è volere. Come avviene in tutta l’arte-vera lo spirito umano, calato nella realtà sociale storicamente determinata, ne rispecchia i vissuti esperienziali alienati, li rielabora trasformandoli nella forma di figure estetiche e modelli culturali consapevoli e rivelatori. Per la chitarra-cool risulta essenziale il ricreare quel clima fatto di chiaro-scuri e di una scala dimensionale attenta ai timbri e agli accenti dalla quale l’improvvisazione possa sgorgare spontaneamente in successioni “inaudite” e “pregnanti” (alla Jimmy Raney!!). Ciò che importa è non l’ostentare a-solo esemplari e mirabolanti, ma riuscire a toccare, come nell’arte povera, “quelle particolari corde espressive”, riuscire a “coglier la luna!”. La chitarra-cool è la quintessenza della modernità; la chitarra neo-classicista la deriva nel citazionismo; la chitarra-postmodernista il ristagno intellettuale con il conseguente spasmodico perseguimento dell’onnipotenza professionale, che finisce poi col sacrificare le naturali tendenze di un umanità schietta e viva. L’artista-cool, il poeta della chitarra-jazz, non è un musicista per tutte le stagioni, una piattaforma girevole adattabile a tutti i contesti, i repertori e le formazioni, la storia del jazz lo ha ampiamente dimostrato e non solo riguardo al Cool. Il superdotato George Benson non superò, come si evince dall’unica incisione a disposizione, la prova del quintetto di Miles Davis. La figlia di Renè Thomas, Florance, mi confidò che Montgomery preferì non jammare al fianco di suo padre perché la troppo vigorosa pennata di quest’ultimo avrebbe sovrastato le risorse limitate di chi,

58

per quanto virtuoso, utilizza solo il pollice. Così come Jim Hall ha esplicitamente dichiarato di non trovarsi a proprio agio sui tempi molto sostenuti. Lee Konitz più di una volta si sfogò con me lamentandosi per l’accompagnamento di varie sezioni ritmiche, italiane e non, che godevano di una fama quasi indistruttibile. Quanti ragazzi prodigio o musicisti con una ineccepibile educazione musicale non hanno poi dato alcun contributo artistico e culturale, mentre talenti artistici musicalmente semi-analfabeti ci hanno regalato irripetibili capolavori?! Varrebbe la pena di aprire sull’argomento un capitolo di aneddoti e testimonianze, sempre che il jazzista-medio fosse disponibile a mostrare anche l’altra parte di sé, cosa di cui dubito! Al di là dei miti di onnipotenza bisognerebbe riportare le cose nella loro giusta e umana dimensione, ciò non potrebbe dare altro che un contributo di saggezza, il musicista imparerebbe così a convivere con se stesso e con gli altri più serenamente. In questo campo il ruolo della critica-musicale risulta tanto più essenziale quanto più pubblico e musicisti dimostrano di stentare a comprendere che il fatto che si spadroneggi egregiamente il dominio musicale, che si utilizzino al massimo grado le possibilità dello strumento, o che si sia improvvisatori brillanti e fantasiosi, non significa assolutamente l’aver toccato la quintessenza dell’espressione artistico-culturale: ancora una volta il senso comune si perde negli aspetti quantitativi e trascura o ignora l’aspetto qualitativo dell’evento musicale, la dimensione-profondità. Vi è una quantità di musicisti eccezionali che non è mai riuscita ad eguagliare altri musicisti dalle capacità strumentali inferiori ma artisticamente enormemente superiori come Davis, Monk, Chet Baker, Jim Hall e Franco Cerri! Chi possiede quindi una tecnica strumentale superiore? Colui che possiede una assoluta padronanza della forma musicale, della meccanica dello strumento e della inflessione, così come scolasticamente prescritta, o colui che riesce a far vibrare spontaneamente, e non retoricamente, le corde dell’espressione con un inflessione personale e inusuale? Per la chitarra-cool la sezione ritmica gioca una funzione peculiare, deve essere innanzitutto una sezione ritmica-consapevole che ne condivida i presupposti poetico-filosofici, che vibri sinergicamente e contrappunti il fluire del discorso melodico cogliendo intuitivamente ogni minima accentazione ritmica e sfumatura dinamica. Una sezione ritmica in grado di seguire e prevedere la durata e l’esito delle linee melodiche, di fondere ritmo-armonico e melodia in un unico organismo, di assecondare e tenere il passo col tempo e le accentazioni della melodia, non quindi “sgomitare” e fare “sgambetti”, sovrapporsi e interrompere (alla stregua dei conduttori televisivi), un suonare contro che non ha nulla a che vedere con il contrappuntare. Apparentemente questa concezione potrebbe indurre nell’errore di considerare anonima, lineare e piana la batteria-cool, in realtà essa è invece ricca di scomposizioni complesse e arditissime, ed il solo fatto che vengano eseguite in una scala dimensionale contenuta non deve ingannare. Al Levitt e stato un maestro in

59

questa concezione troppo raffinata per poter fare oggi fare proseliti, un altro esempio è il batterista Bill Goodwin. Lennie Tristano suonava anche la batteria, non a caso sua figlia Carol è una batterista-jazz professionista, e ha gettato le basi di una raffinatissima scuola di batteria oggi tanto ignorata quanto osteggiata. Il fatto che Tristano si sia ritirato dalla scena del jazz in polemica proprio con le sezioni ritmiche, la dice lunga sull’indirizzo che in seguito il jazz avrebbe preso! Sarebbe necessario che il contesto ambientale e musicale in cui si agisce recuperasse l’estetica-cool, ma oggi questo accade sempre meno. Oggi ci si scontra quasi sempre con quella volgare mentalità performativo-spettacolare rivolta prevalentemente a mostrare i muscoli e a compiacere un pubblico occasionale piuttosto che ad esprimere qualcosa: le logiche del pensiero-unico prevalgono anche nelle spontanee relazioni tra musicisti! Nel jazz poi oggi si riscontra il tentativo di voler uniformare ad un unico parametro il criterio di giudizio sui singoli musicisti, e ciò è particolarmente in uso tra i musicisti stessi. Una sindrome pervade silentemente le coscienze: la Sindrome del Tempo! Una nevrosi che, diffusa sapientemente tra la comunità dei jazzisti, serve alla coalizione dei più accreditati e quotati a tracciare una linea di confine per autotutelarsi dalle invasioni sempre in agguato. Una coalizione di pretesi primi della classe detta legge riguardo ai criteri di giudizio, ovviamente meramente quantitativi. Dietro la supponenza di chi si auto-elegge a detentore della verità, a perito-tecnico del tribunale della critica, i musicisti vengono gerarchizzati tra “primi della classe” e non, ed a ciò si accoda ovviamente una pubblicistica tecnicamente disarmata e un pubblico spaesato. In questo contesto opportunismo e gregarismo si rinforzano reciprocamente. Tra le concezioni ritmiche pro-pulsiva e depulsiva oggi, a discapito dello swing, è in gran voga quella de-pulsiva, non a caso si tratta di una concezione metronomica nella quale, come nella catena di montaggio, si è attentissimi ai tempi di produzione. Nessuna libertà o licenza poetica è consentita, la camicia di forza è di rigore e buona parte dei grandi del jazz moderno (alla Tal Farlow o alla Barney Kessel) verrebbe così esclusa. Si spiana così la strada al prototipo scimmietta-ammaestrata, clonato e privo di originalità, consentendogli di prevalere in virtù delle sue affinità elettive con le componenti più amorfe e quantitative della musica e realizzando, infine, quella agognata rivalsa nei confronti della qualità a lui negata: una personale cifra stilistica! Una cosa è eseguire grande jazz altra cosa inventare grande jazz: i neo-classicisti eseguono grande jazz, i neo-modernisti inventano grande jazz! Per tornare ad un esempio per chitarristi, Bireli Lagrene è un neo-classicista, Christian Escoudè un neo-modernista. La differenza consta nel fatto che dietro ogni stile individuale vi deve sempre sottostare una ricerca compositiva nel linguaggio-jazz, finalizzata all’esecuzione e all’improvvisazione. Ricerca poetica minimalista che ancora oggi rimane aperta a nuove soluzioni e possibilità e che fa del jazz un linguaggio vivo ed attuale. Questa prerogativa essenziale è oggi disattesa perché, certi odierni

60

pretesi jazzisti questo semplice fatto preliminare o non lo hanno capito oppure, consapevoli di non avere nulla da dire, vogliono solo emulare e ben eseguire senza neanche tentare di mettere qualcosa di personale a livello di composizione e di elaborazione melodica, quindi di fraseggio improvvisazionale! Nel postmoderno: “...con il crollo dell’ideologia modernista dello stile-unico e inconfondibile quanto le impronte digitali...i produttori di cultura non possono che rivolgersi al passato: all’imitazione di stili morti...cioè il saccheggio indiscriminato di tutti gli stili del passato...il primato crescente del ‘Neo’ “ (F. Jameson: ”Postmodernismo” pag. 35, ed. Fazi), e così proliferano i neo-coltraniani, neo-evansiani, i neo-bensoniani, i neo-methiniani-scofieldiani, ecc. E non stupitevi se tra questi ultimi vi inscriva anche i gettonatissimi Scofield e Metheny: se il fatto che il be-bop fosse separato da dixieland e swing da poco più di dieci anni non impedì, agli avanguardisti-snob di allora, di tacciarli come ormai “superati”, e quindi storicizzati, non si vede il motivo per il quale oggi, che quasi quarant’anni (anni ’70!) ci separano dai rari, ben congegnati e sovrastimati aspetti jazzistici e innovativi degli stili di Metheny e Scofield, non possano anch’essi considerarsi ampiamente storicizzati e quindi classici del postmoderno. Se è quindi Classico tutto ciò che è storicizzato, e il Moderno è solo una categoria culturale ed estetica, così come vi è un Moderno-classico, oggi, che anche il Post-moderno è ormai storicizzato, si può quindi concepire un Postmoderno-classico. Metheny e Scofield si pongono quindi storicamente sullo stesso piano (mantenendo le dovute distanze artistiche!) di Jim Hall e Jimmy Raney. Così come sono anche tra loro egualmente storicizzati gli stili di ‘Pres’ e ‘Trane’. Oltre a ciò bisogna tener conto che nella teoria contemporanea postmoderna i fondamentali ”modelli della profondità” sono stati sostituiti dalla “...superfice o da più superfici (in questo senso ciò che spesso viene chiamato intertestualità non riguarda più la profondità.)” (Fredric Jameson, op. cit. pag. 29) se quindi nel Moderno “il soggetto è alienato” (Jameson) e supera con l’arte l’alienazione (Maroty), nel post-moderno “il soggetto frammentato” (Jameson) rischia pericolosamente di perdersi nella “parodia dell’arte” (Perdetti, op. Cit. pag. 90). Questo fenomeno risulta più evidente comparando gli stili dei postmoderni con i grandi del jazz moderno. Oggi i tempi sono favorevoli al modello ben confezionato da scuola di dizione-privo di contenuti, che è il prodotto performativo (nel senso dell’efficienza della prestazione!) che va per la maggiore! I luoghi ove si è tradizionalmente annidato un pericolo revisionista per l’integrità del jazz, le zone sensibili, sono sempre stati le grandi orchestre e in particolare i cantanti, tra questi ultimi, nonostante Louis Armstrong e Chet Baker, la retorica e il parossismo-narcisista hanno sempre pericolosamente allignato, ed oggi sono in esponenziale incremento. Luoghi da sempre assiduamente frequentati dei consumatori di jazz piccolo borghesi e incompetenti, coloro i quali, per intenderci sanno tutto sulle date delle incisioni, le formazioni e le case editrici

