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Alfio Quarteroni
Posizione Attuale
• Direttore della Cattedra di Modelling and Scientific Computing all’EPFL (Ecole Polytechnique Fédérale) di Losanna, dal 1998.
• Professore di Analisi Numerica al Politecnico di Milano, dal 1989.
• Direttore Scientifico del MOX del Politecnico di Milano dal 2002.
Posizioni Precedenti
• Direttore della Divisione Ricerca Scientifica del CRS4, Center for Research and Advanced Studies in Sardinia (fondato dal Prof. Carlo Rubbia).
• Full Professor all’Università del Minnesota (Minneapolis). • Professore di Analisi Numerica all’Università Cattolica di Brescia, e direttore del
Dipartimento di Matematica.
• Ricercatore all’Istituto di Analisi Numerica del C.N.R. di Pavia.
Pubblicazioni e Conferenze
• Autore di 12 libri (10 pubblicati da Springer, 1 da Oxford University Press, 1 da Esculapio).
• Editore di 3 libri (1 pubblicato da Springer, 1 da North-Holland Elsevier, 1 dalla American Mathematical Society).
• Autore di oltre 150 lavori pubblicati su riviste internazionali o su atti di conferenze. • Relatore invitato oltre 200 volte in Convegni Internazionali o Istituti Accademici. • Professore Invitato in oltre 50 Università e Centri di Ricerca internazionali. • Membro del Comitato Editoriale di 16 Riviste Internazionali e 3 Serie di Libri. .
Premi e Riconoscimenti
• “NASA Group Achievement Award for the pioneering work in Computational Fluid Dynamics as a member of the ICASE numerical analysis and algorithms group”, 1992.
• Membro dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1995. • Titolare della Cattedra Galileiana della Scuola Normale Superiore di Pisa, 2001. • Laurea Honoris Causa in Ingegneria Navale, Università di Trieste, 2003. • Vincitore del “SIAM (Society for Industrial and Applied Mathematics) Outstanding Paper
Prize 2004” (lavoro in collaborazione con A. Veneziani e P. Zunino). • Vincitore del “IACM (Int.l Association of Computational Mechanics) Fellow Award”,
2004. • Membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei (socio corrispondente), 2004.
Il gruppo diretto da Alfio Quarteroni ha condotto le simulazioni matematiche per il Design Team di Alinghi, vincitore dell’ultima edizione dell’ America’s Cup, 2003.
COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Tecnologia, medicina, sport… e la matematica?
Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
TECNOLOGIA, MEDICINA, SPORT…
E LA MATEMATICA?
Alfio Quarteroni
MOX, Politecnico di Milano Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL)
Da qualche tempo la matematica
applicata sta vivendo una sorta di stato di
grazia. Le simulazioni al calcolatore basate
su modelli matematici consentono di
rappresentare con accuratezze sempre più
accettabili fenomeni di reale interesse in
numerosi campi delle scienze applicate.
In molti settori industriali la
modellistica matematica è ormai di uso
consolidato, in altri il potenziale contributo
che la matematica può apportare sta
venendo alla luce in modo sempre più
apparente. Una ragione di tale successo è
da ascrivere allo sviluppo impetuoso del
calcolo scientifico, ovvero della disciplina
che consente di tradurre un modello
matematico (risolubile in forma esplicita
solo in rarissime situazioni) in algoritmi che
possano essere trattati su calcolatori di
potenza straordinariamente elevata. In
effetti, quando si usano modelli matematici,
si parte da un problema concreto
dell’Ingegneria, della Medicina,
dell’Economia, e si cerca di rappresentarlo
attraverso equazioni. Normalmente,
problemi di questo tipo coinvolgono una
quantità enorme di informazioni (migliaia o
addirittura milioni), che per di più hanno tra
loro relazioni molto complesse. E’ pertanto
necessario selezionare quelle più rilevanti e
creare le equazioni che descrivono il
problema. Dopo di che si introducono
algoritmi efficienti in grado di risolvere tali
equazioni al calcolatore, velocemente e con
la dovuta accuratezza.
Ad esempio nella progettazione
ingegneristica si studia l'ottimizzazione di
forme in rapporto a specifiche esigenze
produttive in campo aeronautico, navale o
automobilistico. Poiché le tecnologie
industriali diventano sempre più complesse,
mentre i cicli di innovazione si accorciano, i
modelli matematici, se accuratamente
sviluppati, possono offrire nuove possibilità
per dominare la complessità ed esplorare
soluzioni innovative in tempi accettabili.
Essi si ottengono spesso via astrazione. In
effetti, l’innovazione richiede flessibilità, la
flessibilità richiede astrazione, il linguaggio
dell’astrazione è la matematica. La
matematica, tuttavia, non è solo linguaggio,
essa aggiunge valore: approfondimento
della conoscenza, progettazione di algoritmi
efficienti, ricerca di soluzioni ottimali.
Questo approccio si rivela utile
anche al fine di migliorare le prestazioni
nello sport da competizione. Nel caso
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all’uso di raffinate simulazioni al computer e
potrebbe rilevarsi estremamente utile nella
fase preliminare alla realizzazione di
trattamenti terapeutici e/o chirurgici.
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LA MODELLISTICA IN DIAGNOSTICA
PER IMMAGINI
Marco Salvatore
Professore di Diagnostica per Immagini Università di Napoli Federico II
Nella Diagnostica per Immagini
funzionale, originariamente rappresentata
dalla sola Medicina Nucleare, vengono
utilizzati modelli matematici per studiare il
comportamento delle molecole biologiche
all’interno dell’organismo. I vari organi e
apparati sono simulati con modelli
matematici semplici e sono impostate le
equazioni che descrivono il comportamento
delle sostanze biologiche, come il sangue,
lo zucchero, l’ossigeno, ecc…, all’interno
dell’organismo. La sostanza biologica da
studiare è poi “tracciata”, resa cioè visibile
nel paziente, con l’iniezione di radioisotopi
(nel caso della Medicina Nucleare) o di
mezzi di contrasto (iodati nella TC,
paramagnetici nella Risonanza Magnetica).
La Diagnostica per immagini consente infine
di “vedere”, a tempi diversi, la sostanza
tracciata che si trova all’interno dei vari
organi, permettendo di studiare, tramite le
equazioni dei modelli matematici impostati,
il comportamento delle sostanze biologiche
naturali o di farmaci.
L’applicazione della modellistica
matematica alla Diagnostica per immagini
consente diagnosi precoci in quanto può
evidenziare anche piccole anormalità nei
processi biologici che avvengono all’interno
del corpo umano.
Si fa grande uso della modellistica
anche per sviluppare nuovi traccianti
radioattivi per la Medicina Nucleare o nuovi
mezzi di contrasto per la TC e la Risonanza
Magnetica. Essa è fondamentale anche
nello sviluppo di nuovi farmaci. In questo
caso si sviluppano modelli basati sulla
fisiologia animale e, tramite la Diagnostica
per Immagini, si studia il comportamento
dei nuovi farmaci all’interno degli animali da
esperimento. Inoltre il progredire della
modellistica ha contribuito anche alla
riduzione del numero di animali da
esperimento necessari alla messa a punto
di nuovi farmaci.
Da alcuni anni le applicazioni della
modellistica alla Diagnostica per Immagini
si sono ulteriormente estese, contribuendo
all’analisi automatica delle immagini
diagnostiche e alla diagnosi assistita dal
computer. In particolare sono stati
sviluppati modelli specifici per le varie
metodiche della Diagnostica per Immagini,
quali ultrasuoni, TC, Risonanza Magnetica,
indispensabili all’estrazione di dati
quantitativi dalle immagini e nei processi di
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riconoscimento automatico di tessuti e
organi tramite computer.
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DALLA MODELLISTICA ALLA
CARDIOCHIRURGIA: IPOTESI PER IL
FUTURO
Maurizio Cotrufo
Professore di Chirurgia Cardiaca Seconda Università di Napoli
Un’applicazione della bio-ingegneria
alla ricerca medica è rappresentata dai
modelli ad elementi finiti. Essi riproducono
le strutture complesse degli organi o
apparati, riconducendole a insiemi di
elementi geometrici, per poi studiarne il
comportamento, simulando di volta in volta
proprietà “fisiologiche” o “patologiche” dei
tessuti e/o delle forze implicate. Nell’ambito
della patologia cardiovascolare, ciò ha reso
possibile, ad esempio, lo studio dettagliato
del funzionamento delle valvole cardiache
(in particolare aortica e mitrale), del flusso
in aorta ascendente e delle basi
fisiopatologiche dello sviluppo di patologie
degenerative di tali strutture.
