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GABRIELLA DI PAOLA DOLLORENZO LINGUA E GRAMMATICA ITALIANA A.A. 2012-2013 DISPENSE DEL CORSO 1

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GABRIELLA DI PAOLA DOLLORENZO LINGUA E GRAMMATICA ITALIANA A.A. 2012-2013 DISPENSE DEL CORSO

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INTRODUZIONE AL PROGRAMMA DI LINGUA E GRAMMATICA ITALIANA

Il programma d’esame può essere così diviso:a) La norma dell’italiano: fonologia, morfologia, sintassi, lessico (SERIANNI 2006).b) Le strutture dell’italiano: la lingua come comunicazione e come espressione (SERIANNI

2006)c) La storia della lingua italiana: l’evoluzione linguistica del latino da Augusto a Carlo

Magno (MIGLIORINI 1960 e DURANTE 1981); la genesi dei volgari italiani e la storia del toscano da Dante a Manzoni (MIGLIORINI 1960, DURANTE 1981, BRUNI 1984, ARCANGELI 2010).

d) La creatività linguistica: pensiero, lingua, linguaggio, creatività (GARRONI 2010).e) L’italiano contemporaneo: (DURANTE 1981, ARCANGELI 2010).

Pertanto i tre approcci allo studio dell’italiano riguardano la storia, la norma, l’uso. Essi non si contraddicono ma si integrano tra loro: la storia dell’italiano è la chiave di lettura della sua norma grammaticale e della sua evoluzione semantica; la norma dell’italiano, inteso come comunicazione ed espressione, deriva dalla nostra tradizione culturale e letteraria ed è portatrice di identità nazionale; l’uso apparentemente sembra opporsi alla norma ma in realtà la completa realizzando quella comunicazione o “comunione tra eguali” teorizzata da Manzoni.

INDICE DELLE DISPENSE - La storia e la norma dell’italiano………………………………………………………p.3- Caratteri fondamentali del latino classico.…………………………………………….p.4- Cronologia del latino volgare………………………………………………………….p.4- Semantica cristiana………………………………………………………………….…p.9- Il mutamento tipologico e la sintassi del periodo……………………………………..p.9- Valutazione storica del latino volgare…………………………………………………p.12- La genesi dei volgari italiani…………………………………………………………..p.12- La cultura dell’Alto medioevo…………………………………………………………p.13- L’Indovinello veronese…………………………………………………………………p.16- I Placiti cassinesi……………………………………………………………………….p.17- La formula di confessione umbra……………………………………………………..p.18- I volgari italiani nei secoli XII e XIII………………….…………………………….p.19- Francesco e il Cantico…………………………………………………………………p.20- Dante……………………………………………………………………………………p.25- L’uso del volgare nel Trecento…………………………………………………………p.29- L’uso del volgare nel Quattrocento……………………………………………………p.30- L’uso del volgare nel Cinquecento…………………………………………………….p.32- La questione della lingua………………………………………………………………p.34- L’italiano scientifico del Seicento……………………………………………………..p.35- Analisi comparata……………………………………………………………………...p.38- La genesi dell’italiano moderno……………………………………………………….p.40- Le radici morali del pensiero linguistico manzoniano……………………………….p.40- Verso l’italiano contemporaneo………………………………………………………p.43- Lorenzo Milani priore di Barbiana…………………………………………………..p.45- Bibliografia……………………………………………………………………………p.46

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La storia e la norma dell’italiano : LA - LC - LV - LRITALIANO

La storia dell’italiano comincia dentro il latino. I fondamenti della nostra grammatica si trovano nel latino arcaico, la lingua dei pastori del lazio, che ben presto raggiunse la sua dignità scritta prima del decisivo confronto con la lingua e la cultura greca.La formula che apre la questione prevede una cronologia schematica ma efficace:

LATINO ARCAICO-LATINO CLASSICO-LATINO VOLGARE-LINGUE ROMANZE

Tale successione ci presenta il latino come un sistema linguistico mobile e non fisso; la mobilità del latino è già presente nel periodo protostorico; l’evoluzione ha un ritmo intensissimo e investe tutti i settori della lingua.L’evoluzione del latino comincia con il passaggio dalla vita rustica alla vita urbana (intorno al VI sec. A. C.); successivamente, a partire dalla seconda metà del III secolo A. C. l’evoluzione linguistica assume un ritmo più blando e sembra arrestarsi nell’età di Cicerone e Cesare, limitatamente al latino letterario e ufficiale. Invece la lingua che non s’ispira a tali finalità continua il suo decorso, cosicché si crea una divaricazione tra la norma ufficiale e il latino cosiddetto volgare. La distanza tra le due tradizioni tende ad accrescersi nel corso del tempo e il mondo altomedievale riceverà i due filoni ormai ben distinti a livello di strutture: la lingua della conversazione per tradizione familiare e il latino letterario e giuridico per eredità culturale.Mentre nel II sec. a.C. si verificano ancora molti fatti evolutivi, nel I sec. A.C. il latino letterario rimane pressoché immobile (non così il latino parlato). Se il contrasto tra urbanitas e rusticitas riguarda i registri e non la correttezza linguistica, la conquista della Grecia (168 a. C.) determina una rivoluzione culturale che avrà immediati effetti linguistici (l’aggettivo elegans in Plauto ha un significato negativo, in Terenzio positivo). Pertanto tra la seconda metà del II sec. e la prima metà del I sec. la diversificazione interna al latino ( latino classico-latino volgare) coincide col periodo di gestazione del latino classico. Si differenziano così due usi del latino: quello dei colti, un sistema compatto che non ammette innovazioni, e quello degli incolti, non disciplinato dalla norma. Se Dante segna la nascita della “coscienza linguistica” dell’italiano, per il latino ciò accade nel confronto col greco, un modello di lingua e di stile non soggetto ad evoluzione storica nei suoi principi costitutivi.

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Caratteri fondamentali del latino classico:

a) Le strutture di base si stabilizzano.

b) Si verifica la standardizzazione fonologica e morfologica accanto alla selezione sintattica e lessicale. FONOLOGIA: le finali -m e -s scomparse dall’uso sono reintrodotte nelle norma grammaticale ( la -s finale sopravvive nella Romània occidentale, ad es. nell’ibero-romanzo). MORFOLOGIA: gli scrittori classici evitano sempre il passaggio dei sostantivi neutri con valore collettivo ai femminili della prima declinazione. SINTASSI: la consecutio temporum è applicata rigorosamente, non così in età arcaica dove esistevano soluzioni alternative che poi si ripresenteranno in età volgare e romanza. LESSICO: l’azione della norma selettiva differenzia l’uso collettivo da quello individuale: es. edo- manduco.

c) Si verifica la disciplina e l’incremento delle strutture ipotattiche: nella sintassi della subordinazione la lingua classica non fa opera di recupero ma innova costituendo una norma; si fa più complessa la tecnica di inserimento delle subordinate di vario grado il che differenzia nettamente il discorso classico dalla lingua della conversazione.

d) Il periodo del LC (=latino classico) è concepito come un atto di sintesi e di impegno stilistico mentre la sintassi arcaica presenta l’analisi degli eventi come pura successione, una tecnica tipica del regime orale del discorso.

e) Il periodo classico è la sede in cui i contenuti si organizzano in una sintesi e si armonizzano con la forma: in questo risiede l’azione educativa del latino e il suo prestigio in quanto lingua razionale. Esempi probanti del periodo classico sono il periodo ciceroniano e il periodo cesariano.

f) Il latino classico è un’istituzione pubblica. LC è destinato a generi di discorso che interessano non specificamente la persona ma la società (langue= uso collettivo) laddove la lingua familiare e di conversazione (parole=uso individuale) è il settore in cui si manifesta con piena evidenza la continuità tra LA (=latino arcaico) e LV(=latino volgare).

Cronologia del latino volgare

Il termine latino volgare riguarda tutti quegli aspetti linguistici che risultano difformi dalla norma classica; ad esso si affianca il termine protoromanzo , una sorta di lingua intermedia tra il latino e le lingue romanze. Nell’Ottocento si tendeva a considerare la lingua madre come una struttura linguistica realmente esistita; così ritenne la linguistica comparativa che, confrontando gli esiti delle lingue d’arrivo, poté risalire alla lingua di partenza:

es. *CABALLUS [ it. cavallo, fr. cheval, sp. caballo] (LC: equus)

Nel processo di differenziazione due fattori hanno un’importanza innegabile: il mutamento fonetico e la sostituzione di moduli morfologici e sintattici attraverso altri moduli propri del latino volgare. Nel 1950 il linguista Robert Hall pubblicò sulla rivista “Language” lo schema seguente:

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Lo schema di Hall ha il pregio di evidenziare la eterogeneità dei sistemi vocalici italiani ma non considera quei fattori di riorganizzazione che, chiuso il ciclo della frantumazione, sono destinati a ripresentarsi come fattori essenziali per la genesi delle lingue romanze. Bisogna risolvere nella concretezza della storia gli aspetti astrattamente naturalistici della lingua.

I secolo a.C.E’ il I secolo a.C. che segna l’inizio di una biforcazione interna al latino. Nell’opinione dei parlanti il LV si configura non come una lingua a sé stante, bensì come un registro di comunicazione caratterizzato dalla semplicità dello stile. Spesso si è identificato il LV nella rustica romana lingua, cioè nel latino parlato ma ciò è vero solo in parte. E’ più giusto considerare le differenze interne del latino nella specie di un continuum di registri di lingua che ha, ai poli opposti, la lingua del LC, da una parte, e dall’altra il registro cosiddetto volgare. Nel I sec. a.C. documenti della tradizione volgare sono i frammenti delle atellane di Lucio Pomponio e il Bellum Hispaniense, in cui si verificano fenomeni fonologici come l’assimilazione del nesso KS in SS (es. COXIM > COSSIM), morfologici come il frequente passaggio del deponente alla flessione attiva e sintattici come il primo esempio di una proposizione oggettiva introdotta da quod (LC: accusativo e infinito). Le tendenze innovative del LV, che si contrappongono al LC, non si irradiano da un solo punto ma da zone diverse della Romània.

I secolo d.C.Il Satyricon di Petronio e le iscrizioni pompeiane (non posteriori al 79 d.C.) sono i 2 documenti di riferimento. Le deviazioni dalla norma classica si concentrano generalmente nei discorsi dei liberti della Cena Trimalcionis : Petronio ha usato consapevolmente un latino ‘diverso’ collegandolo ad un ambiente sociale di incolti. I dati ricavabili dalle iscrizioni pompeiane tendono a conformarsi al sistema vocalico maggioritario romanzo (di cui fa parte l’italiano). Al sistema latino basato sulla quantità succede in italiano un sistema basato sulla qualità o timbro delle vocali che è il seguente:

I I E E A O O U U | \ / | | | \ / | i e a o o u \ \ ie uo

In sillaba libera si dittonga in ie e o in uo.Il dittongo AU si monottongo in o .Il dittongo AE segue le sorti di .Esempi:VITAM > vita NOVUM >nuovoNIVEM > neve SOLEM >soleTELAM > tela CRUCEM >crocePECTUS > petto LUNAM > lunaDECEM > dieci AURUM >oroMARE > mare LAETUM >lietoOCTO >otto

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Nelle iscrizioni pompeiane cadono la –m ed altre consonanti finali, mentre ben salda è ancora la –s finale. In ambito morfologico comincia ad operare la tendenza alla semplificazione del sistema dei casi: il vocativo è sostituito dal nominativo, si afferma la confusione tra il compl. di stato in luogo e di moto a luogo e il declino del genere neutro. Per la sintassi la costruzione della proposizione oggettiva mediante congiunzione + verbo finito ha 4 esempi in Petronio rispetto all’unico esempio del Bellum Hispaniense e , a partire da questo periodo ha un forte incremento ( 8 esempi in Apuleio e assai più in Tertulliano).

II secolo d.C.

I documenti di riferimento di questo secolo sono: cinque lettere, scritte in Egitto, del soldato Claudio Terenziano al padre (risalgono all’età di Traiano ca.); frammenti di lettere su coccio ( i cosiddetti Ostraka) del legionario Rustio Barbaro (trovati vicino al Mar Rosso). Questo latino d’Egitto presenta caratteri più evoluti che sono:- la tendenza all’indistinzione tra nominativo e accusativo;- l’accusativo comincia a perdere la marca morfologica quando segue un altro accusativo (es. caveam gallinaria invece di ‘caveam gallinariam’); questo fenomeno preannuncia una nuova organizzazione della frase nella quale i costituenti nominali riceveranno il loro status sintattico in base alla posizione che occupano all’interno della frase e non in virtù della marca morfologica;- la decadenza dell’ablativo è dovuta a diversi fattori tra cui il fatto che nella prima declinazione nominativo e ablativo si differenziano solo per la diversa quantità vocalica (rosa- rosa): venendo a cadere quest’ultima si verifica l’uscita dell’ablativo semplice dall’uso vivo.Il latino d’Egitto permette di cogliere dal vivo tendenze innovatrici e tendenze conservatrici: contrasto che preannuncia un riassetto del sistema linguistico (i veterani che parlavano questo latino provenivano, con buon margine di sicurezza, dall’Italia settentrionale e dalla Gallia).

III e IV secolo d.C.

La diffusione del Cristianesimo (l’editto di Costantino è del 313) determina , nel mondo romano, conseguenze linguistiche così rilevanti che sicuramente può essere definita uno dei fattori principali della trasformazione del latino nelle molteplici lingue romanze della Romània. La cultura cristiana adotta un linguaggio semplice ma, in un certo senso, di natura tecnica, poiché esprime una dottrina complessa, che porta l’impronta del clima linguistico greco: donde un impasto variabile, a seconda della cultura scolastica e dello stile degli Autori, di lingua scritta e tratti colloquiali ( S.Agostino: “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi” e “Consuetudo vulgaris utilior est quam integritas letterata”).I documenti di riferimento di questo periodo sono: le traduzioni della Bibbia anteriori alla Vulgata (Itala); la Mulomedicina Chironis, un trattatello di veterinaria; l’Appendix Probi (fine sec.III); la Peregrinatio Egeriae ad loca santa (fine sec. IV).L’Appendix Probi è una breve lista di parole, redatta probabilmente da un grammatico che insegnava a Roma in una scuola per schiavi destinati al palazzo imperiale, posta in appendice all’opera Instituta artium. Si tratta di una lista di parole in cui la forma corretta è seguita da quella scorretta, il che permette di dedurre le tendenze dell’evoluzione linguistica di questo periodo. Vediamo, analiticamente, prima i cambiamenti fonologici e poi quelli morfologici:

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a) caduta della vocale postonica:

SPECULUM non SPECLUM (it. specchio)

MASCULUS non MASCLUS (it. maschio) VETULUS non VECLUS (it. vecchio) OCULUS non OCLUS (it. occhio ) l’esito italiano ci permette di rilevare la legge fonetica secondo cui CONS. + L > CONS. + I b) sviluppo di una ‘ i ’ in nessi composti da CONS + A o altra vocale: VINEA non VINIA (it. vigna) LANCEA non LANCIA (it. lancia)c) apertura di U tonica in O e chiusura del dittongo AU in O: COLUMNA non COLONNA (it. colonna) TURMA non TORMA (it. torma ) AURIS non ORICLA (it. orecchia)d) tendenza ad adattare gli aggettivi o pronomi della terza declinazione a quelli della prima e della seconda: PAUPER MULIER non PAUPERA MULIER ACRE non ACRUM (it. agro) IPSE non IPSUM (it. esso) e) cambio di declinazione per mezzo di un diminutivo:

AURIS non ORICLA (it. orecchia) FAX non FACLA (it. fiaccola)

f) passaggio di sostantivi dalla quarta alla prima declinazione: NURUS non NURA (it. nuora) SOCRU non SOCRA (it. suocera)

Negli altri testi citati emergono questi fenomeni: nome: scompare il neutro e il neutro plurale funziona come un femminile (es. ossa exterae invece di ‘ossa extera’); compare nella Mulomedicina il plurale in –ora, molto produttivo in italiano antico;aggettivo: entrano in crisi le forme del comparativo e del superlativo sintetici (es. gravior > plus gravis); la distinzione tra nominativo e accusativo scompare progressivamente ma la confusione tra i due casi opera a senso unico poiché la forma accusativale si impone su quella nominativale (cfr. Peregrinatio); gli ultimi due casi che rimanevano autonomi, cioè genitivo e dativo, cominciano ad essere sostituiti con sintagmi preposizionali (es. Sancto Episcopo de Arabia invece di Arabiae).In questo periodo, con l’incremento di ille e ipse, si produce una tappa importante nella storia dell’articolo; mentre nel LC l’articolo non ha ancora raggiunto una condizione di autonomia e ille e ipse quando funzionano come quasi-articoli sono semplicemente varianti contestuali dei rispettivi pronomi, la situazione cambia verso il VI secolo, quando ille e ipse cominciano a ridursi allo stato monosillabico, il che conferisce una marca formale alla categoria. Nel sistema verbale affiorano o si consolidano trasformazioni profonde:

a) si verificano passaggi di coniugazione: es. càdere > cadére, dalla III alla II;b) si producono formazioni analitiche che sostituiscono quelle sintetiche del LC:

Passivo: AMOR > AMATUS SUM (= SONO AMATO e non “sono stato amato”); questa innovazione si afferma intorno al V secolo; Piuccheperfetto: AMAVERAM FILIAM > HABEBAM AMATUM FILIAM

in cui notiamo anche la sanzione formale della grammaticalizzazione del sintagma che è rivelata dalla sconcordanza tra participio e oggetto;Futuro: AMABO > AMARE HABEO ; nell’Itala l’infinito + HABEO rende il futuro dell’originale greco e il modulo rimane frequente nei secoli successivi; la fusione delle due forme è attestata solo nel VII secolo.

