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Ricevuto l'incarico l'11 febbraio 2000, questo consulente tecnico iniziavagli accertamenti presso già nella settimana successiva.Il quesito si incentra su una serie di esponenti di ricerca connessi, invario modo, al "Noto Servizio (o perchè indicati come appartenenti adesso dai documenti, o da alcuni testi, o perchè indirettamente collegatialla vicenda, in quanto persone in contatto con singoli esponenti del Ns,o in forme ancora più mediate).
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RELAZIONE DI CONSULENZA TECNICA
Premessa
Ricevuto l'incarico l'11 febbraio 2000, questo consulente tecnico iniziava
gli accertamenti presso già nella settimana successiva.
Il quesito si incentra su una serie di esponenti di ricerca connessi, in
vario modo, al "Noto Servizio (o perchè indicati come appartenenti ad
esso dai documenti, o da alcuni testi, o perchè indirettamente collegati
alla vicenda, in quanto persone in contatto con singoli esponenti del Ns,
o in forme ancora più mediate).
La ricerca ha dato risultati alterni, per cui su alcuni soggetti è stata
reperita ampia documentazione, mentre su altri ci si è dovuti
accontentare di rari frammenti e su altri ancora non è emerso alcunchè:
ma questo è quanto normalmente accade in qualsiasi ricerca di questo
tipo, così come sempre si presenta il consueto problema di vagliare
l'attendibilità delle informazioni contenute nei documenti.
La difficoltà specifica presentata dal presente quesito è stata, piuttosto,
un'altra: capire quali azioni siano riferibili al "Noto Servizio" e quali,
invece, siano state il frutto di iniziativa personale del soggetto di cui il
documento parla o di altre organizzazioni cui, pure, lo stesso soggetto
può essere appartenuto.
Infatti, solo una piccola parte dei documenti reperiti e qui commentati,
fanno esplicito riferimento al "Noto Servizio"; nella maggior parte dei
casi non è contenuto alcun cenno ad esso -neppure indiretto- e possiamo
solo presupporre che l'azione di cui si narra sia riferibile al servizio
parallelo, solo sulla base dell'appartenenza ad esso dell'attore in
questione. E, talvolta, la stessa appartenenza dell'attore al "servizio" non
è neppure del tutto certa, quantomeno all'epoca del fatto in esame.
Ovviamente, una parte dei dubbi possono trovare uno scioglimento
solo grazie a successive attività di riscontro compiute dalla Pg, in altri
casi un contributo potrà venire da ulteriori approfondimenti archivistici,
in altri, ancora, dal confronto con altra documentazione già nota e dalla
connessione logica degli elementi man mano appurati. Tuttavia il
contributo di maggior rilievo che questo ctu può cercare di fornire alle
indagini è la ricostruzione del contesto storico generale nel quale si
svolse l'azione del "Noto Servizio". Questo consente, da un lato di
orientare meglio la ricerca dei riscontri, dall'altro di comprendere le
motivazioni dei singoli attori -compreso lo stesso Ns- fornendo un
quadro di riferimento che permetta di verificare la logicità delle ipotesi
investigative man mano emergenti.
La seguente relazione si basa, pertanto sul confronto dei documenti
rinvenuti presso l'archivio della Dcpp in questa occasione con:
a) i documenti precedentemente acquisiti sia presso l'archivio della
Dcpp che presso quelli del Sismi, della GdF, dell'Isrmo, delle Questure di
Milano e Roma ecc.
b) l'agenda di Adalberto Titta
c) le risultanze delle indagini di Pg contenute nel rapporto del Ros dei
Cc del 10 settembre 2002, da cui traiamo la citazione dei verbali.
Una precisazione: dai verbali delle dichiarazioni di alcuni testi
(Ristuccia verbale s.i. 8 ottobre 1998; Pedroni verbale s.i. 31 maggio 2000;
Mannucci Benincasa verbale s.i. 20 aprile 2001) emerge che il nome della
struttura in questione sarebbe stato "Anello" (o, per lo meno, così l'
avrebbe indicata Titta); sembra che tale denominazione indicasse il ruolo
di cerniera fra gerarchie politiche civili e gerarchie militari nella lotta al
Comunismo o forse l'elemento di congiunzione fra i servizi segreti
postbellici e quelli riformati.
Tutto questo corrisponde molto bene sia alle teorie sulla guerra
rivoluzionaria e sulla controinsorgenza che, fra gli anni cinquanta e la
metà dei settanta, erano dottrina ufficiale della Nato (sul punto rinviamo
ai primi due capitoli della prima relazione di questo ctu all'Ag
milanese), sia a quanto sappiamo circa la composizione sociale e la
funzione del Noto Servizio e, dunque, è del tutto plausibile che tale fosse
la denominazione dell'organismo, o, quantomeno, che con tale nome
essa fosse conosciuta dai suoi componenti.
Non è, però, detto che tale denominazione fosse conosciuta da altri
apparati di sicurezza come lo Uaarr, nei cui documenti non compare mai
la dizione "Anello" ma quella di "Noto Servizio".
E neppure presso altri archivi (da quello della Guardia di Finanza a
quello del Pci, da quelli dei Sios d'arma a quello del Sismi) questo ctu ha
mai reperito alcun documento in cui comparisse l'espressione "Anello".
La cosa è perfettamente spiegabile: l'uso della parola "Noto" nel
linguaggio di polizia è generica e sta ad indicare qualcosa (o qualcuno)
che sia stato oggetto di precedente corrispondenza. Inoltre, tale
abitudine, offre l'opportunità di non usare un nome proprio che -per una
ragione o per l'altra- si preferisce lasciare sottinteso fra chi scrive e chi
legge. E possiamo ben immaginare le molte ragioni per cui si preferisse
sottacere un nome come quello di "Anello". Dunque, "Noto Servizio"
come nome generico di oggetto di corrispondenza nel linguaggio
burocratico-formale, ma anche come soprannome nell'argot poliziesco di
quegli anni. Ed in questa seconda versione -come vedremo- esso trapelò
anche fuori dalle stanze del Viminale, diventando argomento di allusive
comunicazioni in alcuni ambienti del sistema politico. Anche per questo
motivo preferiamo continuare ad usare prevalentemente l'espressione
"Noto Servizio" in luogo di "Anello".
C'è poi una seconda ragione che ci induce a tale preferenza: stando alle
stesse indicazioni fornite da qualche teste (Pedroni verbale s. i. 21
gennaio 2000), la denominazione di Anello sarebbe stata assunta a
seguito di una ristrutturazione, a quanto pare, avvenuta fra metà anni
sessanta e primissimi anni settanta; per il periodo precedente non
sappiamo quale fosse il nome e nemmeno se tale nome proprio esistesse.
Al contrario, il nome "Noto Servizio" si presta bene ad indicare sia il
periodo precedente che quello successivo.
Infine, l'espressione "Noto Servizio" richiama alla nostra memoria sia il
"Noto Piano paramilitare" del "gruppo di Torino" -che in qualche modo
si connetteva alle attività "coperte" di Ordine Nuovo"-, sia il coevo
"Piano Noto" varato dalla Confindustria, in funzione anti-centrosinistra,
nel 1964 (su entrambi i punti si veda p. 17 della 5° relazione di questo
Ctu a codesta Ag): con ogni probabilità si tratta solo di coincidenze prive
di interesse dovute, appunto, all'uso burocratico dell'aggettivo "Noto", e
non varrebbe la pena di farci alcuna particolare considerazione se
entrambi i "noti piani" non avessero luogo nello stesso periodo compreso
fra la seconda metà del 1963 e la prima del 1964, epoca nella quale
avrebbe avuto inizio anche la ristrutturazione del servizio parallelo.
Resta l'elevata probabilità di coincidenze casuali, ma non appare
eccessivo qualche approfondimento in merito.
Allo scopo di rendere più "leggibile" i testi relativi alle lotte interne alla
Dc milanese -che costituiscono una parte rilevante della massa
documentaria qui analizzata- ci è parso opportuno completare la
presente relazione con una appendice riguardante la genesi e le
caratteristiche delle diverse correnti democristiane a livello nazionale.
1) Qualche considerazione preliminare sulla natura e le funzioni del "Noto Servizio".
Dall'inizio della ricerca sul Noto Servizio -risalente al rinvenimento
della nota del 4 aprile 1972- questo ctu si è posto costantemente una
domanda: a quale esigenza rispondeva un ulteriore servizio segreto, per
di più clandestino, in un paese che non ha mai difettato di apparati di
informazione e sicurezza? In Italia, sin dai primi anni cinquanta, opera
una mezza dozzina di servizi di informazione e sicurezza o strutture
assimilabili ad essi (Sifar-Sid, Uvs-Uaarr, Sios esercito, Sios marina, Sios
Areonautica, Ufficio I della GdF, Uspa-Ucsi) e tutti in gara fra loro nella
lotta anticomunista, per cui non si comprende quale esigenza ci fosse di
crearne un ennesimo.
Una prima ipotesi spingeva ad identificare tale struttura con la rete
americana in Italia -dunque, il Noto Servizio come articolazione di
controllo degli americani sul nostro paese e sui suoi stessi apparati
informativi-. Ma tale supposizione crollava alla prima verifica logica: la
nota del 4 aprile 1972 parla di un organismo finanziato dal ministero
della Difesa italiano e questo esclude in radice l'ipotesi che si trattasse
della rete Cia in Italia (per quanto si possa immaginare che i nostri
apparati potessero essere subalterni a quelli americani -e spesso tale
subordinazione è stata troppo enfatizzata- non è pensabile che
giungessero a pagare la rete di controllo degli americani). Inoltre, troppi
elementi, come la presenza di un personaggio come Otimski, il possesso
da parte degli aderenti al servizio di un tesserino della Presidenza del
Consiglio o del servizio militare, mal si conciliavano con questa idea;
infine, i nomi dei collaboratori della Cia, del Cic e degli altri organismi
americani, in Italia, emersi nelle inchieste di questi anni (da Carlo Di
Gilio a Giovanni Bandoli, da Carlo Rocchi a Sergio Minetto ecc.) non
coincidono con i nomi conosciuti del Noto Servizio, anche se uno di essi -
Carlo Rocchi- non appare molto distante da esso.
Una seconda congettura era la seguente: considerata la presenza di
numerosi ex appartenenti ai servizi segreti della Rsi, il Noto Servizio era
stato costituito per poter accogliere questi imbarazzanti collaboratori
senza doverli immettere nelle strutture ufficiali. Ma tale ipotesi durava
ancor meno della precedente: i quadri della polizia politica erano
pressochè identici a quelli dell'Ovra e, già dai primissimi anni, l'Esercito
riassorbì in massa quanti avevano servito la Rsi, riconoscendo anzianità
e progressione di carriera (salvo una modesta degradazione) e questo in
tutti i suoi settori, servizio informativo incluso. E, dunque, l' esigenza di
tenere appartati gli uomini del servizio della Rsi semplicemente non
passò per la testa a nessuno.
Ugualmente debole appariva una terza congettura: che il Noto servizio
altro non fosse che l' agenzia per i "dirty job ", messa su per non far
sporcare i servizi ufficiali: considerata la storia dei nostri servizi segreti
non sembra che tale motivazione possa essere ritenuta attendibile.
E, dunque, la domanda restava senza risposta. Ma una riflessione
durata quasi quattro anni ha gradualmente condotto questo ctu a
maturare una ipotesi diversa e più articolata, che si cercherà di
descrivere succintamente in queste considerazioni preliminari.
Il punto di partenza è stata l'idea che la costituzione di questo ulteriore
organismo rispondesse ad esigenze particolari che non trovavano
risposta adeguata negli apparati esistenti. Tale domanda inevasa
selezionava una specifica funzione che, a sua volta, induceva a creare
l'organo che la assicurasse.
Allo scopo di comprendere la particolarità della natura e dei compiti
del Noto Servizio, risultava particolarmente utile la riflessione sulla
formazione degli apparati di intelligence e sulla loro tipologia.
Storicamente, i servizi di informazione e sicurezza sorgono come
evoluzione di tre attività di raccolta di notizie:
1) lo spionaggio militare (ovviamente svolto da apparati composti e
diretti da militari)
2) la polizia politica (effettuata da organismi composti e diretti da
funzionari e agenti di polizia)
3) la raccolta di informazioni di interesse economico (svolta sia da
organizzazioni di tipo statale, che da agenzie private composte e dirette
da civili)
Lo spionaggio militare ha sempre avuto una connaturata proiezione
verso l'estero, a tutela della sicurezza dei confini nazionali, anche se,
ovviamente, ha ben presto sviluppato una sua dimensione interna, man
mano che emergeva la necessità di contrastare analoghe attività
avversarie.
Di qui il confine non sempre certo -ed i conseguenti inevitabili attriti-
fra controspionaggio militare ed attività di polizia politica che, per parte
sua, ha una evidente vocazione interna, ma, ovviamente, non può
trascurare del tutto l'estero, dove possono trovare rifugio ricercati o
possono aver sede sostenitori dell'eversione interna.
Meno frequente è il terzo tipo di raccolta informativa, quella di
interesse economico. Solitamente questo tipo di attività determina la
nascita di apparati autonomi da quelli statali in ambienti di mare con
forti attività commerciali ed assicurative. Infatti, esempi di questo genere
li troviamo, sin dal XV secolo, presso le repubbliche marinare di Venezia
o Genova e l'Inghilterra, dove i lloyd, assicurando i carichi marittimi,
avevano bisogno vitale di sapere se una rotta era sicura o infestata di
pirati, se il tale porto fosse utilizzabile o in quarantena per una
epidemia, o se quell'altro porto fosse caduto in mani nemiche, se fosse
possibile rifornirsi in quel paese o vi fosse in corso una carestia ecc. Tutto
questo induceva ad una raccolta informativa di ampio spettro,
particolarmente ricca e differenziata: i dati di interesse sociale,
economico o sanitario non risultavano meno interessanti di quelli
strettamente militari o politici.
L'intelligence inglese è l'erede più diretta di questa tradizione che si
contraddistingue sia per la grande varietà del materiale informativo
trattato, sia per l'utilizzazione costante ed organica di commercianti ed
imprenditori; si badi: non agenti del servizio coperti da una qualche
fittizia attività commerciale, ma veri operatori economici interessati a
collaborare con il servizio informativo, proprio in ragione dello sviluppo
dei propri affari, così come è logico in una attività informativa
fortemente connotata in senso economico.
Per il tramite degli inglesi, questa trazione è giunta all' intelligence
degli Stati Uniti, e più tardi, di Israele.
I paesi dell'Europa continentale (e in primo luogo Francia e Germania)
hanno invece sviluppato maggiormente le altre due tradizioni
informative: quella militare e quella di polizia.
Ovviamente, mentre il primo tipo di attività privilegia i dati di interesse
militare e la terza quelli di rilevanza economica, la dimensione più
propriamente politica è tradizionalmente più osservata dai servizi del
secondo tipo, quelli di polizia. Ma, ovviamente, la polizia politica ha un
suo modo di porsi il problema: innanzitutto essa è scarsamente adatta ad
operare su scenari esteri, per i quali, come abbiamo detto, essa ha solo un
interesse marginale e residuale; in secondo luogo, la polizia -al pari
dell'esercito- è un apparato statale, come tale nettamente separato dalla
società civile: per quanto un funzionario di polizia possa avere una sua
personale sensibilità politica, resta comunque condizionato dalla
formazione ricevuta, dai meccanismi attraverso cui è stato selezionato e,
soprattutto, dal funzionamento complessivo di una organizzazione il cui
principale compito di istituto resta il controllo sociale. Un organismo del
genere, ovviamente, non è il più adatto nel caso in cui si cerchi di
mobilitare, a fianco delle attività di intelligence , rilevanti settori di società
civile. Ciò è possibile, e comunque con sforzi notevoli, in contesti di
guerra, quando l'intera società è mobilitata contro un nemico comune (si
pensi al caso di Israele o all'Inghilterra durante la II guerra mondiale),
ma è assai più arduo in tempi di pace. In ogni caso, non è la polizia
l'organismo con maggiori probabilità di successo in questo senso. Nelle
società di tipo totalitario -come l'Italia fascista, la Germania nazista o la
Russia staliniana- questo compito venne affidato al partito unico ed alle
sue milizie fiancheggiatrici.
Il problema si pose in modo particolarmente ostico al governo degli
Usa, nel 1942, quando, alla guerra in atto con i giapponesi, si aggiunsero
le attività di sabotaggio degli agenti tedeschi nel porto di New York.
Sino a quel momento, gli Usa non avevano avuto un vero e proprio
servizio segreto, salvo apparati informativi assai sommari delle tre armi
(comunque assorbiti dallo scontro con i giapponesi), nè avevano avuto
una vera e propria polizia politica. Da qualche tempo, è vero, era stata
costituita l'Fbi, ma essa, sino a quel punto, si era applicata
essenzialmente nella lotta al gangsterismo e non aveva ancora
sviluppato l'intervento poilitico che, invece, la caratterizzerà a partire
dagli anni cinquanta, durante il maccartismo. In ogni caso, nel 1942 l'Fbi
risultava poco idonea ai compiti che si prospettavano. Ad esempio, se la
ristretta comunità giapponese residente sulla costa occidentale non
rappresentava un grosso problema, perchè rapidamente rinchiusa nei
campi di raccolta, questa soluzione non si presentava agevole nei
confronti della vasta comunità italo-americana che, pur essendo in larga
parte leale nei confronti del paese di residenza, avrebbe potuto ospitare
diversi elementi sensibili al richiamo della madre patria; considerazioni
analoghe -pur se in modo più modesto- potevano esser fatte per la
comunità irlandese nella quale scarseggiavano le simpatie per
l'Inghilterra. La società americana, da sempre particolarmente aperta,
non ha mai conosciuto un controllo di polizia capillare e diffuso come
quello che sarebbe stato necessario a fronteggiare una situazione del
genere. Di qui la scelta di cercare alleati all'interno della società civile,
senza andare troppo per il sottile e badando più a quel che avrebbero
potuto offrire che alla fedina penale. Ma, se si aspira alla collaborazione
dei capi della malavita organizzata, non è opportuno inviare a trattare
con loro i funzionari dello stesso corpo di polizia che li ha arrestati. Un
canale del genere può andar bene per la raccolta di confidenti, ma è del
tutto inadatto se si vuole ottenere la partecipazione attiva di intere
organizzaizoni criminali: nessun capo gangsters accetterebbe di
intavolare una trattativa di questo tipo con un organismo di polizia, non
foss'altro che per evitare pericolosi equivoci con i propri colleghi. E,
invece, occorreva trovare qualcuno che si incaricasse di mettere in
condizioni di non nuocere i sabotatori tedeschi a New York, altri che si
occupassero di fornire un adeguato supporto propagandistico, altri
ancora che effettuassero l' analisi dei dati più diversi, economici, sociali,
culturali e, a questo fine occorreva attingere dalla società civile tutte le
competenze e le abilità che essa poteva offrire: dal malavitoso del porto
di New York all'uomo d'affari di Los Angeles, dall'intellettuale di Boston
al maestro venerabile della loggia di Baltimora.
Inoltre, già nel 1942, iniziava a prospettarsi l'intervento americano nella
guerra in corso in Europa dove le caratteristiche del conflitto esigevano
forme innovative di organizzazione militare, in particolare nel settore
informativo. Ad esempio, per suscitare, sostenere e organizzare un
movimento di resistenza in un paese occupato dai nemici, non basta
rifornirlo di armi e denaro: si tratta di un compito nel quale la
dimensione politica ha una importanza pari -se non superiore- a quella
militare, per cui occorre avere quadri addestrati non solo ad effettuare
aviolanci o un efficiente servizio di radiotrasmissioni, ma anche a sapersi
muovere fra le diverse componenti politiche della resistenza, a saper
mediare fra esse, trovare nuovi alleati, magari sin nelle fila avversarie.
Da questo insieme di problemi sorse l'esigenza di un organismo di
intelligence che lavorasse all'estero come all'interno, avesse una spiccata
caratterizzazione politica, fosse capace di utilizzare al massimo le risorse
della società civile e di trattare i materiali informativi più diversi.
La soluzione venne trovata nella costituzione dell'Oss (Office of Strategic
Service ) che fondeva alcuni elementi della tradizione inglese
dell'intelligence (come la raccolta informativa di ampio spettro e
l'utilizzo di personale civile anche in posizione dirigente) con alcune
innovazioni (come la prevalente impostazione politica e una accentuata
duttilità che consentiva di usare il servizio tanto all'estero che
all'interno): significativamente, il servizio ebbe come suo capo un civile
come l'avvocato William Donovan attorniato da un gruppo dirigente di
civili (avvocati, docenti universitari, intellettuali della Ivy League,
imprenditori, diversi esponenti della potente Massoneria americana).
La spinta ideologica della "guerra antinazista" favorì il successo dell'Oss
che potette giovarsi della collaborazione anche di intellettuali di sinistra
come Herbert Marcuse o Paul Sweezy.
La formula ebbe successo e l'Oss svolse egregiamente il suo compito
sullo scenario europeo, diventando, in patria, un organismo efficiente ed
abbastanza potente: quel che indusse il presiente Truman -anche su
istigazione dell'Fbi che non gradiva assolutamente l'idea di avere un
simile concorrente anche in tempo di pace- a sciogliere l'Oss
all'indomani della guerra, sostituendolo con un organismo assai più
gracile, il Cig. Ma il sopraggiungere della guerra fredda fornì al capo del
Cig un ottimo argomento per riproporre la questione e, nella primavera
del 1947, venne istituita la Central Intelligence Agency, che diveniva
operativa il 26 luglio successivo.
La Cia riprense e perfezionò la formula su cui era basata l'Oss: infatti, se
l'Oss, per intuibili ragioni connesse alla contingenza di guerra, era
strettamente collegata ai comandi militari, la Cia venne sganciata del
tutto dai militari e posta direttamente alle dipendenze del Presidente -a
sottolineare la sua vocazione eminentemente politica. Inoltre, se l'Oss era
un gruppo a carattere sperimentale, la Cia si mosse immediatamente
come una organizzazione vasta, dotata di personale a buon livello di
professionalità (veterani dell'Oss, ma anche operatori prelevati dai
preesistenti organismi di intelligence) e largamente dotata di mezzi.
Tutto questo, però non significò l'abbandono del modello basato sulla
raccolta informativa di ampio spettro e sulla caratterizzazione civile del
servizio e del suo gruppo dirigente, anzi entrambe le caratteristiche
vennero accentuate ed, in particolare il ruolo dei civili venne
definitivamente istituzionalizzato, in particolare sviluppando una rete di
organiche relazioni con le grandi corporations chiamate a collaborare
direttamente con l'agenzia. Nasceva, in questo modo, il prototipo
dell'uomo d'affari americano all'estero dietro cui si nascondeva il locale
capostazione della Cia: l' "Amerikano" del noto film di Costa Gavras.
Cogliamo l'occasione per una precisazione: in Italia distinguiamo fra un
servizio militare (il Sismi) ed uno cd civile (il Sisde) che, peraltro, è
composto da appartenenti ai vari corpi di polizia, per cui "civile" sta per
"non militare", invece, nel caso del "modello Cia" per "civili" occorre
intendere persone non appartenenti tanto all'esercito quanto alla polizia.
Alla nascita della Cia -come qualche anno addietro per quella dell'Oss,
dettero un notevole contributo gli inglesi, ma in brevissimo tempo il
nuovo organismo si affrancò anche da quel padrinato, affermandosi a
livello internazionale come un modello integralmente nuovo di servizio
di informazione e sicurezza.
La novità del "modello Cia" era in funzione delle particolarità del
nuovo conflitto che proponeva un avversario ideologico che vestiva i
panni di una agguerrita potenza politico-militare, ma anche di un
movimento politico ideologico molto più diffuso e massiccio di quanto
non fosse mai stato quello nazista e fascista. D'altra parte, l'impossibilità
di sfociare in un tradizionale conflitto aperto, a dominante militare,
indirizzava le tensioni verso forme coperte di conflitto che, ovviamente,
esaltavano al massimo il ruolo dei servizi di informazione e sicurezza.
E così, l 'Oss, prima, e la Cia, dopo, operarono sia per costruire una
propria rete permanente in Europa (ovviamente nei paesi vinti ciò
risultava più semplice ) sia per consolidare i rapporti con gli organismi
di intelligence dei paesi che, si immaginava, sarebbero stati alleati (e che,
in effetti, confluirono pochi anni dopo nella Nato). In questo quadro, la
Cia cercò di esportare, dove possibile, il proprio modello: un servizio
prevalentemente civile, a forte vocazione politica, messo direttamente
alle dipendenze del capo del governo e legato preferenzialmente al
mondo imprenditoriale.
In questo tentativo c'era -con ogni probabilità- anche il retropensiero di
dar vita a servizi alleati più penetrabili da parte della stessa Cia, ma
questo è l'aspetto secondario del fenomeno e cogliere soltanto esso
sarebbe riduttivo e fuorviante. La Cia cercava, innanzitutto, di creare
una serie di interlocutori omogenei a sè stessa, in grado di effettuare
quelle operazioni politiche che si ritenevano necessarie e che gli altri tipi
di organismi di intelligence apparivano meno in grado di assicurare.
Operazioni del genere vennero effettuate con successo in diversi paesi,
alcuni dei quali giunsero ad adottare persino il nome, ma il caso più
riuscito fu sicuramente quello della Organizzazione Gehlen,
successivamente diventata uno dei tre servizi della Repubblica Federale
Tedesca, il Bnd. Anche in Germania esistevano ottime tradizioni di
servizi di informazione tanto nell'esercito quanto nella polizia, sul cui
orientamento anticomunista non è lecito nutrire alcun dubbio, e,
dunque, si sarebbe potuto benissimo pensare di riversare
l'Organizzazione Gehlen in uno dei due (più sensatamente in quello
militare). Invece, la Cia esercitò le pressioni più insistenti sul governo
tedesco, perchè l'organizzazione venisse accolta in quanto tale,
diventando il terzo servizio informativo tedesco, cosa che, in effetti,
accadde nel 1956.
Va detto che l'originario gruppo dell'Organizzazione era composto da
militari, a cominciare dallo stesso Gehlen, il che costituisce una relativa
eccezione al modello Cia, ma questa eccezione (peraltro parziale, dato
che, dal 1945 in poi, si trattò di ex militari, totalmente sganciati
dall'amministrazione dell'esercito) si spiega con la particolarissima
situazione, nella quale l'ex generale nazista offriva un servizio
informativo già pronto, con una rete immediatamente attivabile oltre
cortina, per cui risultava più conveniente adattare il modello originario a
quella offerta di partenza. Peraltro, l'Organizzazione Gehlen, nonostante
fosse composta da ex militari, si adeguò perfettamente al nuovo
modello di servizio informativo a prevalente vocazione politica: vennero
stabiliti rapporti privilegiati con l'organizzazione degli imprenditori
tedeschi e con le maggiori imprese del paese e tanto la raccolta
informativa che le operazioni di tipo politico prevalsero nettamente su
quelle di tipo militare.
Il Bnd, in questo senso, rappresentò il fiore all'occhiello della Cia di cui,
in qualche misura, svolse una sorta di funzione vicaria in Europa (come
ricordò Moro nel suo memoriale).
La nascita del Noto Servizio (o comunque si chiamasse al suo sorgere)
trova spiegazione in questo contesto. Testi e documenti si descrivono
abbastanza concordemente un servizio che avrebbe avuto queste
caratteristiche:
- composizione prevalentemente civile con frequente presenza di
impenditori (Battaini, Lorisi, Boate, Fulchignoni, Titta, Pavia)
- vocazione eminentemente politica confermata da azioni a carattere
squisitamente politico (penetrazione del Psi, interventi in casi quali
Kappler, Moro, Cirillo, progetti di rapimenti di esponenti politici )
- dipendenza diretta dalla Presidenza del Consiglio (anche se con aspetti
controversi, come il finanziamento proveninente dal Ministero della
Difesa, forse per il tramite del servizio militare).
Come si vede, caratteri largamente analoghi a quelli del modello cui
abbiamo fatto riferimento. Anche nel caso italiano, all'origine ci sarebbe
stato un primo embrione militare -il gruppo degli ex Sim legati a Roatta-
ma, abbiamo visto che questo dato non è di per sè una eccezione tale da
intaccare il modello, si direbbe, anzi, una ripetizione del modello nella
sua variante tedesca.
La vera differenza fra il caso italiano e quello tedesco, sta invece
nell'esito: in Italia, il Noto Servizio non diventò mai il "terzo" servizio
ufficiale dello Stato, anzi, in questo senso, si trattò di un tentativo
abortito.
I dati del problema -correttamente impostato- si riassumono in questi
termini: si tentò di dar vita al "terzo servizio" statale, a composizione
civile e carattere politico, ma l'operazione non è riuscì e, forse, produsse
un homunculus sfuggito di mano agli incauti dottor Faustus che avevano
cercato di dargli vita.
La documentazione disponibile, come già detto e come ripeteremo
ancora, è assai frammentaria e non permette se non una ricostruzione
assai lacunosa della storia del servizio, ma alcuni elementi sono talmente
ricorrenti da poter consentire la formazione di un giudizio parziale.
Innanzitutto la questione del numero:
- la nota del 4 aprile 1972 parla di "164 elementi di cui una cinquantina
abitano in Alta Italia"
- il teste Michele Ristuccia, nelle intercettazioni, parla prima di cinquanta
membri (conversazione n° 960) poi di novanta (conversazione n° 963)
Come si vede, ci sono consistenti oscillazioni, forse determinate da
ricordi errati o forse da riferimenti ad epoche diverse, ma l'impressione è
che esse possano dipendere anche da un basso tasso di formalizzazione,
per cui l'appartenenza al servizio era stabilita essenzialmente da quello
che decidevano, sul momento, i suoi dirigenti (Titta e Battaini ).
L'impressione di questa scarsa formalizzazione è data anche da altri
elementi. Lo stesso Titta avrebbe definito il suo servizio come "nè carne
nè pesce " "operativo ma non riconosciuto " (Ristuccia, verbale s. i. 8 ottobre
1998). Anche il teste Giovanni Pedroni (verbale s. i. del 31 maggio 2000)
descrive il servizio come sicuramente conosciuto da un ambito
istituzionale abbastanza vasto, tacitamente approvato, ma non
riconosciuto formalmente.
In effetti, non esiste alcun atto -per quanto a conoscenza di questo ctu-
nè di tipo legislativo nè di tipo amministrativo che possa essere indicato,
per quanto indirettamente, come fonte di una qualche legittimazione.
La stessa storia del servizio segnala frequentisssime discontinuità e
rotture:
-la nota del 4 aprile 1972 fa risalire la nascita al 1944 ad opera di Roatta,
ma accenna a trasformazioni nel tempo, per cui si comprende che, nel
1972, non vi era quasi più traccia del gruppo fondatore, mentre nel
servizio sarebbe entrata una robusta quota di ex Rsi
- Ristuccia (verbale 2 febbraio 1999) parla di un primo gruppo
organizzato da Titta in un'epoca imprecisata, che sarebbe divenuto
l'Anello -con l'adesione di personaggi quali Fulchignoni, Battaini ecc.-,
solo "dopo lo scandalo Sifar ", cioè, presumibilmente, fra il 1966 ed il
1968. In entrambe le strutture, peraltro, avrebbe avuto un ruolo
fondatore "il vecchio", cioè nell'ufficiale israeliano, proveniente dai paesi
dell'Est che potrebbe anche identificarsi nell'Otimski della nota 4 aprile
1972
- Pedroni (verbale 21 gennaio 2000) colloca la vicenda dell'Anello negli
anni settanta, e mostra di non avere notizie per il periodo precedente.
La documentazione sin qui raccolta, permette di approfondire il
periodo della gestazione del servizio ed i suoi probabili addentellati con
l'Ail (sul punto si vedano le rell. 12, 14, 18 di questo ctu a codesta Ag),
così come il folto gruppo di note riconducibili a Grisolia consente di
indagare la vicenda fra la fine degli anni sessanta e la fine dei settanta,
ma per tutto il periodo compreso fra la fine degli anni quaranta e la metà
dei sessanta, disponiamo solo di pochi frammenti che non ci mettono in
condizione di ricostruire la storia dell'organizzazione in quel lasso di
tempo.
Tuttavia, l'insieme dei dati acquisiti è sufficiente a farci capire che, nella
seconda metà degli anni sessanta, avvenne una ristrutturazione del
servizio che segnò anche una rottura di continuità, il tutto senza alcun
atto formale.
Infine, l'elevata informalità di questa sorta di "servizio segreto di fatto"
è ribadita dalla delicata questione del tesserino. Ristuccia (verbale 23
marzo 1999) dichiara:
<< ... i componenti dell'Anello avevano in dotazione un tesserino
sulla base del quale era dovuta a loro cooperazione ed immunità da
responsabilità penali, in cui avrebbero potuto incorrere per motivi di
servizio. Preciso che non so se tutti i membri dell'Anello avevano
questo tesserino, ma il Titta certamente lo aveva ed io l'ho portuto
personalmente (vedere). Ricordo che aveva l'intestazione della
Presidente del Consiglio.>>
In altra occasione (verbale 18 aprile 2000) Ristuccia ha aggiunto:
<< ... questa fu una conquista del Titta, che alla fine degli anni
settanta, dopo la vicenda Kappler e prima della vicenda Cirillo,
ottenne da Andreotti il rilascio di un certo numero di tesserini di
colore rosso che attestavano l'appartenenza dei possessori ad un
servizio segreto... Sono stato detentore del tesserino e mi dopererò
per rilasciarlo e fornirlo per gli accertamenti che sarà possibile
fare.>>
Dai verbali non si comprende esattamente se i tesserini in questione
fossero quelli normalmente in uso per gli appartenenti al servizio
militare o altro tipo di tesserini, magari appositamente creati alla
bisogna; peraltro, va detto che, nonostante queste assicurazioni,
Ristuccia non ha mai consegnato il suo tesserino. Questo potrebbe
indurre a qualche dubbio sulla veridicità del suo racconto, almeno
relativamente a questo aspetto, se ciò non richiamasse alla nostra
memoria quanto emerse nell'istruttoria del dott. Carlo Alemi -relativa al
caso Cirillo- a proposito di particolari tesserini, che attestavano
l'appartenenza dei possessori ad un servizio di informazione e sicurezza,
grazie ai quali sia di Titta che del braccio destro di Raffaele Cutolo,
Vincenzo Casillo, potevano entrare a piacimento nel carcere di Ascoli.
Come si vede, pur non emergendo riscontri certi, vi sono elementi che
sembrano avvalorare, quantomeno indiziariamente, il racconto del teste,
segnalando, nel contempo, la forte precarietà dell'espediente del
tesserino per dare una qualche copertura ai membri dell'organizzazione:
un rimedio adottato, sembrerebbe, in epoca piuttosto recente e in modo
del tutto informale ( "un certo numero" di tesserini -forse inferiore a
quello dei componenti dell'organizzazione- sarebbero stati concessi e
senza che ad essi corrispondesse una qualche lista o qualsiasi altra forma
di censimento degli appartenenti all'Anello).
Concludendo, su questo punto, tutto lascia intendere che la struttura
fosse caratterizzata da una discreta fluidità organizzativa: come abbiamo
appena avuto modo di dire, l'Anello era un "servizio segreto di fatto" e
questo, probabilmente ha determinato momenti di discontinuità
organizzativa e, in alcune fasi, una certa labilità dei suoi confini, a causa
del sovrapporsi di diverse gruppi rispecchianti le diverse ondate:
l'originaria cricca roattiana del Sim sfociata nell'Ail, poi la probabile
influenza dei polacchi di Anders, quindi i resti dei servizi della Rsi, forse
parzialmente coincidente con il gruppo degli amici di Titta,
successivamente il gruppo degli imprenditori (Fulchignoni, Battaini ecc.)
e, forse, altri ancora.
I documenti a disposizione ci suggeriscono almeno due momenti di
rottura:
- quello a metà anni sessanta, a seguito del quale avrebbe assunto il
nome di "Anello"
- e quello collocabile fra il 1974 ed il 1976, a seguito della strage di Piazza
della Loggia e del secondo arresto di Fumagalli, che -stando alla nota del
10 settembre 1974 (All. 688 alla 9° rel. a codesta Ag)- avrebbe innescato
una rottura fra l'ala moderata e l'ala più legata alla destra eversiva.
In altra sede (rel. 15° a codesta Ag) abbiamo avuto modo di esaminare i
non pochi punti di contatto fra il "Noto servizio" e la vicenda del cd "Sid
Parallelo", sino ad ipotizzare una struttura articolata in più livelli:
a) il primo coincidente con i Nds incentrati essenzialmente intorno alla
struttura coperta di On
b) il secondo (cd Organizzazione X) composto di due parti: la prima
militare, innervata nelle strutture coperte dell'Alleanza atlantica, la
seconda di civili da identificarsi nel "Noto servizio".
Data questa fluidità e il frequente intrecciarsi di diversi soggetti
organizzati, l'elemento di continuità più visibile, per ricostruire le
vicende, ci sembra quello di alcuni dirigenti che, come Titta o Battaini,
hanno segnato tutta la parabola che va dalla ristrutturazione della
seconda metà degli anni settanta in poi, sopravvivendo alla crisi della
metà anni settanta.
Si pone, a questo punto, il problema di capire perchè il tentativo di
costituzione del "terzo servizio" segreto italiano sia naufragato, a
differenza del contemporaneo caso tedesco e quali conseguenze abbia
comportato tale fallimento.
Un primo elemento che ha giocato sicuramente a sfavore della
formalizzazione del servizio "di tipo nuovo" è da ricercarsi nella forma
di governo prevista dalla nostra Costituzione. In Germania la decisione
di trasformare l'Organizzazione Gehlen nel Bnd venne assunta dal
cancelliere Adenauer che aveva i poteri per farlo. La figura del nostro
Presidente del Consiglio, come si sa, ha poteri ben più limitati,
soprattutto nei confronti dei singoli ministri che, per l'art. 95 della
Costituzione, sono responsabili individualmente degli atti dei loro
dicasteri. Inoltre, il Presidente del Consiglio -a differenza del Cancelliere
tedesco- non può sostituire un ministro di imperio ed anche un
eventuale rimpasto deve essere votato dalla maggioranza del Consiglio
dei Ministri. Tutto questo ha determinato quella forma di governo che la
dottrina ha definito "governo di coalizione (Guarino) che, ovviamente,
implica una limitazione del ruolo del Presidente del Consiglio che va
oltre la stessa lettera della Costituzione. E, pertanto, la capacità del Capo
del Governo di condizionare i singoli dicasteri e, di conseguenza, gli
apparati da essi dipendenti, risulta conseguentemente di ridotta
efficacia. E questo fu ancor più vero nel primo quindicennio di vita
repubblicana, quando la Presidenza del Consiglio non disponeva
neppure di una propria sede e di un proprio apparato distinti da quelli
del Ministero dell'Interno.
Questo fattore acquista peso in relazione ad un'altra delle ragioni del
fallimento: le resistenze dei servizi esistenti (soprattutto Sifar-Sid e
Uaarr) al riconoscimento di un terzo incomodo e, comunque, ad una
riforma che comportasse una maggiore dipendenza dal potere politico.
Su questa strada, gli apparati trovavano, il più delle volte, il consenso
dei rispettivi ministri - ovviamente poco interessati a vedere ridotto il
potere del proprio dicastero- e tutto ciò non trovava un adeguato
contrappeso nella Presidenza del Consiglio per le ragioni di cui
dicevamo.
In terzo luogo occorre considerare la particolare condizione del sistema
politico italiano. Come scrive Gehlen nelle sue memorie, il cancelliere
Adenauer assunse la decisione di istituire il Bnd solo dopo aver
informato l'opposizione socialdemocratica ed averne ottenuto il
consenso ("Servizio segreto -le memorie del generale Reinhard Gehlen"
Mondadori, Milano 1971, pp. 165-7). Infatti, per quanto la Spd non
avesse ancora celebrato il suo congresso di Bad Godesberg -che segnerà
l'abbandono anche formale del marxismo- essa aveva già fatto la sua
scelta di campo occidentale sin dal 1945 e, dunque, non aveva nulla da
ridire su un servizio informativo rivolto contro l'Est (anche se, più tardi,
non impedì al Bnd di Gehlen di attuare più di una operazione contro la
stessa opposizione socialdemocratica). Tale condizione di accordo era
semplicemente impensabile in Italia, dove il ruolo di maggior partito
dell'opposizione era svolto dal Pci. E, infatti, i due tentativi (risalenti al
1951 ed al 1962) di approvare l'istituzione di una Difesa Civile -che
avrebbe potuto aprire, in qualche modo, la strada all'istituzione del
"terzo servizio"- andarono incontro ad un accanito ostruzionismo
dell'opposizione di sinistra. Infatti, l'Italia sarà l'ultimo paese a dotarsi di
una struttura per la Protezione Civile -nel 1977- proprio a causa di
questa antica diffidenza verso il tema.
Ovviamente, l'opposizione, da sola, non avrebbe avuto la forza di
bloccare definitivamente il progetto. Ma la decisa e tenace opposizione
della sinistra, a qualsiasi tentativo in questo senso, diventò un'arma
micidiale nelle mani delle correnti interne agli stessi partiti di governo,
che avevano motivo di opporsi al progetto per motivi propri. E qui
siamo al quarto motivo del fallimento: l'accentuato frazionismo dei
partiti di governo -ed in primo luogo della Dc, come avremo modo di
dettagliare più avanti- accentuava quelle dinamiche di dispersione del
potere decisionale e simmetrica diffusione del potere di veto che una
ormai classica analisi individua come caratteristiche del sistema politico
italiano (Pizzorno 1971). Dispersione del potere decisionale e diffuso
potere di veto che, naturalmente, rappresentano le condizioni ambientali
meno favorevoli per un progetto del genere: il modello Cia è, infatti,
congeniale a sistemi politici che abbiano al proprio centro un forte
"nucleo cesareo" (A. Pizzorno "Il sistema pluralistico di rappresentanza "
in S. Berger "L'organizzazione degli interessi nell'Europa Occidentale " il
Mulino, Bologna 1983, pp. 398-9.) ma si concilia assai male con sistemi
contrassegnati da prevalenti tendenze centrifughe che riducono quel
nucleo ad un'area ristretta e precaria.
Sin qui le ragioni relative alle sfavorevoli condizioni ambientali, ma è
ragionevole supporre che il fallimento sia stato determinato anche da
limiti soggettivi dei personaggi che si sono alternati alla guida del
tentativo: lo stesso Roatta -che, peraltro, si sarebbe limitato a "passare il
testimone" senza avere una parte dirigente nel servizio in epoca
successiva alla sua fuga in Spagna- non aveva certo nè la statura, nè il
prestigio, nè la professionalità di Reinhard Gehlen e, d'altra parte, il suo
gruppo di pretoriani non era lontanamente paragonabile
all'efficientissima rete informativa dell' "Armata dell'est".
E' dunque probabile che gli stessi americani abbiano sostenuto in modo
assai meno convinto il progetto italiano rispetto a quanto, invece,
avevano fatto nel caso tedesco.
Alla luce di queste considerazioni, il fallimento del tentativo appare
logico e, in qualche misura, iscritto nell'ordine delle cose, al di là della
consapevolezza che potessero averne i protagonisti del tempo. Questo,
tuttavia, non toglie che una organizzazione paraistituzionale sia
effettivamente esistita, abbia operato illegalmente e che tutto questo
abbia prodotto una serie di conseguenze di non poco momento. Ma, su
questo, avremo modo di tornare nelle conclusioni.
2) Alberto Grisolia ed il Noto Servizio. Sia la nota del 4 aprile 1972, che le rimanenti veline sul Noto Servizio
rinvenute nell'archivio della Dcpp, provengono da Alberto Grisolia, la
fonte "Giornalista" della Squadra 54.
Anche gran parte delle note confidenziali sulla Dc milanese, che
esamineremo più avanti, sono da attribuire allo stesso Grisolia.
Dunque, non è inopportuna una riflessione sul personaggio e sul modo
in cui possa aver saputo quello che riferisce sul Noto Servizio.
Come è consueto nel caso dei confidenti, su Grisolia esiste uno smilzo
fascicolo presso l'archivio della Questura ambrosiana ed altrettanto
scarna documentazione presso la Dcpp. Poche le notizie che è possibile
ricavarvi: gironalista del "Corriere della Sera" sino al 1971, ebbe poi altri
incarichi giornalistici di minor conto. Iscritto al Psdi, aderì (1959) al Muis
e, con esso, passò al Psi nel 1960.
