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Alfio Quarteroni Posizione Attuale Direttore della Cattedra di Modelling and Scientific Computing all’EPFL (Ecole Polytechnique Fédérale) di Losanna, dal 1998. Professore di Analisi Numerica al Politecnico di Milano, dal 1989. Direttore Scientifico del MOX del Politecnico di Milano dal 2002. Posizioni Precedenti Direttore della Divisione Ricerca Scientifica del CRS4, Center for Research and Advanced Studies in Sardinia (fondato dal Prof. Carlo Rubbia). Full Professor all’Università del Minnesota (Minneapolis). Professore di Analisi Numerica all’Università Cattolica di Brescia, e direttore del Dipartimento di Matematica. Ricercatore all’Istituto di Analisi Numerica del C.N.R. di Pavia. Pubblicazioni e Conferenze Autore di 12 libri (10 pubblicati da Springer, 1 da Oxford University Press, 1 da Esculapio). Editore di 3 libri (1 pubblicato da Springer, 1 da North-Holland Elsevier, 1 dalla American Mathematical Society). Autore di oltre 150 lavori pubblicati su riviste internazionali o su atti di conferenze. Relatore invitato oltre 200 volte in Convegni Internazionali o Istituti Accademici. Professore Invitato in oltre 50 Università e Centri di Ricerca internazionali. Membro del Comitato Editoriale di 16 Riviste Internazionali e 3 Serie di Libri. . Premi e Riconoscimenti “NASA Group Achievement Award for the pioneering work in Computational Fluid Dynamics as a member of the ICASE numerical analysis and algorithms group”, 1992. Membro dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1995. Titolare della Cattedra Galileiana della Scuola Normale Superiore di Pisa, 2001. Laurea Honoris Causa in Ingegneria Navale, Università di Trieste, 2003. Vincitore del “SIAM (Society for Industrial and Applied Mathematics) Outstanding Paper Prize 2004” (lavoro in collaborazione con A. Veneziani e P. Zunino). Vincitore del “IACM (Int.l Association of Computational Mechanics) Fellow Award”, 2004. Membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei (socio corrispondente), 2004. Il gruppo diretto da Alfio Quarteroni ha condotto le simulazioni matematiche per il Design Team di Alinghi, vincitore dell’ultima edizione dell’ America’s Cup, 2003.

Alfio Quarteroni Posizione Attuale Posizioni Precedenti

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Alfio Quarteroni

Posizione Attuale

• Direttore della Cattedra di Modelling and Scientific Computing all’EPFL (Ecole Polytechnique Fédérale) di Losanna, dal 1998.

• Professore di Analisi Numerica al Politecnico di Milano, dal 1989.

• Direttore Scientifico del MOX del Politecnico di Milano dal 2002.

Posizioni Precedenti

• Direttore della Divisione Ricerca Scientifica del CRS4, Center for Research and Advanced Studies in Sardinia (fondato dal Prof. Carlo Rubbia).

• Full Professor all’Università del Minnesota (Minneapolis). • Professore di Analisi Numerica all’Università Cattolica di Brescia, e direttore del

Dipartimento di Matematica.

• Ricercatore all’Istituto di Analisi Numerica del C.N.R. di Pavia.

Pubblicazioni e Conferenze

• Autore di 12 libri (10 pubblicati da Springer, 1 da Oxford University Press, 1 da Esculapio).

• Editore di 3 libri (1 pubblicato da Springer, 1 da North-Holland Elsevier, 1 dalla American Mathematical Society).

• Autore di oltre 150 lavori pubblicati su riviste internazionali o su atti di conferenze. • Relatore invitato oltre 200 volte in Convegni Internazionali o Istituti Accademici. • Professore Invitato in oltre 50 Università e Centri di Ricerca internazionali. • Membro del Comitato Editoriale di 16 Riviste Internazionali e 3 Serie di Libri. .

Premi e Riconoscimenti

• “NASA Group Achievement Award for the pioneering work in Computational Fluid Dynamics as a member of the ICASE numerical analysis and algorithms group”, 1992.

• Membro dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1995. • Titolare della Cattedra Galileiana della Scuola Normale Superiore di Pisa, 2001. • Laurea Honoris Causa in Ingegneria Navale, Università di Trieste, 2003. • Vincitore del “SIAM (Society for Industrial and Applied Mathematics) Outstanding Paper

Prize 2004” (lavoro in collaborazione con A. Veneziani e P. Zunino). • Vincitore del “IACM (Int.l Association of Computational Mechanics) Fellow Award”,

2004. • Membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei (socio corrispondente), 2004.

Il gruppo diretto da Alfio Quarteroni ha condotto le simulazioni matematiche per il Design Team di Alinghi, vincitore dell’ultima edizione dell’ America’s Cup, 2003.

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TECNOLOGIA, MEDICINA, SPORT…

E LA MATEMATICA?

Alfio Quarteroni

MOX, Politecnico di Milano Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL)

Da qualche tempo la matematica

applicata sta vivendo una sorta di stato di

grazia. Le simulazioni al calcolatore basate

su modelli matematici consentono di

rappresentare con accuratezze sempre più

accettabili fenomeni di reale interesse in

numerosi campi delle scienze applicate.

In molti settori industriali la

modellistica matematica è ormai di uso

consolidato, in altri il potenziale contributo

che la matematica può apportare sta

venendo alla luce in modo sempre più

apparente. Una ragione di tale successo è

da ascrivere allo sviluppo impetuoso del

calcolo scientifico, ovvero della disciplina

che consente di tradurre un modello

matematico (risolubile in forma esplicita

solo in rarissime situazioni) in algoritmi che

possano essere trattati su calcolatori di

potenza straordinariamente elevata. In

effetti, quando si usano modelli matematici,

si parte da un problema concreto

dell’Ingegneria, della Medicina,

dell’Economia, e si cerca di rappresentarlo

attraverso equazioni. Normalmente,

problemi di questo tipo coinvolgono una

quantità enorme di informazioni (migliaia o

addirittura milioni), che per di più hanno tra

loro relazioni molto complesse. E’ pertanto

necessario selezionare quelle più rilevanti e

creare le equazioni che descrivono il

problema. Dopo di che si introducono

algoritmi efficienti in grado di risolvere tali

equazioni al calcolatore, velocemente e con

la dovuta accuratezza.

Ad esempio nella progettazione

ingegneristica si studia l'ottimizzazione di

forme in rapporto a specifiche esigenze

produttive in campo aeronautico, navale o

automobilistico. Poiché le tecnologie

industriali diventano sempre più complesse,

mentre i cicli di innovazione si accorciano, i

modelli matematici, se accuratamente

sviluppati, possono offrire nuove possibilità

per dominare la complessità ed esplorare

soluzioni innovative in tempi accettabili.

Essi si ottengono spesso via astrazione. In

effetti, l’innovazione richiede flessibilità, la

flessibilità richiede astrazione, il linguaggio

dell’astrazione è la matematica. La

matematica, tuttavia, non è solo linguaggio,

essa aggiunge valore: approfondimento

della conoscenza, progettazione di algoritmi

efficienti, ricerca di soluzioni ottimali.

Questo approccio si rivela utile

anche al fine di migliorare le prestazioni

nello sport da competizione. Nel caso

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all’uso di raffinate simulazioni al computer e

potrebbe rilevarsi estremamente utile nella

fase preliminare alla realizzazione di

trattamenti terapeutici e/o chirurgici.

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LA MODELLISTICA IN DIAGNOSTICA

PER IMMAGINI

Marco Salvatore

Professore di Diagnostica per Immagini Università di Napoli Federico II

Nella Diagnostica per Immagini

funzionale, originariamente rappresentata

dalla sola Medicina Nucleare, vengono

utilizzati modelli matematici per studiare il

comportamento delle molecole biologiche

all’interno dell’organismo. I vari organi e

apparati sono simulati con modelli

matematici semplici e sono impostate le

equazioni che descrivono il comportamento

delle sostanze biologiche, come il sangue,

lo zucchero, l’ossigeno, ecc…, all’interno

dell’organismo. La sostanza biologica da

studiare è poi “tracciata”, resa cioè visibile

nel paziente, con l’iniezione di radioisotopi

(nel caso della Medicina Nucleare) o di

mezzi di contrasto (iodati nella TC,

paramagnetici nella Risonanza Magnetica).

La Diagnostica per immagini consente infine

di “vedere”, a tempi diversi, la sostanza

tracciata che si trova all’interno dei vari

organi, permettendo di studiare, tramite le

equazioni dei modelli matematici impostati,

il comportamento delle sostanze biologiche

naturali o di farmaci.