Più recentemente, anche la ricerca in
cardiochirurgia ha cominciato ad avvalersi
di tale approccio di studio. I modelli ad
elementi finiti consentono di analizzare le
interazioni dinamiche tra flusso ematico e
strutture cardiache e vascolari sia native
che protesiche. È possibile, ad esempio,
predire le performance in vivo di protesi
valvolari, sia biologiche che meccaniche, in
corso di progettazione, valutando le forze
che si esercitano sulle componenti della
valvola e le strutture native contigue, in
base alle caratteristiche geometriche del
modello protesico. Anche le conseguenze
meccaniche ed emodinamiche di interventi
di ricostruzione della valvola mitralica o di
rimodellamento del ventricolo sinistro
possono essere predette, così da poter
ottimizzare le relative tecniche chirurgiche.
L’analisi di modelli ad elementi finiti
a partire da acquisizioni di imaging 3-D nel
singolo paziente rappresenta una frontiera
ancora aperta, potenzialmente utile sia sul
piano scientifico, per la definizione della
fisiopatologia delle malattie trattate, che
clinico, per la “personalizzazione”
dell’approccio chirurgico.
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LA TAC VIENE DA LONTANO!
Nicola Fusco
Professore di Analisi Matematica Università degli Studi di Napoli Federico II
Il problema della ricostruzione di
un’immagine a partire dalle sue proiezioni o
dalle sue sezioni lineari interviene, da ormai
più di quarant’anni, in un gran numero di
applicazioni scientifiche, mediche e
tecnologiche con uno spettro che va
dall’infinitamente grande all’ infinitamente
piccolo. Gli stessi strumenti matematici
permettono infatti sia di ricostruire la
struttura molecolare dei batteriofagi che di
ottenere la dislocazione di sorgenti di
segnali radio provenienti dagli angoli più
lontani dell’universo.
Di tutte queste applicazioni quelle
che hanno avuto maggiore impatto sulla
nostra società riguardano l’area della
diagnostica medica per immagini, a partire
dalle ormai familiari TAC (Tomografia
Assiale Computerizzata) e Risonanza
Magnetica.
La matematica nascosta dietro queste
tecniche di ricostruzione delle immagini è
piuttosto complessa, ma
sorprendentemente antica. Il fisico nucleare
Allan Cormack, che insieme all’ingegnere
elettronico Godfrey Hounsfield ricevette nel
1979 il premio Nobel per la medicina per i
suoi studi sulla tomografia computerizzata,
racconta nelle sue memorie che le prime
idee a riguardo gli vennero quando nel
1955 fu assegnato alla divisione di
Radiologia del famoso ospedale Groote
Shuur di Città del Capo. Fra le varie
difficoltà che dovette affrontare prima di
arrivare a realizzare le sue intuizioni quelle
di carattere matematico le risolse solo nel
1969 quando seppe per caso dell’esistenza
di una teoria, che prima di allora non aveva
ricevuto particolare attenzione fra gli
addetti ai lavori, che il matematico
austriaco Johann Radon aveva pubblicato
nel 1917 e che oggi è nota come
Trasformata di Radon.
Per spiegare in maniera non tecnica
in che cosa consiste questa teoria
immaginiamo di avere un oggetto solido, di
forma qualunque, che non conosciamo ma
del quale sappiamo calcolare le sezioni
lungo delle rette. In altre parole, preso un
qualunque fascio di rette che si diramano
da un punto dello spazio posto fuori
dell’oggetto, sappiamo calcolare quanto
misura la sezione dell’oggetto attraversata
da ogni retta. La teoria di Radon stabilisce
che se sappiamo fare questo per tutte le
possibili rette che partono da un punto
qualunque fuori dell’oggetto e se
quest’ultimo non è troppo frastagliato (in
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un senso matematico preciso) allora
l’oggetto in questione è univocamente
determinato, cioè ne possiamo conoscere
esattamente la forma. Non solo, ma la
stessa teoria fornisce una formula che ne
permette la ricostruzione esplicita.
Nella pratica, non possiamo certo
‘misurare’ con una macchina una certa zona
all’interno del corpo di un paziente lungo
tutte le sezioni lineari possibili e a partire
da un qualunque punto di osservazione, ma
ci dobbiamo accontentare solo di un
numero finito (anche se molto alto) di
misure. Tuttavia, quello che non viene
misurato esplicitamente, la nostra macchina
se lo ricostruisce, sulla base delle misure
effettivamente compiute, con opportuni
procedimenti di interpolazione numerica.
Inoltre, con la TAC non è che si
misurino direttamente le sezioni della
porzione interna al corpo che si vuole
ricostruire, si fanno in realtà misure
indirette. Ad esempio si misura
l’assorbimento da parte dell’oggetto cui si è
interessati di un fascio di protoni emesso
da una sorgente che ruota intorno al
paziente. E dai valori dell’assorbimento se
ne deducono informazioni sulla lunghezza e
sulla densità del materiale attraversato .
Ma il principio matematico rimane quello
che abbiamo detto: si può ricostruire la
geometria di un oggetto solido se se ne
sanno misurare le sezioni rettilinee. E quelle
formule che Radon produsse nel lontano
1917 e che sembravano solo una curiosità
per addetti ai lavori oggi sono nascoste
dentro una macchina che negli ultimi
vent’anni ha rivoluzionato il mondo della
diagnostica medica.
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MATEMATICA E TELECOMUNICAZIONI:
UN BINOMIO INSCINDIBILE
Ovidio M. Bucci
Professore di Campi Elettromagnetici Università degli Studi di Napoli Federico II
La pervasività delle telecomuni_
cazioni e la possibilità di ricevere, inviare o
condividere informazioni di natura la più
disparata ed in quantità sempre maggiore
caratterizzano le odierne società
tecnologicamente avanzate. Che ciò sia
stato reso possibile dal prodigioso sviluppo
delle tecnologie microelettroniche è ben
noto. Non altrettanto noto è il fatto che alla
base delle telecomunicazioni moderne vi è
l’opera di un matematico (ed ingegnere)
americano, Claude E. Shannon (1916-
2001), che in un epocale lavoro del 1948
sviluppò la teoria matematica della
comunicazione. Per apprezzarne la
rilevanza, ricordiamo che lo scopo di un
sistema di telecomunicazione è quello di
trasferire l’informazione contenuta in un
messaggio da un punto all’altro. Ciò pone
subito le prime due questioni affrontate e
risolte da Shannon, e cioè: come si può
misurare rigorosamente l’informazione
contenuta in un messaggio? Qual è la
massima quantità di informazione che un
sistema può trasferire in un dato tempo?
Peraltro, ogni sistema di telecomunicazione
reale distorce e disturba inevitabilmente i
segnali che lo attraversano, causando un
errore nella ricostruzione del messaggio
ricevuto, e quindi una perdita di
informazione. Orbene, Shannon dimostrò
che tale errore può essere ridotto a piacere,
pur di codificare (e decodificare)
opportunamente il segnale trasmesso,
adattandolo, per così dire, al sistema. Tale
risultato ha rivoluzionato il modo stesso di
concepire le telecomunicazioni, spostando
l’enfasi sugli algoritmi di codifica e
decodifica e, conseguentemente, sulle
tecniche di tipo numerico, che permettono
di implementarli nel modo più naturale ed
efficiente, oltre a consentire la cifratura dei
messaggi a fini di sicurezza o commerciali.
Grazie alla disponibilità di processori
sempre più potenti e compatti, ciò ha
condotto all’attuale “rivoluzione digitale”.
Sempre più comunicare, vedere, sentire
significa calcolare. Forse non è vero che,
come affermava Pitagora, la realtà è
numero: di certo, però, il numero è
l’essenza della nostra realtà.
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TECNICHE NUMERICHE NELLE MISURE
SPERIMENTALI.
