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Pietro Spellini 2014

Agraria Definitivo

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Pietro Spellini

2014

... A quelli che mi chiamano

nonno e a quelli che mi

chiamano ancora “Profe” ...

Presentazione

Questo libro riporta alla mente cose belle e care, rende nitidi i

ricordi di un tempo che sembra terribilmente lontano.

Tempi di responsabilità assunte in prima persona, tempi di

intrapresa, tempi di maniche rimboccate e del piacere delle cose

ben fatte. Tempi di partecipazione, di amicizie durature, di lealtà,

di speranza. Tempi di valori e principi solidi che permettono di

entrare nel merito delle questioni, di riconoscere il vero dal falso,

di muoversi nelle zone grigie senza perdersi e senza paura.

Tempi diversi da ora, fatti di procedure che a volte

deresponsabilizzano, tutelano la codardia, riducono lo spazio di

libertà ed ostacolano l’esercizio di quel sano buon senso che ci ha

fatto diventare uomini ed ha creato benessere diffuso.

Questo è tempo di tornare indietro per poter andare avanti,

costruendo un futuro su basi più solide, durature, lungimiranti,

insomma più rispondenti all’anelito di felicità che c’è in ognuno

di noi.

È un libro che non è rivolto solo a chi, in quei tempi portava i

calzoni corti ma a tutti. A tutti infatti è rivolta la sapienza celata

nel racconto di fatti vissuti in prima persona e che l’Autore

sintetizza scrivendo: “Sono molto convinto che una parte di

quello spirito, adattato ai tempi, sia la medicina indispensabile

per uscire brillantemente dalla crisi di valori in cui siamo

precipitati da qualche anno”.

Adriano Tomba

Segretario Generale Fondazione Cattolica Assicurazioni

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Con il Patrocinio dell’Istituto di Istruzione Superiore “Stefani-Bentegodi”

È con piacere che accolgo la richiesta del prof. Pietro Spellini, docente di Scienze Agrarie e Direttore “emerito” della sede di Isola della Scala, dell’Istituto Professionale Agrario, negli anni che vanno dal 1960 al 1980 circa

Il prof. Spellini ha insegnato con la stessa carica ed impegno che traspaiono nelle pagine di questo libro.

Non è un caso che questa scuola abbia saputo conservare nel tempo, pur rinnovandosi, la sua capacità di accogliere studenti provenienti da gran parte della provincia di Verona, mantenendo aperti quei confini che diventano invisibili quando ci sia, come nel nostro caso, comunanza di storia, di intenti e di valori. La scuola professionale agraria è in grado ancora oggi di rispondere al meglio alle sfide richieste dal mondo del lavoro, contribuendo allo sviluppo del territorio con un’offerta formativa che sa tenere il passo dell’innovazione tecnologica e proporre agli studenti una didattica attraente, capace di integrare i saperi teorici e quelli operativi. La testimonianza portata in queste pagine avrà molto da dire sull’esperienza di vita e di lavoro che la scuola ha potuto regalare agli studenti, che in quegli anni l’hanno frequentata.

Grazie per il contributo di umanità, solidarietà e vivacità intellettuale che con grande competenza hanno contraddistinto il lavoro svolto da un insegnante capace e innamorato del proprio ruolo!

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Auguro quindi che queste pagine possano contribuire a far conoscere una parte di storia relativa alle tradizioni, allo spirito di amicizia e goliardia che hanno contribuito a sollevare tante famiglie dalle difficoltà economiche e a “traghettarle” nel mon-do moderno.

Prof. Lauro Bernardinello

Dirigente Scolastico Istituto Istruzione Superiore “Stefani-Bentegodi

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L'Agraria degli anni ruggenti

Dal 1951 abitavo a Verona, in Valdonega, vicino a me abitavano due famiglie di insegnanti, i bambini erano poco più giovani di me ma si faceva combutta. La strada finiva subito dopo le nostre case e non c'erano automobili, perché in quegli anni non ce n'erano e le poche in circolazione non avevano ragione di salire una strada senza uscita.

Le case erano tutte con giardino, avevamo quindi una serie di territori di nostra pertinenza. Potevamo correre indisturbati da un giardino all'altro senza problemi.

In quegli anni ho conosciuto il papà di Marina e Nini, prof. Stefani, perché in quel momento per me era solo tale. Gli anni sono passati e il gruppo si è diviso prendendo ciascuno la propria strada.

Un giorno, dopo la laurea in ingegneria, mi chiama il prof. Stefani, preside dell'Istituto Professionale per l'Agricoltura (l'agraria), per chiedermi se andavo ad insegnare da loro. In quel momento non sapevo che scuola fosse, ero impegnato in mille cose ma tutte legate all'agricoltura, ed ero convinto che uno che avesse studiato ingegneria e si mettesse ad insegnare era quantomeno povero di iniziative.

Il prof. Stefani non era tipo da mollare una idea tanto facilmente, aveva iniziato gli studi sotto Francesco Giuseppe,

La mia Agraria

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essendo originario di un'isola vicino a Trieste. Era diciottesimo di diciannove fratelli, aveva una buona autonomia come preside ed era convinto che scegliendo persone competenti e appassionate del settore avrebbe trasmesso agli allievi un buon insegnamento.

Il suo primo scopo era di educare dei giovani non solo a diventare uomini ma anche imprenditori, secondo i principi etici oggi spesso dimenticati.

La correttezza, la parola data, la serietà nel lavoro, erano i principi su cui si basava la cultura rurale del tempo. Anche i mediatori, noti per le loro furberie, una volta data la parola la mantenevano, pena essere emarginati dalla società.

Il preside Ettore Stefani con il presidente ing. Tosadori

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Dire oggi queste cose è come evocare ere lontane. Sotto i ponti è passata l'acqua del '68, cui tutti avevamo più o meno creduto, criticarne alcuni aspetti allora era come bestemmiare in chiesa, oggi, purtroppo, ne portiamo ancora le conseguenze.

Mi fece parlare col dr Sante Meneghelli di Villafranca, che conoscevo, e alle sue insistenze cedetti “ non più di nove ore la settimana su tre giorni”.

Fui travolto per tanti anni da quella scuola, fino a che gli effetti dei famosi “decreti delegati”, con il loro tentativo di introdurre “democrazia” che fu intesa come “uguaglianza”, cioè tutti uguali che si studiasse o meno, distrussero la sua autonomia e il suo spirito. I tempi cambiati e il nuovo pensiero “ugualitario” la resero molto simile alle altre scuole dove i professori arrivano da graduatorie nazionali, legate a punteggi derivati dai voti di laurea, dall’anzianità o dai carichi di famiglia e quindi, anche se bravi, nati in regioni spesso lontane, ignoranti delle colture e delle problematiche agricole locali.

Da allora tutta la scuola è cambiata, i decreti delegati con lungimiranza, avevano introdotto il consiglio di classe. Per qualche anno i genitori fecero la fila per essere eletti, poi, come talvolta capita alle iniziative nate buone, si convinsero che autorità volesse dire autoritarismo e che se loro figlio non studiava era solo ed esclusivamente colpa dell'insegnante. Se un ragazzo faceva lo strafottente in classe era perché aveva le sue ragioni e andava difeso a spada tratta dall'autoritarismo retrogrado degli insegnanti.

Oggi mi pare che si stia ritornando in equilibrio, lentamente e con difficoltà.

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Che cosa voleva dire, significava che il preside era responsabile dell'andamento dell'istituto stesso, in senso molto ampio del termine. Era affiancato da un consiglio di amministrazione, che in quel periodo era presieduto dall'ing. Tosadori, nota figura di imprenditore agricolo, presidente allora della Camera di Commercio. Membro di diritto era un ispettore ministeriale, che consentiva un immediato confronto con leggi e regolamenti.

Autonomia dell'istituto

L’on. Prearo in visita alla scuola

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Il preside poteva quindi muoversi, nell'ambito della legge, in accordo con il Consiglio e suffragato dall'ispettore.

Era da poco finita l'epoca dei corsi di avviamento al lavoro, paralleli alla scuola media, dove la fantasia e la competenza di Stefani, di Prearo, di Meneghelli e pochi altri aveva generato corsi che erano stati di stimolo al rinnovamento dell’agricoltura veronese del dopo guerra.

I corsi si facevano dove era necessario, una volta venne organizzato un corso a Rosegaferro, si iscrissero 20 allievi di ogni età. Dopo la seconda lezione il numero cominciò a calare vistosamente. Meneghelli si informò da dove venissero la maggior parte degli allievi, individuato nelle Gallinelle di Valeggio il luogo di maggior provenienza, subito, senza formalità alcuna, si spostarono i corsi alle Gallinelle, nella taverna di uno degli allievi e il corso proseguì numeroso fino alla chiusura. Talvolta i ragazzi portavano anche la “morosa”, perché era giusto che anche lei, che avrebbe condiviso la vita dell'azienda, partecipasse alle lezioni.

Il corso, per vivere, doveva interessare gli allievi, quindi gli insegnanti dovevano essere preparati e motivati a dare ciò che i ragazzi chiedevano in quel momento, o ciò che l'agricoltura dell'epoca chiedeva ai giovani, pena l'annullamento del corso stesso per la diserzione degli allievi.

Era il periodo della grande fuga dalle campagne e della legge per la formazione della proprietà contadina. Alcuni fittavoli o mezzadri facevano il salto di qualità, con il mutuo a 40 anni a tasso irrisorio e la liquidazione data dal proprietario per avere libero il fondo, comperavano la terra. Ciò comportava per quelli che restavano a gestire l'azienda, una grande necessità di conoscere sia la burocrazia dei Piani Verdi che le nuove tecniche agricole, per poter sopravvivere e progredire.

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Ogni paese aveva un’agricoltura diversa. Il nuovo istituto professionale figlio e padre di quel periodo si suddivise in sedi specializzate per coltura. A Villafranca il maggior interesse era per le drupacee e il kiwi, a Broglie di Peschiera sorse il primo corso per viticoltori e cantinieri, poi spostato a S. Floriano. A Zevio meccanica agraria e melicoltura, a Caldiero viticoltura, a Legnago e Menà di Castagnaro, meccanica e colture estensive, a Isola della Scala, sede centrale, c'era meccanica agraria e un corso femminile di coadiutrici aziendali. I ragazzi frequentavano perché trovavano risposte alle domande che si facevano in azienda. Il lavoro li aspettava a casa e li accompagnava per tutta l'estate.

Nessuno pensava che fosse proibito lavorare prima dei 16 anni e che, una volta compiuti, per andare a raccogliere mele, pesche o uva, fosse necessario l'autorizzazione del medico dell'Unità Sanitaria. Oggi pochissimi lavorano manualmente anche grazie alla demonizzazione fatta dai media su questo tipo di lavoro. L'attività più grande è arrivare al bar, alle slot machine e, alla notte, in discoteca che chiude la mattina e non a mezzanotte come in Svizzera, ma la Svizzera è civile solo quando serve, poi si piange se qualcuno va fuori strada con la macchina.

Raccogliere le pesche 15 giorni d'estate, è altamente usurante, frequentare discoteche piene di droga dalle 23 alla mattina no. Sic transit gloria mundi.

L'istituto professionale era figlio di quei tempi di furore creativo, ma in certo senso ne era anche padre. I giovani che sarebbero diventati i nuovi imprenditori, trovavano nella scuola insegnanti che conoscevano i problemi perché, scelti dal preside tra i laureati gestori di aziende, coniugavano la teoria

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con l'esperienza fatta sulla propria pelle a casa propria. Era come respirare voglia di fare. I sopralluoghi aziendali che consentivano di visitare le aziende migliori erano di stimolo a migliorare la propria.

Se vogliamo fare un parallelo con l'industria, l'agraria era quello che era stato a Verona, l'istituto tecnico Ferraris degli anni sessanta, il padre cioè della maggior parte delle aziende piccolo industriali che andavano sorgendo come i funghi.