L’applicazione della modellistica

matematica alla Diagnostica per immagini

consente diagnosi precoci in quanto può

evidenziare anche piccole anormalità nei

processi biologici che avvengono all’interno

del corpo umano.

Si fa grande uso della modellistica

anche per sviluppare nuovi traccianti

radioattivi per la Medicina Nucleare o nuovi

mezzi di contrasto per la TC e la Risonanza

Magnetica. Essa è fondamentale anche

nello sviluppo di nuovi farmaci. In questo

caso si sviluppano modelli basati sulla

fisiologia animale e, tramite la Diagnostica

per Immagini, si studia il comportamento

dei nuovi farmaci all’interno degli animali da

esperimento. Inoltre il progredire della

modellistica ha contribuito anche alla

riduzione del numero di animali da

esperimento necessari alla messa a punto

di nuovi farmaci.

Da alcuni anni le applicazioni della

modellistica alla Diagnostica per Immagini

si sono ulteriormente estese, contribuendo

all’analisi automatica delle immagini

diagnostiche e alla diagnosi assistita dal

computer. In particolare sono stati

sviluppati modelli specifici per le varie

metodiche della Diagnostica per Immagini,

quali ultrasuoni, TC, Risonanza Magnetica,

indispensabili all’estrazione di dati

quantitativi dalle immagini e nei processi di

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riconoscimento automatico di tessuti e

organi tramite computer.

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DALLA MODELLISTICA ALLA

CARDIOCHIRURGIA: IPOTESI PER IL

FUTURO

Maurizio Cotrufo

Professore di Chirurgia Cardiaca Seconda Università di Napoli

Un’applicazione della bio-ingegneria

alla ricerca medica è rappresentata dai

modelli ad elementi finiti. Essi riproducono

le strutture complesse degli organi o

apparati, riconducendole a insiemi di

elementi geometrici, per poi studiarne il

comportamento, simulando di volta in volta

proprietà “fisiologiche” o “patologiche” dei

tessuti e/o delle forze implicate. Nell’ambito

della patologia cardiovascolare, ciò ha reso

possibile, ad esempio, lo studio dettagliato

del funzionamento delle valvole cardiache

(in particolare aortica e mitrale), del flusso

in aorta ascendente e delle basi

fisiopatologiche dello sviluppo di patologie

degenerative di tali strutture.

Più recentemente, anche la ricerca in

cardiochirurgia ha cominciato ad avvalersi

di tale approccio di studio. I modelli ad

elementi finiti consentono di analizzare le

interazioni dinamiche tra flusso ematico e

strutture cardiache e vascolari sia native

che protesiche. È possibile, ad esempio,

predire le performance in vivo di protesi

valvolari, sia biologiche che meccaniche, in

corso di progettazione, valutando le forze

che si esercitano sulle componenti della

valvola e le strutture native contigue, in

base alle caratteristiche geometriche del

modello protesico. Anche le conseguenze

meccaniche ed emodinamiche di interventi

di ricostruzione della valvola mitralica o di

rimodellamento del ventricolo sinistro

possono essere predette, così da poter

ottimizzare le relative tecniche chirurgiche.

L’analisi di modelli ad elementi finiti

a partire da acquisizioni di imaging 3-D nel

singolo paziente rappresenta una frontiera

ancora aperta, potenzialmente utile sia sul

piano scientifico, per la definizione della

fisiopatologia delle malattie trattate, che

clinico, per la “personalizzazione”

dell’approccio chirurgico.

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LA TAC VIENE DA LONTANO!

Nicola Fusco

Professore di Analisi Matematica Università degli Studi di Napoli Federico II

Il problema della ricostruzione di

un’immagine a partire dalle sue proiezioni o

dalle sue sezioni lineari interviene, da ormai

più di quarant’anni, in un gran numero di

applicazioni scientifiche, mediche e

tecnologiche con uno spettro che va

dall’infinitamente grande all’ infinitamente

piccolo. Gli stessi strumenti matematici

permettono infatti sia di ricostruire la

struttura molecolare dei batteriofagi che di

ottenere la dislocazione di sorgenti di

segnali radio provenienti dagli angoli più

lontani dell’universo.

Di tutte queste applicazioni quelle

che hanno avuto maggiore impatto sulla

nostra società riguardano l’area della

diagnostica medica per immagini, a partire

dalle ormai familiari TAC (Tomografia

Assiale Computerizzata) e Risonanza

Magnetica.

La matematica nascosta dietro queste

tecniche di ricostruzione delle immagini è

piuttosto complessa, ma

sorprendentemente antica. Il fisico nucleare

Allan Cormack, che insieme all’ingegnere

elettronico Godfrey Hounsfield ricevette nel

1979 il premio Nobel per la medicina per i

suoi studi sulla tomografia computerizzata,

racconta nelle sue memorie che le prime

idee a riguardo gli vennero quando nel

1955 fu assegnato alla divisione di

Radiologia del famoso ospedale Groote

Shuur di Città del Capo. Fra le varie

difficoltà che dovette affrontare prima di

arrivare a realizzare le sue intuizioni quelle

di carattere matematico le risolse solo nel

1969 quando seppe per caso dell’esistenza

di una teoria, che prima di allora non aveva

ricevuto particolare attenzione fra gli

addetti ai lavori, che il matematico

austriaco Johann Radon aveva pubblicato

nel 1917 e che oggi è nota come

Trasformata di Radon.

Per spiegare in maniera non tecnica

in che cosa consiste questa teoria

immaginiamo di avere un oggetto solido, di

forma qualunque, che non conosciamo ma

del quale sappiamo calcolare le sezioni

lungo delle rette. In altre parole, preso un

qualunque fascio di rette che si diramano

da un punto dello spazio posto fuori

dell’oggetto, sappiamo calcolare quanto

misura la sezione dell’oggetto attraversata

da ogni retta. La teoria di Radon stabilisce

che se sappiamo fare questo per tutte le

possibili rette che partono da un punto

qualunque fuori dell’oggetto e se

quest’ultimo non è troppo frastagliato (in

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un senso matematico preciso) allora

l’oggetto in questione è univocamente

determinato, cioè ne possiamo conoscere

esattamente la forma. Non solo, ma la

stessa teoria fornisce una formula che ne

permette la ricostruzione esplicita.

Nella pratica, non possiamo certo

‘misurare’ con una macchina una certa zona

all’interno del corpo di un paziente lungo

tutte le sezioni lineari possibili e a partire

da un qualunque punto di osservazione, ma

ci dobbiamo accontentare solo di un

numero finito (anche se molto alto) di

misure. Tuttavia, quello che non viene

misurato esplicitamente, la nostra macchina

se lo ricostruisce, sulla base delle misure

effettivamente compiute, con opportuni

procedimenti di interpolazione numerica.

Inoltre, con la TAC non è che si

misurino direttamente le sezioni della

porzione interna al corpo che si vuole

ricostruire, si fanno in realtà misure

indirette. Ad esempio si misura

l’assorbimento da parte dell’oggetto cui si è

interessati di un fascio di protoni emesso

da una sorgente che ruota intorno al

paziente. E dai valori dell’assorbimento se

ne deducono informazioni sulla lunghezza e

sulla densità del materiale attraversato .

Ma il principio matematico rimane quello

che abbiamo detto: si può ricostruire la

geometria di un oggetto solido se se ne

sanno misurare le sezioni rettilinee. E quelle

formule che Radon produsse nel lontano

1917 e che sembravano solo una curiosità

per addetti ai lavori oggi sono nascoste

dentro una macchina che negli ultimi

vent’anni ha rivoluzionato il mondo della

diagnostica medica.

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MATEMATICA E TELECOMUNICAZIONI:

UN BINOMIO INSCINDIBILE

Ovidio M. Bucci

Professore di Campi Elettromagnetici Università degli Studi di Napoli Federico II

La pervasività delle telecomuni_

cazioni e la possibilità di ricevere, inviare o

condividere informazioni di natura la più

disparata ed in quantità sempre maggiore

caratterizzano le odierne società

tecnologicamente avanzate. Che ciò sia

stato reso possibile dal prodigioso sviluppo

delle tecnologie microelettroniche è ben

noto. Non altrettanto noto è il fatto che alla

base delle telecomunicazioni moderne vi è

l’opera di un matematico (ed ingegnere)

americano, Claude E. Shannon (1916-

2001), che in un epocale lavoro del 1948

sviluppò la teoria matematica della

comunicazione. Per apprezzarne la

rilevanza, ricordiamo che lo scopo di un

sistema di telecomunicazione è quello di

trasferire l’informazione contenuta in un

messaggio da un punto all’altro. Ciò pone

subito le prime due questioni affrontate e

risolte da Shannon, e cioè: come si può

misurare rigorosamente l’informazione

contenuta in un messaggio? Qual è la

massima quantità di informazione che un

sistema può trasferire in un dato tempo?