61

e poi non sanno distinguere il battere dal levare, il minore dal maggiore e, quel che è peggio, l’arte dal consumo. Sono rari casi in cui un cantante riesca a rinunciare al ruolo gerarchico di prima-donna, alla declamazione manieristica del testo e alla recitazione performativa equiparando invece, pariteticamente, la voce alla stregua degli altri strumenti musicali e improvvisando estemporaneamente come fa Chet Baker nei trii cameristici con Niels Pedersen e Doug Raney (ed. Steeplechase), senza fronzoli né moine o altre inutili decorazioni. Oggi si passa sopra i contenuti col rullo compressore dell’autocompiacimento di una esecuzione motivata dal solo narcisismo del professionista competitivo che solo vuole stupire nella sfilata alla moda dell’ufficialmente riconosciuto, e questo è l’unico messaggio che si finisce col comunicare. In questo circolo vizioso l’esasperata professionalità e l’ostentazione del virtuosismo finiscono col giocare-contro la significanza artistica e fanno rimpiangere i bei tempi provinciali in cui si riusciva sempre, tra ingenuità e cedimenti, a compenetrare e trasmettere il più genuino spirito del jazz! Nelle “nuove tendenze” gli influssi determinatori non provengono più dal “ghetto” della provincia ma, con buona pace del mito giovanilistico dell’ ”american-garage”, direttamente dalla Banca Mondiale! Anche per quanto riguarda la chitarra-jazz in senso stretto gli influssi della concezione postmoderna sono oggi vivi e presenti nel senso comune dei chitarristi, vi sono strumentisti (emblematici sono Benson e Metheny) la cui poderosa tecnica del plettro permette di esplicitare un fraseggio ritmicamente energico e travolgente, incisivo, frastagliato e ricco di punteggiature, oggi si tende ad eleggere questa “scuola di pensiero” a modello assoluto quando invece la storia del jazz dimostra l’esatto contrario. Nella storia del jazz vi sono infatti ampie dimostrazioni di concezioni ritmiche opposte, meno aggressive ed incisive, che hanno prodotto una musica estremamente più discorsiva profonda e significativa. Per nulla sanguigna e mozzafiato, ma rilassata e intellettuale nell’articolarsi razionale ed interlocutorio di un discorso costruito passo per passo e con pause di riflessione. Anche e soprattutto nella concezione dei Bauer, degli Zoller e dei Raney si esplica il più intimo ed essenziale atteggiamento animico del vero jazzista improvvisatore che non vuole celare dietro il paravento di una ostentata perfezione esecutiva le differenti fasi evolutive, fatte di alti e bassi, di uno sviluppo discorsivo in cui è centrale “il processo e non il prodotto”. Ascoltate lo “Stella by starlight” di Attila Zoller con Martial Solal in “Zo Ko So” della SABA 15061, o Billy Bauer in tutta la discografia Tristaniana, o Jimmy Raney con Teddy Charles in Ezz-Thetick della Prestige NJ 8295 e capirete cosa intendo! La cultura post-modernista emargina chi riesce a realizzare poetiche pregnanti e significative perché controcorrente e quindi culturalmente scomodo. Il vero-jazz richiede una attenzione minimalista e dialettica in grado di captare le qualità essenziali, capacità che solo poche sensibilità vogliono e riescono a raggiungere, la massa si ferma all’ascolto all’ingrosso, incapace di oltrepassare l’apparenza della confezione esteriore. E per massa intendo

62

paradossalmente i musicisti, perché il pubblico molto spesso, anche se solo intuitivamente, riesce a cogliere nel vero-improvvisatore quella intenzionalità che il professionista dà oggi invece per scontata e prevarica con supponenza. L’estetica-fusion, se applicata alla chitarra-cool, sarebbe letale per un patrimonio insostituibile in termini di approccio alla musica, di contenuti espressivi e di spiritualità. Nella chitarra-cool questo depauperamento avverrebbe sia se si attuasse l’ibridazione con il rock, sia nel caso si perseverasse col minimizzare, o peggio oscurare, le essenziali differenze dei reciproci e antagonistici presupposti! Un patrimonio, quello della chitarra-cool, che dagli albori del bop, ha dato un contributo determinante al caldo e sobrio colore timbrico del jazz moderno. Falsificarlo equivarrebbe alla de-costruzione dei suoni naturali ed aperti, organologici e umanistici (in questo senso afrologici, che è cosa diversa da africani!), alla Billy Bauer e Johnny Smith, Jim Hall e Jimmy Raney, Attila Zoller e Jimmy Gourley, Mundell Low e Barry Galbraith, Joe Puma e Chuck Wayne, Dennis Budimir e Dave Koonse, Derek Phillips e Dave Cliff, Doug Raney e Joe Cohn, Sal Salvador, Sacha Distel, Rune Gustavson, Ed Bickert e Louis Stewart, Mike Gari, Colin Oxley e tanti altri misconosciuti coolsters modernisti e neo-modernisti. Un discorso a parte merita il geniale ed inesauribile Renè Thomas, inizialmente essenzialmente Cool in quanto discepolo di Jimmy Raney, ma successivamente configuratosi come torrenziale artista di be-bop. Premettendo che con “stile-cool” non si intende esclusivamente la scuola di Lennie Tristano, si noti come, pur essendo i su-citati chitarristi essenzialmente artisti di cool-jazz, la loro produzione discografica, salvo pochi casi, solo episodicamente rende giustizia alla loro più intima connotazione poetica. Per fare maggiore chiarezza riterrei opportuno citare alcuni importanti chitarristi jazz che nulla hanno a che vedere con lo stile Cool: Barney Kessel, Tal Farlow, Herb Ellis, Joe Pass, Wes Montgomery, Grant Green, Kenny Burrell, Franco Cerri e Sandro Gibellini, Cal Collins, Pat Martino, George Benson, Emily Remler, Christian Escoudè, Bireli Lagrene, Martin Taylor, Russel Malone, Garrison Fewell, ecc. (tutti modernisti, neo-modernisti o neo-classicisti del moderno). Un’altra precisazione è poi necessaria, vi sono i chitarristi che hanno direttamente contribuito allo stile-cool ed altri che via hanno contribuito indirettamente con un apporto in termini di fraseggio che è stato necessario reintegrare nell’estetica cool. Il caso poi delle incisioni (commerciali) dell’ultimo Wes Montgomery e specialmente di George Benson, è emblematico di come la melodia, in ultima analisi, costituisca effettivamente la “variabile strategica” del jazz. Variabile “autonomizzata” che riesce a “resistere” e a “sopravvivere” anche quando inserita in contesti di sdolcinata Musica-Leggera o di anonimo Rhythm & Blues. Ciò nonostante non credo proprio che suddette produzioni possano venire inscritte nel jazz. Ciò dimostra che, per quanto la melodia si sia strategicamente autonomizzata, sia da sola insufficiente alla produzione di

63

vero jazz e quindi, come abbiamo detto, quanto il contesto sia dialetticamente essenziale! Vi sono poi i post-modernisti e i border-line, in diverse gradazioni, con il pop e il rock o quant’altro: Larry Coryell, John Mc Laughlin, John Abercrombie, Philip Catherine, John Scofield, Mike Stern, Pat Metheny, Sheryl Bailey e Jack Wilkins, John Stowell, Bebo Ferra, Riccardo Bianchi e Roberto Cecchetto, chitarristi straordinari ai quali si aggiungono ogni giorno nuove e agguerrite leve di postmodernisti e (ultima novità!) di neo-classicisti del postmoderno, categoria estetica sulla quale bisognerebbe oggi riflettere più approfonditamente, infatti i tempi corrono e anche il post-moderno inizia a storicizzarsi divenendo così classico pur conservando i suoi originari caratteri estetici stabilmente sincretici ed eclettici! La differenza tra un postmodernista-storicizzato e un neo-classicista del post moderno è la stessa che intercorre tra Scofield e Metheny e i loro imitatori: i primi sono degli ibridi-originali i secondi dei cloni, ciò non toglie che possano sempre emergere dei post-modernisti originali, quindi neo-postmodernisti! Pur operando queste distinzioni, si deve tuttavia rimanere consapevoli di quanto, in generale, le reciproche influenze possano aver agito trasversalmente agli stili, ma questa considerazione non è una ragion sufficiente per rinunciare alle classificazioni stilistiche: una cosa è riscontrare come il jazz si è di per sé delineato, altra cosa è cercare di risalire alle occasioni mancate che sarebbero potute scaturire dalle potenzialità incompiute! E questo tipo di ricerca risulterebbe sicuramente più pregnante di quella che pretende di “ri-narrare” la storia del jazz! Il chitarrista-cool sconta il suo mancato riconoscimento come conseguenza della incapacità di rappresentarsi all’esterno in quanto corrente estetica, incapacità derivante dalla inconsapevolezza di sé e della propria musica: a questa regola hanno fatto eccezione Jimmy Raney, Renè Thomas e Jimmy Gourley i quali, per un breve periodo, manifestarono la loro comune appartenenza ad una corrente stilistica addirittura vestendosi in modo quasi sacerdotale, in uno stile vagamente e sottilmente “clergyman”. Troppo spesso in balia delle tendenze dominanti, il contributo del chitarrista cool, spesso limitato a poche stagioni, si è disperso nei tentativi, tipici del jazzista, di auto affermarsi nella professione o nella carriera; di rendersi visibile costi quello che costi; nell’ansia della prestazione di dover essere sempre, comunque e acriticamente, presenti nelle ultime tendenze, qualsiasi esse siano. Troppo stesso si sono sprecate risorse, preziose intuizioni sono rimaste irrealizzate, e questa auto-svalorizzazione ha spesso danneggiato, oltre che la dignità dell’artista, soprattutto la musica e la chitarra. Troppo spesso il jazzista si è rivelato il peggior nemico di sé stesso ed il chitarrista-cool si è esposto alla volgarità delle peggiori influenze, non sapendo tutelare la sua musica della quale egli stesso per primo è spesso inconsapevole! Lo spontaneo sviluppo stilistico della chitarra-jazz aveva preso negli anni 60/70 un indirizzo nel quale gli artisti guida erano a mio avviso da individuare: per l’improvvisazione

64

atonale in Attila Zoller (“The Horizon Beyond” Act 9211-2 / Berlin-Germany, 1965 - Mercury 138145), Derek Bailey con le sue esplorazioni dello spettro sonoro organologico, e il primo James Ulmer (con Ornette Coleman); per l’improvvisazione tonale Ed Bickert e Dennis Budimir (Edizioni Rivelation), indirizzo estetico che è stato prevaricato e travolto dalle attuali tendenze impostesi non di forza propria bensì pesantemente promosse dall’industria musicale. Per quanto si riscontrino oggi generazioni di chitarristi-jazz ricchi di talento, professionalità, competenza e brillante fantasia, ciò non è sufficiente in assenza di una più profonda consapevolezza artistica e culturale. Quando ci si uniforma alle frasi ad effetto, eclatanti, inusuali e che vogliono stupire, alla frase imprevista che ricorre agli aspetti meccanici dell’artigianato musicale, viene da chiedersi se sia proprio questo il criterio artistico a cui ispirasi: un fraseggio che vuole solo emozioniare senza esprimere sentimenti! Spesso il rampantismo dei chitarristi avanguardisti-regrediti, nello spasmodico tentativo di affermare la propria supremazia di gruppo, il proprio protagonismo frustrato e annullato da una scena musicale massificata, si spinge sino a misconoscere le opere del passato cercando di sminuirne i meriti e ironizzando sulla debolezza (solo apparente!) di un non-ostentato virtuosismo! Irridendo lo stile “alla vecchia” si tradisce una mal celata tracotanza e l’ignoranza sia del passato che del presente: uno dei chitarristi oggi eletti ad emblema di uno status-simbol avanguardista, Mick Goodrick, smentisce la pratica e la teoria dei suoi odierni epigoni scrivendo quanto segue: ”Di solito, quando pensiamo a chitarristi aventi una ‘grande tecnica’, il nostro giudizio dipende da: quanto suonano veloci; come suonano puliti [precisi]. Ma la tecnica ha a che fare con ben più altre questioni. Include anche quando suonano lenti; come suonano sporchi [imprecisi]; ed ogni altra cosa che sta in mezzo agli estremi. La tecnica è tocco. In più è anche movimento. La tecnica è il punto dove ciò che sta dentro di voi [intenzioni, pensieri, sentimenti, etc.] incontra lo strumento e si trasforma in ciò che sta fuori di voi[suono, musica]” (M.Goodrick “The advancing guitarist” versione italiana pag. 105 Carish). Se la tecnica è il tocco i segreti dell’incatenatura della tavola armonica, la qualità e la stagionatura del legno, unitamente alla benché minima inflessione e sfumatura del tocco del concertista, costituiscono il requisito strategico e inalienabile di quella concezione, “organologico umanistica”, che pone al centro la sinergia tra lo strumento di liuteria e l’intervento umano. Il non riuscire a cogliere le preziose sfumature espressive del timbro jazz, e la sua profonda spiritualità, da parte di chi, formatosi al sound delle rock-bands-anni ’70 e già vulnerabile per una superficiale e occasionale frequentazione del jazz, ha originato un equivoco che tuttora rimane l’oggetto di una disputa difficilmente redimibile. Dopo anni e anni in cui sono state scritte pagine e pagine di recensioni sul suono naturale e aperto delle trombe di Louis Armstrong e Miles Davis, sul vibrato inimitabile di Coleman Hawkins e di Ben Webster, sugli impasti sonori dell’orchestra di Ellington e le ensemble di Mingus, sulla convergenza