Stando ad uno dei documenti del cd "registro fonti" (All. 51 Rel 7),
esisteva una fonte con il nome di copertura di "Giornalista" a Milano sin
dal 1961. Per la verità, a fianco al criptonimo non compare l'anagrafico,
ma sull'identità della fonte "Giornalista" non ci sembra che ci siano molti
dubbi. Infatti, stando alle consuetuni dello Uaarr, può accadere che una
stessa fonte possa avere nomi di copertura diversi nell'arco della sua
collaborazione, ma è decisamente meno probabile che lo stesso
pseudonimo possa indicare due diversi fiduciari. E se era possibile -ma
raro- che uno stesso nome di copertura indicasse due fonti diverse ma in
città diverse (e, infatti, nello stesso documento compare un'altra fonte
"Giornalista" a Genova, nello stesso periodo), questo, non accadeva per
due fonti della stessa città, anche in tempi diversi.
E la ragione si comprende: il nome di copertura, normalmente, era
scelto dall'agente manipolatore che, ovviamente, evitava di dare uno
stesso nome a due fiduciari diversi per evitare confusioni possibili,
anche a distanza di tempo, fra documenti provenienti da collaboratori
diversi. Ma, l'agente manipolatore agiva il più delle volte in ambito
locale e, ovviamente, non conosceva gli elementi delle altre squadre con i
relativi criptonimi, ragion per cui, poteva esserci l'uso di uno stesso
nome di copertura usato in due squadre, nello stesso tempo.
Dunque, salvo un particolarissimo caso fortuito, possiamo concludere
tranquillamente che il "Giornalista" dell'elenco del 1961 sia Grisolia.
Qualche altra notizia la si ricava dai testi ascoltati dal Ros: sia Ristuccia
(verbale 9 dicembre 1998) che Pedroni (verbale 31 maggio 2000)
sostengono che Titta conosceva Grisolia ma ne diffidava, ritenendolo
pericoloso e, forse, un agente del Kgb o di altro servizio d'oltrecortina.
Trattandosi di una circostanza riferita da due testi, uno
indipendentemente dall'altro, possiamo accettare come un dato
abbastanza sicuro che Titta dicesse certe cose sul conto di Grisolia.
Non sappiamo, però, su cosa Titta fondasse questo suo sospetto (più in
là avanzeremo una ipotesi). Peraltro, il fatto che "Giornalista" fosse una
fonte dello Uaarr, non impedisce che ciò sia possibile: non si tratterebbe
del primo caso di agente doppio o triplo. Ma, in mancanza di altri
elementi, questa non appare che una mera supposizione. Innanzitutto, se
è vero che è possibile il caso degli agenti doppi, è anche vero che tali casi
sono meno diffusi di quanto il cinema possa far pensare: ovviamente
ogni servizio sorveglia -anche solo periodicamente- le sue fonti, proprio
allo scopo di identificare i doppiogiochisti, e, per questo, occorre essere
molto bravi per evitare di essere smascherati. Sin qui non sono emersi
documenti (nè presso l'archivio della Dcpp nè presso quello della
Questura romana, nè presso quello della GdF o del Sismi) che segnalino
un pur semplice sospetto di questo tipo.
Può darsi che Grisolia fosse particolarmente bravo e Titta
particolarmente intuitivo (o a conoscenza di cose che noi, invece,
ignoriamo), ma questo totale silenzio dei documenti non incoraggia le
ricerche in questa direzione.
Tuttavia, egli ci appare al centro di un groviglio di rapporti non sempre
chiari:
- fonte di Alduzzi, era in buoni rapporti anche con i Cc ed era molto
amico del suo collega Giorgio Zicari, a sua volta collaboratore dei Cc,
- amico di diversi esponenti della destra Dc (da De Carolis a Gino
Colombo), disponeva di ottime entrature nella sinistra di Base e di Forze
Nuove
- in relazioni non occasionali con i maggiori esponenti del Noto Servizio
e zone limitrofe (da Titta a Padre Zucca), era, però, anche amico di
Aniasi: abbastanza da avvertirlo del progetto di rapimento architettato
dal Noto Servizio e da consegnarli una copia del suo rapporto del 4
aprile 1972.
Fra le sue frequentazioni sembra annoverasse anche quella di Luciano
Menegatti sul quale, pure, questo ctu ebbe modo di avanzare il dubbio
che si trattasse di un agente dei servizi dell'est. E, dobbiamo aggiungere,
resta ancora oggi non spiegato il perchè la nota del 4 aprile 1972 si
trovasse nel fascicolo "Dario" -nome di copertura di Menegatti- dove,
appunto, era raccolta la produzione dell'improvvisato giornalista
romagnolo.
Il fitto intreccio di conoscenze è facilmente spiegabile con la professione
di Grisolia: un giornalista deve avere fonti e relazioni amichevoli negli
ambienti più disparati per fare il proprio lavoro, ma, proprio per questo,
il mestiere di giornalista è la migliore copertura per gli agenti dei servizi
segreti e per le loro fonti. Una spiegazione intermedia, potrebbe essere
che, nel complesso giro di rapporti di Grisolia vi fosse anche qualche
confidente dei russi (o di altro servizio informativo orientale) con il
quale, più o meno consapevolmente, egli scambiava notizie.
Il punto più delicato, per il nostro lavoro, però, è capire da dove
Grisolia abbia attinto le sue notizie sul Noto Servizio. A distanza di
quattro anni dal ritrovamento della Nota del 4 aprile 1972, oggi
possiamo dire che la maggior parte delle notizie contenute in quel
fittissimo rapporto, è stata puntualmente riscontrata. Anche molte altre
informative, direttamente o indirettamente riconducibili alla fonte
"Giornalista" hanno ricevuto conferma e, bisogna ammettere,
spessissimo si trattava di notizie molto riservate e di livello elevato.
Dunque, delle due l'una: o Grisolia disponeva di una rete di ottime fonti
-che non si capisce come compensava- o riferiva su cose di cui aveva
conoscenza diretta.
Prendiamo in considerazione la prima ipotesi: come dicevamo, ogni
buon giornalista è prima di tutto un mercante di informazioni, per cui è
normale che intrattenga il maggior numero possibile di relazioni per
cavare tutte le informazioni possibili, per poi scambiarne una parte, in
modo da essere al centro dei flussi informativi. Ma Grisolia disponeva
di troppe notizie e, fra le più riservate: dall'esistenza e l'operato del Noto
servizio, alla nuova sede di quella particolare loggia milanese, dalla vita
interna alla Dc a quella del Psi e nei più riposti segreti dell'una e
dell'altro, dalla Camera di Commercio alla Fiera Campionaria, ecc.
Tutto questo presuppone una vasta rete di informatori tutti molto ben
inseriti e una simile rete costa molto: le fonti gratuite (o compensabili
con utilità diverse dal denaro) sono molto infrequenti e raramente
offrono merce di particolare pregio. Nè a spiegare quantità e qualità
delle informazioni raccolte, potrebbe bastare il semplice scambio delle
notizie. Dunque, non si capisce come Grisolia abbia potuto permettersi
una rete di informatori così costosa. La deduzione più semplice è che
avesse a disposizione le risorse di qualche servizio informativo come lo
stesso Uaarr del quale era informatore. In effetti, nello Uaarr non
mancavano agenti capi-rete che avevano a disposizione sub agenti
pagati, dallo stesso servizio, per il loro tramite: è il caso di Lino Ronga. E
neppure mancavano altri collaboratori che avevano a disposizione una
propria struttura informativa finanziata in altro modo: è il caso di
"Aristo", alias Armando Mortilla, che dirigeva l'agenzia Fiel-Notizie
Latine, verosimilmente finanziata dai servizi segreti spagnoli per il
tramite dei sindacati falangisti. Ma nulla, nè nel registro fonti dello Uaarr
nè nella carte della Questura milanese, autorizza a pensare che Grisolia
fosse un capo-rete dello Uaarr. Potrebbe esserlo stato di un altro servizio,
magari straniero (e qui torna il sospetto sui ruoi rapporti con il Kgb), ma,
anche qui le carte tacciono e non offrono il benchè minimo appiglio.
Secondo Ristuccia, quello che Grisolia riferiva del Noto Servizio non
poteva averlo appreso che da Titta. il che sarebbe plausibile, se non fosse
in contraddizione con i sospetti di collaborazione con i servizi russi che
lo stesso Titta avrebbe nutrito nei confronti del giornalista. Possiamo
credere che Titta coltivasse i rapporti con Grisolia, pur sospettandolo
agente nemico, per ricavarne notizie, e possiamo anche accettare senza
problemi che fra i due ci fosse uno scambio. Quel che appare del tutto
incredibile è che Titta parlasse ad un agente informativo nemico, non
solo dell'esistenza di un servizio clandestino come il suo, ma dei nomi
degli altri componenti, delle azioni svolte e persino di quelle future:
neanche il servizio segreto del "paese dei campanelli" potrebbe
funzionare in questo modo.
La seconda ipotesi è assai più semplice e lineare: che Grisolia abbia
fatto parte, almeno per qualche tempo, del Noto Servizio e che, dunque,
abbia riferito in parte notizie di cui aveva conoscenza diretta e, in parte,
notizie a loro volta raccolte dal Noto Servizio. A suggerire questa ipotesi
sono queste considerazioni:
a) Grisolia riferiva in tempo reale e su cose (come il rapimento di
Aniasi, l'appartenenza al servizio di Fumagalli e, soprattutto, Nardi, gli
attentati a Costantini o Capanna, la fuga di Borghese ecc;) che, si
immagina, fossero nascoste con la massima cura dagli uomini del Noto
Servizio. Dunque: o Grisolia disponeva di una talpa inserita nei massimi
livelli di esso, o la talpa era lui stesso.
b) Titta, effettivamente, deve avergli detto delle cose, ma solo perchè
ne aveva la più completa fiducia e ciò era necessario a compiere
determinate operazioni. In altri temini, perché appartenevano alla stessa
organizzazione. Questo non è in contraddizione con i sospetti di Titta
sulla appartenenza di Grisolia ai servizi dell'est, in quanto ci si potrebbe
riferire ad epoche diverse: in un primo momento, Grisolia può essere
appartenuto al Noto Servizio, in un secondo tempo, anche a seguito di
alcune fughe di notizie (e sul punto torneremo), Titta può aver iniziarto
a nutrire su Grisolia i sospetti di cui ci dicono i testi. A questo proposito,
notiamo che, stando alle loro dichiarazioni, sia Ristuccia che Pedroni
avrebbe conosciuto Titta solo a metà anni settanta e, dunque, i discorsi
su Grisolia non possono essere precedenti a quell'epoca.
c) Nella nota 4 aprile 1972 si legge:
<< Alcuni anni addietro, una decina grosso modo, il comando del
servizio, che allora era ancora tenuto da Otimski, impartì ordini
perchè il servizio fosse messo in condizioni di aiutare il Partito
Socialista. L'aiuto doveva consistere in una diretta azione per
consentire al Psi di disporsi su posizioni di netto anticomunismo. Fu
in quel periodo che il Battaini ed il Lorisi -e altri che non conosco-
entrarono nel Partito Socialista. >>
Una decina di anni prima: cioè fra gli ultimissimi anni cinquanta ed i
primi sessanta: esattamente il periodo in cui Grisolia passava -con il
Muis- dal Psdi al Psi: una coincidenza che merita d'essere notata.
d) Grisolia appare ben impiantato nell'ambiente del Noto Servizio,
quel che non appare logico se egli fosse stato sospettato di lavorare per i
sovietici. Per scambiare notizie con un agente avversario, basta una sola
persona, non è affatto necessario che altri dell'organizzazione coltivino la
sua frequentazione.
Troppo poco, come si vede, per asserire con certezza che Grisolia sia
stato membro del Noto Servizio, ma abbastanza per sospettarlo.
Ancor meno risolto -allo stato delle conoscenze- è un altro punto: quale
è la logica con la quale Grisolia si muoveva? Più in dettaglio:
a) perchè Grisolia scrisse la nota del 4 aprile 1972?
b) perchè ne consegnò una copia ad Aldo Aniasi?
c) perchè avvertì Aniasi del tentativo di rapimento in suo danno?
Apparentemente, il primo quesito potrebbe essere risolto dalla
risposta più ovvia: perchè era un confidente. Ma Grisolia era un
fiduciario dello Uaarr dal 1960, ed , allora, come mai sentì il bisogno di
parlare di un tema così scottante solo dopo 11 anni? Una spiegazione
potrebbe essere che prima non ne era a conoscenza e, un suggerimento
in questo senso, viene da un particolare: nel 1972 Grisolia aveva
partecipato ad un viaggio in Israele dove, forse, avrebbe scoperto di un
certo Otimski e del suo servizio parallelo in Italia. Ma si tratta di una
ipotesi di ben scarso pregio. Ammesso che Grisolia possa aver appreso
dell'esistenza del servizio durante la sua sosta in Israele (e da chi? dallo
stesso Otimski?), dove ha saputo della sede di via Statuto, del negozio di
fotocopie di via Larga, del deposito d'armi presso la caserma dei Cc di
via Moscova ecc: c'è troppo zafferano per essere un piatto cucinato a Tel
Aviv.
In secondo luogo, il documento presenta un'altro aspetto decisamente
insolito: è troppo lungo e contiene troppe notizie e questo è contro la
logica mercantile di un confidente, che tende a centellinare le proprie
informazioni per tirare sul prezzo e far durare al massimo la propria
collaborazione. Chiunque abbia consuetudine con questo tipo di
documenti, sa che la "nota confidenziale-tipo, è di una cartella ben
spaziata e solo in casi eccezionalissimi supera le due, mentre in questo
caso ci troviamo di fronte a quasi quattro fittissime cartelle dense di
notizie esplosive (la permanenza in Italia di Borghese, i progetti di
rapimento di Aniasi, Capanna, Granelli ecc., oltre alla notizia principale
dell'esistenza di un servizio segreto parallelo). Con una tale serie di
informazioni, un confidente-tipo va avanti per almeno due mesi,
guardandosi bene dal bruciarle tutte in un solo rapporto.
Un documento simile può spiegarsi o come la risposta ad una
perentoria richiesta di informazioni da parte del centro, o con l'esigenza
dell'informatore di "far presto" e dire quel che sa nel minor tempo
possibile, magari per timore che il ritardo possa esporlo a gravi pericoli.
A complicare ulteriormente le cose si aggiunge lo stranissimo
comportamento di Grisolia che consegnava una copia dello scottante
rapporto anche ad Aniasi, non si capisce bene a quale titolo e a che
scopo. C'è, anzi, un particolare che merita d'essere indicato: la copia
consegnata al sindaco di Milano è scritta con una macchina da scrivere
diversa da quella che ha battuto il testo trovato nella cartella "Dario" e,
nella quale, riconosciamo l' inconfondibile impostazione grafica del
brigatiere Galli. Nella copia data ad Aniasi compare in più una frase
dello spazio di un rigo esatto, come se, chi la ritrascrisse, avesse saltato
quel rigo senza accorgersene; inoltre, l'iniziale della parola "Dugoni" è
battuta due volte, come se l'autore, avendo battuto per errore la "G",
fosse tornato indietro e avesse poi ribattututo la "D", con il risultato
finale che si può leggere tanto "Dugoni" quanto "Gugoni" e, nella copia
ufficiale -quella battuta da Galli- leggiamo "Gugoni". Dunque, risulta
pienamente confermata la versione di Aniasi che asserisce di aver
ricevuto personalmente da Grisolia una copia (si tratta, infatti,
dell'originale) della sua nota. Un comportamento decisamente insolito
per un confidente.
La terza domanda (perchè Grisolia avvisò Aniasi del tentativo di
rapimento in suo danno?) trova più facilmente una risposta: il giornalista
era amico del sindaco e si preoccupò di avvisarlo, forse, anche perchè i
rapitori intendevano giovarsi della sua complicità per attuare il piano;
pertanto, Grisolia, combattuto fra la ripugnanza per la collaborazione
richiesta ed il timore di rappresaglia in caso di rifiuto, sceglieva di
avvisare la vittima in modo da far fallire il piano: plausibile. Peraltro,
questa spiegazione segnala, una volta di più, la possibile appartenenza
di Grisolia al Noto Servizio.
Ma, se scrupoli di carattere morale, forse, lo indussero ad avvisare
Aniasi, questa spiegazione non è per nulla soddisfacente nel caso della
nota del 4 aprile 1972, tanto più ove si consideri la sospetta
partecipazione di Grisolia al Noto Servizio.
Nelle conclusioni abbozzeremo una ipotesi in proposito. 3) Adalberto Titta
Titta è certamente il personaggio centrale di tutta la vicenda o, per lo
meno, così fanno pensare testi e documenti. Eppure la sua posizione nel
servizio non appare sempre quella più importante: i documenti fanno
pensare che Battaini gli fosse sovraordinato. Sembrerebbe, piuttosto, che
la sua posizione fosse quella di una sorta di "direttore operativo",
responsabile dell'attuazione concreta di linee politiche stabilite da altri. e,
tuttavia,pur se con una discreta autonomia decisionale
La lettura della sua agenda è utilissima per comprendere alcuni aspetti
della sua psicologia.
Metodicissimo, Titta, con la sua grafia minuta e regolare, annota tutto
tutto: gli indirizzi telefonici abituali dei fornitori, tutti i dati personali, i
numeri di tutti i documenti, il numero di serie del binocolo Zeiss e
persino il proprio albero genealogico. La lettura diretta di qualche rigo
chiarirà le idee meglio di ogni altra cosa:
<< Titta Adalberto, fu francesco Paolo e Saibene Dolores, nato a
Milano il 28-6-1921, alle ore 12 in via Mac Mahon 120. Battezzato il
31- 7 nella parrocchia di Villapizzone, padrino e madrina i coniugi
Catarsi Umberto e Cameri Erminia.>>
Nè è da pensare che tanto pignola annotazione rispondesse ad una
comprensibile esigenza di raccogliere da qualche parte tutti i dati
personali, anche quelli di scarsa utilità pratica, ma che può far piacere
raccogliere per semplici ragioni affettive: Titta annota tutto, non solo di
quel che lo riguarda personalmente, ma anche di quello che riguarda i
parenti, gli amici, i conoscenti:
<< B. dott. P. nato a Lecce il 31-1-1945 di Giacomo (siculo- medico) e
di R. Maria (leccese)
laureatosi a Milano il 22-7-69, esentato dal servizio di leva
medico chirurgo plastico estetico - otorino laringoiatra
moglie cecoslovacca, dottoressa (medicina interna) fa parte del
gruppo che fa capo al dott. Micheli presso l'ospedale San Giuseppe.
figli: 1 femmina 2 maschi
appassionato di volo, anni fa fece parte del Club di Cavanago
d'Adda
-abitazione via Buonarroti 42 (piano rialzato) 4696008
-ospedale San Giuseppe - via San Vittore 12 85991
fratello B. dott. V. Medico
nato a Castroreale (Messina) il 27-9-1953
abitazione via Crescenzago 28
C. G. R. dottor ingegnere elettronico 1-1-1939
abitazione...
Moglie...
figli...
Ufficio.... soci e collaboratori ingegn. M.E. (socio) signora M. L.
maritata F. e signorina C. M. (collaboratrici)
casa di campagna....
-parenti: sorella della moglie A.M. coniugata con S.V.; sorella della
moglie D. maritata con D.L. G.; fratello della moglie C.; fratello della
moglie U.
Figlio unico del defunto C. R. e di R. C. nato a Monteforte (Verona) l'
1-1-39. Votazione di Laurea 92/100. Laurea conseguita nel novembre
1965 all'età di quasi 27 anni. Servizio militare non prestato perchè
non tenuto essendo capo famiglia con madre a carico. Patente di
giuda categoria D. Lingue parlate...>>
Risparmiano a chi ci legge altri esempi del genere. Ovviamente, si può
pensare che si possa trattare di affiliati al Noto Servizio, per cui può
essere utile sapere, di un proprio collaboratore che patente di guida
abbia o che lingue parli, ma quale utilità può avere annotare il voto di
laurea o il fatto che la persona in questione si sia laureata "quasi a 27
anni"? In realtà, queste annotazioni ci fanno capire che Titta accumulava
tutti i dati che era possibile avere a prescidere dalla loro possibile utilità,
seguendo la logica del "Buono a sapersi". Per Titta schedare non era una
delle mansioni del suo lavoro, ma una pratica feticista che soddisfa la
pulsione di avere in proprio potere la persona schedata attraverso il suo
"scalpo informativo".
Tutto questo denuncia qualche aspetto maniacale che, tuttavia, non ci
impedisce di inviare, nella nostra qualità di consulente tecnico, un grato
pensiero per la ricca messe di dati offerti al nostro studio.
Queste annotazioni, peraltro, ci consentono anche una breve notazione
che ci conferma, una volta di più, la grande dimestichezza fra Titta e
Grisolia: nella sua nota dell'8 maggio del 1979, il confidente sostiene che
Titta, nei suoi diari, indica Fulchignoni come "il siculo", la stessa
espressione che leggiamo, nel brano appena citato, a proposito del
padre del dott. P.
E dunque, ben immaginiamo quale perdita abbia rappresentato, per la
presente inchiesta, il mancato ritrovamento delle sue agende. Così come
ci piacerebbe leggere le due mezze pagine che risultano troncate di netto
(si vedano le due pagine che iniziano, l'una con "Gallo Angelo (classe
1917)", l'altra con "Macciò Leo fu Ugo".
Fra le persone annotate riconosciamo (segniamo con l'asterisco * le
persone indicate nelle note di Grisolia come vicine al Noto Servizio o
personalmente prossime a Titta):
- Aldo Aniasi (il che conferma l'interesse per il personaggio ed i sospetti
sulla responsabilità di Titta nell'attentato a Trezzano sul Naviglio, nel
luglio del 1979)
- Sigfrido Battaini (*)
- Pietro Bellinvìa
- Giuseppe Cabassi (*)
- Corinaldesi Coanzito
- Febo Conti
- Gino Colombo
- Massimo De Carolis (*)
- Padre Eligio Gelmini
- Piero Bassetti
- Giorgio Pisanò (*)
- Franco Servello
- Letterio Meli
- Mario Monzali (*)
- Gaetano Morazzoni
- Luciana Piras (*)
- Giovanni Pedroni
- Luigi Fortunati (*)
- Felice Fulchignoni (*)
- Fondazione Keimer
- Boris De Raquellwitz
- Ulisse Mazzolini
- Padre Enrico Zucca (*)
Come si vede, è presente quasi tutto il mileu descritto da Grisolia che,
evidentemente conosceva dall'interno la rete di relazioni fra i diversi
soggetti.
Nella sua ricchissima agenda Titta annota anche di essere
<< Esperto infortunistica stradale (giugno 1974) -Albo consulenti
tecnici del giudice: Tribunale civile e penale di Milano dal 20-10-74 n
5250 (per estensione della già esistente iscrizione come geometra). >>
Quello degli attentati coperti da incidenti stradali simulati è un tema
ricorrente nelle note di Grisolia (Di Pol, Dugoni, Mommsen ecc.) e,
peraltro, il teste Volturno Morani (verbale 2 maggio 2001) sostiene che:
<< il Titta mi diceva che il metodo migliore per uccidere una persona
era l'incidente stradale.>>
e, dunque, possiamo ben credere che la qualifica di esperto in
infortunistica stradale non fosse usurpata.
Interessante anche l'annotazione "Nardi Aero Service" e ci chiediamo
se si tratti di una struttura dell'azienda di famiglia di Gianni Nardi, un
altro personaggio indicato da Grisolia come appartenente al Noto
Servizio.
Fra le osservazioni particolari, ci sembra che molta attenzione meriti la
pagina dell'agenda dedicata alla cognata Luciana Piras. L'agenda di Titta
è ordinata, più che alfabeticamente, con criterio tematico, per cui sotto il
nome di una persona vengono raggruppate una serie di informazioni sul
suo settore lavorativo, le sue relazioni amicali o politiche, parenti, ecc.
Nel caso dell Piras , oltre che alcuni indirizzi Sip, troviamo anche diversi
nomi di ufficiali o di funzionari di compagnie telefoniche:
<< Genio Militare Esercito (colonnello Gilberti, maresciallo
Tessore)...
Questura (maresciallo Alilla)...
Prefettura (maresciallo Conte)...
Telefoni Internazionali di Stato (Madonìa Cesare)...
Ravasi Gianluigi - Centrale Sip di San Babila...
Tenente Colonnello Antonello Liguori (capo centro trasmissioni"...>>
Sarebbe interessante capire il perchè di questa bizzarra concentrazione
di indirizzi sotto l'esponente nominativo della Piras.
Un'ultima questione: Ristuccia sostiene che tutto quanto sa sull' Anello
sarebbe frutto delle confidenze fattegli da Titta in vista di un suo
possibile reclutamento al servizio che, poi, non si sarebbe concretizzato.
Inoltre, come abbiamo già detto, ritinene che Anche Grisolia non può
aver appreso che dalla stessa fonte le notizie riferite allo Uaarr e ciò,
nonostante la sua sospetta appartenenza ai servizi orientali. Anche
Pedroni e Mannucci Benincasa sostengono di aver appreso dell'Anello,
senza averne mai fatto parte, dal noto geometra (Pedroni dice di essere
stato una sorta di "ufficiale medico" del servizio, per estensione del suo
ruolo di medico curante dello stesso Titta).
Altri testi (Gangemi, Piras ed altri minori) sostengono che Titta si
vantasse di far parte dei "servizi segreti" -senza precisare quale in
particolare- e senza che vi fosse alcun motivo apparente per farlo.
Insomma Titta era un chiacchierone incapace di custodire un segreto.
Ma è una descrizione credibile? Si rifletta su un particolare: Titta è
rimasto un perfetto sconosciuto sino alla vicenda Cutolo-Cirillo ed il suo
nome non compare mai in nessun testo della controinformazione, in
nessun articolo stampa o in alcun processo per eversione, neppure come
semplice "persona informata dei fatti" o come personaggio del tutto
marginale.
Persino nella nota sulla "All'insegna della trama nera", compare il nome
di Battaini ma non il suo. Se fosse stato il "boccaperta" che i vari testi ci
descrivono, gli sarebbe stato possibile passare così inosservato?
In realtà, sembra che i testi non siano del tutto disinteressati nel
proporci questa immagine.
Un esempio chiarirà meglio il punto. Michele Ristuccia è sicuramente il
teste che ha contribuito con la maggior copia di informazioni, tutte, a suo
dire, apprese da Titta, ma in tre occasioni cade in contraddizione:
1- << Titta mi disse di essersi occupato anche del sequesto Dozier...>>
(verbale s. i. Ristuccia dell'8 ottobre 1998). Ma Dozier fu rapito il 17
dicembre 1981, quando Titta era morto già da 19 giorni e, dunque, non
poteva nè essersi occupato di un caso che doveva ancora avvenire nè,
tantomeno averne parlato con Ristuccia.
2- << Lui (Titta) mi parlava anche di... un albergatore di Rimini morto in un
incidente stradale insieme alla consorte e che egli riteneva molto strano...>>
(verbale 8 ottobre 1998)
L'albergatore di Rimini è stato successivamente identificato dallo
stesso Ristuccia (verbale del 12 gennaio 1999) in Coanzito Corinaldesi
(presente nell'agenda di Titta) che, però, morì in un incidente stradale
occorsogli il 26 settembre 1983 e, dunque, Titta, che era già morto da
quasi due anni, non può aver fatto cenno ad alcun dubbio in proposito.
3- << l'On. Andreotti, secondo quanto mi ha raccontato il Titta, fece
intervenire l'Anello a beneficio del governo Craxi. Ricordo che il Titta mi disse
di aver ricevuto l'incarico di far sparire tutto il fascicolo processuale pendente,
credo presso la Procura di Roma, relativo al Ministro Martelli, implicato in un
traffico di titoli di stato americani falsi e di armi...>> (verbale del 23 marzo
1999)
Il governo Craxi si formò nel luglio del 1983; Martelli divenne vice
Presidente del Consiglio nel 1989, e poi, ministro solo nel 1989; il traffico
di titoli di stato falsi cui ci si riferisce è il cd "caso Kollbruner" che risale
agli ultimi anni ottanta. Tutti dati di molto successivi alla morte di Titta.
In realtà, Ristuccia ricorre a Titta per spiegare in quale modo sia a
conoscenza dell'esistenza dell'Anello e delle sue attività, semplicemente
per mascherare la sua appartenenza al Noto servizio. Infatti, lo stesso
Ristuccia ammette che:
a) Titta aveva parlato di lui con il Presidente della Fiera di Milano, Gino
Colombo, come di un appartenente al servizio (verbale del 9 dicembre
1998)
b) di essere stato uno dei possessori dei tesserini distribuiti da Titta agli
appartenenti al servizio (verbali 23 marzo 1999 e 18 aprile 2000)
Inoltre, in alcune delle intercettazioni telefoniche cui è stato sottoposto,
Ristuccia sottintende la sua appartenenza al Servizio.
Le stesse ragioni possono aver motivato Pedroni ad ingigantire le
confidenze di Tittta per minimizzare parallelamente il proprio rapporto
con il servizio. E considerazioni analoghe possono essere fatte per gli
altri testi, pur se in misura via via decrescente.
E, dunque, l'immagine di un Titta che parla di certi argomenti durante
una semplice conversazione fra amici, magari allo scopo di farsi bello,
non persuade neanche un po'.
4) Le operazioni del Noto Servizio in generale. Nel primo paragrafo abbiamo avuto modo di accennare alle
caratteristiche del Noto Servizio come servizio di "tipo nuovo", ispirato
al modello Cia. Qui ci sembra utile qualche considerazione introduttiva
a proposito del modus agendi del servizio e di alcune sue caratteristiche
particolari.
Un primo dato da osservare è una rilevante differenza fra il modello
Cia ed il Noto Servizio : mentre la Cia è istituzionalmente un servizio
pensato per operare fuori dei confini nazionali (anche se, nella prassi,
questo non esclude affatto che la Cia vada oltre le sue competenze ed
operi anche all'interno -ed analoghe considerazioni potrebbero farsi per
il Bnd-), il Noto Servizio -almeno per quel che ne sappiamo attraverso
documenti e testimonianze- ebbe una sua proiezione esclusivamente
interna. Forse questo è stato dovuto alla presenza in Italia del maggior
partito comunista dell'Occidente che rappresentava già un impegno
abbastanza oneroso o, forse, ciò era indesiderato da americani e tedeschi
che riservavano a sè stessi l'arena internazionale o, forse ancora, fu la
mancata formalizzazione ad impedire al Noto Servizio di "crescere" ed
affrontare l'impegno oltre confine, o, infine, fu il concorso di tutte queste
circostanze e di altre a determinare questo esito. D'altra parte, se
l'organizzazione Gehlen già aveva una ottima rete di agenti nell'Europa
orientale, il primitivo gruppo dei pretoriani di Roatta aveva un
insediamento esclusivamente nazionale e questo può aver influito nel
determinare la vocazione successiva di quello che diverrà il Noto
Servizio.
Un secondo elemento abbastanza costante è lo stretto intreccio fra
operazioni politiche ed operazioni finanziarie. Più avanti entreremo nel
dettaglio, qui ci limitiamo a segnalare un ulteriore elemento di
somiglianza con il modello Cia. Infatti, nel caso americano, tale intreccio
non è dato solo dal reclutamento preferenziale di dirigenti e quadri nel
mondo imprenditoriale, ma anche dalla stessa "filosofia" fondativa
dell'Agenzia che vede la tutela degli interessi commerciali americani nel
mondo uno scopo non meno rilevante della lotta anticomunista. Come
avremo modo di dimostrare fra breve, questa indicazione ha avuto una
sua particolare applicazione nel caso italiano.
Nel nostro caso, più che la tutela degli interessi commerciali italiani
all'estero (terreno sul quale il Noto Servizio ben poco avrebbe potuto
fare, dato quanto abbiamo appena detto sulla sua vocazione
esclusivamente interna), l'uso del servizio è stato finalizzato, piuttosto
alle lotte di potere fra i diversi gruppi finanziari. Una parte di queste
azioni possono essere spiegate con l'esigenza di trovare fonti di
finanziamento per l'organizzazione o per sue particolari operazioni,
un'altra parte può trovare spiegazione in personali operazioni di
arricchimento di singoli elementi del servizio, ma, in altri casi, sembra
che il servizio sia intervenuto, in quanto tale, in appoggio ad un
determinato gruppo contro un altro, contribuendo, così, alla formazione
degli equilibri di potere del sistema.
Qui si pone un problema sin qui quasi del tutto inesplorato: l'eventuale
rapporto fra il Noto Servizio e strutture della Confindustria.
In altre occasioni (rell. 3, 6, 12, 23) questo ctu aveva avuto modo di
accennare all'esistenza di un servizio di informazioni della Confindustria
( si veda la nota confidenziale del 18 aprile 1967 All. 27 alla rel. 6)
denominato "Centro Informazioni Sociali" e per il quale avrebbe lavorato
anche il noto estremista di destra Giorgio Torchia.
Il rigoroso silenzio degli archivi in materia (il Cis, pur essendo citato
nella nota appena ricordata, non è cartellinato nel catalogo elettronico
della Dcpp, tanto per fare un esempio) ha permesso di fare solo scarse
acquisizioni in materia, fra esse ricordiamo:
a- l'abitudine dei soci della Confindustria alla riservatezza, spinta sino
al limite del costume cospirativo (ad es. l'uso -in particolare a Torino- di
prendere i verbali delle sedute dell'associazione, indicando gli
intervenuti non con il proprio nome ma con un numero convenzionale)
b- l'esistenza, presso l'Associazione Industriali di Vicenza, di un "ufficio
speciale" (e del tutto riservato) che gestiva fondi diretti alla lotta
anticomunista, che finanziava il Msi e le organizzazioni dell'estrema
destra e promuoveva anche iniziative assai simili all'operazione
"manifesti cinesi" organizzata da D'Amato con la collaborazione di Delle
Chiaie (rel. 6).
c- l'esistenza di una attività informativa, presso l'Associazione Industriali
di Torino ( nota da fonte fiduciaria del 14 ottobre 1969 -All. 69 rel 12-)
che riferiva di un particolare piano di ordine pubblico predisposto -
sembra con la collaborazione del gen. Aloja, antico nume tutelare
dell'Istituto Pollio- sul modello di quello adottato dalla giunta militare
argentina presieduta dal gen. Ongania.
D'altro canto, sono noti i rapporti intrattenuti dal colonnello Rocca,
responsabile dell'ufficio Rei del Sifar, con il mondo industriale in
generale e, in particolare, con la Confindustria. Ed è altrettanto noto il
ruolo di Rocca quale finanziatore (si veda la rel. 3) dell'Istituto Pollio e
del suo convegno di Parco dei principi (cui presenzierà anche Pisanò).
Ricordiamo, peraltro, l'appunto che ha dato origine alla rel. 35 (Catalupi)
che indica Rocca in stretto rapporto con Tom Ponzi (altro elemento del
Noto Servizio).
Note frammentarie e lacunose, come si vede, ma sufficienti a far
sorgere il sospetto di un rapporto non occasionale fra il Noto Servizio e
strutture collaterali della Confindustria.
E, forse, questa contiguità potrebbe spiegare una terza caratteristica del
servizio: il suo carattere territorialmente molto concentrato in
Lombardia. Le note ci descrivono il servizio come la risultante di due
gruppi: uno, maggiore, attestato in Alta Italia coordinato da Battaini e
l'altro, sembrerebbe meno consistente, romano diretto da Fulchignoni e
Fortunati. I due gruppi avrebbero avuto una certa autonomia l'uno
dall'altro, pur essendo coordinati in qualche modo fra loro.
Delle azioni del gruppo romano conosciamo solo i finanziamenti Sifar
al Psi -per il tramite di Fulchignoni- che avrebbero alimentato la corrente
autonomista (e, più in particolare Corona, Pieraccini, Mariotti). La gran
parte di quanto seppiamo nell'operato del Noto Servizio riguarda
essenzialmente il suo nucleo settentrionale, peraltro, in gran parte
concentrato a Milano. Probabilmente la nostra ottica è deformata dalla
presenza di Grisolia nel gruppo milanese e dall'assenza di altri
informatori in altri gruppi locali (o, forse, essi c'erano, ma noi non ne
siamo a conoscenza), ma è probabile che, al di là di ciò, questo
corrisponda all'effettiva realtà del servizio che, proprio per la sua
informalità ed embrionalità, sembra aver trovato il suo terreno d'azione
privilegiato nella capitale lombarda.
Ovviamente, la rilevanza politica, sociale ed economica della
Lombardia e del suo capoluogo, sono un dato troppo noto perchè se ne
debba dire, ma, nel nostro caso ciò è particolarmente vero, perchè
Milano fu il principale campo di battaglia nella "guerra politica" a
cavallo fra i sessanta ed i settanta: non ci sembra un caso che, delle sei
stragi avvenute in quel periodo, la metà sia avvenuta in Lombardia.
Per quel che riguarda il nostro discorso, tale rilevanza di Milano e della
Lombardia trova speciale rilievo per quel che attiene al Psi, nel quale,
controllare la federazione milanese era condizione necessaria per
ottenere la segreteria regionale lombarda, condizione, a sua volta,
indispensabile per conquistare il partito in sede nazionale. Infatti, nel
1972, la Lombardia rappresentava per il Psi il 20,6% dell'elettorato ed il
13,9% degli iscritti (cfr. Aavv. "Il Partito Socialista - struttura ed
organizzazione" Marsilio ed. Venezia 1975), mentre la seconda regione,
per iscritti, era la Sicilia con l'11,2% che, però, rappresentava solo il 6,7%
degli elettori ed aveva la metà dei parlamentari (8 fra deputati e senatori,
contro i 15 della Lombardia).
Tale era meno sbilanciato nel caso della Dc (che raccoglieva circa il
17,3% dei suoi voti in Lombardia) ed ancor più per il Pci (che vi
rastrellava circa il 15% del proprio elettorato). Stando alla nota del 4
aprile 1972, il Noto Servizio ebbe nel Psi -e segnatamente nel Psi
milanese- uno dei suoi principali terreni di intervento. Per quanto
riguarda la Dc milanese, i documenti reperiti in questa occasione ci
offrono un ricco materiale informativo su cui riflettere.
5) La Dc milanese nei primi anni settanta
La Dc milanese presentava un quadro correntizio per più versi
particolare rispetto a quello nazionale, infatti, se uno dei due gruppi
egemoni era quello doroteo -come a livello nazionale-, l'altro gruppo
particolarmente forte era la sinistra di Base guidata dall'on . Marcora che
aveva potuto giovarsi, sin dagli anni cinquanta, della benevola presenza
dell'Eni e che qui raccoglieva percentuali assai superiori a quelle della
media nazionale.
Tradizionalmente deboli erano invece i seguaci dell'on. Moro e quelli
dell'on. Fanfani, così come quelli del gruppo di Forze Nuove guidato
dall'on. Vittorino Colombo. Questi tre gruppi, peraltro, facevano quasi
regolarmente blocco con la Base che, in questo modo, controllava
stabilmente le segreterie provinciale e regionale. Del segretario
provinciale, l'avv. Camillo Ferrari, abbiamo un vivido ritratto nella nota
confidenziale del 30 novembre 1971:
<< L’avvocato Camillo Ferrari di Alfredo e di Bertarelli Carlotta,
nato a Novate Milanese il 29/10/1929, coniugato con prole, residente
a Milano in via Caboto 3, laureato in giurisprudenza alla locale
Università Cattolica, libero professionista con ufficio in questa via B.
Zenale 3, è della corrente di Base, dal 1968 è segretario provinciale
della Dc .
Egli è un tipico prodotto della burocrazia dei partiti. Di famiglia
appartenente alla media borghesia, è entrato da circa dieci anni fa,
nella Dc e si è unito al gruppo Marcora (corrente base). Di modesta
intelligenza politica e di scarsa personalità, l’avv. Ferrari è sempre
rimasto nell’orbita di Marcora. Prima come membro della direzione
provinciale, quando Marcora era segretario, poi come segretario a
sua volta dalla primavera del 1968 .
Nel 1956 ebbe il primo incarico pubblico: fu nominato presidente
della centrale del latte in sostituzione del doroteo avv. Nino Mollica,
che apparteneva alla corrente di Salvini-Morazzoni-Carenini. Come
presidente della Centrale non ha dato cattiva prova: il bilancio è in
pareggio e non sono segnalati casi di clientelismo.
Quando nell’aprile 1968 Marcora si presentò candidato nel collegio
di Vimercate, la corrente di Base voleva portare alla segreteria
provinciale l’attuale assessore regionale alla Sanità, Rivolta. Ma
Marcora gli preferì Ferrari perché più manovrabile.
Per il suo futuro politico si dice che nel 1973 otterrà da Marcora un
collegio senatoriale: forse quello di Lodi, se fallirà l’operazione di
portarlo alla presidenza della Cassa di Risparmio.
E’ avido di denaro e nella DC si dice che non lasci cadere alcun
affare. >> (All. 2)
Punto di forza dei dorotei (Egidio Carenini, Gino Colombo, Gaetano
Morazzoni, Tommaso Salvini) era, invece, il comitato cittadino milanese
del quale era segretario Gino Colombo (che Ristuccia ci dipinge
particolarmente vicino a padre Zucca e ad Adalberto Titta).
La situazione iniziava a squilibrarsi verso la fine del 1969, innanzitutto
con la spaccatura della corrente dorotea che si ripercuoteva anche a
Milano dove Carenini si schierava con Rumor e Piccoli, mentre
Colombo, Morazzoni e Salvini passavano con il gruppo Andreotti-
Colombo. A questo si aggiungevano le disavventure di Carenini seguite
alla conclusione del caso Montedison, che portava alla destituzione
dell'ing. Piergiorgio Cavallo (il maggior finanziatore di Carenini e -
attraverso questo- della corrente Rumor-Piccoli e del quotidiano del
partito "Il Popolo"). Ovviamente, questo determinava un marcato
indebolimento delle posizioni dell'on. Carenini, sia nella corrente che
nel partito (Nota 19 giugno 1970 All. 1).
A perturbare ulteriormente gli equilibri dell'organigramma
democristiano locale, giungeva, nel giugno del 1970, l'elezione del
segretario cittadino, avv. Gino Colombo alla Presidenza del'Assemblea
regionale lombarda, il che poneva il problema della incompatibilità con
il suo incarico di segretario cittadino della Dc milanese.
Come suo successore, Colombo meditava di far eleggere il suo amico di
corrente Gaetano Morazzoni, ma, analoga aspirazione manifestava
anche l'avv. Massimo De Carolis (altro personaggio descritto da
Ristuccia come assai vicino a Zucca), appartenente alla stessa corrente
(Nota 12 gennaio 1971 All. 1).
La successione, pertanto, non si profilava affatto semplice, anche per il
clima non certo idilliaco in cui essa doveva aver luogo: in piena
campagna elettorale, l'agenzia "Nuova Aiga (30 aprile 1970 All. 1) dava
la notizia che l'avv. Gino Colombo era, occultamente, il vero proprietario
del settimanale scandalistico "Abc", all'epoca una delle testate più spinte
dal punto di vista pornografico e fra le testate più impegnate nella
campagna divorzista, il che non era esattamente il miglior viatico per un
candidato che si rivolgeva all'elettorato cattolico; nè la situazione
migliorò a seguito della querela sporta dall' avv. Colombo contro la
"Nuova Aiga" (nota conf. 5 maggio 1970 All. 1).
Considerate le posizioni politiche dell'agenzia, non si fa fatica ad
immaginare che il grazioso omaggio all'avv. Colombo proveniva dagli
stessi ambienti Dc.
Nè, d'altra parte le acque erano agitate solo nelle aree dorotee: anche
nella "Base" si fronteggiavano il vecchio leader Giovanni Marcora e l'
"emergente" Andrea Borruso, sostenuto da Comunione e Liberazione),
ed il tasso di litigiosità, induceva ad un rinvio del congresso locale (Nota
5 marzo 1971 All. 1) in attesa del quale, Colombo restava in carica.
Prendeva quota, in questo quadro, la candidatura di Sangalli (anche
egli andreottiano, ma in posizione autonoma, a causa del suo legame con
la Coldiretti) alla segreteria cittadina, come espressione di un composito
cartello anti Colombo-Morazzoni (Nota 2 aprile 1971 All. 1)
Il congresso si teneva poi effettivamente fra il 24 ed il 25 aprile 1971,
terminando con una sostanziale tenuta delle correnti di sinistra,
nonostante le forti tensioni interne (All. 26 aprile 1971 All. 1).
Ma la tregua postcongressuale durava solo pochi mesi, dato il
sopraggiungere dell'elezione del Presidente della Repubblica, che
produceva un subitaneo inasprimento delle tensioni fra le correnti Dc: a
livello nazionale le destre del partito (dorotei rumoriani ed andreottiani,
fanfaniani, centristi e "pontieri" tavianei) puntavano sull'elezione del sen.
