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David Almond Skellig Bompiani per la scuola - Città : Milano, anno 2010

Almond David, Skellig

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David Almond

Skellig

Bompiani per la scuola - Città : Milano, anno 2010

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Presentazione del libroSkellig è un romanzo davvero speciale, di grande delicatezza e profondità, da

molti considerato un capolavoro della letteratura per ragazzi.E' uno di quei rari libri che tengono avvinta l'attenzione del lettore dall'inizio

alla fine senza per questo essere un romanzo d'azione.Anzi, è fatto di piccoli e grandi eventi che scorrono lenti, ma che coinvolgono

nel profondo perché misteriosi e meravigliosi.Nel romanzo le frequenti , minuziose e mirabili descrizioni di personaggi e

luoghi consentono di tradurre le parole in immagini mentali, di cogliere il magico equilibrio tra fantasia e realismo.

Anche le frequenti riflessioni su temi enormi come la vita e la morte, la normalità e la diversità, la fissità e l'evoluzione della specie umana sono presentate con sensibilità di artista.

Traduzione di Paolo Livorati

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Per Freya Grace

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INDICE1. Tutto è partito da lì2. Il divieto3. Fu allora che lo vidi4. Una notte insonne5. Di nuovo a scuola6. Forse è solo un sogno7. L’incontro con Mina8. Ventisette e cinquantatré9. Un blocchetto e una matita10. Art Rite, l’amico che rovina le ossa11. A cosa servono le scapole?12. Un sorriso tra le lacrime13. Un posto segreto14. A casa con papà15. Mina non va a scuola16. Un’offerta di aiuto17. Nel giardino di Mina18. Alla ricerca di una cura19. Statuine di creta20. Occhi spalancati per lo stupore21. Il patto22. Mi chiamo Skellig23. Romanzo con bollino rosso24. La scoperta delle ali25. Il battito del cuore della bambina26. Non c’è mai fine all’evoluzione27. Niente è più come prima28. La ragazza scimmia29. Litigio con Mina30. Sii mio amico31. I gufi e gli angeli32. Troppi pensieri, troppe preoccupazioni33. A scuola tutto bene, ma...34. Presto Skellig se ne andrà35. L’attesa36. Ci sono cose che non si possono sapere37. Fiducia e speranza38. Skellig non c’è più39. Un solo battito del cuore40. È tutto finito

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41. Uno strano sogno42. Grazie di avermi ridato la vita43. Colpi da maestro44. Tre piccole piume bianche45. La demolizione del garage46. Bentornata a casa

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1. Tutto è partito da lìLo trovai nel garage un sabato pomeriggio, il giorno dopo che ci eravamo

trasferiti in Falconer Road (nota 1). L’inverno stava finendo. Mamma aveva detto che ci saremmo trasferiti in tempo per la primavera. Non c’era nessun altro. Solo io. Gli altri erano in casa col Dottor Morte, in

pensiero per la bambina.Era disteso al buio dietro le casse, nella polvere e nella sporcizia. Era come se fosse lì da sempre. Era lurido, pallido e secco e credevo che fosse

morto. Mi sbagliavo di grosso. Presto avrei cominciato a vedere la verità, che al

mondo non c’era mai stato un altro essere come lui.Lo chiamavamo garage perché l’aveva chiamato così il signor Stone, l’agente

immobiliare. Però sembrava più un cantiere di demolizione o una discarica o uno di quei vecchi magazzini del porto che ogni tanto buttano giù.

Stone ci aveva accompagnato in fondo al giardino, aveva aperto la porta con uno strattone e aveva fatto luce con la sua piccola torcia in quel buio. Noi c’eravamo appena affacciati, insieme a lui.

Nota 1 Falconer Road: nome di una via di Londra.

«Dovete vederlo con gli occhi della mente» aveva detto. «Dovete vederlo ripulito, con porte nuove e il tetto riparato. Immaginatelo

come un magnifico garage doppio.»Mi aveva guardato con un ghigno (nota 2) stupido.«O come qualcosa per te, ragazzo... un rifugio per te e i tuoi amici. Cosa ne

pensi, eh?»Mi ero voltato. Non volevo avere niente a che fare con lui. Per tutto il resto

della casa era stato lo stesso: “Vedetela con gli occhi della mente, immaginate cosa si può fare”.Io invece continuavo a pensare al vecchio, a Ernie Myers, che ci aveva vissuto

da solo per anni. Era morto già da quasi settimana quando l'avevano trovato sotto il tavolo della

cucina. Vedevo quello, quando Stone ci diceva di vedere le cose con gli occhi della

mente. Ce l’aveva detto perfino quando eravamo arrivati in soggiorno e in un angolo

c’era una vecchia tazza del water crepata, dietro un paravento di compensato. Volevo solo che stesse zitto, ma lui sottovoce aveva detto che verso la fine Ernie non riusciva più a fare le scale. Avevano portato giù il letto e montato il water, per farlo stare più comodo.

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Stone mi aveva guardato come se pensasse che forse non avrei dovuto sapere certe cose. Volevo andarmene, tornare alla nostra vecchia casa, ma mamma e papà se l’erano bevuta (nota 3). Avevano continuato a parlarne come se fosse stata una grande avventura. Avevano comprato la casa. Si erano messi a pulirla, strofinarla e ridipingerla. Poi la bambina è arrivata prematura (nota 4). E tutto è partito da lì.

Nota 2 ghigno: riso beffardo.Nota 3 se l'erano bevuta. avevano creduto ingenuamente alle parole del Signor

Stone.Nota 4 è arrivata prematura: è nata prematura, prima del nono mese di

gravidanza.

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2. Il divietoQuella domenica mattina quasi ci entrai, nel garage. Mi ero preso una mia torcia e avevo fatto luce. Le porte verso il vicoletto dovevano essere cadute a pezzi anni prima e

l’entrata era stata inchiodata con decine di tavole spesse. Le travi erano marce e il tetto si era incurvato. I pezzi di pavimento che si vedevano fra tutta la robaccia erano pieni di crepe e

di buchi. La gente che aveva sgombrato la casa avrebbe dovuto svuotare anche il garage,

ma le era bastata un’occhiata e aveva detto che non ci sarebbe entrata neanche se l’avessimo pagata il doppio.

C’erano vecchie cassettiere, bacinelle rotte, sacchi di cemento, porte in disuso appoggiate ai muri, sdraio con la tela marcita.

Grandi rotoli di corda e di cavo erano appesi a chiodi sulle pareti. Mucchi di tubi per l’acqua e grandi scatole di chiodi arrugginiti erano sparsi

per terra. Tutto era coperto di polvere e di ragnatele. L’intonaco si era staccato dalle

pareti. Su un lato c’era una finestrella lurida, con dei rotoli di linoleum (nota 1) crepato davanti.

Nota 1 linoleum: materiale resistente e impermeabile usato per rivestire pavimenti.

Tutto puzzava di marcio e di polvere. Perfino i mattoni si sgretolavano come se non riuscissero più a sopportare il peso. Era come se tutto il garage fosse stufo di sé e volesse crollare per poi farsi portare via con la ruspa.

Sentii qualcosa raschiare in un angolo, poi qualcosa strisciare via, poi ogni rumore cessò e dentro ci fu solo silenzio.

Restai lì, cercando il coraggio per entrare.Stavo per farlo, quando sentii mamma gridarmi qualcosa.«Michael cosa fai?»Era sulla porta del retro.«Non ti avevamo detto di aspettare finché non lo rimettono a posto?»Feci un passo indietro e la guardai.«Allora, te l’abbiamo detto o no?» gridò.«Sì» dissi io.«E allora stai lontano! Va bene?»Diedi uno spintone alla porta e quella si socchiuse, tutta traballante, sull’unico

cardine che le restava.«Va bene?» gridò ancora mamma.«Va bene» risposi io. «Sì, va bene, va bene.»

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«Non pensi che abbiamo gi abbastanza problemi per la testa, senza preoccuparci di Le che per fare lo stupido resti schiacciato nel crollo del garage?»

«sì.»«E allora non entrarci! Va bene?»«Va bene, va bene, va bene.»Poi tornai nella giungla che chiamavamo giardino e lei tornò dentro da quella

bambina del cavolo.