65

stilistica (hard-bop) tra “l’attacco del colpo-di lingua” di Miles Davis alla tromba e “l’attacco” carnale e desublimato del pollice di Wes Montgomery sulle corde della chitarra; sullo spettro sonoro dell’ ”attacco di plettro” di Jim Hall; sulle diverse prerogative che intercorrono tra la chitarra-a plettro con corde di metallo di Charlie Christian, discretamente-amplificata, e la chitarra-a pizzico con le corde di nylon di Charlie Byrd; sul contributo del liutaio italiano Maccaferri al suono evocativo della chitarra manuche di Django Reinhardt; sulle essenziali differenze tra il timbro solare di Stan Getz e quello lunare di Sonny Rollins; per non parlare poi di Ornette e di Coltrane, di Monk e di Bill Evans e via dicendo. Nessuno, dico nessuno (!), ha protestato e ha testimoniato-contro per l’invasione dell’orda di chitarristi super-effettati che ha letteralmente massacrato il jazz mistificandone il suono e continua a farlo impunemente! Equipaggiatura effettistica che non viene usata con quella discrezione ed equilibrio compatibili con l’integrità del tocco, ma di cui si abusa creando sonorità fittizie, stoppose, ovattate, piatte e uniformi e prive di chiaroscuri, con un uso del riverbero che enfatizza il risultato così come una diva del cinema potrebbe usare il fondo tinta per truccarsi. Oppure timbriche offuscate da distorsioni ruvide, fastidiosamente acide, fredde e prive di profondità. Francamente non si capisce come mai il vituperato sordo tonfo del basso elettrico, a differenza del caldo e palpitante respiro del contrabbasso, sia sempre stato considerato unanimemente estraneo al jazz, e lo stesso criterio estetico non venga poi applicato alla chitarra elettrica “super-effettata”. Dove è finito oggi il ruolo della critica musicale? Dove è finito il prezioso minimalismo dei musicologi? Perché le poche voci che dissentono vengono aggredite con volgare ignoranza?! Chi snobba la tradizione per “l’idolatria del nuovo in quanto nuovo” trascura il fatto che, come dice il prof. Zecchi docente universitario di estetica: “Il nuovo può anche essere orribile, indecente, può essere fatto da un accozzaglia di babbei!” (TV-La7 - “Omnibus” del 23-02-08 - ore 8,30). Quando in arte protagonismo e rampantismo prevaricano i più basilari fondamenti deontologici, quando lo spirito competitivo incita alla rincorsa dell’ufficialmente riconosciuto, allora ci si contendono stili e formule di successo per impressionare il pubblico, per accreditarsi presso gli altri strumentisti ma, e soprattutto, per…depauperare l’Io degli altri chitarristi ! Si potrebbe aprire un capitolo di aneddoti e situazioni ricorrenti sull’ “Edipo per Mamma-Chitarra” (...complesso dal quale, beninteso, neanche chi scrive si ritiene immune!) e sul vario bestiario delle “compensazioni-narcisistiche” ! Pur consci di non poter pretendere dalla musica quello che la musica non può dare; consapevoli dell’odierno genarale riflusso-creativo e del fatto che il jazz, non essendo più avanguardia, ha perso il suo originale sex-appeal non si può tuttavia fingere di non vedere come oggi, accanto ad un altissimo livello artigianal-musicale, si riscontri una uniformità stilistica che non era riscontrabile tra i chitarristi dalla prima generazione. Artisti che si differenziavano tra loro in quanto inimitabili “universi poetici” a sé stanti, la cui

66

principale esigenza era quella di riuscire ad esplicare in musica il proprio modo di sentire e di dire. Una concezione melodico-compositiva che si svolga quindi sulla lunghezza d’onda di quella ispirazione spirituale, oggi completamente violentata e castrata, che solo può nascere dall’esplicazione del sé, come sono appunto riusciti a fare Jim Hall e Jimmy Raney, e non quella fredda e ingegnosa costruzione intellettuale fatta a tavolino frutto di quell’artigianato musicale al servizio del più cinico e spoetizzato disincanto che caretterizza la contemporaneità. Espedienti artigianali che vengono oggi venduti in un supermercato della musica nel quale tutti indiscriminatamente, siano essi artisti o meri arrivisti, competenti o incompetenti, sono merce e nello stesso tempo consumatori. Tutto ciò non fa che degradare la situazione generale, in una totale deriva nell’indeterminato e nello svilimento del pensiero unico, nella più completa abdicazione di uno spirito critico ormai anestetizzato e non più in grado di distinguere la spiritualità dell’artista dal mordace calcolo del parvenu. Le più stantie ed abusate formulette di stampo bluesy o rockeggianti, richiamo della foresta per la tribù degli stolti, quando anacronisticamente inserite nel linguaggio jazz vengono accolte con conformistico entusiasmo, mentre le più significative, colte e raffinate soluzioni del vero jazz passano assolutamante inosservate da parte di chi, a buon mercato, si auto-referenzia come esperto e si contrappone, ottusamente e con arroganza, alle più ragionevoli e ovvie osservazioni critiche. Chi si gratifica e si accontenta dei meri prodotti contemporanei non ha mai conosciuto la vera arte! E mentre ciò avviene i musicisti, in un generale fermento, si rincorrono nell’adeguarsi ai modelli “vincenti”: se sei un prodotto buono per la vendita e un uomo per tutte le stagioni il successo è assicurato (…questa è almeno la lusinga!). Sono questi i valori che hanno fatto grandi i René Thomas e i Wes Montgomery? Francamente non si capisce come mai il vituperato sordo tonfo del basso elettrico, a differenza del caldo e palpitante respiro del contrabbasso, sia sempre stato considerato unanimemente estraneo al jazz, e lo stesso criterio estetico non venga poi applicato alla chitarra elettrica “super-effettata”! Con le potenzialità della odierna tecnologia audio si può attuare, in questa direzione, una pericolosa manipolazione revisionistica del suono. Così come è avvenuto nel film “Bird”, con la sovrapposizione di Parker ad una nuova sezione ritmica avulsa dal clima espressivo originale, così si potrebbero produrre edizioni postume di takes inediti, “salvati” con timbriche ritoccate, finalizzate ad avvallare l’estetica virtuale ed incantatoria imposta oggi. “Sia chiaro: l’appassionato di jazz - se è veramente tale - non dovrebbe dare nessunissima importanza all’alta fedeltà: un opera d’arte o un prezioso documento storico, anche se sono malridotti, vanno fruiti così come sono. Nessuno, crediamo, vorrà buttare nella pattumiera la Venere di Milo.” (Marcello Piras “Musica Jazz” Ag. Set. 1988 – pag. 70). Revisionismo del jazz quindi non solo nella narrazione, ma nella musica stessa. Troppo spesso poi ci si imbatte in pseudo-jazz sacrificato sull’altare di una malintesa “performance”, e ridotto a colonna

67

sonora della messa in scena del corpo fisico dei musicisti (G. Sibilla: ”I linguaggi della musica Pop” Bompiani, 2003), spesso con vere e proprie cadute nella goliardia musicale. Allestimento che oggi, rimandando alle categorie della civetteria, dell’effimero, del velleitario, utilizza sia la gestualità che una vera e propria ”lingua ‘vestiaria’ [...] la cui variazione determina un cambiamento del senso (portare un berretto o un cappello duro non ha lo stesso senso)” (R. Barthes “Elementi di semiologia” pag. 28 - Einaudi); “Prendi una nuova , o apparentemente nuova corrente, scegli alcune (non troppe!) personalità originali, falle pettinare in modo bizzarro, insegna loro degli atteggiamenti particolari, falle intervistare, fotografare, reclamizzare sulla stampa...con dischi e edizioni musicali, ecc.: il procedimento è noto. Gli americani lo chiamano plugging (inculcare qualcosa nell’opinione pubblica)...”(Jànos Maròty: “ Musica e Uomo” Le Sfere p. 246 ed. 1987). In nome della performance, si apre oggi la strada a quelle che Bruno Pedretti, nel suo recente libro “La forma dell’incompiuto” (pag. 90 - Utet), ha felicemente definito come “Le parodie del mondo della finzione contemporaneo che, simili al matto che crede di essere Napoleone solo perchè ne indossa lo sesso tipo di cappello, si crede un’opera d’arte solo perchè se lo è messo in testa!””, ovvero tutto ciò che altrove è stato definito “ciarpame postmodernista. Impatto de-costruttivo tipico di una concezione performativa spettacolare e edonistica, a volte demenziale (alcuni strumentisti si presentano sul palco in camice bianco![?]), che spesso controbilancia e compensa un accademismo decadente ed austero. Ma nella storia umana non vi è nulla di nuovo sotto il sole, come dice il prof. Paolo Zenoni a proposito del teatro dei greci: “Man mano che i contenuti perdono di spessore l’attenzione del pubblico si sposta sugli aspetti più scenografici” (P. Zenoni “Rapporto tra spettacolo e territorio” Uninettuno, Rai-2: 27 – 2 - 2008, ore: 5). La carenza di “trasmissione di grandi valori“ trasformò progressivamente il teatro dei romani in “spettacolo circense”, sino a giungere alle pubbliche stragi dei cristiani nel colosseo: anche quella era performance! L’arte-performativa è sempre di più l’ideologia estetica del tardo-capitalismo. La performance nel jazz è un aspetto, per quanto indissolubile, pur sempre immanente e collaterale, essa consegue alla estemporaneità dell’improvvisazione, una spontanea riverberazione che non può essere determinata artificiosamente senza essere privata della sua stessa peculiarità performativa: l’autenticità di una sorta di teatro-vivo! Oggi il sentimento, ridotto a retorico sentimentalismo, sacrifica la più autentica espressione. Anche da questo punto di vista i jazzisti più consapevoli si pongono con l’autenticità dell’opera-vera che nel jazz è tutt’altro che un mito, e per rendersene conto basta aver partecipato anche solo una volta ad un concerto live del pianista Bill Evans. Autenticità lontana sia dal manierismo in doppio-petto del neoclassicismo che dal divismo da pop-stars della fusion. Non a caso, oggi così in voga, questa concezione performativa è diametralmente opposta all’improvvisazione, la

68

quale: ”...implica in genere una concezione dell’evento musicale agli antipodi dello spettacolo e più vicina invece al rito religioso in senso lato, dove la partecipazione compatta della collettività ad un medesimo ideale etico-musicale garantisce la felice fusione delle singole personalità componenti il gruppo” (Fubini: op .cit. pag. 94 ). Se poi fosse anche vero il mito ecumenista di una nuova sintesi storica tra Jazz, Classica e Musiche Pop, i cui prodròmi, sottoposti al vaglio della critica, lasciano perlomeno perplessi, questa decostruzione-ibridazione potrebbe essere definita in tutti i modi tranne che Jazz. Ciarpame post-modernista? “L’ascoltatore regredito minimalizza le distinzioni. Parker e i Beatles non si possono mettere insieme e, come ha detto Keith Jarret, ‘Mischiare classico e jazz sarebbe letale per il jazz! ’ “ (Davide Sparti: “Suoni inauditi”). L’estetica di Parker e quella dei Beatles, se e per quanto, possano avere pari dignità, sono estetiche tra loro inconciliabili perché portatrici di contenuti tra loro inconciliabili, non è possibile una sintesi, ma solo il reciproco annullamento (né carne né pesce) o il prevalere dell’una a discapito dell’altra, così come storicamente è avvenuto, ad esempio, da parte del be-pop nei confronti degli Standards nord-americani in quel processo di metamorfosi che si chiama riappropriazione. Il vero jazzista è in grado di compiere questa ri-appropiazione (nel conflitto tra opposti antagonismi: “Il pesce grande mangia quello piccolo”), ma quanti altri tentativi oggi rimangono né carne-né pesce?! E questo fenomeno avviene sempre in presenza di quelle forme di eclettismo che, cercando velleitariamente di sintetizzare verità tra loro antagonistiche: o una divora l’altra, oppure entrambe finiscono col perdere senso e identità rimanendo sterilmente compresenti…“Perché se si parla di jazz, si parla di un linguaggio che ha una sua peculiare specificità (e non mi si dica che è cosa nuova: molto più in piccolo, provate a sentire come Carlos Kleiber pronuncia dirigendo la musica di Johann Strauss e provate a paragonarlo, che so, a Muti...,tanto per fare un esempio ovvio), soprattutto una specificità culturale di derivazione fondamentalmente etnica. E ciò comporta delle regole linguistiche precise, questioni di grammatica e vocabolario. Altrimenti, per conoscere le lingue basterebbe saper parlare, e non è così...” (Gianni Gualberto). All’emergere di nuovi e personali artisti di jazz già da anni non corrisponde più, come una volta, la nascita di nuovi stili. I più noti musicisti oggi di punta, sia di vecchia che di nuova generazione, sono tutti riconducibili al jazz-moderno e ai suoi stili, anche quando si siano aggiornati alcuni attributi non-essenziali, l’essenza della musica rimane quella di sempre. Negli Stati Uniti è avvenuto un dibattito-scontro tra i Neo-classicisti del jazz e i sostenitori della Fusion, dibattito del quale nel nostro paese sono giunti soltanto gli echi. Così affermava Miles Davis: “Un sacco di vecchi musicisti sono pigri bastardi, fanno resistenza al cambiamento e si attaccano alla vecchia maniera perché sono troppo pigri per tentare qualcosa di diverso...divengono come pezzi da museo...continuando a suonare quella vecchia stanca merda.” (“Il jazz tra