Fanfani (ed, in subordine, su quella di Rumor, Taviani o Leone), mentre
le sinistre (Morotei, Forze Nuove e Base) operavano a favore della
candidatura dell'on Moro. Fanfani, peraltro, poteva giovarsi anche del
sostanzioso appoggio del neo presidente della Montedison, Eugenio
Cefis.
Stando alle indiscrezioni raccolte dai confidenti dello Uaarr (Nota 21
dicembre 1971 All. 1), Rumor, parlando con un giornalista di
"Panorama", sarebbe giunto a sostenere che, una eventuale elezione di
Moro, avrebbe portato la Dc sulle soglie di una scissione.
Tali divisioni si ripercuotevano inevitabilmente sul partito milanese,
dove i dorotei delle varie tendenze si ritrovavano sulle posizioni
nazionali, favorevoli a Fanfani, mentre la sinistra di Base si spaccava fra
Marcora -che favorevole a Fanfani, essendosi avvicinato al segretario del
partito, on. Forlani- e la maggioranza della corrente che, invece, restava
con l'on. Granelli filo-morotea (Nota 21 dicembre 1971 All.1).
Altra benzina sul fuoco provvedeva a spargerla De Carolis che
partecipava a Bologna ad una manifestazione con Edgardo Sogno,
attirandosi le ire di buona parte del partito (ibidem).
Riferisce l'informatore della "squadra 54" (Nota 15 ottobre 1971, All. 2):
<<All’inizio dell’anno si terrà il congresso cittadino della DC. E’
certa la vittoria degli ex dorotei guidati dall’attuale segretario e
presidente dell’assemblea regionale, avv. Gino Colombo. Con lui si
schiereranno, probabilmente, anche i fanfaniani, in passato
tradizionali alleati delle correnti di Base e di Forze Nuove. Capo dei
fanfaniani milanesi è l’assessore comunale Salvatore Cannarella. >>
In realtà, la ricomposizione degli equilibri appariva assai meno
scontata di quanto questa nota faccia pensare, perchè essa presupponeva
una accorta spartizione delle tre cariche principali (segreteria regionale,
provinciale e cittadina) fra le varie correnti e fra i diversi gruppi interni a
ciascuna di esse: se, infatti, gli equilibri generali, sino a quel momento, si
erano retti sul tacito accordo fra basisti di Marcora e dorotei, la
frammentazione di entrambe le correnti e l'emergere di ulteriori
contrasti all'interno dei singoli tronconi in cui esse andavano
suddividendosi, faceva si che quella vecchia intesa non fosse più
sufficiente e che, nei varchi aperti da tale situazione, si infilassero i
gruppi minori restati, sino a quel punto, ai margini del partito:
<< La prossima primavera porterà interessanti novità all’interno della DC
milanese. Il partito dovrà infatti provvedere alla nomina del nuovo
segretario regionale (ora l’incarico è affidato al dott. Mazzotta della
corrente di Base) e alla convocazione dei congressi per la nomina del
segretario cittadino (ora è l’avv. Colombo, doroteo) e del segretario
provinciale (ora è l’avv. Ferrari, basista). Le ultime informazioni danno
per sicure le riconferme di Colombo e di Ferrari, mentre sarebbe
altrettanto certa la sostituzione del dott. Mazzotta.
Se i basisti riusciranno a conservare quella poltrona l’affideranno al dott.
Cartotto, ex dirigente del movimento giovanile e amico del sen. Marcora.
Ma gli uomini di Forze Nuove, a Milano guidati dall’on. Vittorino
Colombo, insistono per avere assegnata una delle tre segreterie, e
precisamente quella regionale. Tutto potrebbe invece essere messo in
discussione se il contrasto esistente all’interno della corrente di base tra il
sen. Marcora e il vice sindaco di Milano, dott. Borruso, dovesse sfociare in
una vera e propria frattura della corrente. Secondo i dorotei la scissione
sarebbe inevitabile; gli uomini di Forze Nuove, invece, ritengono che
all’ultimo momento sarà possibile mettere una pezza. (Nota 29 ottobre
1971) All. 2
Le elezioni anticipate, ovviamente, inducevano nuovi motivi di attrito a
causa della formazione delle liste. In particolare la corrente di Base subì
una ulteriore divaricazione fra i tre gruppi che la componevano
(Marcora, Granelli e Borruso). In particolare, Marcora avrebbe cercato di
sostenere le candidature dei suoi più stretti collaboratori (Nadir
Tedeschi, Roberto Mazzotta e Ferrari) ai danni dei suoi concorrenti di
gruppo.
Problemi analoghi si registravano nel gruppo andreottiano guidato
dall'on.Sangalli, dove aspiravano ad un buon piazzamento -in
concorrenza fra loro- anche il capogruppo in consiglio comunale,
Massimo De Carolis, e l'amministratrore delegato della MM Salvini (che
di De Carolis aveva chiesto da poco l'espulsione per la sua
partecipazione all'iniziativa con Sogno). De Carolis, stando alle notizie
confidenziali, avrebbe goduto dell'appoggio della Montedison, essendosi
particolarmente legato al presidente Eugenio Cefis.
Contemporaneamente l'on. Carenini (corrente Rumor-Piccoli),
sentendosi poco sicuro nella circoscrizione milanese, cercava di ottenere
un collegio sicuro in Veneto, ma si scontrava con la decisa opposizione
tanto del segretario del partito Forlani, quanto dell'on. Andreotti (Nota
29 febbraio 1972 All. 1).
Altri problemi insorgevano con le Acli che, dal tradizionale
collateralismo con la Dc, passavano in una posizione molto spinta di
sinistra. In particolare a Milano (dove più forti apparivano gli
orientamenti di sinistra ispirati dall'ex presidente Livio Labor) si
giungeva a manifesti firmati congiuntamente da Pci, Psiup e Acli,
fortemente polemici verso la Dc nella quale, ovviamente, si innescavano
reazioni particolarmente dure nei confronti dell'associazione dei
lavoratori cristiani (Lettera del Questore di Milano dell'11 marzo 1972,
prot. 05142/UP, All. 1).
Superate le elezioni politiche (che vedevano rieletti tutti i capicorrente
già presenti in Parlamento con l'aggiunta, per la prima volta, di Roberto
Mazzotta), l'avv. Colombo dava seguito al suo proposito di dimettersi
dalla segreteria cittadina della Dc milanese, per far eleggere al suo posto
Gaetano Morazzoni (nota 23 giugno 1972) ma il progetto subiva nuove
complicazioni per l'evolversi della situazione politica nazionale. Infatti,
la formazione del nuovo governo, dopo le elezioni politiche del 7
maggio, portava al "siluramento" dell'ex presidente del Consiglio
Colombo che, in qualche modo, ne attribuiva la responsabilità al suo
socio di corrente Andreotti; ne seguiva l'ennesima scissione della
corrente fra Andreottiani e Colombei, che si rifletteva puntualmente a
Milano, dove il gruppo di Colombo e Salvini passava con Colombo,
mentre Sangalli e Morazzoni restavano con Andreotti (Nota 28 luglio
1972 All. 1) e questo rimescolamento delle carte metteva in pericolo il
controllo della segreteria cittadina da parte della corrente indebolita
dalla scissione.
Dietro la rottura fra Colombo e Morazzoni, per la verità, non sembrano
esserci stati solo motivi di ordine strettamente politico, ma un intreccio
fra essi ed altri di natura più privata, in questa sede non rilevanti (Nota 6
ottobre 1972, All. 1). In ogni caso, Morazzoni, forse per demarcare la sua
posizione politica da quella del suo ex mentore, si poneva a capo di uno
schieramento -minoritario, ma non del tutto irrilevante- favorevole a
rompere l'alleanza con i socialisti al comune e tornare ad una formula
centrista.
Contro la manovra di Morazzoni, Colombo trovava solidarietà in
diversi esponenti della destra della corrente, fra cui il capogruppo
comunale De Carolis (Nota 13 ottobre 1972 All. 1), il che lo induceva a
ripresentare la sua candidatura a segretario cittadino. La situazione
dell'arcipelago doroteo, pertanto, appariva la seguente:
<<...In realtà sotto la sigla dei dorotei si riuniscono ora una serie di
frazioni. Da destra: la pattuglia dell'on. Carenini al quale si è
affiancato il capo del gruppo consiliare a Palazzo Marino avv.
Massimo De Carolis. Carenini è molto legato, in sede nazionale, agli
onorevoli Bisaglia e Moro. De Carolis è uomo di Cefis e di alcuni
grandi editori tra i quali Mazzocchi e Rusconi. Poi viene il gruppetto
degli amici dell'on. Andreotti, guidato dal Deputato Carlo Sangalli e
dal dott. Gaetano Morazzoni, presidente della società per gli
aereoporti, più a sinistra, infine, il gruppo degli amici dell'on.
Valsecchi , dell'ex presidente Colombo e in genere, di tutto il settore
tradizionalista dei dorotei, che fa capo l'avv.Antonio Salvini,
consigliere delegato della società per la Metropolitana .
Al di sopra di tutti si è posto il segretario Colombo, che gode, a
Roma, della incondizionata fiducia di Rumor e di Piccoli. (Nota 21
novembre 1972. All. 1) >>
La "lite in famiglia", in ogni caso, non pregiudicava il successo del
blocco di centro destra (composto dalle diverse tribù dorotee, oltre che
dai fanfaniani di Cannarella), che, nei precongressi sezionali, vedevano
aumentare di oltre il 10% i loro suffragi rispetto al precedente congresso,
ad evidente danno del contrapposto cartello delle sinistre (composto dai
basisti di Marcora, da quelli dissidenti di Borruso, dai forzanovisti di
Vittorino Colombo e dai morotei di Pierantonio Berté) che vedeva
rapidamente sfumare il 47% conquistato nella precedente assise (Nota
del 10 novembre 1972 All. 1.
Le sinistre, pertanto, si ritiravano in attesa di tempi migliori che,
peraltro, si speravano assai prossimi. Infatti, il prossimo congresso
nazionale -fissato per la primavera del 1973- offriva una occasione ideale
di rivincita che si sperava di fatr precedere dalla caduta del governo di
centro-destra presieduto da Andreotti:
Il senatore Marcora ha incaricato Grampa di comunicare, con molta
discrezione, ai dirigenti milanesi della sinistra Dc che il governo
Andreotti sarà costretto alle dimissioni dopo la conferenza
economica nazionale promossa della Dc e che avrà luogo a Perugia
nelle prossime settimane.
Secondo Marcora, il gruppo Rumor-Piccoli avrebbe deciso di far
cadere Andreotti sul terreno della politica economica per agevolare
l'eliminazione del partito liberale dalla coalizione di Governo. (Nota
17 novembre 1972. All. 1)
Dello stesso tenore appare anche una nota successiva di pochi giorni:
<< Da persone vicine al Ministro Valsecchi si apprende, che nella
Democrazia Cristiana è in corso una dura lotta interna . Le correnti
di sinistra del partito stesso stanno lavorando, perché il governo
Andreotti, cada al più presto. >> (Nota 26 novembre 1972. All. 1)
Tornando alle vidende interne ai dorotei, lo scontro "in famiglia" fra
Colombo e Morazzoni vedeva soccombere nettamente il secondo, con
circa 2.000 voti di preferenza contro i 6.000 andati al primo (Nota 17
novembre 1972 All. 1). e, conseguentemente, l'avv. Colombo vinceva il
congresso cittadino, ottenendo la riconferma come segretario.
Tuttavia, il congresso non restava privo di conseguenze: gli
andreottiani di Morazzoni e Sangalli, vistisi penalizzati anche nella
attribuzione degli incarichi minori, reagivano negando il loro voto per la
conferma dell'avv. Colombo alla segreteria cittadina; in questo modo la
rottura fra i dorotei milanesi veniva ufficializzata e, parallelamente,
prendeva corpo l'idea di una maggioranza trasversale fra il gruppo dei
dorotei di Colombo e quello dei Basisti di Marcora, sciogliendo così i
cartelli iniziali (Nota 1 dicembre 1972 All. 1).
Dunque, l'avv. Colombo raccoglieva la sfida lanciatagli da Morazzoni
aprendo una "campagna acquisti" fra i suoi seguaci.
Lo scontro si spostava poi su un altro terreno: la presidenza della
Scocietà aeroportuale, la Sea -al momento detenuta da Morazzoni- della
quale Colombo cercava di ottenere il controllo. Il neo andreottiano, per
non avere troppe difficoltà con il sindacato, aveva accettato di far entrare
nel CdA un comunista, il dott. Giuseppe Stante, che rappresentava il Pci
anche nel CdA della Banca popolare di Milano.
Su questo punto iniziava una serrata campagna delle correnti di destra
della Dc per ottenere le dimissioni di Morazzoni. L'episodio merita un
cenno in più, relativamente alla campagna scatenata da De Carolis con la
sua agenzia (e ripresa dal settimanale "Lo Specchio" -Nota 15 dicembre
1972 All. 1-), per quanto veniamo a sapere sulla singolare figura del
dott. Stante:
<<...Il medesimo, sembra che abbia organizzato e che tuttora
continui, il gioco d’azzardo, nella predetta sede sportiva,
affidandone la realizzazione ad un suo uomo di fiducia, Franco
Nucci, regista cinematografico alla deriva, in passato legato ad
attività informative del noto ex-funzionario di Polizia dott. Walter
Beneforti. >> (Nota 5 dicembre 1972. All. 1)
Peraltro, appena conclusosi il congresso cittadino, la partita si riapriva
per il sopraggiungere del congresso nazionale, previsto per la primavera
del 1973 (dopo qualche rinvio, si terrà a fine giugno a Roma) che,
ovviamente, spingeva ad una nuova conta, complicata, per di più, dalla
"campagna acquisti" aperta dalle correnti nazionali. In particolare, Moro
e Rumor, nel tentativo di rafforzare le proprie posizioni a Milano,
cercavano di acquisire alle rispettive correnti il gruppo "libero" più
consistente sul mercato milanese: quello di Andrea Borruso (Nota 16
gennaio 1973).
Si profilava, così un nuovo "rimescolamento di carte": l'avv. Colombo
restava alla testa dei dorotei rumoriani, mentre Morazzoni e Sangalli -
che attraevano nella propria orbita anche la corrente della "Coldiretti"-
attendevano segnali dal centro nazionale della corrente andreottiana per
decidere se presentare una propria mozione; la Base registrava il
definitivo scisma di Borruso, mentre De Carolis manteneva il riserbo
sulle proprie intenzioni (Nota 30 gennaio 1973 All. 1).
La crescente entropia delle correnti democristiane produceva
fisiologicamente la ricerca di ulteriori spazi di potere esterni al partito
per poter trovare un punto di equilibrio fra le crescenti pretese di ogni
gruppo interno.
Questa ricerca (ne fu sintomo anche la vagheggiata rottura con i
socialisti al Comune di cui si è appena detto) portava inevitabilmente a
collidere pesantemente con il principale alleato, il Psi che, per parte sua,
attraversava un'analoga fase di entropia interna. Il terreno di scontro
immediato fu quello delle banche. Craxi, a nome del Psi milanese, fece
sapere che, qualora la Dc avesse proceduto a sottrarre al Psi la Banca del
Monte (presidente ne era Tommaso Pesce, fedelissimo di Craxi) questo
avrebbe provocato l'immediato ritiro dei socialisti dalle maggioranze di
comune, provincia e regione (Nota 2 febbraio 1973 All. 1).
Ma il tentativo Dc di eliminare i socialisti dalle banche milanesi
proseguì ugualmente, per prendere decisamente corpo sul finire di
marzo, quando il segretario nazionale Forlani ed il Presidente del
Consiglio Andreotti dichiararono di non ritenere più validi i precedenti
accordi e prospettarono un organigramma che dava qualcosa in più a
socialdemocratici e liberali, ma eliminava del tutto la presenza socialista
dal mondo bancario milanese (Nota 30 marzo 1973 All. 1)
A fine aprile si concludeva il congresso provinciale della Dc, che,
attribuiva nuovamente la maggioranza relativa alla Base (pur se con un
calo,provocato dalla scissione di Borruso, pari al 3-4%), mentre subivano
una secca flessione i morotei ed incassava un discreto successo la
corrente rumoriana guidata dall'on. Carenini (Nota 20 aprile 1973).
Il quadro, di per sè non limpidissimo, diveniva ancor più fosco a causa
del sopraggiungere di un primo scandalo, acceso da una denuncia
dell'avvocato socialista Enrico Sbisà che aveva denunciato per alcune
malversazioni il consigliere delegato della MM Antonio Salvini,
esponente andreottiano. In realtà si trattava di ben piccola cosa (un
viaggio in Giappone -ufficialmente per motivi di studio- di una
delegazione di amministratori guidati da Salvini, per un importo di 10
milioni e una distrazione di alcune centiniaia di migliaia di lire a favore
dell'agenzia stampa dello stesso Salvini), ma tanto bastava al dott. Caizzi
(che gli informatori del maresciallo Alduzzi ci descrivono come assai
vicino al Pri) per emettere avviso di reato ed avviare una inchiesta che
porterà a capi di imputazione più consistenti circa un anno dopo (Nota
29 marzo 1974).
Lo scandalo giungeva opportuno per alimentare gli attacchi alla giunta
comunale da parte delle opposizioni di Pri, Pli e Pci, mentre il Psi si
trovava costretto a far quadrato con la Dc ( e dunque "mollare" Sbisà),
sia per evitare una crisi della giunta Aniasi, sia per non abbandonare i
membri socialisti del CdA della MM (Nota 22 giugno 1973).
Nel frattempo la caduta del governo Andreotti ed il ritorno alla
coalizione di centrosinistra capovolgeva nuovamente la situazione: si
socialisti rientravano in gioco e, parallelamente, ripendevano fiato le
cortrenti della sinistra Dc, mentre Andreotti ed i suoi dovevano
affrontare un difficile periodo di emarginazione, e ciò si rifletteva
nuovamente a Milano dove, con l'approssimarsi del nuovo congresso
provinciale (previsto per la fine del febbraio del 1974) appariva
imminente la sostituzione del segretario avv. Ferrari che, per conto della
Sinistra di Base aveva retto l'incarico sin dal 1968 (Nota 19 febbraio 1974
All. 1):
<< La Dc si prepara al congresso provinciale di fine febbraio.
Secondo anticipazioni molto attendibili, l’operazione di alleanza
quasi generale promossa dall’avv. Colombo, sta dando buoni
risultati.
Domenica scorsa, la coalizione dorotea si è spaccata in due tronconi,
così come l’avv. Colombo desiderava. Egli ha eliminato l’ala
andreottiana, che è capitanata dall’on. Carlo Sangalli; dal presidente
della SEA dott. Gaetano Morazzoni e dall’on. Egidio Carenini.
Questo gruppetto che non arriverà al 10% dei voti costituirà anche
ufficialmente l’ala destra dello schieramento politico democristiano a
Milano. A sinistra sarà esclusa dalla maggioranza l’ala di “Forze
Nuove” guidata dagli on.li Vittorino Colombo e Marzotto.
La coalizione comprenderà il gruppo Rumor, quello di Moro, di
Fanfani e della sinistra di Base guidata dal sen. Marcora. Segretario
provinciale sarà il basista Frigerio.>> (Nota 29 gennaio 1974 All. 2)
Il congresso terminava sancendo l'alleanza fra il gruppo doroteo (la
nota 1° marzo 1974 All. 1 riporta erratamente "moroteo" per un evidente
refuso) dell'avv. Colombo e quello basista di Marcora, cui si
aggiungevano i fanfaniani. In realtà, l'alleanza fra Colombo e Marcora
era solo l'ufficializzazione di una antica e tacita entente cordiale su cui si
erano retti gli equilibri del partito per circa un decennio. All'opposizione
restavano Forze Nuove e andreottiani:
<< La nomina del dott. Frigerio a segretario provinciale della Dc, in
sostituzione dell’avv. Ferrari ha chiuso una battaglia che durava
ormai da un anno e che doveva segnare l’inizio del declino del
predominio del senatore Marcora in Lombardia.
Il dott. Frigerio appartiene alla corrente di Base, come l’avv. Ferrari,
ma fa parte del gruppo del dott. Cartotto, che ormai ha assunto il
controllo di almeno la metà della corrente di Base in provincia di
Milano .
L’affermazione di Cartotto si deve anche all’alleanza che egli ha
stabilito con il capo della corrente moderata avv. Gino Colombo.
La suddivisione degli incarichi, al riguardo, è sintomatica: la
segreteria politica al basista Frigerio, la segreteria amministrativa al
doroteo Bruschi.
I vice segretari, Morazzoni andreottiano, Tedeschi Forze Nuove, non
avranno praticamente alcun potere, ma la loro presenza in seno alla
segreteria servirà per dire che l’accordo è unitario.>> (Nota 12 marzo
1974 All. 2)
L'intesa a livello provinciale poneva contestualmente il problema della
segreteria cittadina, dove, sin dal 1970, l'avv. Gino Colombo manteneva
l'incarico in regime di eterna prorogatio essendo falliti, come abbiamo
visto, tutti i tentativi di una successione a lui gradita:
<< Il segretario cittadino della Dc milanese avv. Gino Colombo
lascerà il suo incarico dopo le ferie estive. La decisione è ormai
ufficiale, anche se ancora resta molto incerta la successione. Secondo
notizie di buona fonte in occasione del recente consiglio nazionale
l’avv. Colombo ha discusso il problema con il segretario Fanfani. Il
gruppo doroteo di Milano dispone di scarsi elementi rappresentativi
anche se è la seconda corrente del partito a Milano e in Lombardia.
Le stesse fonti affermano che la candidatura più probabile è quella
del fanfaniano avv. La Russa, che attualmente riveste la carica di vice
segretario cittadino. Il La Russa, per quanto fanfaniano, è persona
molto gradita all’avv. Colombo. Questi, portando avanti la
candidatura dell’avv. La Russa, intende ottenere in sede romana il
consenso e l’appoggio del sen. Fanfani, che da tempo cerca una
posizione di prestigio a Milano, ma che fino ad ora non era mai
riuscito ad ottenerla. I fanfaniai, a Milano, infatti, raccolgono poco
più del 10% dei voti tra gli iscritti al partito.>> (Nota 23 luglio 1974
All. 2)
Ma i problemi della Dc milanese non si esaurivano nel moto perpetuo
degli organigrammi e delle correnti: il referendum del 12 maggio 1974
aveva segnato una secca sconfitta per la Dc a livello nazionale - con il
59,1% dei No all'abrogazione del divorzio-. A Milano le cose erano
andate anche peggio: alle politiche di due anni prima, i partiti
antidivorzisti (Dc e Msi) avevano ottenuto 1.034.792 voti, ma al
referendum i Si erano stati solo 798.806, pari al 32,26%. Anche le
amministrative parziali svoltesi in Lombardia fra il 1973 ed il 1974
avevano fatto registrare numerosi segnali d'allarme con il passaggio
della maggior parte dei comuni interessati a giunte di sinistra.
Per la primavera del 1975 era previsto il turno generale di
amministrative, nel quale si sarebbero rinnovati tanto i consigli delle
regioni a statuto ordinario -fra cui, appunto, la Lombardia- quanto i
consigli comunali e provinciali più importanti della regione, a
cominciare da Milano e i pronostici apparivano scarsamente favorevoli
alla Dc, anche perchè il Psi aveva manifestato chiaramente la sua
intenzione di preferire, ove possibile, dar vita a giunte di sinistra con il
Pci, piuttosto che tornare al centro sinistra con la Dc. Ciò non di meno, il
gruppo dirigente della Dc lombarda -forse convinto che la flessione
sarebbe stata contenuta e, alla fine, tale da non determinare un
ribaltamento della maggioranza- affrontò le elezioni ripiegata sui propri
problemi interni e poco attenta a recuperare il terreno perso nella
pubblica opinione. In particolare, preoccupava i dirigenti dc milanesi
l'eccessiva popolarità dell'avv. Massimo De Carolis che, praticamente
isolato nel partito, godeva di un notevole seguito elettorale personale per
la sue iniziative in chiave anticomunista. Per questa ragione, le varie
correnti si accordarono per evitare che De Carolis risultasse primo degli
eletti in modo da non rieleggerlo capogruppo comunale. A soccorrere il
pericolante leader della Maggioranza Silenziosa giungeva l'attentato
delle Brigate Rosse:
<< Il ferimento dell’avv. De Carolis ha rimesso in discussione tutta
le strategia della campagna elettorale democristiana.
Quasi tutti gli ambienti della Dc milanese, soprattutto il gruppo
doroteo dell’avv. Colombo e del dott. Morazzoni, erano ben decisi ad
appoggiare altri candidati tra i quali l’ex-basista e vice sindaco di
Milano dott. Andrea Borruso, per evitare che De Carolis risultasse -
primo degli eletti a Palazzo Marino.
Gli avvenimenti di ieri creeranno forse un fatto nuovo.
Costringeranno, cioè, tutta la Dc milanese a fare quadrato attorno a
De Carolis, che potrebbe diventare, contro la volontà di tutti, la
bandiera della Dc milanese.
A cosi poche ore di distanza, ogni previsione, tuttavia è
prematura.>> (Nota 16 maggio 1975. All. 1)
Come è noto, l'avv. De Carolis otterrà un notevole successo personale
che gli spianerà la strada - in occasione delle elezioni politiche dell'anno
seguente- del Parlamento. Al contrario le cose andranno assai male per
la Dc che perderà sia la giunta comunale che quella provinciale (così
come perderà le regioni Piemonte, Marche e Lazio, oltre ai comuni di
Torino, Roma, Genova, Venezia e Napoli): la più grave sconfitta subita
dalla Dc dalla Liberazione sino al 1983. In questo esito così pesante, un
ruolo notevole sarà giocato dai numerosi episodi di corruzione e
malversazione emersi in quegli anni e proprio la Dc milanese fu
particolarmente investita da tale ondata. 6) Gli scandali Cipes e Coi-Casa.
Già nel febbraio del 1972, l'informatore della "squadra 54" segnalava
<< Per il momento si è potuto apprendere, soltanto, che la DC ha già
deciso di appoggiare in forma massiccia l’onorevole Franco Verga
presidente del Centro Orientamento Immigrati, che nel 1968 fu eletto
con 34 mila voti di preferenza. L'onorevole Verga ha dichiarato
d'aver firmato oltre trecento milioni di cambiali e che una sua
eventuale caduta alle elezioni metterebbero in moto un movimento
negativo che lo porterebbero al fallimento.>> (Nota 11 febbraio 1972.
All. 1)
Infatti, l'onorevole Verga, della sinistra di Base, nell'ambito delle sue
iniziative a favore degli immigrati meridionali -che costituivano la parte
prevalente della sua clientela elettorale- aveva dato vita a due consorzi
per l'acquisto di abitazioni in cooperativa (Coi-Casa e Coi-Domus); ma,
ben presto, i fondi così raccolti, erano serviti per altri scopi (campagne
elettorali, mantenimento dell'apparato di corrente ecc.), di qui le
preoccupazioni dell'onorevole per una sua mancata rielezione che,
inevitabilmente, avrebbe portato allo scoperto gli ammanchi. L'on Verga
venne rieletto nelle elezioni del 7 maggio 1972, ma, sfortunatamente per
lui, ciò non bastò a sanare la difficile situazione e, infatti, un anno e
mezzo dopo, l'informatore del maresciallo Alduzzi tornava a riferire:
<< Negli ambienti della Democrazia Cristiana milanese, sta creando
viva apprensione la situazione finanziaria del Centro Orientamento
Immigrati fondato alcuni anni addietro e presieduto dall’ on. Franco
Verga.
Negli ultimi mesi la posizione contabile del Centro si è fatta
ulteriormente pesante e viene confermato che i debiti ascendono a
non meno di settecento milioni. Per la maggior parte si tratta di
cambiali e di assegni che l'on.Verga ed i suoi collaboratori hanno
speso a piene mani. In massima parte si tratta di assegni di favore
che il Verga si è fatto consegnare da amministratori e presidenti di
cooperative edilizie, alle quali aveva promesso aree a buon prezzo e
prestiti dalla Cassa di Risparmio. L'on. Verga due anni addietro
aveva creato due consorzi edilizi: il Coi-Casa. ed il Coi-Domus che
hanno assolto, appunto, alla funzione di specchietto per le allodole,
nei confronti di cooperative e di imprese di costruzione. Il mese
scorso, nella speranza di evitare uno scandalo, che scoppierà presto o
tardi, il segretario cittadino della Dc, avv. Gino Colombo, aveva
incaricato il dott. Pietro Bruschi, persona molto esperta, in questioni
cooperativistiche ed amministrative, di assumere la presidenza del
Coi e di liquidare tutte le pendenze dell'on. Verga, il quale aveva
denunciato debiti per circa, 150 milioni di lire. Il dott. Bruschi voleva
rilevare le posizioni delle cooperative edilizie ed affidare le
costruzioni ad un complesso costituito due anni fa dal dott. Cartotto,
esponente della Corrente di Base, e che funziona molto bene. Si tratta
del Consorzio Cepis. Ma la verifica dei creditori ha portato alla
scoperta che i debiti superano i 700 milioni di lire. Donde la
decisione del Bruschi e del Colombo di abbandonare l' on. Verga al
suo destino.Il dott. Bruschi ha già rassegnato le dimissioni da
presidente del Coi.>> (Nota 7 dicembre 1973. All. 1)
In realtà, il consorzio presieduto dal Cartotto (che si chiamava Cipes e
non Cepis) non navigava affatto in acque migliori di quelle del Coi-Casa
ed, anzi, rappresentava una gatta ancor peggiore da pelare.Il Cipes era
stato promosso qualche anno addietro da una cordata base-dorotei
(l'antica intesa Colombo-Marcora) e, per le stesse ragioni che avevano
prodotto il dissesto del Coi-Casa, si trovava in una situazione ancor più
critica:
<< Neppure i risultati elettorali, negativi anche nei piccoli centri
della provincia di Milano, e la formazione del Governo, hanno
distratto un gruppo di dirigenti della DC milanese e romana, che
stanno discutendo il salvataggio del Consorzio edilizio Cipes, che le
correnti di Base e dorotea avevano costituito nel 1970 e che ora si
trova sull’orlo del fallimento mancando una quindicina di miliardi
per completare il programma di lavoro che era stato predisposto.
Presidente è attualmente il dott. Dal Miglio ma fino a pochi mesi fa
la carica era tenuta dal basista Enzo Cartotto entrambi molto legati al
senatore Marcora. Le trattative vengono condotte prevalentemente
dal vicepresidente della Cassa di Risparmio, avv. Camillo Ferrari il
quale tende ad eliminare il gruppo dei dorotei che fanno parte del
Cipes, sia pure in minoranza, e che è guidata dal segretario cittadino,
avv. Gino Colombo.
Pare che i soldi siano stati reperiti presso una banca tedesca
controllata dai sindacati cattolici, ma adesso la situazione diventa
pesante in quanto non riescono ancora a trovare un accordo sul
nome della persona che gestirà la somma e sui modi di spenderla. I
dorotei vorrebbero che fosse completato rapidamente il programma
edilizio, i basisti, invece, sono più favorevoli a cercare il modo di
mettere in moto alcune operazioni speculative, guadagnare del
denaro e poi completare le case.
Intanto continuano le proteste dei circa 3.000 soci che hanno versato
anticipi anche di parecchi milioni e che ancora non hanno avuto la
casa. Si teme che qualcuno di essi presenti un esposto alla Procura
della Repubblica. Se ciò accadesse, dicono i Dc, lo scandalo sarebbe
di dimensioni nazionali e parecchi degli attuali esponenti della Dc
milanese finirebbero sul banco degli imputati per bancarotta.>>
(Nota 22 novembre 1974. All. 1)
La situazione peggiorava rapidamente:
<< La vita interna della D.C. milanese è stata caratterizzata nella
scorsa settimana da una serie de febbrili incontri a tutti i livelli per
trovare una soluzione ai gravi problemi di natura finanziaria che
attanagliano i due massimi settori finanziari della Dc milanese e
lombarda: il Cipes ed il Coi-Casa In entrambi i casi, la situazione di
cassa è notevolmente pesante (non meno di quattro o cinque miliardi
di disavanzo), mentre oltre tremila soci, che hanno anticipato il
denaro, attendono d’ essere immessi nelle case che sono state loro
promesse. Purtroppo, in entrambi, i casi, notevoli somme - non meno
di tre miliardi - sono stati sottratti per interessi di partito, di corrente
o di gruppetti ed ora non si sa come uscirne.
La corrente democristiana più compromessa in questa vicenda è
quella di Base che proprio a Milano fa capo all’attuale ministro
dell’Agricoltura, sen. Marcora. Ma, sia pure parzialmente nello
scandalo che potrà travolgere da un momento all’altro il Cipes è
coinvolta anche la corrente dorotea. Anzi in prima persona, compare
il capo dei dorotei lombardi, il presidente della giunta regionale, avv.
Gino Colombo. Secondo notizie di buona fonte, dei tre miliardi
scomparsi, due sarebbero andati alla corrente di Base e circa uno ai
dorotei. Da che parte è stato prelevato tanto denaro? … Dalle
cooperative, circa una ventina, che avevano affidato al Cipes
l’incarico di realizzare i loro programmi di edificazione. Le stesse
fonti informano che le cooperative danneggiate non potranno in
alcun modo rifarsi. Soprattutto perché di queste operazioni è
scomparsa ogni traccia e le cooperative non potranno mai provare d’
aver anticipato quei tre miliardi al Cipes e ai dirigenti della Dc
milanese.
I presidenti della varie cooperative proprio nei giorni scorsi sono
stati ricevuti dall’ ex vice-prefetto La Neve, persona molto legata agli
ambienti Dc, ed è stato convenuto che tutti i bilanci delle cooperative
danneggiate saranno “truccati” allo scopo di evitare le giuste
proteste dei soci delle medesime. La truffa resterà un segreto tra i
beneficiari ed i presidenti delle cooperative.
Tutto questo maneggio non è sfuggito all’altro gruppo cooperativo
della Dc lombarda nel settore dell’edilizia popolare: si tratta del Coi-
Casa e del Coi-Domus, che ha a sua volta raccolto un disavanzo che
supera il miliardo e mezzo di lire. Presidente dei due consorzi è il
basista on. Verga il quale ha chiesto l’intervento del partito per
evitare il fallimento e un ennesimo scandalo.
Nei giorni scorsi tutta la complicata matassa è finita nelle mani di un
gruppo di tre professionisti: un certo dott. Rocco, commercialista e
persona di fiducia del sen. Marcora; un certo dott. Corno di Lissone,
commercialista e persona di fiducia dell’avv. Colombo e l’avv.
Massimo De Carolis, vicesegretario cittadino della Dc. I tre stanno
studiando di affidare ad una grande impresa di costruzione forse la
Farsura, l’incarico di completare i piani di fabbricazione del Cipes,
del Coi-Domus e del Coi-Casa, allo scopo di risolvere tutto il
problema del rapporto con i soci che cominciano a inviare petizioni
ed a minacciare la pubblicazione di articoli sui giornali di sinistra. I
tre professionisti invece con l’appoggio della Cassa di Risparmio -
che si è già detta disponibile – risolverebbero i problemi di ordine
finanziario che si aggirano attorno ai venti miliardi. Le riunioni
continuano e dovrebbero concludersi prima di Natale. In caso
contrario, assisteremo ad uno dei più grossi scandali che mai si siano
verificati a Milano, e per la Dc sarebbe un gravissimo colpo. >>
(Nota 17 dicembre 1974. All. 1)
Né la situazione trovava sbocco nei tentativi che si susseguivano l'uno
all'altro, senza alcun esito concreto:
<< La vicenda politica e finanziaria del consorzio Cipes e della
finanziaria Cefin è ancora più che mai al centro di una serie di
riunioni svoltesi nei giorni scorsi a Milano nella sede della Cefin, in
piazza Diaz, e negli uffici dei notabili della Dc.
Le ultime notizie, risalgono alla sera di giovedì, danno per
probabile il passaggio di tutte le attività a un gruppo romano-
siciliano guidato dal dott. Bozan (o Bazzan ), figlio dell’ex-presidente
del Banco di Sicilia processato e condannato per lo scandalo dei “
Gronchi rosa”, il quale attualmente è proprietario di una finanziaria.
Egli è appoggiato da Fanfani ed è persona di fiducia del
sottosegretario Lima.
Le stesse notizie dicono che al tavolo delle trattative si sia seduto,
come protettore degli ex-amministratori del Cipes, l’ ex-ministro
Ripamonti, il quale, in questo momento, ha assunto a Milano la
funzione di anti-Marcora. In altre parole sia il Cipes, che la Cefin, che
ruotavano nell’ orbita della corrente di Base, si spostano sotto il
controllo dei fanfaniani, i quali sperano, a Milano, di rompere il
gruppo basista, o meglio di mettere in minoranza all’ interno di esso
l’ attuale ministro dell’ Agricoltura.
Le trattative continuano, ma le ultime mosse sono state rinviate a
quando Marcora tornerà a Milano per le ferie di Natale.>> (Nota 20
dicembre 1974. All. 1)
Il protrarsi della sofferenza finanziaria dei due consorzi portava
inevitabilmente la questione in sede giudiziaria, sia per l'iniziativa di
alcuni soci truffati, sia perchè la compattezza del fronte degli
amministratori iniziava a cedere e si manifestavano le prime defezioni:
<< …2°)-negli ambienti della sinistra D.C. si annunciano a breve
scadenza gravi rivelazioni sul caso del Cipes. Uno dei consiglieri
d’amministrazione della Finanziaria Cefin, collegata al Cipes, l’avv.
Roberto Valenza avrebbe annunziato ad un gruppo di amici d’essere
pronto a depositare in Procura della Repubblica tutta la
documentazione sulla truffaldina attività del Cipes e delle società
collegate, tra le quali appunto la Cefin. Egli avrebbe chiesto udienza
al giudice Turone, al quale è legato da vecchia amicizia. La bomba
potrebbe scoppiare prima delle elezioni del 15 giugno. Una decisione
è stata rinviata a un nuovo colloquio tra l’avv. Valenza, che è di
obbedienza fanfaniana, e l’avv. Gino Colombo;…>> (Nota 13
maggio 1975. All. 1)
Ad intorbidare ulteriormente le già poco limpide acque, provvedeva
anche il gruppo collegato a De Carolis, cui non sembrava vero di poter
regolare qualche conto con gli antichi nemici della sinistra di Base e del
guppo di Gino Colombo:
<< Negli ambienti democristiani milanesi viene confermata la notizia
pubblicata la scorsa settimana dall’agenzia giornalistica Anipe, che è
diretta dal dott. Michele Ricci Darcangelo e che è sovvenzionata dal
capo della corrente più estrema della destra democristiana, avv.
Massimo De Carolis. Secondo tale agenzia venerdi scorso sarebbero
venuti alle mani per motivi strettamente legati alla divisione del
potere all’interno della corrente dorotea lombarda, il segretario
cittadino della Dc avv. Gino Colombo, il vice-segretario provinciale
dott. Gaetano Morazzoni e l’on. Carlo Sangalli. Il primo contro il
secondo e il terzo. Al termine della colluttazione, avvenuta alla sede
della Dc di via Camminadella, l’on., Sangalli avrebbe avuto la peggio
e sarebbe stato ricoverato per alcune ore in una clinica cittadina. Lo
scontro tra l’avv. Colombo e il dott. Morazzoni sarebbe poi
continuato nella sede della Dc in via Nirone e ad esso avrebbe
partecipato anche il vice-presidente della Cassa di Risparmio avv.
Camillo Ferrari, il quale avrebbe preso le difese del Morazzoni.
L’avv. Colombo avrebbe minacciato entrambi con una pistola.
La notizia -vera perché confermata anche dall’avv. Colombo- mette
in luce lo stato di tensione che esiste in seno alla Dc milanese. Ieri è
giunto da Roma allo scopo di tentare alcuni accomodamenti anche il
redattore capo del “Popolo”, dott. Pellegrini (che alloggia al
Continental), il quale è molto legato all’on. De Mita.
Il problema di fondo resta quello dei rapporti tra il partito (correnti
di sinistra e il gruppo Colombo) con il gruppo De Carolis. Alcuni
vorrebbero che De Carolis fosse addirittura espulso dal partito.
Intanto è stato deciso di non riconfermare De Carolis capo del
gruppo consigliare a Palazzo Marino. L’incarico andrà al dott.
Borruso del gruppo “Comunione e Liberazione”. >> (Nota 27 giugno
1975. All. 1)
" Lo stato di tensione che esiste in seno alla Dc...": come dire che nella
notte di San Valentino "erano tutti molto nervosi"...
Ed è in questo clima che nascono tanto l'uso scandalistico della vicenda
da parte di De Carolis, quanto il progetto degli altri di defenestrarlo.
Progetto che, come abbiamo detto, avrà limitato esito anche a causa della
sagace iniziativa brigatista.
Un gruppo dirigente così dilaniato, naturalmente, non era
minimamente in grado di far fronte alle falle che andavano aprendosi
una dietro l'altra: in luglio l'ex direttore generale del Cipes, Marcello
Campanini -da tempo in rotta con la Dc, di cui non aveva rinnovato la
tessera- manifestava la volontà di diffendersi rivelando quanto a sua
conoscenza:
<<…Il Campanini, a quanto è dato di sapere vorrebbe pubblicare a
puntate tutti i documenti riguardanti la gestione del Cipes e in modo
particolare quelli attinenti i finanziamenti concessi a molti uomini
politici democristiani e non democristiani di Milano e della
Lombardia.
Secondo anticipazioni di buona fonte sul numero che sarà spedito ai
giornali nella giornata di oggi l’Anipe accuserà il capo del gruppo
consiliare della Dc in regione, il basista Guzzetti di Como di aver
prelevato come sovvenzione – non meglio indicata – la somma di £
5.000.000 dalle casse del Cipes. Secondo l'Anipe, il Guzzetti, tramite
il centro Kennedy di Como, avrebbe collocato nell'orbita del Cipes
alcune cooperative edilizie di Como, i cui soci sono stati, a loro volta,
truffati. Tra qualche giorno l'Anipe pubblicherà anche la notizia che
il segretario priovinciale del Psi, Luigi Vertemati, riceveva un
assegno mensile di 1 milione per agevolare il rilascio delle licenze
edilizie al Cipes nei comuni controllati dai socialisti>> (Nota 15
luglio 1975. All. 1)
Parallelamente a queste vicende, precipitava la situazione del Coi-
Casa: in giugno erano arrivati i primi mandati di cattura per i dirigenti
amministrativi del consorzio; il 3 luglio si costituiva il presidente della
cooperativa, Sergio Bettarello che, appena giunto a San Vittore, iniziava
a deporre accusando l'on. Verga di essere il vero responsabile della
situazione e fornendo molti documentati particolari a sostegno della sua
tesi. In particolare, Bettarello accusò il deputato democristiano di aver
illecitamente intascato il 5% delle vendite immobiliari del consorzio. Il 25
luglio il parlamentare riceveva un avviso di re ato per truffa ai danni
dello Stato, bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere.
Verga tentava di difendersi con una mossa disperata: pubblicava -sul
Corriere della Sera del 28 luglio- una lettera al neo segretario della Dc
Zaccagnini, chiedendogli di intervenire per ripianare il disavanzo del
Coi Nord, ma la lettera resterà senza alcuna risposta:
<< Contemporaneamente offre le sue dimissioni da deputato ma,
ancora, non viene ascoltato. Forse qualcuno si ricorda di quando,
non molto tempo prima, arrivò a tentare di vendere il proprio seggio
al primo dei non eletti nella sia circoscrizione. O forse qualcuno
ritiene che si sia bruciato troppo. >> (Quotidiano dei Lavoratori 29
agosto 1975, p. 2).
Alle sei del mattino del 28 agosto 1975, l'on Verga veniva trovato
annegato in una fontana, sormontata dalla statua di S. Antonio,
all'angolo fra via Farini e via Ferrari. Ai piedi della statua veniva
rinvenuta una lettera nella quale Verga chiedeva scusa per il suo gesto,
esprimendo la speranza che esso potesse, in qualche modo, giovare alle
106 famiglie che rischiavano di perdere la casa per il dissesto dei Coi
Nord. Nella lettera di precisava che la decisione suicida era maturata nel
giorno in cui cadeva il novantottesimo anniversario della morte di Santa
Teresa del Bambin Gesù. In mano, il deputato aveva un rosario, in tasca,
accanto alle foto dei genitori, una immagine della stessa Santa Teresa ed
un'altra corona del rosario.