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3. Fu allora che lo vidiIl giardino era un altro posto che sarebbe diventato magnifico. Ci sarebbero state panche, un tavolo e un’altalena. Ci sarebbe stata una porta

da calcio dipinta su uno dei muri vicino alla casa. Ci sarebbe stato uno stagno con dentro pesci e rane. Ma per il momento non

c’era niente di tutto questo. C’erano solo ortiche, cardi (nota 1), erbacce, mattoni mezzi rotti e mucchi di

sassi. Iniziai a calciare via le teste di migliaia di soffioni (nota 2). Dopo un po’ mamma mi gridò se andavo a cena e risposi di no, che stavo in

giardino. Mi portò un panino e una lattina di Coca.«Scusa se è tutto messo male. E se siamo messi male anche come umore»

disse.Mi mise una mano sul braccio. «Però lo capisci, eh, Michael? Eh?»Alzai le spalle. «Sì» dissi.Lei mi toccò di nuovo e fece un sospiro. «Andrà di nuovo bene, quando tutto

sarà a posto.»

Nota 1 cardi: piante erbacee con foglie, fiori e spine.Nota 2 soffioni: piante erbacee caratterizzate da una piccola palla che si

dissolve al minimo soffio.

Mi sedetti su una pila di mattoni contro il muro della casa a mangiare il panino e bere la Coca. Pensai a Random Road, la via da dove venivamo, a tutti i miei vecchi amici, come Leakey e Coot. A quell’ora di sicuro erano al campo grande a giocare una partita che sarebbe durata tutto il giorno.

Poi sentii il campanello suonare e il Dottor Morte che entrava. Lo chiamavo Dottor Morte perché aveva la faccia grigia e macchie nere sulle

mani, e non sapeva sorridere. Un giorno l’avevo visto che si accendeva una sigaretta in macchina, mentre se ne andava da casa nostra. Mi avevano detto di chiamarlo Dottor Dan e lo chiamavo così quando gli dovevo parlare; ma per me, dentro, restava il Dottor Morte e il nome era molto più adatto.

Finii la Coca, aspettai un minuto e poi tornai giù al garage. Non avevo tempo per stare lì a cercare il coraggio di entrare o per ascoltare i

rumori. Accesi la torcia, feci un bel respiro ed entrai in punta di piedi.Qualcosa di piccolo e nero strisciò veloce per terra. La porta cedette scricchiolando per un attimo, prima di fermarsi. Nel raggio

della torcia pioveva polvere. In un angolo, qualcosa raschiava e raschiava. Andai avanti, sempre in punta di

piedi. Sentivo delle ragnatele che mi si spezzavano contro la faccia.

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Vecchi mobili, pezzi di cucine componibili, moquette arrotolata, tubi, cassette e assi, tutto era accatastato alla rinfusa.

Dovevo abbassarmi di continuo sotto i tubi di gomma, le corde e le sacche militari che pendevano dal tetto.

Altre ragnatele mi si spezzarono contro i vestiti e la pelle. Il pavimento era rotto e si sbriciolava. Aprii di un paio di centimetri un armadietto, puntai la torcia e vidi un milione di insettini scappare via.

Sbirciai in una brocca di pietra e ci vidi le ossa di un qualche animaletto che ci era morto dentro. Dappertutto c’erano mosconi (Nota3) blu stecchiti e giornali e riviste che sembravano vecchissimi.

Ne illuminai uno con la torcia e vidi che era li quasi cinquant’anni fa.

Nota 3 mosconi: insetti simili alle mosche, ma di dimensioni maggiori.

Camminavo con molta cautela. Avevo paura che da un momento all’altro crollasse tutto. La polvere mi intasava la gola e il naso. Sapevo che presto i miei avrebbero cominciato a protestare e che era meglio uscire. Mi sporsi da sopra un mucchio di casse e feci luce nello spazio dietro. Fu allora che lo vidi.

Pensai che fosse morto. Stava seduto con le gambe allungate e la testa appoggiata all’indietro, contro il muro. Era pieno di polvere e ragnatele come tutto il resto e aveva la faccia magra e pallida. I capelli e le spalle erano coperti di mosconi morti. Con la torcia illuminai la faccia bianca e il completo nero.

«Cosa vuoi?» disse.Poi aprì gli occhi e mi guardò. La voce gracchiava (nota 4), come se non la

usasse da anni. «Cosa vuoi?»Il cuore mi batteva forte. «Cosa vuoi, ho detto?»Poi sentii che da casa gridavano. «Michael! Michael! Michael !»Scivolai di nuovo verso l’esterno e uscii camminando all’indietro. Era papà.

Mi veniva incontro lungo il sentiero. «Non ti avevamo detto,..» cominciò.«Sì» risposi io. «Sì, sì.»Feci per togliermi la polvere di dosso. Un ragno mi scese dal mento, attaccato

a un lungo filo.Papi mi mise un braccio sulle spalle. «È per il tuo bene» disse, Mi tolse un

moscone morto dai capelli, poi diede una manata su un lato del garage, che tremò tutto.

«Vedi?» disse. «Pensa a cosa potrebbe succedere.»Gli presi il braccio per non fargli dare un’altra manata. «Basta» gli dissi. «Va

bene. Ho capito.»Lui mi strinse la spalla e mi promise che presto tutto si sarebbe messo a posto.

Rise.«Togliti ‘sta polvere di dosso prima che tua madre la veda, eh?»

nota 4 gracchiava: era rauca e stridente.

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4. Una notte insonneQuella notte praticamente non dormii. Ogni volta che mi assopivo lo vedevo

uscire dalla porta del garage e attraversare la giungla per venire verso la casa. Lo vedevo in camera mia. Lo vedevo avvicinarsi alletto. Restava lì, impolverato e bianco, tutto coperto di mosconi morti.

«Cosa vuoi?» sussurrava. «Cosa vuoi, ho detto?»Mi dissi che ero stupido. Non l’avevo visto neanche prima. Anche quello era

stato un sogno. Rimasi disteso al buio. Sentivo papà russare e se ascoltavo con attenzione riuscivo a sentire la bambina respirare. Aveva un respiro spezzato e sibilante (nota 1). In piena notte, mentre era buio pesto, mi addormentai di nuovo, ma lei cominciò a piangere forte. Mamma si alzò per darle da mangiare e sentii la sua voce che la coccolava e la calmava. Poi ci fu di nuovo solo silenzio, con papà che russava. Mi sforzai di sentire di nuovo la bambina, ma non ci riuscii,

Si stava già facendo chiaro quando mi alzai e andai piano in camera loro. La culla era vicino al letto. Loro due dormivano sodo, abbracciai. Guardai la bambina.

nota 1 sibilante: simile a un fischio sottile e acuto.

Infilai una mano sotto le coperte e la toccai. Sentivo il cuore che le batteva torte, il rumore sottile del suo respiro e il petto che si alzava e si abbassava. Sentivo quant’era caldo sotto le coperte, quant’erano morbide le sue ossa, quant’era piccola lei. Sul collo aveva una bavetta di saliva e latte. Mi chiesi se sarebbe morta. All’ospedale temevano proprio questo. Prima che la lasciassero tornare a casa era stata in una scatola di vetro, con tubi e fili attaccati (nota 2).

Noi la guardavamo, lì dentro, come se fosse stata in un acquario.Tirai via la mano e le rimboccai di nuovo le coperte. Il visino era pallidissimo

e i capelli nerissimi. Mi avevano detto che dovevo pregare per lei, ma non sapevo come pregare.

«Diventa forte in fretta, se puoi» le sussurrai.Mamma si svegliò e mi vide.«Cosa c’è, amore?»Dal letto, allungò una mano verso di me.«Niente» dissi piano e tornai in camera mia in punta di piedi.Dalla finestra guardai verso la giungla. C’era un merlo che cantava sul tetto del

garage. Ripensai a lui, disteso dietro le casse, con le ragnatele nei capelli. Cosa ci faceva lì?

nota 2 scatola di vetro, con tubi e fili attaccati: si tratta dell’incubatrice, speciale culla munita di apparecchiature che assicurano al neonato prematuro nato

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prima) o al neonato immaturo (nato piccolo e debole) condizioni ambientali molto simili a quelle del grembo materno.