69

passato e futuro” a cura di Maurizio Franco, Quaderni di Musica e Realtà – pag. 16 [6] - Lim ed. 1995 - 2001 ). [grassetto nostro]. Chi se la sentirebbe di definire, ad esempio, Lester Young “vecchia stanca merda” ? Ebbene, la…resistenza a volte può essere un grande valore! Winton Marsalis invece era su posizioni opposte: ”...sebbene possa aver prodotto buona musica, lo sforzo della fusion mi sembra definitivamente finito e fu in qualche modo persino un errore...ci possono essere bellissime case in una strada senza uscita” (M. Franco: Op. Cit. pag. 15), e ancora: “Non penso che la musica sia progredita negli anni ’70. Penso che si sia persa. Tutti cercavano di diventare delle pop stars, ed imitavano gente che si pensava le stessero imitando...Quello che dobbiamo fare ora è reclamare[...]” (M. Franco op. cit. - p. 15 [6] [Mandel 18]). Il seguente è il giudizio del musicista ed intellettuale francese Hugues Dufourt: “In musica, come negli altri campi, il decennio degli anni ’70 è segnato dalla stessa indifferenza per le categorie estetiche e dalla analoga rinuncia alle ambizioni universali della storia. Il transitorio, l ’effimero, l’accidentale diventano valori dominanti.” (Hugues Dufourt: “Musica, Potere, Scrittura” Le Sfere pag. 339 ed. 1997, BMG-Ricordi ). Gli anni settanta quindi potrebbero corrispondere a quei periodi storici di riflusso così ben descritti da Schelling: “Nelle epoche di grande fioritura artistica...le grandi opere sorgono e maturano l’una accanto all’altra quasi nello stesso tempo, e quasi come ad opera di un afflato comune...allorché una siffatta epoca felicemente e puramente produttiva è trascorsa, subentra la riflessione e con essa l’universale scissione: ciò che là era spirito vivente, diventa qui tradizione” “...un’epoca nella quale gli idoli più venerati sono tutto ciò che è frivolo, che titilla i sensi o che alla nobiltà mescola la bassezza” “dagli artisti di indole propriamente pratica di un’epoca siffatta non è perciò possibile, fatte poche eccezioni, saper nulla dell’essenza dell’arte perchè generalmente fa loro difetto l’idea dell’arte e della bellezza”. (Friedrich Wilhelm Joseph Schelling “Filosofia dell’Arte” [1802] pag. 67- 68, Fabbri Editori).

Il revisionismo nel Jazz

La dialettica, e con essa il Jazz come sua metafora epistemologica, paga oggi lo scotto non solo per essere stata eletta a ideologia dalla prassi del comunismo reale, antidemocratica e antimarxista, ma specialmente perché, nella sua applicazione alla storia e alla società, mette in discussione e mina “l ’ immaginario - futuribile” dell’attuale sistema di dominazione. Essa viene quindi recepita e respinta in termini più che scientifici, essenzialmente ideologoci! Come dicevamo nella nostra prefazione la vigente ideologia antidialettica: “riflette la crisi di progettualità di un sistema di dominazione arroccato su ormai estremi meccanismi di auto-difesa. Meccanismi tra i quali in campo artistico predomina il revisionismo-storico il quale, coinvolgendo

70

tutti i campi della cultura, non si vede come mai non debba investire anche il Jazz”. Il Punto di partenza di ogni rilettura revisionistica parte sempre dall’errore di scambiare attributi non-essenziali per essenziali, approdando così ad una interpretazione sofisticata e fuorviante della realtà oggettiva. Errore che nasce dalla sottovalutazione e dall’oscuramento del criterio estetico-dialettico. Questo tipo di operazione solitamente assume parvenze innovative: “La concezione del jazz come entità organica [...] richiede la decisione cosciente di ignorare la ovvia discontinuità presente nel linguaggio musicale - per non parlare dei contesti culturali e sociali in cui è situata la musica - in favore del principio trascendente di continuità” (Scott De Veaux: ‘Creare la tradizione” da “ Il Jazz tra passato e futuro” pag. 31, ed. Lim). E’ invece il concetto di discontinuità ad essere qui assunto in modo trascendente e troppo vago per poter risultare ovvio, e la sua adozione richiede la decisione cosciente di ignorare la dialettica unitaria dei contrari cioè il “Mutamento che conserva la qualità del fenomeno” (E. Mandel). Così come i generi sono forme estetiche tra loro diverse, così gli stili sono differenti forme di uno stesso genere ma di una stessa estetica. Ovviamente quindi è auspicabile si dia il giusto peso a quegli aspetti di discontinuità tra gli stili del jazz che oggettivamente risalgono agli attributi non-essenziali! Che il jazz poi sia musica afroamericana non comporta che tutte le musiche afroamericane, espressione di diversi contesti sociali e culturali, possano essere inscritte nel jazz. L’applicazione meccanica del criterio sociologico rischia di fare debordare l’analisi in una sorta di primitivismo in versione classista: anche se Armstrong e Davis appartenevano a classi sociali opposte, ciò non ha impedito loro di condividere trasversalmente una comune concezione musicale (differenti poetiche di uno stesso linguaggio!). Non è lo status sociale del singolo artista a determinare meccanicamente la sua arte, bensì la sua partecipazione al movimento artistico, storico e culturale, della sua epoca! Come ampiamente dimostrato dalla biografia di una moltitudine di artisti in tutti i campi! - “A chi l’arte non sia apparsa come un tutto conchiuso, organico e necessario in tutte le sue parti qual è la natura, resta ancora un lungo cammino da percorrere” (Friedrich Wilhelm Joseph Schelling: “Filosofia dell’Arte” [1802] pag. 65, Fabbri Editori). Se questa affermazione non è più oggi universalmente valida, lo è ancora per quanto riguarda il jazz! La narrazione ortodossa, organica ed evoluzionista (evoluzionismo dialettico, non evoluzionismo volgare!) del jazz, da noi condivisa, è basata su riscontri chiari ed evidenti all’ascolto e dimostrabili dall’estetica e dalla filologia. Ciò è tanto più valido per chi, avendo trascritto, analizzato e pubblicato decine di improvvisazioni a partire da Louis Armstrong e Sidney Bechet (Dixieland –New Orleans]), Charlie Christian e Lester Young (Swing-Bop); Charlie Parker (Be-Bop); Lee Konitz e Billy Bauer (Cool jazz) Wes Montgomery e Dexter Gordon (Hard-Bop), e tante altre, ha sempre riscontrato la continuità linguistica, relativamente stabile, dialettica ed irreversibile, di una melodia- improvvisazionale che si sviluppa

71

coerentemente attraverso tutti gli stili del jazz. Lo stile Dixieland è tradizionale nella storia del jazz, ma moderno nella storia della musica (...e, a differenza di certe correnti consumistiche contemporanee ai confini del jazz, è musica d’arte, quindi più attuale!). I diversi stili del jazz sono quindi dialetticamente interdipendenti in virtù di quel nesso reciproco, di carattere qualitativo stabile, determinato dal fatto che le novità emergenti del pensiero musicale sono preparate e spiegate dagli sviluppi precedenti, nesso qualitativo senza il quale quegli stili non potrebbero appartenere allo stesso genere. Fenomeno che avviene anche nell’azione improvvisativa che è tutt’altro che un arbitrario accostamento di frasi, ma lo sviluppo di un ragionamento musicale in cui le novità emergenti sono appunto spiegate e preparate dagli sviluppi precedenti. La ricezione regredita dei revisionisti, confondendo differenza con alterità o anche solo la differenza-essenziale con le differenze non-essenziali, non riesce a vedere la continuità qualitativa tra gli stili del jazz, continuità che, come abbiamo visto, non esclude ma implica la contraddizione. La condivisione, da parte del jazz, di attributi non-essenziali con altri generi musicali, servirà poi da pretesto ai revisionisti per accreditare come jazz ciò che invece non lo è. Quindi il revisionismo non solo inverte le cause con gli effetti e la variabile indipendente con la variabile dipendente, ma confonde anche la qualità con la quantità! “E’ pressoché assiomatico che ciascuno degli stili di jazz che si sono susseguiti si è basato sulle invenzioni della precedente generazione di esecutori, non di compositori (naturalmente nella musica classica avviene il contrario)” (Gunther Schuller: “ Il jazz classico”, cap. Il primo grande compositore - pag. 178 - Mondadori 1979) e le esecuzioni avvengono allo strumento e sono prevalentemente melodie improvvisate, melodia improvvisata antifonale, quindi dialettica. Ed ecco il movente castrante e denegante della ideologia anti-organica del jazz che, in perfetta sintonia con la cultura della frammentazione, vede nella continuità storico-dialettica della melodia improvvisata la metafora del principio modernista di Ragione. Il filosofo Karl Marx chiamava melodia la dialettica Hegeliana! (Eugenio Sbardella introduzione a “Il Capitale” ed. ATE 1965, pag. XII). La melodia trova poi nella scuola di pensiero-musicale di Konitz-Tristano una delle più efficaci realizzazioni. L’ attitudine empirista e scientista pare riesca a fare una particolare breccia sulle anime belle pseudo-progressiste, deluse e rinunciatarie, rifluite con autocompiacimento nel cinismo, nell’opportunismo e illusoriamente adagiate sulle proprietà non essenziali delle contraddizioni storiche. Un sentimento che ha contaminato pericolosamente anche la comunità del jazz che, assuefatta e disaffezionata all’improvvisazione, dimentica quanto questa ultima sia per il jazz come l’aria se ne capisce l’importanza solo quando manca. Ecco quindi la missione politica defeticizzante dell’improvvisazione jazz, capace di condurre dalle false apparenze alla vera essenza ed a una nuova sensibilità: ed ecco il movente politico del revisionismo. Tutto ciò contribuisce ad un nuovo totalitarismo che,

72

affermando un’astratta universalità della musica ed una malintesa molteplicità dei linguaggi, in nome di un ostentato pluralismo falsamente progressista, finisce col corrompere e denegare la identità storica ed il senso dei soggetti del pluralismo, per aprire il varco alla “chiusura dell’universo di discorso” (Marcuse): oggi la categoria del progresso è più ideologica e mistificante della conservazione! Il jazz è quindi il genere musicale che ha rispecchiato direttamente la contraddizione sociale tra il popolo nero schiavizzato e la società borghese e razzista nord-americana e, indirettamente, la mondializzata e tuttora irrisolta contraddizione storica tra il proletariato e la borghesia. La prima metà del ‘900, caratterizzata dall’acuirsi della contraddizione tra borghesia e proletariato, ha visto la tendenza a prevalere della classe emergente proletaria sulla vecchia borghesia: rivoluzione russa, cinese e cubana, protagonismo delle masse, democrazia montante, lotte sociali, diritti sindacali, maggio 68’. Ciò ha comportato un enorme progresso nei rapporti sociali, nella cultura e nell’arte, in quella fase della modernità, che ha visto appunto, tra le altre cose, la nascita del cinema e del jazz. Dagli anni ’70 è iniziata invece una nuova fase che ha visto prevalere la borghesia sul proletariato: disoccupazione montante, nuove povertà, flessibilità, neoliberismo, crollo dello statalismo e dei diritti sindacali sono indicatori della globalizzazione. Globalizzazione che ha prodotto un riflusso qualitativo generalizzato in campo sociale, culturale ed artistico e, potentemente supportata da un uso di classe della tecnica, si integra organicamente col Postmodernismo: Giovanni Fornero scrive che secondo Jurgen Habermans : ”...il postmoderno non rappresenta una veduta coerente ed autonoma, ma un semplice ’segno dei tempi’, cioè un sintomo della situazione di ‘stallo ’ in cui è venuto a trovarsi il progetto culturale moderno e la filosofia che meglio lo ha espresso, cioè l’illuminismo” “anziché arrendersi di fronte ai suoi scacchi contingenti,… [Habermans.]… propone di rilanciare gli ideali emancipativi, pena la ricaduta in posizioni immobilistiche ed oscurantiste, suggellate dall’alleanza in atto fra post-modernisti e pre-modernisti e dalle spinte neoconservatrici degli anni Settanta e Ottanta.” (Giovanni Fornero - Nicola Abbagnano “Storia della filosofia” IV tomo secondo, pag. 420- 421). E’ in questi anni che il jazz ha iniziato a trasformarsi. La contraddizione del jazz, a cavallo fra vecchia musica e nuove musiche, vede il prevalere oggi del vecchio aspetto eurologico, e con esso, una forma perversa di afrologia omologata (manieristica e consumistica). Il jazz che, nel prevalere dell’afrologia contro l’eurologia, ha visto una straordinaria rivoluzione paradigmatica, vede oggi ristabilire i più reazionari paradigmi eurologici. Processo revisionistico che investe, con il jazz , la cultura e l’arte complessivamente! “La modernità, iniziata con l’ Illuminismo...è sempre stata oggetto di un sordo risentimento collettivo se non di una dichiarata avversione...Il Postmodernismo è una variante attenuata di questo fenomeno di rigetto...” (H. Dufourt: “Musica, Potere, Scrittura”, pag. 10 - Le Sfere - 1997). Il be-bop, evento eminentemente