L’agraria aveva un compito in più

Era cominciata la fuga dalle campagne e la città era un mito fortissimo per cui i più intraprendenti abbandonavano la terra per il paese o la città, iniziava lo spopolamento delle zone rurali ma sopratutto l'impoverimento dell'imprenditoria agricola. Chi rimaneva a casa in campagna era il meno “imprenditore”, si sentiva abbandonato ed emarginato, come colui che non aveva avuto il coraggio di fare il salto di qualità. Aveva bisogno di nuovi stimoli per sentirsi uguale agli altri. La crisi attuale della agricoltura della pianura padana, iniziata prima della grande crisi finanziaria mondiale, è infatti anche una crisi di imprenditoria. Raramente si trova qualcuno disponibile a pensare che i problemi legati alla globalizzazione richiedano uno studio per poter affrontare efficacemente i nuovi scenari, nella maggior parte dei casi si aspetta sperando che passi. Se una certa varietà ha dato soddisfazioni economiche in un periodo non si vede perché non lo possa dare ancora, senza tener conto che la manodopera costa molto di più degli altri paesi, che i parametri di confronto sono cambiati e quindi prodotti a poco valore aggiunto non sono compatibili con la

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nostra agricoltura così com'è organizzata.

Oggi si parla molto del rispetto del territorio, ma è un parlare fondato su un pensiero di origine cittadina e non rurale. La terra è vista più come elemento di svago e di rigenerazione per gli abitanti delle città o dei paesi, con boschetti e aree verdi di rispetto, che come fonte di derrate alimentari. Sono convinto, che nessun paese serio possa permettersi di rinunciare al minimo di produzione necessaria a non essere strozzato alla prima crisi internazionale. Se questo è vero, dovremo individuare aree dove si possa fare efficacemente agricoltura (distretti agricoli) eco compatibile senza dovere muoversi con le mietitrebbie tra i capannoni o le case. Vicino alle zone urbane si potrà ipotizzare una agricoltura mista tra produzione e servizi

Primi anni ‘60, il mulino aziendale con il castaldo e operai

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di sollievo ai cittadini. Dovremo quindi individuare zone agricole rispettate dalle strade e dalle urbanizzazioni civili ed industriali dove possano efficacemente svilupparsi aziende di dimensioni tali da aver costi comparabili con le aziende del resto del mondo.

L' agraria già dagli anni tra il 65 e il 75, per alcuni dei giovani rimasti in campagna ha rappresentato uno stimolo, li ha fatti sentire uomini come gli altri, imprenditori degni di rispetto per il loro lavoro. La maggior parte delle aziende migliori della provincia sono in qualche modo venute in contatto con la scuola.

Altra visita al caseificio del provolone

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Paola, che ho rivisto dopo molti anni, mi ha detto: “Vede professore all'agraria mi sentivo persona, si interessavano di me e dei miei problemi, nelle altre scuole che ho frequentato successivamente per diplomarmi, ero poco più che un numero”.

Il preside incentivava gli insegnanti ad avere un rapporto di amicizia con i ragazzi, ad interessarsi di loro anche fuori scuola, a non considerare tempo perso colloquiare dei loro problemi, pur rimanendo ciascuno fedele al proprio ruolo.

Villafranca, pescheti e vigneti

Ho incominciato a Villafranca, nelle stanze messe a disposizione dalla parrocchia, vicino alla canonica. Il gruppo degli insegnanti faceva capo al direttore di sede dr. Sante Meneghelli. Era un uomo che a prima vista non dava l'impressione di essere quel grande manager che era. Non vestiva elegante e poteva sembrare burbero, ma aveva un grande cuore e una grande generosità.

In quegli anni con l'on. Prearo, aveva avuto l'intuizione di far sorgere una cantina sociale a Custoza per valorizzare un vino bianco non meglio tipicizzato e allora sconosciuto fuori provincia, coltivato nelle colline moreniche. La cosa se detta così sembra facile, ma fatta casa per casa in lunghe serate di discussioni per convincere la gente della bontà della iniziativa, era un'altra cosa. Anche gli insegnanti della scuola erano coinvolti, Boranga, esperto enologo e Rigo noto perito agrario, esperto del consorzio per l'ortofrutticoltura, hanno fatto molti incontri serali con i viticoltori per convincerli della bontà dell’iniziativa. Gli insegnanti di religione dell'istituto: parroci

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di Custoza e sopratutto di S. Lucia dei Monti, avevano fatta propria l'iniziativa e facevano in parrocchia gli incontri con i giovani e gli agricoltori per poterla far partire. Sante era molto conosciuto in tutta la zona, e godeva della stima dei coltivatori.

Lo statuto e il regolamento della cantina era stato fatto a scuola in collaborazione con altri insegnanti tecnici e il dr. Bresaola. Il Bianco di Custoza, nato da una idea dell'on. Prearo è stato realizzato tra insegnanti della nostra scuola, Meneghelli come presidente della cantina e Boranga come enologo che lo ha “inventato”, messo a punto e lanciato, insieme al direttore

Lezioni di potatura con Giovanni Rigo

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Marchi. La scuola con i suoi allievi, viveva questa stagione di grandi iniziative. I ragazzi potevano seguire da vicino l'evolversi dei progetti. Quelli che avevano frutteto seguivano Giovanni Rigo che spiegava sia le nuove tecniche di coltivazione del pesco sia la possibilità di introdurre la coltura del kiwi arrivata da poco in Italia dalla Nuova Zelanda e che tanto utile ha dato poi alla zona dal Garda alla pianura.

Sante aveva il dono di coagulare attorno a sé persone valide, lasciava spazio alle iniziative senza intervenire continuamente ma solo con bonarie correzioni, voleva risultati.

Quando c'erano problemi, venivano subito affrontati e risolti, spesso davanti ad una tavola imbandita. Il preside Stefani seguiva continuamente l'evolvere della situazione. Voleva persone che fossero competenti e appassionate del settore, con Sante Meneghelli aveva scelto Gigi Fiorini perito agrario, in estate direttore del mercato delle pesche, Giovanni Rigo per la frutticoltura, Giovanni Boranga enologo, per le vigne e il vino e infine, per la meccanica, Gino Cunico capace di inventarsi le macchine che gli servivano. Gino aveva alcuni brevetti per modifiche apportate alle trebbiatrici di frumento ed era stimato e conosciuto da tutti gli agricoltori.

Mi soffermo su questo aspetto per illustrare quanto le modifiche apportate con i decreti delegati, per questi tipi di istituti, siano state fortemente deleterie. Il togliere la libertà di scelta e quindi la responsabilità di scelta ai presidi, a favore di una maggiore possibilità di accesso all’insegnamento per tutti i laureati Italiani, se può essere auspicabile per materie uguali per tutti come l'italiano, la matematica o le lingue, non lo è certamente per materie specifiche come la frutticoltura o la viticoltura, dove l'esperienza e la conoscenza della zona sono assolutamente fondamentali.

La crisi attuale della frutticoltura della zona di Verona

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(l'ultima indagine dell'ISTAT dice che le aziende sono calate del 35% dal 2008 al 2012) è stata anche favorita dalla mancanza di un riferimento certo come una scuola con competenze specifiche o un istituto di ricerca. In Trentino, in Alto Adige, in Emilia le tre scuole di agraria, affiancate da fondazioni per la ricerca con gestione autonoma, sono il motore dell’ agricoltura. Insegnanti e ricercatori sono riferimento per tutti gli agricoltori che considerano un prestigio essere allievi della scuola. Solo da pochi giorni a Verona si ritorna a parlare del necessario rapporto tra scuola e società agricola grazie alla iniziativa di Confagricoltura e dell'attuale preside; speriamo che prosegua.

Quando l'agraria era autonoma, i ragazzi, che a casa avevano azienda, si sentivano attratti da persone esperte, che conoscevano bene l'agricoltura della zona, conoscevano le varietà adatte e sapevano come potare una pianta per farla produrre nel microclima di Verona. In officina trovavano aiutanti tecnici esperti e appassionati al loro lavoro, rubati all'industria, che non temevano di sporcarsi le mani insieme a loro, per mettere a punto un motore che non partiva. Analogo discorso per la viticoltura, per gli ortaggi o per gli allevamenti. Tra i nostri ragazzi della bassa c'era ogni anno la gara a chi produceva più mais o più riso nella propria terra.

Mi sono subito integrato nel gruppo degli insegnanti, perché anch'io mi sentivo dei loro e i ragazzi ci seguivano. Si creava voglia di fare, qualche volta anche baldoria, ma sempre per attirare i giovani verso la voglia di imparare e di agire. Talvolta le lezioni vertevano nell'affrontare insieme i problemi dell'azienda che avevano a casa.

Nel programma erano previsti i sopralluoghi aziendali: diventavano un momento di confronto tra la propria realtà e le migliori aziende della zona.

Anche l'ora di religione non era più di tanto di rilassatezza.

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Don Luigi Adami a Villafranca, con la sua bontà, attraeva fortemente i ragazzi, tanto che molti, dopo tanti anni lo frequentano ancora.

Il parroco di S. Lucia dei Monti, insegnante e sponsor della Cantina, ha messo a disposizione negli anni un importante numero di bottiglie di bianco per gli incontri con i genitori per convincerli a mandare a scuola i giovani e non temeva di esporsi in tal senso anche durante le prediche.

Le lepri

Un giorno arriva Gino Cunico trafelato e chiede di essere sostituito. Era andato a caccia e, per sbaglio, aveva ucciso una lepre gravida. Accortosi del delitto, preso il coltello ha fatto nascere tre leprotti vivi ed ora aveva bisogno del colostro. I nostri ragazzi erano figli di agricoltori e una veloce indagine ci fece individuare una stalla dove una vacca aveva appena partorito. Gino è partito di gran carriera a prendere il prezioso colostro (latte dei primi giorni di vita) ed ha cominciato ad alimentare ogni tre ore, con il biberon di una bambola, i tre leprotti. La loro sopravvivenza era diventata motivo di orgoglio per tutte le classi. Al terzo giorno di sopravvivenza ci furono adeguati festeggiamenti in classe e, tra gli insegnanti, fuori classe, alla trattoria “dalla Maurina”, come era tradizione del dr. Sante Meneghelli.

Per tutto l'anno i ragazzi seguirono l'evolversi della situazione. I leprotti, liberi nel grande orto di Gino. accorrevano al suo richiamo, era veramente incredibile. Ogni tanto qualcuno scherzando parlava di una cena a base di lepre,

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ma doveva subito cambiare argomento perché Gino non ammetteva scherzi sulle sue creature. I ragazzi, avevano ammirato la passione con cui Gino accudiva gli animali e le sue lezioni in officina erano seguite e partecipate con la stessa dedizione che lui poneva per le lepri. Si era formata una grande famiglia, era lo spirito degli anni dal 60 al 70, quello che ha consentito il miracolo economico

Isola della Scala, bestiame e meccanizzazione

Dopo tre anni mi chiama il preside perché aveva pensato ad un corso di specializzazione serale in meccanica agraria, dalle

Potenti mezzi d’epoca

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19,30 alle 23,30, nella sede centrale a Isola della Scala e voleva me come insegnante. Non era facile abbandonare un bel gruppo per una nuova esperienza, ma, come il solito, la voglia di “nuovo” era più forte di me.

Il preside ci chiama perché era necessario trovare un numero sufficiente di allievi. Siamo partiti per il “reclutamento”. Alla fine degli anni sessanta nelle campagne si sentiva odore di cambiamenti, però nelle corti isolate il “nuovo” si intuiva ma non era ancora arrivato. Abbiamo preso l'elenco dei diplomati dall'istituto negli anni precedenti e siamo andati casa per casa a convincere genitori e ragazzi a fare un altro anno di scuola. Il passaparola ci ha aiutato e abbiamo raggiunto il numero. Internet non solo non era nata ma non era ancora nato chi

Italo con i ragazzi

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l'avrebbe inventata, ma nelle campagne le voci circolavano veloci. Dal portalettere al venditore di pesce che si muoveva con la bicicletta con davanti e dietro due casse di pesce, a quello che comperava le uova “il pulinarol”, rappresentavano un servizio informazioni rapido ed efficiente, a volte anche fantasioso.