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Anche nel lessico i secoli IV e V segnano una frattura incolmabile tra LC e LV. I due eventi principali sono la riduzione dei monosillabi tonici e i mutamenti semantici. I procedimenti di trasformazione della parola riguardano o il suo ampliamento, con l’adozione della forma accusativale (es GREGE(M) sostituisce GREX, it. gregge), o la sua sostituzione (BUCCA sostituisce OS), in questo caso dovuta all’omonimia tra OS e OS(=osso), determinata dalla perdita della quantità vocalica (il termine osco BUCCA indicava in LC la maschera dalla bocca larga). Il fenomeno del mutamento semantico riguarda tutti i secoli della nostra storia linguistica, ma nei secoli del basso impero l’evento coinvolge tutti i nuovi significati di cui si fa portavoce il Cristianesimo, i nuovi significati delle lingue “barbare” e i significati legati alla ruralizzazione della vita sociale.

Semantica cristiana (SC)La rivoluzione spirituale del Cristianesimo determina la risemantizzazione di tutti i vocaboli legati alla vita dello spirito; i concetti morali e religiosi collegati al pensiero pagano vengono travolti dalla buona novella che stabilisce nuovi rapporti tra divino e umano. Nel periodo storico che va da Augusto a Teodosio cambiano i significati di fides, spes, caritas, virtus, mundus, pius, sacer, comunicare. Così Migliorini definisce mirabilmente l’evento linguistico: “la semenza evangelica sboccia nei nuovi concetti”; ma vediamo altri esempi: 1. (LC) SANITA’ SALUS SALVEZZA (SC). 2. (LC) PASTA FERMENTATA MASSAGRUPPO DI PERSONE (SC) (allusione ad un passo di San Paolo: il vasaio – Dio – trae come vuole i suoi vasi dalla massa luti; Sant’Agostino raffigura l’umanità peccatrice come massa peccati).3. (LC) CONSEGNARE TRADERE TRADIRE (SC)(“Iudas qui tradidit eum”= Giuda lo consegnò e quindi lo tradì; i vescovi traditores sono coloro che consegnarono a Diocleziano i testi sacri). 4. (LC) PRIGIONIERO CAPTIVUSMALVAGIO (SC)(“captivus Diaboli”= prigioniero del diavolo e quindi cattivo).Voci generiche assumono un significato più ristretto come vesper (=vespro) che indica le preghiere della sera oppure ci sono parole associate al culto pagano che vengono sostituite da quelle cristiane come ara, sostituita da altare (San Girolamo l’adotta nella Vulgata) o parole sacre pagane come lustrare (=espiare con sacrifici) che passa al significato di “lucidare”.

Il mutamento tipologico e la sintassi del periodo – V sec. d.C.La sintassi arcaica presentava l’analisi degli eventi come pura successione che affida la comprensione dei nessi all’intuizione dell’ascoltatore. Così sarà nel LV, legato al regime orale del discorso; pertanto il sermo cotidianus è il settore in cui si manifesta con piena evidenza la continuità LA – LC – LV .Con la fine della civiltà antica (476 d. C. : caduta dell’impero romano d’Occidente) e gli albori di quella alto-medievale il LV raggiunge una sua autonomia, il che significa che gradatamente si verifica il mutamento tipologico della grammatica latina nella nostra grammatica italiana. Le strutture volgari configurano un tipo di organizzazione grammaticale differente dal LC e si presenta quindi come: Tipo linguistico = insieme di caratteri strutturali che sono comuni, a prescindere dalle realizzazioni formali, a più lingue apparentate o no.Una lingua che si trasforma segue una linea evolutiva non del tutto imprevedibile: l’aggregazione delle caratteristiche strutturali non è operata da un ferreo meccanismo deterministico bensì si realizza in una larga scala di modalità e compatibilmente con le condizioni specifiche del sistema che viene trasformato.

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Il tipo linguistico del LC è costituito dall’ordine libero degli elementi all’interno della frase, laddove il tipo linguistico della lingua italiana è costituito dall’ordine bloccato; tenendo presente le trasformazioni sopra elencate vediamo di tirare le fila del nostro discorso.Partendo dal livello fonologico la mancata pronuncia della -m finale (già avvertita in età augustea secondo la testimonianza dei grammatici) determina l’indistinzione tra nominativo e accusativo nella I declinazione. Da ciò consegue che la posizione all’interno della frase diventa il tratto distintivo per capire le funzioni sintattiche del lessema. Quindi il cambiamento morfologico incide sulla sintassi della frase e specularmene questa incide sulla sintassi del periodo. Ma quale fattore ha messo in moto il mutamento tipologico in un senso ben determinato? C’è correlazione tra fenomeni sintattici e fenomeni grammaticali come la riduzione e dissoluzione della declinazione o la ristrutturazione del sistema fonologico? Nel Satyricon di Petronio abbiamo la prima documentazione sistematica della nuova sintassi , sebbene limitatamente ai discorsi dei convitati della cena di Trimalcione. Negli Ostraka la struttura del periodo non differisce minimamente dalla struttura romanza (naturalmente del regime colloquiale e non dei testi letterari). L’architettura sintattica dei testi risulta quasi sempre parallela all’ordine semantico, nel senso che la proposizione principale è anteposta alla subordinata di primo grado e in ordine seguono le subordinate di grado ulteriore.Nel LV, come nel LA, domina la paratassi: se si considera la struttura semantica si vedrà che lo schema BASE + SVILUPPO si addice ad un discorso che si sviluppa per aggiunte successive (paratassi o coordinazione), ma non risulta congruo in un tipo di periodo, quello del LC, in cui il vario gioco delle coordinazioni e subordinazioni organizza gerarchicamente le informazioni e le salda in un tutto.Se confrontiamo il periodo del LA e quello del LV il contrasto è meno radicale di quello esistente tra LC e LV, poiché sappiamo che il periodo classico è creazione letteraria. Consideriamo ora quest’esempio, prima di passare all’analisi dei costituenti essenziali del periodo volgare:

ordine libero (LA e LC) ordine bloccato (LV)

1. CAESAR AMAT PUELLAM2. AMAT CAESAR PUELLAM3. PUELLAM CAESAR AMAT = CESARE AMA LA FANCIULLA4. AMAT PUELLAM CAESAR soggetto verbo oggetto5. PUELLAM AMAT CAESAR S V O6. CAESAR PUELLAM AMAT

Nel passaggio dal LC al LV nella organizzazione del periodo sono intervenuti tre mutamenti fondamentali:

a) l’ordine dei singoli costituenti da libero si è trasformato in bloccato;b) alla discontinuità semantico-sintattica è subentrata la progressione lineare;c) la costruzione del periodo ha assunto il senso discendente, cioè la proposizione principale

precede la subordinata di primo grado e in ordine gerarchico seguono le subordinate di grado ulteriore.

Mutamenti analoghi si verificano all’interno della frase. Nel LA e nel LC non esiste una costruzione maggioritaria ma esistono schemi preferenziali: ciò avviene perché ogni costituente fondamentale porta in sé il segno del rapporto sintattico. Nel LV invece si elabora una costruzione largamente maggioritaria che si affermerà nelle lingue romanze: soggetto – verbo – oggetto (SVO). Non essendo vincolata a questa continuità sintattica, la frase arcaica e classica fruisce ampiamente di tale

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libertà e applica quindi delle sequenze discontinue: SOV, OVS, VSO, OSV, VOS, come dimostra l’esempio sopra riportato.

Lo schema tardo-volgare e romanzo SVO pone in essere, come avviene per il periodo, una progressione continua che si diparte da una base S a cui si aggancia un primo sviluppo V e quindi un altro O e poi un altro ancora (i successivi complementi e così via). C’è dunque un parallelismo tra macro e microstrutture sintattiche e la loro trasformazione; bisogna individuare il principio organizzativo che è sotteso a questa corrispondenza e vedere se tale principio ha operato nel quadro dell’evoluzione del latino.Le strategie mentali che presiedono al LC e all’italiano sono diverse: se si confronta un periodo del De Bello Gallico di Cesare con la sua traduzione italiana si vedrà che mentre in latino la struttura delle frasi è basata su un calcolo retrospettivo, in italiano il discorso si svolge in segmenti progressivi i cui ruoli sintattici sono esplicitati mercé l’ordine bloccato dei costituenti a livello di periodo e di frase:

ordine retrospettivo ordine progressivo

HAEC CUM ANIMADVERTISSET, CESARE SI ACCORSE DI QUESTA CONVOCATO CONSILIO OMNIUMQUE SITUAZIONE, CONVOCO’ IL ORDINUM AD ID CONSILIUM ADHIBITIS CONSIGLIO DI GUERRA, FECE CENTURIONIBUS, VEHEMENTER EOS VENIRE I CENTURIONI DI OGNIINCUSAVIT. GRADO E LI REDARGUI’ ASPRAMENTE.

Come si vede, mentre il LC si basa su un calcolo retrospettivo, l’italiano su un calcolo additivo o progressivo. Se consideriamo i testi fin qui analizzati vediamo chiaramente che la nuova strategia mentale si afferma prima nell’ambito del periodo e più tardi coinvolge l’organizzazione della frase. Tutto ciò ha rapporto con i mutamenti morfologici e fonologici? La risposta è “sì”. Qualsiasi lessema latino è articolato in due parti di cui la prima, il tema, invariabile, enuncia il significato lessicale e la seconda, il morfema, variabile, segnala il ruolo sintattico che esplica nel contesto della frase:

ROS -A ; AM – ARE ; LEV – IS ; PULCR – AM tema morf. tema morf. tema morf. tema morf.

Il sistema della declinazione si conforma a quel principio organizzativo arcaico e classico che la lingua volgare ha sostituito nella struttura del periodo e della frase. Quando si afferma la costruzione bloccata SVO le marche di nominativo e accusativo diventano ridondanti e pertanto si determina una riduzione dei casi (la funzione sintattica di S o di O è data in base alla posizione del lessema, prima o dopo il verbo. Per quanto riguarda i mutamenti fonologici, secondo la testimonianza di Quintiliano (I sec. d. C.), gli oratori erano soliti sopprimere o pronunciare indistintamente parte delle parole, non portando a compimento le sillabe finali e accentuando il suono delle precedenti. Affermandosi un discorso più rapido, conformemente alla nuova sintassi, le innovazioni del LV interessano particolarmente il tratto finale della parola. Questo fenomeno compromette le specificazioni morfosintattiche contenute nella parte finale della parola e quindi preannuncia l’elaborarsi del nuovo principio formativo che dà la precedenza al tema, in cui è contenuto il significato lessicale della parola.

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Valutazione storica del latino volgare

Il LV è un aspetto rilevante della civiltà romana, nel senso che le sue vicende si correlano a condizioni storiche. Da registro di lingua il LV conosce la prima frattura dal LC negli ultimi decenni del II sec. d.C., quando incominciano ad indebolirsi le istituzioni dello Stato romano. Da allora in poi solo la scuola costituirà il tramite principale della continuità del LC.L’evoluzione linguistica assume un ritmo più rapido quando si sfascia l’organizzazione dell’Impero e si preannunciano le condizioni socio-economiche del Medioevo. Agisce in senso innovativo il messaggio cristiano, soprattutto per quel che riguarda il significato delle parole, ma anche strutturalmente, desiderando avvicinarsi alla lingua parlata. Sebbene lontano dal latino di scuola il LV non è un prodotto di incultura, né può essere identificato col latino popolare ( vulgus = popolo).Il dibattito sul latino volgare è ancora aperto: in ogni caso esso è il frutto di una cultura nuova. Ricordiamo almeno il punto di vista di Bruno Migliorini, autore della prima grande Storia della lingua italiana (1960), secondo il quale la vitalità dei singoli fenomeni di cambiamento e la direzione in cui essi si vanno svolgendo e accentuando si possono scorgere solo collocandosi da un punto di vista neolatino, cioè fondandosi sui risultati che essi hanno finito col dare negli idiomi romanzi. Ciò che può mettere d’accordo le diverse ipotesi a confronto è la seguente affermazione: la denominazione latino volgare copre un’ampia serie di fenomeni che hanno a che fare:

a) con la variabile diastratica: lingua dei diversi ceti sociali;b) con la variabile diafasica: lingua dei registri informali;c) con la dimensione diacronica: lingua fluttuante tra due poli (il latino classico e le lingue

romanze)

La genesi dei volgari italiani (476 - 1000)Determinare le fasi evolutive che collegano il LV alle strutture documentate nei primi testi romanzi è un obiettivo di non facile realizzazione. La documentazione alto-medievale è assai frammentaria e non dà un’idea dell’evolversi delle condizioni linguistiche. Il latino dei secc. VII e VIII è semplicemente il frutto dello stato di degrado in cui si trova l’insegnamento della norma latina classica. Possiamo indicare nel sec. IX (età carolingia) l’epoca in cui nasce la coscienza linguistica della cultura volgare, proprio perché si rinnova l’insegnamento della norma classica.L’evoluzione linguistica si determina con un ritmo lento poiché un brusco cambiamento pregiudicherebbe la comprensione tra i vari ambienti e le generazioni che partecipano alla comunità linguistica. Se un’innovazione che si è verificata nell’età antica viene a far parte delle lingue romanze è giocoforza ammettere che il suo iter evolutivo abbraccia l’alto medioevo, anche se le scritture non ne danno conferma: tutte le strutture importanti di cui consta la tipologia romanza si elaborano o si affermano in età tardo-antica; è un processo di continuità nella diversità. In teoria ogni innovazione che si protrae nel tempo è soggetta a tre variabili:

a) un tratto di lingua può cambiare nella sua funzione. Es. ILLE ha in LC valore dimostrativo mentre nel volgare italiano passa alla funzione di articolo: “Non dicere illa secrita a bboce ”, Iscrizione di Santa Commodilla, Roma, VIII sec.

b) un tratto di lingua si afferma su una struttura concorrente. Es. prima dell’affermazione del comparativo analitico c’è un periodo in cui sono usate sia la forma sintetica che quella analitica come gravior e plus gravis .

c) cambia l’area di diffusione sia in senso geografico che in senso sociale. Es. il latino d’Egitto presenta caratteri ‘più evoluti’ rispetto al latino di altre zone.

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La spinta decisiva alla trasformazione si è determinata tra i secc. III e V . Il sec.VI non è solo il punto di arrivo delle grandi trasformazioni grammaticali ma anche il periodo in cui si accentuano quei processi di frammentazione linguistica operanti fino all’età moderna. I secoli VII e VIII segnano l’acme del particolarismo medievale, mentre il rinnovamento carolingio imprime all’evoluzione linguistica un ritmo crescente che perdurerà nel basso medioevo.

Fattori di differenziazioneVediamo ora quali sono i principali fattori di differenziazione dei volgari italiani:1) con la caduta di prestigio del latino ufficiale, a seguito della fine dell’impero romano d’Occidente, emergono le cosiddette lingue di sostrato; per capire questa parola consideriamo il seguente schema: SUPERSTRATOla norma del LC ADSTRATO le lingue dei cosiddetti “barbari” STRATO latino volgare e latino parlato SOSTRATO le lingue pre-romane (etrusco, celtico, osco ecc.)Le lingue di sostrato agiranno profondamente nella differenziazione dei volgari italiani, fino alla differenziazione dei dialetti, come poi vedremo nell’analisi dell’ Italia linguistica.2) la supremazia economica della campagna si rispecchia in alcuni mutamenti semantici: casa (= abitazione del contadino) sostituisce domus (che poi evolverà in duomo); testa (= vaso di coccio) sostituisce caput ; hortus (= giardino) assume il sinificato di orto (=terreno per la coltura di ortaggi).3) le invasioni barbariche agiscono sia a livello fono-morfologico sia a livello lessicale. Tipica di tutta la Padania la sonorizzazione della consonante sorda intervocalica del tipo *FRATELLUS > fradel , mentre si affermano suffissi che rimandano o all’influenza francese, come –ardo (es. beffardo) o all’influenza germanica, come –ingo (es. guardingo).L’Italia settentrionale è l’area più innovativa a causa dell’interferenza del sostrato gallico. Il limite sud della latinità settentrionale, la cosiddetta linea La Spezia –Rimini risulta già individuabile alla fine dell’età antica.Le aree centro-meridionali conservano tratti della latinità tardo-imperiale, superati in altre parti della penisola (ad es. l’area mediana distingue tra maschile e neutro). La Toscana presenta una sua autonomia linguistica rispetto al resto dell’Italia centrale.Con l’insediamento dei Longobardi la solidarietà che legava le genti italiche finisce mentre nei secc. V-VI la circolazione linguistica tra nord e sud era ancora possibile. La parola Italia riaffiorerà nei testi solo in età comunale (sec. XII). La frammentazione si verifica sia in senso spaziale che sociale , mentre invece la cultura si esprime in latino e costituisce un fattore unitario per l’intera Europa dell’alto e del basso medioevo. Si veda questo contrasto: la terminologia agricola raggiunge il massimo di frammentazione linguistica (canale di irrigazione ha 40 sinonimi), mentre parole colte come anima, libro, religione non hanno sinonimi. La cultura dell’Alto medioevo A questo punto è opportuno fare una parentesi su questo argomento perché anch’esso ha profonde conseguenze linguistiche. Già avevamo considerato come l’incontro con la cultura greca avesse mutato la cultura e la lingua latina. Nel periodo che stiamo considerando si formano, culturalmente, la radici cristiane d’Europa il che significa che la rivoluzione semantica operata dal Cristianesimo penetra profondamente in tutte le classi sociali, anzi il codice cristiano si sostituisce al codice del latino romano, permettendo la comunicazione tra chierici e laici, tra poveri e ricchi, tra nobili e plebei e anche tra italici e barbari convertiti.Il Cristianesimo è una religione “nuova” (grande presenza di neologismi), greco-orientale (Dominus è un calco dal greco Kurios) ed è soprattutto religione degli umili (grande presenza di volgarismi. L’inversione e il livellamento dei rapporti sociali si traduce sul piano della