73

moderno, fu oggetto di attacchi fanatici e furibondi e i boppers furono definiti: “pazzi” (E. Baraka, “Il popolo del Blues”ed. ShaKe 1999, pag. 167). Assistiamo oggi, all’inizio del nuovo secolo, al fenomeno di ritorno di questa acredine mal sopita e alimentata da trentacinque anni (...dagli anni ’70) di persuasione occulta e di rinnovata disinformazione revisionista. Attribuire centralità al bop non è quindi né riduttivo né limitante dal momento che, attualmente, col termine bop si sta ad indicare la fase in cui il jazz prende coscienza di sé e del suo ruolo culturale di nucleo storico del Jazz moderno! Ciò quindi senza operare discriminazioni nei confronti degli stili minori collaterali a quel nucleo centrale, e tanto meno nei confronti dello stile di New Orleans (Dixieland), da cui ha avuto origine e svolgimento il linguaggio del jazz (pre-bop?). Una distinzione è invece necessaria tra il jazz in senso stretto e le altre musiche afro-americane arcaiche, perché da questa matrice diversificata oggi si attinge sapientemente per avvalorare una narrazione di stampo revisionistico. Concezioni arfo-americane variegate che fecero riferimento, le une a tradizioni prevalentemente colte, e le altre a tradizioni più marcatamente orali. Entrambe confluite nel “laboratorio big band”, hanno contribuito a quella particolare estetica che è la “scrittura di arrangiamenti” anche di carattere sinfonico (Pestalozza-Favaro ”Storia della musica” pag. 138, WB-Music). Poche grandi orchestre che, collocate su di una linea di confine a cavallo tra jazz e consumo, jazz e musica sinfonica afro-americana, jazz e avanguardia europea, jazz e rock (Basie è esemplare della jazz big-band in senso stretto! ), possono offrire la sponda ad interpretazioni contrapposte, se non ambigue e fuorvianti. Le big-band, tendenzialmente sbilanciate sia sul versante sia consumistico che su quello accademico colto, nei cui confronti si celava un inconfessato complesso di inferiorità (film “Paris Blues” 1961!), “A volte noi jazzisti proviamo ancora uno strano senso di inferiorità nei confronti dei compositori europei” (Hank Jones: ’Musica Jazz’ 1-2006, pag. 21), hanno avuto sempre meno a che fare con la estemporanea ed irriverente polifonia nera dello stile New Orleans: “...il jazz delle big-band era ormai entrato nel modo di vita americano, e serviva solo da riflesso stereotipato di un ambiente culturale estenuato. L’impulso spontaneo venne rimpiazzato dall’arrangiatore, e la partecipazione umana alla musica era ormai ridotta alla capacità dell’esecutore a leggere la partitura” (Amiri Baraka “Il Popolo del blues” op. cit. pag. 162). E’ nostra impressione che oggi le grandi orchestre, salvo pochi casi isolati, stiano divenendo emblematiche di un artigianato musicale fine a se stesso e si delineino sempre più come portatrici del nuovo accademismo di fine secolo (gerarchico e autoritario) e sempre più distanti non solo dalla modernità della originale tradizione afroamericana (comunitaria e ritual-collettivistica) radicata nello swing, gli accenti, l’inflessione e i colori timbrici dei Basie e degli Ellington, ma anche dalla concezione del jazz più avanzato. La strada maestra del jazz (mainstream) invece, originata dalla variegata matrice afroamericana, ben presto assunse una linea autonoma e sviluppò un profilo peculiare

74

contrassegnato dalla figura del singolo esecutore improvvisatore, il cui contributo risulterà cruciale per l’emancipazione e la modernità di questa musica: “L’atto creativo musicale vero e proprio consiste nel fatto di rivivere in modo individuale con l’improvvisazione, a ogni esecuzione, gli schemi tradizionali, salvaguardandone i caratteri che vengono percepiti come essenziali. Pur nella permanenza del vincolo a ciò che è socialmente comune, è importante la interpretazione individuale che si dà a tale vincolo.” [Knepler, pag. 20, op. cit.]. Appellarsi quindi alla centralità del bop significa porlo anche come catalizzatore per recuperare l’identità (…paradigma essenziale) di tutto il jazz che và oggi progressivamente atomizzandosi, venendo così a dissiparsi una tradizione preziosa e rivoluzionaria!

La Strategia di produzione del jazz.

Agli albori del jazz la musica tonale versava in quella condizione così ben descritta da Luigi Pestalozza: “La tonalità è una trappola, ha secoli alle spalle di codificazione dei suoi caratteri strutturali delle sue forme di tensione e di risoluzione della tensione, del suo modo strutturale di essere, armonia, melodia, polifonia, ecc. Caratteri di fondo che consentono infinite libertà e deroghe, ma che richiedono, per continuare ad essere legittimi, sofisticata invenzione, straordinaria bravura...una personale fisionomia...un’originale figurazione sonora...a ciò che mobilita la memoria culturale nell’ascoltatore” (L. Pestalozza: “L’opposizione musicale”, pag. 305 ed. Feltrinelli). La seconda parte di questa citazione sembra una descrizione del jazz! La rivoluzione-paradigmatica apportata dal jazz nella musica tonale, con un improvvisazione fondata sulla memoria culturale, ha aperto la strada a nuove possibilità creative le quali, quando effettivamente realizzate, corrispondono ai requisiti di sofistica invenzione, straordinaria bravura, personale fisionomia e originale figurazione sonora! Dal punto di vista della strategia di produzione, cioè l’improvvisazione, è importate risalire storicamente alla situazione in cui il jazz si è manifestato come fattore rivoluzionario: in un regno, quello classico post-ottocentesco, dominato dalla ricerca della sublime perfezione interpretativa, l’apporto del jazz consistette anche in ciò che è stato definito “l’estetica dell’imperfezione”. Imperfezione di un processo che si svolge per tentativi ed errori nel regno della possibilità e in condizioni di emergenza. Imperfezione che consegue dalla naturalezza della forma-mentis della ordinaria vita quotidiana. Come scrive Bruno Perdetti citando “Elogio della mano” di Henri Focillon, un processo in cui non sempre la mente è la padrona della mano, e spesso “sono le mani a imporre una forma, un contorno...” la mano non è “separata dal corpo né dalla mente”-“ Tra la mente e la mano però le relazioni non sono quelle semplici che intercorrono tra un padrone ubbidito e un docile servitore. La mente fa la mano, la mano

75

fa la mente.” (B. Perdetti: “La forma dell’incompiuto” pag. 38 Utet). Un processo elastico, che si auto-regola in corso di esecuzione, nel quale rischio, avventura ed errore divengono elementi strategici, e nel quale l’elemento stocastico è costituito dal sipario, determinato dal caso, nel quale si svolgono le jam-sessions più riuscite e i dischi-live e i jazz-recitals passati alla storia come testimonianze viventi di un certo modo di concepire l’arte e la vita stessa. “Il jazz è uno stile di vita”, una musica che coinvolge i contenuti semantico culturali consustanzialmente alla strategia di produzione. Strategia fondata su di una intenzionalità rilassata, che non tende a riprodurre perfettamente e ansiosamente situazioni precedentemente e accuratamente selezionate e collaudate; intenzionalità rilassata incompatibile la ideologia da sindrome di catena di montaggio organica ai rapporti di produzione della civiltà industriale. Un discorso melodico, introspettivo e sofferto, radicato profondamente in un vissuto estetico maturato nell’esperienza musicale e alla ricerca di un espressione del sé in un gioco di relazione (interplay) che, in una sorta di transfer collettivo, vede l’emergere dell’evento musicale in una fenomenologia spontanea, fluttuante e a tratti scollegata dalla direzione controllata. Una sorta di “ritorno del represso” in un contesto di istintualità desublimata, rivelatrice e disalienante. Un rituale, eminentemente afrologico, nel quale l’individuo finalmente riscatta, ed afferma la sua profonda identità: “I Balinesi parlano della musica come dell’ “altra mente” o dell’”altro sé” in cui le persone diventano profondamente coscienti della vera natura del proprio essere” (Blacking, pag. 68 – 70), e agli scettici si potrebbe consigliare l’ascolto di tutta l’opera di Lennie Tristano e company musicisti che, per quanto fossero bianchi e colti, hanno fatto propria e riproposta un’estetica dai presupposti afrologici. Il disco ”Subconscious Lee” porta il segno di questa fenomenologia anche nel titolo. La musica…”può portare in un altro mondo, in cui le cose non sono più soggette al tempo e allo spazio” (GustavMahaler ; Blaking, pag. 70), il sub-conscio appunto, cioè quell’aspetto della mente estraneo ai parametri spazio-tempo, estraneità la cui modellizzazione figurale nel jazz trova una emblematica attuazione in “Intuition”, sempre di Tristano; “la maniera in cui il sogno esprime le categorie dell’opposizione e della contraddizione è particolarmente sorprendente [...] Eccelle nel riunire i contrari e nel rappresentarli in un unico oggetto.” (Sigmund Freud). ”Estetica non intesa però come “fuga onirica dal mondo” (Gadamer), ma Junghianamente, come incontro con se stessi e la propria ombra, cioè quella ragione interiore ri-connettiva che, quando rivelatasi, in psicoanalisi diviene terapeutica. Una significativa descrizione dell’ estetica Tristaniana potrebbe essere rubata al grande filosofo e matematico Bertrand Russell: “nella passione e nel fragore del moto violento non c’è posto per la fioca musica della ragione, non c’è agio per la contemplazione disinteressata in cui si sogna la grandezza, non per mezzo della turbolenza, ma per mezzo della grandezza dell’universo in cui ci si rispecchia.” Realtà interiore individuale e

76

collettiva, contrapposta alla realtà esteriore e apparente, reificante e alienante, cioè il mero fatto, il dato apparente, il freudiano “principio di realtà”. La “missione defeticizzante dell’arte” (Lukàcs), rende possibile il superamento dell’alienazione, ovviamente non nella realtà ma nell’arte (Maròty). “Il ritorno del represso costituisce la storia ostracizzata e sotterranea della civiltà” (Marcuse). Una modalità quindi incompatibile con gli attuali rapporti di produzione e nella quale si possono intravedere i germi di una futuribile civiltà alternativa . In termini filosofici la melodia jazz non propone tanto un risultato, quanto un ragionamento attraverso il quale si perviene ad un risultato in una sorta di metodologia rivoluzionaria, John Dewey definì la musica:”strumento indispensabile per la trasformazione dell’uomo e del suo mondo”. Nel jazz anche le trascrizioni dai dischi, a differenza delle odierne computerizzazioni, non hanno mai voluto corrispondere al rigore della scrittura musicale accademica. Esse sono implicitamente subordinate all’ascolto del documento audio-tattile, e documentano filologicamente anche l ’ ortografia del trascrittore ribadendo anche qui la centralità dell ’ estetica dell’imperfezione. Nella tradizione audiotattile la pagina scritta è quindi un supporto collaterale e secondario rispetto alla testimonianza del disco, non a caso oggi tutte le opere didattiche di jazz includono un disco di esemplificazioni eseguite direttamente dall’autore. Sintetica ed esauriente la definizione di Nattiez della improvvisazione: “...l’invenzione, nel momento stesso dell’esecuzione, di un fatto musicale nuovo rispetto ad una esecuzione precedente” (op. cit. pag. 68). Gli attuali detrattori dell’improvvisazione, ovvero coloro che sostengono che l’improvvisazione sarebbe simulazione, tradiscono inconsapevolmente di non essersi ancora affrancati da una visione astratta e idealistica della realtà. Solo chi è ingenuamente vittima di una visione creazionista della musica potrebbe prendere un simile abbaglio e cadere dalla padella alla brace giungendo banalmente alla conclusione che, se l’improvvisazione non è creazione assoluta, allora non potrà che essere simulazione! E’ invece in realtà scontato che nulla si crea dal nulla, già nel 1773 l’illuminista milanese Pietro Verri, faceva notare come: ”Tutti i fenomeni dell’universo, siano essi prodotti della mano dell’uomo, ovvero delle universali leggi della fisica, non ci danno idea di attuale creazione, ma unicamente di modificazione della materia” (Pietro Verri “ Meditazioni sulla economia politica” vol. XV, pag. 22). Se tutta la produzione umana è modificazione della materia naturale pre-esistente, ciò vale anche per l’improvvisazione, che non può essere intesa nient’altro se non come modificazione estemporanea, e in tempo reale, di materiali musicali preesistenti! “I boppers cominciarono a lasciare la pratica tradizionale della improvvisazione della variazione su un tema melodico, e suonarono invece le loro variazioni sugli accordi su cui era basata la melodia, riuscendo a creare, di solito, melodie del tutto nuove” (Baraka, op. cit. pag. 173). Questa “liberazione” è avvenuta nonostante e contro i condizionamenti invasivi e normalizzatori della cultura dominante. La narrazione revisionistica