Quando lo sperimentatore ricorre al calcolatore Giovanni M. Carlomagno
Professore di Gas-dinamica Università degli Studi di Napoli Federico II
Le tecniche numeriche sono
utilizzate nella risoluzione di modelli teorici
ma sono molto utili anche allo
sperimentatore. Spesso, i moderni
strumenti di misura danno una mole di dati
che si possono trattare solo numericamente
e l’analisi dei dati richiede sofisticate
elaborazioni al calcolatore. Tipici esempi
sono la Particle Image Velocimetry (PIV) e
la Termografia.
La tecnica PIV ricava le velocità di un
fluido in un piano dalla misura degli
spostamenti di minuscole particelle
traccianti. Con una telecamera digitale e
una lama di luce laser si acquisisce una
coppia di immagini successive e, noto
l’intervallo di tempo tra esse, le velocità si
determinano valutando gli spostamenti dei
traccianti.
Per stimare questi ultimi, ogni
immagine viene suddivisa in celle la cui
dimensione è dettata dal numero di
particelle presenti e dai gradienti di velocità
nel campo di moto. Per ciascuna cella, la
stima dello spostamento viene fatta
determinando la posizione del picco di
mutua covarianza spaziale tra celle
corrispondenti e, per ridurre i tempi, si
opera calcolando lo spettro di potenza
mutua eseguito con algoritmi FFT e con
stimatori frazionari su tre punti.
Nell’iterazione successiva la seconda cella
viene traslata di una quantità pari allo
spostamento già stimato riducendo le
dimensioni delle celle nelle successive
interrogazioni e migliorando la risoluzione
spaziale. Una ulteriore miglioria si ottiene
imponendo una distribuzione di spostamenti
variabile sulla cella che, per ridurre il
calcolo, viene valutata interpolando
bilinearmente la griglia degli spostamenti
precedenti; è però necessario stimare i
livelli tra i pixel via una interpolazione con
funzioni sinc.
Alla fine di ogni passo si hanno i
vettori spostamento (fino a circa 10.000).
Per la inevitabile presenza di vettori spuri,
le velocità si devono controllare
statisticamente con il test della mediana e
sostituire quelle spurie con interpolazioni di
vettori adiacenti corretti.
In figura sono riportati il campo di
moto, le linee di flusso e le mappe di
vorticità istantanee in un getto di aria che si
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immette (dal basso) in un flusso
trasversale. Si notano i vortici istantanei
presenti intorno al getto e la loro elevata
vorticità. Questo tipo di moto è molto
rilevante nel raffreddamento di palettature
di turbine a gas e nello scarico di inquinanti.
-1 0 1
1
2
3
26.523.019.516.012.5
9.05.52.0
-1.5-5.0-8.5
-12.0-15.5-19.0-22.5-26.0
Getto in cross-flow
Il termografo all’infrarosso misura la
distribuzione bidimensionale della
temperatura sulla superficie di un corpo. La
misura è affetta da errori dovuti alla
conduzione termica in direzione tangenziale
e in regime non stazionario, si deve
considerare la variazione della conducibilità
termica con la temperatura del sensore.
Pertanto le equazioni da risolvere oltre che
non stazionarie sono anche non lineari.
La termografia è utile nell’analisi dei
beni culturali. La tecnica più usata è quella
lock-in con la quale si riscalda la superficie
del campo con modulazione armonica che
genera onde termiche nel materiale. Per
l’elevata sensibilità del termografo
(dell’ordine dei centesimi di grado) le
sollecitazioni termiche sono molto
contenute. Diminuendo la frequenza di
modulazione, aumenta la profondità di
misura. In presenza di particelle estranee o
distacchi, e quindi proprietà termiche
diverse rispetto al materiale base, l’onda
incidente viene riflessa ad un tempo diverso
e cioè con diverso angolo di fase. Angolo di
fase uniforme indica materiale omogeneo e
integro mentre variazioni di angolo di fase
indicano disuniformità o presenza di difetti.
Si riportano immagini di fase relative a due
opere presenti nel Museo Archeologico di
Napoli: il mosaico della Battaglia di Isso e
l’affresco delle danzatrici della tomba di
Ruvo. Nell’immagine di fase della Battaglia
di Isso, le zone più chiare indicano assenza,
o distacco di tessere, e la variazione di
colore sulla cintura di Alessandro presenza
di tessere di diverso materiale. Per
l’affresco delle danzatrici della tomba di
Ruvo, le zone più chiare nell’immagine di
fase a destra indicano presenza di pittura
originale mentre le zone più scure
x/D
y/D
ΩzD/u∞
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rifacimenti. Nell’immagine di fase a sinistra
relativa all’area delimitata dal rettangolo,
si nota una fascia orizzontale più scura tra
due fasce più chiare, non visibili ad occhio
nudo, che indicano un rifacimento della
cornice, l’originale essendo costituita da tre
fasce realizzate con due diversi tipi di
pittura.
Particolare del mosaico della “Battaglia di Isso”,
Fotografia Immagine di fase
Un pannello dell’affresco delle “danzatrici della tomba di Ruvo”
Immagine di fase di dettaglio Fotografia Immagine di fase
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I PONTI SOSPESI E LA SFIDA ALLA
GRAVITÀ
Gaetano Manfredi
Professore di Tecnica delle Costruzioni Università degli Studi di Napoli Federico II
Sin dagli albori della civiltà l’uomo
ha la necessità superare fiumi e gole per
spostarsi. Dalle vette dell’Himalaya ai picchi
delle Ande, popoli diversi, utilizzando i
differenti materiali che la locale natura
offre, pensano di scavalcare il vuoto con lo
stesso sistema: collegando le due sponde
con delle corde e sospendendo a queste un
tavolato che consenta un agevole
passaggio. E’ nato il ponte sospeso, che
empiricamente sfrutta un modello
meccanico molto semplice, quello della fune
pesante o catenaria.
In molti, costruendo questi ponti,
probabilmente si chiedono quali siano le
dimensioni o la forma ideali a garantire un
attraversamento sicuro, ma solo
l’esperienza accumulata nei secoli li guida.
Dopo una prima intuizione di Galileo, solo
nel 1690 Giacomo Bernoulli risponda in
maniera “esatta” a queste domande
risolvendo l’equazione della catenaria;
giunge alla soluzione utilizzando la “sua
potentissima chiave”, cioè il calcolo
differenziale appena introdotto. Dopo
migliaia di anni dall’inizio della costruzione
dei ponti, l’uomo comincia finalmente a
calcolarli.
Ma nuove sfide sono alle porte. La
rivoluzione industriale introduce l’acciaio e
l’Ottocento è un rincorrersi nella
costruzione di ponti sempre più arditi; ma,
a causa del vento, i crolli si susseguono e
superare alcuni limiti spaziali sembra
impossibile.
Un’evoluzione nella modellazione
matematica diventa necessaria. Rankine nel
1858 formula la prima teoria statica dei
ponti sospesi, ma si deve a Melan nel 1888
la brillante formulazione del problema
dell’equilibrio e della congruenza tra cavo e
trave. La sua applicazione progettuale da
nuovo impulso nella costruzione di grandi
ponti sospesi e, tra gli altri, nasce nel 1933
il Golden Gate. Gli impalcati diventano
molto snelli e si distingue in questo il
Tacoma Bridge, che, però, comincia ad
oscillare subito dopo la costruzione e dopo
pochi mesi crolla rovinosamente.
Subito si comprende che sui ponti si
possono verificare degli effetti aerodinamici
non stazionari per effetto della corrente del
vento che attraversa il sottile nastro
dell’impalcato. Occorre introdurre una
teoria aeroelastica. Prandtl e von Karman
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ne forniscono la base matematica,
favorendo la definizione di nuovi e più
evoluti criteri di progetto .
Ci avviciniamo ai nostri giorni e ponti
sempre più lunghi si realizzano: il ponte di
Verrazzano a New York, il ponte sul Tago ed
il secondo ponte sul Bosforo.
Nel 1995 si sta per completare il ponte più
lungo della storia, l’Akashi Kaikyo (1990
metri) a Kobe, quando un violentissimo
sisma si scatena. Le due pile sulle sponde
opposte si spostano di quasi 1,3 metri: la
sfida riparte modificando il progetto
originario.