Nel compito eravamo aiutati da Italo, aiutante tecnico e magazziniere, che seguiva i ragazzi che correvano in bicicletta e conosceva tutti nella bassa e muovendosi in bici partecipava a diffondere le notizie.

Silvino non voleva essere da meno e veniva con noi. Era il capo bidelli, suo vice era l'Assunta, in due avevano 12 stufe a carbone da accendere alle sei, perché doveva essere caldo alle

Silvino Zanon, si notino i pantaloni dei ragazzi fatti in casa

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otto, non ricordo che sia capitato di trovare le aule fredde. Dopo anni è arrivato il gas e sembrava un altro mondo, e, visto che il lavoro era molto diminuito, hanno mandato altri due bidelli e dato in appalto la pulizia dei vetri. (Potere delle circolari romane).

Dire è arrivato il gas allora voleva dire che c'era stato uno scambio di favori con il Comune. La scuola con i propri mezzi avrebbe trasportato anche gli alunni delle elementari e il comune avrebbe messo a disposizione della scuola le tubazioni e il materiale necessario a fare gli allacciamenti, naturalmente tutto il lavoro fu eseguito in estate dal personale della scuola. Dopo qualche tempo un’estate lo stesso personale della scuola mise in opera la fognatura dell'ospedale di Isola. Questo era il

Walter Fiorio con autisti e segretarie

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clima, si faceva quello che era necessario e basta.

In segreteria didattica c'era un personaggio di Villafranca, Walter Fiorio. Da giovane aveva giocato bene al pallone arrivando nelle giovanili della Juventus, un male augurato calcio nella gamba l'aveva costretto a letto per tanto tempo e così aveva concluso la carriera. Andare da lui per avere un elenco di ragazzi era come avvicinarsi ad un ciclone, si metteva a sbraitare che aveva tanto da fare ed era impossibile.... la mattina dopo l'elenco era pronto.

Villafranca a fine novembre talvolta è coperta dalla nebbia e mi sentivo preparato all'evento, ma a Isola della Scala, nella bassa, la cosa cambia. La nebbia era qualche cosa di solido di avvolgente, ti entrava nell'anima e dovevi essere dei loro per poterti muovere. Un cittadino, abituato alle strade illuminate perdeva subito l'orientamento. Finire lezione alle 23,30 e affrontare i primi nebbioni mi facevano arrivare a casa esausto. Le strade erano buie e si faticava a vedere le scarpe, poi pian piano la macchina era diventata come il cavallo che quando giravi il carretto per andare a casa, non avevi più bisogno di insegnargli la strada, la sapeva. Ricordo una sera avevo due fari di dietro che mi seguivano, mi sono fermato in corte Fornase a salutare mio papà e dalla macchina che mi seguiva ho sentito “avanti”, “sono arrivato a casa”, mi aveva seguito per la nebbia fittissima fino dentro la corte.

Una mattina Giorgio era ancora agitato nel raccontarci l’avventura della sera precedente. Era col pulmino quasi alla fine del giro e c’erano gli ultimi ragazzi. “C’era la nebbia e percorrevo la strada da Salizzole a Concamarise, sono entrato in un banco talmente fitto che non vedevo più niente, era come se ci fosse stato un lenzuolo sui vetri. La strada era deserta e non capivo se ero in mezzo o vicino al fosso, sporgersi dal finestrino non risolveva nulla. Un ragazzo si è offerto di scendere e mi ha

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guidato fino a quando abbiamo trovato la striscia bianca, poi arrivati a Concamarise la nebbia è tornata percorribile. Veramente mi sono sentito perso”. Oggi quelle nebbie si vedono molto raramente, anche perché l'illuminazione dei paesi e delle contrade è diventata molto più forte e la contrasta efficacemente ed è difficile percorrere molta strada senza trovare un lampione.

Si è arrivati così al primo giorno di scuola serale, con ragazzi di tutte le età, ma nel complesso la classe sembrava buona. A fine lezione con il Preside, Walter, Silvino e Italo tutti a mangiare il mitico risotto di vialone nano alla Torre, per festeggiare la partenza del nuovo corso.

Aula motori

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Il corpo insegnante del corso era formato da me per tutta la parte teorica e il prof. Faccini (poi Russo infine Piubel) per la motoristica e l'officina. Alla fine i ragazzi avevano una buona propensione ad affrontare nel giusto modo i problemi, una discreta base teorica e sapevano bene destreggiarsi sia in officina che con i motori, tanto che, quelli liberi dalla propria azienda, erano molto richiesti dalle concessionarie d'auto.

In campagna era necessario sapere tutti i mestieri, se si fermava un trattore o si rompeva un attrezzo non c'era nessun meccanico ad aggiustarlo e ci si doveva arrangiare. Oggi i trattori sono tutti muniti di computer di bordo che segnala ogni anomalia e solo uno specialista dotato di opportune attrezzature può mettere le mani su un motore.

Mi ricordo che c'era un ragazzo di Canedole che non voleva sedersi, il gruppo era vario e quello che mi interessava era che portassero a casa poche cose utili ma sopratutto la voglia di intraprendere. Dopo qualche tempo una sera l'ho affrontato da solo “vuoi capirla che sei come gli altri e devi stare seduto”.

“Profe a gò i mas-ci a ca' e domani mattina cominci alle quatter, se me senti me ndormensi” (Professore ho i suini a casa e domani mattina comincio alle quattro, se mi siedo mi addormento...”). Sono passati 40 anni lo rivedo qualche volta, fa sempre l'agricoltore ed è sempre impegnato con entusiasmo nel suo lavoro.

La fine del ciclo di lezioni era seguita dagli esami. Natural-mente venivano adeguatamente festeggiati. I ragazzi organiz-zavano una risottata in qualche osteria della zona e tutti insieme, finiti gli esami, si andava a mangiare il risotto.

Non era ancora stato inventato il risotto all'isolana con la sua festa che dura un mese, ma a Isola da tempo immemorabile, in tutte le trattorie si mangiava riso, e la rivalità tra l'una e l'altra

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trattoria era argomento di discussioni anche a scuola, perché ognuno pretendeva di avere l'ingrediente segreto che rendeva il riso più buono.

Da serale il corso di specializzazione è diventato diurno. I ragazzi facevano teoria con me, officina e motoristica con Russo e infine con Piubel. Sante Giovannoni, aiutante tecnico, era il mago della motoristica, procurava i motori alle demolizioni e collaborava con gli insegnanti per fare innamorare i ragazzi al loro lavoro. Dalla Valle era geloso della sua torneria che voleva sempre linda e pulita, ma con i vecchi torni manuali sapeva fare e insegnare cose egregie.

Un giorno, avevo una 132 diesel Fiat nuova, per quel tempo era innovativa, anche se consumava parecchio e raggiungeva i

Autorità in visita alla torneria

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120 solo in discesa. Giovannoni mi ha chiesto di poter far vedere un motore di ultima generazione ai ragazzi. Si sono messi tutti attorno al mio motore, e tra l'altro, hanno cambiato il filtro dell'olio. Per smontarlo era necessario usare una chiave a tazza. Con tanti ragazzi attorno la chiave rimase tra il motore e il carter inferiore. Dopo due giorni arriva Sante in classe a chiedere della chiave ai ragazzi, ma nessuno ne sapeva niente. Ho realizzato una cosa che non capivo, da due giorni sentivo rumori strani nel motore quando prendevo delle buche. Per molto tempo prendemmo in giro Sante così preciso e meticoloso, che, come i migliori chirurghi dimenticano le garze, aveva dimenticato la chiave nel motore.

In officina non avevamo l'acqua calda per pulirci le mani. Con i ragazzi ci siamo procurati una scatola di acciaio inox,

Aula di chimica

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lana di roccia, un tubo di rame e un vetro e abbiamo costruito un pannello solare che funzionava.

Il corso di specializzazione aveva molte ore con me e potevano diventare monotone. Quando li vedevo stanchi, chiamavo Silvino che accendeva il camino o la forgia e con “quattro fettine” di polenta e pancetta si sistemava fame, attenzione, e la voglia di andare avanti. Silvino era il “papà” di tutti, compresi gli insegnanti. La sua polenta e pancetta sul camino o il suo risotto di vialone nano erano mitici. Per il riso mi ha insegnato la strada della Pila Vecchia di Ferron, perché per lui era il riso migliore.

In quegli anni non era ancora stato codificato il risotto e in paese c'erano, per la festa del riso, nelle osterie, dispute anche accese tra le ricette delle varie trattorie dove per tradizione si mangiava riso vialone nano cotto in maniera diversa dai mantovani che lo facevano più asciutto. Ricordo la disputa più accesa per i tempi fu rosmarino si rosmarino no.

Silvino faceva i panini per i ragazzi e talvolta “ vieni qua che te ne do un altro, da giovane anch'io ho patito la fame”. Se il giovane non aveva i soldi per il panino ma vedeva che aveva fame, glielo regalava dicendo “quando hai i soldi me li porti”. Era reduce di Russia dove era sopravvissuto perché si era riempito le tasche di bucce di patate che all'inizio gli altri buttavano via. A scuola era il primo ad arrivare e l'ultimo ad uscire. L'orario era per lui certamente un optional. Quando poi la Cassa di Risparmio ci ha regalato la serra, non andava più a casa. Aveva una grande passione per l'orto e per la serra e la trasmetteva ai ragazzi insieme all'amore per la propria attività. Non gli interessava niente di essere bidello e non aiutante tecnico, la scuola era la sua vita, la serra la sua passione e la

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trasmetteva ai ragazzi, naturalmente anche faceva il suo lavoro di pulizia delle aule.

Ricordo che un anno non riuscivo ad attirare più di tanto l'attenzione dei ragazzi della specializzazione. Decisi di giocare pesante e proposi loro di fare il libro sul quale studiare. Doveva servire per loro e per i loro compagni dell'anno dopo. Dovevano farlo da soli, io ero lì per supporto e consulenza, ma l'iniziativa doveva essere loro. All'inizio non fu facile perché non riuscivano a capire che lo volevo fatto da loro, doveva essere il frutto del loro impegno. Io mettevo a disposizione i libri necessari a estrapolare ciò che sarebbe servito, ma lo dovevano fare da soli. Ci vollero tre mesi ma il libretto, poi ciclostilato, grazie all'intervento delle ragazze che studiando dattilografia, avevano battuto a macchina le matrici del ciclostile, era diventato una realtà e i ragazzi un gruppo impegnato. Giorni or sono, dopo quasi quarant’anni, a casa di Raffaele, uno di loro, diventato cieco per una malattia rara, ho trovato il libretto custodito con cura.

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Le coadiutrici aziendali

In quei tempi la scuola di agraria era esclusivamente per i maschi, ma a Isola c'era una sezione femminile. Portava, secondo lo schema culturale dell'epoca, un nome diverso e un indirizzo diverso. Le ragazze dovevano essere di appoggio e aiuto ai maschi nella gestione dell'azienda. In alcuni casi il primo amore nato tra classi vicine è sfociato in famiglie con prole. Nel programma delle ragazze figurava l'economia domestica e la dattilografia. Più volte all'anno facevano cucina, e mangiavano il cibo fatto da loro con grande invidia dei colleghi maschi. In dattilografia dovevano imparare bene a scrivere a macchina senza guardare la tastiera.