Una veloce istruttoria concluse che si era trattato effettivamente di
suicidio, ma senza nascondere diversi dubbi. E di dubbi, in verità, non
ne mancano neppure a distanza di ventisette anni: suicidarsi tenendo
forzatamente la testa nell'acqua non è cosa che appare nè facile nè
probabile. In secondo luogo, l'on Verga era un convinto cattolico:
possiamo agevolmente riconoscere che non mancano esempi di cattolici,
anche ferventi, che si siano tolti la vita, ma, per quanto nessuno può dire
cosa passi per la mente di un uomo in quei frangenti, la scelta della
fontana sormontata da una statua di S. Antonio, la precisazione, nella
lettera, che la decisione di uccidersi era stata presa nell'anniversario della
morte di Santa Teresa del Bambin Gesù -come se si trattasse di una
buona azione- e tutto quell'apparato di santini e rosari, a far da
scenografia ad un atto così violentemente contrario alla morale cattolica,
lascia il sentore di una grottesca messa in scena.
In ogni caso, la scomparsa di Verga non giovava affatto a calmare la
situazione in casa Dc:
<< Tutte le correnti della Democrazia Cristiana milanese si sono
trovate d’accordo di decidere l’espulsione dal partito del dottor
Michele Ricci D’Arcangelo direttore responsabile dell’Agenzia
giornalistica Anipe, che conduce ormai da parecchi mesi un’accesa
campagna propagandistica contro i maggiori esponenti del partito.
La decisione va messa in relazione soprattutto agli articoli pubblicati
contro la Dc milanese dopo la morte dell’on. Verga e dopo lo
scandalo Cipes.
Si aggrava intanto anche la posizione del geom. Marcello Campanini
che faceva parte del Cipes con funzioni di direttore generale e che
non è più iscritto alla Dc, ormai da due anni. Il Campanini, da
qualche mese, è subentrato all’avv. De Carolis, quale amministratore
e proprietario di due società del gruppo Cipes, la Ciert e la
Panconsulting dichiarate fallite alla vigilia dell’estate.
Secondo buone fonti, la Dc si sarebbe mobilitata per rendere
impossibile ogni salvezza del Campanini, contro il quale viene
sollecitato in Procura l’emissione di un mandato di cattura per
bancarotta fraudolenta.
Il Campanini, dal canto suo, si prepara a pubblicare tutta una serie di
documenti riguardanti i rapporti finanziari tra alcuni esponenti della
Dc milanese e il Cipes.>> (Nota 9 settembre 1975. All. 1)
La feroce lotta fra le diverse correnti democristiane, peraltro, cresceva
di giorno in giorno, coinvolgendo ulteriori esponenti:
<< ….Dc – Il fatto più saliente è costituito da una pesante presa di
posizione contro Bassetti da parte degli ambienti ufficiali di Roma.
Un esponente del gruppo dirigente, persona molto vicina all’on.
Andreotti ha chiesto, tramite un ufficio del Ministero della Difesa,
che siano posti sotto controllo cinque o sei telefoni dei vari uffici di
Piero Bassetti. Fino ad oggi il dirigente della Sip interpellato ha
risposto che la richiesta non può essere accettata, perché troppo
pericolosa. Il fatto dà comunque la misura della lotta che è in corso
tra Bassetti e gli ambienti ufficiali della Dc.>> (Nota 14 ottobre 1975.
All. 1)
Anche la nuova segreteria provinciale, in carica da meno di un anno,
veniva assorbita dalla bufera:
<< Da fonte confidenziale si è appreso che la posizione dell’attuale
segretario provinciale della Dc Gianstefano Frigerio, si sarebbe fatta,
in questi ultimi tempi molto precaria.
Ciò è dipeso in primo luogo all’amicizia che lo legava ad Ezio
Cartotto ed a Adriano Dal miglio, ambedue basisti come il Frigerio,
coinvolti nel noto scandalo Cipes.
Si dice che grazie all’apporto determinante dei due soprannominati,
il Frigerio sarebbe stato eletto, a suo tempo, segretario provinciale
della Dc, con il segreto proposito di creare all’interno dello stesso
gruppo di base, una frattura che determinasse, nel volgere di poco
tempo, la fine di quella sudditanza nei confronti del Senatore
Giovanni Marcora, capo riconosciuto ed indiscusso leader della
stessa corrente.
La bancarotta del Cipes, di cui il Cartotto ne aveva fondato le basi
(1972) e quindi ne aveva assunto la presidenza fino al marzo 1974,
succeduto, poi, nella carica, fino al fallimento completo, dal Dal
miglio, mandava completamente in frantumi i piani prestabiliti,
piani che consistevano nel creare attraverso il Cipes e con
speculazioni edilizie, quella indipendenza economica dall’ingerenza,
sempre meno sopportata dallo stesso Marcora.
A quanto afferma sempre la stessa fonte, il Marcora, approfittando
del momento propizio faceva chiedere al Frigerio, tramite l’avvocato
Camillo Ferrari, vice presidente della Cassa di Risparmio, di
sconfessare pubblicamente l’operato del Cartotto e del Dal miglio,
invitando gli stessi, con il ben noto comunicato stampa, emesso dalla
segreteria provinciale alla vigilia della campagna elettorale, a non
più rappresentare la Dc in pubblico e nel contempo ammoniva il
medesimo (Frigerio), sempre tramite il Ferrari, che il Marcora non
era più disposto a tenere piedi in più staffe.
Al Frigerio, in questi ultimi tempi, vengono rivolte, fra l’altro, molte
critiche, da parte dei suoi amici e avversari, in politica.
Soprattutto lo accusano di non essere stato capace di assolvere al suo
mandato, in qualità di segretario provinciale, di non essersi
interessato attivamente nella propaganda elettorale prima delle
elezioni e dopo i risultati di essi, di aver lasciato ad altri l’incarico di
assolvere delicati problemi durante le trattative con gli altri partiti.
L’accusa più demolitrice gli viene fatta dai suoi ex amici Cartotto e
Dal miglio, con la raccolta, a quanto si dice, di una pesante
documentazione su grosse operazioni economiche da questi gestite a
Milano e provincia.
La documentazione di cui sopra verte sui seguenti fatti:
Si dice che ad accelerare la caduta del Frigerio, uno dei più accaniti
accusatori sarebbe il consigliere comunale Ilario Bianco, il quale
preposto da Roma, alla tutela degli interessi del partito, avrebbe in
questi giorni raccolto le prove della cessione gratuita al Frigerio,
avvenuta a suo tempo, da parte del Cipes, di ben cinque lussuosi
appartamenti e, intestati, poi, a nome dei suoi familiari. Si sostiene
anche che con la caduta del Frigerio, la Democrazia Cristiana
lombarda, vorrebbe dimostrare all’opinione pubblica, ma,
soprattutto alla segreteria nazionale, che ha ultimamente concesso a
Bianco Ilario, la somma di un miliardo e trecento milioni di lire per
tamponare le falle del Cipes, che il partito della Dc ha ormai
definitivamente imboccato la strada della moralità e dell’onore.>>
(Nota 24 ottobre 1975. All. 1)
Per la verità, Gianstefano Frigerio sopravviverà a quella tempesta ed
avrà modo di far riudire il suo nome molti anni più tardi, in occasione
delle inchieste su "Tangentopoli"; ma, per tornare al Cipes, è interessante
leggere la nota confidenziale del 25 novembre 1975, che, forse,
rappresenta il punto più rilevante dell'intera vicenda:
<< Un'altra notizia e venuta a muovere le acque della dirigenza DC
milanese, già così agitate. Secondo notizie di buona fonte, al Palazzo
di Giustizia si afferma che una parte delle somme dei riscatti,
depositate dalla banda Liggio presso la fallita "Banco di Milano",
sarebbero passati dalle mani di alcuni esponenti del gruppo "Cipes".
La notizia però merita una certa conferma.
Comunque il meccanismo sarebbe il seguente: il denaro proveniente
dai riscatti, dalle mani dei cassieri delle Bande, sarebbe stato portato
ad una persona di fiducia di Padre Zucca e del direttore del "Banco ",
dott. De Luca.
Si tratterebbe di un architetto milanese, Giovan Battista Arzuffi,
originario di Bergamo e di famiglia molto facoltosa, ma avviato ad
una vita molto dispendiosa a causa dell'uso prolungato di
stupefacenti. Molto amico di Padre Zucca e del dott. De Luca, egli
avrebbe assolto a questa funzione, mettendo a disposizione anche i
suoi uffici di Corso Porta Nuova, a pochi passi dal Convento
dell'Angelicum. Con lui avrebbe operato uno dei dirigenti del Cipes,
quel Campanini, che sulla Agenzia "Anipe", aveva iniziato la
pubblicazione di un "libro bianco", poi interrotta pare per interventi
altolocati. Si parla addirittura del Cardinale Colombo, o di un suo
portavoce. Se la notizia troverà conferma, le vicende del Cipes
assumerebbero una nuova tinta ancora più fosca.
Sino ad ora non si sa chi abbia portato queste notizie al Palazzo di
Giustizia, ma è certo che i carabinieri ne sono stati informati
dettagliatamente ed il loro Comando sembra voler chiedere la
collaborazione della Guardia di Finanza per indagare sopratutto
sull'Arzuffi e sui suoi conti in banca.>> (Nota 25 novembre 1975.
All. 1)
La nota è assai cauta sottolineando che la notizia è da confermare;
pertanto conviene assumerla come un interessante indizio; giova, però,
ricordare questi elementi già emersi in precedenza:
a- la compromissione del Mar di Fumagalli nel sequesto Cannavale
b- l'asserita appartenenza di Fumagalli al Noto Servizio
c- i documentati rapporti fra Fumagalli e Luciano Leggio (sul punto si
veda l'11° relazione di questo ctu a codesta Ag)
d- la contiguità di altri elementi indicati come appartenenti al Noto
Servizio e il noto contrabbandiere Cichellero in vicende quali lo scandalo
Ambrosio, la vicenda dei falsi danni di guerra ecc. (su questo si veda,
oltre che l'11°, anche la 2° rell. pp. 15 e segg.)
e- le note relazioni fra Cichellero e Leggio (sul si veda tanto l'11° quanto
la rel 28-34-40 pp. 141-51).
Nonostante questa ondata di scandali, la Dc riusciva a superare la crisi
di consensi e, in occasione delle politiche del giugno 1976, a fermare
l'emorragia elettorale (pur se a costo di ridurre allo stremo tutte le altre
forze politiche di centro e di destra) così da mantenere ancora la
maggioranza relativa. Il risultato venne vissuto dalla Dc come un
eccezionale successo (e, in chiave difensiva, esso effettivamente lo era)
dovuto alla nuova segreteria Zaccagnini. Iniziava, in questo modo, il
ciclo della leadership di sinistra che terminerà solo a fine anni ottanta e
che segnò la fine dell'instabilità del gruppo dirigente Dc.
Anche a Milano, superata il 1976, la bufera andò via via placandosi ma,
mentre a livello nazionale, la stabilizzazione faceva pendere il piatto di
sinistra della bilancia, a Milano le cose andarono più favorevolmente alle
componenti moderate del partito:
<< Negli ambienti politici milanesi, ha suscitato notevole
impressione e in certo senso stupore il largo spazio dato da molta
stampa al successo dei moderati al congresso cittadino della Dc.
Anche nella Dc si registra il medesimo stato d’animo. I moderati
infatti sono sempre stati in maggioranza nella direzione e nel
comitato cittadino della Dc milanese e il congresso di domenica
scorsa non ha fatto altro che confermare quanto già era accaduto
negli ultimi vent’ anni. Eventualmente il fatto nuovo è costituito dal
successo personale di Massimo De Carolis. Ma anche questo è un
episodio che dovrebbe essere ridimensionato. Il successo di De
Carolis è essenzialmente giornalistico e pubblicitario. Gli eletti della
corrente di De Carolis non sono stati in numero maggiore di quelli di
Gino Colombo (tanto per fare un esempio) con la differenza che essi,
in massima parte, sono figure di terzo e di quarto ordine, controllate
da un consigliere dell’ Ospedale Fatebenefratelli, il dott. Gallinoni, il
quale guida una sorta di ”banda di affamati ” che sono alla ricerca di
un piccolo spazio di potere e di qualche incarico mediamente
retribuito. Se De Carolis non riuscirà a dar loro un pezzetto di
sottogoverno ( e a Milano è difficile perché il comune e la provincia
sono in mano al Pci e al Psi e la regione è controllata dalla sinistra di
Base), il gruppo di De Carolis potrebbe anche sciogliersi come le
nevi di primavera.
Non è poi detto che De Carolis riesca a portare il suo uomo , cioè
Gallinoni o il numero due dr. Craveri, alla segreteria cittadina, anzi,
sono in molti a giurare che ciò non avverrà. Già nei giorni scorsi,
prima del congresso si diceva che Vittorio Colombo, Andrea Borruso
e Gino Colombo stessero tessendo un nuovo accordo per spaccare il
cartello dei moderati e rinforzare il gruppo centrista. In altre parole
Gino Colombo e i suoi amici si unirebbero a “Forze Nuove ” a
“Comunione e Liberazione“ e agli ex basisti dell’on. Mazzotta per
formare un grosso gruppo di potere capace di controllare le due
segreterie: quella cittadina e quella provinciale, lasciando
all’opposizione De Carolis sulla destra e Marcora sulla sinistra. La
decisione, già presa in linea di massima, non è stata ancora resa
ufficiale per due motivi: prima di tutto perché si vuole attendere il
congresso provinciale in programma per l’inizio di dicembre.
Secondo perché Gino Colombo sta cercando di portare con sé altri
notabili moderati (Carenini, Morazzoni, Sangalli e Cannarella).
Costoro rappresentano circa la metà del gruppo moderato. Se
l’operazione di sganciamento pensata da Gino Colombo dovesse
riuscire, De Carolis resterebbe solo e la sua posizione, anche di fronte
all’opinione pubblica, crollerebbe nel volgere di qualche mese. >>
(Nota 23 novembre 1976. All. 2)
In effetti,De Carolis, per quanto isolato, non crollò in pochi mesi:
ancora alle politiche del 1979, giunse secondo con ben 86.219 preferenze,
ma il suo gruppo ebbe sempre un peso congressuale molto più limitato
e, quando nel 1981 il suo nome comparve negli elenchi della P2, la sua
carriera politica si interruppe, perchè la Dc non lo presentò più in lista.
Privo di un suo supporto organizzato, non gli restò che ripiegare sul
Parlamento europeo, sino al 1984, per poi uscire di scena sino a metà
anni novanta. La morte di Giovanni Marcora, nei primissimi anni
ottanta, rimosse, in qualche modo, il problema della sua ingombrante
presenza nella Base che proseguì ad avere un notevole peso nella Dc
lombarda, ma con una diversa leadership (Granelli, Rognoni, Mazzotta).
I "moderati" ebbero alterne vicende, ma, nel complesso, restarono una
componente di tutto rilievo nel partito milanese, ben più influente di
quanto gli stessi settori non fossero a livello nazionale: Sangalli, grazie al
bacino elettorale della Coldiretti, continuò ad essere eletto per tutti gli
anni ottanta, altrettanto accadde a Gianni Rivera - il pupillo di Padre
Eligio Gelmini- e ad Andrea Borruso; andò, invece, male a Carenini la
cui comparsa negli elenchi della P2 comportò l'esclusione dalle liste, e a
Gaetano Morazzoni che eletto nel 1979 (con 25.523 preferenze) venne
bocciato nelle successive.
Contemporaneamente iniziò l'ascesa del gruppo di Comunione e
Liberazione che -dopo essere stato rappresentato da Andrea Borruso-
riuscì ad eleggere il suo leader Roberto Formigoni nel 1987 (con 133.613
preferenze, primo eletto, quel che si ripeté anche nel 1992).
La vicenda giudiziaria del Coi-Casa perse ogni rilievo dopo la morte
dell'on. Verga; il caso Cises trovò una sua composizione anche grazie
all'intervento di costruttori edili vicini alla Dc.
Di quella Tangentopoli ante litteram - che abbiamo appena rievocato-
non restò neppure il ricordo.
7) Padre Enrico Zucca.
Già da quanto siamo andati dicendo sin qui, emerge la figura di
particolare rilievo di Padre Zucca, messa in risalto anche dalle
dichiarazioni di diversi testimoni:
<< ... debbo fare un inciso, padre Zucca era in condizione di
convocare sia Forlani che Andreotti senza che questi avessero a
protestare. Ciò era dovuto ad un fatto per voi difficilmente
percepibile: padre Zucca era l'uomo in grado di orientare l'enorme
ed influente bacino elettorale lombardo della Dc. Gino Colombo e
Massimo De Carolis erano stati creati politicamente da padre Zucca.
All'Angelicum si riuniva l'intelligenza e la finanza lombarda, da
Eugenio Scalfari ad Indro Montanelli, da Panunzio a Cuccia. Anche il
gran maestro De Bernardo, benchè lo Zucca fosse già defunto, , riunì
la prima Loggia dello scisma all'Angelicum.>> (verbale s.i. rese da
M. Ristuccia 23/03/1999)
<<....l'avvocato Gino Colombo che divenne segretario generale della
Fiera di Milano... venne sponsorizzato per l'incarico in Fiera proprio
da padre Zucca, benchè osteggiato dal segretario generale Michele
Guido Franci...>> (verbale s.i. rese da M. Ristuccia 9/12/1998)
<< (Padre Zucca) ...era una figura molto simpatica ed eravamo
diventati molto amici. Ricordo che aveva addentellati in tutta Italia
ed un notevole ascendente su alti personaggi della vita politica ed
economica del paese.>>
(verbale s.i. rese daG. Pedroni 5/4/2000)
<< ... Ritengo che sia stato padre Zucca a sostenere la carriera politica
di Rivera...>>
(verbale s.i. rese daL. Pizzinelli 21/1/2000)
<< ... Ricordo che all'epoca Padre Zucca era un personaggio
dell'ambiente milanese piuttosto influente, bastava una sua
raccomandazione per risolvere le problematiche legate all'attività
della Promoter Art.>>
(verbale s.i. rese da M. Giancaterina 22/3/2002)
Forse è un po' eccessivo pensare che Padre Zucca fosse "in grado di
orientare l'enorme ed influente bacino elettorale lombardo della Dc ": in fondo,
nella Dc lombarda prevalevano gli uomini della Base che era la corrente
meno influenzata dal pur autorevole francescano. E, d'altra parte, se
appare largamente credibile che Gino Colombo e Massimo De Carolis
fossero stati "politicamente inventati" dallo stesso sacerdote, è anche
vero che li abbiamo visti duramente impegnati l'uno contro l'altro, il che
fa capire che il controllo dell'intraprendente frate fosse venuto meno su
almeno uno dei sue.
Dunque, è possibile che qualcuna delle valutazioni qui riportate risenta
di una enfasi eccessiva, ma è fuori discussione che Padre Zucca fosse un
personaggio molto influente e dotato di contatti di altissimo livello,
come dimostra -ad esempio- la vicenda della Fondazione Balzan, che lo
vede trattare disinvoltamente con i capi di Stato di Italia e
Confederazione Elvetica.
E' noto che la chiesta di Sant'Angelo, in via Moscova, era il punto di
riferimento dell'alta borghesia milanese sulla quale padre Zucca
esercitava un notevole ascendente. E, infatti, da Ambrosio a Cabassi, i
finanzieri in contatto con il frate erano assai numerosi. Inoltre, egli era
abbastanza potente anche negli ambienti ecclesiastici, anche ben al di là
del suo Ordine e della sua Diocesi.
Probabilmente, tale vasta e riconosciuta influenza era dovuta anche ad
innegabili doti personali: qualche testimone (come la Meneghelli) ne
parla come di "un trafficone" ed il giudizio, come si vedrà, non appare
infondato, ma è ragionevole supporre che, quel che a taluni appare come
trafficoneria, ad altri può sembrare capacità organizzativa, dinamismo,
intraprendenza. E non c' è dubbio che il francescano fosse molto
intraprendente. Così come è evidente che l'estesissima rete di contatti
fosse, in qualche modo, il prodotto di sè stessa: per un abile public
relations man -quale era in sommo grado lo Zucca- ogni contatto è la
premessa per un successivo legame e il loro insieme costituisce l'ottimo
biglietto da visita per avviarne uno ulteriore.
Sotto questo aspetto, la vicenda del religioso milanese costituisce un
esempio da manuale di sociologia delle relazioni.
Essa appare tanto più significativca e sorprendente se messa in
relazione alla difficile situazione nella quale il frate minore deve essersi
trovato nel 1946, all'indomani della vicenda del trafugamento della
salma di Mussolini, che lo aveva portato a San Vittore. Fra i documenti
reperiti in questa occasione, ve ne è uno che descrive con blanda
benevolenza tale suo coinvolgimento, la lettera del Prefetto di Milano del
29 novembre 1946:
<< Lo Zucca, sul cui conto non esistevano, fino alla conclusione
delle indagini che portarono all’arresto dei trafugatori della salma di
Mussolini, durante la sedicente Repubblica sociale non esercitò, a
quanto risulta, alcuna attività a favore dei nazi-fascisti, ma aiutò
invece le forze della resistenza, offrendo rifugio ed aiuto ad alcuni
patrioti in pericolo.
Durante il periodo insurrezionale il predetto, apparentemente,
mosso da sentimenti di carità cristiana, avrebbe offerto asilo ad
elementi fascisti particolarmente compromessi ed inseguito,
quantunque fosse cessato ogni pericolo per i suoi protetti, continuò a
permettere nel convento di S.Angelo convegni di neo-fascisti che,
pertanto, furono visti frequentare assiduamente il convento
stesso.>> ( Lettera del Prefetto di Milano alla Div. S.I.S. - sez. 1°
C.P.C. del 29 novembre 1946, n°036176/PS. All. 24)
In realtà, durante la Rsi, l'effervescente francescano fu ascoltato
consigliere di diversi importanti gerarchi, quanto poi al suo ruolo nelle
vicende del clandestinismo fascista dell'immediato dopoguerra, diversi
documenti già trovati e commentati (si veda in particolare l'All. 253 della
rel. 12 e gli All. 301-302 e 544 della rel. 14).
Sia il suo ruolo nel periodo della Rsi che quello successivo, nelle
vicende del clandestinismo fascista, lasciano intendere rapporti del
religioso con i servizi della Rsi, forse non una appartenenza piena e
diretta, ma sicuramente contiguità e collaborazione.
A proposito della sua detenzione a San Vittore, la nota 8 maggio 1979,
riferisce che condivise la cella con Adalberto Titta, conosciuto in quella
occasione, mentre un testimone (Ristuccia) sostiene che si trattava di
celle confinanti. Gli accertamenti del Ros non sono approdati a nulla di
risolutivo, non avendo reperito alcun documento che dimostrasse che i
due fossero stati reclusi nella stessa cella, forse anche a causa della
distruzione di una parte dei registri relativi al transito dei detenuti. La
questione non appare determinante, perchè non è affatto necessario che i
due abbiano condiviso la stessa cella per conoscersi a San Vittore,
sarebbe stato sufficiente che fossero rinchiusi nello stesso braccio. D'altra
parte, stante la quasi perfetta coincidenza temporale del periodo di
detenzione dei due e l'accertato passaggio di entrambi da San Vittore,
appare abbastanza probabile che ciò possa essere accaduto, considerata
anche la comune natura politica dei reati loro ascritti e l'uso delle nostre
carceri di raggruppare i detenuti per aree omogenee. E pertanto, la
deposizione di Ristuccia -che riferisce di aver appreso il particolare dallo
stesso Titta- appare come un riscontro sufficiente al documento dell'8
luglio 1979.
In ogni caso,questo, pur confermando gli antichi rapporti fra padre
Zucca e Adalberto Titta, non risolve il problema della appartenenza o
meno del religioso al Noto Servizio.
In verità, nessuno dei documenti sin qui emersi, parla del frate come di
un membro del servizio, pur segnalando la sua appartenenza al
medesimo giro di persone. Il testimone Ristuccia tende a escludere
l'appartenenza di Zucca al Noto Servizio (tanto si ricava dalla
trascrizione della conversazione telefonica n. 964 intercettata il giorno 21
settembre 2001 -p. 9 della scheda relativa a padre Zucca del citato
rapporto del Ros), ma dobbiamo anche dire che, in più di una occasione,
Ristuccia dà l'impressione di essere reticente o di minimizzare
volutamente alcuni aspetti delle vicende riferite.
Il punto non è risolto, anche perchè poco sappiamo dei livelli di
formalizzazione del Noto servizio, se vi fosse un elenco preciso di
appartenenti o si trattasse di una struttura relativamente fluida, se
l'adesione fosse sanzionata in qualche modo, se e quali obblighi
disciplinari comportasse, che tipo di struttura gerarchica vi fosse ecc.,
pertanto, non possiamo neanche sapere chi fossero gli appartenenti ad
esso, salvo per quelli esplicitamente indicati come tali o dai documenti o
dalle informazioni rese dai testimoni. Dunque, nel caso di padre Zucca
dobbiamo resistrare questa assenza di indicazioni dirette. Tuttavia, non
mancano molti indizi che vanno in questo senso:
a- padre Zucca e diversi altri frati dell'Angelicum (come padre Eligio
Gelmini) risultano nell'agenda di Titta
b- lo stesso religioso appare centrale nella rete di rapporti del servizio
stesso: è in contatto diretto con diversi suoi membri o sospetti tali, da
Titta a Ponzi, da Pisanò a Conti, da Battaini a Giancaterina e spesso è
proprio lui a presentare l'uno all'altro
c- in molte operazioni direttamente o indirettamente ascrivibili al Noto
servizio o ai suoi uomini, la presenza dell'instancabile frate è sistematica
(e svilupperemo meglio il punto fra poco, a proposito di alcune di tali
azioni)
d- è sempre egli ad apparire come elemento di raccordo fra l'ambiente
ruotante intorno al Noto Servizio ed gli esponenti politici nazionali di
maggior rilievo come Andreotti o Forlani.
Forse l'irrequieto frate non faceva parte formalmente del Noto Servizio,
ma sicuramente non ne ignorava nè l'esistenza, nè l'operato di cui spesso
appare come l'ispiratore, se non il dirigente occulto. D'altra parte,
abbiamo visto che anche per i servizi della Rsi non esiste una prova di
una sua organica appartenenza, ma molti elementi conclusivi che
dimostrano una stabile collaborazione. Probabilmente il punto sarà
chiarito meglio dall'illustrazione di alcune vicende particolari.
A proposito di Padre Zucca ci sembrano di interesse anche alcuni
documenti riguardanti l'annosa vicenda della Fondazione Balzan e del
relativo processo:
<< Nei giorni scorsi presso il Convento dei frati di piazza S. Angelo
sono avvenuti ripetuti incontri tra alcuni rappresentanti del
presidente Andreotti e il padre Enrico Zucca.
Tema: le sistemazioni di tutte le pendenze della Fondazione Balzan.
Le trattative sembrano a un buon punto. Intanto il Giornale di
Montanelli ha iniziato la pubblicazione di articoli a favore della
Fondazione Balzan e di padre Zucca. Somma richiesta e ottenuta per
tali articoli : 300 milioni di lire.>> (Nota del 15 febbraio 1977- All. 25-
)
<<Il padre Enrico Zucca e l’avv. Mazzolini hanno tenuto, nei giorni
scorsi, una serie di riunioni con esponenti del mondo politico e
giornalistico per promuovere una violenta azione contro il Governo,
in merito ai fondi del “Premio Balzan” e relativa Fondazione.
I due sostengono che con sentenza passata in giudicata lo scorso
anno, il consigliere istruttore dott. Amati li aveva assolti con
formula piena e aveva ordinato la restituzione dei beni della
Fondazione. Il Governo invece fa orecchie da mercante. La somma
richiesta è di 40 miliardi di lire, inoltre pare che il sequestratario
nominato a suo tempo dal Governo, l’avv. Majno, abbia fatto
scomparire circa 30 miliardi.
All’iniziativa ha aderito, come già detto, Montanelli. Pare che
abbiano anche aderito giornali di Roma e di Bologna.>> (Nota 22
febbraio 1977 - All. 25-).
8)Il caso Montedison e gli uomini del Noto Servizio.
Come si sa, la nazionalizzazione dell'energia elettrica costituì una delle
richieste pregiudiziali del Psi per avviare l'alleanza di centro sinistra.
Ovviamente, questo trovava la più fiera opposizione delle cinque società
private che gestivano il settore (la Sade, la Edison, la Sip, la Generale e la
Sme) e che costituirono la principale lobby anti-centrosinistra.
Le società elettriche emettevano titoli azionari che erano di gran lunga i
preferiti dai piccoli risparmiatori e se ne comprende facilmente il motivo:
agendo in regime di monopolio nelle rispettive aree territoriali, ed
operando in un settore in espansione, esse non conoscevano incertezze
di mercato, potendo godere di una clientela flessibile solo al rialzo.
Dunque, esse potevano distribuire dividendi cospicui e sicuri: di fatto, il
titolo elettrico univa gli alti rendimenti tipici dei titoli di borsa, alle
sicurezze caratteristiche del titolo obbligazionario.
Tutto questo dava alle società elettriche una immagine di particolare
solidità, comprensibilmente apprezzata dai piccoli risparmiatori che,
come si sa, preferiscono l'impegno stabile e garantito, al gioco in borsa.
Dunque, l'investimento nei titoli elettrici rappresentò il punto di
convergenza di centinaia di migliaia di commercianti, impiegati di
livello medio e medio alto, professionisti, piccoli imprenditori, in
definitiva, di buona parte dei ceti medi che vennero sensibilizzati contro
l'apertura a sinistra: gran parte del rilevante successo elettorale del Pli,
nel 1963, fu dovuto alla confluenza dei piccoli azionisti delle società
elettriche, spaventati per quella nazionalizzazione che metteva a rischio
quella rendita consistente e sicura.
Occorre considerare che quella rendita non aveva solo un valore
economico, ma -per molti- anche simbolico: come osservano Eugenio
Scalfari e Giuseppe Turani, il titolo Edison rappresentò per anni una
fonte di prestigio per migliaia di "ragiunatt " milanesi, il segno tangibile
di una avvenuta promozione sociale.
I titoli elettrici avevano funzionato da redistributori sociali della
ricchezza, per cui, una parte del ceto medio veniva associata (pur se in
misura ben limitata) alla divisione della ricchezza prodotta negli anni del
boom economico e, pertanto, resa in qualche modo solidare agli interessi
della grande borghesia industriale e finanziaria.
Quando la nazionalizzazione avvenne, si decise di versare gli
indennizzi non direttamente ai singoli azionisti, ma alle vecchie società,
calcolando che esse avrebbero investito quella grande massa di denaro
in altri settori industriali quali quello chimico, il tessile, l'alimentare, cosa
che effettivamente avvenne, anche se in misura più ridotta e con esiti
molto inferiori alle aspettative.
La Sade, quasi immediatamente, utilizzò il denaro dell'indennizzo
statale per fondersi con la Montecatini -diretta da Carlo Faina- che, pur
disponendo di una consolidata tradizione industriale nel settore chimico
e di un importante portafoglio di brevetti industriali, si trovava in un
momento di grande bisogno di liquidità. La fusione, peraltro, non risolse
che in misura limitata i problemi della Montecatini che, nel 1966,
approdò ad un'ulteriore fusione con un'altra delle società del vecchio
cartello degli elettrici, la Edison diretta da Giorgio Valerio. La società che
ne derivò, la Montedison, divenne la prima società per azioni del paese
con un capitale sociale pari a 709 miliardi ed un fatturato di circa 1.200
miliardi del tempo (rispettivamente da rivalutare a 7 e 12 miliardi di
Euro).
Gli oltre 200.000 azionisti della Edison e i 200.000 della Montecatini,
facevano della nuova società quella con il maggior numero di azionisti,
ma anche quella con il capitale sociale più polverizzato, ciò che
consentiva al pacchetto dei grandi azionisti (il patto di sindacato che
riuniva Mediobanca-Fidia, Fiat-Ifi-Sai, Pirelli, Italpi, Iri, Bastogi e
Sviluppo) di governare possedendo il 13,11% del capitale speciale
Montedison.
Per la sua particolare composizione, che vedeva rappresentati nel
sindacato tutti i principali gruppi del capitale finanziario privato (con la
partecipazione significativa del maggior ente a Ppss), la Montedison
assumeva anche un'altra funzione: quella di camera di compensazione
del sistema economico o, se si preferisce l'espressione giornalistica del
tempo, di "salotto buono della borghesia italiana".
Anche questa seconda fusione non dette i frutti sperati: rivalità fra gli
uomini della Edison e quelli della Montecatini impedirono una vera
fusione delle due strutture operative, la diarchia al vertice fra Faina e
Valerio (risoltasi, alla fine, a favore del secondo) compromise l'immagine
stessa del gruppo sin dal suo sorgere, consistenti errori di politica
industriale falcidiarono gli utili e moltiplicarono le perdite. Per cui, nel
1968 il gruppo appariva in serie difficoltà e, dell'originaria dote degli
indennizzi per la nazionalizzazione, era rimasto ben poco; pertanto, si
rendeva necessaria una iniezione di capitale fresco per sostenere il titolo
in borsa e, possibilmente avviarne la ripresa.
Pertanto, il governo e la Banca d'Italia, chiesero all'Eni, il secondo ente
di capitale pubblico, di intervenire. L'Eni, (di cui erano presidente
Egenio Cefis e vice presidente Raffaele Girotti, suo antico sodale)
attraversava un momento di buona disponibilità e, per di più, dopo gli
"anni eroici" di Mattei, era andata via via "normalizzando" le proprie
relazioni con le maggiori compagnie petrolifere internazionali e,
parallelamente, subendo un processo di "finanziarizzazione" crescente.
In secondo luogo, occorre considerare che la Montedison aveva una
spiccata vocazione per la chimica che la portava, soprattutto sul terreno
della raffinazione petrolifera e della chimica fine, a rappresentare il
maggior concorrente interno dell'Eni.
In molte occasioni, la concorrenza fra i due gruppi si era concretizzata
in un pesante gioco di lobbing verso il Parlamento e le forze politiche, il
più delle volte con esiti sfavorevoli all'Eni che, dipendendo dal capitale
pubblico, aveva bisogno di una azione positiva del Parlamento, mentre a
Valerio bastava l'inerzia del legislatore, quel che è più facile e,
soprattutto, meno costoso da ottenere.
Pertanto, l'invito ad intervenire per acquistare un pacchetto di azioni
Montedison, giunse più che gradito ad Eugenio Cefis che, in questo
modo, aveva tanto la possibilità di accentuare ulteriormente la vocazione
finanziaria del gruppo, quanto avvedere alla "camera di compensazione"
del grande capitale italiano e, meglio ancora, mettere piede in casa del
suo maggiore concorrente interno. Ma, soprattutto, l'occasione si
presentò propizia per iniziare a progettare -ovviamente in gran segreto-
la "scalata" del gruppo.
In effetti, ultimata l'operazione di sostegno al titolo Montedison in
borsa, Cefis riuscì ad imporre l'ingresso del suo ente nel sindacato della
società.
Il piano di Cefis, sostanzialmente, era il seguente:
- aumentare la quota Eni sino a conquistare una posizione dominante nel
sindacato
- obbligare l'Iri ad allinearsi alla propria posizione, tramite le adeguate
pressioni politiche sul Ministero delle Ppss
- logorare il presidente Valerio (sia attraverso gli uomini piazzati
all'interno della società, a cominciare da Raffaele Girotti, sia facendogli il
vuoto intorno nel sindacato) in modo da indurlo alle dimissioni
- quindi, giungere ad una "presidenza di transizione" che spianasse la
strada alla sua candidatura alla presidenza
- imporre Girotti come suo successore, in modo da poter continuare a
controllare l'Eni per il suo tramite.
Tutto questo avrebbe consentito a Cefis di eliminare la concorrenza nel
settore chimico fra Eni e Montedison, che sarebbero divenute, nei fatti un
unico blocco dominante nel settore, ma, soprattutto, la manovra avrebbe
posto Cefis a capo della maggiore concentrazione finanziaria del paese
che, per di più, poteva giovarsi dell'afflusso di capitale pubblico
attraverso l'aumento di dotazione che periodicamente l'eni riusciva ad
ottenere in ragione del suo peso politico. In una parola, Cefis sarebbe
divenuto di gran lunga l'uomo più potente del sistema economico
italiano e, di riflesso, uno dei più potenti del sistema politico, dove già
poteva contare sulla alleanza di esponenti di primissimo piano come il
senatore Fanfani che, proprio in quei mesi, lo stesso Cefis stava cercando
di portare al Quirinale.
Nel frattempo, le incertezze del titolo mettevano a repentaglio il
dividendo annuale, cosa gravissima per le centinaia di migliaia di piccoli
azionisti che videro, in tutto questo, una conferma delle più funeste
previsioni seguite alla nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Conseguentemente, quello che, sino ad allora, era stato un
tranquillissimo "parco buoi" (secondo la garbata espressione degli
operatori di borsa), iniziò ad entrare in una fase di intensa agitazione.
Sino a quel punto, erano esistite tre sole associazioni di risparmiatori e
piccoli azionisti (l' Associazione Nazionale Risparmiatori e Azionisti di
Gino Racchini di Belvedere, la Associazione Piemontese Risparmiatori
dell'on. Giuseppe Alpino e la Adicor di Luigi Madia) che, sino a quel
punto, avevano contato ben poco. Con il sopraggiungere della crisi della
Montedison, si assistette ad una proliferazione improvvisa e tumultuosa
di associazioni similari, che mostravano un atteggiamento assai meno
remissivo delle loro antenate, ricordiamo, fra gli altri, l'Oci di Luigi
Gaddi, il Gaim di Carlo Monzino, il gruppo di Ernesto Kustermann,
l'Associazione Difesa Azionisti di Gianvittorio Figari, il gruppo riunito
intorno alla rivista "Quattrosoldi" diretta da Massimo De Carolis.
E proprio l'Ada è la più interessante ai fini della nostra ricerca, infatti,
dietro Gianvittorio Figari -un distinto signore che aveva già fatto parte
del Consiglio di Amministrazione della Edison- operavano altri due
personaggi meno noti e blasonati, ma assai più operativi: Fulvio Bellini e
Giorgio Pisanò che costituivano il vero gruppo dirigente
dell'associazione. Dopo poco, nel 1970, Pisanò sentì il bisogno di disfarsi
dell'ingombro di Figari e dette vita ad una sua associazione denominata
in un primo momento Adam, e, subito dipo, Udam (Unione Difesa
Azionisti Montedison) che divenne la più importante e numerosa, anche
grazie all'uso del settimanale "Il Candido".
Il fenomeno "piccoli azionisti" esplose in occasione della Assemblea
annuale degli azionisti svoltasi il 19 marzo 1969: un tempestoso
happening nel quale accadde di tutto fra il generale sbigottimento degli
uomini del sindacato pietrificati al tavolo della presidenza. Non si
trattava solo della riscossa dei piccoli azionisti che, pur detenendo oltre
l'85% del capitale sociale, non avevano contato letteralmente nulla sino
al quel punto, si trattava anche di un più esteso fenomeno politico: la
radicalizzazione a destra di consistenti strati dei ceti medi, in un
movimento di tipo poujadista. E il fenomeno diventerà apprezzabile
anche sul piano elettorale nelle regionali del 1970, quando gran parte di
quegli stessi azionisti che avevano decretato il successo del Pli sette anni
prima, si spostarono massicciamente verso il Msi.
In un primo momento, tutte le associazioni si schierarono con il
Presidente Valerio contro Cefis, in nome della difesa del capitale privato
dalle aggressioni di quello pubblico, e Pisanò condivise di buon grado
questo atteggiamento. Anzi, come era nel carattere del sanguigno
giornalista romagnolo, il tutto era condito anche con pesanti attacchi
personali a Cefis:
<< Non è in questa sede, comunque, che interessano i suoi trascorsi
di giovane ufficiale durante la seconda guerra mondiale e di capo
partigiano in Valdossola ( a proposito quand'è che renderà la sua
preziosa testimonianza su quanto accadde la tragica mattina del 12
ottobre 1944, al Sasso di Finero, e sulla lunga agonia di Alfredo Di
Dio?)>> (rip. in E. SCALFARI G. TURANI "Razza padrona " Feltrinelli,
Milano 1974 p. 207
dove non è difficile leggere in controluce il messaggio che l'ex agente dei
servizi speciali di Salò inviava all'ex capitano del Sim -sezione Calderini-
a proposito di uno degli episodi più scabrosi e meno chiari della
Resistenza. Infatti, Alfredo Di Dio, capo della formazione partigiana di
cui Cefis era il vice, agonizzò a lungo dopo essere stato ferito in una
retata nazi fascista, senza che il capitano Cefis, che pura era nei dintorni,
gli portasse aiuto. Il giovane ufficiale si giustificò più tardi adducendo
l'impossibilità ad operare in quel senso, ma altri manifestarono dubbi in
proposito, sostenendo che le ragioni di quell'atteggiamento erano da
ricercarsi, piuttosto nella sparizione di un cospicuo bottino di guerra (gli
stipendi di una divisione tedesca di cui i partigiani di Di Dio erano
riusciti ad impossessarsi). Vecchie storie di tempo di guerra, forse basate
sul nulla, ma che Pisanò riteneva di dover riesumare nel colmo della
battaglia per il dominio sulla Montedison.
Peraltro, già a partire dall'estate dello stesso anno, il gruppo di Pisanò
iniziò lentamente a mutare rotta: mentre iniziavano a coparire violenti
attacchi a Valerio, le consuete filippiche contro l'Eni andavano, via via,
diventando giaculatorie rituali e scontate, prive di ogni reale mordente.
Era accaduto che Cefis si era accorto di non poter ignorere il fenomeno
associativo del piccoli azionisti ed aveva adeguato il proprio piano alle
nuove condizioni del campo di battaglia. In particolare, il direttore delle
pubbliche relazioni dell'Eni, Franco Briatico, aveva "agganciato Pisanò e
gli aveva fornito i mezzi finanziari per sostenere il giornale ed avviare la
più massiccia raccolta di deleghe fra i piccoli azionisti. Figari e Bellini,
dopo la scissione operata da Pisanò, sostennero che il direttore del
"Candido" aveva ricevuto 125 milioni dall'Eni per saltare il fosso,
l'interessato oppose la più indignata delle smentite e la più ovvia delle
querele e Franco Briatico sostenne che la cifra era esagerata e che, al
massimo, si era trattato di 50 milioni (SCALFARI TURANI cit. pp. 208-9).
Un passo falso del presidente Valerio (una sua intervista sbagliata al
"Wall Street Journal ") accelerò i tempi portando, nell'aprile del 1970, alle
sue dimissioni ed all'elezione, quale nuovo presidente, del Sen. Cesare
Merzagora proposto da Cefis ed entuasiasticamente sostenuto da Pisanò,
il quale, peraltro, venne adeguatamente compensato: nella stessa
Assemblea annuale che acclamava il senatore Merzagora, venne eletto
un nuovo Consiglio di Amministrazione che, per la prima volta,
accoglieva nel suo seno due rappresentanti dei piccoli azionisti, uno dei
quali apparteneva all'associazione di Pisanò. Stando a quanto affermano
Scalfari e Turani (p. 218) questo risultato fu possibile anche perchè l'Eni
aveva preventivamente trasferito all'Udam di Pisanò un cospicuo
pacchetto azionario, in modo da farla diventare l'associazione di
maggior peso.
Qualche tempo dopo, anche De Carolis ricevve il suo premio entrando
nel collegio dei sindaci revisori della società.
Merzagora, in verità, era stato scelto esplicitamente come "presidente
di transizione" verso più stabili assetti societari, e la sua permanenza a
Foro Buonaparte difficilmente avrebbe superato un primo mandato,
ciononostante, egli intendeva lasciare un segno del suo passaggio.
L'occasione si presentò l'11 maggio 1970, quando Valerio, passando le
consegne al suo successore, gli trasmise anche il pacchetto della
"contabilità nera": circa 17 miliardi fra conti correnti e libretti, dai quali
erano tratte le tangenti per gli uomini politici. Il sen. Merzagora ne fu
indignato e sorpreso (e la sorpresa ci sorprende) e decise di investire
della questione l'Esecutivo del Consiglio di Amministrazione i cui
componenti, distinti uomini di mondo, ne furono ancora più sorpresi e
imbarazzati, essendo vissuti, sino a quel giorno, in una spensierata
ignoranza che tale avrebbe voluto restare.