Oggi si creano nuovi materiali
sempre più leggeri, resistenti e durevoli
come il carbonio. Si sviluppano nuovi
modelli matematici per tener conto
dell’azione asincrona del terremoto.
La grande impresa del domani è il
Ponte sullo Stretto di Messina con i suoi
3300 metri di luce ed i nemici di sempre: il
vento ed il terremoto. Sperimentazioni
d’avanguardia e modelli matematici
sofisticatissimi ci accompagnano in questa
sfida, ma la natura ci sta preparando
qualche altra sorpresa?
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UN MODELLO MATEMATICO IN
BIOLOGIA
Carlo Sbordone
Professore di Analisi Matematica Università degli Studi di Napoli Federico II
E’ noto da tempo che più un animale
è pesante e, in proporzione, meno si nutre
e più lentamente respira. Ad esempio, un
elefante di 7 tonnellate pesa 100 volte più
di un uomo, ma la quantità di cibo di cui ha
bisogno non è 100 volte, ma solo circa 30
volte maggiore di quella necessaria
all’uomo. L’elefante si nutre tre volte meno
dell’uomo, il topo, poi, cinque volte di più,
in proporzione. Più in generale, si sa che la
quantità di cibo necessaria a mantenere in
vita un mammifero non è proporzionale al
suo peso corporeo, ma al peso, elevato ad
una certa potenza, precisamente a 3/4. Si
sa anche che il ritmo respiratorio è
inversamente proporzionale al peso
corporeo elevato a 1/4. Stiamo accennando
in particolare alla cosiddetta “Legge della
riduzione del metabolismo” che solo
recentemente ha ricevuto una spiegazione
scientifica mediante un modello matematico
elaborato da tre scienziati americani. Alla
base del modello vi è l’idea che gli
organismi sono mantenuti in vita da sistemi
di distribuzione delle risorse, che
trasportano sostanze materiali all’interno di
reti (ad esempio il sistema arterioso) che si
ramificano gerarchicamente, in modo da
servire tutte le parti del corpo. Inoltre si
accetta l’ipotesi che i rami terminali (i
capillari) abbiano la stessa misura
indipendentemente dalle dimensioni
corporee. I capillari infatti devono servire
gruppi di cellule ad una scala talmente
ridotta che le loro dimensioni non hanno
alcuna relazione con la massa corporea.
L’architettura di queste reti è assai
complessa e può essere descritta in termini
della Geometria Frattale. Se ne può avere
un’idea visitando la Cappella San Severo a
Napoli, ove sono conservati abbastanza
integri i resti dell’apparato circolatorio di un
uomo e di una donna. Infine, il modello
presuppone che l’evoluzione abbia
modulato le reti in modo da minimizzare
l’energia necessaria per distribuire le
risorse.
Tra le conseguenze del modello vi è
anche la possibilità di determinare il grado
di ramificazione di un sistema circolatorio.
E’ interessante rilevare che una balena, pur
pesando 10 milioni di volte più di un topo,
ha solo il 70% in più di ramificazioni nel
proprio sistema circolatorio.
Il modello interpreta anche la vastità
di forme e misure corporee presenti nel
mondo animale che vanno da un
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decimiliardesimo di milligrammo per certi
microbi fino alle cento tonnellate per certe
balene in una gamma di 21 ordini di
grandezze, quella fondamentale proprietà
dei viventi che va sotto il nome di
Biodiversità.
Numerose sono le aspettative suscitate da
questo modello matematico.
Naturalmente esso non potrà tener
conto di tutti gli aspetti dei fenomeni in
esame e tuttavia, proprio per questa
ragione, questo stesso modello potrà forse
adattarsi a fenomeni anche assai diversi tra
loro (in Economia o in Ecologia) dando
risultati sorprendenti.
Macchine Anatomiche
Di Raimondo de Sangro
COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Tecnologia, medicina, sport… e la matematica?
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MATEMATICA ED ECONOMIA: IL CASO
DELLE ASTE
Achille Basile
Professore di Matematica Università degli Studi di Napoli Federico II
Le scelte di investimento a garanzia
delle prestazioni future erogate da un fondo
pensione ai propri iscritti, l’assegnazione di
una concessione governativa, l’allocazione
di risorse scarse tra differenti centri di
utilizzo, la scelta della migliore procedura di
sintesi delle opinioni degli individui di una
collettività, il commercio elettronico, la
programmazione intergenerazionale dello
sfruttamento di un bacino di pesca, sono
solo alcuni degli aspetti della nostra vita
economica e sociale nei quali la Matematica
svolge un ruolo non banale.
Curioso destino quello della
Matematica, alla quale la società, con
atteggiamento schizofrenico, talvolta
attribuisce il potere taumaturgico di fornire
comunque certezze a qualunque
ragionamento che elenchi un po’ di numeri,
talaltra riserva lo scherno identificandola
con l’aritmetica elementare.
Un esame meno superficiale mostra
che non di schizofrenia si tratta, bensì di
inadeguata consapevolezza delle
potenzialità della Matematica. Vediamo,
allora, più da vicino, un esempio per
accrescere la nostra consapevolezza.
Supponiamo che, tra vari pretendenti, sia
da assegnare una licenza pubblica per lo
svolgimento di una certa attività (potrebbe
riguardare la telefonia mobile, la gestione di
un’autostrada o di una linea ferroviaria).
L’interesse per la licenza è chiaro: lo
svolgimento dell’attività ad essa relativa
determina profitti per il licenziatario.
L’ente incaricato dell’assegnazione
non conosce con precisione quali sono i
pretendenti; meno che mai, allora, conosce
con precisione quale è il valore dell’attività
in questione per ciascuno di essi; ciò
nonostante, deve progettare un
meccanismo di aggiudicazione della licenza
(un’asta) che garantisca il migliore ritorno
possibile alla collettività. Un potenziale
pretendente, una volta noto il meccanismo
di assegnazione, deve decidere quanto
offrire per la licenza non disponendo di
informazioni precise sul valore che essa ha
per ogni altro concorrente.
Comunque lo si guardi è un bel
guazzabuglio. Certamente lo è dal punto di
vista dell’ente che può concepire varie
tipologie di aste ma deve scegliere quella
ottima in scarsità di informazioni e di fatto
facendo previsioni anche sul
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comportamento dei concorrenti. Ma lo è
anche dal punto di vista dei concorrenti.
Ciascuno di essi vede il proprio
profitto determinato non solo dalle proprie
scelte, ma anche influenzato dalle scelte
degli altri. Infatti il solo licenziatario farà
profitti, ma la scelta di colui che lo diviene
dipende dalle offerte di tutti i concorrenti.
Nella letteratura scientifica, non solo
economica e matematica, abbondano
situazioni come quella descritta.
Continuamente, in ogni attività
umana, si devono prendere decisioni
interattive, ma, di fronte a tanta
indeterminatezza, su che cosa basarle?
L’eco non ancora spento di un successo
cinematografico legato alla sua vicenda
umana, probabilmente, fa venire in mente
al lettore che il concetto matematico alla
base della soluzione di tutti i problemi di
decisione interattiva è quello ideato dal
grande matematico John F. Nash, Jr. Gli
agenti economici, nel nostro caso gli
aspiranti alla concessione, si comportano in
modo ottimale - in gergo si dice che
giocano un equilibrio di Nash - quando
operano le proprie scelte, pur ciascuno
indipendentemente dagli altri, in modo che
il risultato complessivo dell’interazione non
possa essere migliorabile da alcuno senza
cambiare le scelte altrui. In altre parole, per
ciascuno, anche la conoscenza delle scelte
altrui non porterebbe a variare la propria. E’
proprio grazie all’uso del concetto di
ottimalità ideato da Nash che si riesce a
determinare la più idonea procedura di asta
garantendo alla collettività, da un lato, un
corrispettivo ottimale per la cessione della
titolarità di un diritto e, dall’altro, efficienza
nella gestione dell’attività data in
concessione.