Coadiutrici aziendali, cucito e ricamo

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Dattilografia

Economia domestica. La cucina

La squadra degli insegnanti

Il preside Stefani cercava di trasformare in un gruppo di amici gli insegnanti e il personale della scuola. Incentivava le occasioni per trovarsi insieme attorno ad una tavola imbandita. Le serate di fine scrutini erano memorabili. Walter Fiorio, segretario didattico, mangiava dei piatti di riso che sembravano montagne, la compagnia era particolarmente allegra e il preside ci raccontava delle sue avventure, prima come topografo sul

Squadra di calcio insegnanti

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Carso Triestino o in val Tellina e poi, dopo la guerra insieme all'onorevole Prearo, a inventare corsi di agricoltura a Verona. Era un modo per fare gruppo e diventare amici, disponibili a sostituire un insegnante mancante e pronti a cercare nuovi stimoli per rendere più attraente e aderente al territorio l'insegnamento della scuola.

Memorabili in quel periodo le cene tutti insieme in campagna dal dr. Giuseppe Rossi. Si collaborava tutti ma la signora Rossi era certamente un'ospite perfetta. Un anno fu acceso, per far festa, un grande falò sull'aia. Il vino era corso generoso e il gruppo particolarmente allegro. Non ricordo chi lanciò l'idea ma il professore di ginnastica sfidò gli altri a saltare il grande braciere fumante. In molti si sfidarono fino a quando uno con i pantaloni nuovi mise il piede nel braciere, i tizzoni toccarono i pantaloni e la conseguenza furono due grossi buchi e il vestito da buttare.

La signora Rossi faceva le “ochette” piatto tradizionale della bassa oggi quasi scomparso. In autunno, quando si macellavano le oche, in un grosso vaso venivano posti i petti già cotti e riempito il vaso con il colà, lo strutto del maiale, che serviva da ottimo conservante. Così conservato il petto d'oca durava parecchi mesi e si mangiava sulla polenta calda o su una fetta di polenta abbrustolita sulle brace e fumante, in modo che il calore facesse colare lo strutto e riscaldasse la carne.

Altra corte accogliente era quella del dr Mercati, aveva trasformato la vecchia casa di campagna in una trattoria, gli insegnanti erano giovani e non avevano problemi di linea e i risotti scandivano gli avvenimenti della scuola.

Il dr. Giuliari era appassionato di ortofrutta, coltivava meloni e pomodoro in tunnel e portava i ragazzi della terza o della quarta a seguire le fasi principali della coltura nella sua

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azienda, anche fuori orario scolastico. Per chi era interessato le porte erano sempre aperte. Dopo qualche anno ha fatto una società per coltivare meloni con tre dipendenti della scuola che lavoravano in serra a tempo perso. Gli allievi seguivano con interesse le fasi della coltivazione che si è diffusa con profitto nella zona di Trevenzuolo ed Erbè anche grazie alla scuola.

Con l'arrivo della terza, per evitare che l'inserimento dei nuovi insegnanti rovinasse il clima, fu organizzato dentro la scuola un torneo di calcio anche con la squadra dei professori. Devo dire che eravamo giovani e non facemmo brutta figura. Vincemmo anche una partita contro gli allievi del terzo anno, non so se per merito nostro o per furbizia dei ragazzi, ma la storia registrò la vittoria.

Gli scrutini

Lo scrutinio delle classi del biennio era la fotografia della scuola. Ogni insegnante scriveva a matita sul tabellone le sue proposte di voto. Prima venivano trattati gli allievi che non avevano problemi, poi quelli con le proposte di bocciatura. I ragazzi non erano degli sconosciuti, la famiglia e l'ambiente di provenienza era noto, veniva esaminato a lungo caso per caso e la bocciatura arrivava solo in casi molto particolari. C'era sempre diatriba tra gli insegnati di italiano o matematica e quelli di materie professionali. Spesso i primi erano supplenti che avevano girato molte scuole e anteponevano la conoscenza alla capacità di gestirla. Conoscevano poco la scuola e quello che era il suo scopo. Noi insegnanti tecnici ritenevamo che conoscere un po' meno di matematica o di scienze per il lavoro

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che avrebbero trovato alla fine del corso, fosse meno importante dell'acquisizione di una mentalità e di una buona capacità manuale. Si impiegavano ore per ogni classe, e alla fine, raggiunto la quadratura del cerchio, tutti a mangiare il risotto all'Isolana.

I pulmini

La scuola era dotata di pulmini sia per le visite aziendali che per andare a prendere i ragazzi in luoghi di raduno vicino a casa e portarli a scuola. I trasporti pubblici erano concepiti solo per

Sante Giovannoni, la Carlona e il Ferguson

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Il supertaurus

Il pulmino di nuova generazione

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portare le persone verso la città ed era impossibile percorrere trasversalmente la provincia.

Il primo pulmino era un residuato bellico GMC senza cambio automatico. Con Stefani a bordo la scuola fece una gita in Germania alla Clas a vedere cotruire le mietitrebbie. Sull'autostrada tedesca il pulmino si ruppe. Chiesero aiuto alla polizia che transitava mentre cercavano di rimetterlo in moto, ma la risposta fu che se non lo toglievano di mezzo entro mezz'ora avrebbero multato i presenti. Sante riuscì a fare la riparazione in tempo di record e il pulman ripartì senza la multa.

Gli autisti impiegavano due ore quando c'era il sole a fare il giro (circa 50 km), voleva dire che i primi ragazzi salivano alle sei e gli ultimi scendevano alle 15,30. Quando c'era la nebbia i pulmini partivano la mattina per il giro, mezz'ora prima e arrivavano a casa la sera al buio, i ragazzi stavano in giro dieci o

Visite aziendali

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dodici ore ed era necessario incentivarli in classe il più possibile, perché era molto difficile chiedere loro di studiare dopo tutte quelle ore lontano da casa, e talvolta con i lavori in stalla che li aspettavano.

I pulmini ci consentivano anche le visite aziendali, previste allora nel programma della scuola. A Isola tre autisti facevano il giro, Bruno, Giorgio e Gelmino. Se uno aveva problemi era sostituito da Sante. Gli stessi pulmini, nelle ore di scuola servivano per i sopralluoghi. Per il mio secondo lavoro, quello dello studio professionale, ero in contatto con le migliori aziende agro industriali del veneto dove avevo le porte aperte, ne approfittavo per farle vedere ai ragazzi. Se il sopralluogo

Visite aziendali

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richiedeva l'intera giornata, talvolta veniva Silvino, si portava il riso, l'acqua perché diceva che per il risotto buono ci voleva l'acqua di Isola, e tutto il necessario per fare il risotto all'isolana, accendeva la bombola sotto il paiolo e risotto per tutti. Naturalmente la condizione era un minimo di attenzione a quello che andavamo a vedere.

Boiano di Campobasso

I sopralluoghi a volte erano complessi e lontani. Ricordo di aver portato una classe quarta a Boiano di Campobasso. C'era una azienda agroindustriale avicola organizzata in maniera

Gita a Bolsena

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innovativa, per quei tempi. Una collaborazione tra il pubblico e il privato, tra una azienda agroindustriale di Verona ora scomparsa e la regione Molise. Il mio studio professionale era stato coinvolto nella organizzazione e nella progettazione. Per qualche anno il mio collega era stato pendolare tra Verona e Boiano e avevo di riflesso partecipato alla realizzazione della grande azienda. La zona era priva di risorse industriali e una azienda integrata avrebbe portato lavoro diretto e indiretto per l'indotto che si creava, e quindi ricchezza in una vasta zona. Si trattava di un ciclo completo integrato dal mangimificio, agli allevamenti di galline da riproduzione, agli incubatoi per pulcini; dagli allevamenti di polli al grande macello con lavorazione delle carni. Era stata costruita una cella per surgelati innovativa con i muletti che andavano a raccogliere i pallet dei prodotti negli scaffali in maniera automatica, in quei tempi c'era in Italia solo una cella analoga in Lazio nella fabbrica dei gelati Motta. C'era anche un centro di sperimentazione sulle ovaiole. Era una occasione e l'abbiamo colta al volo. Come d'abitudine, alla parte tecnica si è sposata la parte culturale con la visita agli scavi della città romana di Sepino. Era una antica città fortificata posta sulla strada da Roma ai porti della Puglia, con un bel teatro, templi e sepolture importanti. È attraversata dal tratturo che portava le greggi dal Gran Sasso alle pianure della Puglia e la visita è stata particolarmente interessante. In viaggio sia di andata che di ritorno abbiamo fatto il punto della situazione e commentato quanto visto.

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Viterbese e Senese

Erano bei tempi per le aziende agricole, nel Veneto l’allevamento del bestiame da carne rendeva e i soldi giravano. Con un gruppo di amici comperammo una azienza collinare di 520 ha al confine tra il Lazio e la Toscana. Una parte era coltivata a grano, arando il terreno solo in discesa con un grosso cingolato quindi a costi improponibili, poi c’era il pascolo per le pecore, un po’ di mais nella piana e circa un terzo a bosco ceduo.

Gita a Siena

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Vicino a noi a Celle sul Rigo c’era un’azienda che allevava vacche chianine in purezza, aveva portato un toro di 16,80 qli alla fiera di Verona e i miei allievi l’avevano visto ed erano molto incuriositi. In classe abbiamo a lungo discusso della possibilità economica in Italia di fare la linea vacca vitello ed erano curiosi di vederne un esempio.

La scusa per una gita tecnico culturale c’era tutta. C’era da vedere il nostro allevamento di pecore da carne di razza Bergamasca e quello delle Chianine. L’alto Lazio e il senese completavano l’opera.

Loriana, unica ragazza della classe, mi ha confermato che nessuno di loro aveva mai superato gli Appennini, e una gita che facesse vedere un’agricoltura nuova per loro era interessante, le pecore erano quasi sparite dal Veneto ed erano una grande curiosità. Nella nostra azienda poi facevamo delle prove di sincronizzazione degli estri con l’università di Perugia. Si trattava di produrre più agnelli nel periodo di maggior richiesta del mercato. I montoni venivano immessi nel gregge dopo un periodo prima di quasi digiuno e poi 15 gg di mangiare molto buono, il così detto flussing. Abbiamo constatato che la maggior parte delle pecore alla fine del periodo erano in calore e, di sera venivano immessi i montoni con un tampone legato al petto e impregnato di inchiostro in modo che le pecore fecondate risultavano sporche di inchiostro sulla schiena e tolte dal gruppo.

L’allevamento delle Chianine da carne (la linea vacca-vitello buona parte dell’anno brado, e poi legate in stalla) era un’altra cosa improponibile dalle campagne veronesi. Per me è stato un piacere fare conoscere ai ragazzi una delle zone più belle d’Italia, abbiamo visto Orvieto, Bolsena, Acquapendente poi il giorno dopo, Siena e S. Giminiano.

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Ci siamo fermati a “dormire” ad Acquapendente. Sceglievo posti tranquilli per non dover cercare tutta notte i ragazzi, ma lì ho dovuto ancora una volta constatare che la mia piena fiducia nell’Angelo Custode è ben riposta. Per fare uno scherzo, due sono usciti dalla finestra del secondo piano e hanno passeggiato su una tettoia di traslucido fino alla camera del vicino. Tutti sanno quanto regge l’ondulux e la mattina anche loro erano spaventati, evidentemente l’Angelo Custode aveva dovuto fare gli straordinari.

Il senese li ha entusiasmati, tanto che un gruppo è ritornato più volte dopo la maturità a ripetere la gita con la morosa.

Mi piaceva parlare con loro delle vicende storiche dei paesi attraversati e dell’evolvere nel tempo degli stili delle costruzioni o del modo di dipingere che incontravamo nelle varie cattedrali. I ragazzi non perdevano una virgola, anche quelli che avresti detto meno interessati.

Ero e sono sempre più convinto che le cose diventano interessanti se fatte con passione e anche un giovane della bassa che allora raramente veniva in città e mai per vederne le bellezze, se opportuamente motivato diventa un estimatore delle cose belle di cui è piena l’Italia.