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5. Di nuovo a scuolaA colazione chiesi ai miei cosa ne sarebbe stato del garage.«Quando vengono a sistemano? »Mamma fece schioccare la lingua, sospirò e alzò gli occhi verso il soffitto.«Quando troveremo qualcuno che venga» rispose papà. «Non è importante,

Michael. Non adesso.»«Okay» dissi io.Papà si era preso un giorno libero per poter andare avanti con i lavori in casa.

Mamma doveva portare la bambina a fare altri controlli in ospedale.«Posso stare anch’io a casa per aiutare?» chiesi.«Sì» disse papà. «Puoi smontare la tazza del water di Ernie e poi strofinare con

la spazzola le assi intorno.»«Penso che andrò a scuola.» Così cacciai nello zaino il contenitore del mio

pranzo e uscii.Prima di trasferirci mi avevano chiesto se volevo anche cambiare scuola, ma

avevo detto di no. Ero voluto rimanere alle secondarie di Kenny Street, con Leakey e Coot. Non mi importava se dovevo attraversare la città in autobus.

Quel mattino mi dissi che l’autobus mi avrebbe dato tempo per pensare a quello che era successo. Provai, ma non ci riuscii. Guardai la gente che saliva e scendeva. Li guardai leggere il giornale, mangiarsi le unghie o fissare sognanti fuori dai finestrini. Pensai a come non si poteva dire, solo guardandoli, cosa avessero per la testa o cosa stesse succedendo nelle loro vite. Anche quando salivano persone mezze rimbambite o ubriache, persone che continuavano a fare gesti stupidi, a gridare cose senza senso o a volerti raccontare tutto di loro, non riuscivi lo stesso a capirlo veramente.

Avrei voluto alzarmi e gridare: «C’è un tipo nel nostro garage e la mia sorellina sta male e questo il primo giorno che vado dalla casa nuova alla mia vecchia scuola».

Però non lo feci. Continuai solo a osservare le facce di tutti e a dondolare quando l’autobus svoltava. Sapevo che se mi avessero guardato, neanche loro avrebbero capito niente di me.

Fu strano essere di nuovo a scuola. A me erano successe tante cose, ma la scuola era sempre la stessa. Rasputin ci chiese come al solito di levare in alto i cuori e le voci e di cantare forte. Lo Yeti ci gridò di tenere la sinistra quando camminavamo nei corridoi. Orango (nota 1) Mitford diventò tutto rosso e pestò i piedi quando sbagliammo le frazioni. Alla signorina Clarts vennero le lacrime agli occhi quando ci raccontò la storia di Icaro (nota 2), di come le ali gli si erano fuse quando aveva volato troppo vicino al sole e di come era piombato in mare sotto gli occhi del padre Dedalo. A pranzo.

Leakey e Coot discussero per un’ora per stabilire se un tiro aveva passato o no la linea di porta.

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nota 1 Rasputin ... Yeti... Orango: soprannomi attribuiti agli insegnanti.nota 2 Icaro: nella mitologia greca, figlio di Dedalo e di Naucrate, schiava di

Minosse, re di Creta. Secondo una versione del mito, Icaro fuggì con il padre da Creta, volando con ali applicate al proprio corpo con la cera, ma, avendo voluto avvicinarsi troppo al sole, scioltasi la cera, precipitò nel mare che da lì prese il nome di Icaro.

A me non poteva fregare di meno. Andai alla rete ai limiti del campo e guardai la città, verso la zona dove mi ero trasferito. Mentre stavo lì, arrivò la signora Dando, una delle ausiliarie (nota 3). Conosceva i miei da anni.

«Tutto a posto, Michael?» chiese.«Sì, bene.» «E la bambina?» «Bene anche lei.» «Niente calcio oggi?» Feci no

con la testa.«Di’ ai tuoi che li saluto, mi raccomando.»Poi tirò fuori dalla tasca una caramella gommosa alla frutta e me la offrì. Una

gommosa alla frutta. Una di quelle che dava ai ragazzini appena arrivati quando erano tristi.

«Solo per te» disse, e mi fece l’occhiolino. «No» le risposi. «No, grazie.»Corsi via e feci una scivolata perfetta su Coot. Per tutto il giorno mi chiesi se

dovessi dire a qualcuno quello che avevo visto, ma non ne parlai con nessuno. Mi dissi che era stato solo un sogno. Per forza.

Nota 3 ausiliarie: persone impiegate nella scuola in servizi assistenziali.

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6. Forse è solo un sognoA casa, al posto del water di Ernie, c’era un buco. Era stato riempito di

cemento fresco. Il paravento di compensato era sparito. La vecchia stufa a gas era stata portata via e nel caminetto era rimasto solo uno spazio nero e quadrato. Il pavimento era fradicio e puzzava di disinfettante. Papà era sporco e sudato, e rideva. Mi portò nella giungla. La tazza del water era in mezzo ai cardi e alle erbacce.

«Ho pensato che poteva essere una buona sedia da giardino» disse. La stufa a gas e il compensato erano vicini all’entrata del garage, ma non erano stati portati dentro.

Lui mi fece l’occhiolino. «Vieni a vedere cos’ho trovato.» Mi guidò fino alla porta. «Tappati il naso» disse. Si chinò e cominciò a scartare un pacchetto di carta di giornale. «Pronto?»

Erano uccelli. Quattro. «Li ho trovati dietro la stufa. Probabilmente sono rimasti incastrati nel camino e non ce l’hanno più fatta a uscire.»

Si vedeva che tre erano piccioni dalle piume bianche e grigie. li quarto aveva la stessa forma, ma era tutto nero. «Questo l’ho trovato per ultimo» disse papà. «Era sotto un mucchio di polvere e di fuliggine cadute dal camino.»

«Era anche lui un piccione?»«Sì. Solo che è rimasto lì un bel po’ di tempo.»Mi prese una mano. «Toccalo. Su, non succede niente.» Lasciai che premesse

le mie dita contro il piccione.Sembrava di pietra. Perfino le piume parevano di pietra. «È rimasto lì così

tanto che è quasi diventato un fossile» disse papà.«E duro come una pietra.»«Come una pietra, davvero.»Andai a lavarmi le mani in cucina.«È andata bene, oggi?» mi chiese.«Sì. Leakey e Coot hanno detto che magari domenica vengono fin qui.»«Perfetto. È andato tutto bene in autobus, allora?»Io annuii (nota 1) «Forse la prossima settimana riesco a portarti in macchina. Quando ci siamo

sistemati un po’.»«Non c’è problema. La signora Dando ha chiesto della bambina.»«Le hai detto che sta bene?»«Sì. »«Bravo. Prenditi una Coca e un panino o quello che vuoi. Quando arrivano la

mamma e la bambina preparo la cena.»Poi salì a farsi un bagno. Guardai la giungla. Aspettai un’eternità, ascoltando

l’acqua che scorreva rumorosa- mente lungo i tubi mentre papà faceva il bagno.

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Presi la torcia dallo scaffale della cucina. Mi tremavano le mani. Uscii e passai oltre la tazza del water, la vecchia stufa e i piccioni morti. Arrivai alla porta del garage e accesi la torcia. Feci di nuovo un bel respiro ed entrai. Vidi le ragnatele e la polvere e pensai che sarebbe crollato tutto. Sentii cose che strisciavano via e raspavano. Superai piano la robaccia e i mobili vecchi con il cuore che mi batteva forte. Mi dissi che ero stupido. Mi dissi che avevo sognato. Mi dissi che non l’avrei più visto. Sbagliavo.

nota 1 annuii: feci cenno di sì con la testa,

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7. L’incontro con MinaMi sporsi da sopra il mucchio di casse, feci luce con la torcia e lui era lì. Non

si era mosso. Aprì gli occhi e li richiuse.«Di nuovo tu» disse con la sua voce gracchiante e acuta.«Cosa ci fai lì?» sussurrai io.Lui sospirò, come se fosse stufo marcio di tutto. «Niente» gracchiò. «Niente,

niente e niente.»Guardai un ragno che gli si stava arrampicando sulla faccia. Lo prese fra due

dita e se lo infilò in bocca. «Verranno a sgombrare» dissi. «E qui potrebbe crollare tutto.»Lui sospirò un’altra volta.«Hai un’aspirina?»«Un’aspirina? »«Ah, lascia stare.»Aveva la faccia bianca come il gesso. Il completo nero gli cadeva come un

sacco sulle ossa sottili.Il cuore mi batteva come un tamburo. La polvere mi intasava le narici e la

gola. Mi morsi le labbra e lo guardai. «Non sei Ernie Myers, eh?»«Quel vecchio cretino? Quello che sputava dappertutto e tossiva così forte che

sembrava gli uscissero le budella?»«Scusa» mormorai. «Cosa vuoi?» chiese. «Niente.»«Hai un’aspirina?» «No.»«Grazie tante.»«Cosa farai?» gli domandai. «Verranno a sgombrare il garage. Crollerà.