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coscienza linguistica in una sorta di “inversione di prestigio” tra volgarismo e classicismo. Si apre così la via alla giustificazione non solo delle novità lessicali, fraseologiche e stilistiche estranee e più o meno ripugnanti al gusto classico, ma anche delle deviazioni dalla norma grammaticale classica. Tra classicismo e rigorismo il latino biblico viene ad interporsi più come un cuneo che come uno strumento di mediazione attiva.L’inversione di prestigio tra volgarismo e classicismo non è immediata ma dal momento in cui prende corpo è legittimo far risalire l’inizio del processo storico che attraversa tutto il medioevo e si conclude con Dante. Nel V sec. San Girolamo afferma di aver ricevuto dalla voce stessa di Dio il rimprovero di essere ciceroniano piuttosto che cristiano: è uno dei Padri della Chiesa che avvia la costruzione di un ideale sistema di concordanze tra la sapienza pagana e la Bibbia. Ciò accade secondo il principio della subordinazione del patrimonio culturale classico ai valori trascendenti che la Rivelazione ha donato agli uomini. San Girolamo, con la traduzione latina della Bibbia, fonda il “classicismo cristiano”, punto di riferimento per la coscienza linguistica e il gusto letterario.L’antinomia tra cultura classica e cultura cristiana torna ad essere dibattuta da Gregorio Magno (sec. VII), in contrapposizione al classicismo di Severino Boezio, sviluppatosi nel secolo precedente, mentre per il Venerabile Beda (Inghilterra, sec. VIII), lo studio delle lettere profane deve essere concepito unicamente come preparazione alla comprensione delle Sacre Scritture. Nel IX sec. Alcuino, principale artefice della riforma degli studi voluta da Carlo Magno, alla cui corte operano una serie di intellettuali, la cosiddetta Accademia Palatina, secondo un modello che sarà poi seguito da Federigo II di Svevia nel Duecento.E’ durante la rinascita carolingia che si attua la sintesi delle due culture, classica e cristiana, attraverso l’allegorismo in cui il motivo della superiorità cristiana si esprime come condizionato dal recupero della classicità. Comincia così la fortuna medievale di Virgilio, letto in chiave profetica, secondo la prospettiva della IV Egloga, preannuncio della venuta di Cristo.La restaurazione del LC e dello studio degli Autori latini (sec. IX) evidenzia la ormai definitiva autonomia del volgare. Nello Scriptorium di Verona si produce il famoso Indovinello, considerato il primo testo volgare italiano. Contemporaneamente la giustapposizione armonica di exempla tratti dalla mitologia classica e exempla tratti dalla Bibbia diventa un esercizio scolastico usuale a partire dall’età carolingia. Nell’allegorismo sembra trovare un equilibrio quel conflitto tra la fedeltà ai sacri testi e il culto dei classici latini.La coscienza del volgare nasce in epoca carolingia, quando la riforma carolina, risollevando il latino verso gli antichi modelli sottolinea la sua distanza dalla lingua parlata. L’impulso decisivo alla nascita delle lingue romanze non viene da chi parla e pensa soltanto in volgare ma da chi accondiscende a parlare in volgare essendo tuttavia abituato a pensare in latino. Si consideri la produzione giullaresca: nella parodia il richiamo al volgare avviene per un atto di creatività e libertà fantastica.Il concilio di Tours (813) prescrive ai vescovi e a tutti i consacrati l’uso di una lingua il più possibile vicina alla comprensione popolare. La lingua della Chiesa è e resterà per molti secoli il latino, ma ciò non è in contraddizione con l’omiletica più vicina al volgare (ancora oggi in alcune parrocchie di campagna i sacerdoti si avvalgono del dialetto). Il latino della norma si pone come coscienza del volgare e fornisce al suo empirismo disordinato un principio d’ordine e di razionalizzazione in forza del quale la rustica romana lingua può cominciare a spogliarsi della sua rusticitas.A cominciare dal X sec. la necessità di ricorrere al volgare per garantire l’efficacia della predicazione è avvertita anche in Italia; sulla tomba di papa Gregorio V (morto nel 999) è scritto:

USUS FRANCISCA, VULGARI, ET LATINA INSTITUIT POPULOS ELOQUIO TRIPLICI

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Nell’alto medioevo i volgari recepivano e trasmettevano le innovazioni prodotte dai centri di irradiazione linguistica: mercati, itinerari di pellegrini, sedi episcopali, conventi. La trasformazione del latino nei volgari italiani non ha una data: è il punto di arrivo di una storia senza iati, di un continuum di eventi che ristrutturano il latino in una lingua di tipo moderno. Già a partire dal VI sec. c’è consapevolezza, nel parlante, di un uso linguistico differenziato: il volgare per le esigenze del momento contingente; il latino per gli usi che trascendono il rapporto colloquiale tra i membri di una comunità (usi religiosi, amministrativi, giuridici, letterari, politici). Solo la minoranza colta praticava alternativamente i due codici: se non avesse avuto coscienza della diversità dei sistemi che impiegava, come avveniva nell’evo antico, si sarebbe creata una lingua mista di volgare e latino.Non tutte le scritture latine sono impermeabili al volgare: in un certo numero di documenti notarili si nota un sensibile divario tra le parti formulari, che sono stilate in un latino più o meno corretto, e l’inventario dei beni, su cui verte l’atto, che è redatto in una lingua volgareggiante. Il fatto che il notaio era disponibile a recepire l’uso vivo, a prezzo di operare una frattura nella veste linguistica del documento, è sintomo di una adesione non puramente passiva alla nuova realtà linguistica.Accanto al processo di filiazione si consideri che un complesso di strutture, prevalentemente attinenti al livello lessicale, è stato assunto direttamente dal superstrato latino per tramiti culturali. I latinismi costituiscono un settore preponderante sul piano quantitativo rispetto al lessico volgare, mentre le parole di più alta frequenza appartengono in genere ai volgarismi. Si vedano questi esempi:

A B

(LC) CAUSA > COSA ma in italiano c’è anche CAUSA(LC) FLORE(M) > FIORE ma in italiano c’è anche FLOREALE(LC) AURU(M) > ORO ma in italiano c’è anche AUREO

Nel passaggio dal latino all’italiano le parole appartenenti alla classe A hanno seguito la via popolare, parlata, mentre le parole appartenenti alla classe B hanno seguito la via dotta e culturale.

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L’Indovinello veronese

Il ritardo dell’avvento del volgare in Italia è determinato da condizioni storiche. Quando il latino scritto entra in crisi nella sua funzione più prestigiosa, quella di lingua letteraria, è segno che il volgare ha ormai raggiunto una sua maturità e infatti il primo documento scritto in un volgare italiano, riconosciuto come tale, è un testo letterario.La metafora dell’atto dello scrivere comune all’enigmistica medievale, pur di origine dotta, venne redatta da un chierico in un latino in cui furono introdotte delle parole sicuramente volgari; proprio perché i versetti volgari sono seguiti da una frase latina è facile dedurre che lo scrivente avesse chiara coscienza dell’opposizione delle due lingue. La lingua dell’ indovinello è francamente volgare: sebbene il testo non rappresenti una legalizzazione del volgare è notevole per la sua prospettiva psicologico-linguistica, in cui l’atteggiamento fantastico e giocoso si incontra con quello pratico e didascalico e da esso adotta, in funzione espressiva, un sistema di forme che la tradizione scrittoria aveva, sino ad allora ammesso solo in funzione strumentale.Un codice conservato alla Biblioteca Capitolare di Verona e contenente testi liturgici ci ha tramandato un breve scritto di grande rilevanza per la storia delle origini del volgare italiano. I paleografi lo giudicano databile tra fine VIII – inizi IX secolo e redatto in uno scriptorium veronese. Questa localizzazione è confermata dall’analisi linguistica del testo. La struttura metrica, coppia di esametri metrici caudati, in rima tra loro, risulta adeguata al genere del testo, un indovinello riferito all’attività della scrittura, di cui esistevano esempi nella tradizione popolare, ma anche antecedenti nella tradizione latina medievale degli aenigmata, di analoga fattura metrica. Per questi motivi la genesi dell’ Indovinello parrebbe colta. In particolare, poi, la sua collocazione sulla pagina in uno spazio non destinato alla trascrizione, ma in margine, suggerisce un collegamento con le cosiddette note di copista, in alcune delle quali è documentata l’utilizzazione della metafora “arare = scrivere”. L’autore potrebbe essere stato un copista o un chierico e l’ Indovinello uno scherzoso gioco di parole rivolto ai colleghi di scriptorium o ai confratelli e compagni di studi. La maggiore libertà espressiva, il tono informale della postilla privata spiegherebbero la frequenza di volgarismi, risultanti da una scelta operata, consapevolmente, non tanto fra due lingue sentite come autonome e alternative (latino/volgare), ma fra due registri stilistici interni ad una stessa tradizione linguistica, quella latina. Dei due registri, il più corrente e quotidiano si adattava meglio all’occasione e alla destinazione del testo: Traduzione Se pareba (1) boves, Spingeva avanti i buoi (le dita) alba pratalia(2) araba, arava bianchi campi (la pergamena) albo versorio(3) teneba, reggeva il bianco aratro(piuma d’oca) et negro semen seminaba. Seminava nero seme (l’inchiostro).

(1) pareba: nel lessico contadino di gran parte dell’Italia settentrionale ancor oggi è presente il verbo

parar nel significato, ignoto al latino, di “spingere innanzi (i buoi).(2) pratalia: ha valore di femm. sing. Come conferma la forma la prataglia, documentata in antico

italiano e mantenutasi in alcuni toponimi come Badia Prataglia, Praglia, Pradaia.(3) versorio: risale a versorium, che in latino stava a indicare non l’aratro, ma solo una parte di esso: il

vomere. Con il significato di “aratro”, il termine versor è ancora attuale a Verona e, in generale, nel Veneto.

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I Placiti cassinesi

Al secolo successivo, esattamente al 960, risalgono i placiti cassinesi, in cui, per la prima volta, appare una nitida coscienza della distinzione tra latino e volgare. Il volgare si afferma tardi perché era sentito come manifestazione di carattere inferiore, rispetto al latino: una lingua indegna della scrittura. Nel marzo 960 alcune brevi espressioni in volgare italiano, espressione di una realtà linguistica per la prima volta avvertita come autonoma rispetto a quella tradizionale, vengono introdotte in un atto ufficiale integralmente redatto in latino secondo le consuetudini cancelleresche. Il documento è propriamente un placito (= una ‘sentenza’, secondo la terminologia giuridica dell’epoca), emesso a Capua da un giudice, Arechisi, per definire una causa intentata da un privato, laico, di nome Rodelgrimo, contro il monastero di Montecassino rappresentato dall’abate Aligerno. Di poco posteriori sono altre tre carte emanate in circostanze analoghe (controversie di confine tra piccoli proprietari terrieri e il monastero o sue dirette dipendenze) dalle cancellerie di Sessa Aurunca (marzo 963) e Teano (memoratorium: 26 luglio 963; placito: ottobre 963).Contemporanei e contigui geograficamente, i quattro documenti, conservati nell’Archivio dell’Abbazia di Montecassino, sono caratterizzati da una innovazione tecnica nella stesura della sentenza. Le formule (tredici in tutto), pronunciate dai testimoni prodotti dall’abate, vengono riportate in volgare e in forma di discorso diretto, esattamente come furono proferite. L’insolita scrupolosità procedurale è motivata dalla necessità pratica di assicurare chiarezza e precisione legale, onde evitare fraintendimenti a cui i laici, in causa col monastero, potessero appigliarsi per ricorrere contro la sentenza.Struttura del placito: in un primo tempo il giudice comunica alle parti il testo della formula; in un secondo tempo tre testimoni, presentandosi separatamente, la pronunciano. La forma in volgare serve a far conoscere ai presenti il contenuto del giudizio. La realtà linguistica del volgare è per la prima volta avvertita come autonoma rispetto al latino giuridico della norma. La formula esemplifica il ruolo di mediazione tra latino e volgare svolto dalla cultura notarile.Riproduciamo il placito di Capua, il più antico. A questo modello si rifanno, salvo minime varianti, le formule contenute nelle carte più tarde:

Traduzione Sao ko(1) kelle terre(2), per kelle fini(3) So che quelle terre, entro quei confinique ki (4) contene, trenta anni(5) che qui si contiene(“è contenuto, èle possette parte Sancti Benedicti. registrato”), le possedette trent’anni il monastero di San Benedetto.

(1) ko: dal latino quod. Oggi in Campania, come nella maggior parte dell’Italia meridionale la

congiunzione dichiarativa è ca da quia.(2) Kelle terre: anticipazione (dislocazione a sinistra) del complemento oggetto, che sarà ripreso

sintatticamente dal pronome le.(3) fini: “confini, limiti di proprietà”: come nella sezione latina del placito e in documenti latini

provenienti dalla stessa regione, ha genere femminile e significato tecnico-giuridico. Con lo stesso genere e significato il termine viveva e vive tuttora nel lessico contadino della zona di Capua.

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(4) ki: allude all’ “abbreviatura”, cioè ad una sorta di promemoria in cui sono descritte sommariamente le proprietà in causa e che i testimoni debbono tenere in mano mentre pronunciano la formula.

(5) trenta anni: risale al diritto romano la norma secondo cui il godimento non contestato di un bene per un periodo di tempo (in questo caso trent’anni), stabilito per legge, comporta l’acquisizione agli effetti legali del bene stesso(usucapione).

La formula di confessione umbra (sec.XI)

In un codice miscellaneo proveniente dall’Abbazia di Sant’Eutizio, presso Campi, non lungi da Norcia, tra le formule sacramentali del rito della penitenza (Ordo ad dandam penitentiam) è contenuto un brano in volgare. Volgare e latino si alternano sotto la penna di chi scrive, si mescolano nella stessa frase, si sovrappongono in una stessa parola. I caratteri linguistici sono centro-meridionali:

1 Domine, mea culpa. Confessu so ad mesenior Dominideu et ad matdonna sancta Maria et ad 2 s.Mychael archangelu et ad s. Iohanne Baptista et ad s. Petru et Paulu et ad omnes sancti et3 sancte Dei, de omnia mea culpa et de omnia mea peccata, ket io feci da lu battismu meu4 usque in ista hora, in dictis, in factis, in cogitatione, in locuzione, in consensu et opere, in5 periuria, in omicidia, in aulteria, in sacrilegia, in gula, in crapula, in commessatione et in6 turpis lucris. Me accuso de lu corpus Domini, k’io indignamente lu accepi. Me accuso de lu7 genitore meu et de la genitrice mia et de li proximi mei, ke ce non abbi quella dilectione ke8 mesenior Dominideu commando. Me accuso de li mei sanctuli et de lu sanctu baptismu, ke9 promisero pro me et no ll’observai. Me accuso de la decema et de la primitia et de offertione,10 ke nno la dei sì ccomo far dibbi. Me accuso de le sancte quadragesime et de le vigilie de11 l’apostoli et de la ieiunia IIII.or tempora, k’io no ll’oservai. Me accuso de la sancta treva, k’i12 k’io no ll’observai sì ccomo promisi. Me accuso de V sensus corpori mei, visus, auditus, 13 gustus,odoratus et tactus. Me accuso de VII principali vitia et de VII criminali peccata, he 14 cke d’esse se genera, et quecumque humana fragilitas peccare et polui potest. De istis et his15 similia sì me nde metto en colpa, como ipsu Dominideu lo sa, k’io menesprisu de sono.16 Pregonde la sua sancta misericordia e la intercessione de li soi sancti ke me nd’aia17 indulgentia. Et pregonde te, sacerdote, ke nd’ore pro me, miseru peccatore, ad dominum18 nostrum Iesum Christum, et diemende penitentia, ke lu diabolu non me nde poza adcusare,

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19 k’io iudecatu nde non sia de tutte le peccata mie.20 Da la parte de mesenior Dominideu et matdonna sancta Maria et de s.Mychael et de s.21 Iohanne et de s. Petru et s. Paulu et de omnibus sanctis et sancte Dei, et meu, sì age tu22 iudicium penitentie per unumquemque peccatu, sì cco tu facte l’ai da lu baptismu tou usque 23 in ista hora. Et como li sancti patri constitueru ne le sancte canule et lege, et derictu est et 24 te nde vene, tu sì nde sie envestutu, ke lo diabolu non te nde poza accusare ken tu iudecatu 25 nde non sie en questa vita pro raccar quella. Et qual bene tu ai factu ui farai en qua nnanti, 26 ui altri farai pro te, sì sia computatu em pretiu de questa penitentia. Se ttou iudiciu ene ke 27 tu ad altra penitentia non poze accorrere, con questa penitentia et coll’altre ke tu ai levate, 28 si sie tu rappresentatu ante conspectu Dei, ke lu diabolu non te nde posa accusare ke ttu 29 nde sie pentitu. Per intercessionem beatissime Dei ginitricis semper virginis Marie et 30 omnium sanctorum atque sanctarum, misereatur tibi Omnipotens usque in finem. 31 Indulgentiam et remissiones, absolutiones omnium peccatorum tuorum et spatium vere 32 penitentie et cor penitens tribuat tibi omnipotens et misericors Dominus. Amen.

I volgari italiani nei secoli XII e XIII

Sulla scia dell’unificazione politica il nome di Italia si estendeva, nel II sec. A. C., dallo stretto di Messina alle Alpi (le isole saranno integrate con la riforma di Diocleziano), ma le testimonianze linguistiche confermano che fu ben scarsa la solidarietà tra le genti della penisola. Pertanto il concetto di italianità risulta operante più come termine di contrasto che come dato intrinseco. La solidarietà che legava le genti italiche subisce il colpo definitivo con l’insediamento dei longobardi. A partire dal sec. XII affiorano gli antroponimi Italia, Etalia, Talia, che si riconducono al modulo allora assai frequente della identità tra nomi geografici e personali. Il concetto di Italia comincia a diffondersi quando la cultura si apre ad un orizzonte sociale più vasto, nell’età comunale, ma rimarrà a lungo una nozione avulsa dalla realtà politica, culturale e linguistica. Mentre nella Chanson de Roland è più volte ripetuto il sintagma “dolce Francia”, nell’Italia del Due-Trecento non esiste un sentimento nazionale e il nome di Italia si conforma a questi moduli:

a) l’Italia in riferimento al periodo romano;b) come espressione geografica;c) come termine di contrasto rispetto a genti straniere;d) come denominazione comprensiva delle singole genti d’Italia.

Mentre le aree settentrionali sono le più innovative quelle centro-meridionali conservano tratti della latinità tardo-imperiale, superati in altre parti della penisola (cfr. il campano “iss” < IPSUM). La conservazione del greco nella calabria meridionale e nel salento (magna grecia) non deriva da cause culturali ma è segno della povertà e dell’immobilismo dell’estremo sud.Nell’alto medioevo la toscana conserva la sua autonomia rispetto alla restante area centrale. Vedremo in seguito che l’affermazione del suo volgare non ha solo origini letterarie.