Cesena

Un anno siamo andati a Cesena a vedere una cooperativa e un istituto tecnico che faceva anche ricerca ortofrutticola. A me interessava far vedere la propagazione di piante di fragola ottenute dal meristema. All'epoca era una tecnica

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assolutamente innovativa che consentiva di ottenere piante virus esenti. C'era con noi Silvino, il fornello, la bombola, l'acqua perché lui diceva che senza la sua acqua di Isola della Scala il riso non veniva bene, naturalmente riso e condimento. Il risotto si doveva fare in tutti due i giorni. Dopo la visita all'istituto ci siamo portati sul mare. Abbiamo dormito sul mare e poi siamo andati a visitare Ravenna con le sue chiese e gli stupendi mosaici infine sulla via del ritorno, ci dovevamo fermare a Ferrara. Qui siamo stati colti da una grande sorpresa. Era il 9 maggio 1978. Siamo arrivati in città e il traffico era

Allievi sul ponte di Comacchio

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sparito, i negozi chiudevano le serrande e la gente camminava frettolosa per strada, si notava chiaramente un senso di paura. Senza far scendere i ragazzi mi sono informato: era stato trovato il cadavere di Aldo Moro. Abbiamo girato immediatamente il pulmino e ci siamo fermati a mangiare frettolosamente in aperta campagna, nella bassa veronese, lungo il Tartaro. E poi via a casa.

Le visite tecniche erano studiate in modo da abbinare cultura e tecnica. Nessuno dei nostri allievi era andato a visitare una città o una basilica, come fatto culturale. Erano andati a qualche fiera agricola o a vedere delle stalle o dei frutteti ma nessuno pensava a fatti culturali. Con gli altri insegnanti si organizzavano le visite in modo da far toccare con mano ai ragazzi che esisteva anche un modo diverso di vedere le cose, che la gente girava a vedere i monumenti perché rappre-sentavano le radici della nostra cultura.

La Spezia

Con una seconda e la specializzazione siamo andati a La Spezia, sponsor era il prof. Fiorio che era stato in marina. La visita era stata preparata con cura e con la collaborazione della Lega Navale Italiana. Avevamo il permesso di visitare le officine e le attrezzature dell'arsenale militare navale di La Spezia. All'arrivo il guardiamarina che ci doveva accompa-gnare ci ha informato che in rada c'era la Garibaldi, nuova ammiraglia della nostra flotta, allora porta elicotteri, ed era visitabile.

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Non tutti i ragazzi avevano visto il mare, pensate all'entusiasmo per la visita ad una grande nave da guerra altamente tecnologica come l'ammiraglia della nostra flotta. L'emozione aveva vestiti diversi, per i ragazzi già salire sulla lancia a motore che ci avrebbe portato alla nave era una cosa da ricordare, per Walter, che era anche stato imbarcato sulla nave precedente dello stesso nome, era un ritornare ragazzo.

Ho avvicinato il guardiamarina e ho chiesto se poteva fare una sorpresa ad un vecchio marinaio della Garibaldi, “ci penso io” fu la risposta.

La visita è stata bellissima sia per i ragazzi che per gli insegnanti, poter toccare con mano un timone o veder funzionare gli strumenti della plancia di comando oppure stare seduti davanti agli schermi radar dove apparivano i profili delle navi e delle alpi Apuane, per quei tempi non era cosa di tutti i giorni. La visita è durata qualche ora divisi in gruppetti in modo da poter seguire la spiegazioni degli accompagnatori. I ragazzi erano entusiasmati dagli schermi radar, dai sistemi di puntamento delle armi e dagli ascensori che portavano le munizioni ai pezzi o i missili alle rampe. Sedersi al posto di pilotaggio di un elicottero da combattimento li esaltava.

Alla fine siamo stati chiamati in coperta dal comandante con il citofono. Voleva conoscere un vecchio marinaio della Garibaldi. C'era il picchetto d'onore schierato. Walter che non si aspettava un così grande onore, piangeva come un bambino dalla gioia e dalla commozione.

In classe ne abbiamo parlato per tanto tempo, sia delle innovazioni tecnologiche, (dagli elicotteri da combattimento, ai missili intercettatori di cui avevamo solo sentito parlare nei film), sia della commozione che aveva preso un uomo che con il suo vocione era capace di far tremare tutte le classi.

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Il G.S. Italo

Italo Toaiari, magazziniere, era direttore sportivo di una società ciclistica di Bovolone, aveva una grande passione per la bicicletta e insisteva per creare un gruppo ciclistico nella scuola. La cosa sembrava complicata perché il ciclismo non era contemplato tra le attività didattiche, e dopo molte informazioni e ripensamenti si è ripiegato. Con il personale della scuola si sarebbe fondato a Engazzà, patria di Italo, il gruppo sportivo G. S. Italo, era la fine di ottobre del 1970.

Il professore di ginnastica Gianni Negrini appoggiò subito l'iniziativa e sorse il gruppo: il primo consiglio era formato da

Gruppo sportivo Italo

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me, Negrini, Fiorio segretario didattico e naturalmente Italo. Dopo più di 40 anni la società non solo esiste ma è diventata grande. I primi tempi era formata solo da allievi maschi della scuola, poi si è aperta alle ragazze, tanto che dopo anni, Eleonora Patuzzo nata al ciclismo nel G.S. Italo, ha vinto in Messico il 12/8/2007 il titolo di campionessa mondiale su strada.

Italo aveva scelto la maglia gialla per i suoi ed era bello incontrare per strada il gruppo degli allievi in allenamento con Italo in mezzo a pedalare con loro.

Da subito, il gruppo allievi ha partecipato a tante gare, sia in provincia che lontano, anche in Sardegna e a Palermo poi con il

La prima vittoria di Girlanda, nostro allievo

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passare degli anni abbiamo avuto il piacere di annoverare tra gli ex allievi della scuola corridori campioni italiani di categoria dilettanti e anche alcuni professionisti, due hanno partecipato al giro d'Italia, naturalmente sotto altre bandiere perché la nostra era ed è una piccola società di giovani e per i giovani.

Settimane bianche

In quegli anni frequentavo la Giovane Montagna di Verona. I miei allievi non sapevano che cosa volesse dire sciare e tanto meno settimana bianca. Ne parlai con il preside Stefani “ma certamente ah!!!! i miei allievi debbono avere tutto” Così ho

Il preside in visita a S. Martino

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preso in affitto per una settimana la casa della GM a S. Martino di Castrozza. Ho dovuto convincere i genitori e siamo partiti con il pulmino guidato da Bruno Perbellini che ci ha accompagnati. Il bagaglio, oltre che dagli effetti personali modesti, era composto da salami, cotechini, pancetta, riso Vialone nano e “tastasal” l'intingolo per il risotto, naturalmente insalata e verze, tutta roba che nelle aziende c'era. Gli sci non c'erano perché nessuno li aveva mai messi. Abbiamo perso una mattina a metterci bene d'accordo. I patti erano: si doveva sempre stare insieme, io facevo da mangiare e loro, a turno, lavavano i piatti e pulivano la casa. Dalle 15,30 alle 18 studio insieme.

È stata per loro una esperienza indimenticabile. Nessuno immaginava una stazione invernale con il turismo ricco. In città

Allievi al balcone

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lo sci si stava diffondendo velocemente ma non certo nelle campagne della bassa.

Nessuno aveva mai messo gli sci e allora si facevano insieme lunghe passeggiate nella neve, con spesso tuffi nella neve alta. Una sera siamo andati a pattinare sul ghiaccio in alta tenuta, con i mutandoni di lana sopra i pantaloni (per far vedere che avevamo la tuta) e i cuscini legati al sedere. Ci siamo mescolati ai turisti e naturalmente alle turiste giovani, i ragazzi si sono divertiti moltissimo ma non di meno gli spettatori.

I giovani erano increduli davanti alle splendide ville del paese e volevano essere fotografati davanti al cancello per potere far vedere che loro erano stati là.

Allievi sulla neve

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Alle tre si iniziava a studiare, era nei patti e i patti dovevano essere rispettati. Anche le pulizie di casa erano nei patti però erano fuori dalla mentalità agricola del tempo, erano lavori da donne e loro non le avevano mai fatte a casa. Con pazienza ma tutti hanno imparato a mettere in ordine e pulire la casa.

Un anno con noi c'era Italo e con lui e siamo andati in passeggiata fino al Passo Rolle, amava giocare con i ragazzi tanto che il ritorno era stato pieno di capitomboli nella neve. Dopo alcuni giorni a scuola telefona il fratello di Italo e gli chiede dove tiene la patente, in tasca certamente, non era vero, era arrivata per posta spedita dal passo Rolle. In mezzo ai ruzzoloni nella neve non si era accorto di aver perso la patente. Quella sera doccia per tutti e vestiti asciutti, avevano la neve fin dentro le orecchie.

Per qualche anno siamo andati avanti con le settimane bianche, riuscivano a trasformare in un gruppo di amici una classe di allievi, e il rendimento scolastico saliva nettamente.

Come tutte le cose della vita anche la specializzazione era arrivata al capolinea con l'arrivo del triennio. Ho incominciato così ad insegnare alcune ore nel triennio per completare con le mie conoscenze specifiche l'insegnamento di qualche collega,

Senerchia

Un mercoledì del gennaio 1981, avevo un'ora in una quarta, entro e i ragazzi subito mi chiedono “professore ci organizza una settimana bianca?”. Era da poco avvenuto il terremoto in Irpinia, (23 novembre 1980) sono rimasto un po' pensieroso e

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poi “mi meraviglio di voi, mi sarei aspettato, quando ci organizza un periodo di lavoro in Irpinia?. Alla vostra età l'attenzione per gli altri e l'altruismo deve essere una componente importante della vostra vita” poi ho iniziato a fare lezione come il solito.

Il venerdì sono rientrato in classe e avevo dimenticato l'episodio. Arrivo e li trovo tranquilli, il responsabile di classe, Bonizzato, mi chiama “ha ragione professore, ieri abbiamo fatto assemblea, abbiamo discusso a lungo e siamo con lei, ci porti in Irpinia”

Ero a bocca aperta. L'idea era bellissima ma non semplice, avevo famiglia e bambini piccoli ma mi ero incastrato, ero con le spalle al muro, dovevo almeno fare di tutto per organizzare qualche cosa. Mia moglie mi ha dato il via.

Allievi a Senerchia

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La prima cosa che dovevo organizzare era la logistica. La Caritas di Verona aveva una base a Senerchia, sinceramente non riuscivo a capire dove fosse. Anche l'Irpinia per me era una zona non bene definita sotto Napoli. Ho incontrato il prof. Scarsini responsabile Caritas di Verona, che mi ha incoraggiato, vieni e sarete molto utili, il posto in roulotte c'è, il mangiare anche.

A questo punto dovevo avere l'ok del nuovo preside prof. Remo Rigo. Era, giustamente, molto preoccupato per la responsabilità della cosa. Ne abbiamo discusso a lungo e poi in conclusione “ se sei così matto arrangiati”.

Il primo scoglio da superare era l'assicurazione. L'abbiamo interpellata e abbiamo concluso che l'attività poteva anche inquadrarsi nei sopralluoghi aziendali previsti nel calendario scolastico. L'assicurazione infortuni c'era.

Senerchia, me lo ripetevo come don Abbondio ripeteva “Carneade chi era costui?”

Non me la sentivo di organizzare tutto prima di aver visto con i miei occhi, l'entusiasmo è una cosa, il buon senso un'altra. Non ci dormivo la notte, infine ho deciso, vado a vedere. Ci siamo scambiati le ore con un altro insegnante per avere il sabato libero e il venerdì a mezzogiorno siamo partiti, io e Silvano Bonetti, mio amico, che ho convinto a venire con me per non farmi da solo quasi 2000 km in due giorni.

L'Irpinia ci si è presentata in tutta la sua drammaticità in una bella mattina di sole di mezzo inverno. Paesi distrutti e ruspe al lavoro per pulire dalle povere macerie le strade. Finalmente Senerchia.