Peraltro, ogni sistema di telecomunicazione

reale distorce e disturba inevitabilmente i

segnali che lo attraversano, causando un

errore nella ricostruzione del messaggio

ricevuto, e quindi una perdita di

informazione. Orbene, Shannon dimostrò

che tale errore può essere ridotto a piacere,

pur di codificare (e decodificare)

opportunamente il segnale trasmesso,

adattandolo, per così dire, al sistema. Tale

risultato ha rivoluzionato il modo stesso di

concepire le telecomunicazioni, spostando

l’enfasi sugli algoritmi di codifica e

decodifica e, conseguentemente, sulle

tecniche di tipo numerico, che permettono

di implementarli nel modo più naturale ed

efficiente, oltre a consentire la cifratura dei

messaggi a fini di sicurezza o commerciali.

Grazie alla disponibilità di processori

sempre più potenti e compatti, ciò ha

condotto all’attuale “rivoluzione digitale”.

Sempre più comunicare, vedere, sentire

significa calcolare. Forse non è vero che,

come affermava Pitagora, la realtà è

numero: di certo, però, il numero è

l’essenza della nostra realtà.

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TECNICHE NUMERICHE NELLE MISURE

SPERIMENTALI.

Quando lo sperimentatore ricorre al calcolatore Giovanni M. Carlomagno

Professore di Gas-dinamica Università degli Studi di Napoli Federico II

Le tecniche numeriche sono

utilizzate nella risoluzione di modelli teorici

ma sono molto utili anche allo

sperimentatore. Spesso, i moderni

strumenti di misura danno una mole di dati

che si possono trattare solo numericamente

e l’analisi dei dati richiede sofisticate

elaborazioni al calcolatore. Tipici esempi

sono la Particle Image Velocimetry (PIV) e

la Termografia.

La tecnica PIV ricava le velocità di un

fluido in un piano dalla misura degli

spostamenti di minuscole particelle

traccianti. Con una telecamera digitale e

una lama di luce laser si acquisisce una

coppia di immagini successive e, noto

l’intervallo di tempo tra esse, le velocità si

determinano valutando gli spostamenti dei

traccianti.

Per stimare questi ultimi, ogni

immagine viene suddivisa in celle la cui

dimensione è dettata dal numero di

particelle presenti e dai gradienti di velocità

nel campo di moto. Per ciascuna cella, la

stima dello spostamento viene fatta

determinando la posizione del picco di

mutua covarianza spaziale tra celle

corrispondenti e, per ridurre i tempi, si

opera calcolando lo spettro di potenza

mutua eseguito con algoritmi FFT e con

stimatori frazionari su tre punti.

Nell’iterazione successiva la seconda cella

viene traslata di una quantità pari allo

spostamento già stimato riducendo le

dimensioni delle celle nelle successive

interrogazioni e migliorando la risoluzione

spaziale. Una ulteriore miglioria si ottiene

imponendo una distribuzione di spostamenti

variabile sulla cella che, per ridurre il

calcolo, viene valutata interpolando

bilinearmente la griglia degli spostamenti

precedenti; è però necessario stimare i

livelli tra i pixel via una interpolazione con

funzioni sinc.

Alla fine di ogni passo si hanno i

vettori spostamento (fino a circa 10.000).

Per la inevitabile presenza di vettori spuri,

le velocità si devono controllare

statisticamente con il test della mediana e

sostituire quelle spurie con interpolazioni di

vettori adiacenti corretti.

In figura sono riportati il campo di

moto, le linee di flusso e le mappe di

vorticità istantanee in un getto di aria che si

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immette (dal basso) in un flusso

trasversale. Si notano i vortici istantanei

presenti intorno al getto e la loro elevata

vorticità. Questo tipo di moto è molto

rilevante nel raffreddamento di palettature

di turbine a gas e nello scarico di inquinanti.

-1 0 1

1

2

3

26.523.019.516.012.5

9.05.52.0

-1.5-5.0-8.5

-12.0-15.5-19.0-22.5-26.0

Getto in cross-flow

Il termografo all’infrarosso misura la

distribuzione bidimensionale della

temperatura sulla superficie di un corpo. La

misura è affetta da errori dovuti alla

conduzione termica in direzione tangenziale

e in regime non stazionario, si deve

considerare la variazione della conducibilità

termica con la temperatura del sensore.

Pertanto le equazioni da risolvere oltre che

non stazionarie sono anche non lineari.

La termografia è utile nell’analisi dei

beni culturali. La tecnica più usata è quella

lock-in con la quale si riscalda la superficie

del campo con modulazione armonica che

genera onde termiche nel materiale. Per

l’elevata sensibilità del termografo

(dell’ordine dei centesimi di grado) le

sollecitazioni termiche sono molto

contenute. Diminuendo la frequenza di

modulazione, aumenta la profondità di

misura. In presenza di particelle estranee o

distacchi, e quindi proprietà termiche

diverse rispetto al materiale base, l’onda

incidente viene riflessa ad un tempo diverso

e cioè con diverso angolo di fase. Angolo di

fase uniforme indica materiale omogeneo e

integro mentre variazioni di angolo di fase

indicano disuniformità o presenza di difetti.

Si riportano immagini di fase relative a due

opere presenti nel Museo Archeologico di

Napoli: il mosaico della Battaglia di Isso e

l’affresco delle danzatrici della tomba di

Ruvo. Nell’immagine di fase della Battaglia

di Isso, le zone più chiare indicano assenza,

o distacco di tessere, e la variazione di

colore sulla cintura di Alessandro presenza

di tessere di diverso materiale. Per

l’affresco delle danzatrici della tomba di

Ruvo, le zone più chiare nell’immagine di

fase a destra indicano presenza di pittura

originale mentre le zone più scure

x/D

y/D

ΩzD/u∞

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rifacimenti. Nell’immagine di fase a sinistra

relativa all’area delimitata dal rettangolo,

si nota una fascia orizzontale più scura tra

due fasce più chiare, non visibili ad occhio

nudo, che indicano un rifacimento della

cornice, l’originale essendo costituita da tre

fasce realizzate con due diversi tipi di

pittura.

Particolare del mosaico della “Battaglia di Isso”,

Fotografia Immagine di fase

Un pannello dell’affresco delle “danzatrici della tomba di Ruvo”

Immagine di fase di dettaglio Fotografia Immagine di fase

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I PONTI SOSPESI E LA SFIDA ALLA

GRAVITÀ

Gaetano Manfredi

Professore di Tecnica delle Costruzioni Università degli Studi di Napoli Federico II

Sin dagli albori della civiltà l’uomo

ha la necessità superare fiumi e gole per

spostarsi. Dalle vette dell’Himalaya ai picchi

delle Ande, popoli diversi, utilizzando i

differenti materiali che la locale natura

offre, pensano di scavalcare il vuoto con lo

stesso sistema: collegando le due sponde

con delle corde e sospendendo a queste un

tavolato che consenta un agevole

passaggio. E’ nato il ponte sospeso, che

empiricamente sfrutta un modello

meccanico molto semplice, quello della fune

pesante o catenaria.

In molti, costruendo questi ponti,

probabilmente si chiedono quali siano le

dimensioni o la forma ideali a garantire un

attraversamento sicuro, ma solo

l’esperienza accumulata nei secoli li guida.

Dopo una prima intuizione di Galileo, solo

nel 1690 Giacomo Bernoulli risponda in

maniera “esatta” a queste domande

risolvendo l’equazione della catenaria;

giunge alla soluzione utilizzando la “sua

potentissima chiave”, cioè il calcolo

differenziale appena introdotto. Dopo

migliaia di anni dall’inizio della costruzione

dei ponti, l’uomo comincia finalmente a

calcolarli.

Ma nuove sfide sono alle porte. La

rivoluzione industriale introduce l’acciaio e

l’Ottocento è un rincorrersi nella

costruzione di ponti sempre più arditi; ma,

a causa del vento, i crolli si susseguono e

superare alcuni limiti spaziali sembra

impossibile.