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La situazione di diglossia (= fruizione alternativa di una varietà alta codificata dalle grammatiche e una bassa per l’uso informale) consapevole regolata da un principio di distribuzione funzionale si protrae molto più a lungo in Italia che nei domini romanzi più evoluti. L’affidare il volgare alle scritture è un atto rivoluzionario che si produce sotto la spinta di idee nuove; il mutamento che avviene solo nella seconda metà del sec. XII, consiste nell’accesso del volgare alle scritture politiche, amministrative, letterarie e religiose.

Nel Duecento prendono l’avvìo durevolmente tante tradizioni volgari. Come si spiega la rapida e rigogliosa affermazione del volgare? I mutamenti si identificano nella nuova struttura economica, nella maturazione delle istituzioni comunali, nell’apporto della civiltà francese. La promozione del volgare come strumento del pensiero politico compie i primi passi nell’arengo comunale. L’uso del latino entra in crisi nella sua funzione prestigiosa, quella letteraria (ed è proprio Dante il testimone e l’artefice della eloquenza del volgare), mentre acquisisce strutture e forme che si piegano alle esigenze del pensiero scientifico. I volgari italiani ed europei saranno tributari di questo latino fino al Seicento, fino a Galileo; si forma così il primo nucleo di un vocabolario intellettuale europeo. In ogni caso il volgare si sviluppa in praesentia del latino e di ciò è un esempio il latino ecclesiastico che, per secoli, fino alla nostra modernità, raggiungerà tutte la classi sociali. Ecco perché il testo che ora esamineremo ha un’importanza decisiva nella comunicazione linguistica dei primi decenni del Duecento.

Francesco d’Assisi e il Cantico delle creatureIl primo, importante, testo della nostra storia linguistica, culturale, letteraria, ma soprattutto spirituale, è il Cantico di Frate sole di Francesco d’Assisi(1).La novità del movimento spirituale creato da san Francesco risiede non in una contrapposizione del diverso modo di sentire e d’operare cristiano rispetto ai motivi ascetici e morali che avevano determinato una così larga fioritura di spiritualità nel secolo XII, ma nell’aver condotto ad unità tutti quegli elementi, nell’avervi impresso un’energia costante e fervidissima. La predicazione itinerante era già nei movimenti religiosi precedenti, e così l’assiduo richiamo alla povertà evangelica e alla purezza di vita del tempo apostolico. I seguaci di Arnaldo da Brescia giungevano a considerare inefficaci i sacramenti impartiti da sacerdoti che non praticassero la povertà assoluta. Gli Umiliati insegnavano a vivere allo stesso modo dei cristiani primitivi, traendo dal lavoro i mezzi di sussistenza e nulla possedendo in proprio. Un analogo spirito di rinuncia ai beni terreni era a fondamento dell’operato di san Domenico, e accanto ai vari interessi dottrinari sollecitava alla creazione dell’ordine dei Frati Predicatori. San Francesco decide di organizzare in una severa disciplina e in una forma comunitaria più moderna, le diverse e profonde aspirazioni alla Imitatio Christi, presenti nel contesto religioso della sua epoca. Nello stesso tempo convoglia gli intenti riformistici in un programma più efficace perché privo della contrapposizione alla Chiesa di Roma, anzi riconoscente nei confronti del suo beneplacito. Conformandosi ad esso, Francesco vuole rinnovare la fede, all’interno della Chiesa, in uno spirito di pace, di serenità e di martirio che deriva proprio dalla sua Imitatio, suggellata dalle Stimmate(2).…………………………………………………………………………………………………………(1)Cfr. Giorgio Petrocchi, San Francesco e il Cantico di Frate Sole, in Cecchi e N. Sapegno (a c. di), Storia della letteratura italiana. Le Origini e il Duecento, Milano 1965, vol. I, pp.632-642.(2) Nato ad Assisi nel 1181 o 1182, fu battezzato col nome di Giovanni, ma il padre, ricco mercante di panni, Pietro di Bernardone, volle chiamarlo Francesco, per ricordare la nascita “francese” di sua moglie,

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madonna Pica, che egli, solito a recarsi in Francia per i suoi commerci, aveva conosciuto, forse in Provenza. Durante la giovinezza gaudente dovette indossare le armi nella guerra tra Assisi e Perugia(1204), in cui fu fatto prigioniero. Tornato in libertà, tentò nuovamente la carriera militare, cercando di raggiungere in Puglia le truppe di Gualtieri di Brienne. Sono questi gli anni della conversione e sublimazione dei suoi talenti naturali, ma anche del distacco dal suo ambiente familiare e sociale.Dopo la scelta del romitaggio il padre lo cita in giudizio e, davanti al vescovo, Francesco si spoglia di tutto, riconoscendo come unico Padre colui “che è nei cieli”(aprile 1207). Comincia una nuova vita fatta soprattutto di proselitismo; i primi compagni sono: Bernardo da Quintavalle, Egidio d’Assisi, Pietro Cattani, Angelo Tancredi, Masseo e Leone. Ad essi comunica la sua volontà di fondare una comunità alla cui base ci fosse la missione affidata da Gesù ai suoi apostoli: predicare il Verbo in assoluta povertà. A Roma Francesco chiede e ottiene da Papa Innocenzo III l’approvazione alla sua Regola e, tornando ad Assisi, si stabilisce alla Porziuncola, ove concede l’abito a santa Chiara (1212). Dopo alcuni tentativi di sbarcare in Africa, nel 1215, una grave malattia, contratta in Spagna, lo fa desistere dall’impresa di evangelizzare le genti di quel continente; vi riesce solo nel 1219, giungendo a Damiata, assediata dai Crociati e presentandosi poi al sultano al-Malik al Kamil, che non riuscì a convertire, ma che lo trattò benevolmente, consentendogli di recarsi in Terrasanta. Nel 1220 Francesco torna subito in Italia, perché nel suo Ordine, ormai assai accresciuto, si stanno verificando gravi lotte e dissidi intorno all’interpretazione del messaggio evangelico. Ciò era accaduto perché nell’Ordine erano entrati uomini di condizione sociale diversissima: popolani incolti e uomini dotti, laici e sacerdoti, attivi e contemplativi, a dimostrazione che la parola di Dio può raggiungere davvero tutti. La Curia romana, nel tentativo di disciplinare un movimento così eterogeneo, cerca di porlo sotto il controllo della sua gerarchia e vi riesce con l’aiuto di Francesco che affida la carica di Superiore generale prima a Pietro Cattani, uno dei suoi primi seguaci, e, alla morte di questi (1221), a frate Elia, serbando per sé la direzione spirituale, ma non accetta il consiglio di adottare per i suoi frati una delle regole tradizionali, come quella di San Benedetto o di sant’Agostino. Detta così una Seconda Regola, capace di conciliare l’originale fisionomia del suo Ordine con le esigenze della Curia, che è approvata da Onorio III il 29 novembre 1223. Sono gli ultimi anni della vita mortale di Francesco: nel 1224, sul monte della Verna, riceve le Stimmate; si reca poi nella valle di Rieti e infine alla Porziuncola, dove rende l’anima a Dio il 3 ottobre 1226.

Ai fini della comprensione della spiritualità di Francesco riportiamo la sua biografia così come Dante, poeticamente, la tramanda:

Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo,/ fertile costa d’alto monte pende, / onde Perugia sente freddo e caldo / da Porta Sole; e di rietro le piange / per grave giogo Nocera con Gualdo. / Di questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole, / come fa questo talvolta di Gange. / Però chi d’esso loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vuole. / Non era ancor molto lontan da l’orto, / ch’el cominciò a far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun conforto; / ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra; / e dinanzi a la sua spiritual corte / et coram patre le si fece unito / poscia di dì in dì l’amò più forte. / Questa, privata del primo marito,/ millecent’anni e più dispetta e scura / fino a costui si stette sanza invito; / né valse udir che la trovò sicura / con Amiclate, al suon de la sua voce, / colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura; / né valse esser costante né feroce, / che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce. / Ma perc’io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso. / La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi; / tanto che ‘l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo. / Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! / Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace. / Indi sen va quel padre e quel maestro / con la sua donna e con quella famiglia / che già legava l’umile capestro. / Né li gravò viltà di cuor le ciglia / per esser fi’ di Pietro Bernardone, / né per parer dispetto a maraviglia; / ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religione. / Poi che la gente poverella crebbe / dietro a costui, la cui mirabil vita / meglio in gloria del ciel si canterebbe, / di seconda corona redimita / fu per Onorio da l’Etterno Spiro / la santa voglia d’esto archimandrita. / E poi che, per la sete del martiro, / ne la presenza del Soldan superba / predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro, / e per

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trovare a conversione acerba / troppo la gente e per non stare indarno, / redissi al frutto de l’italica erba, / nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo, / che le sue membra due anni portarno. / Quando a colui ch’a tanto ben sortillo / piacque di trarlo suso a la mercede / ch’el meritò nel suo farsi pusillo, / a’ frati suoi, sì com’a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede; / e del suo grembo l’anima preclara / mover si volle, tornando al suo regno, / e al suo corpo non volle altra bara. PARADISO, XI, 43-117Prima di morire Francesco lasciò ai suoi frati un Testamento, che volle fosse divulgato in appendice alla Regola, vietando che a questa e a quello fossero apposte chiose e interpretazioni di sorta. Oltre a questi testi il Santo ci ha lasciato altri scritti in latino: anzitutto la cosiddetta “Prima Regola”, presentata nel Capitolo del 1221; varie admonitiones ai frati (in numero di 28), una lettera del 1223 a un ministro dell’Ordine, un’altra lettera diretta a tutti i fedeli per raccomandare loro il rispetto dei dodici precetti, la benedizione a frate Leone, una preghiera alla Vergine, le Laudes de virtutibus, le Laudes Dei. In volgare, il Cantico di frate Sole ovvero Laudes creaturarum. Sebbene Francesco si definisse “illetterato, incapace d’esprimersi, rozzo e puerile”, le tre lingue, da lui perfettamente conosciute, furono il latino, il francese e il volgare di Assisi (come l’analisi del Cantico ci permetterà di dimostrare). La profonda conoscenza delle Sacre Scritture, affiancata dal continuo contatto con gli ambienti di cultura e con gente proveniente da ogni parte d’Europa e dai viaggi fuori d’Italia, costituì il sostrato della cultura teologica, letteraria e anche scientifica di Francesco. Negli scritti latini, i cosiddetti Opuscula, tale esperienza si esprime in una profonda riflessione morale, in una limpida capacità d’esposizione e di persuasione, non disgiunte da una garbata freschezza espressiva, sì da voler riuscire non soltanto d’ammaestramento ma anche di consolazione. Il segreto dell’eloquenza francescana, come ci viene descritto dai biografi, consisteva infatti nella capacità di arricchire, con garbo, il discorso, pur mantenendolo sempre molto semplice e piano: alle improvvise elevazioni di tono teneva subito dietro una conversazione amabile, familiare. Più che nella Regola definitiva, revisionata dal cardinale Ugolino, poi Gregorio IX, è nelle lettere, nelle Laudes e nel Testamento, che riusciamo a cogliere qualche accento del fascino oratorio di Francesco. I temi fondamentali del francescanesimo, la rassegnazione, la penitenza, l’umiltà, la carità, la povertà, l’amore di Dio, sono presentati all’attenzione dei fratres e delle sorores, laici e consacrati, come altrettanti doni dello Spirito. Così nel Testamento ricorda gli intenti secondo i quali era nata la sua comunità:

Et postquam Dominus dedit mihi de fratribus, nemo ostendebat mihi, quid deberem facere; sed ipse Altissimus revelavit mihi, quod deberem vivere secundum formam sancti Evangelii. Et ego paucis verbis et simpliciter feci scribi; et dominus papa confirmavit mihi. Et illi qui veniebant ad recipiendam vitam istam, omnia, quae habere poterant, dabant pauperibus; et erant contenti tunica una intus et foris repeciata, qui volebant, cum cingulo et brachis. Et nolebamus plus habere. Officium dicebamus clerici secundum alios clericos, laici dicebant Pater noster ; et satis libenter manebamus in ecclesiis. Et eramus idiotae et subditi omnibus. Et ego manibus meis laborabam et volo laborare ; et omnes alii fratres firmiter volo quod laborent de laboritio, quod pertinet ad honestatem. Qui nesciunt, discant, non propter cupiditatem recipiendi pretium laboris, sed propter exemplum et ad repellandam otiositatem. Et quando non daretur nobis pretium laboris, recurramus ad mensam Domini petendo elemosynam ostiatim… Sicut dedit mihi Dominus simpliciter et pure dicere et scrivere regulam et ista verba, ita simpliciter et pure (sine glossa) intelligatis et cum sancta operatione observetis usque in finem. Et quicumque haec observaverit, in caelo repleatur benedictione altissimi Patris et in terra repleatur benedictione dilecti Filii cum Sanctissimo Spiritu Paracleto et omnibus virtutibus caelorum et omnibus sanctis. Et ego frater Franciscus, parvulus vester et servus, quantumcumque possum, confirmo vobis intus et extra istam sanctissimam benedictionem. Amen.(1)

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L’innata disposizione a coglier gli aspetti più significativi della Natura in quanto riflessi dell’amore del Creatore verso le creature, emerge anche nelle Laudes in latino, che spesso sono parafrasi di espressioni scritturali, ma anche denotano l’eccezionale personalità dell’asceta e la sua partecipazione commossa e pura. Esse ci introducono alla celeste poesia del Cantico di frate Sole.

…………………………………………………………………………………………………………(1) Ed. Quaracchi del 1949. Nel volgarizzamento trecentesco il testo è tradotto così: “E poiché il Signore m’ha dato la cura dei frati, niuno mi mostrava quello che io dovessi fare, solamente l’altissimo Iddio mi ha rivelato ch’io debba vivere secondo la forma del santo Vangelo, e io con poche parole e semplici l’ho fatta scrivere, e messer lo Papa me l’ha confermata. E coloro che venivano a ricevere questa vita, tutto quello che avevano e avere potevano, davano ai poveri, ed erano contenti d’un solo vestimento, dentro e di fuori rappezzato e racconciato, con lo cingolo e brache, e più non volevano avere. L’officio noi chierici dicevamo secondo gli altri chierici, e i laici dicevano il pater nostro. E molto volentieri stavamo nelle chiese ed eravamo ignoranti e sottoposti a tutti. Ed io con le mie mani lavorava, e voglio affaticarmi a lavorare; e tutti gli altri frati fermamente voglio che lavorino del lavorio che sia onesto e ad onestà s’appartenga. E coloro che non sanno, imparino, non per desiderio di riceverne alcun prezzo della fatica, ma solo per dare bono esempio e per scacciare l’ozio. E quando non c’è dato premio della fatica, ricorriamo alla mensa del Signore, domandando limosina a uscio a uscio…Come il Signore Iddio a me ha dato di semplicemente e puramente dire e scrivere la Regola, e queste parole, così semplicemente e puramente senza alcuna glossa intendere la dobbiate, e con operazioni sante osservarla infino alla fine. E ciascuno che la osserverà sia ripieno in cielo della benedizione dell’Altissimo Padre, e in terra sia ripieno delle benedizioni del dilettissimo suo Figliuolo, con il santissimo Paraclito Spirito, con tutte le virtù de’ cieli, con tutti i Santi. Ed io frate Francesco, minore, e piccolino vostro servo, per ciascheduno modo e quanto a me è possibile, confermo a voi entro e fuora questa santissima benedizione, a laude e gloria del glorioso Iddio. Amen”

Secondo antiche fonti francescane il Cantico sarebbe stato composto in San Damiano, nel 1224, dopo una notte di dolore e dopo una visione divina che avrebbe promesso a Francesco la beatitudine. Il Santo si sarebbe dapprima limitato a dettare le lasse iniziali; quindi avrebbe aggiunto quelle della rassegnazione e del perdono, in seguito ad una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà d’Assisi; salvo poi completare il cantico poco prima della morte. Tuttavia l’opera si presenta animata da un’ispirazione unitaria, sia poeticamente sia nei temi di esaltazione e di meditazione religiosa: le fonti bibliche (un passo di Daniele e un luogo del salmo 148) restano soltanto una traccia sopra la quale Francesco ha impresso il segno della sua personale creazione lirica. Il componimento è in versetti di intonazione biblica, assonanzati ma non riconducibili ad un metro preciso; la lingua può essere definita umbro illustre perché affianca il latinismo a lessemi di uso parlato e popolare:

1 Altissimu onnipotente, bon Signore,2 tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

3 Ad te solo, Altissimo, se Konfano,4 et nullu homo ène dignu te mentovare.

5 Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,6 specialmente messor lo frate sole,7 lo qual è iorno, et allumini noi per lui.8 Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:9 de te, Altissimo, porta significatione.

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10 Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:11 in celu l’ài formate clarite et preziose et belle.

12 Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento13 et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,14 per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

15 Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,16 la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta.

17 Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,18 per lo quale enallumini la nocte: 19 et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

20 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,21 la quale ne sustenta et governa,22 et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

23 Laudato si’, mi’ Signore, per quelli Ke perdonano per lo tuo amore24 et sostengo infirmitate et tribulatione.

25 Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,26 ka da te, Altissimo, sirano incoronati

27 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,28 da la quale nullu homo vivente pò skappare:29 guai a’cquelli ke morrano ne le peccata mortali;30 beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,31 ka la morte secunda no ‘l farrà male.