Abbiamo scoperto quello che doveva essere un bel paesino sdraiato sul fianco di una amena collina, era distrutto. Il campo della Caritas, roulottes nel campo sportivo, era organizzato ed

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efficiente. La cucina e l'ordine erano nelle mani sapienti di una giovane suora, svelta e molto brava. Il lavoro di sgombero macerie veniva fatto dall'esercito, noi potevamo far riprendere il lavoro dei campi. Siamo tornati convinti che si poteva fare. Ora occorreva convincere un altro insegnante e un autista a venire con noi.

Non mi aspettavo l'adesione di Giorgio Lanza, autista, è una persona tranquilla che non ama le novità, nel suo pulmino non bisognava fare troppo chiasso e i ragazzi dovevano entrare con le scarpe pulite, però ha accettato subito. Giuseppe (Beppe) Carazza l'estroso insegnante tecnico, non ha avuto problemi ad accettare “purché non mi porti in mezzo ai preti,” non aveva detto in mezzo alle suore, ed ero a posto.

Il meno era fatto, ora era necessario parlare con i genitori. Il preside ha organizzato un incontro, mettendo avanti i rischi e le incognite di una tal iniziativa. Alcuni di loro ci hanno subito appoggiato ritenendo la cosa molto formativa per i giovani, alla fine tutti hanno aderito. Anche Lucia Testolin, unica donna della classe, ha chiesto di essere del gruppo.

OK si parte.

La stagione era andata avanti, gennaio era finito e cominciava qualche bella giornata. Abbiamo caricato il pulmino con ogni genere di conforto, dai salami, al “tastasal” per il risotto, dal vino e alle bibite. La mattina della partenza penso che il preside sia passato in chiesa a raccomandarsi al Signore, per non finire sui giornali, alcune mamme avevano gli occhi lucidi, io ho chiamato l'Angelo Custode perché era necessario si preparasse agli straordinari. Silvino Zanon, bidello anziano, era arrivato molto presto perché voleva essere il primo a salutare i ragazzi

Giorgio è stato al di sopra di ogni aspettativa, a mezzogiorno

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abbiamo fatto fuori un esercito di panini portati da casa in un parcheggio dell'autostrada del sole sotto Roma e il pomeriggio inoltrato siamo sbarcati a Senerchia.

Eravamo tutti armati di forbici per potare le viti e ci siamo subito informati dal sindaco Dionigi Sessa, in che cosa si poteva essere utili. Con il sindaco c’era Alfonsino Ferrara, una brava persona, ancora scioccato dall'evento, in paese c'erano pochissime case moderne ancora in piedi, il resto lo stavano portando alle discariche con gli autocarri dell'esercito. Le persone rimaste vive in paese, per la stragrande maggioranza vecchi perché i giovani erano emigrati, mangiavano alla mensa allestita dalla Caritas, vivevano in roulottes, attività zero e campagne abbandonate. Ognuno aveva i suoi lutti e la sua paura. Non era semplice introdursi in questa comunità.

Dopo cena con Alfonso abbiamo parlato di potatura delle viti. Abbiamo dato la disponibilità per la mattina successiva per fare la potatura ma alla condizione di lavorare insieme al titolare della azienda. Teoricamente si poteva fare ma non c'era nessuno del paese che si rendesse disponibile. Davano la disponibilità a noi di lavorare, ma loro volevano rimanere in accampamento. Abbiamo messo alle strette Alfonso. Noi andiamo in campagna solo a queste condizioni, due di noi e uno di voi.

Nessuno era più andato a vedere i magri vigneti di una terra difficile. L'acqua dell'acquedotto pugliese, rotto dal terremoto, aveva creato una grande frana e portato a valle una bella fetta di terreno fertile. Tra questa anche una parte di quella di Alfonso, che non aveva il coraggio di andare a vedere la terra conquistata metro per metro dai suoi avi, scesa a valle con il suo vigneto.

La discussione è durata a lungo, lui era si disponibile a farci lavorare, ma da soli e noi fermi sulle nostre posizioni o si lavora

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insieme o niente. I ragazzi erano preoccupati “profe non vogliamo creare problemi, qui le viti le potano in maniera diversa che da noi e dobbiamo anche imparare.” L'ora di coricarsi ci ha colto senza una vera conclusione ma con una vaga promessa.

La stessa sera tardi abbiamo sentito arrivare un autotreno, era belga e portava due casette prefabbricate.

“Ragazzi a letto in roulotte svelti che domani si lavora, almeno speriamo”

Di notte sono andati a scuotere la roulotte dove dormiva il prof. Carazza che è balzato fuori spaventato in mutandoni di lana tra le risa dei ragazzi.

Il mattino all'alba tutti pronti ma non c'era nessuno. I paesani dormivano nelle roulottes. Ho fatto un giro per il paese: di una casa, già sgomberata dai militari, era rimasto solo il pavimento della cucina e un anziano signore piccolo e tarchiato, lo stava accuratamente scopando e pulendo: “lo fa tutti i giorni, è il suo modo di rimanere attaccato alla vita” mi ha detto la suora.

Non riesco a dimenticarlo anche se sono passati tanti anni.

L'autoarticolato belga stava scaricando i prefabbricati nel campo sportivo e sono andato con Giorgio Lanza e due ragazzi a curiosare. Era il ricavato della colletta del loro paese, c'era il farmacista, il vigile e l'autista del mezzo. Balzava immediatamente alla vista il fatto che nessuno di loro aveva mai montato un prefabbricato. Li ho invitati a bere un caffè alla Caritas e ci siamo spiegati. Avevano tre giorni al massimo perché poi dovevano rientrare e non sapevano da dove cominciare. Ho preso tre giovani svelti, e mi sono ricordato che sono ingegnere. Dopo due giorni e mezzo, era tutto montato, hanno consegnato le casette al sindaco e sono partiti per il Belgio, con le lacrime agli occhi, dicendo ai ragazzi che

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non avrebbero mai dimenticato la loro disponibilità. Inutile dire che la cosa era reciproca.

Finalmente alle undici si presenta Alfonso e riprendo la discussione, acconsente di venire insieme nel vigneto alla condizione che ci vada anch'io. Aveva bisogno di un appoggio da una persona adulta per rivedere la sua terra rovinata dalla frana.

La sera c'era la fila della gente che voleva i giovani a lavorare. Il giorno dopo gli agricoltori di Senerchia ricominciavano a lavorare in campagna.

“Profe, son contento!” poche parole ma sentite, in fondo era una bellissima classe.

Il terzo giorno tutti al lavoro. Non vi dico che cosa sono riusciti a combinare con un povero asinello nel tragitto per il campo ... stendiamo un velo pietoso.

Giovedì pioggia. “Giorgio facciamo i turisti colti, qui vicino c'è Paestum”. Giorgio era sempre pronto e siamo partiti, il prof. Carazza ha brontolato un po', ma via tutti. Durante il percorso ci siamo rinfrescati la storia della Magna Grecia e la visita agli scavi, ai templi e all'affresco del tuffatore così preparata è diventata interessante.

Il tempo era cambiato ed era ritornato il sole. Sulla via del ritorno ho visto un gruppo di persone che raccoglieva cavolfiori da un grande appezzamento, “ragazzi stasera cavolfiori”. Ho detto a Giorgio di avvicinarsi per comperarne due ceste. Il capo, basso e ben panciuto, quello che nell'immaginario collettivo del nord è un caporale mafioso, vuol sapere chi siamo e cosa facciamo, gli spiego e lui apostrofa due persone in un linguaggio a me incomprensibile. Questi partono e tornano con due casse di cavoli veramente splendidi. Ho chiesto quanto

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voleva e mi ha risposto “voi siete venuti dal nord a lavorare per noi e per questo intendo regalarvi i cavoli più belli del mio appezzamento.”

Dentro di me, e poi l'ho esternato ai ragazzi, mi sono sentito un verme, l'avevo giudicato un caporale, si era rivelato un uomo di grande sensibilità.

Al ritorno il pulmino aveva un po' di sporco sui lati dovuto alla pioggia e Giorgio non sapeva dove trovare l'acqua per lavarlo, finché non ha avuto l'idea, il campo sportivo era pieno di buche con l'acqua piovana. Si mise a raccoglierla con cura per non intorpidirla e incominciò a lavarlo con quell'acqua tra la meraviglia dei ragazzi e della gente.

Nell'accampamento abbiamo trovato un ingegnere della Caritas tedesca. Era portatore di un gruppo di casette prefabbricate, di cui aveva le foto. Casette in legno, tipo bavarese, molto carine. Dalla direzione dei soccorsi a Napoli avevano scelto Senerchia, e lui stava aspettando il sindaco per avere la disponibilità dei lotti di terreno. Gli autotreni con il materiale sarebbero arrivati la sera successiva.

A cena ci siamo trovati allo stesso tavolo con il prof. Scarsini, il prof. Carazza, il sindaco e l'ingegnere tedesco. Problema: le casette erano come la manna ma non si sapeva dove metterle, perché avevano il carattere della stabilità e non della provvisorietà. In paese c'erano ancora le ruspe, fuori paese la proprietà era polverizzata e molti proprietari risiedevano all'estero. Alle ventitrè la conclusione del sindaco: domani facciamo il consiglio comunale e vediamo cosa si può fare. L'ingegnere era pessimista. Era esperto di zone terremotate, era da poco tornato dall'Algeria, dove c'era stato

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un terremoto con migliaia di morti, ma non conosceva la burocrazia italiana e in più di un paesino fatto da famiglie emigrate a volte da tanti anni, e quindi non solo non presenti, ma talvolta introvabili con la difficoltà di individuare gli eredi dei proprietari del terreno. In queste condizioni i tempi di esproprio e di messa a disposizione dei lotti erano eterni.

Il consiglio comunale si è riunito alle nove. A mezzogiorno con il tedesco che parlava in inglese e si sentiva spalleggiato da un collega italiano, siamo andati a vedere i risultati del consiglio.

Eravamo ad un punto morto. L'unica zona possibile era di un parente di un onorevole che abitava a Napoli (almeno così ho capito). In queste condizioni una occupazione d'urgenza senza un suo assenso preventivo era impensabile per il Consiglio Comunale, inoltre nessuno se la sentiva di affrontare l'onorevole.

Alle tredici ho lanciato con forza l'idea che l'ingegnere tedesco, minacciava di portare le case al paese vicino, oggetto di secolare rivalità, e che il Consiglio Comunale si prendeva la responsabilità, non individuando il terreno, di regalare a Calabritto le case dirette a Senerchia. Il tedesco mi guardava incredulo. Siamo andati a mangiare e alle quattordici è arrivato il consiglio con la delibera fatta. Le case dopo vent'anni sono state smontate per far posto alla piazza della nuova Senerchia e, restaurate, sono state donate ad una comunità dove sono ancora oggi.

Giorgio Lanza e Beppe Carazza seguivano intanto i ragazzi, la sera si faceva un riassunto della situazione. Ricordo uno che ci ha raccontato che c'era con loro un ragazzino, gli ha chiesto un lima perché la forbice non tagliava quasi più “e chi ce l'ha la

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lima”, “vai a casa a prenderla”, “e chi ce l'ha più la casa”. “Professore fino a quel momento non mi rendevo conto del dramma di questa gente, non c'era più la casa, le radici dell'uomo”.

Sabato siamo ripartiti per il nord, la maggior parte di loro non aveva mai visto Roma. A volo d'uccello abbiamo visto le cose principali, con il pulmino abbiamo fatto il giro dal Pincio al Colosseo, dal Circo Massimo a Piazza del Popolo, poi a piedi a Trinità dei Monti. Infine, grazie a mio zio, canonico di S. Pietro, abbiamo potuto vedere i giardini vaticani e i musei vaticani, con la Cappella sistina.