John F. Nash
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NAVIGARE SULLA MATEMATICA
Salvatore Miranda
Professore di Architettura Navale Università degli Studi di Napoli Federico II
L’ottimizzazione del progetto di una
nave può essere visto come un processo di
minimizzazione di un funzionale che pesi
appropriatamente i diversi requisiti richiesti,
quali, ad esempio, il carico pagante, la
velocità, la tenuta al mare e, ovviamente,
la resistenza al moto. Nella pratica,
tuttavia, raramente si consegue il risultato
finale ottimo, sia perché gli strumenti di
progetto non sono così robusti e veloci da
essere inseriti in processi di ottimizzazione,
sia per la consuetudine antica di orientare
la scelta nell’ambito di un limitato numero
di precedenti esperienze progettuali,
considerate affidabili e soddisfacenti.
La simulazione numerica del flusso intorno
alla nave ha raggiunto notevole diffusione
nei recenti anni, grazie soprattutto alla
ampia disponibilità di computer potenti e
veloci.
La conoscenza del flusso e delle
componenti della resistenza al moto
riguarda uno dei più importanti aspetti della
progettazione navale. Tuttora la previsione
delle prestazioni propulsive della nave sono
eseguite trasferendo i risultati ottenuti su
modelli in vasca mediante opportune
procedure, nel rispetto delle ipotesi di base
del Metodo di Froude. La resistenza totale è
cioè suddivisa in due componenti
indipendenti, una dovuta alla viscosità del
fluido, l’altra alla formazione ondosa
generata; la prima è funzione del numero di
Reynolds, la seconda di quello di Froude.
Benché il ricorso alle esperienze in vasca su
modelli continui ad essere tuttora
indispensabile, la fluidodinamica
computazionale (CFD) sta acquistando
continuo riconoscimento di utile strumento
nel progetto della nave. L’applicazione di
codici CFD, pur non fornendo, al momento,
valori assoluti delle grandezze tali da dare
affidabili previsioni sulla nave, consente di
evidenziare caratteristiche indesiderabili del
flusso sulla carena e di procedere ad
opportune modifiche delle forme con il
duplice risultato di migliorare le prestazioni
propulsive e di indirizzare e limitare la
successiva indagine sperimentale.
Tale tipo di ottimizzazione, utilissima
nelle fasi preliminari del progetto, presenta
vantaggi in quanto più rapida e semplice
rispetto alle tradizionali esperienze in
vasca; in più può fornire maggiori
informazioni sul flusso, in alcuni casi giunte
a livelli di dettaglio, ed anche sulle forze
idrodinamiche della carena e del
propulsore.
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I metodi dei flussi a potenziale sono
gli strumenti più utilizzati per
l’ottimizzazione delle forme prodiere, dove
è predominate la formazione ondosa legata
in maniera predominante alle forze di
gravità e non a quelle viscose. Queste
ultime esercitano la loro influenza
significativa nel corpo poppiero della nave,
ove il ricorso al modello del fluido viscoso è
indispensabile.
E’ giusto ricordare che uno dei primi
metodi di calcolo a potenziale è stato quello
di Hess e Smith (1962), nato per le
esigenze di progetto delle carene di
sottomarini. Il metodo, successivamente
reso più generale con il caso portante, trovò
significativa estensione navale con
l’introduzione della superficie libera per
opera del Dawson (1977).
I codici viscosi si basano
essenzialmente sui così detti metodi RANS,
che hanno il sostegno teorico fondamentale
sulle equazioni di Navier-Stokes. In questo
ambito, la novità più importante è stata
certamente l’introduzione della superficie
libera (Kodama, 1994). Nel campo viscoso,
in particolare, la crescente potenza dei
calcolatori già consente l’uso di metodi più
avanzati, quale, ad esempio, quelli basati
sulla tecnica “Large Eddy Simulation” (LES).
Vari e diversi sono, tuttavia, i
problemi connessi all’utilizzo pratico dei
codici numerici. A quelli tradizionali,
riguardanti, ad esempio, i campi di
applicazione, la discretizzazione del dominio
di calcolo e la robustezza del codice, vi è da
considerare la necessità di utenti
particolarmente esperti e la disponibilità di
strumenti di calcolo di potenzialità molto
elevate.
Di recente, si sta manifestando
l’esigenza di disporre di strumenti CFD,
basati su modelli teorici forse meno rigorosi
rispetto alla complessità del fenomeno e
idonei alla soluzione di specifici problemi di
progetto, ma robusti e di facile uso.
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I MODELLI, L’ANALISI NUMERICA, E
L’INGEGNERIA DEI MATERIALI
Domenico Acierno
Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e della Produzione
Quando negli anni ‘60 frequentavo,
alla Federico II, il corso di laurea in
Ingegneria Chimica ho appreso da illustri
giovani docenti, e primo fra tutti il
compianto Gianni Astarita, che mi ha anche
guidato alla laurea, che ogni problema
fisico, alla cui soluzione come futuri
ingegneri dovevamo dare una risposta,
poteva tradursi in un insieme di equazioni
di bilancio, accoppiate anche ad equazioni
di tipo costitutivo: in breve un modello. Al
tempo, una possibilità concreta per
ottenere una soluzione era quella di
“semplificare” al massimo il modello,
basandosi su ipotesi fisicamente plausibili, e
quindi di ottenere un risultato addirittura
analiticamente, da confrontare poi
criticamente con le sperimentazioni. Ciò tra
l’altro era anche una necessità in quanto lo
strumento principale per i nostri calcoli era
ancora il “regolo”: Altra possibilità
ovviamente era di farci aiutare da qualcuno
che conosceva meglio di noi e di me in
particolare la matematica.
Un po’ dopo i mezzi di calcolo
cominciarono ad essere più diffusi e noi
prestammo sempre più attenzione a modelli
fisicamente sempre più vicini alla realtà, e
per questo anche più complessi, ed anche
in questo caso un aiuto poteva venire dai
colleghi più esperti di analisi numerica e
programmazione dei calcolatori.
Non sempre tuttavia qui in Italia
queste collaborazioni si creavano
facilmente, mentre all’estero dove tutti noi
giovani ricercatori praticammo periodi di
studio esistevano gruppi di lavoro e
addirittura interi dipartimenti dediti alla
matematica applicata.
L’evoluzione positiva di queste
attività ha dato col tempo ottimi frutti
anche in Italia ed ha consentito di avere
sempre nel campo da me più coltivato,
prima le soluzioni di interessanti problemi di
moto di fluidi semplici e successivamente di
fluidi più complessi ed ha consentito che
anche noi contribuissimo nel campo in
particolare dei processi di trasformazione
dei materiali polimerici a far passare le
industrie dal metodo di progettazione
basato sull’empirismo a quello assai più
produttivo delle previsioni ottimizzate da
modelli. Nel contempo ormai la
progettazione più meccanico-strutturale dei
manufatti seguiva simili evoluzioni.
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Così sono nati gruppi di ricerca che
hanno dato lustro in Campania come in
Lombardia, in Italia, nel mondo attraverso
l’impostazione e la soluzione di problemi di
interesse industriale.
L’interazione dei gruppi di ricerca ha
comportato la nascita anche di
collaborazioni didattiche con obiettivi verso
le applicazioni ma con ampie basi di tipo
fondamentale che in primo livello, qui alla
Federico II, hanno generato il corso di
laurea in Scienza ed Ingegneria dei
Materiali ed a livello di laurea specialistica
quello ormai più tradizionale di Ingegneria
dei Materiali.
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Cezanne, Paul (1839 - 1906): Orangen, 1895/1900, Öl auf Leinwand, 60,6 x 73,3 cm, Museum of Modern Art, New York
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GLI AGRUMI
P. De Luca
B. Menale
Gli agrumi, assieme all’uva e alle banane,
sono i frutti maggiormente utilizzati oggi
nel mondo. Fino a 300 anni fa erano
privilegio dei ricchi, elemento colorato delle
aranciere principesche e cibo delle tavole
signorili imbandite a festa; ai nostri giorni
rappresentano un alimento per tutti:
apprezzati in ogni angolo del mondo, la loro
coltivazione si è diffusa ovunque le
condizioni climatiche lo permettessero.
Le piante di agrume sono arbusti o piccoli
alberi sempreverdi con fiori biancastri,
“zagare”, che emanano un profumo dolce
ed intenso: sono molto apprezzati e spesso
vengono utilizzati come fiori delle spose.
Il frutto degli agrumi, chiamato dai botanici
esperidio, è rivestito da un involucro
arancione o giallo (la “buccia”) ed è
suddiviso nei caratteristici spicchi,
all’interno dei quali sono alloggiati i semi.