77

del jazz riprende oggi le mosse da quei condizionamenti per rilanciarne l’opera demolitrice. Tra gli argomenti dei “revisionisti” dell’improvvisazione, vi è quello che non riesce a intenderla se non come “variazione tematica”, questo mito è stato sfatato sin dalla seconda metà degli anni ’20: “I più giovani, come Armstrong, Sidney Bechet e Johnny Dodds, si staccarono gradualmente dal concetto tema-improvvisazione, e dopo la metà degli anni ’20, l’improvvisazione in assolo, con poche eccezioni, venne a significare una creazione estemporanea su accordi, più che su melodie” (Gunther Schuller, op. cit. pag. 109 e 117). I revisionisti vogliono far confondere l’autonomo sviluppo (logico-antifonale) della melodia con la variazione tematica; confondono il concetto di Tema, che ha una funzione testuale, con quello di melodia, che di regola svolge nel Jazz la funzione eminentemente non-testuale di uno stile melodico fantasiosamente disordinato. Se i temi sono melodie non tutte le melodie sono temi! In tutto lo sviluppo del jazz vi è la tendenza sfuggire alla variazione tematica in senso classico, tendenza al ripudio del fattore tematico in favore di un “Atematismo” che trasferisce al “Diatonismo” il potere della generazione discorsiva! Nel jazz moderno non è quindi irrimediabilmente necessario parafrasare il tema, ciò è tanto occasionale quanto facoltativo, ci sono casi di grandi improvvisazioni tematiche moderne (Sonny Rollins, Renè Thomas), così come casi in cui il tema viene travisato ed superato (Warne Marsh, Dennis Budimir): in questo campo regna la più assoluta libertà. L’identità originaria del tema di per-sé non ha poi più alcun valore poiché ciò che prevale e domina è la sua riappropriazione-riproduzione idiomatica nello stile di genere. E’ vero che nel jazz il tema, in ordine di comparizione, precede l’improvvisazione, ma in esso và intravista la presenza retroattiva dei risultati di precedenti improvvisazioni: il rimando ad una comune tradizione. Si segna il territorio per riaffermare la logica e l’intenzionalità dell’improvvisazione, come se si dicesse riprendiamo dal punto in cui avevamo interrotto, ricreiamo con un tema il contesto poetico appropriato per proseguire il nostro discorso stilistico. Nella proposizione di un tema così riprodotto e ridotto in termini improvvisazionali, ciò che viene ripreso, variato e sviluppato non è tanto un mero andamento ritmico-melodico in senso stretto, quanto ciò che esso riesce a rievocare nei termini di quel clima stilistico che soltanto l’improvvisazione può determinare. In ultima analisi non è quindi il tema a determinare l’improvvisazione, ma l’improvvisazione a determinare il tema e la sua interpretazione! Alle prime battute dell’improvvisazione il tema continua a “cantare” nella mente dell’improvvisatore indirizzando in una direzione che ben presto si dissolve in favore del diatonismo. Lennie Tristano: “Io improvviso, non sono un compositore nel senso usuale del termine. Ogni volta che mi siedo al pianoforte creo della musica diversa. Nella mia carriera al massimo ho buttato giù delle note per i musicisti dei miei complessi perché potessero suonare i temi. Improvvisare per me significa creare spontaneamente della musica nel linguaggio del jazz.” (F. Fayenz: “Lennie Tristano” pag. 50 ed.

78

Stampa Alternativa). Il linguaggio jazz è anche inconfondibile qualità della comunicazione, quella che fa riconoscere all’ascoltatore competente la verità di un jazz non mistificato, e dei suoi contenuti sociali: ”Ah, questo si che è vero jazz !”. Riguardo a questo aspetto così scriveva Luigi Pestalozza: “Una tale ricerca è stata al centro - e lo è ancora - della musica moderna: questo è il significato del fatto che ogni vero pezzo musicale del XX secolo - vero in quanto non mistificato – ha ricercato una nuova forma, perfino una nuova certezza formale. Così, ponendo al proprio centro la questione della forma la musica europea è diventata un fatto inevitabilmente sociale...” (L. Pestalozza: “L’opposizione musicale”, pag. 131, ed. Feltrinelli). “Certezza formale” che nel jazz è da ritrovarsi nel suo codice linguistico, e “ricerca formale” da ritrovarsi nell’intrinseco dinamismo dell’improvvisazione! La “dimensione processo” dell’ improvvisazione ha svolto un ruolo ontogenetico, dando un impulso pervasivo alla strutturazione del linguaggio, ed ha attraversato ogni tappa del jazz storico. E’ fuorviante ascoltare il jazz senza cogliere l’elemento unificante che fonde la strategia di produzione e (...consustanzialmente! ) le proprietà essenziali, semantiche e culturali, che gli conferiscono gli attributi di genere.“L’importante è notare l’esistenza di processi a fianco degli aspetti stabili delle forme simboliche musicali “ - “...una dimensione processo che è consustanziale alla loro modalità di esistenza” [Nattiez: ”Musicologia generale e Semiologia” p. 70, EDT].E ancora: “In generale, la mia tesi è che, se si vuole stabilire il valore della musica in una società ed in una cultura, esso va definito in rapporto alle attitudini e ai processi cognitivi implicati nella sua creazione...” (Blacking, pag. 71). Nel jazz anche composizione e arrangiamento portano in sé la morfologia dinamica improvvisazionale e strumentale: cioè il segno che conserva il tratto del processo generativo dell’improvvisazione strumentale, la “dialettica tra modello generativo e modello figurale” (Caporaletti, op. cit.). Ciò che scrive Umberto Eco a proposito della pittura di Pollok, si adatta benissimo anche al nostro concetto: ”..il gesto originale, fissato nel segno...ci riconduce all’intenzione dell’autore.” “...il gesto non rimane qualcosa di estraneo al segno..” “...adesione dei materiali immobili all’energia formante” (U. Eco: “Opera aperta” pag. 182 - Bompiani ed). Tratto trasferito nella composizione e nell’arrangiamento, come nel caso dell’approccio pianistico di Ellington alla condotta delle parti orchestrali “L’approccio pianistico di Ellington, comunque, avrebbe avuto conseguenze durature sulla condotta delle parti d’orchestra” (G. Schuller Op. cit. pag. 90 “Lo stile di Ellington: origine e i primi sviluppi”) .Non a caso la maggior parte le opere ricordate come cruciali nella storia del jazz, da “West and Blues” di Armstrong al “Lover man” di Parker, dalla “Freedom Suite” di Rollins a “Kind of Blue” e “Birth of the Cool” di Davis, o “Motion” e ”Subconscious Lee” di Konitz, (ecc.) essenzialmente non sono che: Melodie improvvisate. Riappropriazione e arrangiamento di temi Standards in veste idiomatico improvvisazionale. Codificazione (monodiche o polifoniche) dei risultati dell’improvvisazione in

79

composizioni originali. Ciò risulta con tutta evidenza un analisi filologica del jazz. Per “Standards” si intendono quei temi che, quando furono composti non avevano nulla a che vedere col linguaggio jazz; per “Originals” temi composti nell’idioma originale del jazz. Idioma melodico improvvisazionale impregnato di connotazioni afrologiche: dalla suddivisione ternaria del tempo al passo orizzontale, dall’accentazione forte del levare all’approccio bimetrico-bipolare, dal pensiero in crome alla spinta in avanti, dai suoni naturali ed aperti al suono individuale, dallo swing alla poliritmia (G. Schuller op. cit.) “la fusione tra suono e significato, tra valore convenzionale del suono ed emozione, accento di pronuncia.” (U. Eco op. cit. pag. 182). Connotazioni idiomatiche (forma) e strategia di produzione (processo) che sono intrecciate e indissolubili (questa‘consustanzialità ’ pare stia oggi stranamente sfuggendo alla musicologia revisionista del jazz!). La daltonia intellettuale (e spirito piccolo-borghese) tipica dell’ascoltatore che fruisce la musica solo nei suoi aspetti prevalentemente statici, geometrici e prefissati, antepone composizione, arrangiamento, abbellimenti, decorazioni e citazioni (aspetti oggi austeramente recuperati dalle nuove tendenze!) alla complessità della struttura melodica improvvisata, per lui inestricabile. Egli, non riuscendo a liberarsi dal tormentoso ed inconfessato sospetto di non capire il jazz, finisce col ridimensionarlo alla propria misura, accogliendone soltanto i parametri alla portata dei suoi limitati schemi interpretativi, cioè lo “stile di superficie” senza il “processo”, senza guardare ”... al di là del campo delle realtà date”, il campo delle “virtualità!” Lortat-Jacob [Nattiez, op. cit.]. La guerra allo standard, che pare sia stata dichiarata dall’attuale pubblicistica del jazz, ancora una volta denota l’atavico provincialismo di cui non riesce a liberarsi il jazz italiano che ancora risente, grossolanamente, del vecchio insolubile dissidio ottocentesco tra parole e musica: la difficoltà a concepire una musica senza parole. Diatriba che nella lirica ha contrapposto librettisti e compositori. Ciò avviene quando lo standard viene implicitamente e prevalentemente concepito come cantabile melodia a supporto di un testo recitato. Tema sul quale ri-disegnare, più o meno fantasiosamente, delle variazioni tematiche. In realtà invece dietro lo standard si nasconde tutta la varietà e la profondità del patrimonio armonico entro il quale si è radicato il linguaggio-jazz, da Armstrong a Parker. Senza lo standard questo linguaggio non avrebbe potuto articolarsi: lo standard-armonico ha svolto un ruolo ontogenetico e rigettare lo standard significa rigettare il jazz per intero! Ogni standard, o tipologia di standard, fornisce differenti casistiche di ritmi-armonici, cadenze, modulazioni, strutture, dai quali i jazzisti hanno preso le mosse ed entro i quali il jazz ha preso forma. Ecco cosa dice al proposito il trombettista Charls Tolliver: ”Io volevo soprattutto formare un mio stile che si basava sul two-five-one...noi musicisti per two-five-one intendiamo praticamente il Bop. Io volevo suonare Shavers, Gillespie e Clifford Brown interpretati attraverso la mia personalità, la mia sensibilità; ne è risultato uno

80

stile, il mio, che poi è stato condizionato dai tempi e vi si è adattato.” (Musica Jazz - Luglio 2008, pag. 31). Lo standard-armonico ha inoltre fornito al jazzista il territorio entro il quale codificare i risultati dell’improvvisazione nella forma di composizioni originali: gli originals.Tutte le volte che nel jazz ci si affranca da quel peculiare patrimonio armonico (che include ovviamente il suo opposto dialettico, la sua de-costruzione: il Free-jazz) si riscontra un depauperamento, un calo di senso e profondità, si finisce col naufragare nell’opinabile, nel relativo, nell’indeterminato, nell’armonia percepita non più come connessione tra unità lessicali, bensì come mera decorazione in un contesto che trascende la musica stessa e rimanda a qualcos’altro di cui la musica è solo una variabile dipendente e non strategica, una colonna sonora. Contesto nel quale beatamente si cullano gli “avanguardisti-regrediti-postmoderni”! Che poi la melodia-improvvisazionale sia la variabile strategica autonomizzata del jazz è comprovato dal fatto che gli strumenti guida, e più simbolicamente rappresentativi del jazz, non sono strumenti armonici né ritmici, bensì strumenti melodici come la tromba e il sassofono. Ciò risulta particolarmente vero per la chitarra moderna, la cui emancipazione è avvenuta, non a caso, proprio quando nel jazz si è trasformata da strumento ritmico-armonico in strumento prevalentemente melodico (horn-style!). Anche qui il revisionismo confonde le cause con gli effetti e inverte le variabili. La variabile afrologica ritmo-timbro è si irrinunciabile, ma è pur sempre il mezzo attraverso il quale si è realizzata la componente occidentale, ossia la melodia! Melodia che và scandita, accentata e punteggiata, secondo il parametro poliritmico afrologico, e in ciò consiste l’elementare insegnamento impartito in tutte le scuole di jazz! Qualcuno riuscirebbe a immaginare un jazz senza melodia? Sarebbe pura musica africana! Il caso di Max Roach costituisce la tipica eccezione che conferma la regola: un esperimento che, per quanto riuscito, non ha avuto seguito proprio perché, preso di per sé, è insufficiente a sostenere un genere musicale autonomo. Del resto, se così non fosse, tutto il jazz sarebbe diverso da ciò che è testimoniato dalla storia. Ciò rende l’idea della assurdità di certe pretese revisionistiche, e dell’ingenuità di coloro che se le bevono.: “Il jazz è una forma musicale occidentale contemporanea di cui l’improvvisazione è la caratteristica fondamentale” e la melodia “è il fulcro dell’improvvisazione” (John Sloboda” La mente Musicale”, Il Mulino 1988, pag. 277 e 227).