32 Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate33 e serviateli cum grande humilitate. (ed. a cura di Gianfranco Contini) “La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove.” PD, I, 1-3

L’inno di grazie, innalzato al Creatore, per un mondo bellissimo e mirabile nella sua armonia e nei suoi fini, affonda le sue radici non già in un facile e superficiale entusiasmo, bensì nel travaglio dell’ascesi e della penitenza, dal quale l’anima risorge rinnovellata, capace di contemplare le cose e le vicende della terra con occhi nuovi, sereni e ridenti. Dalla varia disposizione e natura di tutte le cose l’anima trae motivo per glorificare la molteplicità degli esseri creati e per comprendere la loro necessità, in quanto dai vari elementi e dalle varie vicende l’uomo riceve ciò di cui ha bisogno per sostentarsi e per vivere. E così dalla contemplazione del creato la lode scende alla visione dell’umanità, che in terra patisce dolori e malattie, ma che da Dio riceve la forza per sopportarli e per perdonare le offese. Nell’abbraccio fraterno al creato c’è un atto totale d’amore, quasi per voler ricambiare l’amore col quale e per il quale Dio ha generato il mondo: e in tal ricambio Francesco porge la prova della sua umiltà e del suo annullarsi nel Creatore (1). Si noti la concretezza delle immagini poetiche: essa deriva dalla natura profondamente educativa del Cantico e da una fede che non ha più bisogno degli occhi del corpo. Essendo Dio il Bene e il Bello supremo, gli elementi della sua creazione devono essere visti nella loro somiglianza a Lui, ma il Santo sa di parlare a tutti, anche agli indotti (2) che vedono con gli occhi del corpo, ed ecco che la lingua e lo stile prescelti adempiono al fine del testo. Questo fine è anche di natura pratica: offrire ai fratelli un testo da cantare in lode del Signore e da

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insegnare alla gente devota. C’è infatti nel Cantico anche una linea musicale, affidata al suo ritmo particolare che è di ispirazione salmistica e litanica, con la possibilità di ripetere, nel canto, la melodia in un tempo più breve o più lungo a seconda della misura sillabica del singolo verso.

…………………………………………………………………………………………………………(1) Gesù disse ai discepoli: “Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che

mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! Chi di voi, per quanto si affanni può aggiungere un’ora sola alla sua vita? Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? Guardate i gigli come crescono: non filano, non tessono; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro: Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta.” (Luca, 12, 22-31)

(2) In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero.” (Matteo, 11, 25-30)

Dante

Ove si intenda lingua nel senso di “lingua capace di tutti gli usi letterari e civili” è indiscutibile che a Dante spettino i meriti di demiurgo. D’un balzo l’italiano assurge al livello di grande lingua capace di alta poesia e di speculazioni filosofiche.Sebbene le condizioni politiche dell’Italia del Due-Trecento non lo permettessero, Dante ravvisò nei diversi volgari una sostanziale identità e somiglianza, derivanti dall’origine comune. Dante è un teorico che individua nella situazione in atto i germi di ciò che prima o poi dovrà accadere; con la Vita nuova e poi col Convivio si passa da un toscano non vernacolare a un impasto linguistico che può essere chiamato italiano. Il pensiero linguistico di Dante si fonda sull’assunto che l’unificazione linguistica non è predeterminata dai pregi intrinseci di un idioma bensì nasce da un moto di cultura solidale. Al principio del libro II del De vulgari eloquentia si afferma che il volgare illustre si esprime “tam prosayce quam metrice” ( il diritto di precedenza alla poesia viene motivato con ragioni storiche) e infatti la prassi di Dante prosatore non può disgiungersi dalla sua dottrina linguistica. Come sarà poi per Manzoni, alla base della dottrina linguistica di Dante è sottesa la sua filosofia morale e politica: l’Italia, giardino dell’Impero, non è ancora nazione ma lo è potenzialmente e il volgare illustre, connotato linguistico dell’unità della nazione, è presentato come oggetto di ricerca, cioè come potenzialità non pienamente attualizzata; a livello regionale i volgari si differenziano l’uno dall’altro ma la varietà sottende l’unità dei tratti fondamentali.

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Per essere espressione della cultura nazionale il volgare illustre deve configurarsi come un comun denominatore delle varietà dialettali e pertanto essa deve appartenere ad ogni città e, nello stesso tempo non è propria di nessuna, ancorché i suoi caratteri si possano manifestare più spiccatamente in una città piuttosto che in un’altra. Ma per fungere da strumento di espressione della cultura nazionale, questa lingua provincializzata deve essere provvista di altre proprietà:

a) deve distinguersi per impegno intellettuale (volgare illustre);

b) deve fungere da esempio ai volgari municipali (volgare cardinale);

c) deve essere principio unificatore della vita nazionale (volgare aulico);

d) deve appartenere agli uomini sommi, cioè a quelle forze intellettuali che costituiscono potenzialmente la curia imperiale d’Italia (volgare curiale).

Passando dalla teoria alla osservazione della realtà, Dante rileva che, come esistono volgari regionali e sovraregionali, così pure si hanno esempi di questo volgare d’Italia: lo parlano coloro che hanno consuetudine con le corti, lo hanno adottato poeti illustri di più parti d’Italia e tra questi alcuni poeti toscani, tra cui Dante stesso, che hanno praticato un eccellente volgare illustre (il che induce a ritenere che il toscano provincializzato fosse considerato il modello più idoneo del volgare illustre). Come poi in Manzoni, nella scelta del volgare si manifesta l’impegno civile e cristiano di Dante. Dante vede nell’unificazione linguistica un’opera di cosciente ricerca e di creazione, presente sempre a se stessa, da parte di una minoranza eletta, che, attraverso il magistero dell’arte e il prestigio di forme più raffinate di vita spirituale e con l’appoggio del potere politico accentratore delle forze più vive, dia maggiore uniformità ed ampiezza all’uso linguistico. L’uso, pur essendo fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici, cioè alla lingua latina, possiede una sua particolare nobiltà:1 Dicimus celeriter attendentes quod vulgarem locutionem appellamus eam quam infantes 2 adsuefiunt ab adsistetibus, cum primitus distinguere voces incipiunt; vel quod brevius

3 dici potest, vulgarem locutionem asserimus, quam sine omni regula, nutricem imitantes,4 accipimus.Est et inde alia locutio secondaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt.5 Hanc quidam secundariam Greci habent et alii, sed non omnes. Ad habitum vero huius pauci6 perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et7 doctrinamur in illa. Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano8 generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula9 sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat. Et de hac nobiliari 10 nostra est intentio pertractare.(1) DE VULGARI ELOQUENTIA, I, l, 2-7

La Vita nuovaL’iter linguistico di Dante comincia con il prosimetro della Vita nuova. La prosa fiorentina anteriore si nutriva già di retorica conoscitiva e non di ornato (il che significa usare le figure retoriche non per “abbellire” il testo ma secondo un preciso fine conoscitivo: cfr. Brunetto Latini): la lingua di questa prosa, a differenza della lirica cortese, apre sempre di più verso il latino ampliando e fissando il nuovo lessico volgare. Dante è portato a strutture più spiccatamente

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ragionative che tendono ad una ricerca di essenzialità verbale e che dimostrano già una interpretazione personale della lezione retorica di Brunetto. E’ sì l’inizio di un soave stile, ma già con un procedere filosofico. Il dilatarsi dell’esperienza conduce Dante a cercare un diverso e più intimo rapporto proprio con la lingua naturale della sua città; ciò si realizza più su un piano di innovazione che di attualizzazione della lingua fiorentina. La lingua e lo stile della Vita nuova rifiuta ogni particolare contingente nella sublimazione dei fatti reali in verità generali, mentre ogni accidente secondario viene sacrificato alla sostanza del dettato. L’esame delle pagine in prosa, che riflettono sulla lirica relativa, molto ci insegnano sulla lingua e sulla tecnica sia della prosa che della poesia. Domina la subordinazione latineggiante e il lessico comprende numerosi latinismi. Il discorso in poesia e il discorso in prosa dispongono gli stessi temi in maniera assai diversa: le similitudini e le metafore della poesia sono sciolte logicizzando i passaggi poiché la prosa si attiene alla successione cronologica delle azioni. La prosa della Vita nuova se dà scarsissime indicazioni spaziali, si indugia su precisazioni temporali per ragioni numerologiche. Pertanto i moduli sintattici propri di questa prosa sono:

a) un andamento subordinante fittamente ripetitivo dei tipi sintattici e degli elementi lessicali (la subordinazione non oltrepassa la subordinata di I grado e procede insieme ad una fittissima rete di congiunzioni);

b) un continuo procedere parallelistico che è in fondo conseguenza di quell’andamento;c) si ricorre sovente alla battuta in latino, più spesso di tono scritturale (i riferimenti scritturali

filigranano di continuo le parti più profetiche della prosa), anche se molti latinismi provengono dalla trattatistica filosofica medievale;

d) ripetizione della stessa parola, dopo un breve intervallo, o nello stesso periodo: spesso la ripetizione riguarda la parola-chiave del brano (il modello parallelistico è di origine scritturale e, più precisamente, evangelica);

e) stile “a festone”, che dominerà nel Convivio,: la struttura del periodo può essere ricondotta al processo dimostrativo del sillogismo, perché si tratta di istituire una catena di cause ed effetti. ………………………………………………………………………………………..

(1) “Dico che parlar volgare chiamo quello nel quale i bambini sono assuefatti dagli educatori, quando inizialmente cominciano a distinguere le voci; ovvero, più brevemente, il volgar parlare affermo essere quello, il quale senza altra regola, imitando la balia, s’apprende. C’è ancora un altro secondo parlare, che i Romani chiamarono grammatica. E questo (linguaggio) secondario hanno i Greci e altri, ma non tutti. Pochi pervengono alla conoscenza di esso, perché possiamo apprendere le regole e indottrinarci in essa (la grammatica) se non attraverso un certo periodo di tempo e assiduità di studio. Di queste due (lingue) il volgare è più nobile: sia perché fu il primo ad essere usato dall’umano genere sia perché tutti si servono di esso, pur essendo diviso in diverse pronunce e vocaboli, sia perché ci è naturale mentre l’altra (la grammatica) è artificiale. E di questa (lingua ) più nobile è nostra intenzione occuparci attentamente.”

Esemplifichiamo con il cap. XXIX della Vita nuova:1 Io dico che, secondo l’usanza d’Arabia, l’anima sua mobilissima si partio ne la prima ora del2 nono giorno del mese; e secondo l’usanza di Siria, ella si partio nel nono mese de l’anno, però 3 che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre; e secondo l’usanza nostra, ella 4 si partio in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero 5 nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella6 fue de li cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, 7 questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la8 cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e, secondo comune opinione astrologa, li 9 detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di 10 lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli

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11 perfettissimamente s’aveano insieme. Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente12 pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per13 similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza 14 numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via 15 tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se16 medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno,17 questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era 18 uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile19 Trinitade. Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma20 questa è quella ch’io ne veggio, e che più mi piace. VITA NUOVA, XXIX, 1-4

Il ConvivioAnche se la Vita nuova preannuncia i moduli espressivi del Convivio Dante distingue questi due momenti della sua esperienza linguistico-stilistica definendo la prima come opera “fervida e passionata” e la seconda come “temperata e virile”. La comprensione delle cose che avviene “quasi come sognando” nella Vita nuova, è raggiunta ora con cosciente chiarezza attraverso la parola ornata di grandi autori del passato, da Cicerone a Boezio. La retorica, usata anche per ornamento del dire, viene concepita da Dante come l’inscindibile mezzo di manifestazione della filosofia, secondo il principio della convenientia della forma alla materia da trattare: l’abbellimento non è altro che il modo con cui si opera la persuasione. La scienza del dire si genera dalla volontà di esprimere adeguatamente la coesione e la stabilità della ragione, altamente insegnando. La ricerca retorica, tendente ad un’alte e crescente espressione letteraria, si propone quindi come continua e costante equivalenza della scienza-sapienza. La fondamentale aspirazione retorica della prosa del Convivio è soddisfatta da una vasta e originale derivazione di strutture e modi della prosa latina scritturale, della trattatistica scientifica e della prosa latina classica (ma la latinità scritturale prevale su quella classica):

a) fortissima impronta latina su aggettivi e sostantivi;b) la parola latina è tradotta col latinismo equivalente ed un sinonimo volgare;c) frequenza di astratti (come nel latinismo scritturale);d) inversione della disposizione normale delle parole (verbo posto alla fine della frase);

e) il gusto della ripetizione, già nella Vita nuova, si accentua;f) la traduzione di alcuni periodi ciceroniani, offre esempi di varietà e ampiezza compositiva,

ricalcati sul modello fortemente subordinante, anche con forti latinismi lessicali;g) la fitta presenza di latinismi crea un ponte con la lingua della Commedia.

La prosa del Convivio deriva anche dai volgarizzamenti e dai trattati scientifici in volgare; d’altra parte lo stesso abito scientifico di Dante determina interessanti aperture verso un lessico sempre più ampio e anche verso una terminologia realisticamente connotata, che viene a convivere con forti latinismi scientifici. Conseguentemente, come vedremo nel seguente esempio, il lessico del Convivio diventa fortemente concreto in alcuni exempla realistici, inseriti per dimostrazione, sull’esempio dei procedimenti scolastici. La costruzione sillogistica ( es. se A è uguale a B e B è uguale a C, A è uguale a C ), di tipo scolastico, dominante nel trattato, si espande in modilargamente simmetrici, sia internamente ai periodi sia nelle relazioni fra i periodi e fra le varie parti dei capitoli, costituendone il continuo riferimento organizzativo. La tendenza alla simmetria del discorso si realizza spesso con periodi composti di parti speculari, con procedimenti parallelistici, oppure con un’ampia serie di correlazioni. I propositi ragionativi di Dante tendono ad una continua

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catena di simmetrie che determinano periodi ricchi di incidentali, esclamative e interrogative. Quando Dante descrive le sue vicende personali e il suo itinerario spirituale e culturale, il tono oratorio si intensifica; così accade nel brano seguente, che loda, con passione, la lingua volgare:1 Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così2 onorevole per li suoi convitati, s’appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere3 evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato4 lungamente, sì come di comentare con latino. E però vuole essere manifesta la ragione, che5 de le nuove cose lo fine non è certo; acciò che la esperienza non è mai avuta onde le cose6 usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate. Però si mosse la Ragione7 a comandare che l’uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino,8 dicendo che ‘ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire 9 ne faccia da quello che lungamente è usato’. Non si meravigli dunque alcuno se lunga è10 la digressione de la mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente sostenga.11 La quale proseguendo, dico che – poi ch’è manifesto come per cessare di sconvenevole12 disordinazione e come per prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare comento e lasciai13 lo latino – l’ordine de la intera scusa vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale14 amore de la propria loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse.15 Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a16 magnificare l’amato; l’altra è ad essere geloso di quello; l’altra è a difendere17 lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero18 prendere lui,cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente amo e ho amato.19 Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo magnifico, per questa ragione vedere20 si può; avvenga che per molte condizioni di grandezze le cose si possono magnificare,21 cioè fare grandi, e nulla fa tanto grande quanto la grandezza de la propria boutade, la 22 quale è madre e conservatrice de l’altre grandezze; onde nulla grandezza puote avere23 l’uomo maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è sua propria boutade, 24 per la quale le grandezze de le vere dignitari, de li veri onori, de le vere potenze, de le vere 25 ricchezze, de li veri amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e conservate sono: e 26 questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di bontade avea in podere e27 occulto, io lo fo avere in atto e palese ne la sua propria operazione, che è manifestare28 conceputa sentenza.29 Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia de l’amico fa l’uomo sollecito a lunga30 provedenza. Onde pensando che lo desiderio d’intendere queste canzoni, a alcuno illetterato31 avrebbe fatto lo comento latino trasmutare in volgare non fosse stato posto per alcuno che

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32 l’avesse laido fatto parere, come fece quelli che trasmutò lo latino de l’Etica – ciò fu Taddeo33 ipocratista – providi a ponere lui, fidandomi di me di più che d’un altro.34 Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano esso e 35 commendano li altri, massimamente quello di lingua d’oco, dicendo che è più bello36 e migliore quello che questo; partendose in ciò da la veritade. Ché per questo comento37 la gran boutade del volgare di sì (si vedrà); però che si vedrà la sua vertù, sì com’è per esso38 altissimi e novissimi concetti sconvenevolmente, sufficientemente e acconciamente, quasi39 come per esso latino, manifestare; (la quale non si potea bene manifestare) ne le cose40 rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, ioè la rima e lo ri(tim)o41 e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza d’una donna,42 li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima.43 Onde chi vuol ben giudicare d’una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza44 si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo45 comento, nel quale si vedrà l’agevolezza de le sue sillabe, le proprietati de le sue costruzioni46 e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà, vedrà essere piene di47 dolcissima e d’amabilissima bellezza. Ma però che virtuosissimo è ne la ‘ntenzione mostrare48 lo difetto e la malizia de lo accusatore, dirò, a confusione di coloro che accusano la italica49 loquela, perché a ciò fare si muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo, perché più50 notevole sia la loro infamia. CV, X, 1-14 L’uso del volgare nel Trecento

Il tipo dialettale da cui ha preso avvìo la formazione della lingua italiana è dunque il fiorentino di Dante.Rapidamente l’uso del volgare si estende a tutta la legislazione statutaria (statuti comunali e delle singole corporazioni. Si veda il testo seguente:

Statuti di Perugia (15 settembre 1342) 1 Che glie mulina da l’ulive overo tentoia en la cità overo en glie borghe non s’aggiano, de glie2 quaglie suzzura decurra en le vie. E de la molsa de le peglie da non fare. E de le peglie da non 3 scarnare. Con ciò sia cosa che tra tutte le cose le qual se considerano a la salute e bellezza de 4 la citade, la bellezza e le nettezze de le vie più spesso s’attendano, e entra l’altre cose le 5 quale en la cità rendono le vie sozze e non nette è l’acqa mora la quale essce de l’ulive e de 6 le tegneture, dicemo e ordenamo che a niuno sia licito da ogge ennante, de quegnunque7 condittione sia, entra gle mura de la cità e de gle borghe overo entra gle soborghe de

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8 Peroscia avere mulina d’ulive overo tengnetoia, de gle quagle mulina e tegnetoie acqua mora 9 overo sozzura, la quale essce da gle ditte mulina e tengnetoie, decurga overo venga enn10 alcuna via de la cità overo de gle borghe overo de gle soborghe. E chi contraffarà sia punito 11 per la potestade e capetanio en diece livere de denare, e de ciò sia ciascuno accusatore e12 aggia la meità del bando. 13 Ancora niuno possa scarnare la pelle, né fare molsa de pelle en la cità de Peroscia. E chi14 contraffarà sia punito per ciascuna volta en diece livere de denare, e ciascun possa essere 15 accusatore e aggia la meità del bando.