Cosa...»«Niente. Vai via.»Cercai di sentire se da fuori venivano rumori, se mi stavano chiamando.«Potresti venire in casa» dissi. Lui rise, ma senza sorridere. «Vai via» sussurrò.Prese un moscone dal davanti della giacca e si infilò in bocca anche quello.«Ti porto qualcosa?»«Un’aspirina» gracchiò lui.«Vuoi qualcosa da mangiare?»«Ventisette e cinquantatré.»«Cosa?»«Niente. Vai via. Vai via.»Camminai all’indietro finché non fui fuori, nella luce. Mi spazzolai via con la

mano la polvere, i mosconi e le ragnatele.Alzai gli occhi e vidi papà attraverso il vetro smerigliato della finestra del

bagno. Sentii che stava cantando una canzone di Doris Day (nota 1), The Black Hills of Dakota.

«Sei tu quello nuovo?» disse qualcuno.

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Mi voltai. Dalla cima del muro che dava sui vicoletto era sbucata la testa di una ragazzina.

nota 1 Doris Day: attrice e cantante statunitense. particolarmente famosa negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento.

«Sei tu quello nuovo?» ripeté. «Sì. »«Mi chiamo Mina.» La fissai.«Be’?» fece. «Cosa?»Lei sembrò spazientita, scosse la testa e con una cantilena annoiata disse: «Mi

chiamo Mina. E tu sei?».«Michael.»«Bene.»Poi saltò di nuovo giù e la sentii atterrare nel vicoletto. «Piacere di conoscerti,

Michael» disse dall’altra parte del muro, poi corse via.

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8. Ventisette e cinquantatréQuando scese, dopo aver fatto il bagno, papà cominciò a lamentarsi che

mancavano pane e uova e alla fine propose:«So io cosa fare. Ordiniamo una cena da asporto, eh?». Fu come se una

lampadina mi si fosse accesa in testa. In mano aveva il menu del cinese all’angolo.

«Lo andiamo a prendere per quando torna tua madre» disse. «Cosa ti piace?»«Ventisette e cinquantatré.»«Bravissimo! Hai ordinato senza neanche guardare. Con cosa ci stupirai la

prossima volta?»Scrisse tutte le nostre ordinazioni.«Chow mein (nota 1) speciale per mamma, involtini primavera e maiale in

agrodolce per te, manzo con i funghi per me, alghe fritte e nuvole di drago per la bambina. E se non le mangia lei, le mangiamo noi, così impara, eh? Le toccherà di nuovo il solito latte di mamma.»

Telefonò al cinese, mi diede i soldi e feci una corsa fino al negozio per ritirare l’ordine.

nota 1 Chow mein: piatto cinese di spaghettini fritti con gamberetti, carne di manzo o carne di maiale e verdure.

Nel tempo che ci misi a tornare, erano rientrate anche mamma e la bambina. La mamma cercò di dedicarmi molta attenzione e continuò a chiedermi del tragitto in autobus e della scuola. Poi la bambina le vomitò sulla spalla, così dovette andare a pulirsi.

Papà spazzolò via in un attimo manzo, funghi, alghe e nuvole. Disse che si sentiva tutto intasato dalla polvere di Ernie e allora stappò una birra e bevette dalla bottiglia. Quando vide che avevo lasciato metà del mio piatto, si sporse verso di me con una forchetta.

Coprii il piatto coi braccio.«Diventi grasso» gli dissi.Mamma rise. «O più grasso.»«Sto morendo di fame» disse lui. «Oggi ho lavorato come uno schiavo per

voialtri.»Allungò una mano per fare il solletico sotto il mento alla bambina e poi la

baciò.«E soprattutto per te, pulcina.»Io continuai a proteggere il cibo col braccio.«Ciccione» dissi.Lui si alzò la maglietta e si pizzicò la pancia.«Visto?» disse mamma.

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Lui ci guardò, poi mise il dito nella salsa che c’era sul bordo del mio piatto.«Fantastica» commentò. «Però adesso basta. Ne ho avuto più che a sufficienza,

grazie.»Andò verso il frigo e si prese un’altra birra e un grosso pezzo di formaggio.Versai gli avanzi del ventisette e del cinquantatré nelle vaschette da asporto e

le misi nei bidone fuori.

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9. Un blocchetto e una matitaQuella sera vidi di nuovo Mina. Ero con papà nel piccolo giardino sul davanti.

Ce ne stavamo lì in mezzo ai cardi e ai soffioni e lui come al solito mi stava spiegando come sarebbe diventato tutto bellissimo, fiori qui e un albero là e una panca sotto la finestra della sala. Vidi Mina più in giù lungo la via. Si era arrampicata su un albero, in un altro giardino che dava sul davanti, sullo stesso nostro lato. Era seduta su un ramo spesso, con in mano un blocchetto e una matita. Continuava a mettersi la matita in bocca e a guardare verso la cima dell’albero.

«Chi sarà quella?» «Si chiama Mina.» «Ah.»Doveva essersi accorta che la guardavamo, ma non simosse.Papà entrò a controllare il cemento in soggiorno. Uscii dal cancelletto, scesi

lungo la via e guardai Mina sull’albero.«Cosa ci fai là sopra?» chiesi.Lei fece schioccare la lingua.«Che scemo» disse. «L’hai spaventato. Tipico.»«Spaventato cosa?»«Il merlo.»Si infilò il blocchetto e la matita fra i denti, poi scavalcò il ramo e saltò nel

giardino. Rimase ferma a guardarmi. Era piccola e aveva i capelli neri come il carbone, e il tipo di occhi che sembravano poterti trapassare.

«Non fa niente» disse. «Tornerà.»Indicò il tetto. Il merlo era lassù che muoveva la coda e gracchiava.«E il suo grido di allarme» spiegò lei. «Sta dicendo alla famiglia che c’è un

pericolo vicino. Un pericolo. Cioè te.»Indicò l’albero.«Se ti arrampichi dov’ero io e guardi lungo quel ramo, vedi il nido. Ci sono tre

piccoli. Ma non azzardarti ad andare più vicino.»Si sedette sul muretto del giardino, di fronte a me. «Io abito qui» disse. «Al

numero sette. Tu hai una sorellina.»«Come si chiama?»«Non abbiamo ancora deciso.»Fece schioccare la lingua e alzò gli occhi al cielo. Poi aprì Il blocchetto.«Guarda qui» disse.Era pieno di uccelli. Disegnati a matita, tanti colorati di blu, verde e rosso.«Questo è il merlo» disse. «Sono comuni, ma sono bellissimi lo stesso. Un

passero. Queste sono cince (nota 1). E fringuelli. E guarda, questo è il cardellino che è passato a trovarci giovedì scorso.»

Mi fece vedere il cardellino, con tutti i suoi verdi, i rossi e i gialli accesi. «TI mio preferito» disse.

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Chiuse il blocchetto facendo rumore.

nota 1 cince: piccoli uccelli con testa nera alla sommità, guance bianche, becco cortissimo e una specie di bavaglino nero sotto la gola.

«Ti piacciono gli uccelli?» mi chiese, e poi mi guardò come se avessi fatto qualcosa per farla arrabbiare.