Conclusioni

L’attributo essenziale del jazz (il contenuto) può essere individuato nel senso, profondo, unico e peculiare, di una musica che è la risultante di tutti quei fattori che si è cercato sin qui di descrivere e narrare. La contaminazione tra le marce dell’esercito della salvezza inglese, gli alleluja sentimental-religiosi e la tradizione afrologica ha sì originato musica afro-americana, ma non si trattava di jazz: spirituals e soul music sono generi diversi dal jazz. A loro

81

volta il loro incontro col jazz è risultato occasionale e tutto sommato inconsistente per il jazz. Nei confronti delle musiche popolari nord-americane invece, canzoni, musicals, colonne sonore, standars, la tradizione africana ha effettuato una contaminazione per riappropriazione: a livello estetico queste musiche occidentali sono state trasgredite, divorate e antagonisticamente riproposte. Una vera e propria contaminazione non è mai avvenuta poi con l’estetica classica europea, salvo esperimenti poco significativi e che non hanno avuto seguito. Il Modern Jazz Quartet non costituisce certo un caso di contaminazione col classico europeo. Si è trattato essenzialmente di jazz afro-americano in senso stretto, condito di atmosfere e citazioni euro-colte assolutamente non-essenziali e secondarie, civetterie solo per accontentare il pubblico bianco ed europeo per fare cassetta: non ci può essere nulla di più afrologico di una improvvisazione di Milt Jackson! Per quanto riguarda la produzione musicale di George Gershwin, essa riflette: “...un unico atteggiamento compositivo: la dimensione spettacolare e commerciale di Broadway [...] In piena ‘età del jazz ’ in un periodo in cui l’idioma jazzistico esercitava un fascino irresistibile su molti compositori, Gershwin presentò il suo seducente saggio pseudo-jazzistico...’La Rapsodia in Blue ’.” (Utet, “Dizionario della musica e dei musicisti”). Il caso poi di Lennie Tristano e Bill Evans è emblematico di come il jazz sia riuscito ad assorbire e trasformare il ricco bagaglio armonico ed artigianale della musica classica senza intaccare la qualità-essenziale e distintiva del modo di sentire afro-americano. Qualità-essenziale che racchiude il dolore e la rabbia, la profonda saggezza umana e quella nostalgia del futuro che solo dall’arte povera degli oppressi poteva scaturire: lo spirito del blues! Prerogativa quest’ultima che è antitetica alle fanfare-fanfarone, retoriche e banali, delle musiche istituzionali e istituzionalizzate euro-colte, care a banchieri e generali, ministri e presidenti delle repubbliche borghesi! Spirito del blues tradito e dissipato dagli pseudo-jazzofili e jazzisti che oggi solertemente, senza remora né dubbio, si allineano con supponenza e tracotanza ai velleitarismi-performativi prescritti dal revisionismo storico (.. cosa avranno mai capito costoro del jazz?). Oggi esperimenti, di stampo revisionista, si stanno diffondendo, e si assiste così ad una invasione del jazz, da parte della vecchia eurologia premoderna che si ripresenta in vesti post-moderniste [contro-riforma, restaurazione musicale]. Qui emerge la discrasia tra un nuovo solo cronologico e una mancata, effettiva innovazione dei contenuti, o meglio una ‘innovazione ’ regressiva! Ogni restaurazione cronologicamente prevalente può sembrare una novità, ma la cronaca fa solo le mode, non fa la storia. Non vi è niente di più retrogrado di vivere nel terrore di essere retrò e dell’ “idolatria del nuovo in quanto nuovo”, come dice giustamente il prof. Zecchi, docente universitario di estetica: “Il nuovo può anche essere orribile, indecente, può essere fatto da un accozzaglia di babbei!” (TV-La7 - “Omnibus” del 23 - 02-08 - ore 8,30). In questi casi è necessario schierarsi in una militanza

82

difensiva per l’obbiettivo di creare una situazione favorevole e così, nell’opporsi alla contro-riforma, preservare e ridare impulso alla tradizione rivoluzionaria: “In certi momenti della lotta rivoluzionaria, le difficoltà prevalgono sulle condizioni favorevoli; in questo caso le difficoltà costituiscono l’aspetto principale della contraddizione e le condizioni sfavorevoli quello secondario. Tuttavia i rivoluzionari, mediante i loro sforzi, possono superare a poco a poco le difficoltà e creare una situazione nuova e favorevole;…” [ pag. 353] (Mao tse-Tung: ”Sulla contraddizione” Casa editrice di lingue estere, Pechino 1969 ). Per questo in Italia furono istituiti i “Conservatòri di musica”. Conservatòri tutt’ altro che conservatori poiché predisposti alla tutela delle conquiste dell’arte e della cultura. Il “...creare una situazione nuova e favorevole”, ad esempio, potrebbe equivalere a ciò che, come vedremo meglio, è stato sancito dal Congresso-USA nell’ 87: “...il jazz ha diritto di essere preservato”! L’attuale, conformistica ed unanime, negazione di ogni identità di genere e la celebrazione della contaminazione ad ogni costo, esternate acriticamente da chiunque voglia auto-referenziarsi come all’ultimo grido, trascurano il fatto elementare che se non esistessero le identità di genere, ovvero i soggetti stessi della contaminazione, quest’ ultima non sarebbe possibile: ”Se c’è omogeneità integrale, assenza totale di elementi opposti, non c’è contraddizione, non c’è movimento, non c’è vita, non c’è esistenza.” (Ernest Mandel ”Introduzione alla teoria economica marxista” Samonà e Savelli 1967, pag. 110); Senza i generi non può esservi neanche policentrismo e così le tradizioni (i generi) vanno conservate e il conservatorismo (dei generi) diventa il presupposto del progressismo (della musica) nell’unità degli opposti: “La totalità non esiste che per le parti, le parti non esistono che per la totalità” (Apostel; op. cit. pag. 19)! La totalità (la musica) non può esistere che per le parti (i generi) e le parti non esistono che per la totalità (la musica). La coesistenza di contraddizioni antagonistiche in arte è significativa proprio perché costante riproduzione e sovraesposizione di una situazione estremamente conflittuale e ambigua, che stimola nel fruitore una presa dei coscienza. Presa di coscienza dis-funzionale allo status-quo! Il Cavallo di Troia oggi utilizzato per revisionare ed assassinare le tradizioni è costituito da quella che si potrebbe definire l’ideologia della contaminazione, che il contrario del policentrismo! Una contaminazione che vuole livellare le parti (abolire i generi) in una sintesi nell’insignificanza: l’inter-classismo musicale! Oggi infatti sempre più spesso, dietro un apparente e liberale pluralismo di vedute, si nasconde in realtà l’universalismo vago e tendenzioso del prescrivere una musica per tutti i generi, ma in realtà figlia di nessuno, e omogenizzare i generi in questa fase storica, può nascondere soltanto quella forma di totalitarismo culturale ben nota come pensiero unico. La critica musicale dialettica comprende ed accetta la relatività delle cose, il cambiamento universale, l’esistenza di un infinità di soluzioni transitorie, di fenomeni ibridi, e rifiuta di erigere barriere assolute, non dimentica però che “...la relatività delle cose non è che una

83

relatività parziale” e che è necessario, a sua volta “relativizzare la relatività” (Mandel , op. cit. p. 114). Dal fatto incontrovertibile che possono esservi molteplici tappe intermedie tra i vari generi musicali, non bisogna trarre l’assurda conclusione di negare l’identità di genere! Mettendo in guardia contro uno sterile e vano eclettismo, non si vuole però perorare una preservazione forzata del jazz, bensì sottoporre al vaglio della critica le eventuali novità. Ora le novità si proiettano su due linee di tendenza:

1) Quelle che rientrano nei paradigmi del jazz;

2) Quelle che, avendo operato una rivoluzione paradigmatica, non possono più essere inscritte nel jazz, che è un genere musicale coi suoi canoni, i suoi contenuti semantico culturali e non “musica tout court”. Come le lingue parlate anche il jazz è un linguaggio, e se parliamo francese non ci si può venire a dire che parliamo inglese; così come non si può confondere, ad esempio, lo stile barocco col romanticismo musicale. C’è chi ha affermato: “Il jazz non è un genere ma un linguaggio!” (Stefano Bollani; E-polis - Mi; 16 - 11 - 07). Quando si parla, si parla sempre con un ben preciso genere di linguaggio, “se così non fosse per conoscere le lingue basterebbe saper parlare” (Gianni Gualberto). Il linguaggio [materia] senza genere [forma] è solo un’astrazione! (Identità di materia e forma). Anche quando si parlasse mischiando fra loro varie lingue, ciò non sancirebbe né l’abolizione di quelle lingue, né la nascita di una nuova lingua, ma solo una cosa: sincretismo! (La nascita di vere e proprie nuove lingue ha sempre richiesto processi della durata secolare!). E sincretismo significherebbe:“conciliazione mal fatta e confusa” (v. v. dizionario filosofico) tra la tradizione africana e quella americana. Vi sembra sia il caso del jazz? Come abbiamo già precisato con ciò non si intende svalorizzare il sincretismo (Conciliazione mal fatta? Faremo del nostro peggio, direbbero gli anarchici!) ma solo negare che il jazz, storicisticamente e filologicamente, sia sincretismo. Si potrebbe anche negare che il jazz sia un genere e tentare di dimostrare che è invece un aggregato-sincretico, peccato che i fatti dimostrino il contrario: e i fatti sono ostinati! La tesi che il jazz non sia un genere non è una novità: non è che altro che quel vecchio-arnese-riciclato della interpretazione ufficiale data dal fascismo (e cara ai vecchi poteri della musica classica). Se il jazz è quindi un genere, allora quel ‘jazz’ che oggi non corrisponde più ad alcun genere non è realmente Jazz! Nel voler far passare il jazz per sincretismo si compie il primo passo sulla strada la sua disintegrazione:

sincretismo = frammentazione del jazz = perdita di identità! Ciò non fa quindi che ricollegarsi alla tesi di fondo di questo libro: il revisionismo! Vi sembra forse che questo approccio analitico eriga degli steccati o che buttare il tutto all’interno di un calderone chiamato impropriamente jazz non sia piuttosto tendenzioso e pericoloso? Si potrebbe quindi prospettare che attualmente il jazz si delinei: da un lato proiettato verso un “jazz d’autore” con “opere organizzate e strutturate nelle quali l’ improvvisazione sarà circoscritta agli

84

interventi solistici” (Franco Fayenz ), ma questo è ancora jazz oppure si tratta dei nuovi generi di cui il jazz è solo una della tante componenti? Dall’altro lato, invece, esso risulti: “...dominato essenzialmente da rigidi schemi consumistici.” (Walter Mauro ” Storia del Jazz” Newton, pag. 87). Anche se la storia della musica non è certo priva di grande arte che ha fatto cassetta, questa arte però non è stata né concepita né condizionata, come nel caso della musica di consumo, al fine di fare cassetta, ma per realizzare delle autonome esigenze espressive le quali, a volte per intere generazioni, sono state incomprese prima di…fare cassetta! “Oggi la situazione è grave...Questa è la ragione per cui c’è quella stupida combinazione di jazz e rock, chiamata fusion, che secondo me è una cosa orrenda” (Lennie Tristano) [F. Fayenz “Lennie Tristano“ p. 51 - 52 ed. Stampa Alternativa ]. Quando Tristano affermò ciò non era ancora emerso con chiarezza che la Fusion potesse divenire un genere autonomo collocato a debita distanza dal Jazz! Tristano era solo giustamente preoccupato per future sorti del jazz! Ciò accade in un momento in cui la richiesta di questa musica da parte delle nuove generazioni è molto consistente e che, parallelamente, vede una disinformazione dilagante: “I giovani d’oggi hanno il pregio di non essere tra loro conflittuali ma hanno il difetto di essere profondamente ignoranti di tutto...gli studenti mi hanno riempito la testa di musica stupida! “ ( Prof. Carlo Sini, 15 marzo 2006, ‘Incontri filosofici ’, Società Umanitaria, Milano ). Una generazione manipolata e sviata, dominata dagli impulsi emotivi invece che dalla maturità dei sentimenti? “Secondo il concetto tradizionale lo strumentista, il musicista (e quindi l’uomo) risultano formati secondo i principi delle scuole strumentali ed artistiche. Sono la scuola della vita o la forza della tradizione musicale che consentiranno poi a questi principi di essere vissuti e interpretati come mezzi per un fine che li oltrepassa. Se però, come accade nella nostra società postmoderna, la tradizione è tendenzialmente sbriciolata, i principi della scuola lasciati a se stessi rimangono vuoti, rigidi e inutili e sono giustamente contestati rigettati dagli studenti, che alla fine possono diventare indifferenti nei confronti di un obbiettivo di maturità di questo tipo.” (“Insegnare uno strumento” EDT - Luca Bellentani, pag. 104); E così scrive Vittorino Andreoli, psichiatra e scrittore: ”...sento il bisogno subito di fare una distinzione e di parlare di ‘musica delle emozioni ’ distinguendola dalla ‘musica dei sentimenti ’. Sembrerà certamente schematico ma, per il mio punto di vista, e per il mestiere che faccio, è importantissimo separare le emozioni dai sentimenti. Le emozioni sono delle risposte immediate che diamo a stimoli, che possono essere di vario tipo: si può trattare di sollecitazioni visive, uditive, ma di qualsiasi natura siano, innescano una serie di reazioni che sono quasi automatiche - e dico quasi automatiche perché ci sono degli automatismi anche più semplici come quelli di chi avvicina un dito al fuoco e ritrae subito la mano. Insomma le emozioni sono degli automatismi di tipo cerebrale, però funzionano come è una risposta, oserei dire, fisiologica. I sentimenti, invece, presuppongono una forte