Se si osservano le piantagioni di agrumi
presenti in varie regioni italiane, sembra
che tali piante siano parte integrante del
paesaggio mediterraneo. In realtà esse non
sono originarie delle nostre zone, ma, come
tanti altri vegetali, sono stati introdotte da
Paesi lontani, hanno trovato condizioni
ambientali favorevoli e sono state
ampiamente diffuse in coltivazione.
Gli agrumi sono tutti originari dell’ Estremo
Oriente e la loro prima utilizzazione in
agricoltura è avvenuta in Cina.
Le prime citazioni riguardanti gli agrumi
giunte a noi risalgono al II millennio a. C.,
epoca in cui i Cinesi avevano già
abbandonato il nomadismo e avevano
costituito comunità fisse e stabili; esse si
riferiscono al pummelo e al kumquat.
Un’altra antica citazione relativa agli agrumi
si ritrova in un’opera in sanscrito, scritta
qualche anno prima dell’800 a.C., in cui si
fa menzione del cedro o del limone.
In uno scritto del III secolo a.C. si parla di
un altro agrume, l’arancio trifogliato. Sono
successivi a questa data documenti che
riferiscono delle altre specie più conosciute.
Solo il cedro fu coltivato nell’area
mediterranea in epoca greco-romana. Altri
agrumi furono introdotti in occidente dopo il
VII secolo dagli Arabi, quando questi
costituirono un vastissimo impero che
andava dall’India alla Spagna: essi
conobbero alcuni agrumi nelle zone
dell’attuale Pakistan e li trasportarono verso
occidente, fin sulle coste del Mediterraneo.
Con il passare del tempo, gli agrumi
divennero sempre più popolari nei giardini
europei, anche grazie all’introduzione
dall’Oriente di specie.
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Solo nel XVII secolo si chiuse l’epoca in cui
tali piante erano prevalentemente utilizzate
a scopo ornamentale ed iniziò a svilupparsi
l’agrumicoltura moderna con scopi
alimentari.
Il pummelo
Il pummelo (Citrus grandis) è un agrume
ancora oggi molto popolare in Cina ed altri
paesi asiatici, ma pressoché sconosciuto in
Occidente. Il suo luogo di origine è
rappresentato dall’arcipelago della Malesia;
da qui è stato portato nel continente
asiatico, dove è stato coltivato ed
apprezzato dai Cinesi. In Oriente tale
agrume è attualmente utilizzato come frutto
da tavola o come base per la produzione di
marmellate e canditi.
Il pummelo giunse in Occidente come
curiosità botanica tra il XII e il XIII secolo
d. C.; successivamente fu portato nelle
isole Barbados, dove sicuramente era
presente nel XVII secolo.
In Europa i frutti di questa pianta non sono
mai stati apprezzati. Talvolta li si trovano
sul mercato ma spesso si tratta di
pompelmi spacciati per pummeli.
Il cedro
Il cedro (Citrus medica), caratterizzato da
grossi frutti gialli, è originario degli
ambienti pedemontani dell’Himalaia; da qui
fu portato prima in Cina e poi in India, dove
si diffuse in coltura.
Probabilmente tale agrume giunse in
Mesopotamia con le carovane che
portavano merce dall’Oriente: semi di cedro
sono state ritrovate in alcuni scavi effettuati
in città babilonesi.
Conosciuto anche da Medi e Persiani, il
cedro fu importato nell’area mediterranea
in seguito alla campagna di avanzamento
verso Oriente di Alessandro Magno (327 a.
C.).
Il “meraviglioso albero dalle mele d’oro”,
conosciuto da Alessandro Magno, giunse
così in Grecia. Teofrasto, il discepolo di
Aristotele, fornì una prima descrizione della
pianta del cedro e definì i suoi frutti “mele
della Media” o “mele della Persia”; affermò
che il frutto non era commestibile ma era
molto aromatico e costituiva un utile
rimedio contro la gotta e la stomatite.
Dioscoride, medico greco del I secolo d. C.,
inserì il cedro tra le piante medicinali e
Plutarco, contemporaneo di Dioscoride, per
primo affermò che il suo frutto era
commestibile.
A Roma il cedro era albero ben noto, come
testimoniato da numerose citazioni
letterarie. Virgilio chiamava i suoi frutti
“mele d’oro” o “mele della felicità” e li
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considerava come un efficace rimedio
contro l’assunzione di veleni. Plinio il
Vecchio parlò del cedro in maniera
approfondita, attribuendogli il nome di
“Pomo dell’Assiria” o “Pomo della Media”;
parlando dell’olio estratto da questa pianta
ed utilizzato per la conservazione dei papiri
usa il termine “citratus”, citazione riferibile
a Citrus, il nome che questa pianta aveva
assunto presso i Romani. Apicio riporta una
ricetta ove tra gli ingredienti era citato il
bianco della sua buccia.
La storia del cedro è strettamente collegata
con la religione giudaica, per la quale il
frutto di tale agrume ha un profondo
significato religioso.
Alcuni ipotizzano che gli Ebrei conobbero il
cedro all’epoca della loro permanenza in
Egitto, prima del XIII secolo a. C.; altri
sostengono che essi abbiano conosciuto tale
frutto all’epoca della loro prigionia in
Babilonia o durante il loro ritorno in
Palestina, dopo la liberazione da parte di
Ciro il grande. Qualora dovesse risultare
esatta la prima ipotesi, bisognerebbe
concludere che la pianta è arrivata nelle
regioni mediterranee ben prima delle
spedizioni di Alessandro Magno; potrebbe
acquistare valore l’ipotesi che identifica con
i cedri i pomi del giardino delle Esperidi,
legato ad una delle fatiche di Ercole.
Il cedro assunse presso gli Ebrei un ruolo
sacro nella cosiddetta “Festa dei
Tabernacoli”, che cade a metà ottobre e
rappresenta la celebrazione per la fine della
stagione del raccolto. Durante tale
ricorrenza i fedeli agitano con la mano
destra una foglia di palma, due rami di
salice e tre di mirto, e tengono un frutto di
cedro nella mano sinistra.
La coltivazione del cedro si diffuse in varie
aree del Mediterraneo, seguendo le
migrazioni di piccole comunità ebraiche. A
Cuma ed a Pompei, dove erano presenti
cospicue colonie sin dal III secolo a.C.,
erano coltivati i cedri. Nella cosiddetta
“Casa degli Ebrei” di Pompei, luogo di
incontro della comunità giudaica, sono stati
rinvenuti vasi contenenti resti di radici di
cedro.
Anche dopo la diaspora seguita alla
distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., il
cedro mantenne presso gli Ebrei il
significato sacro. Mentre nell’area
mediterranea le varie comunità
provvedevano alla coltivazione, gli Ebrei
stabilitisi nel Nord Europa importavano i
frutti da paesi più caldi, quali l’Italia e la
Grecia, pagando anche cifre elevatissime:
alcune comunità della Boemia e della
Moravia, durante il XVII secolo, potevano
permettersi solo un frutto di cedro, e
questo passava di famiglia in famiglia.
Nel ‘600, il cedro era molto diffuso nei
giardini napoletani e in quelli della penisola
sorrentina.
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La sua corteccia era utilizzata per le
malattie renali, mentre le foglie erano
adoperate nella cura delle affezioni alla
gola. Con la buccia dei cedri si preparavano
le “pastiglie napoletane”, utilizzate nella
cura delle affezioni dello stomaco, del cuore
e della testa. Durante la peste che colpì
Napoli nel 1656, il cedro entrò in un rimedio
raccomandato dal Comitato Medico della
Città.
Attualmente, il cedro è utilizzato per la
preparazione di canditi e per la
preparazione di bevande. Il principale
centro di coltivazione di tale pianta è sito
nel nord della Calabria, nei dintorni
dell’abitato di S. Maria del Cedro.
L’arancio amaro
L’arancio amaro (Citrus aurantium) è
originario di una vasta area comprendente i
contrafforti meridionali dell’Himalaia, l’India
nord-occidentale e la Cina meridionale: è
stato utilizzato sin dall’antichità per
l’estrazione di oli ed essenze adoperati per
la preparazione di profumi.