Continuano i volgarizzamenti, già avviati nel Duecento, di opere latine come la Terza e Quarta Deca di Tito Livio, compiuta dal Boccaccio. L’autore del Decameron, archetipo della prosa narrativa italiana, si adegua alla norma grammaticale del fiorentino, ma le sue scelte sintattiche vanno in direzione del latino (es. uso di participi e gerundi e verbo in fine di frase). I tratti latineggianti del Boccaccio sono condivisi anche dal Dante prosatore.Gradatamente si afferma la preminenza di Firenze in Toscana e della Toscana in Italia: l’aver avuto scrittori eccellenti conferisce anche all’idioma in cui essi hanno scritto un titolo di preminenza. Se con l’avvento delle Signorie ogni corte tende a promuovere la propria Koinè linguistica, il volgare fiorentino e toscano comincia ad imporsi anche nelle altre aree della penisola e cioè il nord e il sud. NORD: negli scritti e nei documenti ci si avvìa a Koinai sempre più vaste, in cui il latinismo cede il posto progressivamente al toscanismo ma la connotazione del nord resta (es. fradel per “fratello”). SUD: nel regno di Napoli, nei testi di fine Trecento, appaiono numerosi toscanismi; in Sicilia, già nella seconda metà del Trecento, il toscano comincia ad avere autorità di lingua letteraria.Nella seconda metà del Trecento si diffonde l’umanesimo e comincia così l’ingresso di latinismi nel volgare fiorentino-toscano. Ciò è causato dal bisogno di compilatori e traduttori di opere scientifiche e filosofiche in volgare e dal bisogno di innalzare il volgare alla dignità del latino. Come era accaduto nel LV, si adotta l’accusativo togliendo la -m finale ma non è rara l’adozione del nominativo . Accanto all’adattamento c’è l’uso del latinismo tale e quale es. Dante dice : “Le cose si possono magnificare cioè fare grandi” (il che prova che la parola era sconosciuta). Si afferma anche la tendenza a rilatinizzare parole entrate nell’uso secondo la fonetica toscana: ferire sostituisce “fedire”.

L’uso del volgare nel Quattrocento

Nel Quattrocento Firenze diventa centro di irradiazione sia dell’umanesimo latino che dell’umanesimo volgare. Gli eventi importanti ai fini del nostro discorso sono: il Certame coronario (Firenze, 1441); la stampa delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio (si chiamano incunaboli i primi libri a stampa) da parte di Aldo Manuzio (Venezia, 1470-80); la fine dell’impero romano d’oriente (1453). La principale conseguenza linguistica del passaggio dal manoscritto all’incunabolo è l’accettazione di una norma comune nella grammatica e nel lessico ; avendo un maggior numero di lettori il libro deve avere un assetto grammaticale corretto, con parole comprensibili (errore = ostacolo alla comprensione).

Leon Battista Alberti31

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Nelle lettere e nelle arti è costante ed operante la simbiosi latino-volgare: es. titoli latini per opere italiane; intere frasi latine inserite in un contesto volgare (in quest’epoca sono sinonimi i termini: volgare, fiorentino, toscano, italiano). Da ciò nasce lo sforzo di fissare le regole per la lingua: una delle prime grammatiche, costruita sul modello latino, è Regulae linguae florentinae di Leon Battista Alberti. La fioritura della tipografia di Aldo Manuzio, a Venezia, fa di quella città una roccaforte della diffusione del toscano letterario; ogni trascrizione tipografica tende ad eliminare le peculiarità troppo dialettali del testo. Come gli umanisti vogliono imitare i modelli latini, così chi scrive in volgare (al nord come al sud) si adegua ai modelli riconosciuti: Dante, Petrarca e Boccaccio.L’italiano si afferma in Europa come lingua di cultura e come lingua legata alla scrittura. La lingua comune attinge al fiorentino ma il mutato orizzonte culturale, a cui la nuova lingua deve la sua ragion d’essere, fa sì che il modello fiorentino non venga accolto passivamente ma depurato dei suoi tratti municipali. Gli umanisti coltivano la letteratura in latino e negano ogni valore alla letteratura in volgare; uno dei pochi che si oppongono a questa corrente è Leon Battista Alberti(1404-1472) che organizza a Firenze nel 1441 il certame coronario, gara poetica in volgare per dimostrare che, come già aveva affermato Dante, il volgare aveva le stesse potenzialità del latino. L’argomento di questa gara fu l’amicizia. L’Alberti compose nel 1433-4 i primi tre dei Libri della famiglia, rielaborati più tardi, mentre è del 1440 il quarto e ultimo libro, sull’amicizia (tema del certame coronario). In quest’opera, sulla scia di Dante, Alberti esprime la sua fiducia sulle possibilità espressive del volgare e sulla sua perfettibilità:

1 Più tosto forse e’ prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’intenda,

2 prima cerco giovare a molti che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi

3 dì e’ litterati (…). Ben confesso quella antiqua latina lingua essere copiosa molto e

4 ornatissima, ma non però veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto d’averla in odio,

5 che in essa qualunque benché ottima cosa scritta ci dispiaccia. A me par assai di presso

6 dire quel ch’io voglio, e in modo ch’io sono pur inteso, ove questi biasimatori in quella

7 antica sanno se non tacere, e in questa moderna sanno se non biasimare chi non tace.

8 E sento io questo: chi fusse più di me dotto, o tale quale molti vogliono essere riputati,

9 costui in questa oggi comune troverrebbe non meno ornamenti che in quella, quale essi

10 tanto prepongono e tanto in altri desiderano. Né posso io patire che a molti dispiaccia

11 quello che pur usano, e pur lodino quello che né intendono, né in sé curano di intendere.

12 Troppo biasimo chi richiede in altri quello che in sé stessi recusa. E sia quanto dicono

13 quella antica apresso di tutte le genti piena d’autorità, solo perché in essa molti dotti

14 scrissero, simile certo sarà la nostra s’e’ dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie

15 essere elimata e polita.

Santa Francesca Romana

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Francesca Romana organizzò una comunità di oblate, cioè di donne secolari, ascritte al monastero dei benedettini olivetani di S. Maria Nuova in Roma; più tardi prese in affitto e quindi acquistò la casa di Tor de’Specchi, non lontano dal Campidoglio, per ospitare le oblate che volessero condurvi vita in comune. Rimasta vedova (1436), anche Francesca si trasferì a Tor de’Specchi fino alla morte(1440). Per quanto il suo mondo graviti verso l’ordine benedettino, s’intravvede anche la presenza di un francescano osservante, fra Bartolomeo, che si ritrova fra i testimoni del processo di beatificazione.Le Visioni di S. Francesca Romana furono scritte dal Mattiotti, sua guida spirituale, in latino e, successivamente, in volgare romanesco. La scrittura doveva servire come guida di vita alle oblate della casa di Tor de’ Specchi e proporre, soprattutto attraverso la viva espressione del volgare locale, il modello religioso da imitare. Poco dopo la morte di Francesca, mentre si tenevano i primi tre processi (1440, 1443 e 1451) che avrebbero avviato la canonizzazione, sancita da un nuovo processo del 1604, il Mattiotti stese in volgare il racconto delle visioni, preceduto da brevi notizie biografiche e seguìto dalla narrazione della morte. Che Francesca Romana sapesse leggere è provato da qualche testimonianza esplicita sulle sue letture di testi sacri in volgare; è ben verosimile che sapesse anche scrivere, ma non fino al punto di poter comporre il diario delle sue visioni, dato che una volta le si presentò il demonio, sotto le spoglie del Mattiotti, e le disse: Voglio scrivere li grandi revelationi et visioni che Dio te dao. L’opera volgare del Mattiotti fu pubblicata da Armellini nel 1882 e, recentemente, da Alessandra Romagnoli, che seguì un ms. dell’Archivio Segreto Vaticano, datato 1469. Per quanto la lingua del Mattiotti sia fortemente connotata in senso romanesco, compaiono i primi segni del cambiamento. La scrittura manifesta l’interferenza di soluzioni morfologiche e grafiche diverse e l’oscura consapevolezza di una norma differente. Gli ipercorrettismi ( ad es. - nd - per - nn - vedi darando per daranno ) sono numerosi in altre scritture centro-meridionali affini, tradizione laudistica e osservanza francescana, comunque riconducibili alla letteratura religiosa. E’ anche vero, tuttavia, che intorno alla metà del Quattrocento la scrittura romanesca si sta modificando sotto la spinta del toscano, rinnovamento probabilmente preparato dalla diffusione della letteratura laudistica dell’Italia mediana. E’ una situazione di rimescolamento e di contatto fra scriventi e parlanti di regioni diverse. Alla metamorfosi del romanesco da idioma meridionale a idioma prossimo al fiorentino contribuirono i papi medicei del primo Cinquecento, con la conseguente immigrazione fiorentina di prelati, funzionari ecclesiastici e laici, cortigiani e così via. La smeridionalizzazione fu progressiva e partì dalle classi alte. I ceti popolari restarono legati ad una varietà linguistica arcaica. Vediamo ora questo brano tratto dalle Visioni di santa Francesca Romana:

1 Anche Lucifero vede tucti demonii che staco nello inferno, e ne l’airo, e quelli che so nel

2 mundo infra noi, e tucti se vedono l’uno l’altro senza ostacolo, e tucti intiendo subito la

3 volontà de Lucifero, advenga che la divina iustitia agia così ordinato. 4 Et quelli miseri demonii li quali stando ne l’airo, staco in meço inter lo cielo

stellato e la5 terra, e generalmente aco grande pena in uno muodo, e sempre se percoteno

l’uno6 l’altro. Anche ànno grande cruciato dello bene che se fa nello mundo, advenga

che anche7 tucti l’altri demonii ne agiano tormento dello bene che se fa. Et advenga che

non agiano8 lo fuoco infernale, tamen in essi sentono la grande pena dello dicto fuoco. Et

così è de9 quelli demonii li quali stando infra noi nello mundo.10 Ma quelli demonii che staco nello inferno, staco nello fuoco e sentono la pena

dello dicto11 fuoco. Et quelli demonii li quali stanno ne l’airo, e quelli che staco infra noi

nello mundo,12 so più cruciati quelli della suprema et seconda gerarchia che l’altri, ad

similitudine de 33

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13 quelli dello inferno, che li più malitiosi ànno magiore tormento.14 Usava essa beata quando erano le grande tempeste, le quale procedevano

da quelli15 Demonii, li quali staco nello airo, ché ben essa lo conosceva, accendere la

candela16 benedecta, e de spargere l’acqua benedecta, e diceva essa beata como era

grande utilità17 contro tucti li demonii.

Nonostante gli Umanisti ritengano che il latino sia culturalmente superiore al volgare, questo continua ad essere usato nelle cancellerie e nei tribunali. Con questo testo della Cancelleria Visconteo-sforzesca di Milano concludiamo le testimonianze dell’italiano quattrocentesco.

Disposizioni di Lodovico il Moro intorno al governo dello Stato di Milano dopo la sua morte (Milano, 1497)

1 Dovi la persona del del fiolo successore habii stare et del modo quale se ha tenere

2 verso epsa.3 La persona del fiolo nostro, quale ne succederà, ordinamo stagi in Milano, in

castello4 dovi è la stantia ducale, e volemo che la rocha se servi più salvatica che si po’,

sola in5 potestà del Castellano, senza commistione de altre gente che de le sue: e chi

sarà capo6 de la porta de la seconda guardia per la quale se intra alla habitatione ducale,

cum li7 provisionati sui, sii sotto el Castellano, como è adesso: e lo numero de li

provisionati sii8 el consueto, excepto se per beneffitio de nostro fiolo successore paresse al

governo et9 consiglio, quale li lassamo, che si dovesse azonzere più homini: in el quale

caso volemo10 se togli quello numero che si azonzerà, de li provvisionati de la guardia, et

che epsi11 iurino fidelità in mano del Castellano et stiano ad obedientia sua como li altri12 provisionati consueti ad epsa guardia.13 In questo loco volemo sii l’ habitatione del fiolo successore nostro, et

perseveri fin che14 el habii quatordeci anni, excepto se per gravi casi de peste o altra urgente

causa 15 bisognasse ch’el si levasse; e in questo caso non volemo se levi, se la maiore

parte 16 del governo et consiglio, quale se trovarà presente, non consente.17 Se per piacere et recreatione desidererà andare fora fin al tempo predicto de

quatordeci18 anni, non passarà Cusago, Abiate, Monza, Dece o Melegnano, per essere

in le19 circonstantie de epsi lochi modo sufficiente per darli recreatione fin a quello

tempo.20 Passati li XIIII anni piacendoli poterà poi meglio estendersi qualche cosa più

lontano21 et passare Ticino, né allora li volemo arcuare l’arbitrio; ma lo confortamo ben

et 22 consigliamo ch’el si elogi da Milano manco ch’el poterà et non faci longa

dimora de fora,23 non possendo seguire cosa più salutare, como lassarsi de continuo vedere de

la

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24 principale cità, ne la quale Dio ce lo fa successore; et però absentandosi advertirà de

25 retornare presto.

L’uso del volgare nel Cinquecento

La stampa pone in luce la necessità che anche l’italiano, come il latino, assuma una grafia uniforme. Il copista scriveva per pochi, il tipografo lavorava per molti; questo spiega come la scelta tra numerose varianti grafiche sia stata compiuta prendendo a fondamento le tre “corone” (Dante, Petrarca e Boccaccio). Nel 1525 il cardinale Pietro Bembo, letterato e linguista, pubblica le Prose della volgar lingua, in cui fissa il canone d’imitazione: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa.La fisionomia dell’italiano diventa più precisa: esso viene identificato con la lingua dei grandi trecentisti e codificato in grammatiche e vocabolari. Questo è il periodo in cui la lingua toscana si espande in tutta la penisola; come si imparava dai libri il latino ora si incomincia a studiare sui libri l’italiano; per questo motivo anche l’italiano tende ad essere regolato da norme grammaticali e retoriche come era accaduto per il latino. Possiamo perciò affermare che la struttura delle grammatiche italiane nasce ad immagine e somiglianza della struttura delle grammatiche latine. Anche nelle altre nazioni europee il Cinquecento segna una svolta decisiva nella formazione e nella fissazione della lingua nazionale: si pensi alla Germania dove il tedesco moderno nasce con la diffusione della traduzione della Bibbia fatta da Lutero. Comune è l’applicazione della stampa a caratteri mobili, diversi sono i fattori politico-culturali. In Italia l’unità e l’identità culturale si va consolidando e nelle cancellerie dei vari stati l’italiano soppianta il latino.

Formazione morale e informazione scientifica nel progetto educativo del PiccolominiNato a Siena, Alessandro Piccolomini (1508-1579) fu membro attivo dell’Accademia degli Infiammati e coltivò l’ideale di volgarizzare il sapere filosofico, approfondendo, in particolare, la tradizione aristotelica; egli aveva la necessaria conoscenza delle lingue classiche e la capacità speculativa per realizzare l’aspirazione a una filosofia in volgare. Pertanto scrisse in ottimo toscano-fiorentino, senza esitare a coniare parole nuove quando la tradizione volgare si rivelava insufficiente sul piano terminologico.Nell’ Istituzione di tutta la vita dell’uomo nato nobile e in città libera(1542) Piccolomini disegna l’educazione non di una categoria particolare, come il cortigiano o il letterato, ma dell’uomo in generale. La cultura ha un ruolo importante proprio perché è calata nel concreto della vita individuale, familiare e politica, e costituisce una guida e un punto di riferimento capace di fornire soluzioni valide. Nel brano che prenderemo in esame si raccomanda lo studio scientifico, ma più importante di tutto è l’insegnamento di una vita dedita all’operare secondo virtù. Mentre l’Europa protestante svalutava le buone opere, Piccolomini saldava cultura classica e religione cristiana, rinnovando la sintesi umanistica. Il pedagogo fonde Platone e Aristotele e, nel solco della cultura umanistica, privilegia la morale individuale e i valori della vita associata, adattando l’insegnamento degli Antichi alle esigenze sempre nuove della realtà che lo circonda, secondo lo spirito del classicismo.

Della scienza e degli studii delle scienze naturali1 La scienza, come ho detto di sopra, è un abito dell’intelletto speculativo,

secondo il 2 quale demostrativamente cognosce il vero delle cose, per le lor vere cause e

principii

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3 infallibili, tal che intorno a cose etterne e necessarie consiste un tal abito. E sì come

4 queste tai cose, che principiate sieno e non principii over cause, di due maniere

5 si trovano cioè matematiche e naturali, così ancora le scienze o son naturali o son

6 matematiche; della division delle quali a bastanza, Alessandro amatissimo, nei

7 precedenti libri ho trattato, quando quelli anni v’istituivo, nei quali giudicavo, che

8 nelle matematiche scienze vi esercitasse. 9 Delle naturali restarebbe ora il parlare, mostrandovi le parti di quelle, e quali

anni10 destinar lor dovesse. Ma perché, come più volte vi ho detto, il mio principal11 intendimento in questi libri è d’instituir la vita vostra quanto ai buon costumi

e agli12 abiti delle virtù morali, per i quali operando possiate acquistar quella

felicità civile13 che in questa vita ottener si puote, la qual felicità abbia parimente da esser

mezo per14 farvi acquistar ancora quella maggior beatitudine che in altra più lieta città vi

si deve,15 ne segue che la mia intenzion parimente sia d’attorno all’azioni umane

procedenti16 dalle virtù , di maniera che se alcuna cosa ho detta delle matematiche e

razionali,17 l’ho fatto per trascorso e con brevità, rimettendomi ad altro tempo a trattarvi

di quelle18 e ‘l simil dico al presente delle naturali scienze e divine, le quali in trascorso19 trapassando, a quel che più al proposito mio s’appartiene, cerco di pervenire.

(…)20 Tal dunque qual v’ho detto giudico che doppo gli studii morali sia quello

studio a cui,21 in una parte del giorno, con tutto l’animo vi applichiate. Dico in una parte del

giorno,22 perocché l’altra parte non dovete lasciar mai fin che viviate senza o operar23 virtuosamente, occorrendo, o almen col pensiero e con lo studio a tali

operazion24 prepararvi. Lande a queste scienze naturali non determinino anni particolari

della vita25 vostra, ma sol dico che doppo le scienze morali, alle naturali vi applichiate, e 26 massimamente perché dal cognoscer le cause delle cose della natura, tuttavia

si 27 confermarà più in voi l’amor delle virtù, come ben dice Averroè, e Simplicio

nel proemio28 della Fisica. E tanto basti della scienza.