85

elaborazione, perché hanno a che fare con i legami, non con qualcosa di immediato, dunque, ma che implica invece una sorta di sviluppo: partono da un inizio a cui fa seguito una complessa sequenza. I sentimenti implicano una elaborazione molto più complessa, hanno bisogno del tempo e sono molto più articolati, comprendono esperienze come quella della nostalgia, di partecipazione, l’amore [...] sono convinto che gran parte di quella che noi chiamiamo musica leggera sia una musica delle emozioni. Allora possiamo dire che oggi i giovani sono più vicini ad una musica delle emozioni, e molto meno ad una musica dei sentimenti [...]. I giovani oggi consumano i sentimenti e sono alla ricerca delle emozioni. Questo lo dico per un motivo molto semplice: non è possibile vivere solo con le emozioni. Le emozioni non danno delle direttive, non danno strumenti di guida per portare avanti l’esistenza. A questo sono necessari i sentimenti ed è per questo che noi dobbiamo promuovere i sentimenti. Ecco perché non dobbiamo pensare di modificare, o persino prostituire la musica cosiddetta classica, per renderla più abbordabile [...] Quindi stiamo attenti nel voler mescolare i generi...” (“LA MUSICA E LA MENTE” articolo di Vittorino Andreoli p. 29 – 30: Atti del Convegno ”Giovani di oggi, musica di sempre ”Gioventù Musicale D’Italia” Milano 2002). E oggi negli Usa, il jazz è considerato musica classica afro-americana. L’attuale situazione musicale esigerebbe quindi risposte in grado di tramandare adeguatamente la memoria storica del Jazz. E’ con questo intento che il 23 settembre 1987 il Congresso USA sancì che il jazz: “raro e prezioso tesoro nazionale americano”…“ha diritto a essere preservato” (Risoluzione 57 approvata dal Senato il 4 - 12 - 87) . Ed è per preservare l’integrità del jazz che è sorto in America il movimento “neoclassicista” che rivendica per il jazz lo statuto di musica d’arte (“Musica classica americana”) debitrice non dell’Europa bensì dell’Africa (tradizione afrologica) movimento che, pur cogliendo correttamente il nocciolo del problema, si arrocca però su una sterile e anacronistica celebrazione del passato: una tradizione-tradizionalista, che l’esatto contrario delle tradizioni non-tradizionaliste, che riescono cioè a rinnovarsi mantenendo la propria identità. La storia procede per fasi alterne ed oggi ancora una volta, ma più pericolosamente supportato dalla tecnologia mediatica, l’oscurantismo persegue una rivincita sul progresso. Il nostro compito è quindi snidarlo e smascherarlo per perseguire una autentica innovazione della cultura e delle arti. In questo contesto una funzione determinante svolge la salvaguardia e la tutela delle tradizioni rivoluzionarie perché esse costituiscono le identità dei soggetti del pluralismo e i presupposti di un autentico rinnovamento. Quando il jazz nel suo sviluppo ha raggiunto, con il free, il punto nodale, si è verificata la sua dissoluzione, ha mutato natura e oggi si sta atomizzando nelle nuove musiche contemporanee. Pur tuttavia esso rimane una conquista rivoluzionaria, risulterebbe però forzoso ed un ingenuo ostinarsi a mitizzarlo come avanguardia perenne. E le grandi tradizioni sono oggi sempre più necessarie per non perdere il filo del discorso rivoluzionario, verità rivoluzionaria

86

censurata dalla falsa innovazione di regime, propagandata dai media e insinuatasi nel senso comune, le nuove generazioni sono la vittima designata di questa ingegneria sociale diffusa e conclamata. I generi musicali che da avanguardia sono divenuti tradizione, anche se privi di carattere antagonistico (“spirito vivente”: Schelling ), non perdono pero validità artistica o rappresentatività storica e culturale poiché “storicizzate”: ”...l’esecuzione di musiche anche lontane del tempo conserverà l’efficacia culturale propria di ogni opera d’arte classica, nel senso forte della parola.” “ ‘piccoli cicli ’ classici nascono si evolvono e muoiono all’interno del grande ciclo della musica occidentale. Ciò potrebbe far sperare che quest ’ ultimo non sia punto finito: che solo un ciclo minore si sia concluso, e che altri se ne possano aprire. Purtroppo non credo che questo ottimismo trovi, nell’esperienza d’oggi, un fondamento. [...] Dunque, se le cose stanno come il pessimismo suggerisce, per puntare ancora su un’azione culturale della musica non rimane che rivolgersi all’esecuzione di musiche passate, non alla rivelazione di musiche nuove. Questo non significa che l’efficacia formativa non sia pur sempre quella di un arte attuale, perché l’interprete è a sua volta un artista , non un semplice esecutore. Piuttosto c’è da augurarsi che gli interpreti non abbiano inibizioni a mostrarsi originali, purché resti fermo che originalità non significa arbitrio. [...] Questo fatto ci dice che l’arte della musica non sarebbe morta quand’anche fosse ormai incapace di rigenerarsi in nuove forme compositive. Ma occorre che gli esecutori stessi abbiano fiducia nella propria creatività, sapendo che a garantirla non basta la pur necessaria abilità tecnica.” “Dal Jazz, tuttavia, non può dirsi sia nato un nuovo ciclo musicale, [...] ”. (Vittorio Mathieu, ordinario di Filosofia Morale, Università di Torino, Accademico dei Lincei; articolo ” Musica senza parole”, Atti del Convegno: ”Giovani di oggi, musica di sempre ” Gioventù Musicale D’Italia” Milano 25 -10 - 2002, pag. 26 ). Molti musicisti ed appassionati hanno difficoltà a rendersi conto che il jazz non è più avanguardia ma tradizione, accogliere questo semplice fatto viene vissuto da loro quasi come una smentita psicologicamente destabilizzante, col rischio di reazioni aggressive, tifoseria e faziosità, non pensando invece che l’accettarlo nulla toglierebbe al loro legittimo interesse per le avanguardie musicali e le nuove tendenze post-jazzistiche. Il loro ostentato amore per il jazz potrebbe invece esplicarsi e concretizzarsi, oggi più che mai, nella difesa di questa tradizione, la quale è invece da loro liquidata come roba-vecchia! “L’avanguardista-regredito-postmoderno” attacca invece i puristi e, non volendo sentire ragioni, cerca di screditarli facendo leva sui luoghi comuni più in voga, che noi tutti ben conosciamo: artefatti elucubrati sulle manipolazioni revisioniste. In tutto il mondo oggi esiste una corrente musicale minoritaria che, per quanto scollegata e composta da cani sciolti, annovera musicisti tanto creativi quanto misconosciuti che, operando in ogni stile del jazz, producono una musica attuale, pregnante e carica di senso, corrente minoritaria che avrebbe tutti i requisiti per dare vita una militante corrente di pensiero neo-modernista.

87

I movimenti culturali nelle arti figurative e letterarie non rappresentano certo una novità, non si capisce come mai, per quanto riguarda il jazz, essi siano sempre stati accolti con diffidenza e scetticismo, risultando così alla fine scarsamente incisivi! Questo approccio neo-modernista si fonda su di una metodologia radicata nella più autentica tradizione meticolosa e minimalista del jazz, che è la ricerca di uno stile personale organizzato in un sistema di fraseggio, è proprio con questa risorsa che, da Satchmo a Ornette, il jazz si evoluto. In ciò consiste la realizzazione più complessa da attuare ed essa è oggi sistematicamente elusa dall’indole propriamente pratica e calcolatrice degli artisti. Goethe affermava: “Decisivo è il fatto che per poter creare qualcosa bisogna essere qualcuno” - “E’ il carattere individuale dell’artista che gli attribuisce la sua importanza agli occhi del pubblico e non i trucchi del mestiere resi possibili dal suo talento” (Szigeti: ”MarxVivo” pag. 339 – 340 – Mondadori). Così il filosofo induista Svami Prajnanapada: “Crescere, significa superare quello che siete oggi. Fondatevi su voi stessi. Non imitate. Non pretendete d’aver raggiunto lo scopo e non cercate di bruciare le tappe”. E ancora il pianista be-bop Hank Jones: “...ci vogliono almeno vent’anni per definire un proprio stile personale sia come strumentista sia come improvvisatore...A me ne sono serviti sessanta di anni, per definire il mio stile. Bisognerebbe dirlo ai giovani musicisti di oggi.” (‘Musica Jazz ’, 1 - 2006 – pag. 21). Tutti i grandi del jazz hanno costruito il loro sistema, da questo punto di vista ogni jazzista è in realtà un filosofo, cioè un grande costruttore di sistemi. Sistema che ha a che fare con quella sostanza ultima che trascendendo l’apparenza del mondo sensibile, solo la musica può rispecchiare: il mondo né mentale né fisico di qualità e relazioni (Bertrand Russell). Non quindi quelle fredde relazioni logiche prive di calore umano, o senso del blues, così come rappresentate dal senso comune, bensì, come abbiamo già detto, quella razionalità che, protesa verso una sempre maggiore autocoscienza e libertà spirituale, nasce dal vissuto umano nella storia ed esprime quelle dinamiche affettive che agiscono nella presa di coscienza e nel superamento dell’alienazione. Sollevare oggi, in pieno post-modernismo, queste questioni, equivale a parlare col diavolo di acqua santa, tirarsi addosso cioè tutto l’astio ed il livore di chi, incapace di armonizzarsi con se stesso e con la storia, ha nella vita solo una missione: rimuovere e distruggere fanaticamente tutto ciò che rievoca e mette a nudo la sua impotenza piccolo borghese! Il jazz è quindi un arte eminentemente anti-borghese, un esperienza quindi che non può e non deve essere “passiva contemplazione del mondo interiore dell’individuo, ma che si è sempre situata nel quadro dei rapporti sociali, esperienza che deve attivamente e vivamente prendere parte alle lotte dell’epoca” (Szigeti:” Marx Vivo” pag. 340 – Mondadori). Lotte che oggi comprendono l’opposizione militante al revisionismo e all’interclassismo culturale che non riconoscendo le differenze tra le “classi” musicali, cioè i generi e le forme, afferma una musica che è solo quantità amorfa. Lo stile personale degli strumentisti innovatori ha svolto

88

un ruolo trainante nella storia di questa musica e oggi può contribuire a conservare, trasmettere, aggiornare e diffondere il jazz come tradizione viva e creativa, come dice Franco Ferrarotti: “La tradizione non è tradizionalista“ (“Istituzioni di sociologia” www. Uninettuno. it).

[Giovanni Monteforte]

Bibliografia

La maggior parte della bibliografia si sviluppa nel corso del testo! La seguente bibliografia è relativa alle sole prime pagine:

[Rocco Musolino “Marxismo ed estetica in Italia” - Editori Riuniti]

[*G. Reale “Storia della Filosofia Antica” V - ed. Vita e Pensiero]

[Abbagnano” Dizionario di filosofia” Utet.]

[Fredric Jameson,: ”Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo” ed.Garzanti]

[Umberto Eco ”L’opera aperta” Tascabili Bompiani]

[Aldous Huxley “Saggi sull’educazione” ed. Armando]

[*Davide Sparti: “Il Corpo Sonoro” Il Mulino]

[Jean-Jacques Nattiez “Musicologia generale e semiologia” EDT] ).

[Giovanni Monteforte “Guida pratica dell’improvvisazione Jazz” ed. Playgame Music]

[*Herbert Marcuse ”Saggio sulla liberazione” ed. Einaudi]

[John Sloboda: “La Mente Musicale” ed. Il Mulino]