Coltivato già in epoche lontane in Cina e
Giappone, l’arancio amaro fu portato nel
Mediterraneo dagli Arabi; ciò avvenne
secondo alcuni verso la metà dell’VIII
secolo d. C., secondo altri tra il X e l’XI
secolo d. C. In Europa, la sua presenza è
stata segnalata per la prima volta in Sicilia
nel 1002.
Il valore ornamentale di questo agrume era
molto apprezzato dagli Arabi i quali,
utilizzando l’abilità dei giardinieri persiani,
arricchirono i loro giardini con piante di
arancio amaro, sfruttando la bellezza della
loro chioma sempreverde e la persistenza
dei loro frutti vivacemente colorati sulla
pianta. Celebre è la moschea di Cordova,
nel cui “patio degli aranci” furono
impiantate 19 file di aranci amari in
continuità con le 19 arcate di ingresso.
Famosi sono i giardini, ricchi di aranci
amari, dei palazzi e delle moschee di
Granada, la città che “rivaleggiava col
giardino delle Esperidi”.
L’arancio amaro si diffuse in coltivazione nel
napoletano tra il XVI e il XVII secolo. Qui
furono selezionate numerose varietà che
costituivano vere e proprie curiosità
botaniche (“bizzarrie”); molte di esse si
affermarono presso collezionisti privati
durante il regno borbonico e oggi sono
conservate nell’Agrumeto dell’Orto botanico
di Napoli. Ricordiamo l’arancio amaro a
foglia crespa, lo scompiglio di Venere,
l’arancio amaro a foglia di salice e la
“chimera” originatasi probabilmente in
seguito ad un innesto di un limone su di un
arancio amaro e mostrante, in modo
evidente nei frutti, caratteri di ambedue gli
agrumi.
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Oggi, l’arancio amaro è scarsamente
coltivato: i suoi frutti sono usati per
preparare marmellate e la buccia di questi è
sfruttata per ottenere canditi e per
aromatizzare liquori (Gran Marnier,
Cointreau, Curaçao). Talvolta è utilizzato
nelle alberature stradali urbane.
L’arancio amaro trova frequentemente
impiego come portainnesto per limoni,
aranci dolci e pompelmi, essendo resistente
al freddo e alla gommosi.
Il limone
Il limone (Citrus limon) è originario
dell’India nord-orientale; i suoi frutti aspri
non si prestano ad un consumo diretto ma
sono sempre stati apprezzati per le
proprietà disinfettanti e dissetanti del succo
ed per il potere aromatico della buccia.
Il limone venne coltivato in epoche antiche
in Cina ed in Mongolia ed in questi paesi
veniva utilizzato per la preparazione di
bevande rinfrescanti. In India assunse un
significato simbolico: basti ricordare che le
vedove indù, che decidevano
volontariamente di immolarsi sulla pira ove
bruciava il corpo del marito, tenevano in
mano un frutto di limone !
Molti tendono ad escludere che nell’epoca
classica il limone fosse coltivato in
occidente, giacché non esiste alcuna
citazione greca o latina che riguardi questa
pianta. Non si può, però, escludere in
maniera categorica che frutti di questo
agrume fossero giunti nell’area
mediterranea, portati come curiosità da
carovane provenienti dai paesi orientali.
Peraltro esistono alcune raffigurazioni di età
romana che sembrano riprodurre agrumi
diversi dal cedro. In una villa romana
presso Cartagine esiste un mosaico in cui,
oltre alla raffigurazione di frutti di cedro, si
scorgono frutti che ricordano molto le
limette e i limoni; due affreschi pompeiani
conservati presso il Museo Nazionale a
Napoli raffigurano diversi frutti, tra cui
potrebbero essere riconosciuti dei limoni; in
un mosaico presente al Museo Nazionale di
Roma si scorge un limone accanto ad un
cedro. Non sappiamo però se si tratta
davvero di limoni o di piccoli frutti di cedro.
Dall’India questo agrume si diffuse verso
Occidente, nei territori dominati dagli Arabi,
durante l’VIII secolo d. C.; tra l’XI e il XIII
secolo, raggiunse l’Africa orientale, poi la
Sicilia ed infine la Spagna.
I Crociati conobbero i limoni in Siria e in
Palestina e portarono tali piante in Liguria
ed in Campania.
Con lo sviluppo dei viaggi marittimi il
limone divenne un apprezzato rimedio per
lo scorbuto, la malattia tanto temuta dai
marinai. I naviganti portoghesi, nel XVII
secolo, portarono alcune piante di limone
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nell’isola di S. Elena, che divenne così la
prima stazione di cura per lo scorbuto; ai
limoneti di S. Elena si aggiunsero presto
quelli di Madeira,delle Azzorre e delle coste
africane.
Anche il limone, al pari degli agrumi
precedentemente citati, si affermò nei
giardini campani . I suoi frutti divennero
rimedio per varie malattie ed occuparono
un posto importante nei medicamenti
proposti dalla Scuola Medica Salernitana.
Nei secoli successivi il frutto del limone
acquistò un ruolo simbolico in numerose
funzioni religiose: ciò avvenne,
probabilmente, per assorbimento del
simbolismo legato al cedro. Frutti di limone
erano distribuiti durante battesimi, cresime
e matrimoni. In Germania, durante i
funerali, celebrante e fedeli portavano
limoni. Queste tradizioni sono tutte
scomparse negli ultimi decenni.
Oggi il limone è un ingrediente molto
comune in cucina, grazie al suo succo
utilizzato nella preparazione di cibi, bibite,
liquori, dolci, gelati. Le sue essenze sono
utilizzate in profumeria; i suoi estratti
trovano impiego nella preparazione di
detersivi.
La limetta
La limetta (C. aurantifolia), è
probabilmente originaria dell’arcipelago
della Malesia. Coltivata nelle aree calde
dell’Asia, si diffuse in Occidente seguendo
un percorso simile a quello del limone. Fu
apprezzata nei giardini per il profumo
delicato e gradevole dei suoi frutti, ma la
sua coltura fu sempre limitata. Ancora oggi
è coltivata ed i suoi frutti vengono utilizzati
per rendere più gradevole l’aroma dei
liquori di agrumi.
La limetta è molto diffusa nei paesi
tropicali, dove ne sono state selezionate
razze utilizzate come succedaneo del
limone, pianta che non vive in climi caldo-
umidi.
L’arancio dolce
L’arancio dolce (Citrus sinensis), specie
ben differenziata dall’arancio amaro, è
originario delle regioni montane della Cina
meridionale. Cominciò ad essere coltivato,
probabilmente, quattromila anni fa e fu
diffuso in India ed in Paesi limitrofi.
Certamente l’arancio dolce non fu
conosciuto dai greci né dai romani, così
come non era noto agli arabi.
Riguardo la sua introduzione in Europa, c’è
disaccordo tra gli studiosi. Secondo alcuni
sarebbero stati i Portoghesi ad introdurre
questa pianta nel loro Paese ed a
diffonderla in Europa: tale ipotesi sarebbe
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avvalorata dal fatto che l’arancio dolce in
varie regioni del Mediterraneo è stato
chiamato “portogallo”.
Indubbiamente il celebre navigatore
portoghese Vasco de Gama, che nel 1498
raggiunse l’India dopo aver doppiato il Capo
di Buona Speranza, nel diario di quella
missione citò la presenza di “melarance
dolci” in quel paese; e certamente i
Portoghesi importarono questa pianta in
Portogallo nel XVI secolo. C’è chi sostiene
che il primo arancio dolce coltivato in
Europa si trovasse in un giardino posto
nelle vicinanze di Lisbona.
Altri studiosi, però, affermano che l’arancio
dolce sarebbe arrivato in Europa molto
prima, grazie ai Genovesi. Questi, nel XIII
secolo, possedevano colonie in Asia e, per i
loro scambi commerciali, attendevano le
carovane provenienti dalla Cina e dall’India
sulle rive del Mar Nero. Nel corso di questi
scambi commerciali, i Genovesi avrebbero
conosciuto l’arancio dolce e l’avrebbero
importato in Italia per coltivarlo nei giardini
liguri.