Un’evoluzione nella modellazione

matematica diventa necessaria. Rankine nel

1858 formula la prima teoria statica dei

ponti sospesi, ma si deve a Melan nel 1888

la brillante formulazione del problema

dell’equilibrio e della congruenza tra cavo e

trave. La sua applicazione progettuale da

nuovo impulso nella costruzione di grandi

ponti sospesi e, tra gli altri, nasce nel 1933

il Golden Gate. Gli impalcati diventano

molto snelli e si distingue in questo il

Tacoma Bridge, che, però, comincia ad

oscillare subito dopo la costruzione e dopo

pochi mesi crolla rovinosamente.

Subito si comprende che sui ponti si

possono verificare degli effetti aerodinamici

non stazionari per effetto della corrente del

vento che attraversa il sottile nastro

dell’impalcato. Occorre introdurre una

teoria aeroelastica. Prandtl e von Karman

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ne forniscono la base matematica,

favorendo la definizione di nuovi e più

evoluti criteri di progetto .

Ci avviciniamo ai nostri giorni e ponti

sempre più lunghi si realizzano: il ponte di

Verrazzano a New York, il ponte sul Tago ed

il secondo ponte sul Bosforo.

Nel 1995 si sta per completare il ponte più

lungo della storia, l’Akashi Kaikyo (1990

metri) a Kobe, quando un violentissimo

sisma si scatena. Le due pile sulle sponde

opposte si spostano di quasi 1,3 metri: la

sfida riparte modificando il progetto

originario.

Oggi si creano nuovi materiali

sempre più leggeri, resistenti e durevoli

come il carbonio. Si sviluppano nuovi

modelli matematici per tener conto

dell’azione asincrona del terremoto.

La grande impresa del domani è il

Ponte sullo Stretto di Messina con i suoi

3300 metri di luce ed i nemici di sempre: il

vento ed il terremoto. Sperimentazioni

d’avanguardia e modelli matematici

sofisticatissimi ci accompagnano in questa

sfida, ma la natura ci sta preparando

qualche altra sorpresa?

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UN MODELLO MATEMATICO IN

BIOLOGIA

Carlo Sbordone

Professore di Analisi Matematica Università degli Studi di Napoli Federico II

E’ noto da tempo che più un animale

è pesante e, in proporzione, meno si nutre

e più lentamente respira. Ad esempio, un

elefante di 7 tonnellate pesa 100 volte più

di un uomo, ma la quantità di cibo di cui ha

bisogno non è 100 volte, ma solo circa 30

volte maggiore di quella necessaria

all’uomo. L’elefante si nutre tre volte meno

dell’uomo, il topo, poi, cinque volte di più,

in proporzione. Più in generale, si sa che la

quantità di cibo necessaria a mantenere in

vita un mammifero non è proporzionale al

suo peso corporeo, ma al peso, elevato ad

una certa potenza, precisamente a 3/4. Si

sa anche che il ritmo respiratorio è

inversamente proporzionale al peso

corporeo elevato a 1/4. Stiamo accennando

in particolare alla cosiddetta “Legge della

riduzione del metabolismo” che solo

recentemente ha ricevuto una spiegazione

scientifica mediante un modello matematico

elaborato da tre scienziati americani. Alla

base del modello vi è l’idea che gli

organismi sono mantenuti in vita da sistemi

di distribuzione delle risorse, che

trasportano sostanze materiali all’interno di

reti (ad esempio il sistema arterioso) che si

ramificano gerarchicamente, in modo da

servire tutte le parti del corpo. Inoltre si

accetta l’ipotesi che i rami terminali (i

capillari) abbiano la stessa misura

indipendentemente dalle dimensioni

corporee. I capillari infatti devono servire

gruppi di cellule ad una scala talmente

ridotta che le loro dimensioni non hanno

alcuna relazione con la massa corporea.

L’architettura di queste reti è assai

complessa e può essere descritta in termini

della Geometria Frattale. Se ne può avere

un’idea visitando la Cappella San Severo a

Napoli, ove sono conservati abbastanza

integri i resti dell’apparato circolatorio di un

uomo e di una donna. Infine, il modello

presuppone che l’evoluzione abbia

modulato le reti in modo da minimizzare

l’energia necessaria per distribuire le

risorse.

Tra le conseguenze del modello vi è

anche la possibilità di determinare il grado

di ramificazione di un sistema circolatorio.

E’ interessante rilevare che una balena, pur

pesando 10 milioni di volte più di un topo,

ha solo il 70% in più di ramificazioni nel

proprio sistema circolatorio.

Il modello interpreta anche la vastità

di forme e misure corporee presenti nel

mondo animale che vanno da un

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decimiliardesimo di milligrammo per certi

microbi fino alle cento tonnellate per certe

balene in una gamma di 21 ordini di

grandezze, quella fondamentale proprietà

dei viventi che va sotto il nome di

Biodiversità.

Numerose sono le aspettative suscitate da

questo modello matematico.

Naturalmente esso non potrà tener

conto di tutti gli aspetti dei fenomeni in

esame e tuttavia, proprio per questa

ragione, questo stesso modello potrà forse

adattarsi a fenomeni anche assai diversi tra

loro (in Economia o in Ecologia) dando

risultati sorprendenti.

Macchine Anatomiche

Di Raimondo de Sangro

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MATEMATICA ED ECONOMIA: IL CASO

DELLE ASTE

Achille Basile

Professore di Matematica Università degli Studi di Napoli Federico II

Le scelte di investimento a garanzia

delle prestazioni future erogate da un fondo

pensione ai propri iscritti, l’assegnazione di

una concessione governativa, l’allocazione

di risorse scarse tra differenti centri di

utilizzo, la scelta della migliore procedura di

sintesi delle opinioni degli individui di una

collettività, il commercio elettronico, la

programmazione intergenerazionale dello

sfruttamento di un bacino di pesca, sono

solo alcuni degli aspetti della nostra vita

economica e sociale nei quali la Matematica

svolge un ruolo non banale.

Curioso destino quello della

Matematica, alla quale la società, con

atteggiamento schizofrenico, talvolta

attribuisce il potere taumaturgico di fornire

comunque certezze a qualunque

ragionamento che elenchi un po’ di numeri,

talaltra riserva lo scherno identificandola

con l’aritmetica elementare.

Un esame meno superficiale mostra

che non di schizofrenia si tratta, bensì di

inadeguata consapevolezza delle

potenzialità della Matematica. Vediamo,

allora, più da vicino, un esempio per

accrescere la nostra consapevolezza.

Supponiamo che, tra vari pretendenti, sia

da assegnare una licenza pubblica per lo

svolgimento di una certa attività (potrebbe

riguardare la telefonia mobile, la gestione di

un’autostrada o di una linea ferroviaria).

L’interesse per la licenza è chiaro: lo

svolgimento dell’attività ad essa relativa

determina profitti per il licenziatario.

L’ente incaricato dell’assegnazione

non conosce con precisione quali sono i

pretendenti; meno che mai, allora, conosce

con precisione quale è il valore dell’attività

in questione per ciascuno di essi; ciò

nonostante, deve progettare un

meccanismo di aggiudicazione della licenza

(un’asta) che garantisca il migliore ritorno

possibile alla collettività. Un potenziale

pretendente, una volta noto il meccanismo

di assegnazione, deve decidere quanto

offrire per la licenza non disponendo di

informazioni precise sul valore che essa ha

per ogni altro concorrente.

Comunque lo si guardi è un bel

guazzabuglio. Certamente lo è dal punto di

vista dell’ente che può concepire varie

tipologie di aste ma deve scegliere quella

ottima in scarsità di informazioni e di fatto

facendo previsioni anche sul

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comportamento dei concorrenti. Ma lo è

anche dal punto di vista dei concorrenti.

Ciascuno di essi vede il proprio

profitto determinato non solo dalle proprie

scelte, ma anche influenzato dalle scelte

degli altri. Infatti il solo licenziatario farà

profitti, ma la scelta di colui che lo diviene

dipende dalle offerte di tutti i concorrenti.

Nella letteratura scientifica, non solo

economica e matematica, abbondano

situazioni come quella descritta.

Continuamente, in ogni attività

umana, si devono prendere decisioni

interattive, ma, di fronte a tanta

indeterminatezza, su che cosa basarle?