Le rivelazioni del neo presidente determinavano la "perdita
dell'innocenza" degli organi societari, cosicchè quella disinvolta prassi di
pubbliche relazioni iniziava ad esser risaputa -e ufficialmente- da troppe
persone. Come si sa, un segreto è tale se conosciuto da due persone,
diventa un mezzo segreto se le persone son tre ed una cosa riservata se
esse diventano quattro, ma, da quattro in su,il suo passaggio al
Telegiornale è solo questione di tempo.
Il sen. Cesare Merzagora si aspettava che la sua coraggiosa denuncia
all'Esecutivo fosse assunta come il segno tangibile del suo passaggio:
una svolta moralizzatrice, primo passo per il risanamento nella
trasparenza.
Ma il segno lasciato in così breve tempo, non produsse particolari
ondate di entusiasmo nella società, quanto, semmai, una gelida
irritazione a stento dissimulata e qualche ringhio trattenuto. Constatato
ciò, nel dicembre del 1970, egli decise di anticipare la fine del suo
mandato (peraltro già previsto come transitorio verso più stabili assetti
societari) e scrisse una lettera ai consiglieri di amministrazione, nella
quale -dopo aver detto del suo malessere facendo cenno alla vicenda dei
"fondi neri"- annunciava le sue dimissioni. La lettera veniva pubblicata
dal "Corriere della Sera" pochi giorni dopo, provocando il vespaio di
polemiche che è facile immaginare (ne sortì anche una Commissione
Parlamentare di inchiesta): un chiasso che finì per varcare anche la soglia
del Palazzo di Giustizia.
E, infatti, nel volgere di qualche mese, la questione approdò ad un
fascicolo della Procura della Repubblica dando il via ad una delle più
lunghe e complesse indagini giudiziarie dell'Italia repubblicana.
L'occasione fu data dalla scoperta occasionale di una truffa su forniture
militari operate da una società presieduta da tale Aldo Scialotti (che
abbiamo già incontrato in occasione della rel. 43). Si trattava di 1.200
stazioni ricetrasmittenti per carri armati che, vendute per nuove, erano
invece residui della guerra di Corea rattoppati alla meglio.
Scialotti riparò in Brasile, ma l'inchiesta appurò i suoi rapporti con il
vecchio presidente della Edison, Valerio e, soprattutto, che le sue società
facevano parte della rete delle false società di Valerio per occultare la sua
contabilità nera. Emerse una valanga di conti coperti intestati ai diversi
uomini politici: l'uomo di Valerio per le "pubbliche relazioni",
Giampietro Cavalli -di cui abbiamo già trovato cenno a proposito dei
suoi stretti rapporti con l'on. Carenini- aveva dispensato denaro a tutti i
partiti del centrodestra ed è interessante scorrere l'elenco delle varie
operazioni:
- "Assolombarda - versamento a Malagodi per elezioni siciliane" (Pli)
- "Avanzo elezioni siciliane"
- "A Confindustria per onorevole Michelini" (Msi)
- "Estate 1960 - Operazione Ippocampo"
- "Sconto effetti a favore della Democrazia Cristiana, contatti con on.
Pucci e on. Micheli"
- "Anticipazioni alla Dc... contatti con on. Carenini"
Interessanti anche l'elenco delle intestazioni dei "libretti neri" della
Montedison: quello per Malagodi si chiamava "Fagiano" e poi "Ostrica",
"Trota", "Dalia", "Filiberto", "Floreale" ecc. , ce ne è anche uno che si
chiama "Zucca" e che attrae la nostra curiosità.
Tornando alle vicende della Montedison, il grande gesto del senatore
Merzagora si risolse -al di là delle sue intenzioni- in un ulteriore impulso
alla scalata di Cefis, che, però, non era ancora pronto per il passaggio.
Infatti, come abbiamo detto, un punto essenziale della sua strategia era
la nomina di Girotti alla presidenza dell'Eni. Ma, il 23 novembre 1970,
durante un incontro fra i partiti della maggioranza di governo, il
segretario del Psi Mancini aveva posto il veto su questa soluzione,
rivendicando quel posto per il proprio partito. La mossa del leader
socialista non giungeva assolutamente inattesa, anzi da molte settimane
era noto il suo orientamento in materia, ma questa formalizzazione
rischiava di bloccare l'intera operazione. Occorreva, dunque, rimuovere
preventivamente questo ostacolo per poter condurre a buon fine la
scalata alla Montedison.
In questo contesto prendeva corpo la campagna del "Candido" contro
Mancini sulle malversazioni all'Anas di cui diremo fra breve.
Pisanò, dal canto suo, dovette fare i conti con un incidente di percorso:
il 23 febbraio 1971 veniva tratto in arresto a seguito di una denuncia per
estorsione presentata dal produttore cinematografico Dino De Laurentis.
Pisanò si difese dicendo che si trattava di una ritorsione calunniosa
dietro la quale c'era Mancini; comunque, la sua detenzione durò poche
settimane, superate le quali, potette riprendere con rinnovato vigore la
sua campagna contro Mancini, non fece, però, in tempo a partecipare
all'Assemblea annuale della Montedison che, d'altra parte, fu assai
tranquilla dato che la protesta delle associazioni dei piccoli azionisti era
ormai rientrata.
Il 22 aprile 1971, Cefis veniva eletto presidente della Montedison e,
pochi giorni dopo, Girotti veniva nominato presidente dell'Eni: la sua
linea aveva totalmente trionfato sulle resistenze manciniane. Ma, proprio
quando la scalata era definitivamente andata in porto e l'intero progetto
era stato coronato da successo, le cose iniziarono ad andare in modo assi
diverso del previsto.
In primo luogo, Girotti, contro ogni aspettativa, iniziò a chiedere che il
Presidente fosse poco più che il portavoce del sindacato (nel quale l'Eni
era magna pars ), mentre Cefis immaginava il pacchetto Eni come una sua
personale dotazione e, dunque, il sindacato come una sua appendice.
Il conflitto, prima sordo e dissimulato, ebbe una prima manifestazione
nel colpo di mano che, nel gennaio del 1972, portava ad una fulminea
scalata della Snia Viscosa da parte della Montedison. Si pose in modo
assai più vivace qualche mese dopo, quando Cefis tentò la stessa mossa
nella Bastogi ma, questa volta, trovando l'opposizione più dura dell'Eni e
dei suoi alleati.
Dunque, tutta la strategia tendente ad eliminare la concorrenza fra Eni
e Montedison sul terreno della chimica, ed a varare un unico blocco
finanziario pubblico-privato, naufragava rapidamente.
In questo imprevisto esito ebbero certamente peso considerazioni di
ordine personale (Girotti era probabilmente stanco del ruolo di eterno
secondo e cercava una sua affermazione personale), ma è realistico
supporre che esse siano state la componente meno rilevante. Più
determinanti appaiono altri ordini di motivi.
Innanzitutto, la concorrenza fra Eni e Montedison era nei fatti: sia sul
terreno della chimica fine che sulla raffinazione e distribuzione dei
prodotti petroliferi, immaginare una spartizione perfettamente
equilibrata era poco più che una esercitazione teorica.
In secondo luogo, al di là della volontà dei rispettivi presidenti, sia
l'una che l'altra società avevano propri apparati e consigli di
amministrazione che resistevano all'idea di una perdita della propria
autonomia e traevano alimento proprio dalla riproposizione dei motivi
di concorrenza fra i due enti.
In terzo luogo, Cefis aveva spalle sufficientemente larghe per potersi
permettere di scegliere i propri referenti politici, Girotti assai meno, e,
d'altra parte, se a Cefis bastava avere l'accordo nel sindacato per
governare la Montedison, Girotti non poteva dimenticare che il suo
mandato dipendeva dalla volontà delle forze politiche di governo fra le
quali contava già convinti nemici fra i socialisti che avevano visto
frustrate le proprie aspirazioni. Per cui Girotti cercò propri referenti
politici trovandoli in Forlani ed, occasionalmente, in Andreotti che
strumentalmente appoggiava le ragioni dell'ente pubblico per poter
combattere Cefis.
Contemporaneamente, nel settore della chimica -ed in particolare della
raffinazione- sorgeva un nuovo concorrente: la Società Italiana Resine
(Sir) di Nin,o Rovelli che poteva subito contare sull'amicizia e l'appoggio
di politici di prima grandezza come Andreotti, Mancini e Leone, in una
parola, nello schieramento più ostile a Cefis.
Non è qui il caso di seguire ulteriormente le vicende della Montedison
che ci interessano solo nella misura in cui si evidenzi un rapporto fra
esse e gli uomini dell'ambiente del Noto Servizio.
E' invece utile passare all'esame di un'altra vicenda che si è intrecciata
con quella della Montedison e che registra anche essa la presenza di
uomini legati all'Anello.
9) Scandalo Anas ed intercettazioni telefoniche.
Il 12 novembre 1970, Pisanò pubblicava sul "Candido" un articolo
contro il segretario del Psi Mancini, accusandolo genericamente di illeciti
arricchimenti. Nella settimana successiva, il giornale tornava
sull'argomento pubblicando anche il testo di un esposto-denuncia alla
Procura della Repubblica di Roma nel quale si accusava il noto uomo
politico calabrese di malversazioni operate nel periodo in cui era stato
ministro dei Lavori Pubblici. Iniziava, in questo modo, una violenta
campagna che il giornale condurrà contro i leader socialista per quasi
due anni, sino al XXIX congresso del Psi che ne sancirà la sconfitta della
quale Pisanò potrà ben vantarsi, essendo stato uno dei suoi principali
artefici.
Al momento, alcuni -come il direttore dell' "Espresso" Scalfari-
avanzarono l'ipotesi che la campagna contro Mancini fosse stata
commissionata da Cefis come ritorsione per quanto accaduto a proposito
della vicenda Eni-Montedison, ma, in realtà, di motivi ispiratori ve ne
potevano essere anche altri:
a- il leader socialista calabrese era stato determinante, nella primavera
del 1969, nel rompere la maggioranza con i socialdemocratici e favorire
una nuova maggioranza con le componenti di sinistra del partito (De
Martino, Giolitti, Lombardi), a seguito della quale, si determinava la
nuova scissione socialdemocratica del 4 luglio di quell'anno.
b- lo stesso Mancini si era fatto portatore di una linea, definita degli
"equilibri più avanzati" che postulava la formazione di un governo a due
Dc-Psi che, ovviamente, avrebbe goduto di una opposizione assai
benevola del Pci, primo passo verso una piena associazione di quel
partito alla maggioranza.
c- il segretario del Psi aveva mostrato un atteggiamento molto aperto
verso l'estrema sinistra -e verso Lotta Continua in particolare-, spesso
scavalcando,in questo, lo stesso Pci
d- altrettanta apertura aveva dimostrato verso la campagna a favore
del divorzio condotta dai radicali (primo firmatario della legge in
questione era il socialista Fortuna) facendo del Psi la punta di diamante
dello schieramento laico
D'altra parte, tanto dinamismo politico si accoppiava ad una gestione
assai spregiudicata delle posizioni istituzionali conquistate, non
disdegnando di ricorrere a forme sistematiche di clientelismo, per cui il
partito, uscito ridimensionato dalla scissione socialdemocratica,
mostrava una elevata potenzialità espansiva sia sul fianco sinistro che su
quello destro.
Tutto questo, come è facile immaginare, faceva del Psi di Mancini
l'elemento più dinamico per una svolta a sinistra e, dunque, il nemico
più pericoloso da battere. Ottenere la caduta della segreteria Mancini
significava, quantomeno, ricondurre il Psi ad una prassi più tranquilla
ridimensionandone il protagonismo e smorzandone le ambizioni. Tutto
questo non esclude affatto la prima ragione (l'eventuale intervento di
Cefis) ma vi si somma armonizzandosi perfettamente.
La campagna di Pisanò riceveva un forte impulso nell'aprile-maggio
del 1971, quando un certo sign. Pontedera si rivolse alla Guardia di
finanza, per denunciare le malversazioni nella attribuzione delle aste e
gare d'appalto operate dal direttore dell'Anas ingegner Chiatante. L'ente
dipendeva dal Ministero dei Llpp e gli episodi dununciati
appartenevano al periodo in cui Mancini ne era ministro.
Per la verità, il signor Pontedera non si recò personalmente a sporgere
la denuncia: Pontedera era solo la firma di una lettera che accompagnava
un primo blocco di nastri registrati dai quali si deduceva quanto
accadeva nella stanza dell'Ingegner Chiatante. Fu subito chiaro che si
trattava di intercettazioni operate illegalmente (più tardi si coprirà che
essere erano state fatte nascondendo una "cimice" nella scrivania
dell'ingegnere e nascondendola con un tassello di legno perfettamente
incastrato e dello stesso colore del mobile: una tecnica che, per il tempo,
presupponeva un elevato livello di professionalità), ma tanto bastò alla
GdF per avviare una indagine i cui esiti finirono, man mano sul tavolo
del direttore del "Candido" ad alimentare la campagna contro Mancini
accusato di stare dietro le spalle di Chiatante.
La durissima campagna del "Candido" determinava l'ovvia reazione
legale dell'esonente socialista, ma, soprattutto, la sua reazione politica:
Mancini sollevò la questione del come fossero state fatte le
intercettazioni sostenendo che, in realtà, il signor Pontedera non esisteva
affatto, ma era solo un modo per mascherare le intercettazioni abusive
condotte dagli apparati di sicurezza (Sid, Uaarr, ufficio I della GdF, ecc.).
In appoggio alla denuncia del segretario del Psi intervennero subito l'
"Avanti" (organo dello stesso partito) e l' "Espresso", settimanale di
orientamento radical-socialista, in quel momento simpatizzante della
linea degli "equilibri più avanzati".
Il 20 febbraio 1972, l' "Espresso" pubblicava un articolo nel quale
dununciava il crescente fenomeno delle intercettazioni abusive (condotte
non solo dai vari apparati di sicurezza in concorrenza fra loro, ma anche
da agenzie di privati), sostenendo che di esso si erano scoperti vittime il
direttore generale dell'Iri Leopoldo Medugno, il presidente della
Montedison Eugenio Cefis, il presidente dell'Iri Giuseppe Petrilli, il
presidente dell'Eni Raffaele Girotti e persino il Preocuratore Generale di
Roma Carmelo Spagnuolo, corredando il tutto con le dichiarazioni di
Francesco Greco, il tecnico che aveva effettuato gli interventi di bonifica
in molti di questi casi. Ovviamente, questo determinava l'apertura di un
fascicolo processuale da parte della Procura romana, affidato al dott.
Luciano Infelisi.
Il caso subiva, pertanto una prima biforcazione: da un lato il caso Anas,
dall'altro quello delle intercettazioni telefoniche che si imperniava su
due distinti procedimenti, quello citato del dott. Infelisi e quello seguito
alla querela per calunnia a mezzo stampa presentata dal Comandante
Generale della Guardia di Finanza contro l' "Espresso" e l' "Avanti!".
Dopo parecchi mesi, un tal Nicola Di Pietrantonio, rivelava che l'ing.
Pontedera esisteva veramente, ma, in realtà, si chiamava Giorgio Fabbri
ed era un avvocato sanmarinesa di scarso successo. Fabbri, per qualche
tempo, aveva gestito un albergo peraltro economicamente assai
dissestato, per cui i dipendenti, regolarmente non pagati, erano
graduialmente via. Era rimasto sul posto -nella speranza di recuperare i
crediti di lavoro maturati- il solo barista, Di Pietrantonio, che diventava
in breve il confidente del suo principale, dal quale apprendeva di un suo
credito per quasi 400 milioni nei confronti dell'ingegner Chiatante che,
però, non voleva saperne di saldare il conto. Dato che la natura di tale
credito non era perfettamente legale, nasceva l'idea di documentare le
attività illegali di Chiatante -di cui Fabbri era perfettamente a
conoscenza per la sua prededente frequentazione dell'ufficio- per poterlo
ricattare: di qui le intercettazioni. Chiatante, però, non aveva ceduto al
ricatto, sicuro del fatto che Fabbri avrebbe avuto da perdere, dovendo
ammettere la sua partecipazione a diversi episodi illeciti, pertanto al
fabbri non restava che mandare ad esecuzione la minaccia. L'idea di
ricorrere ad un apocrifo e di rivolgersi alla GdF era stata del Di
Pietrantonio, sempre nella speranza che potesse venirne qualcosa anche
per lui. Ma le speranze del barista erano destinate a restare deluse ed il
suo credito (pari a 12 milioni del tempo) resterà inevaso, quel che, a sua
volta, aveva provocato la sua decisione di denunciare Fabbri in una
intervista al "Messaggero", pur consapevole dei rischi penali che ne
derivavano ("... il carcere lo conosco, ci sono già stato e mi fa meno paura
che a lui").
Contemporaneamente,l'inchiesta del dott. Infelisi giungeva ad un
risultato, identificando un primo imputato -per le intercettazioni
abusive- in Marcello Micozzi, un tecnico della Sip-Teti, il quale, per
difendersi, tirerà in causa un suo complice, il tecnico elettronico Bruno
Mattioli, che a sua volta, aveva lavorato per l'investigatore Tom Ponzi e,
in altri momenti, per l'ex commissario della squadra mobile milanese
Walter Beneforti, al momento titolare di una agenzia investigativa in
società con Carlo Rocchi (torneremo sul punto nella rel. 41). Micozzi,
nella sua deposizione, calcava decisamente la mano su Tom Ponzi che
finiva nell'inchiesta (fra l'altro, verrà disposto per rogatoria il sequestro
del suo archivio-deposito di Lugano).
Il noto investigatore, per difendersi, tirava pesantemente in ballo il
commissario Beneforti ed il Questore di Como Mario Nardone (già
leggendario commissario capo della Criminalpol ambrosiana) ed un loro
anonimo collaboratore, forse ficuciario dello Uaarr, tale avvocato Giorgio
Fabbri, nome che, sul momento, non suscitò alcun interesse negli
inquirenti ma che, evidentemente, aveva il valore di un segnale a
qualcuno.
Fabbri, interrogato nell'ambito dell'inchiesta Anas, dopo una debole
resistenza, ammetteva di essere Pontedera, ma negò di essere chi aveva
messo il microfono nella scrivania di Chiatante, cosa che, invece, fu satta
da Bruno Mattioli, il tecnico elettronico legato a Ponzi.
Mattioli, a sua volta, ammetteva di aver piazzato microspie, per conto
di Beneforti, negli studi di Giorgio Valerio, Eugenio Cefis, Raffaele
Girotti, Cesare Merzagora, Attilio Monti e Nino Rovelli.
Nell'inchiesta veniva risucchiato anche un alto funzionario dello Uaarr,
il dott. Sampaoli Pignochi, vecchio sodale di Beneforti nella "cordata
triestina" di De Nozza ed unico esponente del Viminale incitato a Parco
dei Principi. Il dott. Sampaoli risultò abituale frequentatore di Fabbri e
del suo socio Ranno presso il loro albergo.
Pertanto, da un lato, l'inchiesta Anas e quella sulle intercettazioni
finivano per saldarsi in un unico circuito, dall'altro, producevano, come
in un frattale, sempre nuovi sdoppiamenti, allargando all'infinito lo
spettro di indagine. Infatti, da un lato parve che Ponzi operasse per
conto di Cefin in danno dei suoi rivali, dall'altro, la presenza di
Beneforti, Nardone e Sampaoli Pignochi portava desisamente a puntare
verso lo Uaarr. Quel che causo qualche brutto quarto d'ora per il dott.
D'Amato, all'epoca responsabile formale dell'ufficio: probabilmente, se
l'Ag del tempo fosse stata a giorno delle feroci rivalità fra la cordata dei
"tambroniani" (i triestini di De Nozza, Beneforti, Sampaoli Pignochi ecc.)
e quella "tavianea" del dott. D'Amato, avrebbe tratto conclusioni meno
lineari. E' interessante leggere quanto scrive una fonte non limpidissima,
ma sicuramente bene informata, come Francesco Pazienza nel suo libro:
<< ... anche Federico Umberto D'Amato contava parecchi nemici. Era
stato tirato in ballo numerose volte per questioni relative a presunti
rapporti con l'estrema destra. Ma tutto si era rivelato un boato
scandalistico. Una sola volta, mi confessò, si era dovuto impegnare a
fondo per non farsi fregare. Fu agli inizi degli anni settanta. Era
scoppiato uno di quegli pseudo-scandali che ciclicamente in Italia
vengono creati e gonfiati... Si trattava di presunte intercettazioni
telefoniche non autorizzate che coinvolgevano come primo attore un
antesignano delle agenzie italiane ed il suo capo che, da allora,
divenne "lo spione", il detective privato per antonomasia, Tom Ponzi.
D'Amato era sospettato di essere l'anima nera che reggeva i fili
dell'operazione. L'indagine era stata promossa da un sostituto
procuratore della Repubblica di Roma, ansioso -secondo D'Amato-
di mettersi in luce e che portava un nome che sarebbe diventato
famoso, Domenico Sica...
L' "Edgard Hoover" italiano era convinto che l'indagine fosse stata
aperta dal giovane e ambizioso magistrato solo per fini di
autopromozione, insomma per vedere il suo nome sui giornali.
D'Amato cominciò a far controllare Sica, passo dopo passo, dai suoi
uomini, fino a che non trovò quella che a suo dire era la chiave di
volta di tutta la vicenda. Sempre a detta di D'Amato, quella faccenda
non aveva nulla a che vedere con le violazioni del codice penale, ma
semplicemente confermava la vecchia regola: cherchez la femme . Anzi
les femmes . O, ancor meglio, les jeunes femmes .
Troppo astuto per farlo rimarcare direttamente al diretto
interessato, D'Amato preferì rivolgersi a E.C., uomo potentissimo di
quei tempi, "presidente" di una megaconclomerata chimica. D'Amato
scelse un "messaggero" che non gli poteva dire di no e al quale, al
tempo stesso, Sica non poteva non dare ascolto. Insomma i consigli
che D'Amato, attraverso "il presidente", aveva trasmesso a Sica non
potevano essere ignorati dal magistrato proprio per l'autorevolezza,
il peso e l'importanza della terza persona da cui provenivano.>> (F.
PAZIENZA "Il disubbidiente" Longanesi ed. 1999, p. 140-1 )
Il passo lascia perplessi sia per alcune inesattezze (l'inchiesta, come
abbiamo visto, non fu avviata da Sica ma da Infelisi), per il superficiale
tono di sufficienza (lo scandalo non si sgonfiò affatto, perchè le
intercettazioni abusive risultarono vere) e per l'oscura allusione alle
jeunes femmes , terreno sul quale non intendiamo seguire Pazienza, ma
contiene un elemento che, se confermato, è di sicuro interesse: che il dott.
D'Amato, per una volta ingiustamente sospettato, per far valere le sue
ragioni si sarebbe rivolto ad E.C., trasparente acronimo di Eugenio Cefis
che alcuni indicavano come il committente di Tom Ponzi.
Le inchieste proseguirono disintegrandosi fra piste sempre più
numerose prevalentemente approdate alla prescrizione dei reati.
10) Armi e petrolio. Sul finire del 1971, funzionari della Farnesina segnalarono alla
Presidenza del Consiglio l'interesse del governo libico ad acquistare armi
dall'Italia, l'occasione sarebbe stata propizia per sviluppare l'import-
export con quel paese. Ricevuto un segnale di disponibilità, una
delegazione libica giungeva a Roma il 17 dicembre di quell'anno e, dopo
un giro di visite nelle principali ditte produttrici d'armi (Oto Melara,
Snia Viscosa, Agusta e Fiat), essi fornirono la lista dei prodotti di loro
interesse.
La lista includeva tanto armi prodotte dalle aziende italiane su propri
brevetti, quanto armi prodotte su licenza americana per vendere le quali,
ovviamente, era necessario ottenere prima il nulla osta statunitense. Il
problema nasceva per l'indisponibilità dei libici a trattare separatamente
le due partite.
Da una parte, l'autorizzazione americana appariva non sontata e,
comunque, non immediata, per l'aggravarsi della difficile situazione
mediorientale (che, in effetti, sfocerà nel conflitto del Kippur una ventina
di mesi dopo) e che, ovviamente, spingeva gli Usa, alleati di Israele, a
non facilitare la vendita di armi ad un paese arabo.
Dall'altra, l'affare si presentava assai allettante soprattutto per la
contropartita offerta dai libici in materia petrolifera: si era in un
momento di decisa ascesa del prezzo del petrolio e tutto lasciava
intendere che le cose sarebbero ulteriormente precipitate (cosa che,
puntualmente, avvenne all'indomani della guerra del Kippur,
provocando la prima crisi energetica del mondo occidentale), per cui,
disporre di una fonte di approvigionamento agevolato appariva come
una preziosa occasione da non perdere.
Stretto fra la Scilla americana e la Cariddi petrolifera, il governo
Andreotti cercava di prender tempo, mentre i libici premevano per
concludere la transazione il più rapidamente possibile.
Nello stesso tempo, l'Italia cercava di ammorbidire la poisizione
americana acquistando lì altri sistemi d'arma in cambio della sospirata
autorizzazione, quel che, però, faceva ascendere il costo dell'operazione
a valori che riassorbivano ampiamente i vantaggi dell'operazione
commerciale con i libici. Infatti, l'acquisto del materiale americano
comportava una spesa di 45 miliadi, contro i 25,5 dell'affare con i libici,
inoltre, gli americani erano comunque esitanti e l'autorizzazione
appariva ancora in pericolo.
Ma intorno all'affare, ormai, si era costituita una robusta serie di
interessi che premevano perchè esso fosse concluso e subito: Oto Melara,
Snia Viscosa ed Agusta premesano per vendere le loro armi, l'Eni
premeva per poter concludere l'acquisto di petrolio dalla Libia (che, nel
frattempo, era crescuito a 50 milioni di barili) e sia gli uni che gli altri
mostravano una netta propensione ad associare all'affare anche quei
politici, militari e funzionari ministeriali che avessero saputo portarlo a
buon fine. Pecorelli, qualche anno dopo, pubblicò un servizio su Op nel
quale parlava di un "costo di intermediazione" di 3 centesimi di dollaro
per barile di petrolio, oltre all'analogo riconoscimento per la vendita
delle armi.
Come si vede, una tangente molto cospicua (pari a diverse decine di
milioni di attuali euro) che minacciava di mandare a gambe per aria
anche gli equilibri di potere interni al sistema politico in generale, ed alla
Dc in particolare.
Forse sulla base di questa considerazione, il Ministro degli Esteri Moro
(nel marzo del 1972) avanzava una proposta diversiva, allo scopo di
prender tempo e cercare, nel frattempo, di far fallire l'affare. Per un
attimo la manovra di Moro sembrò poter avere successo, anche a causa
dell'interesse manifestato per essa dal presidente dell'Eni Girotti, che
pensava, in questo modo, di svincolare la sua trattativa dal ginepraio
delle autorizzazioni americane, ma tutto rientò in brevissimo tempo.
Nel frattempo veniva inviato a Tripoli, in veste di mediatore, il capo del
Sios, gen. Roberto Jucci (notoriamente parente del Presidente del
Consiglio Andreotti ed in ottimi rapporti con i dirigenti dell'intelligence
libica). Questa circostanza originerà -nel 1977- la campagna del
settimanale di Pecorelli "Op" contro l'alto ufficiale che, sentendosi leso
nell'onore, risponderà dando querela al giornalista che verrà
condannato, ma questo aspetto della vicenda ha scarso rilievo ai nostri
fini.
La trattativa riprese ed, anzi, una nuova missione dei libici in Italia
(iniziata il 18 maggio del 1972) concretizzava una nuova e più ampia
ordinazione di armi, compresi alcuni sommergibili che, tuttavia, gli
accordi in sede Nato ritenevano "incedibili" ai fini della sicurezza
dell'Alleanza nel Mediterraneo.
Si giungeva, così, a sbloccare la situazione e, allo scopo di concludere
in fretta il negoziato, pur di rispettare i tempi di consegna dei carri
armati richiesti, si giunse a prendere quelli in dotazione alla divisione
"Centauro", revisionarli, riverniciarli con le insiegne del committente e
consegnarli alla Libia, provvedendo, più tardi, a sostituirli con i nuovi
pezzi originariamente destinati all'acquirente.
Ovviamente, questi maneggi non passarono inosservati dai servizi di
informazione di Israele che si approssimava alla guerra del Kippur.
Su tutto questo iniziava ad indagare l'ufficio "D" del Sid, diretto dal
gen. Gianadelio Maletti (di cui era ben nota la sensibilità verso le ragioni
di Israele): nell'aprile del 1972 il capitano Labruna avviava una prima
operazione (denominata "Juri") che avrà termine un po' più di un mese
dopo. In agosto lo stesso ufficiale varava una seconda operazione
informativa sul medesimo soggetto (operazione "Occhio") che durava
alcune altre settimane.
Non è qui il caso di seguire ulteriormente la vicenda nei suoi dettagli e,
soprattutto, nei suoi sviluppi che porteranno, anni più tardi, ad un'altro
clamoroso caso, qui ci limitiamo a segnalare i molti aspetti
giuridicamente e politicamente scabrosi dell'operazione (il mancato
rispetto degli accordi militari con l'Alleanza, il sospetto giro di tangenti,
la disinvolta utilizzazione della dotazione d'arma di una divisione, ecc.)
che consigliavano, ovviamente, la massima discrezione. Ed, in effetti, la
cvicenda rimase sconosciuta agli italiani sino alla primavera del 1977,
quando il settimanale "Op" iniziò a pubblicare una serie di articoli sul
caso.
Ci sembra interessante rileggere un brano di quella inchiesta
riguardante il momento più delicato, quello del tentativo di Moro di
ridimensionare il pacchetto di armi offerto alla Libia:
<< ... Abbiamo già riferito della visita a Roma di Mr. Karl, inviato dal
Pentagono per porre l'ultimatum di cui s'è detto (o i Tow e i Lance o
niente armi alla Libia). Al termine del soggiorno romano, tra mister
Karl e le autorità italiane responsabili non fu sottoscritto alcun
accordo. Evidentemente i fuunzionari italiani.... erano stati turbati
dal linguaggio troppo duro ed esplicito del plenipotenziario
americano.
Dopo qualche settimana, però, arrivano altre novità non certo
esaltanti per i responsabili del nostro governo. A sottolineare che
l'Eni, il petrolio (e i 3 centesimi al barile) hanno esercitato un ruolo
cardine sullo svolgimento dell'intera vicenda, è proprio l'ente di
Raffaele Girotti che viene sollecitato opportunamente il 6 marzo
1972. Il "noto servizio" gli fa pervenire un rapporto riservato per
ricordare che le autorità libiche considerano la trattativa del petrolio
tutt'ora in corso, strettamente legata alla fornitura delle armi
richieste qualche tempo prima all'Italia. E' lecito supporre che l'eni,
Girotti in particolare, abbiano fatto di nuovo valere le loro ragioni
presso tanto bendisposti padrini politici. O viceversa.
Non bastasse lo svegliarino fatto arrivare alle autorità italiane
attraverso l'Eni di Girotti, ecco che a metà marzo 1972, scende di
nuovo in campo l'ambasciatore Gastone Belcredi. In un telegramma
dalal sua sede di Tripoli, Sua Eccellenza riporta le vibrate proteste
delle autorità libiche per l'atteggiamento temporeggiatore tenuto
dagli italiani. Gheddafi non ha tempo da perdere, o tutto e subito o
niente più petrolio.
E' a questo punto che sulla scena compare il cavallo di razza.Del
resto, di fronte a sollecitazioni a tenaglia che stringono in una morsa
i responsabili del governo (le industrie belliche, i funzionari della
Farnesina, gli emissari della Difesa, l'Eni) Aldo Moro é, suo
malgrado, costretto a muovbere uno zigomo. Il leader storico della
dc ha sentito l' odore di zolfo dell'intera vicenda, vorrebbe farla
naufragare, ma non può farlo direttamente. Così decide di offrire alal
Libia un "pacchettino" di armi, vale a dire quelle munizioni, qui
cannoni 105/14 della Oto Melara e quelle scicchezze di esclusiva
produzione italiana, non sottoposte al beneplacito Usa.
L'iniziativa di Moro, nella quale lui stesso non contava, mirava solo
a prender tempo. Insomma il presidente Moro, allora ministro degli
Esteri, voleva solo vedere quale sarebbe stato l'atteggiamento di
ciascuno dei membtri del Governo in quella intricata, vicenda. Presi
a mezzo tra le lusinghe petrolifere e tangenti militari, quanti di loro
sarebbero rimasti fedeli al giuramento atlantico?
Le cose a Palazzo Chigi stanno a questo punto, Moro ha appena
esposto la sua carta moschicida, quando il presidente dell'Eni Girotti,
opportunamente valutato l'appunto del "noto servizio", chiede di
essere ricevuto dal presidente del Consiglio Andreotti. Da questa
visita dipenderà lo sviluppo degli eventi.>> ( rip. in Franca
MANGIAVACCA "Il memoriale Pecorelli" International. E.I.L.E.S.,
Roma 1996, pp. 353-4)
<< Il 15 febbraio... chiudevamo la seconda puntata della "Jucci story"
sulla trappola tesa da Moro a metà marzo 1972 quando, per
smascherare i promotori dell'operazione invisa dagli americani, il
ministro degli Esteri suggerì ai membri del governo ed ai funzionari
della Pubblica amministrazione di aggirare l'ostacolo rappresentato
dal Pentagono, offrendo a Gheddafi un "pacchettino" autarchico di
cannoni e munizioni residui della II guerra mondiale. Proprio per
sventare il pericolo di questa autoriduzione il "noto servizio" metteva
sale alla coda di Girotti: se vuoi il petrolio libico (quello delle
tangenti ai politici) datti da fare per la fornitura integrale. Come è
noto il presidente dell'eni rispose alla sollecitazione e chiese di potere
essere ricevuto A Palazzo Chigi dal solito Andreotti. >> (ibidem p.
355)
I due passi si prestano a diverse considerazioni:
a- Pecorelli usa per tre volte l'espressione Noto Servizio e sempre fra
virgolette, a significare che non si tratta dell'allusione generica ad uno
dei vari servizi di informazione, ma della locuzione per indicare un
preciso organismo diverso da quello effettivamente noti. Diversamente,
o sarebbe comparsa la sigla del servizio in questione o l'espressione non
sarebbe stata virgolettata. Dunque, Pecorelli voleva parlare di una
determinata organizzazione cui era riferita quella particolare
espressione. Appare del tutto improbabile una coincidenza per cui egli
volesse riferirsi ad altro da quello che noi conosciamo con quella stessa
espressione. E' da notare che, al momento in cui Pecorelli scriveva, non
era affatto noto l'appunto di Grisolia del 4 aprile 1972, mentre era noto il
documento "all'insegna della trama nera", che ha moltissimi punti di
contatto con l'inchiesta di Pecorelli, ma nel quale non compare mai
l'espressione "Noto Servizio". Dunque Percorelli sapeva dell'esistenza
del "Noto Servizio" e l'uso di quella particolare espressione lascia
pensare che la notizia gli sia giunta dalle stanze dello Uaarr.
b- Pecorelli usa una espressione del tutto incomprensibile a qualsiasi
lettore, salvo che alle pochissime persone in grado di cogliere l'allusione;
dunque sta lanciando un messaggio a qualcuno in grado di intendere.
Può darsi che tale messaggio rispondesse ad una delle consuete
operazioni del giornalista, uso a servirsi di un linguaggio allusivo ed
indiretto per ottenere particolari vantaggi per al sua testata, ma può
anche darsi il caso che egli fosse il tramite di una operazione concordata
con altri. In ogni caso, l'uso dell'espressione non è casuale e risponde a
scopi che nulla hanno a che fare con l'informazione.
c- Se le notizie riportate da Pecorelli sono vere (e bisogna dare atto che,
nella maggior parte dei casi, gli scoop del direttore di "Op" hanno
trovato conferma, anche se a distanza di alcuni anni), dobbiamo dedurre
che il Noto Servizio fosse, appunto, noto ai dirigenti dell'Eni,
diversamente non si capisce per quale ragione Girotti avrebbe dovuto
mostrarsi così influenzabile dai suoi pareri. E doveva esserlo anche a
pezzi del sistema politico: quello cui si indirizzava il messaggio di
Pecorelli, ma anche quelli che, per il tramite di Girotti, ricevvero
l'avvertimento e vi si adeguarono. Dunque, l'esistenza di tale organismo
doveva essere una conoscenza diffusa fra i vertici tanto del sistema
politico quanto di quello economico.
d- considerando che tanto l'inchiesta di Pecorelli, quanto il documento
"All'insegna della trama nera" parlano delle stesse operazioni e degli
stessi soggetti, se ne deduce che quando, nel novembre del 1972, nelle
varie redazioni e segreterie politichegiunse quel testo anonimo ma assai
circostanziato, diversi destinatari immaginarono senza difficoltà che ci
si stesse riferendo al Noto Servizio e che ad esso si fosse riferito anche
Forlani nel suo comizio spezzino.
e- In definitiva, se ne ricava che già da quell'epoca, la conoscenza
dell'esistenza e delle operazioni del Noto Servizio costituivano materia
di guerra -ovviamente coperta- all'interno del sistema politico
11) Alcune considerazioni di sintesi. Nel secondo paragrafo di questa relazione, ci siamo posti il problema
della logica del comportamento di Grisolia e, conseguentemente, della
reale natura del documento del 4 aprile 1972.
Ci sembra ora opportuno riassumere brevemente il quadro delle
principali emergenze di quanto siamo andati dicendo sin qui, anche alla
luce di quanto abbiamo scritto in altre relazioni a codesta Ag:
- 16-17 dicembre 1969: note del Sid sull'Aginter Presse, che accusano
della strage anarchici e Avanguardia Nazionale, e, per il suo tramite,
tendono a coinvolgere nell'Affaire lo Uaarr
- 21 dicembre 1969: Delle Chiaie fugge
- 28 dicembre 1969: missiva del Sid che segnala rapporti fra Federico
Umberto d'Amato e la sedicente contessaFejerdi Budai De Chiode
Zorana Romana, già segnalata, il 25 novembre precedente, dal
Controspionaggio.
- gennaio 1970: Avanguardia Nazionale viene ufficialmente ricostituita,
in modo da evitare l'accusa di "associazione segreta"
- inverno-primavera 1970: un gruppo del Collettivo Politico Giuridico
di Roma svolge l'inchiesta che verrà pubblicata sotto il titolo "La strage
di Stato". Il libro,insieme a molte rilevanti acquisizioni, riprende la tesi
della colpevolezza di Delle Chiaie -con il relativo corollario dello Uaarr-.
Alla formazione di questa convinzione non è stato estraneo il Sid che, in
modo coperto, ha fatto filtrare informazioni e documenti in questo senso
- 10 febbraio- 5 marzo 1970: mentre la Commissione Parlamentare di
Inchiesta sui fatti del Luglio 1964 si avvia alla conclusione dei suoi
lavori, "Paese Sera" pubblica una serie di articoli di Ruggero Zangrandi
sul caso Sifar, che riportando molti documenti dello Uaarr e dello stesso
Sifar, che non possono provenire che da uno dei sue servizi.
- 5 marzo 1970: intervista di Serafino Di Luia al giornalista Zicari del
Corriere della Sera (più tardi identificato come collaboratore del servizio
militare) nella quale si sostiene -per la prima volta da destra- che
Michele Merlino non è un anarchico, ma un camerata, fatto infiltrare fra
gli anarchici dalla " persona che lo ha plagiato (e che) è la stessa che fece
affiggere il primo manifesto cinese in Italia" (evidente allusione a
Federico Umberto D'Amato). Una nota interna allo Uaarr dello stesso
giorno, registra la furibonda reazione dell'ufficio
20 marzo 1970: Il Questore di Bolzano fa sapere allo Uaarr che i fratelli
Bruno e Serafino Di Luia sono disposti a fare rivelazioni "interessanti"
sugli attentati di Milano e Roma.
10 aprile 1970: Russomanno si incontra con i fratelli Di Luia
22-23 aprile 1970: con il primo colloquio Zicari-Fumagalli, inizia
l'operazione dei Cc che porterà alla prima istruttoria sul Mar
aprile 1970: Valerio si dimette dalla presidenza della Montedison ed al
suo posto viene eletto Merzagora: la scalata di Cefis entra nella sua fase
finale. Appoggio dell'associazione di Pisanò a Cefis
13 giugno 1970: esce "La strage di Stato"
19 novembre 1970: con un articolo intitolato "Si scrive leader si legge
lader" Pisanò inizia, sul Candido , una violenta campagna contro il
segretario del psi Mancini per le aste truccate dell'Anas
23 novembre: Mancini pone il veto socialista alla nomina di Girotti
all'Eni
8 dicembre 1970: tentato colpo di Stato di Junio Valerio Borghese
15 dicembre 1970: fine dei lavori della commissione di inchiesta sul caso
Sifar.
15 dicembre 1970: dimissioni di Merzagora dalla Presidenza della
Montedison; pochi giorni dopo il "Corriere delal Sera" pubblica la sua
lettera agli amministratori in cui si parla dei fondi neri.
23 febbraio: arresto di Pisanò.
17 marzo 1971: Paese Sera rivela il tentativo di colpo di stato di Borghese
dell'8 dicembre precedente
aprile: l' "ingegner Pontedera" manda alla Guardia di Finanza i nastri
delle intercettazioni abusive a Chiatante; il Candido è il primo giornale a
pubblicarne il testo.
13 aprile 1971: Padova, il giudice Stiz fa arrestare Freda e Ventura.
22 aprile 1971: Cefis presidente della Montedison; poco dopo, Girotti
presidente dell'Eni.
17 dicembre 1971: arrivo in Italia della delegazione libica per trattare
l'acquisto di armi;
gennaio 1972: si forma il governo monocolore Andreotti che non ottiene
la fiducia delle Camere provocando lo scioglimento del Parlamento.
primi mesi 1972: inchiesta del commissario Calabresi sul traffico d'armi
febbraio 1972: con il colpo di mano di Cefis sulla Snia Viscosa, inizia il
conflitto Cefis-Girotti
20 febbraio 1972: l' Espresso, inizia la campagna sulle intercettazioni
telefoniche
24 febbraio 1972: Aurisina, scoperta del Nasco.
1 marzo: Moro propone il "pacchetto nazionale" per la richiesta dei
libici
4 marzo 1972: arresto di Rauti per Piazza Fontana.
6 marzo: appunto del Noto servizio a Girotti.
4 aprile 1972: relazione di Grisolia sul "Noto Servizio"
16 aprile 1972: inizia l' "Operazione Juri"
primavera 1972: Federico Umberto D'Amato diventa -anche
formalmente- capo dell'ufficio Affari Riservati.
17 maggio 1972: assassinio del commissario Luigi Calabresi;
18 maggio: nuova delegazione di libici in Italia ed allargamento del
pacchetto di richieste
agosto 1972: Labruna avvia l' "Operazione Occhio"
6 settembre: arresto di Nardi per l'assassinio di Calabresi
5 novembre 1972: discorso di Forlani a La Spezia
metà novembre 1972: documento anonimo "All'insegna della trama
nera"
novembre 1972: esplode lo scandalo dei "fondi neri" della Montedison
marzo 1973: scoppia lo scandalo delle intercettazioni telefoniche che
investe Tom Ponzi; arrestato Walter Beneforti.
Riassumendo:
1) fra il 1969 ed il 1974, le tradizionali rivalità di corpo fra Sid e
Uaarr, sfociavano in un violentissimo conflitto fra i rispettivi gruppi
dirigenti, nel quale ciascuno cercava di eliminare l'avversario
accusandolo di colpe gravissime (dal concorso in strage al
favoreggiamento dello spionaggio sovietico). Il conflitto si produceva
anche all'interno del Sid attraverso la contrapposizione fra il capo del
servizio Vito Miceli ed il capo dell'Ufficio D Gianadelio Maletti.
2) Nello stesso tempo, aveva luogo la scalata di Cefis alla
Montedison duramente contrastata dal segretario socialista Mancini.
Uomini legati al Noto Servizio (Pisanò, De Carolis) appoggiavano Cefis
nella sua scalata
3) Contemporaneamente, una campagna di inedita virulenza
investiva il segretario del Psi, Giacomo Mancini per le aste truccate
dell'Anas. La campagna era codotta dal "Candido" di Giorgio Pisanò (di
cui abbiamo appena ricordato l'appartenenza al noto Servizo) e le
intercettazioni risultano effettuate da persone in qualche modo legate a
Tom Ponzi (altro personaggio indicato come componente del Noto
Servizio)
4) Simmetricamente, prendeva quota lo "scandalo delle
intercettazioni telefoniche" che, invece, colpiva l'investigatore privato
Tom Ponzi insieme a uomini già appartenuti alla "cordata dei triestini",
come Walter Beneforti.
5) In questo quadro ha luogo l'operazione armi-petrolio con la Libia,
nella quale, pure, compare il Noto Servizio attraverso l'appunto
recapitato a Girotti.