Questa seconda tesi è suffragata da alcune
citazioni letterarie. Innanzitutto, numerosi
scrittori degli inizi del XVI secolo parlano di
aranci dolci coltivati in numerose zone della
nostra penisola. Inoltre P.A. Mattioli,
medico e naturalista italiano del XVI secolo,
mostra di conoscere bene le arance dolci
nell’introduzione del suo Commentario di
Dioscoride, scritta nel 1544. Se l’arancio
dolce era così diffuso in Italia nella prima
metà del ‘500, vi era giunto prima che i
Portoghesi lo importassero dall’Oriente.
Appare, dunque, probabile che
l’importazione dell’arancio dolce in Europa
abbia seguito due diverse vie.
Questa pianta si diffuse nei giardini
dell’Italia centro meridionale. A nord del
Lazio, ove il clima non era idoneo alla loro
crescita essa veniva coltivata in contenitori
di terracotta, tenendola all’aperto nella
bella stagione per poi trasferirla in ripari in
muratura durante il periodo invernale. Tali
costruzioni, corrispondenti alle attuali serre,
erano definite “logge delle arance” o
“aranciere” o “portogalliere”.
L’arancio dolce giunse in Campania nel XVI
secolo: aranceti di notevole importanza si
svilupparono a Napoli, Sorrento e Amalfi.
Nel napoletano si prese l’abitudine di
fermentare i fiori d’arancio, mescolandoli
con zucchero e lievito di birra, ottenendo
una bevanda che veniva bevuta come vino.
Nel Rinascimento, gli aranci dolci, insieme
ad altri agrumi, furono protagonisti di varie
opere d’arte, sia in pittura che in scultura, e
divennero grandi protagonisti nell’arte dei
giardini. In questo periodo, in Toscana e
nelle regioni vicine sorsero importanti
giardini, come ad esempio quello di Boboli
oppure quello di Francesco I dei Medici sulla
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Loggia dei Lanzi, in cui un ruolo da
protagonista è recitato da queste piante.
E’ indubbio che attualmente l’arancio dolce
costituisca l’agrume maggiormente coltivato
al mondo (70% della produzione mondiale
di agrumi). Le arance sono consumate
principalmente come frutta fresca e
l’utilizzazione per succhi, marmellate, ecc. è
limitata ad una bassa percentuale della
produzione annua.
Il bergamotto
Il bergamotto (Citrus bergamia)
probabilmente non è una specie botanica,
ma una varietà dell’arancio amaro o di un
ibrido ottenuto tra questo ed un altro
agrume non identificato. La selezione del
bergamotto è avvenuta in occidente ed è,
quindi, piuttosto recente.
La pianta fu portata in Calabria tra il XV ed
il XVI secolo, ove assunse un’importanza
sempre maggiore poiché i suoi
profumatissimi frutti entrarono nella
costituzione dell’ “acqua di colonia” e di
numerosi profumi e furono utilizzati per
aromatizzare il tè ed il tabacco per pipa.
Il bergamotto è oggi coltivato
esclusivamente in Calabria: nel territorio di
Reggio Calabria si produce il 90% della
produzione mondiale di questo frutto che
viene utilizzato per l’estrazione degli oli
essenziali.
Il pompelmo
Il pompelmo (Citrus paradisi) non è una
specie botanica, ma è un ibrido originatosi
casualmente tra una pianta di pummelo ed
una di arancio dolce coltivate in un giardino
delle Barbados. Tale agrume venne
introdotto in Florida agli inizi dell’800 e oggi
viene comunemente coltivato negli USA per
il consumo come frutta fresca o per
produrre spremute e marmellate.
La coltivazione del pompelmo si è diffusa in
molte aree del mondo, tra cui ricordiamo
Israele.
E’ oggi presente in alcuni giardini dell’Italia
meridionale, ma non viene coltivato
intensamente. I frutti che troviamo sul
mercato sono, generalmente, di
importazione.
Il mandarino
Il mandarino (Citrus reticulata) è
originario dei boschi montani dell’India
nord-occidentale, del Nepal, della Cina sud-
occidentale e del Vietnam. Oggi, come
l’arancio dolce, trova la sua maggiore
utilizzazione come frutto fresco, mentre
sono di minore importanza la lavorazione
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della sua buccia per estrarre olio di
mandarino o l’utilizzazione dei frutti per la
produzione di conserve.
Nelle province cinesi, ai frutti del mandarino
veniva dato un valore superiore a quello
degli altri agrumi: a lungo il loro consumo è
stato esclusivo dell’imperatore e dei suoi
più importanti funzionari.
L’introduzione in Europa di tale agrume è
relativamente recente. Sconosciuti a greci,
romani ed arabi, i mandarini giunsero dalla
Cina in Inghilterra, agli inizi del secolo
scorso; successivamente furono introdotti
dagli Inglesi a Malta e da lì, tra il 1810 ed il
1815, furono portati a Palermo, dove
rapidamente si svilupparono mandarineti a
carattere commerciale.
Nel 1816 i mandarini giunsero anche a
Napoli: presso l’Orto botanico e nel Parco di
Capodimonte, infatti, furono introdotti
numerosi esemplari provenienti dall’Orto
botanico di Palermo.
I mandarini giunsero nel Nuovo Mondo
verso la metà del secolo scorso, divenendo
ben presto una delle coltivazioni
maggiormente apprezzate anche in quelle
zone.
Il kumquat
L’origine dei kumquat (Fortunella ssp.), la
cui denominazione deriva dall’indiano e
significa “arancia nana” o “piccola arancia
d’oro”, è tuttora assolutamente
sconosciuta. La conoscenza di queste piante
in Europa risale alla metà del secolo scorso,
dopo che il botanico inglese Robert Fortune
scoprì tali agrumi nella Cina meridionale,
attualmente ritenuta dalla maggioranza
degli studiosi come la regione di origine dei
kumquat. Attualmente, questi ultimi sono
scarsamente utilizzati come frutta fresca,
almeno in occidente, mentre va
diffondendosi un’utilizzazione di tali piante a
scopo ornamentale. In Oriente essi sono di
solito utilizzati, oltre che a scopo
ornamentale, per l’elaborazione di conserve
e marmellate.
L’arancio trifogliato
L’arancio trifogliato (Poncirus trifoliata) è
un agrume diverso dagli altri perché è
l’unico ad avere la foglia composta da tre
foglioline e non singola, ed è altresì l’unico
agrume spogliante e non sempreverde.
Tale pianta, utilizzata soprattutto per il
valore ornamentale di alcune sue varietà
coltivate, produce piccoli frutti gialli dal
sapore disgustoso. È molto usata come
portainnesto.
La Clementina
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La clementina è un ibrido originatosi tra
un mandarino ed un arancio amaro coltivati
nell’orto di un orfanotrofio di un piccolo
villaggio algerino, vicino Orano. Il suo nome
è legato a quello di fra’ Clement Rodier, il
padre giardiniere che curava l’orto e che
per primo osservò nel 1902 i nuovi frutti.
Le clementine si sono diffuse
abbondantemente in tutta l’area
mediterranea, grazie ai loro frutti che
spesso vengono preferiti al mandarino. Le
ragioni della loro diffusione sono da
ricercarsi principalmente nell’assenza di
semi nei frutti, ma anche nel fatto che,
maturando da ottobre a dicembre, essi
sono disponibili sulle tavole prima degli altri
agrumi.
Il chinotto
Il chinotto (Citrus myrtifolia), come il
bergamotto, non è una specie botanica, ma
una varietà di arancio amaro selezionata in
coltura. Questa selezione è avvenuta
probabilmente in Italia, paese dove la
pianta quasi esclusivamente è coltivata.
Tale agrume era diffuso nella riviera ligure,
dove veniva estratto dai fiori l’olio di neroli,
gradevole essenza usata in profumeria;
oggi, però, in quelle regioni è praticamente
scomparso.
In Campania era presente nei giardini,
apprezzato per le minute foglie di color
verde scuro e per i suoi frutti, dal gusto
sgradevole, ma utilizzati per ottenere
canditi. Anche in Campania questa pianta è
divenuta rarissima, poiché le è stato
preferito il mandarino, simile nella forma
ma dai frutti gradevoli.
Il chinotto deve una certa celebrità al fatto
che il suo frutto era uno dei componenti
della ricetta originaria della bibita che porta
il suo nome.