L’eco non ancora spento di un successo

cinematografico legato alla sua vicenda

umana, probabilmente, fa venire in mente

al lettore che il concetto matematico alla

base della soluzione di tutti i problemi di

decisione interattiva è quello ideato dal

grande matematico John F. Nash, Jr. Gli

agenti economici, nel nostro caso gli

aspiranti alla concessione, si comportano in

modo ottimale - in gergo si dice che

giocano un equilibrio di Nash - quando

operano le proprie scelte, pur ciascuno

indipendentemente dagli altri, in modo che

il risultato complessivo dell’interazione non

possa essere migliorabile da alcuno senza

cambiare le scelte altrui. In altre parole, per

ciascuno, anche la conoscenza delle scelte

altrui non porterebbe a variare la propria. E’

proprio grazie all’uso del concetto di

ottimalità ideato da Nash che si riesce a

determinare la più idonea procedura di asta

garantendo alla collettività, da un lato, un

corrispettivo ottimale per la cessione della

titolarità di un diritto e, dall’altro, efficienza

nella gestione dell’attività data in

concessione.

John F. Nash

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NAVIGARE SULLA MATEMATICA

Salvatore Miranda

Professore di Architettura Navale Università degli Studi di Napoli Federico II

L’ottimizzazione del progetto di una

nave può essere visto come un processo di

minimizzazione di un funzionale che pesi

appropriatamente i diversi requisiti richiesti,

quali, ad esempio, il carico pagante, la

velocità, la tenuta al mare e, ovviamente,

la resistenza al moto. Nella pratica,

tuttavia, raramente si consegue il risultato

finale ottimo, sia perché gli strumenti di

progetto non sono così robusti e veloci da

essere inseriti in processi di ottimizzazione,

sia per la consuetudine antica di orientare

la scelta nell’ambito di un limitato numero

di precedenti esperienze progettuali,

considerate affidabili e soddisfacenti.

La simulazione numerica del flusso intorno

alla nave ha raggiunto notevole diffusione

nei recenti anni, grazie soprattutto alla

ampia disponibilità di computer potenti e

veloci.

La conoscenza del flusso e delle

componenti della resistenza al moto

riguarda uno dei più importanti aspetti della

progettazione navale. Tuttora la previsione

delle prestazioni propulsive della nave sono

eseguite trasferendo i risultati ottenuti su

modelli in vasca mediante opportune

procedure, nel rispetto delle ipotesi di base

del Metodo di Froude. La resistenza totale è

cioè suddivisa in due componenti

indipendenti, una dovuta alla viscosità del

fluido, l’altra alla formazione ondosa

generata; la prima è funzione del numero di

Reynolds, la seconda di quello di Froude.

Benché il ricorso alle esperienze in vasca su

modelli continui ad essere tuttora

indispensabile, la fluidodinamica

computazionale (CFD) sta acquistando

continuo riconoscimento di utile strumento

nel progetto della nave. L’applicazione di

codici CFD, pur non fornendo, al momento,

valori assoluti delle grandezze tali da dare

affidabili previsioni sulla nave, consente di

evidenziare caratteristiche indesiderabili del

flusso sulla carena e di procedere ad

opportune modifiche delle forme con il

duplice risultato di migliorare le prestazioni

propulsive e di indirizzare e limitare la

successiva indagine sperimentale.

Tale tipo di ottimizzazione, utilissima

nelle fasi preliminari del progetto, presenta

vantaggi in quanto più rapida e semplice

rispetto alle tradizionali esperienze in

vasca; in più può fornire maggiori

informazioni sul flusso, in alcuni casi giunte

a livelli di dettaglio, ed anche sulle forze

idrodinamiche della carena e del

propulsore.

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I metodi dei flussi a potenziale sono

gli strumenti più utilizzati per

l’ottimizzazione delle forme prodiere, dove

è predominate la formazione ondosa legata

in maniera predominante alle forze di

gravità e non a quelle viscose. Queste

ultime esercitano la loro influenza

significativa nel corpo poppiero della nave,

ove il ricorso al modello del fluido viscoso è

indispensabile.

E’ giusto ricordare che uno dei primi

metodi di calcolo a potenziale è stato quello

di Hess e Smith (1962), nato per le

esigenze di progetto delle carene di

sottomarini. Il metodo, successivamente

reso più generale con il caso portante, trovò

significativa estensione navale con

l’introduzione della superficie libera per

opera del Dawson (1977).

I codici viscosi si basano

essenzialmente sui così detti metodi RANS,

che hanno il sostegno teorico fondamentale

sulle equazioni di Navier-Stokes. In questo

ambito, la novità più importante è stata

certamente l’introduzione della superficie

libera (Kodama, 1994). Nel campo viscoso,

in particolare, la crescente potenza dei

calcolatori già consente l’uso di metodi più

avanzati, quale, ad esempio, quelli basati

sulla tecnica “Large Eddy Simulation” (LES).

Vari e diversi sono, tuttavia, i

problemi connessi all’utilizzo pratico dei

codici numerici. A quelli tradizionali,

riguardanti, ad esempio, i campi di

applicazione, la discretizzazione del dominio

di calcolo e la robustezza del codice, vi è da

considerare la necessità di utenti

particolarmente esperti e la disponibilità di

strumenti di calcolo di potenzialità molto

elevate.

Di recente, si sta manifestando

l’esigenza di disporre di strumenti CFD,

basati su modelli teorici forse meno rigorosi

rispetto alla complessità del fenomeno e

idonei alla soluzione di specifici problemi di

progetto, ma robusti e di facile uso.

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I MODELLI, L’ANALISI NUMERICA, E

L’INGEGNERIA DEI MATERIALI

Domenico Acierno

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e della Produzione

Quando negli anni ‘60 frequentavo,

alla Federico II, il corso di laurea in

Ingegneria Chimica ho appreso da illustri

giovani docenti, e primo fra tutti il

compianto Gianni Astarita, che mi ha anche

guidato alla laurea, che ogni problema

fisico, alla cui soluzione come futuri

ingegneri dovevamo dare una risposta,

poteva tradursi in un insieme di equazioni

di bilancio, accoppiate anche ad equazioni

di tipo costitutivo: in breve un modello. Al

tempo, una possibilità concreta per

ottenere una soluzione era quella di

“semplificare” al massimo il modello,

basandosi su ipotesi fisicamente plausibili, e

quindi di ottenere un risultato addirittura

analiticamente, da confrontare poi

criticamente con le sperimentazioni. Ciò tra

l’altro era anche una necessità in quanto lo

strumento principale per i nostri calcoli era

ancora il “regolo”: Altra possibilità

ovviamente era di farci aiutare da qualcuno

che conosceva meglio di noi e di me in

particolare la matematica.

Un po’ dopo i mezzi di calcolo

cominciarono ad essere più diffusi e noi

prestammo sempre più attenzione a modelli

fisicamente sempre più vicini alla realtà, e

per questo anche più complessi, ed anche

in questo caso un aiuto poteva venire dai

colleghi più esperti di analisi numerica e

programmazione dei calcolatori.

Non sempre tuttavia qui in Italia

queste collaborazioni si creavano

facilmente, mentre all’estero dove tutti noi

giovani ricercatori praticammo periodi di

studio esistevano gruppi di lavoro e

addirittura interi dipartimenti dediti alla

matematica applicata.

L’evoluzione positiva di queste

attività ha dato col tempo ottimi frutti

anche in Italia ed ha consentito di avere

sempre nel campo da me più coltivato,

prima le soluzioni di interessanti problemi di

moto di fluidi semplici e successivamente di

fluidi più complessi ed ha consentito che

anche noi contribuissimo nel campo in

particolare dei processi di trasformazione

dei materiali polimerici a far passare le

industrie dal metodo di progettazione

basato sull’empirismo a quello assai più

produttivo delle previsioni ottimizzate da

modelli. Nel contempo ormai la

progettazione più meccanico-strutturale dei

manufatti seguiva simili evoluzioni.

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Così sono nati gruppi di ricerca che

hanno dato lustro in Campania come in

Lombardia, in Italia, nel mondo attraverso

l’impostazione e la soluzione di problemi di

interesse industriale.

L’interazione dei gruppi di ricerca ha

comportato la nascita anche di

collaborazioni didattiche con obiettivi verso

le applicazioni ma con ampie basi di tipo

fondamentale che in primo livello, qui alla

Federico II, hanno generato il corso di

laurea in Scienza ed Ingegneria dei

Materiali ed a livello di laurea specialistica

quello ormai più tradizionale di Ingegneria

dei Materiali.