«Non lo so» risposi.«Tipico. Ti piace disegnare?»«A volte.»«Disegnare ti fa guardare il mondo con più attenzione. Ti aiuta a vedere più

chiaramente quello che stai guardando. Lo sapevi?»Non dissi niente.«Di che colore sono i merli?»«Eh... color merlo.»«Tipico!»Volteggiò sul muretto e rientrò nel giardino. «Torno dentro» disse. «Spero di

rivederti presto. Vorrei anche vedere la tua sorellina, se si può.»

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10. Art Rite, l’amico che rovina le ossaQuella notte cercai di stare sveglio, ma non ci fu verso. Iniziai a sognare

subito. Sognai che la bambina era nel nido del merlo nel giardino di Mina. li merlo le dava da mangiare mosche e ragni e lei diventava sempre più forte e alla fine volava via dall’albero e sopra i tetti per poi posarsi sul garage. Mina era seduta sul muretto e stava disegnando. Quando mi sono avvicinato, mi ha sussurrato:

«Stai lontano. Sei tu il pericolo!».Poi la bambina si mise a piangere nella stanza accanto e mi svegliai.Restai disteso ad ascoltare mamma che la coccolava e la calmava, mentre la

bambina strillava e respirava con difficoltà. Fuori gli uccelli cantavano. Quando la poppata finì e fui sicuro che tutti dormissero, scesi piano dal letto, presi la torcia, mi misi qualcosa addosso e passai in silenzio davanti alla loro camera. Mi misi in tasca un flacone di aspirina preso dal bagno. Scesi, aprii la porta sul retro e in punta di piedi mi incamminai nella giungla.

Le vaschette della cena da asporto erano finite sotto una pila di giornali e di erbacce. Si erano inclinate e un bel po’ di salsa si era rovesciata. Quando ci guardai dentro, il maiale in agrodolce era tutto colloso, rosso e freddo. Buttai gli involtini nella stessa vaschetta e andai verso il garage.

«Devi essere scemo» mi dissi. «Stai proprio dando i numeri.»Guardai il merlo sul tetto del garage e vidi che per cantare apriva tantissimo il

suo becco giallo. Vidi anche i riflessi dorati e blu nel punto in cui il primo sole splendeva sul nero delle sue piume.

Accesi la torcia, presi fiato ed entrai.Subito ricominciò il rumore di qualcosa che striscia via raspando. Qualcosa mi

passò sul piede e quasi lasciai cadere il cibo. Arrivai alle casse e feci luce nello spazio dietro a esse.

«Di nuovo tu?» disse lui con voce gracchiante. «Pensavo te ne fossi andato.»«Ti ho portato una cosa.»Lui aprì gli occhi e mi guardò.«Aspirina» dissi. «E il ventisette e il cinquantatré. Involtini primavera e maiale

in agrodolce.»Lui rise, ma senza sorridere.«Non sei stupido come sembri» commentò.Gli allungai la vaschetta oltre le casse. Lui la prese con una mano, ma poi

cominciò a tremare e dovetti riprenderla io.«Non ho forza» disse con la sua voce gracchiante. Mi infilai tra le casse. Mi

accovacciai vicino a lui. Gli tenni la vaschetta e con la torcia illuminai il cibo. Lui ci mise un dito, poi io leccò e fece un verso. Ce lo rimise e sollevò un lungo filo viscido di germogli di soia e salsa. Tirò fuori la lingua e leccò. Succhiò via

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qualche pezzo di maiale e di funghi. Si cacciò gli involtini in bocca. La salsa rossa gli gocciolò giù dalle labbra, lungo il mento e sulla giacca nera.

«Aah» fece. «Uuh.»Sembrava che gli piacesse o che stesse male o tutte e due le cose insieme. Gli

avvicinai la vaschetta al mento. Lui inzuppava, leccava e mugolava (nota 1).Aveva le dita storte e tozze. Le nocche (nota 2) erano gonfie.«Mettici dentro l’aspirina» disse.Ne misi due nella salsa e lui le prese e le buttò giù. Ruttò diverse volte. La

mano gli scivolò di nuovo lungo il fianco. Riappoggiò la testa al muro.«Il cibo degli dèi» sussurrò. «Ventisette e cinquantatré.» Appoggiai la

vaschetta per terra accanto a lui e gli puntai addosso la torcia. Aveva centinaia di rughe e crepe piccolissime su tutta la faccia. Qualche pelo fine e incolore gli cresceva sul mento. La salsa rossa che gli era scivolata sotto le labbra sembrava sangue coagulato. Quando riaprì gli occhi vidi le venuzze rosse, come una rete scura, su tutto il bianco degli occhi. C’era odore di polvere, di vestiti vecchi, di sudore asciugato.

«Hai guardato bene?» disse.«Da dove vieni?»«Da nessuna parte.»«Porteranno via tutto. Cosa farai?»«Niente.»«Sul serio. Cosa fa...»«Niente. niente e niente» Chiuse di nuovo gli occhi.«Lascia le aspirine» disse.Tolsi il tappo e misi il flacone per terra. Dovetti spostare un mucchietto di

palme dure tutte impolverate. Ne guardai una con la torcia e vidi che era fatta di ossicini tenuti incollati da peli e pelle.

«Cos’hai da guardare, eh?» domandò lui. La rimisi per terra.«Niente.»Il merlo sul tetto cantava sempre più forte.

nota 1 mugolava: emetteva suoni lunghi e lamentosi.nota 2 nocche: sporgenze delle dita sia delle mani sia dei piedi che

corrispondono alle articolazioni.

«C’è un dottore che viene a visitare mia sorella» dissi. «Posso farlo venire anche qui da te.»

«Niente dottori. Nessuno.» «Chi sei?»«Nessuno.»«Posso fare qualcosa?»«Niente.»«La mia sorellina è molto malata.»«Aah Bambini !»«Puoi fare qualcosa per lei?»

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«Aah! Bambini Bava, sporcizia, vomito e lacrime.» Sospirai. Era inutile.«Mi chiamo Michael. Adesso vado. Posso portarti qualcos’altro?»«Niente. Ventisette e cinquantatré.»Ruttò di nuovo. Gli puzzava l’alito. Non solo per il cine e, ma anche per le

altre cose morte che aveva mangiato, i mosconi, i ragni. Fece un rumore con la gola come se stesse soffocando e poi si staccò dal muro, inclinandosi in avanti. Gli misi la mano sotto la spalla per reggerlo. Sentii qualcosa, qualcosa che era tenuto stretto dalla giacca. Allungai la mano sulla schiena e sentii qualcosa anche sotto l’altra spalla. Come braccine piegate, elastiche e flessibili.

Si appoggiò al muro e io tolsi la mano.«Chi sei?»Il merlo continuava a cantare.«Non Io dico a nessuno.»Lui alzò una mano e se la guardò alla luce della torcia.«Sono quasi nessuno» disse. «La maggior parte di me è An.»Rise, ma senza sorridere.«Art Rite (nota 3) » gracchiò. «L’amico che mi sta rovinando le ossa. Ti fa

diventare di pietra e poi ti sbriciola.»Gli toccai le nocche gonfie.

nota 3 Art Rite: infiammazione delle articolazioni

«Cos’hai sulla schiena?»«Una giacca, uno strato di me e poi tanto Art.» Cercai di tocca rio di nuovo

sotto la spalla.«Non funziona» disse cori la sua voce stridula. «Lì dietro non c’è più niente

che funziona.»«Ora vado» dissi io. «Cercherò di non far sgombrare il garage. Ti porterò altro.

E non porterò il Dottor Morte.»Lui si leccò la salsa secca da sotto le labbra.«Ventisette e cinquantatré» ripeté. «Ventisette e cmquantatré .»Me ne andai, tornai verso la porta camminando all’indietro e uscii. Il merlo

volò via, sui giardini, gracchiando. Tornai a casa in punta di piedi. Restai per un minuto vicino alla culla della bambina. Misi la mano sotto le coperte, sentii il suo respiro rumoroso e quanto era morbida e calda. Sentii quanto erano tenere le sue ossa.

Mamma mi guardò, ma sembrava ancora addormentata.«Ciao» sussurrò.Tornai a letto in punta di piedi.Quando mi addormentai, sognai che il mio letto era fatto di rametti, di foglie e

di piume, come un nido.

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11. A cosa servono le scapole?La mattina successiva, papà disse che non riusciva a muoversi. Era piegato in

modo strano. Diceva che la schiena lo stava ammazzando, che era rigido come un’asse.