La sera, visto Orvieto e il lago di Bolsena dal pullman, abbiamo dormito ad Acquapendente, sulla strada di casa. Conoscevo un albergo accogliente e non caro. Evidentemente dormito è una parola molto grossa e non certo riferibile alla notte di Acquapendente.

Nelle lunghe ore in pullman ogni uno ha ricordato le difficoltà che ha dovuto affrontare e risolvere durante il soggiorno. “Professore a contatto con quella povera gente sfortunata siamo cresciuti, diventati più uomini, e ci siamo anche divertiti” la conclusione.

Durante le vacanze estive alcuni ragazzi sono ritornati a Senerchia. Avevano instaurato un ottimo rapporto con Alfonso, che è venuto a Verona a trovarli e li ha anche citati in una trasmissione televisiva dove era stato ospite. Hanno aiutato a montare un capannone prefabbricato, dono di un gruppo di imprenditori che si trovavano a pregare con fratello Vittorino a s. Giacomo di Vago, gli Amici di don Calabria. La comunità italiana in Belgio ha donato le macchine per il legno e i donatori di sangue gli impianti interni. Nel capannone è sorta una scuola per falegnami. L'Agraria aveva contribuito a far sorgere nel lontano paesino una scuola.

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Per anni il gruppo di amici che si era formato a Senerchia in mezzo anche a difficoltà e a contatto con una tragedia immane, si è ritrovato per ricordare, evidentemente davanti ad un piatto di risotto all'isolana fumante.

Ritorniamo a Isola

Il professore di officina Crosatti era superstizioso. Non passava mai nelle vicinanze dei cimiteri e chiamava il vino, rosso e non nero perché chiamarlo nero portava sfortuna. Un giorno decidemmo di fargli uno scherzo d'accordo con i ragazzi. Avevo avuto l'incarico dal comune di Villafranca di collaudare alcuni loculi del cimitero, prendemmo il progetto e lo nascondemmo nel suo cassetto in officina. Per molto tempo non volle più aprire quel cassetto, chiedeva ai ragazzi di aprirlo e ci metteva il registro solo dopo che era sicuro che non ci fosse null'altro. Lo scherzo mi costò una mangiata di riso dalla Triestina, naturalmente estesa a Silvino, Valter, Sante, Italo e mi pare ci fosse anche Piero Dalla Valle, titolare della torneria, dove insegnava ai ragazzi a fare cose egregie con vecchi torni da regolare a mano.

L'assistente di officina era Carlo, era stato il primo autista della scuola e aveva dato il nome alla prima corriera, la “Carlona” allora la si chiamava così. Era un vecchio GMC che riusciva a fare i 50 dopo 1 km di discesa, in compenso ci voleva la forza di Carlo sui freni per fermarlo e da fermo, senza servosterzo come era, era impossibile girare le ruote, il cambio necessitava di una robusta “doppietta” perché i sincronizzatori all'epoca non li montavano e scalare le marce era da professionisti, bisognava avere orecchio. Un giorno lo sento

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Villa Lebrect

apostrofare i ragazzi in officina nel suo italiano fiorito “ragazzi prendete la scopassora (scopa) e scopassate l'officina”.

Piero Dalla Valle e Carlo erano l'emblema di come intendeva la scuola professionale il preside Stefani. Erano i migliori operai della ditta De Togni Pozzi, ma su sua insistenza erano approdati alla scuola.

S. Floriano

Un giorno, ai primi anni settanta, mi chiama il preside Stefani e mi parla di fare una nuova sede a S. Floriano. Era una

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zona vocata alla viticoltura ma non ancora famosa come oggi, e l'istituto non aveva una sede adatta. Il corso di viticoltori era iniziato a Broglie di Peschiera, poi, per ragioni di baricentro e per maggior facilità di trasporto alunni si era spostato in una sede provvisoria a San Floriano, inglobando anche un corso che si teneva a Negrar. Andare a scuola in aule non adatte, messe a disposizione con lungimiranza dal sindaco, non dava prestigio e non era considerato importante.

A San Floriano c'è una villa veneta oggetto di un lascito e di una lunga disputa tra Provincia e comune, alla fine la Provincia aveva ceduto e metteva a disposizione la stupenda villa veneta abbandonata, la villa Lebrect e Stefani aveva bisogno di un

Laboratorio di enologia

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consiglio di un ingegnere dei suoi, per uno studio di fattibilità.

Il giorno dopo siamo andati a S. Floriano. La villa era in condizioni pietose, abbiamo discusso a lungo, poi, a tavola come era consuetudine, coinvolto il dr. Dario Boscaini, Stefani ha deciso che si poteva fare. Una parte sarebbe stata occupata dalla scuola, il resto da altri enti. La nostra parte richiedeva meno interventi dell'altra e aveva il grosso vantaggio di avere una grande cucina. Si potevano così fare la mensa per gli studenti, le aule e i laboratori. Stefani, come sua consuetudine, data la sua autonomia, aveva coinvolto nella scuola persone note del settore vino, Dario Boscaini a dirigere la sede, Boranga, enologo inventore del Bianco di Custoza, e il dr. Clemente Vassanelli enologo noto in tutto il Veneto, per

La quarta davanti a Villa Lebrect

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enologia e laboratorio. La cosa poteva avere un grande avvenire e si mise subito all'opera.

Dopo un anno la scuola per viticoltori e cantinieri, era nella nuova sede prestigiosa, in una zona che sarebbe diventata tra le migliori zone viticole italiane, e oggi con l'Amarone d'Europa e del mondo.

Boranga ricorda che si era sparsa la voce che nel sanatorio della Grola, abbandonato dalla provincia, dove tutti attingevano le cose ancora servibili, ci fosse una grande cucina attrezzata che poteva servire alla mensa. Una telefonata alla provincia, per non essere denunciati per furto, e dalla scuola sono partiti il direttore e un gruppo di insegnanti con un autocarro in prestito e sono andati a recuperare tutto ciò che serviva per la mensa. Era amore e dedizione alla scuola e i ragazzi vedevano e assorbivano. In quel momento nessuno si poneva il problema se una cosa del genere fosse di competenza degli insegnanti, degli aiutanti tecnici o dei bidelli, o di nessuno di essi. Se le norme sulla sicurezza lo consentissero ... Era da fare e basta. Naturalmente la sera tutti insieme a cena.

I ragazzi assorbivano questo spirito di iniziativa e lo facevano proprio usandolo nella propria azienda.

Un'altra volta era morto il padre di un allievo che aveva vigneto. In famiglia non erano in grado di potare le viti, la mamma doveva accudire altri figli piccoli. Senza pensarci due volte, la classe intera con gli insegnanti, è andata a fare “esercitazione di potatura” nella azienda del giovane risolvendo un grosso problema famigliare e facendo toccare con mano ai ragazzi un concetto fondamentale per l'uomo, la solidarietà.

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Correva l'anno 1975 e a Isola c'era una quarta di 38 ragazzi. Derivava da una terza di 42 provenienti anche dalle altre sedi. Il numero e l'origine diversa aveva impedito di fare “gruppo”.

Gli insegnanti della classe lanciarono una idea. Fare un periodo di full immersion nella sede di S. Floriano. Tre giorni e tre notti, il professor Carazza ha dato la disponibilità per tutti tre i giorni e ha vissuto con i ragazzi. Giuliari e Piccolboni hanno fatto lezione la mattina. L'argomento principale, viticoltura ed enologia.

Visita a una cantina

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Dario Boscaini, direttore di sede si è subito messo a disposizione. La cucina c'era, per i bagni ci si arrangiava con quelli della scuola e al terzo piano di villa Lebrect c'erano degli stanzoni che potevano servire da dormitori. Naturalmente per terra con dei sacchi a pelo.

La mattina lezione, a mezzogiorno e sera a turno, in cucina e il pomeriggio esercitazioni pratiche di potatura vigneti e visite a cantine della zona.

La sera i ragazzi, in combutta con i loro colleghi di S. Floriano, si erano attrezzati con uno stereo per ascoltare musica previo accordo sugli orari con il custode. In quei giorni c'era nella villa il concorso per il miglior vino della Valpolicella per quella annata. I giudici a fine lavori hanno ammesso anche i ragazzi ad assistere al concorso.

Sono stati tre giorni in cui si è dormito molto poco, ma il dover affrontare insieme le difficoltà di farsi da mangiare, dormire sul tavolato, lavarsi come si poteva, e soprattutto lo stare insieme controllati, per tre giorni consecutivi, ha ottenuto lo scopo e la classe è diventata un gruppo di amici che si trovano ancora dopo molti anni.

Nessuno degli insegnanti ha percepito straordinarie o indennità. Era da fare per migliorare la classe, Dario non si è preoccupato di evidenziare che non erano suoi alunni, e che questo avrebbe comportato una assunzione di responsabilità. Ogni uno ha fatto ciò che poteva e in quei tempi tutti ritenevano giusto agire così

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Legnago e Caldiero

Conosco meno le sedi di Legnago e Caldiero. Ricordo di una ragazza che abitava dopo Legnago in una casa molto isolata nelle grandi valli veronesi. Percorreva in bicicletta 5 km di argine prima di raggiungere il paese più vicino. Con il sole in primavera non c'erano problemi ma d'inverno con la nebbia che non ti faceva vedere le scarpe era un'altra cosa. Diceva che aveva paura, e tutte le volte che sentiva una macchina in lontananza scendeva dall'argine e si nascondeva. Talvolta non veniva a scuola, ma quando veniva era sempre preparata. Gli insegnanti sapevano e capivano, era il clima della scuola. Dopo il biennio ha proseguito gli studi e oggi è insegnante all'istituto alberghiero.

Il triennio

A Isola, c'era solo il biennio, ma Stefani non si accontentava. Sapeva cogliere il mutare dei tempi e saputo che il Ministero pensava a sperimentare qualche classe di triennio per diplomare agrotecnici insistette per averne una a Isola. I ragazzi sarebbero arrivati a Isola da tutte le sedi.

Se ne parlava da tempo ma da Roma non arrivava mai il via. Finalmente il corso, anche se con più di un anno di ritardo, partì. Un unico corso a Isola con i ragazzi che venivano da Villafranca, da S. Floriano o da Legnago per prendere il diploma di agrotecnico. L'Orlanda R. partiva tutte le mattine da Montecchio di Negrar al buio, arrivava a Negrar col motorino

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poi a Verona con l'autobus e col treno a Isola, evidentemente il ritorno era a sera, però aveva tanta grinta e ce l'ha fatta. Altri ragazzi venivano da Minerbe o da Villabartolomea, confluivano a Isola praticamente da tutta la provincia.

Dopo qualche anno le terze iniziarono anche a S. Floriano, alla terza di Isola erano iscritti più di 70 ragazzi e venne richiesto lo sdoppiamento. In attesa alcuni allievi di Villafranca dovevano prendere l'autobus alle 6,30 da Villafranca per Verona attraversare la città e poi la filovia della Valpolicella da borgo Trento, per S. Floriano. Il ritorno a casa era per le 18. Ricordo che Andrea mi raccontò che un giorno all'uscita da

Manifestazione degli allievi per la nuova scuola

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scuola, la filovia era in ritardo e l'ultimo autobus per Villafranca già partito. Non sapeva come fare per tornare a casa “Professore non conoscevo assolutamente Verona, non sapevo come prendere il treno e per fortuna ho trovato uno di Villafranca che conoscevo e mi ha dato un passaggio”.

Erano gli anni 70 i telefonini non erano stati inventati, e i nostri ragazzi di Villafranca, primo paese della provincia, non conoscevano Verona.