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Cezanne, Paul (1839 - 1906): Orangen, 1895/1900, Öl auf Leinwand, 60,6 x 73,3 cm, Museum of Modern Art, New York

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GLI AGRUMI

P. De Luca

B. Menale

Gli agrumi, assieme all’uva e alle banane,

sono i frutti maggiormente utilizzati oggi

nel mondo. Fino a 300 anni fa erano

privilegio dei ricchi, elemento colorato delle

aranciere principesche e cibo delle tavole

signorili imbandite a festa; ai nostri giorni

rappresentano un alimento per tutti:

apprezzati in ogni angolo del mondo, la loro

coltivazione si è diffusa ovunque le

condizioni climatiche lo permettessero.

Le piante di agrume sono arbusti o piccoli

alberi sempreverdi con fiori biancastri,

“zagare”, che emanano un profumo dolce

ed intenso: sono molto apprezzati e spesso

vengono utilizzati come fiori delle spose.

Il frutto degli agrumi, chiamato dai botanici

esperidio, è rivestito da un involucro

arancione o giallo (la “buccia”) ed è

suddiviso nei caratteristici spicchi,

all’interno dei quali sono alloggiati i semi.

Se si osservano le piantagioni di agrumi

presenti in varie regioni italiane, sembra

che tali piante siano parte integrante del

paesaggio mediterraneo. In realtà esse non

sono originarie delle nostre zone, ma, come

tanti altri vegetali, sono stati introdotte da

Paesi lontani, hanno trovato condizioni

ambientali favorevoli e sono state

ampiamente diffuse in coltivazione.

Gli agrumi sono tutti originari dell’ Estremo

Oriente e la loro prima utilizzazione in

agricoltura è avvenuta in Cina.

Le prime citazioni riguardanti gli agrumi

giunte a noi risalgono al II millennio a. C.,

epoca in cui i Cinesi avevano già

abbandonato il nomadismo e avevano

costituito comunità fisse e stabili; esse si

riferiscono al pummelo e al kumquat.

Un’altra antica citazione relativa agli agrumi

si ritrova in un’opera in sanscrito, scritta

qualche anno prima dell’800 a.C., in cui si

fa menzione del cedro o del limone.

In uno scritto del III secolo a.C. si parla di

un altro agrume, l’arancio trifogliato. Sono

successivi a questa data documenti che

riferiscono delle altre specie più conosciute.

Solo il cedro fu coltivato nell’area

mediterranea in epoca greco-romana. Altri

agrumi furono introdotti in occidente dopo il

VII secolo dagli Arabi, quando questi

costituirono un vastissimo impero che

andava dall’India alla Spagna: essi

conobbero alcuni agrumi nelle zone

dell’attuale Pakistan e li trasportarono verso

occidente, fin sulle coste del Mediterraneo.

Con il passare del tempo, gli agrumi

divennero sempre più popolari nei giardini

europei, anche grazie all’introduzione

dall’Oriente di specie.

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Solo nel XVII secolo si chiuse l’epoca in cui

tali piante erano prevalentemente utilizzate

a scopo ornamentale ed iniziò a svilupparsi

l’agrumicoltura moderna con scopi

alimentari.

Il pummelo

Il pummelo (Citrus grandis) è un agrume

ancora oggi molto popolare in Cina ed altri

paesi asiatici, ma pressoché sconosciuto in

Occidente. Il suo luogo di origine è

rappresentato dall’arcipelago della Malesia;

da qui è stato portato nel continente

asiatico, dove è stato coltivato ed

apprezzato dai Cinesi. In Oriente tale

agrume è attualmente utilizzato come frutto

da tavola o come base per la produzione di

marmellate e canditi.

Il pummelo giunse in Occidente come

curiosità botanica tra il XII e il XIII secolo

d. C.; successivamente fu portato nelle

isole Barbados, dove sicuramente era

presente nel XVII secolo.

In Europa i frutti di questa pianta non sono

mai stati apprezzati. Talvolta li si trovano

sul mercato ma spesso si tratta di

pompelmi spacciati per pummeli.

Il cedro

Il cedro (Citrus medica), caratterizzato da

grossi frutti gialli, è originario degli

ambienti pedemontani dell’Himalaia; da qui

fu portato prima in Cina e poi in India, dove

si diffuse in coltura.

Probabilmente tale agrume giunse in

Mesopotamia con le carovane che

portavano merce dall’Oriente: semi di cedro

sono state ritrovate in alcuni scavi effettuati

in città babilonesi.

Conosciuto anche da Medi e Persiani, il

cedro fu importato nell’area mediterranea

in seguito alla campagna di avanzamento

verso Oriente di Alessandro Magno (327 a.

C.).

Il “meraviglioso albero dalle mele d’oro”,

conosciuto da Alessandro Magno, giunse

così in Grecia. Teofrasto, il discepolo di

Aristotele, fornì una prima descrizione della

pianta del cedro e definì i suoi frutti “mele

della Media” o “mele della Persia”; affermò

che il frutto non era commestibile ma era

molto aromatico e costituiva un utile

rimedio contro la gotta e la stomatite.

Dioscoride, medico greco del I secolo d. C.,

inserì il cedro tra le piante medicinali e

Plutarco, contemporaneo di Dioscoride, per

primo affermò che il suo frutto era

commestibile.

A Roma il cedro era albero ben noto, come

testimoniato da numerose citazioni

letterarie. Virgilio chiamava i suoi frutti

“mele d’oro” o “mele della felicità” e li

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considerava come un efficace rimedio

contro l’assunzione di veleni. Plinio il

Vecchio parlò del cedro in maniera

approfondita, attribuendogli il nome di

“Pomo dell’Assiria” o “Pomo della Media”;

parlando dell’olio estratto da questa pianta

ed utilizzato per la conservazione dei papiri

usa il termine “citratus”, citazione riferibile

a Citrus, il nome che questa pianta aveva

assunto presso i Romani. Apicio riporta una

ricetta ove tra gli ingredienti era citato il

bianco della sua buccia.

La storia del cedro è strettamente collegata

con la religione giudaica, per la quale il

frutto di tale agrume ha un profondo

significato religioso.

Alcuni ipotizzano che gli Ebrei conobbero il

cedro all’epoca della loro permanenza in

Egitto, prima del XIII secolo a. C.; altri

sostengono che essi abbiano conosciuto tale

frutto all’epoca della loro prigionia in

Babilonia o durante il loro ritorno in

Palestina, dopo la liberazione da parte di

Ciro il grande. Qualora dovesse risultare

esatta la prima ipotesi, bisognerebbe

concludere che la pianta è arrivata nelle

regioni mediterranee ben prima delle

spedizioni di Alessandro Magno; potrebbe

acquistare valore l’ipotesi che identifica con

i cedri i pomi del giardino delle Esperidi,

legato ad una delle fatiche di Ercole.

Il cedro assunse presso gli Ebrei un ruolo

sacro nella cosiddetta “Festa dei

Tabernacoli”, che cade a metà ottobre e

rappresenta la celebrazione per la fine della

stagione del raccolto. Durante tale

ricorrenza i fedeli agitano con la mano

destra una foglia di palma, due rami di

salice e tre di mirto, e tengono un frutto di

cedro nella mano sinistra.

La coltivazione del cedro si diffuse in varie

aree del Mediterraneo, seguendo le

migrazioni di piccole comunità ebraiche. A

Cuma ed a Pompei, dove erano presenti

cospicue colonie sin dal III secolo a.C.,

erano coltivati i cedri. Nella cosiddetta

“Casa degli Ebrei” di Pompei, luogo di

incontro della comunità giudaica, sono stati

rinvenuti vasi contenenti resti di radici di

cedro.

Anche dopo la diaspora seguita alla

distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., il

cedro mantenne presso gli Ebrei il

significato sacro. Mentre nell’area

mediterranea le varie comunità

provvedevano alla coltivazione, gli Ebrei

stabilitisi nel Nord Europa importavano i

frutti da paesi più caldi, quali l’Italia e la

Grecia, pagando anche cifre elevatissime:

alcune comunità della Boemia e della

Moravia, durante il XVII secolo, potevano

permettersi solo un frutto di cedro, e

questo passava di famiglia in famiglia.

Nel ‘600, il cedro era molto diffuso nei

giardini napoletani e in quelli della penisola

sorrentina.

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La sua corteccia era utilizzata per le

malattie renali, mentre le foglie erano

adoperate nella cura delle affezioni alla

gola. Con la buccia dei cedri si preparavano

le “pastiglie napoletane”, utilizzate nella

cura delle affezioni dello stomaco, del cuore

e della testa. Durante la peste che colpì

Napoli nel 1656, il cedro entrò in un rimedio

raccomandato dal Comitato Medico della

Città.