«Dove sono ‘ste aspirine?» gridò da sopra le scale.Mamma rise. «Tutto questo moto gli farà bene» disse. «Gli farà perdere un po’

di grasso.»Lui gridò di nuovo: «Allora, dove sono ‘ste cavolo di aspirine?».Diedi un bacio alla bambina e corsi fuori a prendere l’autobus per andare a

scuola. Quella mattina avevamo scienze con Rasputin. Ci fece vedere un poster dei nostri antenati, della continua evoluzione che aveva portato a noi. C’erano le scimmie, in mezzo la lunga fila di esseri simili a scimmie, e alla fine noi. Si vedeva come avevamo iniziato a camminare eretti, come avevamo perso quasi tutto il pelo, come avevamo iniziato a usare utensili, come le teste avevano cambiato forma per contenere cervelli più grandi. Sottovoce, Coot mi disse che era tutto un mucchio di cretinate. Suo padre gli aveva detto che non c’era verso che le scimmie avessero potuto trasformarsi in uomini.

Bastava guardarlo. Era ovvio.Chiesi a Rasputin se avremmo continuato a cambiare forma e lui disse: «Chi lo

sa, Michael? Forse l’evoluzione continuerà per sempre. Forse continueremo a cambiare per sempre».

«Balle» sussurrò Coot.Disegnammo lo scheletro di un gorilla e quello di un uomo. Mi ricordai di

quello che aveva detto Mina e guardai il poster molto attentamente. Alzai la mano e chiesi:

«Professore, a cosa servono le scapole?».La faccia di Rasputin si contorse. Portò una mano alla schiena, si toccò le

scapole e sorrise.«Conosco la storiella che raccontano sempre le mamme (nota 1)» rispose, «ma

per essere sinceri non ne ho idea.»Più tardi, Coot incassò la testa fra le spalle, sporse il mento in fuori e cominciò

a camminare dondolando per il corridoio, a grugnire e inseguire le ragazze.Lucy Carr si mise a urlare. «Piantala, maiale!» disse.Coot rise. «Maiale? Non sono un maiale, sono un gorilla.»E continuò a inseguirla.In cortile, giocando a calcio, mi resi conto di quant’ero stanco per essere

rimasto sveglio la notte. Leakey continuava a chiedermi cos’avevo. Giocavo da schifo. A un certo punto, mentre stavo da solo a bordo campo, arrivò di nuovo la signora Dando.

«Cosa c’è?» domandò.«Niente,»

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«E come sta la piccola?»«Bene.»Guardai per terra. «A volte mi sembra che smetta di respirare» dissi. «Poi la

guardo ed è tutto a posto.»

Nota 1 la storiella che raccontano sempre le mamme: si tratta della storiella secondo la quale le scapole sono il punto in cui avevamo le ali quando eravamo angeli, e sono il punto in cui ci ricresceranno, un giorno.

«Guarirà, vedrai» disse lei. «Spesso, quando arrivano nel mondo, i bambini portano con sé delle preoccupazioni, ma prima che te ne accorga starai già facendo la lotta con lei.»

Mi toccò una spalla per un attimo. Mi chiesi se dirle o no dell’uomo nel garage. Poi vidi che Leakey ci stava guardando e allora mi scrollai la mano di dosso e tornai di corsa in campo gridando «Crossa! (nota 2) Crossa alto!».

Fu un pomeriggio sonnolento. Un po’ di matematica facile, poi la signorina Clarts ci lesse un’altra storia, quella di Ulisse e dei suoi uomini intrappolati in una grotta con Polifemo, il mostro con un occhio solo. Quando arrivò al punto in cui scappavano legandosi al ventre delle pecore, mi ero quasi addormentato. Portai a casa il mio disegno degli scheletri. Sull’autobus continuavo a guardarlo. Vicino a me s’era seduto un vecchio con un Jack Russell (nota 3) sulle ginocchia. Puzzava di tabacco da pipa.

«Cos’è?» mi chiese.«E un disegno di come eravamo tanto tempo fa.»«Eh, mica me lo ricordo. E pensare che sono molto vecchio.»Poi cominciò a raccontare che da giovane aveva visto una scimmia al circo.

L’avevano addestrata a preparare il tè, ma non somigliava proprio per niente a una persona. Magari non era stata ancora addestrata bene.

Si vedeva che il vecchio non ci stava tutto con la testa.«Nel nostro garage c’è un uomo» dissi, quando rimase zitto un attimo.«Ah, sì?» fece lui. Il Jack Russell abbaiò. Lui gli mise una mano intorno al

muso. Sembrava molto concentrato.«Sì» riprese. «E sul trapezio c’era una ragazza bellissima. Avresti giurato che

sapesse quasi volare.»

nota 2 Crossa!: Fai un cross! Nel gioco del calcio il cross, (letto anche traversone, è un tiro effettuato dalla zona laterale del campo verso il centro dell’area di rigore.

nota 3 Jack Russell: nome di una razza di cani dalle piccole dimensioni e cori il pelo corto di colore bianco con macchie nere o marroni.

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12. Un sorriso tra le lacrimeQuando arrivai a casa c’era il Dottor Morte. Era in cucina con mamma e papà.

Aveva la bambina sulle ginocchia e le stava riabbottonando la camicina. Mi fece l’occhiolino quando entrai. Papà mi diede un pugno per scherzo nelle costole. Vidi quant’era triste la faccia di mamma.

«È questo schifo di posto!» sbottò quando il Dottor Morte se ne fu andato. «Come fa a crescere bene con tutto ‘sto sporco e ‘sto disordine?»

Indicò fuori dalla finestra.«Vedi?» disse. «Una tazza del water, un garage che crolla, una giungla!»Si mise a piangere. Disse che non avremmo mai dovuto andarcene da Random

Road. Non avremmo mai dovuto venire in questo posto puzzolente e abbandonato da tutti. Andava su e giù per la cucina con la bambina in braccio.

«La mia piccolina» mormorava. «La mia povera piccolina.»«Deve tornare all’ospedale» sussurrò papà. «Solo per un po’. Così i dottori

possono tenerla d’occhio. Tutto qui. Non le succederà niente.»Poi guardò fuori dalla finestra, verso la giungla.

«Lavorerò di più» disse. «Quando torna le farò trovare la casa pronta.»«Ti aiuto io» dissi, ma forse non mi sentì.Mangiammo pane e formaggio con del tè. La bambina era vicino a noi, in una

piccola culla portatile. Poi mamma andò di sopra a preparare le cose che sarebbero servite alla bambina in ospedale. Io misi sul tavolo il disegno degli scheletri e lo guardai, ma non riuscii a concentrarmi.

«Bello» commentò papà, ma neanche lui lo stava guardando con attenzione. Andai su e mi sedetti nel corridoio. Guardai mamma gettare camicine, pannolini e cardigan (nota 1) in una valigetta. Continuava a far schioccare la lingua e sbuffare, come se fosse arrabbiata con tutto. Mi vide e cercò di sorridere, ma poi ricominciò a sbuffare.

Quando finì disse: «Stai tranquillo. Non staremo via tanto».Si sporse verso di me e mi mise una mano sulla testa. «A cosa servono le

scapole?» chiesi.«Oh, Michael !»Se ne andò spingendomi da parte, come se le avessi dato veramente sui nervi.

Poi, però, quando fu a metà delle scale, si fermò e tornò indietro. Mi toccò con le dita sotto le scapole.

«Dicono che le scapole sono il punto dove avevamo le ali, quando eravamo angeli. Dicono che sono il punto in cui ci ricresceranno, un giorno.»

«E solo una storia, però. Una favoletta per bambini, no?»«Chi lo sa? Forse una volta avevamo tutti le ali e forse un giorno le avremo

tutti di nuovo.»«Secondo te, la bambina aveva le ali?»

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«Ah, sono sicura di sì. Basta guardarla. A volte penso che non se ne sia mai andata del tutto dal paradiso e non sia mai arrivata del tutto qui sulla terra.»

Sorrise, ma aveva le lacrime agli occhi.

nota 1 cardigan: giacche di maglia, lunghe e scollate a V.