La questione della lingua

La svolta arcaizzante, il fiorentino del Trecento, teorizzata dal Bembo, si traduce in un canone rigido verso la fine del secolo: Leonardo Salviati fonda l’Accademia della Crusca.Nel Cinquecento le discussioni sulla forma dell’italiano non sono vacue esercitazioni di letterati, ma delineano a tutto tondo la ricerca di quella identità culturale e nazionale necessaria premessa dell’unificazione politica. La questione della lingua (italiano-fiorentino o italiano-lingua delle Corti?) non è solo una questione teorica: è la punta di un iceberg di questioni, forse ancora oggi

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irrisolte, riguardanti la continuità della tradizione letteraria e l’unità della cultura nazionale. Più delle discussioni teoriche saranno le grammatiche e i dizionari il tramite più capillare della diffusione del fiorentino-toscano. L’unificazione linguistica prende avvìo allorché insorge la consapevolezza che le modalità e i contenuti della cultura (politica, letteraria, tecnico-scientifica) non si diversificano su scala regionale ma costituiscono il patrimonio nazionale. L’esigenza di uno strumento linguistico comune rimane circoscritta ai ceti privilegiati. La diffusione dell’umanesimo e del rinascimento rinvigorisce il latino; le sorti di latino e volgare sono intimamente legate e in alcune lingue di corte il volgare assume una forma interna latina. Premesso che i connotati di un clima culturale si definiscono in base all’insieme dei significati che sono tipici di quel momento storico, la novità linguistica più rilevante di questo periodo è la genesi di una lingua sovraregionale in presenza del frazionamento dialettale. Proprio per il fatto che la lingua sovraregionale ha come sede ideale la corte, essa si manifesta nelle scritture delle cancellerie: decreti, bandi, relazioni di ambascerie, convenzioni, trattati ecc. Esempi di questi usi linguistici sono le corti di Milano, Mantova, Ferrara, della Curia Pontificia e di Napoli. Giangiorgio Trìssino sarà il primo a dare a questa lingua la qualifica di “italiana”. Sia la lingua di corte che la diffusione del toscano sono fenomeni finalizzati alla unità linguistica del ceto egemone (come aveva previsto Dante l’unificazione linguistica si realizza al vertice della società. Verso la metà del Cinquecento la lingua cortigiana viene soppiantata dal modello fiorentino. Questo accade dopo che , nella prima metà del secolo, la descrizione grammaticale viene applicata per la prima volta al volgare: tra il 1516 e il 1550 sono redatte una ventina di grammatiche che riflettono sulla struttura del volgare e in particolare del fiorentino.I grammatici, ispirandosi al principio dell’auctoritas prendono ad esempio i “classici italiani” (Dante, Petrarca, Boccaccio) e ciò implica la toscanità del modello di cui si fa la descrizione. Che le grammatiche e i vocabolari siano destinati all’Italia non toscana risulta evidente dal fatto che sono redatti da autori non toscani e pubblicati in centri non toscani. Il boom di grammatiche e dizionari favorisce la diffusione del FT ma il primato di questo esisteva già da due secoli. Dal secondo Cinquecento in poi tutta la discussione teorica tenderà ad organizzarsi sempre più decisamente sulla alternativa tra modernità e classicità ma in sostanza il primato del toscano non costituirà più materia del contendere. Il modello FT si diffonde in tutta Italia, ma è una lingua riservata all’uso scritto e a pochi, poiché la stragrande maggioranza è dialettofona. Questa lingua d’elite seleziona il suo lessico poiché i suoi campi di applicazione sono: letteratura, scienza, morale, politica, amministrazione, corrispondenza tra letterati e uomini di cultura. Una lingua appresa dai libri difficilmente cambia la sua forma esterna e non conosce profondi cambiamenti strutturali (si noti, a contrasto, il rapporto tra francese antico e francese moderno: il francese si scrive in un modo e si legge in un altro). In assenza di uno stile medio parlato si impone quell’ideale di bella scrittura suggerito dai modelli illustri del passato; manca, inoltre, una capitale linguistica da cui si irradi una lingua comune (così avviene in altre capitali europee).

Nonostante il carattere “frenante” dello scritto gli eventi storici incidono sull’italiano. La storia non è una cornice esterna in cui si inquadrano gli eventi linguistici; è invece il fattore precipuo che sollecita dall’interno l’evoluzione linguistica. Dal Cinquecento in poi la gran parte dei cambiamenti rilevabili nell’italiano consiste in:

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a) creazione di nuovi SCHEMI SINTATTICI;b) moduli di TRANSIZIONE SEMANTICA

Tra Cinque e Seicento si afferma il cosiddetto STILE NOMINALE ( ellissi del predicato in proposizione coordinata che ha in comune il soggetto con la reggente).

L’italiano scientifico del Seicento

Il linguaggio scientifico svolge un ruolo d’avanguardia nella creazione e nella diffusione di strutture che attengono allo stile nominale. Mentre l’italiano antico (l’italiano di Dante, Petrarca e Boccaccio) preferisce le costruzioni imperniate sul verbo, finito e infinito, la sensibilità moderna dà rilievo al sintagma nominale. Il classicismo rinascimentale struttura il periodo italiano a immagine e somiglianza del periodo latino, con conseguente dominio dell’ipotassi. Nel Seicento troviamo una tecnica nuova che svolge la linea semantica del discorso enunciandone i tratti essenziali e affidando all’intelligenza dell’interlocutore o lettore la comprensione dei dati o dei rapporti non esplicitati. Si riconosce in questa strategia di lingua e di pensiero una crescita intellettuale che ben si accorda con gli altri aspetti culturali dell’epoca. Questa facoltà di predisporre le linee portanti di un discorso agisce tanto in interventi di stampo colloquiale quanto in elaborazioni più complesse che si avvalgono di una strategia meditata.

Le innovazioni lessicali e semantiche del Seicento si connotano per la loro astrattezza perché queste parole traggono significato non direttamente dall’esperienza sensibile ma in virtù di processi induttivi e deduttivi che denotano e danno la misura del clima intellettuale di una civiltà (ricordiamo il razionalismo cartesiano e la scuola grammaticale di Port-Royal). Molti concetti prendono forma da parole latine, classiche o medievali o anche greche ma i significati hanno senso moderno e sono in funzione di un pensiero scientifico che faticosamente si evolve dalle considerazioni pratiche alla teoria. Evidenziamo almeno due aspetti:

a) la produttività di suffissi formativi che avranno fortuna nell’illuminismo: i nomi in –ista e gli astratti in –ismo;

b) l’emblematica contrapposizione di antico e moderno che non enuncia più soltanto un divario temporale ma anche uno scarto di qualità.

Galileo Galilei (1564-1642)Il ruolo di Galileo nella storia della lingua italiana è stato davvero determinante. Anche nel caso dell’italiano scientifico la genesi avviene in praesentia del latino. Importante la formazione umanistica del creatore del metodo sperimentale, riscontrabile sia nelle opere in volgare che in quelle in latino. Ad essa si affianca un atteggiamento originale, nei confronti dell’uso e della norma linguistici che porterà Galileo all’utilizzo di determinati lessemi della lingua comune come pendolo

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o momento in funzione monoreferenziale cioè attribuendo a ciascuno di essi uno ed uno solo significato.Nel Saggiatore(1623) Galileo formula in modo nuovo l’immagine tradizionale della Natura come libro scritto da Dio. Per lui il progresso scientifico non equivale alla negazione della religione; egli accoglie l’idea, di ascendenza metafisica, della natura come armonia, che la scienza può interpretare con solido fondamento, ma non può spiegare se non parzialmente (il cosmo non si intende senza una creazione che è alla base di quell’ordine). I segni del libro della natura vanno decodificati con gli strumenti della matematica e della geometria, dato che il reale incarna il matematico.L’educativo compare in Galileo quando, dopo aver scritto il Sydereus nuncius (1610), la sua attività si sposta dalla pura ricerca scientifica a un’azione di propaganda culturale: era necessario diffondere, fra strati sempre più larghi, lo spirito scientifico moderno, incarnatosi nella teoria copernicana. Nello stesso tempo Galileo non voleva contestare i principi della religione cattolica ma trovare un accordo tra le due scuole di pensiero. Era necessario farsi comprendere non solo dagli specialisti, ma da ambienti assai larghi della classe dirigente e dell’opinione pubblica e, di conseguenza, era necessario scrivere anche le opere scientifiche in volgare, e in un volgare particolarmente semplice, lucido ed efficace. Notevoli gli interessi letterari di Galileo, testimoniati dalle Lezioni sulla figura, il sito e la grandezza dell’Inferno di Dante, dalle Postille all’Orlando Furioso, e dalle Considerazioni al Tasso. Nascono così la lingua e lo stile della sua scrittura italiana, il cui scopo non è quello di suggestionare momentaneamente le fantasie dei lettori o di suscitare facili entusiasmi, ma di conquistare in modo permanente le loro menti a una persuasione che rappresenta una svolta storica della società umana. Affiancandosi alla parabola evangelica e alla similitudine dantesca, la favola galileiana offre un esempio di retorica conoscitiva che persegue un fine eminentemente educativo.

Favola dei suoni (dal Saggiatore)1 Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana

intorno2 alle cose intellettuali, che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più

risolutamente3 voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed

intese4 renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità. 5 Nacque già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura d’uno

ingegno6 perspicacissimo e d’una curiosità straordinaria; e per suo trastullo allevandosi

diversi7 uccelli, gustava molto del lor canto, e con grandissima meraviglia andava

osservando8 con che bell’artificio, colla stess’aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro

formavano9 canti diversi, e tutti soavissimi. 10 Accadde che una notte vicino a casa sua sentì un delicato suono, né potendosi11 immaginar che fusse altro che qualche uccelletto, si mosse per prenderlo; e

venuto nella12 strada , trovò un pastorello, che soffiando in certo legno forato e movendo le

dita sopra13 il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle

diverse14 voci, simili a quelle d’un uccello, ma con maniera diversissima.15 Stupefatto e mosso dalla sua natural curiosità, donò al pastore un vitello per

aver16 quel zufolo; e ritiratosi in se stesso, e conoscendo che non s’abbatteva a

passar colui,17 egli non avrebbe mai imparato che ci erano in natura due modi da formar voci

e canti

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18 soavi, volle allontanarsi da casa stimando di potere incontrar qualche altra avventura.

19 Ed occorse il giorno seguente, che passando presso a un piccol tugurio, sentì risonarvi

20 dentro una simil voce; e per certificarsi se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro,

21 e trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch’ei teneva nella man destra, segando

22 alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra sosteneva lo strumento e vi

23 andava sopra movendo le dita, e senz’altro fiato ne traeva voci diverse e molto soavi.

24 Or qual fusse il suo stupore, giudichino chi participa dell’ingegno e della curiosità

25 che aveva colui; il qual, vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la voce

26 ed il canto tanto inopinati, cominciò a creder ch’altri ancora ve ne potessero essere

27 in natura.28 Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a

guardar dietro29 alla porta per veder chi aveva sonato e s’accorse che il suono era uscito dagli

arpioni e30 dalle bandelle nell’aprir la porta?31 Un’altra volta, spinto dalla curiosità, entrò in un’osteria, e credendo d’aver a

veder uno32 che coll’archetto toccasse leggiermente le corde d’ un violino, vide uno che

fregando33 il polpastrello d’un dito sopra l’orlo d’un bicchiero, ne cavava soavissimo

suono.34 Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e i mosconi, non,

come 35 i suoi primi uccelli, col respirare formavano voci interrotte, ma col velocissimo

batter36 dell’ali rendevano un suono perpetuo, quanto crebbe in esso lo stupore, tanto

si scemò37 l’opinione ch’egli aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte

l’esperienze già 38 vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli,

già che non39 volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l’ali, cacciar sibili così

dolci e sonori.40 Ma quando ei si credeva non potere esser quasi possibile che vi fussero altre

maniere41 che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo l’avere, oltre a i modi

narrati, osservato42 ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde, di tante e tante sorte,

e sino a43 quella linguetta di ferro che, sospesa fra i denti, si serve con modo strano

della cavità44 della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono;

quando, dico, ei45 credeva d’aver veduto il tutto, trovassi più che mai rinvolto nell’ignoranza e

nello46 stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per per serrarle la bocca né

per40

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47 fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere

48 squamme né d’altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi

49 sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter

50 di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che,

51 spingendo l’ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sì che né

52 anco potè accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del

53 suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di

54 sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed

55 inopinabili.

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Analisi comparata: Cicerone-Cesare Boccaccio-Galileo

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La prosa di Galileo e dei suoi allievi costituirà il modello della prosa scientifica italiana fino ad oggi. Per capire meglio il rinnovamento strutturale, compiuto all’interno della nostra lingua, confrontiamo da una parte un brano di Cicerone e di Cesare e dall’altra un brano del Decameron affiancato alla Favola dei suoni. Noteremo subito le particolarità morfologiche, sintattiche e lessicale secondo questa prospettiva:CiceroneIl periodo classico è la sede in cui i contenuti si organizzano in una sintesi e si armonizzano con la forma: in questa capacità organizzativa risiederà in gran parte l’azione educativa del latino e il suo prestigio in quanto lingua razionale. L’esempio più importante di periodo classico è il periodo ciceroniano caratterizzato da: simmetria delle parti e cadenze ritmiche in fine di periodo o alla fine di una parte del periodo. E’ un tipico esempio del nesso indissolubile tra i procedimenti retorici e la strategia che organizza i contenuti in un quadro gerarchico; una costruzione di tal genere, che richiede impegno mentale e cura della forma non può trovare eguali nella lingua della conversazione. Il periodo classico è una istituzione linguistica in funzione del pensiero complesso e non viola le leggi fondamentali su cui è organizzata la lingua.CesareAltro esempio di periodo classico è il periodo cesariano, simile a quello ciceroniano nella tendenza ad equilibrare le parti e ad accentrare il discorso su un solo oggetto diverso per la minore complessità e per l’assenza di stilemi retorici. La chiarezza del periodo cesariano poggia sulla perfetta corrispondenza tra progressione semantica e articolazione sintattica (= i significati procedono parallelamente alle strutture sintattiche.Il periodo cesariano e quello ciceroniano resteranno operanti nella cultura letteraria europea come modelli di razionalità e arte.Boccaccio In Boccaccio la complessità del periodo riesce a comprendere la mutabilità delle prospettive secondo le quali i numerosi elementi della realtà si rifrangono nella mente dei personaggi. Rimandano alla prosa latina i seguenti fattori:

a) costante collocazione del verbo in fine di periodo ha talora funzione retorica e più spesso espressiva e di sintesi (l’attesa protratta del predicato dà rilievo ad una particolare azione o concetto);

b) uso di inversioni, disgiunzioni e disposizioni inconsuete delle parole, diverse dall’ordine SVO;

c) impiego frequente della infinitiva (accusativo + infinito);d) impiego di costruzioni assolute con participi e gerundi;e) ripetizione del “che” dopo un’incidentale;f) coppie sinonimiche.

Galileoa) affiora in Galileo una costruzione moderna cioè NOME + 2 ATTRIBUTI, collegati per

asindeto, il secondo dei quali specifica il significato del primo: es. “il moto generale diurno”;

b) il linguaggio scientifico preferisce lo stile nominale (mentre l’italiano del Trecento preferiva lo stile verbale;

c) la sintassi galileiana preferisce la paratassi piuttosto che l’ipotassi: il periodo diventa più conciso e il discorso assume un ritmo più libero e vario.

La genesi dell’italiano moderno

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Nel Settecento la cultura europea è attraversata dal ciclone dell’illuminismo e tutti i problemi che vertono sull’alternativa tra tradizione e rinnovamento, compresa la questione della lingua saranno lasciati in eredità all’Ottocento. Le parole progresso e civiltà acquistano il valore moderno che sott’intende una differenza qualitativa tra lo stato presente e i costumi del passato o dei paesi barbarici. Dall’illuminismo francese proviene l’idea di una cultura finalizzata a realizzazioni pratiche, conseguentemente anche la lingua deve avere questi fini. Nasce un lessico intellettuale europeo distinto in : lessico di cultura generale e terminologia scientifica .Questa cultura è alla base del pensiero linguistico sia di Leopardi che di Manzoni, ma è Manzoni che costituisce l’omega di quel percorso linguistico iniziato con l’alfa di Dante. Il pensiero linguistico manzoniano conclude, ma anche apre una nuova epoca della nostra lingua, il cui centro non sarà più la NORMA ma l’USO.