Attualmente, il cedro è utilizzato per la

preparazione di canditi e per la

preparazione di bevande. Il principale

centro di coltivazione di tale pianta è sito

nel nord della Calabria, nei dintorni

dell’abitato di S. Maria del Cedro.

L’arancio amaro

L’arancio amaro (Citrus aurantium) è

originario di una vasta area comprendente i

contrafforti meridionali dell’Himalaia, l’India

nord-occidentale e la Cina meridionale: è

stato utilizzato sin dall’antichità per

l’estrazione di oli ed essenze adoperati per

la preparazione di profumi.

Coltivato già in epoche lontane in Cina e

Giappone, l’arancio amaro fu portato nel

Mediterraneo dagli Arabi; ciò avvenne

secondo alcuni verso la metà dell’VIII

secolo d. C., secondo altri tra il X e l’XI

secolo d. C. In Europa, la sua presenza è

stata segnalata per la prima volta in Sicilia

nel 1002.

Il valore ornamentale di questo agrume era

molto apprezzato dagli Arabi i quali,

utilizzando l’abilità dei giardinieri persiani,

arricchirono i loro giardini con piante di

arancio amaro, sfruttando la bellezza della

loro chioma sempreverde e la persistenza

dei loro frutti vivacemente colorati sulla

pianta. Celebre è la moschea di Cordova,

nel cui “patio degli aranci” furono

impiantate 19 file di aranci amari in

continuità con le 19 arcate di ingresso.

Famosi sono i giardini, ricchi di aranci

amari, dei palazzi e delle moschee di

Granada, la città che “rivaleggiava col

giardino delle Esperidi”.

L’arancio amaro si diffuse in coltivazione nel

napoletano tra il XVI e il XVII secolo. Qui

furono selezionate numerose varietà che

costituivano vere e proprie curiosità

botaniche (“bizzarrie”); molte di esse si

affermarono presso collezionisti privati

durante il regno borbonico e oggi sono

conservate nell’Agrumeto dell’Orto botanico

di Napoli. Ricordiamo l’arancio amaro a

foglia crespa, lo scompiglio di Venere,

l’arancio amaro a foglia di salice e la

“chimera” originatasi probabilmente in

seguito ad un innesto di un limone su di un

arancio amaro e mostrante, in modo

evidente nei frutti, caratteri di ambedue gli

agrumi.

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Oggi, l’arancio amaro è scarsamente

coltivato: i suoi frutti sono usati per

preparare marmellate e la buccia di questi è

sfruttata per ottenere canditi e per

aromatizzare liquori (Gran Marnier,

Cointreau, Curaçao). Talvolta è utilizzato

nelle alberature stradali urbane.

L’arancio amaro trova frequentemente

impiego come portainnesto per limoni,

aranci dolci e pompelmi, essendo resistente

al freddo e alla gommosi.

Il limone

Il limone (Citrus limon) è originario

dell’India nord-orientale; i suoi frutti aspri

non si prestano ad un consumo diretto ma

sono sempre stati apprezzati per le

proprietà disinfettanti e dissetanti del succo

ed per il potere aromatico della buccia.

Il limone venne coltivato in epoche antiche

in Cina ed in Mongolia ed in questi paesi

veniva utilizzato per la preparazione di

bevande rinfrescanti. In India assunse un

significato simbolico: basti ricordare che le

vedove indù, che decidevano

volontariamente di immolarsi sulla pira ove

bruciava il corpo del marito, tenevano in

mano un frutto di limone !

Molti tendono ad escludere che nell’epoca

classica il limone fosse coltivato in

occidente, giacché non esiste alcuna

citazione greca o latina che riguardi questa

pianta. Non si può, però, escludere in

maniera categorica che frutti di questo

agrume fossero giunti nell’area

mediterranea, portati come curiosità da

carovane provenienti dai paesi orientali.

Peraltro esistono alcune raffigurazioni di età

romana che sembrano riprodurre agrumi

diversi dal cedro. In una villa romana

presso Cartagine esiste un mosaico in cui,

oltre alla raffigurazione di frutti di cedro, si

scorgono frutti che ricordano molto le

limette e i limoni; due affreschi pompeiani

conservati presso il Museo Nazionale a

Napoli raffigurano diversi frutti, tra cui

potrebbero essere riconosciuti dei limoni; in

un mosaico presente al Museo Nazionale di

Roma si scorge un limone accanto ad un

cedro. Non sappiamo però se si tratta

davvero di limoni o di piccoli frutti di cedro.

Dall’India questo agrume si diffuse verso

Occidente, nei territori dominati dagli Arabi,

durante l’VIII secolo d. C.; tra l’XI e il XIII

secolo, raggiunse l’Africa orientale, poi la

Sicilia ed infine la Spagna.

I Crociati conobbero i limoni in Siria e in

Palestina e portarono tali piante in Liguria

ed in Campania.

Con lo sviluppo dei viaggi marittimi il

limone divenne un apprezzato rimedio per

lo scorbuto, la malattia tanto temuta dai

marinai. I naviganti portoghesi, nel XVII

secolo, portarono alcune piante di limone

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nell’isola di S. Elena, che divenne così la

prima stazione di cura per lo scorbuto; ai

limoneti di S. Elena si aggiunsero presto

quelli di Madeira,delle Azzorre e delle coste

africane.

Anche il limone, al pari degli agrumi

precedentemente citati, si affermò nei

giardini campani . I suoi frutti divennero

rimedio per varie malattie ed occuparono

un posto importante nei medicamenti

proposti dalla Scuola Medica Salernitana.

Nei secoli successivi il frutto del limone

acquistò un ruolo simbolico in numerose

funzioni religiose: ciò avvenne,

probabilmente, per assorbimento del

simbolismo legato al cedro. Frutti di limone

erano distribuiti durante battesimi, cresime

e matrimoni. In Germania, durante i

funerali, celebrante e fedeli portavano

limoni. Queste tradizioni sono tutte

scomparse negli ultimi decenni.

Oggi il limone è un ingrediente molto

comune in cucina, grazie al suo succo

utilizzato nella preparazione di cibi, bibite,

liquori, dolci, gelati. Le sue essenze sono

utilizzate in profumeria; i suoi estratti

trovano impiego nella preparazione di

detersivi.

La limetta

La limetta (C. aurantifolia), è

probabilmente originaria dell’arcipelago

della Malesia. Coltivata nelle aree calde

dell’Asia, si diffuse in Occidente seguendo

un percorso simile a quello del limone. Fu

apprezzata nei giardini per il profumo

delicato e gradevole dei suoi frutti, ma la

sua coltura fu sempre limitata. Ancora oggi

è coltivata ed i suoi frutti vengono utilizzati

per rendere più gradevole l’aroma dei

liquori di agrumi.

La limetta è molto diffusa nei paesi

tropicali, dove ne sono state selezionate

razze utilizzate come succedaneo del

limone, pianta che non vive in climi caldo-

umidi.

L’arancio dolce

L’arancio dolce (Citrus sinensis), specie

ben differenziata dall’arancio amaro, è

originario delle regioni montane della Cina

meridionale. Cominciò ad essere coltivato,

probabilmente, quattromila anni fa e fu

diffuso in India ed in Paesi limitrofi.

Certamente l’arancio dolce non fu

conosciuto dai greci né dai romani, così

come non era noto agli arabi.

Riguardo la sua introduzione in Europa, c’è

disaccordo tra gli studiosi. Secondo alcuni

sarebbero stati i Portoghesi ad introdurre

questa pianta nel loro Paese ed a

diffonderla in Europa: tale ipotesi sarebbe

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avvalorata dal fatto che l’arancio dolce in

varie regioni del Mediterraneo è stato

chiamato “portogallo”.

Indubbiamente il celebre navigatore

portoghese Vasco de Gama, che nel 1498

raggiunse l’India dopo aver doppiato il Capo

di Buona Speranza, nel diario di quella

missione citò la presenza di “melarance

dolci” in quel paese; e certamente i

Portoghesi importarono questa pianta in

Portogallo nel XVI secolo. C’è chi sostiene

che il primo arancio dolce coltivato in

Europa si trovasse in un giardino posto

nelle vicinanze di Lisbona.

Altri studiosi, però, affermano che l’arancio

dolce sarebbe arrivato in Europa molto

prima, grazie ai Genovesi. Questi, nel XIII

secolo, possedevano colonie in Asia e, per i

loro scambi commerciali, attendevano le

carovane provenienti dalla Cina e dall’India

sulle rive del Mar Nero. Nel corso di questi

scambi commerciali, i Genovesi avrebbero

conosciuto l’arancio dolce e l’avrebbero

importato in Italia per coltivarlo nei giardini

liguri.