«Forse è per questo che fa tanta fatica a restare qui» aggiunse.La guardai e mi chiesi cos’avrebbe detto se le avessi raccontato dell’uomo nel

garage in quel momento. Non le dissi niente.Prima che uscisse, tenni un po’ in braccio la bambina. Le toccai la pelle e le

ossicine morbide. Cercai il punto in cui aveva avuto le ali. Poi la portammo all’ospedale in macchina. Andammo in pediatria (nota 2) e lasciammo lì lei e mamma, Papà e io tornammo a Falconer Road. Ci sedemmo nella grande casa vuota e restammo lì a guardarci. Poi lui tornò a dipingere le pareti del soggiorno.

Io disegnai uno scheletro con le ali che uscivano dalle scapole.Guardai fuori dalla finestra e vidi Mina seduta in cima al muro nero.

nota 2 pediatria: reparto dell’ospedale dove si curano le malattie infantili

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13. Un posto segreto«Tu sei infelice» disse Mina. Io la guardai dal basso.«La bambina è di nuovo all’ospedale» dissi.Lei sospirò. Guardò un uccello che stava volteggiando in cielo, molto in alto.«Forse morirà» dissi. Lei sospirò di nuovo.«Ti va se ti porto in un posto?» mi dice.«Quale posto?»«Un posto segreto che non conosce nessuno.»Mi voltai a guardare la casa e vidi papà attraverso la finestra del soggiorno.

Guardai Mina e i suoi occhi mi passarono da parte a parte.«Cinque minuti» disse. «Non si accorgerà neanche che non ci sei.»Incrociai le dita (nota 1). «Vieni» sussurrò.Aprii il cancello e scivolai nel vicoletto.

nota 1 Incrociai le dita: sovrapposi il dito medio all’indice, in segno di buon augurio.

«Svelto» disse. Piegò il busto in avanti per non farsi vedere e cominciò a correre.

In fondo alla via girò in un altro vicoletto. Le case oltre quei muri erano più grandi, più alte e più vecchie. I giardini sul retro erano più lunghi e avevano alberi imponenti. Era Crow Road.

Si fermò fuori da un cancello verde scuro. Prese una chiave da qualche parte, aprì e si infilò dentro. Io la seguii.

Qualcosa mi si strofinò contro una gamba. Guardai in basso e vidi che un gatto era entrato nel cancello con noi.

«Bisbiglio ! » disse Mina con un sorrisone.«Cosa?»«Il gatto si chiama Bisbiglio. E sempre dappertutto.»La casa era di pietra annerita. Le finestre erano inchiodate con le assi. Mina

corse alla porta e la aprì. Sopra la porta c’era una scritta con la vernice rossa che diceva “PERICOLO”.

«Non farci caso» disse. «È solo per tenere lontani i vandali».Entrò. «Vieni» sussurrò. «Svelto!»Entrai anch’io, con Bisbiglio che mi camminava al fianco. Dentro era buio

pesto. Non vedevo niente. Mina mi prese per mano.«Non fermarti» disse e mi guidò avanti.Mi condusse su per una scala larga. Mentre gli occhi mi si abituavano

gradualmente al buio, iniziai a intuire la forma delle finestre inchiodate, degli usci (note 2) scuri e dei larghi pianerottoli. Salimmo tre rampe e tre pianerottoli. Poi le scale si restrinsero e ci trovammo di fronte a un ultimo uscio stretto.

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«La soffitta» sussurrò. «Quando siamo dentro, stai fermissimo. Può darsi che non ti vogliano. Potrebbero attaccarti!»

«Attaccarmi? E chi?»

nota 2 usci: porte.

«Quanto sei coraggioso? Loro conoscono me e Bisbiglio, ma non te. Quanto sci coraggioso? Quanto me?»

La fissai. Come facevo a saperlo?«Lo sei» disse. «Devi esserlo.» Girò la maniglia. Trattenne il respiro. Mi prese

di nuovo la mano, mi guidò dentro e chiuse la porta alle spalle. Si accucciò per terra. Tirò giù anche me. Il gatto si distese piano vicino a noi.

«Stai fermissimo e zittissimo. Guarda soltanto.»Eravamo proprio sotto il tetto, in una stanza grande col soffitto che scendeva

ripido. Le assi del pavimento erano spaccate e tutte incurvate. L’intonaco si era staccato dalle pareti. Da una finestra ad arco che si sporgeva oltre il tetto entrava luce. Sotto la finestra erano sparsi dei vetri rotti. Si vedevano i tetti e i campanili della città e le nuvole che stavano diventando rosse al tramonto.

Trattenni il respiro.La soffitta si scurì e poi diventò rossa.«Cosa deve succedere?» chiesi.«Ssst. Stai a vedere. Aspetta e stai a vedere.» Poi tremò.«Guarda! Guarda!»Un uccello dal colore pallido si alzò da un angolo e volò silenzioso verso la

finestra. Rimase lì, a guardare fuori. Poi ne arrivò un altro che fece un giro intorno alla soffitta, le ali che sbattevano a pochi centimetri dalle nostre facce, prima di posarsi anche lui sul davanzale.

Non respiravo. Mina mi strinse la mano. Osservai gli uccelli, il modo in cu i musi tondi e larghi si voltavano l’uno verso l’altro, il modo in cui gli artigli si aggrappavano al legno della finestra. Poi partirono. volando via in silenzio verso il tramonto rosso.

«Sono allocchi (nota 3)!» disse Mina. «Una specie di gufi.» Poi mi osservò di nuovo con intensità e rise.

nota 3 allocchi uccelli rapaci notturni con piumaggio tra il grigio e il bruno e grandi occhi scuri.

«A volte attaccano gli intrusi, ma hanno visto che sei con me. Hanno capito che sei a posto.»

Indicò il muro in fondo, un grosso buco da cui erano caduti l’intonaco e dei mattoni.

«Quello è il nido» disse. «Ci sono dei piccoli. Non avvicinarti. Li difenderebbero fino alla morte.»

Rise al mio silenzio stupito.

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«Vieni, svelto!»Uscimmo dalla soffitta e corremmo giù per le larghe scale e fuori dalla casa e

nel giardino. Chiuse a chiave la porta e il cancello e poi corremmo lungo i vicoletti fino alla nostra giungla.

«Non dirlo a nessuno» sussurrò.«No» dissi.«Giuralo sulla tua testa.»«Cosa? »«Giuralo sulla tua testa, che potessi morire.» «Lo giuro sulla mia testa, che

potessi morire.» «Bene» disse, poi corse via seguita da Bisbiglio. Rientrai dal cancelletto e oltre la finestra del soggiorno vidi papà, tutto preso a dipingere le pareti.

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14. A casa con papàIl giorno successivo non andai a scuola. Stavo facendo colazione con papà,

quando iniziai a tremare senza motivo. Lui mi mise un braccio intorno alle spalle.«Che ne dici di lavorare con me, oggi?» chiese. Annuii. «Metteremo tutto a posto per loro, eh?» disse. «Io e te insieme.»Lo sentii al telefono nell’ingresso, mentre parlava con la scuola.«Sua sorellina...» lo sentii dire. «Sì, tante cose tutte insieme... un sacco di

pensieri... sì, sì.»Mi infilai un paio di vecchi jeans. Mescolai la vernice verde che doveva usare

per le pareti del soggiorno. Stesi per terra qualche vecchio lenzuolo.«Cosa devo fare?» chiesi, mentre lui saliva sulla scala a pioli.Alzò le spalle e guardò fuori dalla finestra.«E se diboscassi un po’ di quella giungla?» rise. «Prima per copriti bene. E

attento alle tigri.»Misi un paio di guanti vecchi. Usai delle vecchie forbici per tagliare i gambi

che non si spezzavano. Scavai con una paletta per arrivare alle radici. Le spine dei cardi mi si infilarono nella pelle. Ero coperto di linfa (nota 1) verde. Feci un grosso mucchio di erbacce e una montagnola di sassi contro il muro della casa. Mi ritrovai qualche ragno appeso ai capelli e ai vestiti. Degli insetti neri e lucidi scapparono via al mio passaggio. I centopiedi (nota 2) si infilarono contorcendosi nella terra che avevo smosso. Col passare della mattina ripulii una zona sempre più ampia. Papà uscì e bevemmo un po’ di succo di frutta insieme. Ci sedemmo contro il muro di casa e guardammo i merli posarsi sulla zona in cui avevo lavorato. Scavavano la terra, prendevano vermi e insetti per i loro piccoli e volavano via sopra i giardini e i tetti, fino ai nidi. Parlammo di cosa ci sarebbe piaciuto vedere lì fuori: uno stagno, una fontana, un posto dove mamma potesse prendere il sole, uno spazio in cui mettere il box della bambina.