Le radici morali del pensiero linguistico manzonianoLa convinzione che la parola poetica, e, più in generale, la parola scritta abbia sempre una grande responsabilità nei confronti di coloro che la leggono, matura in Alessandro Manzoni prima ancora che egli indossi la veste di teorico della lingua e dello stile.La ricostruzione del binomio lingua-morale all’interno dell’iter filosofico seguito dal Manzoni, dagli anni della conversione fino a quelli dell’approdo rosminiano, necessità ancora di molto lavoro e di molta riflessione. Già nelle prime riflessioni sulla lingua italiana (1) come quelle contenute…………………………………………………………………………………………………………(1) Consideriamo tre lettere che danno conto dello svolgimento del pensiero linguistico: A Claude Fauriel ( 9 febbraio 1806) Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta. Ed è per ciò che gli scrittori non possono produrre l’effettoche eglino (m’intendo i buoni) si propongono, d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbono essere. Quindi è che i bei versi del Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti costumi più di quello che i bei versi con un piacere misto d’invidia il popolo di Parigi intendere ed applaudire alle commedie di Molière. Ma dovendo gli scrittori italiani assolutamente disperare di un effetto immediato, il Parini non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono; fra i quali non v’è alcuno di quelli ch’egli s’è proposto di correggere; ha trovato delle belle immagini, ha detto delle verità: ed io son persuaso che una qualunque verità pubblicata contribuisce sempre ad illuminare e riordinare un tal poco il caos delle nozioni dell’universale, che sono il principio delle azioni dell’universale. A Victor Cousin (21 febbraio 1821) Vous verrez que le bon home se flatte, qu’on lira le blanc de son livre. Décevant espoir! Je ne sais pas si la dixième partie de la population sait lire; je sais fort bien que de ceux qui ont ce talent à peine la centième partie la met à profit; parmi les lecteurs, ceux qui entendent le noir ne sont pas le grand nombre, et encore parmi ceux-ci ceux qui entendent le noir de M.r Romagnosi sont une faible minorité: vous voyez ce qu’il a à esperer pour son blanc. A Claude Fauriel (3 novembre 1821) Pour les difficultés qu’oppose la langue italienne à traiter ces sujets, elles sont réelles et grandes, j’en conviens ; mais je pense qu’elles derivent d’un fait général, qui malheureu- sement s’applique a toute sorte de compositions. Ce fait est (je regarde pour m’assurer que personne n’écoute) ce triste fait est, à mon avis, la pauvreté de la langue italienne. Lorsqu’un Français cherche à rendre ses idées de son mieux, voyez quelle abondance et quelle variété de modi il trouve dans cette langue qu’il a toujours parlée, dans cette langue qui se fit depuis long-temps et tous les jours.(…) Il n’a pas de dictionnaire à consulter pour savoir si un mot choquera ou s’il passera : il se demande si c’est français ou non, et il est à –peu- près sur de sa réponse. (…) Imaginez-vous au lieu de cela un italien qui écrit, s’il n’est pas toscan,

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dans une langue qu’il n’a presque jamais parlée, et qui écrit dans une langue qui est parlée par un petit nombre d’habitans de l’Italie (…). Il manque complètement à ce pauvre écrivain ce sentiment pour ainsi dire de communion avec son lecteur, cette certitude de manier un instrument également connu de tous les deux. Nella lettera a Claude Fauriel del 3 novembre 1821, si afferma che l’italiano è “une langue dans la quelle on ne discute pas verbalement de grandes questions, une langue dans la quelle les ouvrages relatifs aux sciences morales sont très rares….”. La mancanza di un lessico morale convalidato da opere di pubblico dominio è immediatamente avvertita dal Manzoni come una lacuna da colmare al più presto. E così, nella II Introduzione al Fermo e Lucia, scritta nel 1823, quando il problema della lingua ha abbandonato il suo carattere individuale per divenire sociale e istituzionale e quando l’autore si accorge di “scriver male”, si dice a chiare lettere che “scriver bene” significa usare:Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso. Parole e frasi divenute per quest’uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite. E più avanti, ribadendo l’uso morale della lingua,Parole e frasi (….) tanto note per uso, e immedesimate col loro significato, che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, e ogni lettore vi senta in un punto e l’idea comune, e quel passaggio, quella estensione che ha quell’uso particolare”.L’attenzione ai valori e agli usi morali delle parole è una delle componenti principali del De doctrina cristiana di Sant’Agostino. Specialmente nel libro IV, dove si tratta del “modus proferendi” delle Scritture, l’autore considera gli stili oratori che si possono e si devono assumere e, in particolare (par. 10, 24), sottolinea come la scrupolosità linguistica debba cedere all’appropriata comprensione del senso. Il desiderio di trasmettere delle verità conduce l’oratore a trascurare le parole più ricercate e non prendersi cura di ciò che suona bene, ma di ciò che vuole dimostrare, adoperando una sorta di negligenza diligente:Questa negligenza però, se esclude il parlar forbito, non lo fa in modo che cada nella banalità. Peraltro nei buoni maestri ci deve essere tanta cura che, se una parola non può essere latina senza essere nello stesso tempo oscura o ambigua – mentre se la cosa viene detta in termini popolari si evita l’ambiguità e l’oscurità – (vulgi autem more sic dicitur ut ambiguitas obscuritasque vitetur) non si deve parlare con il linguaggio dei dotti ma piuttosto come sogliono i meno istruiti ( ut ab indoctis dici solet). (….) Che cosa giova infatti una scrupolosità nel parlare che non sia seguita dalla comprensione di chi ascolta ( mentre l’unica ragione del parlare non è assolutamente altra che questa?) (….) Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e se, in loro vece potrà dirne delle altre corrette e intelligibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette (utetur etiam verbis minus integris) purchè la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza (dum tamen res ipsa doceatur atque discatur integre)Queste parole ci riportano alle massime agostiniane “melius est nos reprehendant grammatici quam non intelligant populi” e “consuetudo vulgaris utilior est quam integritas litterata” che sembrano molto vicine allo spirito che anima i Modi di dire irregolari. In questo scritto, incompiuto, del 1825, Manzoni si propone di dimostrare che alcuni modi di dire più o meno usati, ma contrari alle regole generali, non sono solecismi, cioè forme errate, ma eccezioni:Queste trasgressioni possono essere inutili, o motivate da un Bisogno. Inutili, l’Uso basta a legittimarle. Inusitate, il Bisogno basta a renderle anche lodevoli. Le due condizioni riunite dell’Uso e del Bisogno avranno per conseguenza inevitabile tanto più di forza, e una irregolarità sarà tanto più da ammettersi e da sancirsi quanto più vi concorrono entrambe.

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I modi di dire irregolari connotano quella che è stata chiamata “espressione dei semicolti” (Bruni 1984) e di cui gli stessi semicolti sono consapevoli. E infatti, rivolgendosi a Geltrude, Agnese dice: “ Illustrissima signora (…) io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l’acqua santa: voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siamo gente alla buona”.

Le prospettive d’indagine presentate nei Modi di dire irregolari rappresentano forse l’alfa di cui le teorizzazioni sul “senso comune” nelle seconde Osservazioni, costituiranno l’omega. Nel momento in cui Manzoni pubblica la II edizione delle Osservazioni sulla morale cattolica (1855), la sua teoria della lingua si è ormai consolidata e si avvia a divenire una vera e propria politica della lingua, ma il suo svolgimento, senza esserne condizionato, ha costituito un contributo essenziale alla filosofia morale del Manzoni rosminiano. Il senso comune, come si dice nell’abbozzo di un dialogo filosofico intitolato Il Piacere, inviato al Rosmini, può essere il punto di partenza della filosofia, perché presuppone la rivelazione, e può costituire il punto d’incontro tra ragione e fede. Conseguentemente la filosofia del senso comune si riflette nel linguaggio ordinario e nel parlare quotidiano che accomunano i colti e i semicolti, i ricchi e i poveri di spirito dei Promessi Sposi. Il senso comune è molto vicino e quasi si identifica col senso comune cristiano, epifania della Verità. Per questo la lingua comune garantisce i significati del vocabolario morale a cui la Chiesa aggiunge semplicemente chiarezza e stabilità:Di quelle sante e solenni parole che sono come la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi: giustizia, dovere, virtù, benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicità quale, Dio bono! È stata cancellata o lasciata fuori dalla Chiesa? La Chiesa non fa altro che aggiunger loro la pienezza e, con questo, la chiarezza e la stabilità del significato. Osservazioni sulla morale cattolica, cap. III

Manzoni opera, nei confronti della nostra tradizione linguistica e letterararia una vera e propria rivoluzione. La scelta dell’uso vivo, come termine di riferimento essenziale per ogni lingua, spinge l’autore de I promessi sposi ad una revisione che non è solo adattamento fonologico all’uso dei colti fiorentini ma anche adozione dei seguenti criteri correttori (nel passaggio dall’edizione del 1827 all’edizione del 1840):

1) Espunzione, abbastanza ampia, di forme lombardo-milanesi, sostituite da forme stilisticamente “medie”, di impronta linguistica comune e nazionale negli usi scritti (es. tantinetto > pochino).

2) Forme eleganti, scelte, preziosistiche, auliche, affettate, arcaizzanti o genericamente letterarie o rare sono sostituite dal sinonimo comune, usuale, corrente proprio dell’uso scritto e parlato nazionale (non propriamente e specificamente tosco-fiorentino) (es. cangiare > cambiare ; dispregio > disprezzo).

3) Assunzione di forme peculiarmente fiorentine o tosco-fiorentine, qualcuna di uso già nazionale e altre, numericamente più limitate, di impiego solo fiorentino e toscano, in contrasto con gli usi comuni della lingua nazionale (es. falegname > legnaiolo).

4) Eliminazione di doppioni che Manzoni riteneva dannosi per la lingua italiana (es. eguale, uguale > uguale; via, strada > via).

Il miracolo delle noci

“Oh! Dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. –

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Che fate voi a quella povera pianta? domandò il padre Macario. – Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna. – Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada: - Padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento. – Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perchè andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno ( sentite questa), lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andare a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perchè, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perchè noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.” I PROMESSI SPOSI, cap. III, 47-52 Ed. L. Caretti,1971Nel 1846 l’obiettivo dell’unità linguistica si pone come problema nazionale mentre affiorano proposte di provvedimenti concreti che facilitino la diffusione del fiorentino parlato. Nel 1868 il ministro della pubblica istruzione Emilio Broglio, fervente manzoniano, istituisce una commissione che doveva ricercare i mezzi per diffondere “la buona lingua” distinta in due sezioni: una milanese (Manzoni, Bonghi, Carcano) e una fiorentina (Lambruschini, Bertoldi, Mauri, Capponi). La relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla fu inviata da Manzoni a Broglio e successivamente pubblicata (1868), mentre, qualche anno dopo, Emilio Broglio, con Giovanni Battista Giorgini, pubblicò il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1897).

Verso l’italiano contemporaneo

La lezione della prosa manzoniana penetra profondamente nella cultura italiana post-unitaria attraverso il canale della scuola: i maestri italiani furono per più generazioni manzoniani, non certo nel senso che ebbero la volontà di immettere nella scuola il fiorentinismo manzoniano, ma nel senso che i Promessi Sposi furono il loro vangelo e le opere di De Amicis e Collodi, anch’essi manzoniani, i loro Atti degli Apostoli. Con la legge Coppino (1877) si introduce l’obbligo scolastico e così la lingua semplice, diseroicizzata, usata da Manzoni e dai manzoniani, entra per questa via, profondamente, nelle vene della nazione, nonostante i continui rigurgiti di vacua retorica. Nel decennio 1880-1890 si producono libri di testo e antologie di chiara impronta manzoniana. Mentre nel ceto intellettuale agisce il modello carducciano e poi dannunziano, nei ceti medi lascia il suo segno la prosa manzoniana, proprio come elemento istituzionale della nostra lingua italiana.I dati che interessano più da vicino la storia linguistica sono le percentuali di analfabetismo nelle diverse regioni. Lo squilibrio nord-sud si accentua e l’industrializzazione fiorisce laddove l’istruzione di base è più diffusa. L’italiano rimane ancora una lingua d’elite: secondo Tullio De

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Mauro solo il 2,5% della popolazione è in grado di parlarlo e scriverlo. Tuttavia comincia a crearsi un nuovo equilibrio dinamico tra le aree regionali che darà all’Italia una capitale linguistica. Il rapporto lingua-dialetto ben presto si traduce in una interazione e comincia la dinamica della italianizzazione dei dialetti che condurrà alla genesi degli italiani regionali. La progressiva diffusione dell’italiano parlato pone fine alla secolare questione della lingua, poiché è l’USO vivo che detta la sua legge.Nel nuovo equilibrio di forze tra nord e sud il toscano non può più essere la lingua modello ma, al contempo si consolidano le strutture portanti, storicamente toscane, della lingua nazionale. Il secolo XX segna l’affermazione decisiva dell’Uso sulla norma, proprio come aveva auspicato Manzoni, ma il processo evolutivo si determina in modo discontinuo. Nel primo ventennio del secolo, soprattutto con la prima guerra mondiale il coinvolgimento delle classi popolari nella vita nazionale ha immediate conseguenze linguistiche.

Ne fanno testimonianza le Lettere di prigionieri di guerra italiani, raccolte e pubblicate da Leo Spitzer nel 1921:

“Anche viprego di non penzare per noi altri mangiate e vevete e state tranquili alegri pregate sempre Dio la Madona e non dimenticate quieli vi agiuta in ogni maniera ci preghiamo anche noi altri matina e sera che iIdio cidesse lagrazia per venire alle famiglie.” ( L. Spitzer, La religiosità, p.145)E’ la genesi dell’italiano popolare unitario (De Mauro 1970), che riprenderà la sua evoluzione dopo la seconda guerra mondiale. Il fascismo, infatti, segna una battuta d’arresto nella società e nella fenomenologia linguistica adottando, nella sua ufficialità la vacua retorica ereditata dai comizi dannunziani. Si vedano a confronto questi due brani di italiano scritto.

Luigi Sturzo, La libertà in Italia (1925) Giuseppe Bottai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi (1937)

Oggi l’Italia è considerata all’Estero come E’ questo che ci commuove; questo ritrovarel’epicentro di una esperienza suscettibile nel profondo, quell’unità di concetto e di di svilupparsi all’interno e all’esterno del metodo, che fa della politica italiana attra-nostro Paese. Il fenomeno del fascismo non verso i secoli, nei tempi e nei climi storici si limita ad un semplice cambiamento ru- più diversi, una politica. Inconfondibile per moroso ed improvvisato di forma di governo equilibrio umano, per armonioso senso dei (…)ma penetra col suo caratteristico stato rapporti, per vivace intuizione della realtà.d’animo le istituzioni e le leggi. Esso ha dun- Guardate, da un secolo all’altro, il Capo ita-que in se stesso una ragione di esprimersi liano come agisce dinanzi alle situazioni ri-e di farsi valere anche all’Estero. I fascisti voluzionarie. Con quale rispetto delle formehanno perfino pensato ad una intesa inter- create, con quale azione dal di dentro degli nazionale con le correnti politiche affini. Istituti(…). Sopravviene; e ha l’aria di ac-Partendo da tali premesse, e nei limiti di uno cettare tutto di quello che trova. Ma tutto,

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studio obbiettivo, io vi parlerò del problema senza scosse, senza rovine, sotto la sua della libertà in Italia. azione si trasforma.

Al limpido argomentare di Don Sturzo corrispondono l’uso a tappeto di figure retoriche che evidenzino la “mistica del Capo” cioè di Mussolini.La svolta decisiva nella storia linguistica del Novecento si determina a partire dagli Anni Cinquanta che conoscono la diffusione integrale della lingua nazionale, il declino dei dialetti, l’afflusso massiccio di parole inglesi o mediate dall’inglese, il livellamento, strutturalmente parlando, delle varietà regionali. Eventi decisivi per l’italiano parlato sono: la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (la radio, ma soprattutto la televisione), la scuola media unificata e obbligatoria (1962), lo spostamento di italiani dal Sud verso il Nord della Penisola, a seguito del boom economico.

Adriano OlivettiL’iniziativa culturale di Olivetti si colloca proprio nel cuore del passaggio, vissuto dall’Italia, da paese agricolo a paese industriale. Progetto umanitario, lavoro intellettuale e sviluppo sociale degli operai si integrano in una visione della realtà fatta di lavoro e cultura e popolata da uomini liberi e creativi. Notevole il suo uso dell’italiano, sia parlato che scritto e importante nel percorso che abbiamo fin qui seguito:

La politica – come l’uomo – ha un fine e quando questo non è ben caratterizzato o è imprecisato, la società soffre per mancanza di forze creatrici e di impulsi direzionali; se poi questi impulsi non procedono secondo organi funzionali, ma si limitano a reazioni entro corpi a carattere specializzato, la società procede nel più manifesto disordine.L’idea degli ordini politici funzionali ha un richiamo esatto nella costituzione della Chiesa Romana. Si tratta di comprendere che ogni funzione politica: giustizia, lavoro, urbanistica, economia, pubblica istruzione, ecc. ha regole sue proprie, ciascuna rivestendo, da un punto di vista politico, speciale fisionomia ai fini della preparazione culturale e della legittimità politica degli organi di rappresentanza e di governo.Per questo ogni funzione politica ha uno speciale ed empirico rapporto tra talune discipline scientifiche e la vita. Tale pluralità di funzioni, di conoscenze, di esperienze, deve essere condotta ad unità da una vasta ed uniforme preparazione culturale, attivata da un ideale sostanzialmente omogeneo (l’idea di una società cristiana). CITTA’ DELL’UOMO, cap. V

Don Lorenzo MilaniConcludiamo nel nome di Don Milani, per il quale la lingua è il primum educativo dei suoi allievi di Barbiana. Senza il possesso dell’italiano si vive in un perpetuo deficit culturale, umano e politico. Alla retorica della lingua letteraria secolare, don Lorenzo oppone l’arte dello scrivere, apprendibile secondo precise regole, come qualsiasi altra arte. Come Manzoni, Milani è un “giacobino della lingua” (Mengaldo 1994), perché in lui è chiarissima la consapevolezza che il possesso della lingua italiana porrà fine al carattere subalterno della cultura popolare, fondata sul dialetto:

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Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. (…)Povero Pierino, mi fai quasi compassione. Il privilegio l’hai pagato caro. Deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente tutta eguale. Perché non vieni via? Lascia l’università, le cariche, i partiti. Mettiti subito a insegnare. La lingua solo e null’altro.Fai strada ai poveri senza farti strada. Smetti di leggere, sparisci. E’ l’ultima missione della tua classe. LETTERA A UNA PROFESSORESSA, parte I, par. III

Gabriella Michelina Di Paola Dollorenzo

Bibliografia di approfondimento

Semantica cristiana:Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1978, pp. 41 e sgg.

San Francesco e il Cantico:Giorgio Petrocchi, La letteratura religiosa, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, vol. I, Milano 1973, pp.627 e sgg.

Dante:Ignazio Baldelli, Lingua e stile delle opere in volgare di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. VI, Roma 1984, pp. 57 e sgg.Gabriella Di Paola Dollorenzo, Lo stilo puntuto, Roma 2005.

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Santa Francesca Romana:Alessandra Bartolomei Romagnoli, Santa Francesca Romana, Roma 1994.

Galileo Galilei:Paul Poupard, La nuova immagine del mondo, Casale Monferrato, 1996.

Alessandro Manzoni:Giovanni Nencioni, La lingua di Manzoni, Bologna, 1994.Francesco Bruni, Italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, Torino, Utet, 1984.

L’italiano contemporaneoA.A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, Roma-Bari, Laterza 1993.

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