Questa seconda tesi è suffragata da alcune

citazioni letterarie. Innanzitutto, numerosi

scrittori degli inizi del XVI secolo parlano di

aranci dolci coltivati in numerose zone della

nostra penisola. Inoltre P.A. Mattioli,

medico e naturalista italiano del XVI secolo,

mostra di conoscere bene le arance dolci

nell’introduzione del suo Commentario di

Dioscoride, scritta nel 1544. Se l’arancio

dolce era così diffuso in Italia nella prima

metà del ‘500, vi era giunto prima che i

Portoghesi lo importassero dall’Oriente.

Appare, dunque, probabile che

l’importazione dell’arancio dolce in Europa

abbia seguito due diverse vie.

Questa pianta si diffuse nei giardini

dell’Italia centro meridionale. A nord del

Lazio, ove il clima non era idoneo alla loro

crescita essa veniva coltivata in contenitori

di terracotta, tenendola all’aperto nella

bella stagione per poi trasferirla in ripari in

muratura durante il periodo invernale. Tali

costruzioni, corrispondenti alle attuali serre,

erano definite “logge delle arance” o

“aranciere” o “portogalliere”.

L’arancio dolce giunse in Campania nel XVI

secolo: aranceti di notevole importanza si

svilupparono a Napoli, Sorrento e Amalfi.

Nel napoletano si prese l’abitudine di

fermentare i fiori d’arancio, mescolandoli

con zucchero e lievito di birra, ottenendo

una bevanda che veniva bevuta come vino.

Nel Rinascimento, gli aranci dolci, insieme

ad altri agrumi, furono protagonisti di varie

opere d’arte, sia in pittura che in scultura, e

divennero grandi protagonisti nell’arte dei

giardini. In questo periodo, in Toscana e

nelle regioni vicine sorsero importanti

giardini, come ad esempio quello di Boboli

oppure quello di Francesco I dei Medici sulla

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Loggia dei Lanzi, in cui un ruolo da

protagonista è recitato da queste piante.

E’ indubbio che attualmente l’arancio dolce

costituisca l’agrume maggiormente coltivato

al mondo (70% della produzione mondiale

di agrumi). Le arance sono consumate

principalmente come frutta fresca e

l’utilizzazione per succhi, marmellate, ecc. è

limitata ad una bassa percentuale della

produzione annua.

Il bergamotto

Il bergamotto (Citrus bergamia)

probabilmente non è una specie botanica,

ma una varietà dell’arancio amaro o di un

ibrido ottenuto tra questo ed un altro

agrume non identificato. La selezione del

bergamotto è avvenuta in occidente ed è,

quindi, piuttosto recente.

La pianta fu portata in Calabria tra il XV ed

il XVI secolo, ove assunse un’importanza

sempre maggiore poiché i suoi

profumatissimi frutti entrarono nella

costituzione dell’ “acqua di colonia” e di

numerosi profumi e furono utilizzati per

aromatizzare il tè ed il tabacco per pipa.

Il bergamotto è oggi coltivato

esclusivamente in Calabria: nel territorio di

Reggio Calabria si produce il 90% della

produzione mondiale di questo frutto che

viene utilizzato per l’estrazione degli oli

essenziali.

Il pompelmo

Il pompelmo (Citrus paradisi) non è una

specie botanica, ma è un ibrido originatosi

casualmente tra una pianta di pummelo ed

una di arancio dolce coltivate in un giardino

delle Barbados. Tale agrume venne

introdotto in Florida agli inizi dell’800 e oggi

viene comunemente coltivato negli USA per

il consumo come frutta fresca o per

produrre spremute e marmellate.

La coltivazione del pompelmo si è diffusa in

molte aree del mondo, tra cui ricordiamo

Israele.

E’ oggi presente in alcuni giardini dell’Italia

meridionale, ma non viene coltivato

intensamente. I frutti che troviamo sul

mercato sono, generalmente, di

importazione.

Il mandarino

Il mandarino (Citrus reticulata) è

originario dei boschi montani dell’India

nord-occidentale, del Nepal, della Cina sud-

occidentale e del Vietnam. Oggi, come

l’arancio dolce, trova la sua maggiore

utilizzazione come frutto fresco, mentre

sono di minore importanza la lavorazione

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della sua buccia per estrarre olio di

mandarino o l’utilizzazione dei frutti per la

produzione di conserve.

Nelle province cinesi, ai frutti del mandarino

veniva dato un valore superiore a quello

degli altri agrumi: a lungo il loro consumo è

stato esclusivo dell’imperatore e dei suoi

più importanti funzionari.

L’introduzione in Europa di tale agrume è

relativamente recente. Sconosciuti a greci,

romani ed arabi, i mandarini giunsero dalla

Cina in Inghilterra, agli inizi del secolo

scorso; successivamente furono introdotti

dagli Inglesi a Malta e da lì, tra il 1810 ed il

1815, furono portati a Palermo, dove

rapidamente si svilupparono mandarineti a

carattere commerciale.

Nel 1816 i mandarini giunsero anche a

Napoli: presso l’Orto botanico e nel Parco di

Capodimonte, infatti, furono introdotti

numerosi esemplari provenienti dall’Orto

botanico di Palermo.

I mandarini giunsero nel Nuovo Mondo

verso la metà del secolo scorso, divenendo

ben presto una delle coltivazioni

maggiormente apprezzate anche in quelle

zone.

Il kumquat

L’origine dei kumquat (Fortunella ssp.), la

cui denominazione deriva dall’indiano e

significa “arancia nana” o “piccola arancia

d’oro”, è tuttora assolutamente

sconosciuta. La conoscenza di queste piante

in Europa risale alla metà del secolo scorso,

dopo che il botanico inglese Robert Fortune

scoprì tali agrumi nella Cina meridionale,

attualmente ritenuta dalla maggioranza

degli studiosi come la regione di origine dei

kumquat. Attualmente, questi ultimi sono

scarsamente utilizzati come frutta fresca,

almeno in occidente, mentre va

diffondendosi un’utilizzazione di tali piante a

scopo ornamentale. In Oriente essi sono di

solito utilizzati, oltre che a scopo

ornamentale, per l’elaborazione di conserve

e marmellate.

L’arancio trifogliato

L’arancio trifogliato (Poncirus trifoliata) è

un agrume diverso dagli altri perché è

l’unico ad avere la foglia composta da tre

foglioline e non singola, ed è altresì l’unico

agrume spogliante e non sempreverde.

Tale pianta, utilizzata soprattutto per il

valore ornamentale di alcune sue varietà

coltivate, produce piccoli frutti gialli dal

sapore disgustoso. È molto usata come

portainnesto.

La Clementina

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La clementina è un ibrido originatosi tra

un mandarino ed un arancio amaro coltivati

nell’orto di un orfanotrofio di un piccolo

villaggio algerino, vicino Orano. Il suo nome

è legato a quello di fra’ Clement Rodier, il

padre giardiniere che curava l’orto e che

per primo osservò nel 1902 i nuovi frutti.

Le clementine si sono diffuse

abbondantemente in tutta l’area

mediterranea, grazie ai loro frutti che

spesso vengono preferiti al mandarino. Le

ragioni della loro diffusione sono da

ricercarsi principalmente nell’assenza di

semi nei frutti, ma anche nel fatto che,

maturando da ottobre a dicembre, essi

sono disponibili sulle tavole prima degli altri

agrumi.

Il chinotto

Il chinotto (Citrus myrtifolia), come il

bergamotto, non è una specie botanica, ma

una varietà di arancio amaro selezionata in

coltura. Questa selezione è avvenuta

probabilmente in Italia, paese dove la

pianta quasi esclusivamente è coltivata.

Tale agrume era diffuso nella riviera ligure,

dove veniva estratto dai fiori l’olio di neroli,

gradevole essenza usata in profumeria;

oggi, però, in quelle regioni è praticamente

scomparso.

In Campania era presente nei giardini,

apprezzato per le minute foglie di color

verde scuro e per i suoi frutti, dal gusto

sgradevole, ma utilizzati per ottenere

canditi. Anche in Campania questa pianta è

divenuta rarissima, poiché le è stato

preferito il mandarino, simile nella forma

ma dai frutti gradevoli.

Il chinotto deve una certa celebrità al fatto

che il suo frutto era uno dei componenti

della ricetta originaria della bibita che porta

il suo nome.