Abbiamo, quindi, un primo quadro che ci indica la presenza di uomini
del noto servizio in tutte tre le principali vicende politico-finanziario-
scandalistiche del momento (Montedison, Anas-Intercettazioni e
negoziati con la Libia).
Non appare una singolare coincidenza che la nota di Grisolia compaia
proprio nel bel mezzo di queste vicende? Ed è solo un caso che essa
preceda di soli 12 giorni l'operazione "Juri" di Labruna? Ed è sempre una
coincidenza la contiguità temporale fra l'operazione "Occhio" e il
documento "All'insegna della Trama Nera"? Può darsi, ma si tratta di
una bella serie di coincidenze.
Conviene ricordare la posizione particolarmente difficile di Federico
Umberto D'Amato che, come si sa, non ebbe mai fra i suoi referenti
privilegiati l'on. Andreotti, che, nel frattempo, era diventato Presidente
del Consiglio. Per di più, i suoi avversari del servizio militare (in quel
momento,"i nemici a lui più fieri") sembravano, invece, godere di ben
migliore accoglienza presso di lui. Mutatis mutandis , si riproduceva la
situazione che, una dozzina d'anni prima, l'aveva visto contrapposto
all'on Tambroni, prima come suo ministro, poi come Presidente del
Consiglio. E, come dodici anni prima, D'Amato si trovava, per ragioni
assai diverse, a condividere con uomini di appartenenze ben distanti e,
talora, opposte o concorrenti, la speranza di una rovinosa caduta del
governo in carica e, soprattutto, del suo capo.
In questo contesto, poteva risultar utile mettere per un momento da
parte antiche inimicizie (come quella che certamente opponeva il capo
dello Uaarr all'allora segretario socialista), per cercare, se non alleanze,
quantomeno convergenze obiettive. Ma, superare consolidate avversioni
può non essere facile e, soprattutto, molto ardua può risultare la
conquista della necessaria fiducia da parte di un interlocutore che
avrebbe ottime ragioni per temere un raggiro. Non dimentichiamo che
per qualche momento era parso che dietro il misterioso Pontedera vi
fosse lo Uaarr e, dunque, D'Amato, quel che non agevolava certo un
avvicinamento del leader socialista.
In questi casi, può risultare più pagante una tattica diversa, come
quella di far giungere determinate notizie a chi di interesse, attraverso
un canale che goda della sua fiducia. Per scendere nel concreto: Mancini
poteva risultare mal disposto verso il capo dello Uaarr, mentre Aniasi
era uno dei principali esponenti della sua corrente nel Psi e, dunque, un
ottimo tramite.
E così, le iniziative di Grisolia (avvisare Aniasi del tentativo di
sequestro a suo danno e consegnargli il testo della sua informativa)
possono spiegarsi in un modo che va oltre le ragioni di un semplice atto
di amicizia: che egli abbia eseguito precisi ordini dello Uaarr.
La prima azione poteva corrispondere anche all'esigenza di permettere
a Grisolia di conquistare totalmente la fiducia di Aniasi, in modo da
preparare il terreno alla seconda e più rilevante parte dell'operazione:
coinvolgere Aniasi nell'operazione contro il Noto Servizio che,
indirettamente, colpiva anche Andreotti.
Infatti, è facile supporre che una persona, che ha da poco ricevuto
notizia di un complotto ai suoi danni da parte di un gruppo clandestino,
sia portata ad attivarsi contro quel gruppo e a fidarsi di chi l'ha avvertito.
Di qui il calcolo (non sappiamo se riuscito) che Aniasi si sarebbe attivato
presso Mancini.
Può darsi che questa resti solo un'ipotesi priva di riscontri (peraltro
difficili da trovare quasi trenta anni dopo i fatti e con ben pochi possibili
testi ancora in vita), ma le coincidenze che abbiamo richiamato all'inizio
di questo ragionamento ci incoraggiano su questa strada.
Infatti, la nota di Grosolia precede di pochi giorni l'avvio dell'
"Operazione Juri" e il nesso fra le due cose sarà reso trasparente dalla
lettera anononima "All'insegna della trama nera" che citava tanto Jucci
(protagonista dell'affaire armi-petrolio), quanto Battaini (dominus del
Noto Servizio a Milano) per connetterli entrambi alla stessa cordata
facente capo ad Andreotti. E' da notare che questo testo, da un lato
anticipa quanto rivelerà nel 1977 l'agenzia "Op", dall'altro contiene
diversi punti di contatto con la nota del 4 aprile precedente (il nome di
Battaini, il ruolo dei Carabinieri in relazione alla destra milanese, ecc.) ed
anticipa un altro dato delle future note di Grisolia (il reclutamento di
Nardi): troppi punti di contatto per poter pensare a delle semplici
coincidenze.
Per inciso, notiamo qui che l'ipotesi dal Ristuccia -peraltro suggerita da
un "si dice" nell'ambiente del Noto servizio, ma priva di alcun supporto
concreto- secondo la quale il documento sia da attribuire al defunto
senatore Giorgio Pisanò, non appare minimamente credibile per i
seguenti motivi:
a) dati i ripetuti punti di contatto fra questo documento e quello del 4
aprile 1972, dovremmo immaginare una intesa fra Pisanò e Grisolia che,
invece, nulla ci autorizza a supporre
b) il testo "all'insegna della trama nera" in tutto il suo svolgimento, dà
per scontato che gli autori degli attentati dinamitardi appartengano
all'estrema destra e che operino con esplosivo di provenienza militare e
che, in questa attività, avrebbero goduto della copertura dei Carabinieri:
quel che il senatore Pisanò non avrebbe mai sostenuto
c) nè si capisce quale vantagggio sarebbe venuto allo stesso Pisanò dal
rendere pubblica l'esistenza del Noto Servizio al quale, stando sia ai
documenti, sia a quanto dice lo stesso Ristuccia, apparteneva.
Dunque, è molto più razionale ipotizzare che il documento "All'insegna
della trama nera" costituisca la seconda parte di un'azione iniziata con la
nota del 4 aprile precedente e che entrambi siano da attribuire alla stessa
mano (o alle stesse mani).
Conseguentemente, anche la contemporaneita fra questa operazione
dello Uaarr e quella dell'Ufficio D del Sid appare, più che come una
coincidenza, come la confluenza fra due attori diversi e, probabilmente
non alleati fra loro, ma convergenti verso lo stesso obbiettivo: abbattere
l'on Andreotti e la sua cordata politico-militare.
E' tutt'ora convinzione comune che, nel dualismo fra Miceli e Maletti, il
primo avesse come suo referente politico Aldo Moro, ed il secondo
Giulio Andreotti. Per la verità, l'on. Andreotti ha sempre rigettato questa
affiliazione di Maletti e Labruna, incontrando, però molto scetticismo.
Occorre dire che, nella maggior parte dei casi, l'appartenenza di un alto
ufficiale -in particolare dei servizi- ad una determinata cordata politica,
si basa su convinzioni diffuse, derivanti, il più delle volte o dalla
constatazione del politico che ha effettuato o propiziato la nomina più
importante dell'ufficiale, o sull'osservazione del comportamento di
entrambi e sulle relative convergenze.
In effetti, è probabile che rapporti preferenziali fra l'esponente
democristiano ed il generale del Sid siano esistiti in epoca precedente, e
taluni possono interpretare l'azione del duo Maletti-Labruna sul golpe
Borghese come un modo per controllare l'inchiesta, assicurando che essa
non sarebbe andata oltre il "far volare gli stracci" e tenendone fuori
determinati uomini politici; ma riesce assai difficile catalogare come
"azione amichevole" le due operazioni ("Juri" e "Occhio") messe in atto
dall'ufficio del generale Maletti nel 1972. D'altra parte, Maletti non ha
avuto solo relazioni con Andreotti, ma è stato anche l'ottimo amico
dell'on. Mancini, da cui verrà aspramente difeso nel 1975. Inoltre, la
stessa opinione diffusa che vuole Maletti come uomo di Andreotti, lo
dipinge anche come leader della componente filo-israeliana del nostro
servizio, contrapposta all'ala filo-araba di Miceli e, in effetti, l'
"Operazione Juri" riguarda proprio il caso del riarmo di un paese arabo
fra i più ostili ad Israele, quel che, appunto, doveva essere inviso in
massimo grado alla componente filo-israeliana. Se questo, poi, possa
aver comportato la rottura di precedenti solidarietà interne, non deve
meravigliare: non è l'unico caso in cui le solidarietà internazionali
abbiano prevalso su quelle nazionali.
L'azione dell'Ufficio D inizia pochi giorni dopo la nota di Grisolia e si
conclude qualche settimana prima del documento "All'insegna della
trama nera" che collega la trattativa con la Libia al Noto Servizio: è tutto
solo un caso? Difficile crederlo.
Questo, tuttavia, non implica necessariamente che vi fosse un accordo
esplicito fra D'Amato e Maletti in funzione antiandreottiana. E' ben più
probabile che si sia trattato di una tacita intesa, o, anche, che non vi fosse
alcuna particolare intesa, ma che uno dei due, conosciuta l'azione
dell'altro, abbia colto l'occasione per inserirsi nel gioco e sfruttare essa a
proprio vantaggio. Le soluzioni possono essere diverse: tutte più
credibili di una pura e semplice coincidenza.
Ed è comprensibile quale possa essere stata la reazione del Noto
Servizio nel leggere sui giornali il documento "All'insegna della trama
nera" (fra gli altri, lo pubblicò il "Borghese", pur se stampando solo
l'iniziale dei nomi ): è evidente che questo avrà fatto pensare a qualche
fuga di notizie dall'interno ( il nome di Battaini, sino a quel punto non
era ancora venuto fuori e resterà del tutto sconosciuto per molti anni
ancora). E, forse, i sospetti che Titta ha manifestato su Grisolia vengono
proprio da quella occasione, interpretata come un colpo proveniente non
da alcune stanze del Viminale, ma dai servizi sovietici in Italia. 12) Padre Enrico Zucca, il Noto Servizio ed il caso Moro.
Forse, il capitolo più interessante delle deposizioni di Ristuccia è quello
relativo al caso Moro ed all'intervento in esso del Noto Servizio.
Conviene quindi riportare per intero alcuni dei pezzi più importanti:
<< Ricordo che il Titta mi accennò, già durante il sequestro Moro e
me lo confermò poi successivamente, che erano stati contattati per
adoperarsi per la liberazione di Moro, così come per il sequestro
Cirillo.
Mi disse addirittura di aver avuto contatti con appartenenti alle
Brigate Rosse e che questi avevano espresso sfiducia verso l'Arma
dei Carabinieri e la Dc.
Mi disse che gli uomini delle Br con cui erano entrati in contatto,
non erano riusciti a trovare gli interlocutori adatti e non si fidavano
delle Istituzioni.
Titta sosteneva di aver parlato di ciò con Cossiga e con
l'Onorevole Andreotti, ma che quest'ultimo con valutazioni
negative sull'eventualità del rilascio dell'ostaggio bloccando (sic)
così le attività che intendeva intraprendere.
Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della
Duchessa doveva trovarsi il cadavere di Moro, il Titta mi disse in
tempo reale che si trattava di una "bufala".
Ciò ovviamente mi disse prima che ci fosse la smentita...
Ricordo che era aprile e che c'era la Fiera aperta. Ricordo molto
bene questo particolare perchè quando i media dettero la notizia, il
segretario generale della Fiera era indeciso sul fatto di sospenderla
o meno proclamando il lutto.
Io allora telefonai al Titta che venne subito a trovarmi dicendomi
di riferire al Franci (il segretario generale) che era una bufala....
faccio altresì presente... che il Titta disse di essersi occupato anche
del sequesto Dozier.>> (verbale s. i. Ristuccia dell'8 ottobre 1998)
<< ... Si io venni informato da Titta che il Presidente della Dc
correva seri rischi di sequestro. Sequestro durante il quale Titta mi
disse di essere a conoscenza del luogo dove Moro era detenuto, lo
aveva detto anche ai senatori Andreotti e Cossiga.
Il Titta mi disse durante il sequestro che Moro era detenuto in via
Gradoli e, come ebbi occasione di accennarvi, lo seppe direttamente
dalle Brigate Rosse.
Non so dirvi come entrò in contatto con le Br, ma lui mi disse di
essere stato fortemente ostacolato sul caso Moro, proprio dal potere
politico dal quale dipendeva.... in particolare alla richiesta di poter
intervenire su via Gradoli il Titta ricevette un secco diniego da
Andreotti che gli fece capire che non era auspicabile una soluzione
positiva del processo, la frase che ricordo distintamente è "Moro
vivo non serve più a nessuno">> (verbale s. i. Ristuccia del 9
dicembre 1998)
<< Ero a conoscenza dell'iniziativa di Zucca. Non fu un'attività
autonoma, ma realizzata dopo che Titta gli aveva riferito che le Br
erano disponibili a rilasciare l'ostaggio in cambio di una somma di
denaro.
Io non posso garantirvi che il denaro ci fosse veramente perchè la
fondazione Balzan mi è sempre apparsa come un grosso raggiro,
mentre il premio era una cosa seria.
Ribadisco che non sono in grado di dire chi furono i brigatisti che
avvicinarono il Titta. Nè se lo fecero direttamente.
Posso solo dire che Titta mi disse che era stato provocato un
contatto con le Br e che queste non volevano condurre la trattativa
con organi di polizia ufficiali o esponenti politici. In merito alle
mancate risposte di Andreotti, vi ricordo che non le diede neanche a
voce al Titta, facendogli ben intendere che Moro vivo non
interessava. >> (verbale s. i. Ristuccia del 18 aprile 2000)
Anche su questo delicatissimo punto, la testimonianza di Ristuccia è di
grande rilievo e schiude scenari sin qui insospettati o, al massimo,
sommariamente intuiti.
Si tratta, però, di un contributo assai complesso che assomma cose
direttamente conosciute dal teste a cose sapute di seconda e, talvolta, di
terza mano.
Quel che Ristuccia sa sulla vicenda deriverebbe dal racconto che glie ne
avrebbe fatto Titta che, a sua volta, in parte avrebbe riferito episodi
vissuti personalmente, in parte cose apprese da terzi.
Ovviamente, ad ogni passaggio occorre tener presente la possibilità di
distorsioni casuali o volute, di altrettanto accidentali o calcolate
reticenze, di errori di comprensione o di ricordo.
Non sarà, dunque inutile isolare ogni singola informazione,
collocandola in una griglia costruita sulla base del grado di vicinanza
alla fonte primaria. Otterremo, così, questi gruppi di dati:
A) Notizie conosciute personalmente da Ristuccia :
1A- lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della Duchessa doveva trovarsi
il cadavere di Moro, il Titta mi disse in tempo reale che si trattava di una
"bufala"
2A- venni informato da Titta che il Presidente della Dc correva seri rischi di
sequestro.
3A- Ero a conoscenza dell'iniziativa di Zucca. Non fu un'attività autonoma, ma
realizzata dopo che Titta gli aveva riferito che le Br erano disponibili a rilasciare
l'ostaggio in cambio di una somma di denaro.
B) Notizie apprese da Titta conosciute personalmente dallo stesso Titta
1B- Titta mi accennò che erano stati contattati per adoperarsi per la liberazione
di Moro
2B- Titta mi disse successivamente che erano stati contattati per la liberazione
di Cirillo
3B- Titta mi disse di essersi occupato anche del caso Dozier
4B- Mi disse addirittura di aver avuto contatti con appartenenti alle Brigate
Rosse
5B- Mi disse che i brigatisti contattati avevano espresso sfiducia verso l'Arma
dei Carabinieri e la Dc.
6B- Mi disse che gli uomini delle Br con cui erano entrati in contatto, non
erano riusciti a trovare gli interlocutori adatti e non si fidavano delle Istituzioni.
7B- Titta sosteneva di aver parlato di ciò con Cossiga e con l'Onorevole
Andreotti
8B- Titta riferì ad Andreotti e Cossiga il luogo dove era tenuto prigioniero Moro
9B-Titta mi disse che, alla richiesta di poter intervenire su via Gradoli, ricevette
un secco diniego da Andreotti
10B-Andreotti gli fece capire che "Moro vivo non serve più a nessuno"
11B- Titta mi disse che era stato provocato un contatto con le Br
C) Notizie apprese da Titta e che questi avrebbe appreso da altri
1-CTitta mi disse di sapere che Moro era detenuto in via Gradoli e di averlo
saputo direttamente dalle Brigate Rosse.
D- Notizie di cui Ristuccia ammette di avere una conoscenza limitata o
difettosa:
1D-Non so dirvi come Titta entrò in contatto con le Br,
2D- Io non posso garantirvi che il denaro per la liberazione di Moro ci fosse
veramente perchè la fondazione Balzan mi è sempre apparsa come un grosso
raggiro
3D- non sono in grado di dire chi furono i brigatisti che avvicinarono il Titta.
4D- non sono in grado di dire se i brigatisti abbiano avvicinato direttamente
Titta.
Prima di passare in rassegna ogni singola affermazione, ci sembra di
dover affrontare due problemi preliminari:
a) chi ha trovato chi? E' Titta che ha trovato le Br o queste che hanno
trovato Titta?
b) con chi ha parlato Titta, con i capi delle Br (per intenderci: con Moretti
o un suo rappresentante) o con dei dissidenti?
Ristuccia, dome abbiamo visto, dichiara di non sapere nè come Titta
sarebbe giunto alle Br (o queste a quello) nè chi fossero i brigatisti con
cui avvenne il contatto.
Tuttavia, per quanto attiene al primo punto, il senso delle dichiarazioni
di Ristuccia va nel senso da Titta alle Br ("fu provocato un contatto con le Br
"). D'altra parte, considerato che Titta, all'epoca, era un emerito
sconosciuto, non si comprende nè come nè perchè le Br lo avrebbero
dovuto cercare, a meno che una precisa indicazione in questo senso non
sia venuta personalmente da Aldo Moro che, alla ricerca di un canale
efficace di comunicazione con il governo, avrebbe indicato un nome del
quale avrebbe potuto avere memoria quantomeno dai tempi del
negoziato con i libici. Si tratta di una soluzione possibilissima, ma,
ripetiamo, le dichiarazioni di Ristuccia sembrano andare in ssenso
opposto.
Ma, se accettiamo l'idea che sia stato Titta a raggiungere le Br,
dobbiamo ricordare che, sino ad oggi, non si sa di alcun organismo
statale che sia riuscito, nell'immediatezza del rapimento del Presidente
della Dc, a rintracciare dirigenti delle Br, tanto per arrestarli, quanto per
avviare una qualche trattativa. Quantomeno, questa è la tesi ufficiale
sostenuta, ancor oggi, da ciascuno degli apparati di polizia ed
informativi.
E' interessante notare che quanto non sarebbe riuscito a Polizia,
Carabinieri, servizio militare ecc; riuscì, invece, al Noto Servizio.
Abbiamo già esposto il dubbio che l'Anello disponesse di uno o più
infiltrati nella colonna milanese delle Br. Ad avvalorare questa ipotesi c'è
anche un particolare: se davvero Titta ha preso contatto con dissidenti
delle Br, difficilmente questo può essere avvenuto per caso: è segno che
già sapeva della loro posizione critica, cosa che può essergli stata riferita
solo da un informatore interno al gruppo. Più avanti svolgeremo qualche
considerazione sul possibile significato dell'espressione "fu provocato un
contatto ", ora affrontiamo l'altro problema.
Ristuccia dice di non sapere chi fossero gli interlocutori di Titta, ma
tutto il suo racconto propende fortemente per l'ipotesi che si trattasse di
dissidenti e non dell'ala, per così dire, ufficiale dell'organizzazione. Si
tratta di una ipotesi possibile, ma che non ci persuade affatto, per questa
serie di motivi:
a) gli unici dissensi interni alle Br durante il caso Moro, di cui si sa,
sono quelli fra la Direzione strategica e il duo Morucci-Faranda che,
però, si sarebbe manifestato solo verso la metà di aprile, mentre il
contatto di Titta sembrerebbe precedente. Inoltre, Morucci e Faranda
facevano parte della colonna romana e non di quella milanese: un
problema in più per Titta che operava principalmente a Milano.
b) fallita la trattativa, che fine hanno fatto questi dissidenti? Sono
stati fra i primi pentiti, come Peci? Improbabile: il fenomeno del
pentitismo fu gestito quasi totalmente dai carabinieri di Dalla Chiesa ed
abbiamo visto che questi "dissidenti" avrebbero dichiarato a Titta di non
fidarsi dei carabinieri. In secondo luogo, il fenomeno del pentitismo si
manifesta un po' più in là nel tempo.
c) i "dissidenti" avrebbero dovuto sapere dove era tenuto Moro,
ma, a conoscere questo dato, nell'organizzazione, erano pochissimi.
d) se il contatto con le Br "fu provocato", si immagina, attraverso
qualche segnale, è chiaro che tale segnale era rivolto alle Br in quanto tali
e non ad una eventuale fascia dissidente della quale, peraltro, nessuno
sapeva nulla (salvo l'ipotesi appena esposta dell'infiltrato). Ma, allora,
come mai a prendere contatto sarebbero stati i dissidenti e non i
morettiani?
e) come avrebbero fatto i "dissidenti" ad appurare l' effettiva
qualità di chi li avvicinava?
f) se di "dissidenti" si è trattato, come mei nessun pentito o
dissociato delle Br ha rievocato quel precedente?
Non mancano, nel racconto di Ristuccia, singoli elementi a parziale
convalida della tesi dei "dissidenti" (ne parlereno nel corso dell'esame
delle singole affermazioni), ma, come si vede, gli elementi di dubbio
prevalgono.
Le stesse considerazioni sin qui svolte diventano argomenti a favore
della tesi che il contatto possa essere avvenuto con gli esponenti
"ufficiali" delle Br, più avanti vedremo per quali ragioni la tesi dei
"dissidenti" possa essere preferita da Ristuccia. Veniamo ora all'esame
dei singoli punti.
1A- Lago della Duchessa :
Titta aveva detto, prima della smentita delle Br, che la notizia era falsa e
Ristuccia, in poche ore ebbe la conferma della giustezza
dell'informazione dai noti sviluppi della vicenda. Dunque -se il ricordo
del teste è esatto- Titta conosceva in anticipo l'esito della vicenda e ciò,
escludendo che egli avesse facoltà divinatorie, non può significare altro
che egli possa averlo saputo:
a) dal Sismi o altro organismo similare, che, pur avendo correttamente
valutato l'infondatezza della notizia, stava al gioco per ragioni da
chiarirsi
b) dagli stessi autori del falso comunicato
c) da un infiltrato del Noto Servizio nelle Br
d) da un interlocutore delle Br prontamente sentito, non appena appresa
la notizia del comunicato.
Tanto nel caso dell'infiltrato quanto in quello dell'interlocutore, doveva
trattarsi di persona inserita ad un livello abbastanza alto per sapere in
tempo abbastanza breve che il comunicato non apparteneva
all'organizzazione.
2A- Conoscenza anticipata del sequestro.
Sempre stando alle informazioni date da Ristuccia, valgono
considerazioni analoghe al punto precedente: Titta può aver saputo della
notizia in uno di questi modi:
a) dal Sismi: è noto che sin dal 16 febbraio, un detenuto nel carcere di
Matera -tal Senatore- aveva informato il centro Cs di zona del progetto
di rapimento ai danni del presidente della Dc.
Il Sismi, si era poi giustificato dicendo che, data la situazione di
confusione seguita alla riforma del servizio, l'informativa era giunta solo
il 16 marzo -troppo tardi- alla direzione del servizio.
Potrebbe, invece, essere accaduto che la notizia fosse giunta in tempo
ed era stata oggetto di discussioni, attraverso le quali sarebbe filtrata
sino al contiguo ambiente del Noto Servizio. Resta da capire, a questo
punto, perchè, tanto il Sismi, quanto il Noto Servizio non abbiano
saputo o voluto impedire il sequestro
b) da un ulteriore servizio informativo italiano o straniero -
presumibilmente occidentale-: valgono le considerazioni appena svolte
c) da un infiltrato del Noto servizio nelle Br che, successivamente,
sarebbe stato lo strumento attraverso il quale entrare in contatto con le
Br. Nel qual caso, c'è da capire quale uso abbia fatto dell'informazione il
Noto Servizio (Ha avvisato il servizio militare? L'autorità politica di
riferimento? I servizi americani? Ha tenuto tutto per sé?)
3A- L' iniziativa di Zucca.
Ristuccia può aver appreso il fatto direttamente da Zucca, quanto da
Titta (fa poca differenza), mentre non si ha ragione di ritetenere che
possa averlo appreso da altri: in ogni caso, si è trattato di una notizia
conosciuta di prima mano ed in tempo reale.
E' fuori discussione che effettivamente padre Zucca avrebbe raccolto
una forte cifra di denaro per trattare con le Br: la notizia venne data
dall'"Espresso" già il 26 maggio 1978 -sia pure facendo cenno ad un
brigatista presentatosi al confessionale di Padre Zucca e senza alcun
cenno a Titta- precisando che era stata raccolta la più che rispettabile
cifra di 50 miliardi. Successivamente essa veniva confermata dalla nota
nr. xx/909 del 21 settembre 1978 del centro Sisde di Milano e dalla nota
nr. 3/3854 del 2 febbraio 1979 diretta allo stesso centro.
Ma, se l'esistenza del tentativo è fuori discussione, meno scontata
appare la descrizione del suo svolgimento.
Innanzitutto, lascia fortemente perplessi il fatto che le Br fossero
disponibili a concludere l'operazione per denaro, così come Titta avrebbe
fatto intendere ai suoi sodali.
Una simile soluzione avrebbe svuotato di ogni significato politico il
rapimento e, peraltro,se davvero le Br erano disposte a liberare Moro per
del denaro, avrebbero potuto rivolgersi alla famiglia che (per quanto 50
miliardi del tempo fossero una cifra di tutto rispetto), non avrebbe
avuto difficoltà a reperire la cifra fra amici ed estimatori, o rivolgendosi
alla Santa Sede. Questo avrebbe in radice eliminato il problema della
trattativa con lo Stato. Soprattutto, se le Br erano davvero interessate a
chiudere il sequestro per denaro, non si capisce perchè poi abbiano
mutato parere ed abbiano deciso di uccidere l'ostaggio. Forse 50 miliardi
erano pochi? O forse il denaro era solo una voce "aggiuntiva" e la
trattativa è naufragata su altro?
C'é, però, da considerare la variante dei "dissidenti": i 50 miliardi erano
diretti a loro in cambio della rivelazione del posto in cui era tenuto
Moro, in modo da farlo liberare, poi la cosa sarebbe andata a male
perchè gli organi di polizia -o forse le autorità politiche competenti,
come Ristuccia afferma- non erano interessate alla cosa. Questo è un
elemento a favore della tesi dei "dissidenti". Però, questo presuppone che
questi eventuali dissidenti sapessero dove effettivamente Moro era
detenuto, cosa possibile ma molto improbabile. In secondo luogo, non si
capisce come mai il tentativo non sia stato fatto sul versante della
famiglia (che, invece, sembra essere stata tenuta all'oscuro di tutto).
Infine, il Noto Servizio avrebbe avuto diversi altri modi per gestire la
notizia sia per costringere chi di dovere ad intervenire, sia per tentare
una sortita che liberasse Moro (avrebbero avuto problemi Titta o Tom
Ponzi, a reclutare una squadra di personale addestrato ai massimi livelli
professionali, per tentare una irruzione?).
Ma, soprattutto, non si capisce per quale motivo il Noto Servizio e
circonvicini, avessero tanto interesse a salvare il presidente della Dc, da
mettersi in contrasto con le autorità politiche di riferimento.
Moro era stato il massimo artefice di quel ciclo politico di apertura al
Pci, contro il quale Zucca, Battaini, Titta, De Carolis e gli altri si erano
costantemente battuti, prima appoggiando le correnti di destra della Dc
e poi varando l'operazione Ppi (almeno stando alle dichiarazioni
formali), per quale motivo avrebbero dovuto sentire così acutamente la
mancanza del celebre politico pugliese? Nè pare che l'ambiente fosse
quello più ricettivo a scrupoli di ordine umanitario...
Dunque, la somma è stata raccolta ed il tentativo è stato fatto, ma la
motivazione, è forse stata diversa: non era sulla vita di Moro,
probabilmente, che si stava trattando, ma su altro. Torneremo più avanti
sul punto.
1B- Titta mi accennò che erano stati contattati per adoperarsi per la
liberazione di Moro
Notizia inverificabile anche per la sua genericità: chi contattò il Noto
Servizio per il caso Moro? Autorità politiche? La Cia? Il Sismi? La
famiglia per qualche tramite? La Dc?
2B- Titta e il caso Cirillo
Cosa vera e già abbastanza nota, cui il racconto di Ristuccia non
aggiunge nulla di nuovo.
3B- Titta e il caso Dozier
Di questo abbiamo già fatto cenno.
4B- Titta ed i contatti con appartenenti alle Brigate Rosse.
E' questo il punto più importante e delicato di tutte le dichiarazioni di
Ristuccia.
Sin qui le Br hanno sempre smentito di aver avuto altri contatti oltre
quelli indirettamente tessuti, per il tramite di alcuni esponenti
dell'Autonomia romana (Pace e Piperno), con il Psi.
Altrettanto le massime autorità istituzionali del tempo (dall'ex
Presidente del Consiglio Andreotti all'ex ministro dell'Interno Cossiga)
hanno sistematicamente smentito -sia in sede giudiziaria, che
parlamentare o giornalistica- che vi siano stati, per quanto a loro
conoscenza, contatti con le Br diversi da quelli citati.
Se, invece, emergesse che tali contatti vi furono e che a gestirli non fu
neppure uno degli apparati ufficiali, o la Dc o qualche organismo
umanitario, ma un servizio segreto occulto e manifestamente illegale,
questo fornirebbe una chiave di lettura completamente diversa
dell'accaduto e sarebbe assai difficilmente spiegabile da chi, sinora, ha
sostenuto la tesi opposta.
In particolare, risulterebbe assai imbarazzante, tanto per le Br quanto
per gli uomini delle istituzioni, ammettere il tacito accordo nel negarlo.
Si tratterebbe di una solidarietà difficile da ammettere che richiama alla
nostra mente questo passaggio del discorso di Curcio in ricordo del suo
amico Mauro Rostagno:
<< Perchè ci sono tante storie di questo paese che vengono taciute e
non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio: come Piazza
Fontana, come Calabresi, che sono andate in certi modi e che per
ventura della vita nessuno può più dire come sono realmente andate,
sorta di complicità tra noi e i poteri che impediscono ai poteri e a noi
di dire cosa è veramente successo>>
E, dunque, occorre in primo luogo verificare se vi siano riscontri al
discorso di Ristuccia.
In primo luogo, ci sembra il caso di richiamare un documento già usato
nella relazione riassuntiva delle risultanze sul Noto Servizio, che questo
ctu consegnò a codesta Ag in data 31 ottobre 2000.
Si tratta della conclusione dell'appunto del 24 maggio 1979:
<<... Il viaggio del geom. Titta a Napoli è da mettere in relazione
anche alle continue indagini sulla vicenda Moro. Egli si è incontrato
con quel dott. Lupo (di cui alla segnalazione dell’8 corrente) che fa
parte del gruppo dirigente Nato. Va a questo proposito ricordato che
dieci mesi addietro – credo nel luglio 1978 – il citato Titta ebbe a
riferire ad un gruppo ristretto di collaboratori milanesi (e la notizia
fu tempestivamente trasmessa) che secondo le indagini condotte dal
suo gruppo, l’on. Moro era stato tenuto prigioniero in un locale
dell’Ambasciata Cecoslovacca a Roma. La notizia viene ora
confermata da una pubblicazione che ha visto la luce negli Stati Uniti
e che è stata, sia pure senza molta evidenza, riportata da alcuni
giornali italiani. La fonte americana è vicina alla Cia e al “Servizio
Informazioni”.
Si spera, entro breve tempo di conoscere maggiori particolari.>>
(Nota 24 maggio 1979. All. 32)
Dunque, effettivamente Titta avrebbe lavorato sul caso Moro, il teste
Ristuccia non poteva sapere dell'esistenza di questo appunto
nell'archivio della Dcpp. Per quanto riguarda il riferimento
all'ambasciata cecoslocavva, si tratta di un antico depistaggio comparso
sul primo numero di "Op" e -come abbiamo avuto modo di commentare
nella rel. 43- probabilmente originato da Enzo Salcioli.
Per quanto riguarda il dott. Lupo, come è noto a codesta Ag, gli
accertamenti di Pg non sono riusciti ad identificarlo. La documentazione
acquisita in questa occasione ci segnala che anche la questura
partenopea, a suo tempo, non riuscì a identificare il personaggio:
<< Infatti, il dott. Lupo tra i dirigenti e tutto il personale, operante
negli ambienti Nato di questa città, è sconosciuto – come lo sono i
fratelli Titta nell’ambito locale del partito in oggetto indicato.>>
(Lettera del Questore di Napoli del 1° maggio 1980 n. 1980 Digos,
cat. A.4. All. 32)
Dobbiamo, però, dire che in data 12 febbraio 1976 (All. 31, documento
già citato) la stessa Questura di Napoli, segnalando l'inaugurazione della
sede del Ppi, fra i dirigenti di quel partito indicava anche un tal Epifanio
Lupo. Sempre nella stessa area, segnaliamo anche -ma con scarsa
convinzione- il Nunzio Demetrio Lupo candidato a Roma nelle liste del
Nuovo Partito Popolare di Foligni.
Ma ci chiediamo, a questo punto, se abbia davvero senso cercare un
qualche signor Lupo che corrisponda a quello della informativa del 24
maggio 1979.
Innanzitutto, non riusciamo a capire cosa significhi l'espressione "che fa
parte del gruppo dirigente Nato ": la Nato ha suoi precisi organi, che non
hanno sede a Napoli e che hanno una composizione non segreta.
A Napoli, avevano sede, nei tardi anni settanta, il Cincsouth (comando
Nato per lo scacchiere meridionale dell'Alleanza) e il Cincusnaveur
(comando delle forze navali statunitensi in Europa, cui faceva
riferimento anche la 6° flotta normalmente all'ancora in quel porto),
successivamente i due comandi vennero assimilati.
A Bagnoli c'era (e c'è) una importante base di telecomunicazioni tanto
per la marina italiana, quanto per quella statunitense. Ma si tratta di
comandi militari che non hanno un "gruppo dirigente" composto anche
da civili. Ovviamente, fra i militari presenti vi abbondano quelli
appartenenti ai servizi di informazione e sicurezza (non solo della Cia,
ma anche del servizio informativo della Us Navy).
Pertanto, appare più probabile che Titta si sia incontrato con qualche
ufficiale della base, verosimilmente appartenente a qualche apparato di
sicurezza: infatti, non si capisce quale interesse avrebbe potuto avere un
qualsiasi comandante militare della base, alle indagini sul caso Moro. E'
altrettanto probabile che non si trattasse di un ufficiale italiano -nel qual
caso non si capisce perchè Titta avrebbe dovuto riferire a lui, piuttosto
che al Cs di Milano o alla direzione del Sismi, del Sisde o di qualsiasi
altro apparato di informazione che, ovviamente, non ha la sua sede
centrale a Napoli ma a Roma-.
Dunque un ufficiale, residente a Napoli o Bagnoli, appartenente ad un
servizio di informazioni, probabilmente non italiano. Ma, in questo caso,
Lupo potrebbe essere benissimo un nome di copertura, e perciò non
avrebbe, appunto, alcun senso cercare un signore con questo cognome
anagrafico. Questa circostanza richiama alla nostra mente un antico
verbale di interrogatorio di Roberto Sandalo:
<< Azzolini ebbe a confidare a Donat Cattin e Solimano che Moro,
avendo percepito la non disponibilità dello Stato a trattare con le Br,
aveva cominciato a tenere una linea di collaborazione, sperando che
fossero le Br a decidere la non esecuzione della condanna a morte. Lo
stesso Azzolini, a proposito della collaborazione di Moro, confidò a
Donat Cattin e a Solimano che Moro aveva parlato di presunte
complicità di non meglio identificati organi dello Stato in alcuni fatti
verificatisi negli anni precedenti. Moro avrebbe parlato di alcuni
scandali, della strage di Piazza Fontana, fornendo notizie più
dettagliate sui collegamenti tra la Cia ed alcuni personaggi del
mondo politico ed economico italiano. Moro parlò anche di un
ufficiale americano della Nato, abitante a Bagnoli, del quale Azzolini
diede elementi per la sua identificazione, parlò di una macchina
sportiva decappottabile in uso all'ufficiale e di altri elementi per la
sua identificazione, giungendo alla decisione di eliminarlo. Ciò
sarebbe dovuto avvenire nell'ottobre del 1978. Senonché il timore di
rappresaglia da parte della Cia nei confronti dei militanti di Pl a
seguito dell'uccisione del predetto ufficiale, indusse l'esecutivo di Pl
a recedere da tale progetto. >> (Interrogatorio di R. Sandalo del 10
dicembre 1980 nel carcere di Piacenza. G.I.F. Imposimato, cart. VI,
contro Piperno. Corte d'Assise di Roma. )
Il passo merita qualche riflessione: si fa cenno a cose che Moro avrebbe
detto che solo parzialmente possono trovare riscontro nel suo
memoriale. Ad esempio, non trova collocazione quella allusione alla
"complicità di organi dello Stato in alcuni fatti verificatisi negli anni
precedenti" (anche se si tratta di un riferimento troppo generico), invece,
in tutto il memoriale si accenna a contatti fra gli americani (per la verità
della Cia si parla assai poco) ed esponenti del mondo politico, ma non di
rapporti fra la Cia ed esponenti del mondo economico. Ancor più
"nuovo", rispetto al memoriale, appare il riferimento a quell'ufficiale
americano abitante a Bagnoli. Che Moro fosse al corrente della presenza
e del particolare ruolo di un ufficiale americano di stanza a Bagnoli è
possibilissimo, soprattutto se si trattava di un ufficiale di grado elevato
e/o impegnato in operazioni di particolare rilievo; ma che conoscesse
anche che tipo di auto usasse appare meno convincente. Ci sembra più
probabile che Moro possa aver dato qualche indicazione sull'ufficiale (o
anche, più semplicemente, sulla struttura da lui diretta) e che a ciò abbia
fatto seguito una qualche investigazione delle Br, magari seguendo
l'ufficiale.
E' da capire, invece, perchè le Br avessero deciso di uccidere
quell'ufficiale e perchè tale progetto sembrasse così urgente da
contravvenire ad ogni regola della clandestinità rivolgendosi ad un'altra
organizzazione per commissionarne l'assassinio. Notiamo, per inciso,
che si trattaterebbe dell'unico caso in cui le Br avrebbero fatto ricorso ad
una prassi del genere.
Per concludere il discorso relativo ai riscontri alle dichiarazioni di
Ristuccia, ci sembra che un indizio -per quanto indiretto- possa essere
costituito dalla presenza di Titta nel caso Cirillo: perchè il servizio
militare decise di associarlo alla strana e maleodorante trattativa? Il
Sismi non aveva certamente bisogno di Titta per andare a cercare
Raffaele Cutolo nel carcere di Ascoli e, dunque, non si vede quale fosse il
ruolo di un personaggio che, presentato come membro del servizio, di
fatto non lo era. Una prima ipotesi è che, per il tramite del Ppi o di
personaggi come Gangemi, Titta potesse godere di una qualche
particolare entratura presso gli ambienti cutoliani. La seconda è che Titta
poteva vantare qualche precedente di trattativa con le Br; in altri termini,
che si trattasse della prosecuzione di un discorso già iniziato e -forse-
interrotto. La terza è che Titta fosse utile in entrambe le direzioni.
5B- La sfiducia dei brigatisti verso l'Arma dei Carabinieri e la Dc.
Sembrerebbe di capire che i brigatisti avrebbero avuto altri contatti con
Dc e carabinieri e ne siano restati delusi.
In ogni caso, il particolare incuriosisce anche per un altro aspetto: a
quanto pare, Titta riscuoteva, invece, l'apprezzamento dei suoi
interlocutori, e qui resta da capire come abbia fatto Titta (che
apparentemente non era altro che un geometra in perenne affanno
economico) presentarsi alle Br. Gli avrà detto di rappresentare un
servizio segreto clandestino? E, in questo caso, come avrà fatto a
dimostrare di non essere un mitomane, un giornalista in cerca di scoop,
un truffatore che fortuitamente era riuscito ad individuare un
rappresentante delle Br? Quali prove avrà fornito dell'esistenza del suo
servizio? O, forse, si è presentato a nome del Sismi? Ma, in questo caso, o
il Sismi era d'accordo, o Titta si esponeva in ogni momento al rischio che
il Sismi, raggiunte in qualche modo le Br, lo smentisse. Quel che sarebbe
stato più che imbarazzante, considerata la scarsa tolleranza dei terroristi.
7B- Titta sosteneva di aver parlato di ciò con Cossiga e con l'Onorevole
Andreotti
Ovviamente, di questo non abbiamo alcun riscontro.
8B- Titta riferì ad Andreotti e Cossiga il luogo dove era tenuto
prigioniero Moro
Idem come sopra.
9B-Titta disse che, alla richiesta di poter intervenire su via Gradoli,
ricevette un secco diniego da Andreotti
Idem
10B-Andreotti gli fece capire che "Moro vivo non serve più a nessuno"
Idem, salvo il fatto che abbiamo troppa considerazione per l'on.
Andreotti per pensare che possa aver fatto una simile sciocchezza
comportandosi così rozzamente. Pur prendendo per buona l'idea che
Andreotti operasse deliberatamente per un esito luttuoso della vicenda,
sarebbe stato più plausibile se avesse cercato di sostituire Titta con altri
intermediari di cui si fidava maggiormente, o se avesse fatto fallire la
trattativa adducendo ragioni politiche. Tutto, ma non una ammissione
così pericolosa, per quanto non verbalizzata.
11B- Titta mi disse che era stato provocato un contatto con le Br
Frase oscura ma interessante. Dunque, questo conferma sarebbe stato
Titta ad avvicinare le Br e non il contrario. E' interessante l'espressione
"era stato provocato un contatto": appunto, dato che, immaginiamo, in
circostanze del genere non sia possibile presentarsi al proprio
interlocutore dicendo "Adalberto Titta, direttore operativo dell'Anello,
piacere. Sono qui per quella faccenda riguardante l'on. Moro". Dunque è
credibile che Titta si sia fatto precedere da qualche segno inequivocabile
che garantisse la sua qualità di effettivo tramite con il sistema politico e,
nello stesso tempo, un segnale che inducesse le Br a raccogliere l'invito
evitando atteggiamenti troppo indisponibili.
Dunque, l'espressione "era stato provocato un contatto" fa pensare ad
una operazione consistente nell'emettere un segnale comprensibile solo
dal destinatario, il quale, a sua volta, risponde con un altro segnale di
disponibilità, a seguito del quale l'incontro può avvenire.
C'è un episodio che presenta aspetti convergenti con questa dinamica.
Beninteso: si tratta solo di una suggestione, poco più di un vago
sospetto, ma non privo di qualche sostegno: la sera del 18 marzo 1978 (a
meno di sessanta ore di distanza dal rapimento di Moro) venivano uccisi
i due giovani Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, del Centro Sociale
Leoncavallo. Tinelli, abitava esattamente di fronte alla principale base
milanese delle Br -in via Montenevoso- che verrà scoperta in ottobre,
peraltro, in modo tutt'altro che chiaro.
Pochi giorni dopo, le Br emisero il comunicato n° 2: un documento
insolito, infatti le Br non hanno mai fatto (nè prima nè dopo) comunicati
per commemorare caduti che non appartenessero alla propria
organizzazione, mentre in questo caso il testo si conclude con la frase
"Onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli assassinati dai sicari del
regime." Si badi che, al momento (e, per la verità, ancora oggi), l'ipotesi di
un omicidio politico -data per scontata dal comunicato Br- non era
affatto l'unica nè quella ritenuta più probabile; infatti, i due giovani
erano impegnati, insieme agli altri militanti del Leoncavallo, nella
stesura di un libro bianco sulla diffusione dell'eroina a Milano e, i più,
pensarono che la ragione dell'omicidio fosse da ricercare in questa
direzione.
Sorge il dubbio che l'attentato ai due giovani potrebbe essere stato un
messaggio diretto alle Br, per far comprendere che qualcuno sapeva
dove fossero le basi dell'organizzazione ed era disposto a ricorrere a
forme di controterrorismo sul modello dell' "AAA" (Alleanza
Anticomunista Argentina). Sul punto rinviamo alla relazione di perizia
di questo stesso Ctu ad dott. D'Ambruoso nell'ambito del processo
riguardante il duplice omicidio "Tinelli-Iannucci".