Una cosa era la richiesta di una nuova classe, una la concessione, il ministero era molto restio, non era ancora chiaramente affermata l'idea che fossero utili gli agrotecnici. Gli allievi, in appoggio alla richiesta, occuparono per giorni la

Il mitico risotto all’isolana di Silvino con Meneghelli, Stefani e Rigo

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scuola, pur facendo lezione, dormirono per giorni per terra nell'aula, fecero cortei in paese, articoli sul giornale L'Arena e continue istanze al Provveditorato e al Ministero per appoggiare la richiesta di sdoppiamento fatta dal preside, finché vicino a Natale, il Ministero cedette e si fecero le due sezioni.

L'avvento del triennio ha fatto evolvere la scuola, anche i tempi erano cambiati. Gli allievi avevano tutti la licenza media e già dal biennio si pretendeva anche un certo rendimento scolastico. Chi usciva non era più solo un operaio specializzato, ma un agrotecnico e quindi doveva possedere una serie di nozioni indispensabili per inserirsi nel lavoro che talvolta era visto come impiego, più che come lavoro. I tempi cambiavano e la scuola cambiava. Lo spirito degli anni 70 se ne andava nei libri di storia e nella nostalgia di chi l'aveva vissuto.

Il sistema scolastico provinciale in quel periodo è stato razionalizzato, concentrando nei centri più grossi tutte le scuole. Di conseguenza sono stati razionalizzati e ristudiati i trasporti pubblici e quindi il trasporto alunni è passato dai pulmini della scuola ai pullman del trasporto pubblico.

Lo spirito

La vecchia agraria era diversa dalle altre scuole. I ragazzi che vi arrivavano erano diversi. Gli insegnanti delle medie dicevano ai genitori: “Suo figlio è molto bravo, lo mandi al liceo,... suo figlio non è adatto al liceo lo mandi a ragioneria,... suo figlio non è adatto a studiare se proprio insiste nel mandarlo a scuola lo iscriva all'agraria”.

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Era un modo barbaro di selezionare, quasi razzista, non si andava per attitudine, per passione, ma quasi per classismo. L'insegnante di scuola media non avrebbe mai detto al figlio del medico o del farmacista, non sei adatto al liceo e vai all'agraria.

Per fortuna molti dei nostri ragazzi venivano perché attratti dal tipo di scuola, perché a casa avevano l'azienda agricola da coltivare e cercavano di aumentare la competenza, che, con i tempi in cambiamento, era indispensabile.

Un anno insegnavo in una seconda, era una classe mista e numerosa. C’era un giovane cresciuto molto in fretta e robusto. Quando si muoveva riempiva la classe.

Aveva bisogno di farsi notare, secondo me era l’ultimo dei suoi problemi, ma per lui era come l’aria che respirava. Si metteva in piedi, negli intervalli, ad imitare la cantante Ferri, e aveva le sue fans tra le ragazze. Questo ragazzone sempre effervescente era un problema per la disciplina della classe.

Un giorno, per essere a suo modo al centro dell’attenzione anche degli insegnanti, si è procurato una vecchia grossa siringa, l’ha messa in una scatoletta di cartone e ha attirato l’attenzione di una ragazza. La giovane subito ha parlato con me “professore ‘Mario’ (evidentemente nome di fantasia) vuole drogarsi”.

A questo punto ho capito che dovevo fare qualche cosa, ne ho parlato con Silvino e Italo, e insieme abbiamo deciso di capire perché questo ragazzo aveva così bisogno di attenzione. Italo conosceva il suo parroco. Siamo partiti per un paese della bassa al confine con Mantova e siamo andati dal parroco per conoscere la famiglia.

Agricoltori con una grossa stalla, il papà sempre impegnato con il bestiame e la mamma casalinga. Il giovane avrebbe

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voluto andare con il papà in Francia a comperare le bestie ma era considerato il bambino, il piccolo di casa.

Il giorno dopo il parroco ne ha parlato con la mamma, ma purtroppo non si sono accorti che il ragazzo era nelle vicinanze e ha sentito tutto.

Si è arrabbiato con me perché lo considerava un tradimento, una intromissione nella sua vita privata e anche aveva paura della reazione dei suoi a suon di botte.

Non è andata così, il papà ha capito, lo ha portato con se in Francia e lui si è sentito valorizzato, come gli altri della famiglia, le cose si sono aggiustate e l’anno è passato tranquillo.

Il reclutamento

Fino a metà degli anni 70 si faceva il reclutamento degli alunni. Il “reclutamento” consisteva nel prendere l'elenco, fornito dalle segreterie delle scuole di ogni paese, dei promossi della terza media che non intendevano proseguire gli studi, andare casa per casa a convincere prima i genitori e poi i giovani sulla necessità di studiare.

Quando si arrivava in una corte, il papà era nei campi o in stalla. Si parlava con la mamma che prendeva le tazzine belle per offrirci il caffè in attesa dell’arrivo del papà. La mamma voleva sapere tutto e non era facile convincerla, convinta lei, il gioco era fatto, anche se formalmente si aspettava il capo famiglia. Il primo colpo d’occhio sulla corte ci faceva capire quanto era necessario educare prima che insegnare. Qualche corte era veramente trasandata e il giovane sarebbe stato così

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anche all’inizio della scuola. Il papà che sempre aveva sentito parlare della scuola, difficilmente era contrario che il giovane studiasse più di quanto aveva potuto fare lui.

Chi non continuava gli studi era molto spesso chi abitava lontano dai paesi in corti isolate. Entrando nelle case e parlando con i genitori, gli insegnanti conoscevano i ragazzi, ma anche capivano il loro modo di affrontare i problemi e il contesto sociale da cui provenivano. All'arrivo a scuola quindi non erano degli sconosciuti, poco più di un numero, ma persone con alle spalle delle famiglie con il loro ambiente. Anche per l'allievo, l'insegnante non era uno sconosciuto che faceva una lezione e poi se ne andava, ma uno con cui aveva colloquiato, aveva scambiato idee.

I primi giorni di scuola erano dedicati a motivare i ragazzi, a convincerli che non erano sottosviluppati ma solo adatti a studi diversi.

Ricordo i mitici anni '60. Le classi erano formate da alunni per la maggior parte senza diploma di scuola media. Chi era stato bocciato in terza, chi aveva smesso in seconda o chi non aveva iniziato per niente le medie ma aveva superato i 15 anni. Fino a Natale si lavorava per fare gruppo. Era necessario portarli allo stesso piano.

Lo scopo che volevamo raggiungere era di evitare che diventassero analfabeti di ritorno, e sopratutto, imparassero un mestiere bene, e il modo di affrontare i problemi.

Ricordo Giorgio Piccolboni, insegnante di lettere, che faceva leggere il giornale in classe per incentivare a capire che esisteva anche qualche cosa di diverso dal giocare al pallone o accudire le vacche in stalla. Era uno stimolo alla critica di ciò che si leggeva e a leggere per essere informati.

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Piano piano le ore di officina, iniziate con la lima, passavano alla saldatura e alla torneria da Dalla Valle e diventavano ore interessanti. In motoristica riuscire a smontare e rimontare completamente un vecchio motore, che alla fine doveva avviarsi, pena la bocciatura, diventava sempre più coinvolgente e faceva capire che per fare qualsiasi cosa era necessario impegnarsi, volerlo fare. Con volontà e tenacia si arrivava a far avviare il vecchio motore.

Conclusione

Con il passare degli anni e l'evolvere delle scuole sempre più verso studi teorici, e l'equiparazione dell'istruzione professionale ai licei o agli istituti tecnici, si è maturato lo spirito di questo tipo di istruzione che doveva essere supporto per l'agricoltura delle rispettive Regioni di appartenenza. Alcune Regioni frutticole e viticole hanno ovviato affiancando le scuole con Fondazioni a gestione autonoma che consentissero di avere aziende agricole gestibili a disposizione dei ragazzi e sopratutto l'autonomia necessaria a fare le ricerche richieste dalla agricoltura della zona.

Gli esempi più noti che conosco per la loro capacità di essere vicini agli agricoltori sono a Ferrara, la fondazione fratelli Navarra con la scuola dello stesso nome, a Trento la fondazione Edmund Mach presso l'istituto di S. Michele all'Adige, a Bolzano la fondazione Lainburg preso l'omonimo istituto, in Piemonte a fianco delle scuole è sorto il CRESO,

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struttura pubblica gestita da un consiglio di amministrazione a maggioranza formato dalle organizzazioni dei produttori (O.P.) e organizzazioni sindacali. A Verona è stata fatta la fusione tra l'istituto tecnico e il professionale.

Da anni è stato chiuso il Consorzio per l’Ortofrutticoltura, infine da quest’anno si è definitivamente chiuso l’Istituto Sperimentale di Frutticoltura e Viticoltura che tanto era stato di riferimento e stimolo per la frutticoltura provinciale. Da dieci anni si discute su che cosa farne. Intanto sono sparite in 5 anni il 35% delle aziende frutticole.

In questo ultimo anno c’è una presa di posizione contro questa politica da parte delle organizzazioni sindacali e delle

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Intitolazione dell’istituto al prof. Stefani

OP su iniziativa dei produttori di kiwi e pesche che si sentono abbandonati dalla Regione ma le cose politiche regionali si muovono troppo lentamente, a mio avviso, per poter fermare l’ormai rapido declino della frutticoltura veneta.

Nella scuola non era tutto oro, a volte, nonostante gli sforzi, i risultati erano carenti. In ogni modo, dopo tanto tempo, posso dire di non aver mai incontrato un allievo che non si sentisse legato a quella scuola. Certamente non ricordava più le cose studiate, o meglio non studiate, ma era vivo il ricordo del clima che aveva vissuto, il modo di approcciare i problemi che ha consentito a molti di diventare imprenditori non solo nel settore agricolo per cui avevano studiato, ma anche in settori completamente diversi. Uno infatti è diventato il re delle calze sportive, un altro ha una fabbrica di colori, alcuni fanno gli insegnanti, uno è l'attuale presidente di Confagricoltura Verona...

Come esempio dello spirito della scuola riporto esattamente una mail arrivatami il 19/2/2014 da parte di Monica una ex allieva

Buona sera profe ho appreso poco fa che don Giuseppe Facci, indimenticabile insegnante di religione dell'Istituto Professionale di Isola si è spento. Sono andata a Negrar presso la casa del clero a fargli visita pochi mesi fa, e nonostante le evidenti sofferenze, si è ricordato di me e della mitica II B.

Non è una bella notizia e le assicuro che la tristezza in questo momento prevale. Il ricordo però è nitido e riesce a strapparmi un sorriso pensando alle persone che come don Giuseppe o

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altri insegnanti, hanno riempito la mia vita “di cose buone” negli anni adolescenziali così difficili.

È da un po’ che non ci sentiamo, negli ultimi 12 mesi la mia vita è cambiata..... ho finito da poco la chemio e radio, ora sto facendo terapie, ma tutto sommato sto benino.

Spero di poterla rivedere presto.

Ho scritto queste righe per far conoscere quello spirito alle nuove generazioni. Era il tempo del fare e non dei diritti, dell'intraprendere e non del posto fisso, inamovibile.

Nessuno si chiedeva se toccava a me o a te, si faceva e basta.

Sono molto convinto che una parte di quello spirito, adattato ai tempi, sia la medicina indispensabile per uscire brillantemente dalla crisi di valori in cui siamo precipitati da qualche anno.

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Si ringrazia per il sostegno

FONDAZIONE CATTOLICA

ASSICURAZIONI

INDICE

Presentazione

Patrocinio Istituto “Stefani-Bentegodi”

L’Agraria degli anni ruggenti

Autonomia dell’Istituto

L’Agraria aveva un compito in più

Villafranca, pescheti e vigneti

Le lepri

Isola della Scala, bestiame e meccanizzazione

Le coadiutrici aziendali

La squadra degli insegnanti

Gli scrutini

I pulmini

Boiano di Campobasso

Viterbese e Senese

Cesena

La Spezia

Il GS Italo

Settimane bianche

Senerchia

Ritorniamo a Isola

S. Floriano

Legnago e Caldiero

Il triennio

Lo spirito

Il reclutamento

Conclusione

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