1-C Titta mi disse di sapere che Moro era detenuto in via Gradoli e di
averlo saputo direttamente dalle Brigate Rosse.
Nulla, nelle ripetute inchieste sul caso, autorizza a credere che Moro
sia stato mai tenuto in via Gradoli, anzi diversi elementi (l'appartamento
non era attrezzato per la bisogna, la sua ubicazione era assolutamente
quanto di meno adatto ecc.) portano ad escludere questa eventualità.
D'altra parte, se effettivamente gli interlocutori di Titta gli parlarono di
via Gradoli (ovviamente prima della scoperta del covo) questo vuol dire
che:
a) gli interlocutori in questione non erano le Br ma alcuni loro dissidenti
(infatti, non avrebbe avuto senso che un dirigente delle Br, ad es.
Moretti, dicesse dove era detenuto Moro, neppure nel caso di un esito
positivo della trattativa, per l'ovvia ragione che rivelare il luogo
significava esporsi ad un immediato bliz)
b) che si trattava, probabilmente, degli stessi che, qualche tempo dopo,
(visto che nessuno si decideva ad intervenire), decidevano di lasciare
aperto il rubinetto della doccia, in modo da far accorrere i pompieri e far
scoprire il covo.
Questo è il secondo punto a conferma della tesi dei "dissidenti".
Come si sa, la scoperta di via Gradoli resta uno dei punti più oscuri di
tutto il caso Moro, quanto detto da Ristuccia introdurrebbe un ulteriore
elemento di complicazione della vicenda: qualcuno, già da prima del 18
aprile, cercava di attirare l'attenzione su via Gradoli. Dobbiamo pensare
che tutto questo abbia qualcosa a che fare con una celebre seduta
spiritica? Può darsi.
Allo stato delle conoscenze non è possibile dare una risposta a questi
interrogativi.
Di conseguenza, sembrano opportuni ulteriori approfondimenti.
13) Qualche riflessione conclusiva sul Caso Moro ed il Noto Servizio.
Ci sembra, a questo punto, di poter dire che Ristuccia porta nuovi
elementi di conoscenza sul caso Moro e di notevole importanza, ma che
il suo racconto abbia notevoli zone oscure, ambigue o inesatte che vanno
chiarite e rettificate. In particolare, la nostra critica si è incentrata sulle
motivazioni reali del tentativo di Titta e Zucca.
Per orientarci è opportuno risolvere un problema preliminare: di cosa
parlò Moro ai suoi carcerieri.
In merito, noi disponiano solo di tre tipi di documenti:
a- il memoriale di Montenevoso trovato il 1° ottobre 1978
b- il memoriale di via Montenevoso rinvenuto nell'ottobre del 1990
c- le lettere inviate da Moro nel periodo della prigionia.
Come è noto, non è affatto sicuro che il testo del cd memoriale (cioé la
trascrizione delle risposte che Moro ha fornito alle domande dei suoi
carcerieri) sia completo -anzi, vi sono fondati motivi per sospettare che,
dopo le prime due rate del ritrovamento, possa essercene una terza), nè
si può essere sicuri che i testi scritti esauriscano tutto quello che Moro ha
detto alle Br: infatti, nessuno ci garantisce che ogni singola dichiarazione
dello statista sia stata verbalizzata ed è, anzi, ragionevole supporre che,
come in tutti i processi di questo mondo, regolari o no, una parte delle
sue dichiarazioni sia avvenuta -per così dire- fuori verbale.
Ad esempio, dalle dichiarazioni di Azzolini, riportate da sandalo nella
deposizione che abbiamo citato poco prima, si deduce che Moro possa
aver detto anche altro. Tuttavia, sin quando qualcuno degli uomini che
custodirono Moro nella sua prigionia non ci dirà qualcosa in proposito,
noi non possiamo sapere nulla di queste eventuali dichiarazioni.
Conviene, dunque, centrare l'esame sui documenti a nostra disposizione.
Innanzitutto, conviene rileggere alcune parti del memoriale in cui Moro
parla della strategia antiguerriglia della Nato (citiamo dall'edizione
curata da F.M. Biscione "Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via
Montenevoso a Milano" Coletti ed. Roma 1993):
<< Fin quando, essendo Ministro degli Esteri, avevo un minimo di
conoscenza della organizzazione militare alleata, nessuna particolare
enfasi era posta sull'attività antiguerriglia che la Nato avrebbe
potuto, in certe ciscostanze, dispiegare. Ciò non vuol dire che non sia
stato previsto un addestramento alla guerriglia da condurre contro
eventuali forze avversarie occupanti ed alla controguerriglia in
difesa delle forze nazionali. La sensazione di questo tipo di
armamento ed impiego leggero si ha già agevolmente nelle riviste
(cui assistono anche addetti militari di altri paesi).
La domanda, cui si risponde, tende a prospettare una evoluzione
della Nato che tenderebbe a volgersi verso una strategia
antiguerriglia.
Ovviamente ciò sarebbe dovuto venire in evidenza con l'acuirsi del
fenomeno.
Però, conoscendo un poco i tempi e i modo di consultazione,
pianificazione, attuazione di eventuali misure militari, si può
escludere che un enorme organismo come la Nato abbia potuto
mettere a punto in un tempo così limitato efficaci organismi a tale
scopo e per giunta eccedenti le finalità dell'alleanza che implica
grandi organismi operativi.
Con ciò non si intende escludere che talune cose abbiano potuto
cominciare ad essere apprestate in più appropriate sedi. E ciò vedo
possibile non nei complicati meccanismi Nato, bensì nella forma di
collaborazione intereuropea che può svolgersi in forma libera,
semplice, efficace, selettiva. Dico, appunto, collaborazione
intergovernativa e non intercomunitaria, pensando alla Svizzera che
ha fatto qualcosa, essendo neutrale e perciò fuori della Comunità.
Mentre nella Comunità, per la sua forma di neutralità non
istituzionale, ha fatto qualcosa in questo campo l'Irlanda.
Circa l'ultimo quesito sono convinto che tutto in Europa, in campo
militare, è a guida americana, mentre può immaginarsi una certa
presenza tedesca, quasi per delega, nel settore dei Servizi segreti. >>
(p.90)
All'epoca del secondo rinvenimento in via Montenevoso, quasi tutti
colsero questo passaggio come una allusione a Gladio, ma, in realtà,
Moro parla di diverse cose:
a- di una struttura per la guerrigli antinvasione
b- di una struttura per la controguerriglia
c- delle misure antiterrorismo
l'allusione alla struttura italiana di Stay behind si può cogliere nel primo
punto ( guerriglia da dispiegare in caso di invasione del paese) ma
Gladio non ha mai avuto compiti di contgroguerriglia o antiterrorismo e
non è mai sfilata in rivista, come Moro dice nel suo memoriale.
Dal testo di Moro, desumiamo che le Brigate Rosse -convinte che la
presenza di formazioni armatiste come la Raf, l'Eta, l'Ira e le stesse Br,
avessero una rilevanza strategica maggiore di quello che in effetti non
fosse- chiedevano a Moro se vi fosse una svolta strategica nella Nato in
questo senso e quali misure antiguerriglia comportasse, evidentemente
allo scopo di acquisire informazioni utili a proteggere l'organizzazione
da quelle misure. Moro -ed oggi sappiamo che la risposta era
corrispondente al vero- replicava dicendo che la sede per tali decisioni
non era la Nato, struttura estremamente formalizzata dal funzionamento
troppo complicato e lento, ma la collaborazione intereuropea che, invece
aveva carattere altamente informale: il cenno era al Club di Berna (cui,
appunto, aderiva anche la Svizzera) ed al "Gruppo di Trevi". Basti
leggere i verbali delle riunioni di questi organismi per verificare
l'esattezza delle informazioni di Moro (sul punto si veda la terza
relazione di perizia di questo stesso ctu all'Ag milanese). In questo
contesto, il discorso principale riguarda, dunque, le attività di
controinsorgenza (competenza che, dicevamo, non è propria di Gladio
che, al contrario, aveva compiti di insorgenza in caso di invasione -sulla
rilevante differenza fra i due concetti, si veda la rel. 15 a codesta Ag) che,
ovviamente, vedono al primo posto la polizia ed i servizi di
informazione con competenze interne.
Il riferimento alle misure di controguerriglia interna (percepibili
osservando le sfilate militari di cui Moro dice) è probabilmente a corpi
specializzati come il Tuscania, il Comsubin o il Col Moschin. Il
riferimento ad attività antiguerriglia, come abbiamo appena detto, al
club di Berna ed al Gruppi di Trevi, ma potrebbe riguardare anche altre
attività di intelligence .
E' da notare, in questo contesto, la disponibilità di Moro a parlare di
argomenti abbastanza delicati, rivelando anche particolari coperti da
ovvia riservatezza.
Ma è da notare anche il carattere non sempre esplicito di tali
rivelazioni. Lo stile ostico e sfuggente di Moro è cosa troppo nota perchè
se ne debba dire in questa sede, ed è probabile che alla chiarezza non
abbia giovato neppure la trascrizione dal nastro registrato operata dai
brigatisti: non sembra che il testo sia stato poi rivisto da Moro, per cui è
possibile che, in alcuni brani, la trascrizione possa essere stata monca,
infedele o inesatta. E c'è da considerare anche lo stato d'animo di chi
rispondeva a quelle domande, che non doveva essere dei più sereni:
tutte ragioni facilmente intuibili, ma questo non migliora la nostra
capacità di decifrare sempre in modo esatto il senso delle affermazioni
contenute nel memoriale.
Ad esempio, poco chiaro è il passaggio relativo al caso Giannettini:
<< ... Mi ha fatto molta impressione il cd caso Giannettini, la
rivelazione improvvisa ed inusitata per la forma dell'intervista del
nome del collaboratore fascista del Sid, che, collegata con presumibili
insistenze dell'on. Mancini e con la difesa strenua fatta dal
parlamentrare socialista del generale Maletti, insistentemente
accusato al processo di Catanzaro, dà al caso il significato, invece che
di un primo atto liberatorio fatto dall'on. Andreotti di ogni
inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualcosa di
precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato, che
occupa ora i giudici di Catanzaro e di Milano. >> (pp. 48-9)
Difficile dire a cosa volesse alludere Moro con quel riferimento a
"qualcosa di precedente ecc.". Così come è difficile comprendere
l'insistenza di Moro sul terma della Germania e dei suoi servizi di
sicurezza: vi torna più volte, sia per dire che i servizi di sicurezza
tedeschi avevano, per l'Europa, una sorta di delega dagli americani, sia
per lamentare possibili pressioni "americane e tedesche" contro la
trattativa per la sua liberazione.
E' possibile che la trascrizione sia stata troppo sintetica ed abbia
eliminato elementi necessari alla comprensione del discorso, ma,
torniamo a dire, questo non risolve i nostri problemi. Fatta quuesta
premessa sulle difficoltà di interpretazione del testo, elenchiamo qui di
seguito gli elementi del memoriale che possano riguardare, per quanto
indirettamente, il Noto Servizio:
a- cenno al discorso di Forlani a La Spezia (p. 53) -lo stesso di cui al
documento "All'insegna della trama nera"-
b- accenno all'ipotesi di unificazione di tutti i servizi in uno o al
mantenimento di un sistema plurimo dei servizi di informazione e
sicurezza (p. 56)
c- il rapido accenno al caso Kappler (p. 95)
d- i ripetuti accenni all'on. De Carolis (p. 74, 79, 82, lettera all'on.
Dell'Andro del 29 aprile 1978)
A proposito del caso Kappler, ricordiamo che nel memoriale compare
un brevissimo cenno non particolarmente significativo, ma nel rapporto
del Ros del 10 settembre 2002, si fa riferimento ad un articolo
dell'"Europeo" -precedente alla scoperta del primo memoriale in via
Montenevoso- nel quale si sostiene che Moro avrebbe parlato con i
brigatisti del caso Kappler. La coincidenza fra le due cose farebbe
pensare che:
a- Moro abbia parlato del caso Kappler in modo ben più diffuso di
quello che si ricava dal memoriale (diversamente non avrebbe avuto
senso dire che "Moro ha parlato alle Br del caso Kappler")
b- che si sia trattato di "dichiarazioni fuori verbale" o riportare in modo
estremamente succinto nella trascrizione
c- che il giornalista aveva una fonte molto vicina alle Br o molto vicina a
Titta.
Dunque, non c'è la prova che Moro abbia parlato alle Br del Noto
Servizio, ma che, in diverse occasioni, ci è andato assai vicino. In
secondo luogo, abbiamo già detto che, nel caso siano state le Br a trovare
Titta -e non il contrario- questo molto probabilmente significa che
l'indicazione possa essere stata fornita dallo stesso Moro. Infine, se il
contatto è avvenuto fra Titta e le Br ufficiali, appare improbabile che
della cosa non sia stato detto nulla a Moro, quantomeno per valutare
l'attendibilità dell'interlocutore.
Come si vede ci sono più elementi per pensare che il Noto Servizio
possa essere stato uno degli argomenti di conversazione fra Moro ed i
ospiti.
D'altra parte, è acclarato che Moro toccò diversi argomenti assai
delicati nelle sue risposte, inoltre è nota la questione della sparizione
delle borse di documenti che il leader democristiano aveva con sè al
momento del rapimento e ci sono elementi per pensare che, tramite un
intermediario ancora non identificato, Moro abbia fatto giungere alle Br
anche documenti che erano nel suo studio di via Savoia e che è facile
immaginare come documenti di rilevante importanza e riservatezza.
Dunque, al di là della vita del politico pugliese, esisteva un altro
problema di non poco momento: sapere quali di segreti le Br erano
venute a conoscenza e che uso avrebbero potuto farne. Quello
dell'esistenza del Noto Servizio era uno di questi possibili segreti.
La Commissione Stragi, prima di concludere i suoi lavori, era
approdata ad una conclusione: che di trattative, forse, non ve ne era stata
una sola, ma due, la prima sulla vita dell'ostaggio, la seconda sulle sue
rivelazioni e documenti. Tale ipotesi sorgeva dopo una lunga serie di
audizioni, in buona parte deidicata alle circostanze assolutamente non
limpide della scoperta del covo di via Montenevoso, nell'ottobre del 1978
e dalla riflessione su alcuni aspetti mai spiegati del comportamento delle
Br. Infatti, per tutto la durata della prigionia di Moro, le Br
proclamarono ripetutamente la propria intenzione di rendere pubblici i
risultati dell'interrogatorio del loro prigioniero, ma, dopo la tragica
conclusione della vicenda, di quell'impegno non si fece più cenno e nulla
venne reso pubblico. Quello che emerse -il memoriale di Montenevoso-
fu la conseguenza di una irruzione dei Carabinieri, non una decisione
autonoma delle Br che, anzi, tacquero scrupolosamente di fronte alle
polemiche sulla completezza del testo, pur sapendo che ne esisteva
un'altra parte, quella che emergerà 12 anni dopo.
Non solo: le Br asserirono di aver distrutto sia i nastri degli
interrogatori, sia i documenti presi allo statista al momento del
rapimento. A giustificazione di tale incredibile comportamento, le Br
addussero sempre il fatto di non aver compreso l'importanza delle
rivelazioni di Moro, per cui, sembrandogli che non vi fosse nulla di
rilevante, avrebbero deciso di non rendere pubblico il materiale.
Ma, se anche la direzione brigatista fosse stata tanto sprovveduta da
non comprendere il peso politico delle affermazioni di Moro, qualche
sospetto in questo senso avrebbe potuto sorgere in seguito alle
polemiche sulla completezza del materiale, o negli anni a seguire, man
mano che il caso Moro diventava uno dei punti di scontro ricorrente fra
le diverse forze politiche, invece il silenzio dei brigatisti durò ininterrotto
anche dopo la scoperta della seconda stesura del memoriale, quella più
completa. Strano comportamento, che diventa stranissimo ove si
consideri che, se anche Moro si fosse limitato a raccontare la favola del
gatto con gli stivali, non ci sarebbe stato giornale, in Italia come in
Francia, Germania o Inghilterra, che non fosse disposto a sborsare cifre
molto rilevanti per venire in possesso di quel materiale: ebbene, come
mai una organizzazione terroristica in permanente ricerca di denaro ha
buttato via l'occasione di un guadagno così facile e lauto?
Ma la falsità delle dichiarazioni dei brigatisti, in materia, è così evidente
da non meritare alcun commento.
E, dunque, la tesi della doppia trattativa appare come una deduzione
assolutamente logica. Ci chiediamo, appunto, se non si sia trattato dello
strano negoziato con Titta e Zucca che, sembra assai più plausibile
vedere impegnati a riscattare nastri e documenti che non la vita di un
ostaggio che era un loro dichiarato avversario. E questo spiegherebbe
anche molti punti poco chiari delle deposizioni di Ristuccia che siamo
andati via via segnalando:
a- la trattativa aveva per oggetto il denaro non perchè riguardasse la
vita di Moro -e dunque il valore politico dell'azione- ma i nastri e i
documenti, dunque, un aspetto secondario -come dire uno scarto di
lavorazione- della vicenda, su cui le Br potevano ben trattare per denaro
b- la trattativa non si è conclusa con la liberazione di Moro, perchè non
era questo in discussione e non perchè essa sarebbe stata impedita dall'
"autorità politica", sia che si tratti di Andreotti che di Cossiga
c- e questo risolve anche il problema dell'assoluta implausibilità del
comportamento attribuito all'on. Andreotti
d- ovviamente la trattativa non è avvenuta con gli evanescenti e
misteriosi "dissidenti" che non avrebbero avuto alcun potere sulla
documentazione di Moro, così come avrebbero avuto ben scarse
probabilità di sapere il luogo di prigionia. Quella dei "dissidenti" ci
appare solo come una mediocre trovata per rendere plausibile l'idea di
una trattativa per denaro che le Br, in quanto tali, non avrebbero mai
accettato.
e- in questo senso va anche lo strano riferimento a via Gradoli che ci
sembra solo una pennellata di colore per dare un po' di smalto al tutto.
Ovviamente, parlare di una trattativa per liberare un uomo che rischia
di essere ucciso ha ben altra nobiltà che un volgare mercanteggiamento
su nastri e documenti. Se poi l'ostaggio è finito male e la trattativa -
apparentemente- è fallita, tanto meglio: non ci sono spiegazioni da dare.
Spiegazioni che, invece, diventano necessarie se parliamo di documenti,
lì dove non è affatto detto che la trattativa sia fallita.
14) Padre Enrico Zucca ed il Ppi.
Già nel giugno del giugno 1975, subito dopo le elezioni regionali che
avevano segnato una catastrofica sconfitta per la Dc, le fonti della
squadra 54 segnalavano l'irrequietezza negli ambienti democristiani
milanesi:
<< Negli ambienti della Democrazia Cristiana milanese si dice che
nei prossimi giorni sarà a Milano l’on. Andreotti per incontrare un
gruppetto di personaggi, anche non iscritti alla D.C., a lui
particolarmente fedeli. Questo gruppetto vorrebbe creare una nuova
organizzazione al lato della D.C., capace, in caso di elezioni
anticipate, politiche, di affrontare anche l’eventualità di una lista
separata della D.C. Si avranno tra qualche giorno maggiori
particolari.>> (Nota 24 giugno 1975. All. 1)
La notizia era rafforzata da una nuova informazione confidenziale del
18 luglio successivo (All. 695 della rel. 9):
<< In alcuni ambienti della dc milanese si sta sviluppando un
movimento favorevole alla costituzione di un secondo partito
cattolico. il centro di tale attività è stato posto nell'ufficio del dott.
Massimo Grassi alla Torre Velasca, il quale dice di essere stato
incaricato di svolgere tale azione dal ministro Andreotti. La prima di
una serie di riunioni è avvenuta la scorsa settimana, presenti una
trentina di personaggi, nessuno di grande spicco politico o
professionale. Tra essi vi sono elementi democristiani che hanno
fatto parte del gruppo del Servizio Informazioni, diretto in Italia
Settentrionale da Sigfrido Battaini. Il dott. Grassi, nella breve
relazione introduttiva, ha detto che al nuovo partito (che dovrebbe
chiamarsi "Movimento Democratico Popolare") aderirebbero, tra gli
altri, il gruppo di "Comunione e Liberazione" guidato da vice
sindaco Andrea Borruso.>>
La notizia provocava la consueta richiesta di chiarimenti alla locale
Questura che rispondeva:
<< In riferimento alla ministeriale su indicata con allegato un
appunto, si comunica che da accertamenti esperiti nulla è emerso
tuttora in merito alla ventilata costituzione di un secondo partito
cattolico.
…Fonte qualificata esclude categoricamente che nel predetto studio
si siano tenute riunioni per la formazione di nuovi raggruppamenti,
salvo, dopo le elezioni del 15 giugno scorso, qualche riunione di
corrente per analizzare i risultati elettorali.
In ogni caso, la stessa fonte smentisce anche la eventuale adesione
del gruppo di “ Comunione e Liberazione “ >> (Lettera del Questore
di Milano all'Isp. Gen. per l'Azione contro il Terrorismo del 3
ottobre 1975 prot. 01129/A3-A/UP div. 1° All. 36)
Come si vede, manca il liturgico "situazione attentamente seguita", ma
il rituale è quello di sempre.
Qualche notizia meno tranquillizzante giungeva da Napoli:
<< Di seguito alla lettera di egual numero ed oggetto dell’1 ottobre
1975, si comunica che domenica, 15 corrente, sarà inaugurata la sede
del Nuovo Partito Popolare, sita in questo Corso Umberto I n.217,
in un appartamento di 6 vani, alla cui cerimonia è prevista la
partecipazione dei dirigenti nazionali dr. Epifanio Lupo, dr. Antonio
Loche e rag. Francesco Nigri .>> (Lettera del Questore di Napoli
all'Isp. Gen. per l'Azione contro il Terrorismo del 12 febbraio 1976
prot. 10440.A.3A/UP All. 31)
Stando alle deposizioni dei testi fu Forlani a presentare Volturno
Morani -il fondatore del Ppi- a Zucca (verbale s.i. Ristuccia del 23 marzo
1999) che, a sua volta, metteva in contatto l'avv. Francesco Gangemi con
Titta (verbale s.i. Gangemi 26 luglio 2000) per dar vita alla sezione
milanese del Ppi.
Nel frattempo Morani cercava oltreoceano i fondi necessari al suo
costituendo partito:
<< La stessa fonte riferisce che i fondi necessari per tale rilancio
sarebbero forniti al Morani dell’Ambasciata Americana in Italia.
Per la Calabria responsabile regionale verrebbe nominato l’avv.
Gangemi Francesco di Antonio e di Pirrello Maria nato a Reggio
Calabria il 10/6/1930, ivi residente in via S. Lucia al Parco 9, libero
professionista. Nel 1970 egli costituì un “Comitato per Reggio
Capoluogo” cui subentrò il nuovo “Comitato d’Azione” capeggiato
da un noto Senatore Ciccio Franco. Il Gangemi fino all’ottobre 1971
militò nella Democrazia Cristiana, data in cui passò al MSI.
Nel 1973 rientrava nelle file della DC e nell’ottobre del 1977 aderiva
al Partito Popolare.
A suo carico figurano vari precedenti penali per emissione di
assegno a vuoto.>> (Lettera del Questore di Reggio Calabria all'Isp.
Gen. per l'Azione contro il Terrorismo del 6 gennaio 1977 Cat. A4 dv.
Gab. All. All. 32)
Per inciso, notiamo che non era il solo Gangemi ad avere un certificato
penale non immacolato, anche un altro dirigente del Ppi, Gino Alfieri,
vantava i suoi precedenti:
<<In riferimento alla nota Cat. A.4/1977/U.P. (1) dell’11.3.1977 della
Questura di Milano relativa all’oggetto si forniscono le richieste
informazioni sul conto di Alfieri Gino:
Alfieri Gino di Giovanni e di Civa Rosa, nato a Solignano il
13/2/1934, già ivi residente, via Case Gabelli, celibe, cameriere,
risulta emigrato a Milano il 17/5/1961.
A suo carico figurano i seguenti pregiudizi penali
_ Con decreto del 30/6/1964 del pretore di Milano condannato a £
2.000 multa per emissione di assegno a vuoto – Pena sospesa e non
menzione.
_ Con sentenza del 26/6/1966 del Pretore di Milano condannato a
£ 5.000 ammenda per guida di autovettura senza patente (art. 80
Codice della Strada).
_ Con sentenza del Tribunale di Milano del 30/1/1970 condannato
per oltraggio a P.U. Reato estinto per amnistia.
Per quanto di competenza il predetto risulta di cattiva condotta
morale e civile e sembra fosse implicato in Milano in traffico di
stupefacenti.>> (Lettera del Questore di Parma alla Direzione
Generale di Ps Servizio di sicurezza del 6 aprile 1977 A.3A./1977
All. 32)
In realtà, il Ppi non riuscì a mettere insieme più di una raccogliticcia
pattuglia di avventurieri politici senza particolare seguito e con ben
scarse prospettive di crescita; ciò nonostante il piccolo partito, grazie agli
appoggi di Padre Zucca e degli uomini del Noto Servizio, decideva di
presentare sue liste alle elezioni politiche previste per il 3 giugno 1979:
<<Anche se difficilmente i giornali si occupano dei suoi candidati, il
“Partito Popolare Italiano” ha deciso, proprio nelle ultime giornate,
di accentuare la sua azione propagandistica a Milano.
E’ stato anche riorganizzato il gruppo dirigente che opera dietro le
spalle dei candidati.
L’intera responsabilità delle elezioni del P.P.I. è stata assunta dal
geom. Adalberto Titta (nominativo di cui all’argomento della
segnalazione dell’8 corrente) con il quale collabora anche il fratello,
geom. Giuliano Titta, che è titolare di un’azienda di
impermeabilizzazioni.
Insieme al Giuliano Titta, opera un apolide di origine ungherese,
certo ing. Kelleman, del quale ci potremmo occupare più avanti.
Del gruppo fa parte anche un tale dott. Giancaterino Capodacqua di
origine abruzzese, fino a qualche mese addietro esponente della D.C.
romana.
Il dott. Capodacqua, che ha lo studio in corso di Porta Vittoria n. 46,
fa frequenti viaggi in Svizzera per raccogliere il denaro necessario
alla campagna elettorale.
Su una Banca di Lugano è stato costituito un fondo per il P.P.I., da
alcuni industriali americani.
Altri membri del “gruppo” ristretto, sono l’ing. Ristuccia della Fiera
Campionaria Internazionale milanese e il francescano padre Enrico
Zucca.>> (Nota del 18 maggio 1979. All. 32)
Altre note ci segnalano Titta attivo su tutto il territorio nazionale alo
scopo di trovare adesioni e denaro per il Ppi:
<< Di seguito a precedente segnalazione (18 corr,) l’azione del
“Partito Popolare Italiano” è proseguita nei giorni scorsi anche se in
misura molto limitata in quanto non sarebbero ancora giunti dalla
Svizzera (cioè dall’America via Svizzera) gli attesi finanziamenti. In
ogni caso, il già noto geom. Adalberto Titta si è recato, nei giorni
scorsi, a Napoli per incontrare un certo dott. Macciò, fino a qualche
mese addietro, esponente della locale dirigenza DC e persona un
tempo molto vicina al sen. Gava.
Il Macciò, ieri, è arrivato a Milano e ha tenuto una riunione presso il
ristorante Friulano.
Al simposio hanno partecipato tutti i dirigenti milanesi dei quali si è
già dato notizia, con l’aggiunta di alcuni inviati dei Movimenti locali
e autonomistici del Piemonte e del Trentino. Si tratterebbe di
gruppetti che non hanno voluto aderire alla grande alleanze, tra
gruppi etnici e autonomi, proposta dal Partito Radicale.
Ieri c’è stata, su una radio privata un’intervista dell’avv. Pagani a
Torino, il quale ha illustrato le finalità del “Partito Popolare
Italiano”. Più che una reincarnazione del Partito dell’on. Sturzo, il
“P.P.I.” attuale, vuole essere una piattaforma di riserva per tutti quei
democristiani e quegli elettori DC che non vogliono alleanze più o
meno palesi con l’estrema sinistra. Se la DC manterrà gli impegni che
va assumendo con gli elettori e se la linea Fanfani prevarrà dopo il 3
giugno, i dirigenti del “P.P.I” sono anche disposti a ritornare in seno
alla DC; ma se la linea Zaccagnini-Bodrato-Galloni avrà il
sopravvento e si giungerà a un’intesa, anche non palese, con i
comunisti, il “P.P.I.” diventerà, nel domani, il partito dei cattolici
anticomunisti.
... La fonte americana è vicina alla CIA e al “Servizio Informazioni”.
Si spera, entro breve tempo di conoscere maggiori particolari.>>
(Nota 24 maggio 1979. All. 32)
Alle politiche del 3 giugno, il Ppi riuscirà a presentare sue liste (in
nessun caso complete) in quattro circoscrizioni con questi risultati:
Torino-Novara-Vercelli 1.654 voti
Milano-Pavia 1.166 "
Napoli-Caserta 2.013 "
Benevento-Salerno-Avellino 1.766 "
Due movimenti analoghi si presentavano a Roma (Nuovo Partito
Popolare di Mario Foligni 2.112 voti) ed in Calabria (Partito popolare
calabrese 2.937 voti).
Pochi giorni dopo questa Caporetto elettorale, il segretario del Ppi
Volturno Morani accompagnava padre Enrico Zucca presso una banca di
Lugano, per cambiare alcuni assegni emessi su una banca canadese, ma i
titoli risultarono abilmente falsificati. Sulla vicenda riproduciamo due
note della squadra 54:
<< Si precisa quanto segue:
1. gli assegni per £ 1.200.000.000 trasferiti in Svizzera dal noto
Padre Enrico Zucca erano dei travellers cheques emessi da una banca
canadese;
2. la sede di Lugano della Banca Svizzera.U.B.S. ha accertato che si
tratta di titoli abilmente falsificati;
3. la questione è stata riferita alla Polizia svizzera che ha aperto
un’inchiesta. Anche la Polizia canadese si sta occupando della
questione;
4. in Italia le indagini sono condotte dai Carabinieri di Monza;
5. il Padre Zucca dichiara di essere all’oscuro del traffico e di
conoscere da pochi mesi il dott. Mottola di Avellino, che gli ha
consegnato gli assegni;
6. il dott. Mottola è risultato irreperibile e le indagini si sono
spostate su altri due esponenti del “Partito Popolare Italiano”
residenti a Milano: un certo conte Mauro Giancaterina Capodacqua,
nato ad Avezzano (L’Aquila) il 16 luglio 1948, di cui non si conosce il
domicilio e che è reperibile presso lo studio di un certo dott. Proc.
Pagani in Corso di Porta Vittoria, 46 – Milano. L’altro esponente del
“P.P.I.” è lo stesso dott. Pagani. I due hanno creato una società per la
vendita di quadri e per l’organizzazione di mostre, che si chiama
“Promoter Arts”, ora però è già alle prese con fotografi e creditori
vari per fatture non pagate. Il Capodacqua è perseguito per avere
emesso un assegno di lire 2.000.000 su un c/c chiuso presso la filiale
di via Larga (Milano) della Cassa di Risparmio;
7. la persona che ha accompagnato Padre Zucca in Svizzera, è un
dirigente della Società di Trasporti “Danzas”. >> (Nota 3 luglio 1979.
All 24)
<< ... è stato possibile raccogliere nuove notizie su quel Morani, che
nella scorsa estate si recò in Svizzera con il defunto Padre Enrico
Zucca e tentò di far cambiare da una banca di Lugano un gruppo di
assegni falsi emessi su una banca canadese.
Il Morani, in quella occasione disse al Padre Zucca che col denaro
ricavato avrebbe sovvenzionato l'Angelicum di Milano e il Partito
Popolare, allora appena creato dallo stesso Morani ed altre persone,
tra le quali il noto dott. Mauro Giancaterina Capodacqua e
l'altrettanto noto geom. Giuliano Titta.
A carico del Morani sono in corso indagini in Svizzera, e, della
questione si sono occupati a suo tempo anche i carabinieri.
Il Morani che ha di nome, Volturno, da parecchi mesi non torna più
a Milano, abita a Napoli in piazzetta Matilde Serao.
A Milano, tramite il predetto Giuliano Titta, egli aveva preso in
affitto alcuni locali nello stabile di via Vitruvio 4, di proprietà della
signora Graziella Genovese, abitante in luogo e aveva pagato alcuni
mesi di affitto anticipato.
Dopo una strana e breve attività l'ufficio, che avrebbe dovuto
ospitare un centro culturale non meglio indicato, è sempre rimasto
chiuso, e, soltanto di recente si è fatta viva, appunto a nome del
Morani , una certa dottoressa Ferrari, della quale non si conosce altro
dato.
La proprietaria dello stabile predetta.... ha il timore che in
quell'ufficio esistessero documenti che riguardano le attività poco
chiare del Morani e del fantomatico Partito Popolare e di altro.>>
(Nota 19 ottobre 1979. All. 32).
Prima di proseguire, segnaliamo quello che, a nostro avviso, è
probabilmente un errore: il geom. Giuliano Titta, probabilmente sta in
luogo del geom. Adalberto Titta che in una nota contemporanea è
indicato come una sorta di segretario amministrativo del Ppi:
<< Per la raccolta dei finanziamenti, il Morani fu coadiuvato dal
perito industriale Adalberto Titta, nato a Milano il 28.6.1921, qui
residente in via Mussi n. 16, il quale, pare, facesse da tramite tra
finanziatori e partito.>> (Nota 24 settembre 1979. All. 24)
Ricordiamo che Padre Zucca, già da tempo gravemente ammalato,
morì il 15 luglio 1979, quasi un mese dopo la sua visita a Lugano: attivo
sino all'ultimo, come si vede. E doveva avere una motivazione ben forte
se, in condizioni di salute assai precarie, si sottoponeva ad un viaggio -
per quanto breve- per accompagnare il Morani presso la banca luganese.
Ma non è l'unico aspetto strano della vicenda. Dice del Ppi il testimone
Michele Ristuccia:
<< Il partito popolare nacque su pressione americana e, poi, per
qualche motivo non si sviluppò. Voglio dire che qualcosa non fece
più affluire i finanziamenti che avrebbero dovito sostenerne la
crescita e che erano destinati anche al Titta. I retroscena di questa
operazione sono conosciuti da Volturno Morani, professore
napoletano che fu messo in contatto con Titta da Padre Zucca, su
telefonata di Arnaldo Forlani, anche lui legato a Padre Zucca>>
(verbale s.i. Ristuccia del 23 marzo 1999).
In effetti, di retroscena debbono essercene stati, e vorremmo tanto
conoscerli, ma anche la versione di Ristuccia non convince molto:
a) alle politiche del 3 giugno, Volturno Morani, nella sua città, mise
insieme poco più di 800 preferenze (meno di quelle che servivano, a
Napoli, per essere eletti consiglieri comunali) ed a Milano ne ottenne
appena 13, dunque era un emerito Carneade: possibile che gli
"americani" non avessero personaggi di maggior spessore cui affidare
l'operazione?
b) "gli americani" è un'indicazione un po' generica: quali americani? Il
Dipartimento di Stato? La Cia? Qualche lobby particolare? Il partito
Repubblicano? La Massoneria? In effetti, stando alle informative dello
Uaarr, qualche quattrinello da oltreoceano sembra essere venuto al
Morani, ma sembra si trattasse di alcuni privati (industriali) e su
sollecitazione dello stesso Morani che aveva trovato qualche contatto
statunitense. Ma, in questo caso, l'iniziativa non è partita dagli
"americani", ma dall'Italia
c) per quale ragione, poi, Forlani avrebbe dovuto segnalare a Zucca
uno scissionista del suo partito? Forse, per avere uno spauracchio da
agitare, nel suo partito, per frenare l'apertura al Pci? Ma della scissione
di Morani e della sua armata Brancaleone non si accorse nessuno! Quale
deterrenza avrebbe potuto esercitare, su un pachiderma delle dimensioni
della Dc, un gruppetto di poche decine di desperados senza mezzi?
d) le informative della stessa squadra 54 fanno pensare, piuttosto, che
dietro l'operazione ci sia stato, almeno per un certo periodo, l'on.
Andreotti che, però, dal 1976 era il presidente del Consiglio del governo
sostenuto dal Pci, ed allora, a cosa erano servite le riunioni a Torre
Velasca nel giugno del 1975? Forse, ancora a quell'epoca, l'on Andreotti
pensava di fermare l'apertura al Pci? Improbabile. O forse la minaccia di
una scissione sulla destra serviva ad aumentare il suo potere
contrattuale per non restare fuori al momento degli accordi con il Pci?
Torniamo a dire che il gruppo era troppo esiguo per poter sortire effetti
politici di qualsiasi genere.
e) abbiamo già detto di ritenere eccessivo che padre Zucca orientasse
"il bacino elettorale lombardo della Dc", però non ci sembra credibile che
l'influenza del dinamico frate si riducesse a 1.166 voti fra Milano e Pavia,
pur considerando la defezione di De Carolis. Così come appare poco
probabile che lo stesso padre Zucca (che, come vedremo, solo un anno
prima, era riuscito a raccogliere 50 miliardi per liberare Moro) non fosse
in grado di procurare un minimo di denaro al Ppi per consentirgli di fare
una decorosa campagna elettorale, quantomeno in Lombardia.
f) quando un partito riesce a presentarsi in sole 4 circoscrizioni e con
liste incomplete e, per di più, fatte di illustri sconosciuti, non riuscendo
neppure a reclutare un consigliere comunale, un sindacalista o un
intellettuale di qualche fama quantomeno locale ecc. vuol dire che il
partito non esiste neppure come abbozzo e le sue possibilità di successo
sono pari a zero. Infatti il Ppi mise insieme meno di 7.000 voti a livello
nazionale. Ed allora, come mai un personaggio navigato come padre
Zucca, si imbarcava in una avventura così sconclusionata? E come mai vi
si impegnavano personaggi di spicco del Noto Servizio come Titta ed,
almeno in un primo momento, Battaini? E' possibile che si sia trattato di
un abbaglio collettivo? Persone abituate a trattare con leaders nazionali e
a praticare la politica ai suoi livelli più riposti e sofisticati, non possono
essere state così ingenue da scommettere su una banda di disperati come
quella del Ppi.
Per di più, tutto finisce con un tentativo di truffa basato su assegni
falsi.
Ce ne è abbastanza per capire che il partito, la lotta anticomunista, la
polemica contro la Dc ecc. erano solo dei pretesti per coprire tutt'altro
genere di operazione. Mutatis mutandis , qualcosa di analogo
all'esperienza del coevo e similare Nuovo Partito Popolare di Mario
Foligni, la cui funzione fu essenzialmente quella di coprire l'operazione
con i libici.
15) De Carolis.
Leggiamo nella nota del 9 luglio 1974 (All. 26):
<< Negli ambienti democristiani milanesi si afferma che al centro di
un clamoroso giro di dollari proveniente dai Paesi Arabi e che
sarebbero offerti sul mercato italiano all’interesse del 7.50%, ci
sarebbe l’avv. De Carolis, capogruppo DC a Palazzo Marino, legale
dell’editore Rusconi, esponente un tempo della Maggioranza
Silenziosa e consigliere del presidente della Montedison.>>
La nota non ha particolari sviluppi, per cui non siamo in grado nè di
stabilirne la fondatezza, nè, tantomeno, di capire la provenienza del
flusso di denaro "arabo", notiamo, tuttavia, che l'episodio seguirebbe di
qualche anno la vicenda dello scambio armi-petrolio con la Libia e,
duncuque, coltiviamo il dubbio che esso -se vero- possa essere uno
sviluppo di quella direttrice d'affari che, inaugurata nel 1971-72,
proseguì per tutti gli anni settanta e per buona parte degli ottanta.
Qualche approfondimento non appare superfluo, anche perchè, in caso
affermativo, questo ci indurrebbe a considerare sotto altra luce la
questione del traffico con la Libia, aggiungendo altri indizi all'ipotesi -
che è facile leggere in controluce nelle allusioni pecorelliane- di un
collegamento organico fra esso e il Noto Servizio.
Di qualche interesse è anche la nota del 17 settembre successivo (All.
26):
<< Il segretario cittadino del Psi, Martelli, della corrente
autonomista, è stato incaricato dall’on. Craxi e dal segretario
provinciale Vertemati a (sic) svolgere una inchiesta sui rapporti
esistiti fino a qualche mese fa, fra Edgardo Sogno ed il capo del
gruppo Dc a Palazzo Marino De Carolis.
I due ebbero tra l’autunno e la primavera numerosi incontri nello
studio dell’avv. De Carolis in via Monte di Pietà 15, ma non è ancora
stato possibile ottenere testimonianze dirette e circostanziate. De
Carolis costretto dalla massiccia presenza neo-fascista a lasciare la
Maggioranza Silenziosa, si era accostato notevolmente al
raggruppamento di Sogno e i due furono visti più volte a pranzo
insieme al ristorante Biffi-Scala. Anche i suoi compagni di gruppo
non ne sanno molto. L’avv. Colombo, segretario cittadino ed il dott.
Morazzoni, vice segretario provinciale della Dc, avevano più volte
messo in guardia il De Carolis , ma questi aveva continuato lungo la
sua strada.
Martelli ha tuttavia dichiarato di essere in possesso di alcuni
elementi che potrebbero provare la partecipazione del De Carolis alle
trame del Sogno.
Il Psi, tuttavia, non vuole sparare a salve e ha imposto al suo
segretario cittadino una tattica molto cauta.
Secondo persone molto vicine al segretario Vertemati, da De Carolis
passavano sicuramente i contatti tra Sogno e l’avv. Nencioni.
Ma tutti avrebbero avuto a disposizione alcune alte protezioni in
seno alla Montedison.
Il Psi appena avrà completato l’inchiesta , trasmetterà i documenti al
giudice di Torino e non li farà pubblicare dall’Avanti. Soltanto in
occasione della campagna elettorale del prossimo maggio li renderà
pubblici. >> (All. 26)
Per quanto abbiamo avuto modo di appurare, non sembra che il Psi
milanese abbia mai fatto giungere al giudice torinese (immaginiamo che
il riferimento sia al dott. Luciano Violante) il dossier in questione, nè di
esso abbiamo trovato tracce nell'Avanti!, sarebbe pertanto utile chiedere
qualche ragguaglio in merito all'on. Martelli.
Quanto asserito nel testo quadra perfettamente con quanto abbiamo
precedentemente riferito sullo scontro in seno al consiglio comunale
milanese che vedeva De Carolis agire come punta di diamante
dell'operazione tendente ad estromettere i socialisti dalla maggioranza,
pertanto è del tutto plausibile che il Psi ricambiasse con qualche
attenzione supplementare nei confronti dell'esponente della destra Dc.
E' interessante notare anche come tornino sia il tema dei rapporti fra De
Carolis e Sogno (a quanto pare ben oltre un semplice rapporto di
consultazione politica), sia quello del ruolo della Montedison di Cefis
anche per il tramite del senatore missino Gastone Nencioni.
Sui rapporti non occasionali fra De Carolis e gli ambienti dell'estrema
destra più oltranzista si intrattiene anche una velina del 21 ottobre 1975
(All. 26):
<< Attendibile fonte fiduciaria segnala che in alcuni ambienti
milanesi si avrebbe in animo di ricostruire, sotto altra
denominazione, un nuovo gruppo, ispirato alla “ Maggioranza
Silenziosa “ .
Promotori di questa iniziativa sarebbero i liberali capeggiati dall’ on.
Giomo – che vuolsi sia legato al noto Ballan Marco – appoggiati e
finanziati dai consiglieri comunali DC Bossi Giuseppino e De Carolis
Massimo.
Questo sarebbe il motivo che sta alla base della richiesta della
manifestazione tenutasi domenica scorsa per il tribunale Sacharov;
altre richieste dovrebbero seguire a breve scadenza.
Gli aderenti verrebbero reclutati, tra gli altri, nelle file dei giovani del
Msi-Dn ed ex Avanguardia Nazionale, i quali ultimi, da qualche
tempo, non mettono in atto in atto azioni violente per evidenziare
una decisa volontà di osservare la legalità.
Personale di questo Ufficio ha accertato che in corso Venezia n2, ex
sede della “ Maggioranza Silenziosa “ ed ora di “ Contropinione “, si
è riunito un gruppo di noti ex “avanguardisti “, quali Merico
Cristina, Langella Amedeo, Cavallini Gilberto, Stornaiuolo Giovanni
ed altri, col consenso del consigliere comunale del Msi Staiti, che ha
disponibilità dei locali e che è tra i più accesi fautori della “ nuova “
maggioranza silenziosa.
Viene riferito che lo stesso consigliere De Carolis, con aderenti ad
“Alleanza Cattolica “, si è incontrato giorni fa con Miki Tusa ed
Amedeo Langella, persone di fiducia dello Staiti, per stilare un piano
d’azione comune.
Si è appreso che, ai primi di ottobre dell’anno 1973, allorché le
sinistre accusarono De Carolis di aperte simpatie per la destra, costui
avrebbe pagato il noto Buonocore perché diffondesse, come in effetti
avvenne, manifesti a firma della “ Maggioranza Silenziosa “, il cui
contenuto era palesemente accusatorio nei confronti del De Carolis,
tacciato di opportunismo politico per lucro personale.>> All. 26
Anche in questo caso, troviamo abbondanti conferme di quanto emerso
in altre occasioni: segnatamente, quanto riferito dalle fonti della sq. 54 e
della Questura milanese (primo fra tutti, Giorgio Muggiani) sulla
riaggregazione della estrema destra milanese intorno al rilancio della
"Maggioranza Silenziosa" (si veda in proposito la rell. 28/34/40 a
codesta Ag). Sulla stessa direzione si inserisce anche un'altra nota
confidenziale del 15 ottobre 1976:
<< L’on. Massimo De Carolis avrà domani, sabato, un primo
incontro allargato per la costituzione della nuova associazione
“Democrazia Nuova“ che dovrebbe raccogliere esponenti non
filocomunisti o addirittura anticomunisti di tutti i partiti democratici.
Nei giorni scorsi De Carolis ha avuto colloqui con i liberali avv.
Guido Sasso e sen. Arturo Robba, con il socialdemocratico on. Rizzi e
con il socialista Antonio Natali presidente della Mm, nonché con il
repubblicano on. Bucalossi. Tutti in linea di massima si sono detti
favorevoli con l’iniziativa di De Carolis ma nessuno, ancora, si è
sentito di mettere una firma sotto un preciso e impegnativo
documento.
Più importanti sono i colloqui che De Carolis ha avuto con il sen.
Nencioni. In un certo senso la ventilata scissione del Msi ha fatto
risalire ai numerosi incontri svoltisi negli ultimi sei mesi tra De
Carolis e Nencioni, promossi da Cefis, grande amico di entambi. La
Montedison finanzierebbe il nuovo partito. Su questa politica della
Montedison sono d’accordo in molti, soprattutto vari democristiani i
quali sono certi che il nuovo partito si porrà alla nuova destra, ma
sarà strettamente controllato e potrà fornire alla Dc - per i giochi
parlamentari – ciò che l’ Msi non ha mai voluto e potuto fornire se
non in determinate situazioni, come l’ elezione di Leone .
De Carolis ha confidato ad un amico che secondo lui il nuovo
partito potrebbe essere oltre che un serbatoio di voti per la Dc, anche
la prima struttura dell’eventuale secondo partito cattolico, che
nascerebbe se la Dc dovesse attuare il compromesso storico a livello
parlamentare e governativo.>> ( All. 26)
Documento per più versi interessante:
a) troviamo ulteriore conferma del ruolo di cerniera (ma l'espressione
è forse troppo riduttiva) svolto da Cefis fra destra Dc e settori del Msi
b) alcuni elementi lumeggiano meglio il senso dell'operazione
"secondo partito cattolico" (o comunque si voglia chiamare
l'aggregazione che si cercava di far sorgere nello spazio intermedio fra
Msi e Dc): un po' gruppo di pressione contro l'apertura al Pci, un po'
formazione ausiliaria della Dc nei giochi parlamentari, un po' "area
controllata" per assorbire i voti eventualmente persi dalla Dc sul suo
fianco destro a causa dell'apertura al Pci, così da poter essere riportati
alla base in un secondo momento. Quel che richiama alla notra mente un
aforisma di Artur Schnitzler: "Alcuni uomini politici intorbidano le acque,
altri pescano nel torbido. I più abili intorbidano le acque per poter pescare nel
torbido ". Con ogni probabilità, anche il Ppi di Morani ed il Npp di
Foligni pescavano nel torbido di queste acque e più con scopi di lucro
che con veri e propri scopi politici, però è interessante notare che il
primo agisce a stretto contatto con il milieu milanese del Noto Servizio,
mentre il secondo opera nel campo degli affari petroliferi con la Libia che
aveva già visto attivamente coinvolto lo stesso Noto Servizio.
c) più stimolante ancora è leggere, fra quanti si consultano con De
Carolis per il progetto di Democrazia Nuova, il nome di Antonio Natali
che, oltre che essere il presidente della Mm, era il "padre nobile" della
corrente autonomista milanese cui facevano riferimento Bettino Craxi e
Claudio Martelli, cioè le stesse persone che abbiamo visto impegnate afd
indagare sui rapporti fra De Carolis e Sogno. Ma forse le due cose non
sono del tutto in contrasto fra loro. Nel libro di Maurizio Blondet sulla
"Maggioranza Silenziosa" (ed. Area, Milano 1987) leggiamo:
<< Luciano Buonocore ricorda che una sera, durante una riunione
dei promotori a casa dell'ing. Nodari, questi gli fede il nome "di un
giovane socialista autonomista" che avrebbe voluto dare la sua
adesione alla manifestazione annunciata: il nome era quello di
Bettino Craxi.>> (p. 45)
E' evidente che il riferimento è alla manifestazione del 1971. Dunque,
nel 1971 Craxi avrebbe medidato di aderire alla costituenda
Maggioranza Silenziosa (quel che non avverrà solo per il tifiuto opposto
da Buonocore), poi nel 1974 avrebbe ordinato a Martelli di indagare su
uno degli esponenti di essa, De Carolis, a proposito dei suoi rapporti con
Sogno (meditando di portare il tutto all'attenzione della magistratura
torinese), poi, nel 1976 il patriarca della corrente autonomista Natali si
sarebbe incontrato con De Carolis per valutare una comune operazione
politica, infine, nel 1983, la rivista teorica del Psi -ormai tutto craxiano-
ospitava nelle sue pagine un intervento di Edgardo Sogno sulle riforme
istituzionali.
Come spiegare questo andamento discontinuo nei rapporti fra socialisti
autonomisti e De Carolis? Che vi sia stato un acceso contrasto fra De
Carolis ed i socialisti milanesi fra il 1971 ed il 1974 è certo e ne troviamo
infinite conferme nella documentazione raccolta, ma, considerando
anche gli altri elementi emersi, il dubbio è che vi sia stata, sì, una lite, ma
che si possa esser trattato di una lite in famiglia che, come si sa, sono le
peggiori.
16 Felice Fulchignoni.
Felice Fulchignoni (che Grisolia indica quale principale esponente del
gruppo romano del Noto Servizio) è già stato oggetto di esame da parte
di questo ctu (si vedano le rell. 9 e 24). Nella presente ricerca sono emersi
ulteriori elementi di documentazione che, pertanto, ci limiteremo a
riportare in alcuni cenni che integrano quanto già detto.
Iniziamo da una nota del 7 febbraio 1968 (All. 28):
<< Molto scalpore hanno prodotto, negli ambienti politici e
giornalistici romani, le rivelazioni circa i collegamenti intercorsi tra il
Sifar e la “Documentazione Italiana“, un gruppo editoriale facente
capo all’ex direttore della Agenzia “Italia “, dott. Anness , un tempo
filo fanfaniano, poi filo moroteo ed ora socialista, collegato al dott.
Fulchignoni, editore dell’agenzia Adn-Kronos.
La “Documentazione Italiana “, fra le cui edizioni c’è anche un
“Archivio di documentazione politica“, un costoso schedario che
viene inviato in omaggio a molti giornalisti del centro-sinistra in
cambio dei loro servigi, ha sede negli stessi uffici della Adn-Kronos
che vengono dal Fulchignoni utilizzati per le operazioni commerciali
di varia natura , in Europa e in America, nelle quali si vorrebbe
addirittura vedere lo zampino della Cia.
L’unica cosa certa è che Fulchignoni, come Dino Gentili, è un
procuratore d’affari molto amico dei maggiori esponenti della destra
socialista. Attraverso Annessi, egli è anche legato al dott. Freato,
collaboratore finanziario del Presidente del Consiglio. >> (All. 28)
Sin qui troviamo conferme tanto del ruolo di finanziatore della corrente
autonomista del Psi di Fulchignoni, quanto dei suoi sospetti rapprti con i
servizi segreti americani, tuttavia è interessante notare la contiguità di
Fulchignoni e del suo collaboratore Annesi agli ambienti morotei per il
tramite di Sereno Freato. Qualche particolare in più lo apprendiamo da
un seguito:
<< Si afferma che il produttore cinematografico Felice Fulchignoni,
proprietario dell’agenzia di stampa socialista “Adn-Kronos” sarebbe
venuto a trovarsi in difficoltà economiche, in seguito ad errate
iniziative finanziarie, tanto che sarebbe stato costretto, per sottrarsi ai
creditori, a trasferirsi temporaneamente in Svizzera, dove si sarebbe
sottoposto ad un intervento chirurgico.
Per fare fronte ai diversi impegni avrebbe chiesto e, a quanto si dice,
ottenuto dal Psi una sovvenzione di 80 milioni di lire, sovvenzione
che gli sarebbe stata accordata per impedirgli di fare talune
minacciate rivelazioni politiche : al riguardo sarebbero corse voci ,
secondo le quali nella sua abitazione sarebbero avvenuti incontri tra
esponenti del Psi ed i generali De Lorenzo ed Allavena al tempo del
noto processo.
Si parlerebbe anche di un interesse del Fulchignoni , nella sua qualità
di direttore della Fulco–film, nella produzione di cortometraggi di
carattere militare che sarebbero stati commissionati dal gen.
Gaspari.>> (All. 28)
Dell'ambiguo atteggiamento della Direzione socialista dice anche una
nota successiva, del 14 luglio 1970:
<< Negli ambienti politici milanesi è giunta notizia da Roma che il
noto uomo d’affari F. Fulchignoni, di Roma, interessato in molteplici
attività commerciali e speculative, già implicato nell’affare Sifar ed
amico di moltissime personalità politiche è stato coinvolto in un
grosso crack il cui ammontare si aggirerebbe sul mezzo miliardo.
Il Fulchignoni ha sparso la voce di essere ricoverato in una clinica
svizzera di Ginevra, ma in effetti si trova da oltre una settimana a
Montecarlo.
In quest’ultima località mesi orsono ha investito alcune centinaia di
milioni in beni immobili.
Il Fulchignoni, prima di lasciare l’Italia ha depositato presso un
avvocato romano- di cui non è stato possibile conoscere il nome –
una memoria nella quale sono raccontate tutte le vicende finanziarie
politiche delle quali si è occupato per eminenti uomini politici.
Copia di detto memoriale è stato inviato dal Fulchignoni agli on.li
Carenini della Dc, Cariglia del Psu e Mancini e Pieraccini del Psi,
avvertendoli che se non sarà aiutato per evitare un fallimento totale ,
renderà di pubblico dominio il documento.
All’on. Mancini, il Fulchignoni ha scritto quale segretario del Psi –
dato che si afferma che non ha mai avuto rapporti di affari, facendo
riferimento ai rapporti dello scrivente con il defunto ministro del
Lavoro Brodolini e sulla relazione che lo stesso ministro aveva con la
di lui moglie. Detta relazione, secondo il Fulchignoni era da lui
sopportata per essere appoggiato in particolari affari. >> ( All. 28)
Nota che trova la sua logica conclusione in quella seguente del 29 luglio
1970:
<< La segreteria del Psi ha deciso di intervenire a favore di
Fulchignoni, addossandosi larga parte dei suoi debiti ed evitandogli
un clamoroso fallimento.
Nel frattempo, il Fulchignoni ha fatto ritorno dalla Svizzera dove si
era in un primo tempo rifugiato e si trova nuovamente a Roma.
I dirigenti del Psi hanno provveduto ad aprire una pratica presso i
competenti uffici allo scopo di trasformare l’Adn-Kronos (la loro
agenzia ufficiosa già di proprietà del Fulchignoni) in agenzia di
interesse nazionale, sul tipo dell’Ansa e dell’Italia: una volta
perfezionata la pratica, l’Adn-Kronos verrebbe ad usufruire di tutte
le facilitazioni riservata dallo Stato all’Ansa e all’Italia, incassando
tra l’altro ( compresi gli arretrati ) diverse centinaia di milioni in
contanti.>> (All. 28)
Bari 30 novembre 2002 il consulente
tecnico
APPENDICE
L'articolazione in correnti della Dc sino alla prima metà degli anni settanta. Allo scopo di rendere più comprensibile il complesso gioco delle
correnti nella Dc milanese, ci sembra opportuno premettere una breve
descrizione della dialettica fra le diverse componenti a livello nazionale.
Inizialmente, il partito non aveva vere e proprie correnti organizzate,
ma solo aggregazioni "di opinione" quali il "centro degasperiano" (di cui
facevano parte anche Guido Gonella, Giulio Andreotti, Enrico Mattei e
guidato, appunto, da Alcide De Gasperi, Emilio Taviani, Luigi Gui,
Mariano Rumor ) che controllava tanto la guida del Governo quanto la
segreteria del partito, la dissidenza di destra "liberista" che faceva
riferimento a don Luigi Sturzo (violentemente contrario alle iniziative
economiche pubbliche ed in particolare all' Eni di Mattei), una "sinistra"
guidata da Giovanni Gronchi, e la sinistra di "Cronache Sociali" (
Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Aldo Moro,
Benigno Zaccagnini, Giovanni Galloni, Achille Ardigò).
La corrente dossettiana si scioglieva nel luglio del 1951 a seguito
dell'accordo di Fanfani con De Gasperi e, nel novembre successivo
nasceva "Iniziativa Democratica" composta dalla maggioranza degli ex
dossettiani (Fanfani, Zaccagnini, Moro, La Pira, Galloni, Ardigò) e da
alcuni ex degasperiani (Taviani, Rumor, Salizzoni, Gui).
Contemporaneamente, i sindacalisti della Cisl si costituivano in
mozione autonoma con il nome di "Rinnovamento" (Giulio Pastore,
Carlo Donat Cattin).
Al IV Congresso (Roma 21-26 novembre 1952) la mozione unitaria di
De Gasperi e Iniziativa Democratica otteneva una larghissima
maggioranza dalla quale restava fuori solo Rinnovamento.
Nel settembre del 1953, il presidente dell'Eni Mattei promuoveva la
costituzione di una nuova corrente "La Base" che si collocava a metà
strada fra Iniziativa Democratica e Rinnovamento. Di essa facevano
parte ex dossetiani come Galloni, ex esponenti della Resistenza come
Giovanni Marcora (Mattei era il presidente della Fivl), e giovani come
Giuseppe Chiarante, Lucio Magri, Franco Boiardi, Luigi Granelli e
Camillo Ripamonti in Lombardia, Vladimiro Dorigo a Venezia, Nicola
Pistelli a Firenze, Fioerentino Sullo, Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco in
Campania, Riccardo Misasi in Calabria. La sinistra di "Base" fu, forse, la
prima vera corrente organizzata della Dc, avvalendosi dei cospicui
finanziamenti assicurati da Mattei.
Al V congresso della Dc (Napoli, il 26-29 giugno 1954) si presentava
questa articolazione di correnti: il "gruppone di centro (De Gasperi,
Iniziativa Democratica, sinistra di Base), che stravinceva il congresso
eleggendo segretario del partito Amintore Fanfani, una opposizione di
sinistra rappresentata dalla corrente dei sindacalisti ed destra una
nuova corrente - denominata "Primavera"- formata poco prima dall'ex
delfino di De Gasperi, Giulio Andreotti.
La morte di De Gasperi portava gradualmente ad "esplodere" la vasta
ma disomogenea alleanza di centro all'interno della quale iniziano a
differenziarsi nettamente il gruppo degli ex degasperiani puri (Mario
Scelba, Franco Restivo, Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Elkan, Giorgio
Lucifredi), quello di Iniziativa Democratica (Amintore Fanfani, Aldo
Moro, Mariano Rumor, Paolo Emilio Taviani), quello della Base (Enrico
Mattei, Giovanni Marcora, Giovanni Galloni, Fiorentino Sullo, Ciriaco
De Mita, Nicola Pistelli). All'esterno restavano il gruppo di Andreotti
sulla destra e quello dei sindacalisti sulla sinistra, mentre la "sinistra" di
Gronchi si collocava a metà strada fra Iniziativa Democratica ed i
sindacalisti. Una posizione personale era rappresentata dal leader sardo
Antonio Segni, che, collocato su posizioni ideologiche di destra,
diventava il nume tutelare della parte di Iniziativa Democratica più
critica verso Fanfani.
Il congresso successivo (Trento 14-18 ottobre 1956) era stravinto da
Fanfani che era rieletto segretario del partito.
I metodi personalistici di Fanfani, e la sua apertura alle correnti di
sinistra (Base e Rinnovamento) sul tema del dialogo con i socialisti,
provocavano primi dissensi nella sua corrente che, nel marzo del 1959,
sfociavano nella "congiura di Santa Dorotea": la maggioranza della
corrente (Moro, Rumor, Colombo, Taviani, con l'appoggio di Segni),
riunitasi segretamente presso il convento delle suore di Santa Dorotea,
metteva in minoranza Fanfani votandogli la sfiducia quale segretario
designando Moro quale suo successore. La corrente si scindeva: la
maggioranza manteneva la sigla di Iniziativa Democratica (ma d'ora in
poi, saranno più noti come "dorotei"), mentre il gruppo di Fanfani
recuperava la vecchia sigla di Cronache Sociali.
Con il VII congresso - ottobre 1959- le componenti -ormai non più
gruppi d'opinione, ma vere e proprie correnti organizzate- si
presentavano divise in due schieramenti: Fanfani alleato alla Base ed a
Rinnovamento da un lato, dall'altro i dorotei, primavera ed ex
degasperiani (Scelba), con questi esiti: Nuove Cronache 497.517 voti
(30,95%), Base 179.593 (11,17%), Rinnovamento 91.556 (5,69%) (per un
totale di 769.656 voti per il blocco fanfaniano), Dorotei 533.697 voti
(33,20%), Primavera 211.812 (13,17%), centristi 92.161 (5,73%), (per
837.770 voti al blocco antifanfaniano).
Queste congresso ebbe una serie di conseguenze durevoli sul partito,
che andarono ben al di là, della momentanea sconfitta di Fanfani.
Innanzitutto, il sistema elettorale prescelto esaltò al massimo il peso
delle capacità organizzative di ciascuna corrente, determinando, in
questo modo, la cristallizzazione dei rapporti di forze fra esse: ad
esempio risultava evidente che l'eredità della corrente degasperiana era
passata non alla corrente dei centristi (che si rivelava come una
aggregazione di notabili con ben scarso seguito), ma al giovane
Andreotti che poteva contare su un massiccio seguito organizzato in
Lazio, così come, a sinistra era netta la prevalenza della corrente di Base -
largamente sostenuta dai foindi dell'Eni- rispetto a quella dei sindacalisti
di Rinnovamento che occupavano una posizione nettamente marginale.
Ma, soprattutto, emergeva la grande corrente dorotea forte del suo 33%
(destinato a salire negli anni seguenti, soprattutto a spese dei fanfaniani),
che rappresenterà per il decennio successivo lo stabile gruppìo dirigente
della Dc. Per tutti gli anni sessanta, infatti, nessuna aggregazione
maggioritaria sarà possibile nella Dc prescindendo dai dorotei, che
controlleranno stabilmente la segreteria del partito e, salvo le brevi
parentesi dei governi Fanfani e Leone, anche la Presidenza del Consiglio.
Sostanzialmente, la corrente dorotea rappresenterà, negli anni sessanta,
quel che aveva rappresentato la corrente degasperana nel decennio
1945-54, ma mentre la corrente degasperiana era una aggregazione
d'opinione riunita intorno ad un leader carismatico, i dorotei erano un
gruppo ferreamente organizzato nel quale nessuno dei leader prevaleva
sugli altri.
Il tentativo di Fanfani di sostituire la leadership degasperiana con una
nuova conduzione carismatica -la propria, ovviamente- risultava così
battuto, ma la crisi del governo Tambroni (luglio 1960), dopo solo un
anno, produceva una "resurrezione" politica di Fanfani che tornava alla
guida del governo.
E' da notare che nella caduta di Tambroni influiva anche il fatto che
egli non disponesse di una sua corrente organizzata, ma era solo un
notabile con una ristretta base regionale che solo la difficoltà del quadro
politico e la protezione del Presidente della Repubblica, Gronchi, aveva
inattesamente proiettato al vertice del governo. Questa debolezza si era
pienamente manifestata nel momento cruciale della crisi, quando
Tambroni si era ritrovato ben poche solidarietà in seno al Consiglio
Nazionale. E forse proprio la crisi della segreteria Fanfani, prima, e del
governo Tambroni, dopo, consacravano definitivamente il ruolo delle
correnti nel partito, ammonendo che nè un segretario del partito nè un
Presidente del Consiglio avevano la possibilità di durare a lungo senza
un solido insediamento correntizio proprio ed una adeguato
schieramento di alleanze.
L'VIII congresso (Napoli, gennaio 1962) -che ebbe al centro del suo
dibattito l'apertura al Psi- si concluse con una mozione unitaria di Moro
e Fanfani, nella quale confluirono quasi tutte le altre correnti, ad
eccezione della vecchia opposizione centrista di Scelba, Gonella, Pella,
Restivo e Scalfaro che non raggiungeva il 20%.
L'apparente unanimità, tuttavia, celava forti differenziazioni nel
gruppo di maggioranza e le diversità emersero nei momenti difficili che
scandirono l'avvio del centro-sinistra. I centristi si sfaldarono
rapidamente sia per le pressioni della gerarchia ecclesiastica -ormai
favorevole all'apertura ai socialisti- sia grazie a qualche pressione
scandalistica operata dal Sifar nei confronti del loro leader.
Le correnti Dc -ancora formalmente unite dalla stessa mozione - si
presentavano, a metà degli anni sessanta, così articolate:
a) a sinistra la Base e Forze Nuove (la vecchia corrente di
Rinnovamento)
b) in posizione mediana, Cronache sociali (Fanfani, Forlani, Darida,
Arnaud) che, però, subiva l'evoluzione del suo leader carismatico su
posizioni man mano meno "progressiste" del passato
c) al centro dello schieramento, il "gruppone" doroteo nel quale erano
confluiti anche Andreotti ed alcuni vecchi centristi. Ma la grande
aggregazione dorotea ospitava nel suo seno orientamenti diversi:
I) Moro -che nel frattempo aveva lasciato la segreteria del partito a
Rumor per diventare Presidente del Consiglio- si collocava sul versante
di sinistra della corrente
II) Taviani, Rumor, Colombo, Piccoli, Bisaglia e Gava occupano lo spazio
centrale
III) Andreotti e gli ex centristi si collocavano a destra.
Le diversità si manifestano parzialmente al IX congresso (Roma, 12-16
settembre 1964) proponendo questo spettro congressuale:
doro-morotei 48%
Cronache Sociali 21%
Scelbiani 11%
Base e Forze Nuove 20%.
Veniva confermato segretario Rumor.
Il congresso successivo vedeva una aggregazione di tutte le correnti
"moderate" (dorotei-morotei, fanfaniani, scelbiani e andreottiani) che
ottenevano insieme il 64%, mentre, a sinistra il cartello Base-Forze
Nuove raggiungeva il 24% ed in posizione mediana i "pontieri" di
Taviani (che si era staccato dai dorotei perchè in concorrenza con
Rumor) attestati al 12%.
Le politiche del 1968 (che segnavano un parziale recupero della Dc, ma
tutto a spese delle destre, mentre il Pci ed i Psiup registravano una
fortissima avanzata a spese del Psi-Psdi unificati) aprivano il declino del
centro sinistra e, di conseguenza, rilanciano le dinamiche centrifughe
nella Dc.
L'XI congresso (Roma, 27 giugno-1° luglio 1969) registrava fedelmente il
progressivo divaricarsi della maggioranza congressuale precedente: la
mozione unitaria si scioglieva e dal "gruppone" si staccava Moro che si
collocava accanto alle sinistre di Base e Forze Nuove.
Pertanto, lo spettro congressuale risultava il seguente (le correnti sono
elencate in ordine di collocazione da destra verso sinistra):
a) centristi (Scelba, Scalfaro, Restivo, Elkan) 2,9%
b) Cronache Sociali (Fanfani, Forlani) 15,9%
c) dorotei (Rumor, Piccoli, Andreotti, Colombo, Bisaglia, Gava) 38,3%
d) pontieri (Taviani) 9,5%
e) morotei (Moro, Belci, Zaccagnini) 12,7%
f) Nuova Sinistra (Sullo) 2,6%
g) Base-Forze Nuove (Galloni, Granelli, Donat Cattin, De Mita,
Marcora, Misasi) 18,3%.
Veniva eletto segretario Flaminio Piccoli, mentre Rumor ha assunto la
Presidenza del Consiglio. Entrambe le posizioni erano, dunque, occupate
da dorotei, ma si tratterà dell'ultimo effimero successo della corrente.
Infatti, Piccoli veniva eletto come segretario di minoranza (85 voti contro
87 astensioni) e di lì a poco dovrà passare il testimone al delfino di
Fanfani, Arnaldo Forlani, inoltre, le difficoltà del quadro politico
avviavano una ulteriore rottura del correntone.
Il sostanziale insuccesso del centro sinistra (il numero di parlamentari
era diminuito di molto poco, ma l'operazione politica di "sfondamento a
sinistra" era clamorosamente fallita) lasciava aperte tre opzioni:
a) proseguire nella formula imperniata su Dc e socialisti, ma
ridimensionando molte delle aspettative iniziali e puntando
semplicemente a "durare" senza grandi progetti ed ambizioni
b) mantenere la formula di centro sinistra, ma come premessa per un
ulteriore allargamento di essa, consociando il Pci in tempi non
immediati, ma neppure lontanissimi, puntando sull'evoluzione di quel
partito in senso democratico-occidentale
c) chiudere l'esperienza di centro sinistra e tornare ad una formula di
tipo centrista.
La prima soluzione -sostanzialmente fatta propria dalle correnti
moderate della Dc- si scontrava con la crisi socialista, con l'effervescenza
politica e sociale del paese e con l'incalzare dell'opposizione comunista
rinvigorita dal successo elettorale.
La seconda soluzione -cautamente e velatamente caldeggiata dalle
sinistre di Base e Forze Nuove- doveva fare i conti con la persistente
opposizione dei "poteri forti" (mondo imprenditoriale, consistenti settori
della gerarchia ecclesistica e, soprattutto, alleati atlantici) ad ogni
apertura al Pci e con i tempi della revisione ideologica dei comunisti, in
corso, ma ancora ben lontano da esiti tali da rendere immediatamente
praticabile l'allargamento della maggioranza a sinistra.
La terza soluzione, apparentemente non avanzata da nessuno, oltre che
dagli ex centristi di Scelba, Restivo e Scalfaro, iniziava a serpeggiare
tacitamente anche in altre correnti: già nel 1966, di fronte alla seconda
crisi del governo Moro, Fanfani, aveva lanciato un monito, avvertendo
che la scelta di centro sinistra "non era irreversibile" (lasciando, quindi,
intendere la disponibilità a tornare alla vecchia alleanza con i liberali).
Poi anche fra i dorotei iniziava a manifestarsi qualche segnale in questo
senso.
In realtà la soluzione neo-centrista doveva fare i conti con due difficoltà
molto forti: il clima sociale del paese e l'estrema debolezza numerica in
Parlamento (appena una dozzina di voti di scarto contando anche i
deputati della destra socialista che, il 4 luglio del 1969, si erano staccati
dal partito per ridar vita al vecchio Psdi). Un governo simile avrebbe
avuto bisogno di affrontare la piazza con grande vigore repressivo, ma
la sua debolezza parlamentare avrebbe posto le premesse per una
riedizione ancor più catastrofica dell'esperimento Tambroni. Anche
l'ipotesi di un aiuto sottobanco delle destre missine e monarchiche non
avrebbe risolto il problema: la manciata di voti così raccattata avrebbe
avuto un costo politico altissimo, perchè le sinistre Dc difficilmente
avrebbero accettato l'operazione ed, in definitiva, questo avrebbe
significato ripercorrere esattamente la parabola di Tambroni. In effetti,
per rendere realistica una simile svolta politica avrebbe richiesto una di
queste condizioni:
a) nuove elezioni, che, grazie ad una impennata del voto "d'ordine"
infliggessero alle sinistre un duro colpo e guadagnare un confortevole
margine parlamentare (così come era accaduto il Francia all'indomani
del maggio, con le elezioni del giugno 1968, trionfali per De Gaulle)
b) procedere ad una riforma della Costituzione in senso presidenziale,
in modo da staccare l'esecutivo dal controllo parlamentare ed
assicurarne la stabilità anche con margini numerici assai ridotti.
Ovviamente, sia l'una che l'altra misura richiedevano eventi di peso
sufficiente a invertire le tendenze dell'elettorato, costruire un consenso
adeguato nell'opinione pubblica, costringere le sinistre ad accettare
l'evoluzione del quadro politico-istituzionale.
In effetti, segnali di questo tipo si iniziavano a cogliere nella Dc già nei
primi mesi del 1969: un gruppo di esponenti di secondo piano della
corrente fanfaniana (Bartolo Ciccardini, Celso De Stefanis) e dorotea
(Giuseppe Zamberletti) formava un gruppo trasversale denominato
"Europa '70" che si dichiarava apertamente a favore del ritorno al
centrismo e della riforma presidenziale dell'ordinamento costituzionale.
Inoltre, lo stesso Fanfani, in più di una occasione, lasciava intendere la
sua simpatia per il modello costituzionale francese, mentre singoli
esponenti dorotei (in sintonia con il segretario socialdemocratico Ferri)
lanciavano l'ipotesi di una riforma elettorale in senso maggioritario.
Gli eventi del 1969 agirono da elemento precipitatore della crisi,
accentuando ancora le dinamiche centrifughe nel gruppo dirigente Dc: il
profilarsi di una stagione di intensa conflittualità sociale accentuò la
contrapposizione fra i settori riformisti e quelli che reclamavano una
risposta autoritaria alla crisi, in scondo luogo, la scissione
socialdemocratica faceva venire allo scopero i fautori del ritorno al
centrismo. Si formava, così, un asse fra i dorotei del Presidente del
Consiglio Rumor ed i socialdemocratici del Presidente della Repubblica
Saragat (in cui confluivano anche i fanfaniani, i centristi ed il Pri) che
puntava dichiaratamente a nuove elezioni per propiziare la svolta neo
centrista. Le dinamiche correntizie della Dc erano ulteriormente
complicate dall'emergere di solidarietà trasversali come quella
generazionale che si manifestò a San Ginesio, nel settembre del 1969,
dove si incontrano leader di varie correnti (essenzialmente basisti e
fanfaniani) accomunati dall'esigenza di affrancarsi dalla tutela dei
rispettivi leader. Si trattava dei leader della "terza generazione"
democristiana che -analogalmente a quanto fatto nei primi anni
cinquanta dagli esponenti della seconda- reclamavano un
avvicendamento generazionale che ridimensionasse il potere dei
cinquanta-sessantenni (Moro, Fanfani, Rumor, Piccoli) a favore dei
quarantenni (Forlani, De Mita, Bianco). Nasceva, così, un patto - detto,
appunto, di San Ginesio- che poneva le premesse per il cambio di
maggioranza nel partito ed il rovesciamento della segreteria di Piccoli.
Poche settimane dopo, la grande corrente dorotea che si scindeva fra i
sostenitori di Rumor, Piccoli e Bisaglia (cui si aggiungeva, poco dopo,
Taviani) e quelli di Andreotti e Colombo. Pertanto, il cartello di San
Ginesio (fanfaniani e basisti) aiutato dai dorotei dissidenti di Andreotti e
Colombo, riusciva ad imporre, durante il Consiglio Nazionale del 6
novembre 1969, le dimissioni di Piccoli e l'elezione all'unanimità di
Forlani quale segretario del partito.
Aveva così termine il lungo periodo di egemonia dorotea sulla Dc e,
come quindici anni prima -dopo la scomparsa di De Gasperi- questo
apriva una fase di intensa instabilità nel gruppo dirigente del partito.
Ma, in questa sede, non ci interessa spingerci oltre. Quel che ci preme è
forografare la situazione a cavallo fra i sessanta ed i settanta per
comprendere i riflessi di tutto questo sulla Dc milanese.
Dopo la scissione socialdemocratica, veniva trovato un momentaneo
punto di mediazione nella formazione del monocolore Rumor, ma la
crisi si riapriva nel febbraio del 1970 per approdare alla formazione del
terzo governo Rumor che torna alla formula di centro sinistra organico
(Dc, Psi, Psdi, Pri).
Nel frattempo, le correnti di destra più irrequiete della Dc cercavano
uno sbocco alla crisi anche in una possibile scissione che (anche
assorbendo monarchici e transfughi missini e liberali) desse vita ad un
partito cattolico di destra, utile a ricostruire la diga anticomunista
minacciata dall'aperturismo della maggioranza Dc. Infatti, i neo
centristi, il gruppo di Zamberletti e Ciccardini e singoli esponenti dorotei
come Greggi non mancavano di lanciare messaggi in questo senso. Sull'
altro versante, a sinistra, si manifestava la defezione delle Acli, che nel
convegno di Vallombrosa (estate 1970) avevano posto termine al
collateralismo con la Dc, e molte eminentissime fronti si imperlarono di
sudore leggendo sulla stampa la minacciosa previsione di Donat Cattin:
"non passeranno più di cinque anni che tutti i progressisti saranno da una parte
e tutti i conservatori dall'altra ".
Ma la maggioranza del gruppo dirigente Dc sapeva bene di non potersi
permettere il lusso di una scissione, tanto sulla destra quanto sulla
sinistra, perchè questa avrebbe il partito in due tronconi ciascuno
incapace di riproporre l'egemonia cattolica sul sistema politico. La
scissione avrebbe messo in forse la stessa permanenza della Dc al
governo se non sotto forma di alleanza di uno dei due tronconi con altri
partiti, ma in ogni caso a prezzo di riunciare alla netta egemonia sulla
coalizione che la dc esercitava ininterrottamente dal 1947. La scissione
avrebbe significato la fine della centralità democristiana e, dunque, la
conflittualità interna doveva essere mantenuta entro la cornice dell'unità
del partito, badando a non perdere alcuna componente.
Alla fine, l'operazione di contenimento riuscirà: a parte le trascurabili
perdite dei gruppi di Agostino Greggi sulla destra (qualche decina di
migliaia di voti nella sola circoscrizione di Roma) e di Livio Labor sulla
sinistra (poco più di 100.000 voti in tutta Italia), la Dc resterà unita, ma
questo comporterà il prezzo di una prolungata instabilità nel gruppo
dirigente. Infatti, la scissione avrebbe comportato forti rischi per
l'egemonia Dc sul sistema politico, ma anche un processo di
omogeneizzazione nei due tronconi risultati dalla rottura. La persistenza
dell'unità, vice versa, manteneva la situazione di forte disomogeneità e,
per di più, faceva crescere la temperatura interna perchè la conquista
delle posizione di comando nel partito diventava l'unico modo di
affrontare la crisi e, in definitiva, diventava ragione di sopravvivenza per
ciascun singolo gruppo. Ovviamente, questo incoraggiava i passaggi
opportunistici da una corrente all'altra, la tendenza a dar vita a gruppi
locali autonomi, il continuo farsi e disfarsi di alleanze, magari
nell'ambito di uno stesso congresso, con la conseguenza di introdurre
sempre nuovi motivi di divisione ed instabilità del gruppo dirigente.
L'elezione del Presidente della Repubblica, sul finire del 1971, rese
evidente lo stato di sofferenza del partito sottoposto alle tendenze
divaricanti delle correnti: il candidato ufficiale, Fanfani, andò incontro
ad una ccente sconfitta perchè le sinistre del suo partito gli negarono i
propri voti per ben sedici scrutini di seguito. La soluzione veniva trovata
alla ventitreesima votazione, con l'appoggio determinante del Msi al
nuovo candidato Dc, l'on Giovanni Leone il che comportò l'immediata
caduta del governo di centro sinistra cui seguì la costituzione di un
governo monocolore guidato da Andreotti, esplicitamente rivolto ad
ottenere lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni nelle quali ci si
riprometteva di ottenere un sufficiente margine per una maggioranza
centrista.
L'esito si rivelò, tuttevia, diverso dalle aspettative: il Psi resse
confermando praticamente intatta la sua rappresentanza parlamentare,
mentre il Pci otteneva una nuova -anche se più ridotta- affermazione che
compensava parzialmente la perdita di un milione di voti di sinistra
(Psiup, Manifesto, Mpl) restati senza rappresentanza per non aver
ottenuto alcun quoziente pieno. Veniva ugualmente costituito un
governo centrista presieduto sempre da Andreotti e composto da Dc, Pli,
Psdi con l'appoggio esterno di Pri e Svp. Ma i margini di maggioranza
risultavano estremamente risicati, in particolare al Senato dove il
governo ottenne la fiducia per soli tre voti.
L'operazione politica appariva, dunque, assai precaria e fragile sin dai
suoi inizi; inoltre, nell'autunno i rinnovi contrattuali delle principali
categorie dell'industria e di alcune importanti categorie dei servizi,
offriva una occasione agli avversari della formula centrista (dai
comunisti ai socialisti alle sinistre Dc che trovano un naturale terreno di
convergenza nella Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil) una occasione
favorevolissima per battere il governo.
A marzo era chiaro che il naufragio del tentativo neo centrista.
L'occasione veniva offerta a fine maggio dal Pri che, cogliendo il pretesto
del disaccordo sulla legge per la televisione, dichiarava esautrita la
funzione del governo Andreotti e ritirava la fiducia.
Già a gennaio, però, era stato convocato il XII congresso del partito per
il mese di giugno. In primavera i congressi di sezione avevano già
delineato il quadro che si cristallizzerà nell'assise nazionale del partito:
a) Andreotti-Colombo 16,5%
b) dorotei e centristi (Rumor, Piccoli, Taviani, Bisaglia) 34,2%
c) fanfaniani 19,8%
d) morotei 8,7%
e) sinistra di Base 10,8%
f) Forze Nuove 10%.
Come si vede le sinistre- che si opponevano dichiaratamente alla
prosecuzione del governo Andreotti raccoglievano circa il 30%, e a
questo gruppo occorreva aggiungere quello di Fanfani, che rovesciando
le sue precedenti posizioni, manifestava disponibilità a riprendere
l'accordo con i socialisti. In questo modo, gli oppositori di Andreotti
raggiungevano poco più del 49%. Sul fonte opposto, ovviamente, si
collocava il gruppo di Andreotti e Colombo. Determinante diveniva
l'atteggiamento del "correntone" di Rumor, Piccoli, Taviani e Bisaglia.
Alla viglilia del congresso, Fanfani convocava a Palazzo Giustiniani, una
riunione dei capi corrente, nella quale si presentava con un accordo già
fatto con Moro, l'adesione di Rumor chiudeva i giochi congressuali
segnando il definitivo tramonto dell'esperimento neo centrista. L'accordo
prevedeva l'elezione di Fanfani alla segreteria del partito, e un nuovo
governo di centro sinistra presieduto da Rumor, che così riscuoteva il
premio della propria scelta. Moro si accontentava della presidenza del
Consiglio Nazionale per Zaccagnini, del ministero degli esteri per sè,
oltre che del successo politico di aver imposto la propria linea al partito,
pur contando sulla corrente più piccola.
Andreotti e Forlani venivano, invece, invitati a farsi da parte nella
considerazione che la Dc è un partito la cui storia "è ricca di quaresime e
resurrezioni ", come ebbe a dire un raggiante Fanfani dal podio di neo
eletto.
Ma anche la segreteria Fanfani fallirà nel tentativo di dare una nuova
guida stabile alla Dc: in meno di due anni, Fanfani verrà costretto alle
dimissioni e la situazione tornerà magmatica.
La fine dei consolidati assetti di potere del decennio doroteo, comportò
l'apertura di un periodo assai prolungato di instabilità dei gruppi
dirigenti Dc sia a livello nazionale che locale. Questa fase si protrarrà per
un periodo anche più lungo di quello che aveva portato dalla ledership
degasperiana all'egemonia dorotea, infatti, essa durerà per sette anni -
fra il 1969 ed il 1976- sino all'avvento della egemonia della sinistra del
partito espressa prima dalla segreteria Zaccagnini (1976-1980) e -dopo l'
interludio di segreteria di Flaminio Piccoli (1980-1983)- successivamente
dalla segreteria De Mita (1983-1989).
L'instabilità nella direzione del partito (che pertaltro si incrocerà con
analoghe dinamiche anche negli altri partiti di centro sinistra) si espresse
in queste forme:
a) tendenza alla estrema frammentazione delle correnti
b) accentuato carattere personalistico delle fazioni
c) frequentissimi mutamenti di alleanze fra i diversi gruppi
d) forte mobilità dei singoli quadri intermedi fra le diverse correnti
e) tendenza a dar vita ad "aggregazioni a scavalco" (ad es. una corrente
di destra ed una di sinistra alleate contro una di centro).
Tutto ciò comportò diverse conseguenze, quali:
a) la prevalenza delle valutazioni tattiche su quelle di ordine strategico
b) la maggiore attenzione ai problemi interni del partito rispetto a quelli
generali
c) la tendenza a spostare l'asse principale della dialettica "amico-nemico"
nell'ambito intrapartitico rispetto a quello infrapartitico (per cui una
corrente rivale dello stesso partito rappresenta il nemico principale,
anche rispetto ad altri partiti, magari ideologicamente contrapposti)
d) la conseguente tendenza a dar vita a cordate trasversali fra correnti di
partiti diversi contrapposte ad analoghe cordate trasversali
e) la prevalenza dell'efficienza organizzativa dei singoli gruppi sulla
capacità di elaborazione politica
f) la conseguente centralità del problema dell'accesso alle risorse
g) il ricorso a forme anomale di lotta interna, come il ricorso a scandali
contro correnti rivali.
Ovviamente, si trattò di dinamiche largamente interdipendenti fra loro,
per cui:
- l'esigenza di potenziare la propria organizzazione ed il proprio peso
congressuale, induceva ad uno sforzo finanziario straordinario, per
"acquistare" gruppi o singoli, per finanziare le campagne elettorali, per
sostenere le sezioni, agenzie o associazioni legate alla propria corrente
ecc. Ma, tutto questo imponeva l'assoluto bisogno di trovare nuove fonti
di finanziamenti, anche di natura illegale. Ovviamente, questo offiva alle
correnti rivali il destro di uno scandalo.
- la continua instabilità degli equilibri di potere interni, portava
inevitabilmente a centrare l'attenzione sulle vicende interne al partito a
scapito di quella per i problemi di inetresse generale. Naturalmente,
questo induceva, dopo qualche tempo, ad una riduzione dei consensi e,
parallelamente, alla perdita di posizioni istituzionali (in Parlamento,
negli enti locali, nei sindacati, nella stampa, nelle cooperative o nel
mondo bancario ecc.). A sua volta, ciò produceva una riduzione delle
risorse da ripartire fra i diversi gruppi del partito, con la conseguenza di
aumentare il tasso di conflittualità interna e, dunque, attivare un circolo
vizioso per cui alla riduzione di influenza corrispondeva un aumento di
conflittualità interna, quindi maggiore instabilità e questo poneva le
premesse per una nuova sconfitta
- l'esigenza di adottare la massima flessibilità tattica -per allearsi con una
corrente ideologicamente agli antipodi, o per concludere una alleanza
trasversale con la corrente di un altro partito, pur di battere il nemico
interno più prossimo- comportava necessariamente una minore
attenzione ai contenuti politici delle varie intese, sino al limite del puro
accordo di potere privo del pur minimo scopo politico. Ma questo,
ovviamente, comporta alleanze più fragili perchè destinate ad essere
rimesse in discussione non appena ad uno dei contraenti si offra
l'occasione di una intesa più vantaggiosa. D'altro canto, a lungo andare,
questo comporta l'azzeramento delle capacità di elaborazione politica
dei vari gruppi e, di conseguenza, una simmetrica diminuzione di essi di
produrre egemonia sul partito.
E' da notare che alcune di queste tendenze resteranno anche dopo la
fine del periodo di instabilità: ci sono comportamenti che, una volta
entrati in uso, è assai difficile far recedere anche dopo che siano cessate
le cause che li avevano attivati.
Il caso della Dc milanese si presenta, in questo senso, come
assolutamente esemplare.