«Quando comincerà a gattonare (nota 4) dovremo coprire Io stagno» disse lui. «Non voglio che ci siano pericoli.»

Tornammo a lavorare.Avevo le braccia indolenzite e la pelle irritata. La polvere e il polline mi

intasavano il naso e la gola. Camminai carponi (nota 5) fra le erbacce, scavai la terra, falciai e strappai i gambi. Mi immaginai la bambina che gattonava fin lì. Era robusta e continuava a fare risatine e a indicare gli uccellini. Poi mi accorsi di quando ero arrivato vicino al garage e pensai ali’uomo che c’era lì dentro, di come se ne stava seduto per terra, di come sembrava solo aspettare di morire.

nota 1 linfa: liquido, soluzione di acqua e sali minerali che scorre all’interno delle piante e le nutre.

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nota 2 centopiedi: detti anche millepiedi, sono insetti dal corpo a forma di cilindro suddiviso in numerosi segmenti, ognuno dei quali è fornito di due paia di zampe.

nota 3 box: piccolo recinto, spesso pieghevole, dove si tengono i bambini che non hanno ancora imparato a camminare.

nota 4 gattonare: muoversi appoggiandosi su mani e ginocchia, detto specialmente dei bambini che non hanno ancora imparato a camminare.

nota 5 Camminai carponi: camminai appoggiando mani e ginocchia a terra.

Mi alzai e andai alla porta. Restai ad ascoltare. Non si sentiva niente, se non il solito strisciare via e raspare.

«Non puoi startene li e basta!» gli dissi. «Non puoi startene lì seduto ad aspettare di morire!»

Non ci fu risposta. Continuai ad ascoltare.«Non puoi!»Nessuna risposta. Quel pomeriggio andammo all’ospedale. Mentre ci

immettevamo nella via in macchina, vidi Mina seduta sull’albero nel suo giardino. Teneva un blocchetto in grembo e stava disegnando o scrivendo. Ci vide e fece ciao con la mano, ma non sorrise.

«E strana, quella» disse papà.«Sì» mormorai.All'ospedale la bambina era stata di nuovo messa nella scatola di vetro. Aveva

dei tubi e dei fili attaccati. Era addormentata. Mamma disse che andava tutto bene. I dottori le avevano detto che sarebbe potuta tornare a casa nel giro di un giorno o due. La guardammo attraverso il vetro e mamma mi abbracciò. Vide le chiazze che avevo sulla pelle. Chiese all’infermiera un po’ di crema e me la strofinò delicatamente sulle braccia. La bambina si svegliò e mi guardò dritto negli occhi, Storse la faccina come se sorridesse.

«Vedi?» disse mamma. «Sta guarendo per noi. Non è vero, pulcina mia?» Chiuse di nuovo gli occhi. Mamma disse che sarebbe rimasta all’ospedale anche quella notte. Papà e io tornammo a casa.

«ventisette e cinquantatré un’altra volta?» disse, mentre guidavamo nel traffico.

«Sì.»«Bene. Ancora un po’ di lavoro e poi puoi andare dal cinese.» Entrammo nella

via. Mina era seduta sul muretto basso del giardino davanti a casa sua, a leggere un libro. Ci guardò mentre ci avvicinavamo alla nostra porta. Le feci ciao e lei sorrise.

«Fai una pausa» disse papà. «Finirai domani di sistemare il giardino. Vai, vai a trovare Mina.»

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15. Mina non va a scuola«Forse la bambina non morirà.»«Sono contenta» disse Mina.Ero seduto sul muretto, più o meno a un metro da lei. «Oggi non sei andato a

scuola.»«Non stavo bene.»Annuì.«Non mi sorprende, visto quello che stai passando.» «Neanche tu sei andata a

scuola» dissi.«Io non ci vado.» La fissai.«Mi insegna mia madre. Secondo noi, la scuola inibisce (nota 1) la curiosità, la

creatività e l’intelligenza naturali dei bambini. La mente ha bisogno di essere aperta verso il mondo, non chiusa in un’aula grigia.»

«Oh» feci.«Non sei d’accordo, Michael?»Io pensai a quando scattavo per il campo con Leakey e Coot. Pensai alle

scenate di Orango Mitford. Pensai alle storie della signorina Clarts.«Non saprei.»

nota 1 inibisce: ostacola, frena, blocca.

«Il nostro motto (nota 2) è scritto sulla parete in camera mia» disse.«Un uccello, ch’è nato per la gioia,può mai cantare se lo chiudi in gabbia?»«È di William Blake (nota 3).» Indicò l’albero, in alto. «Ai piccoli nel nido non

servirti una scuola per imparare a volare, no?» Feci no con la testa.«Infatti. Anche mio padre la pensava così.»«Tuo padre?»«Sì. Era un uomo meraviglioso. E morto prima che nascessi. Lo pensiamo

spesso, che ci guarda dal cielo.»Poi Mina guardò me, con quegli occhi che sembravano entrarti dritti dentro,

«Sei uno di poche parole» mi disse.Non sapevo che cosa dire. Lei ricominciò a leggere.«Tu ci credi che discendiamo dalle scimmie?» le chiesi.«Non è una questione di credere o no. È un fatto dimostrato. Si chiama

evoluzione (nota 4). Devi per forza saperlo. E la risposta è sì.»Alzò gli occhi dal libro. «Però vorrei sperare» continuò, «che abbiamo anche

degli antenati un po’ più belli. Tu no?» Mi guardò di nuovo.«Sì» dissi. Ricominciò a leggere. Guardai il merlo volare fra i rami con i vermi

che gli pendevano dal becco.«E stato bellissimo vedere i gufi» dissi.

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Lei sorrise. «Sì. Certo, sono selvatici. Uccidono, sono sanguinari. Sono meravigliosi.»

nota 2 motto: breve frase che esprime in forma di proverbio un principio o una norma morale.

nota 3 William Blake: poeta, incisore e pittore inglese (1757-1827).nota 4 evoluzione: la teoria dell’evoluzione sostiene che le attuali specie

viventi sono derivate progressivamente da originari organismi molto semplici e che sono continuamente soggette a processi di trasformazione e di differenziazione. In particolare, la teoria dell’evoluzione della specie del naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882) si fonda sulla selezione naturale, che prevede la sopravvivenza e il successo riproduttivo degli individui meglio adattati all’ambiente.

«Ho sognato che li sentivo, tutta la notte.»«Anch’io rimango ad ascoltarli. A volte in piena notte, quando non c’è più

traffico, li sento chiamarsi fra loro.»Unii le mani, lasciando uno spazio fra i palmi e uno fra i pollici. «Sta’ a

sentire» le dissi. Soffiai piano nello spazio fra i pollici e feci il verso del gufo.«Fantastico!» esclamò Mina. «Insegnami come si fa.» Le feci vedere come

unire le mani e come soffiare. Non ci riuscì all’inizio, ma poi sì. Fece «huu!» e rise.

«Fantastico» ripeté. «Fantastico. »«Me l’ha insegnato Leakey. E un mio compagno di scuola.»«Mi chiedo... se io facessi di notte, i gufi verrebbero?»«Può darsi. Forse dovresti provare.»«Sì. Proverò stanotte.»«Huu!» fece. «Huu! Huii!»«Fantastico!» disse e poi applaudì.«C’è una cosa che posso farti vedere anch’io. Come tu mi hai fatto vedere i

gufi.»«Cos’è?»«Non io so. Non so neanche se e vero o e un sogno.»«Non fa niente. Verità e sogno si mischiano sempre.»«Ti ci devo portare, per fartelo vedere.»Spalancò gli occhi e fece un sorrisone, come se fosse pronta ad andarci anche

subito. «Adesso non si può» dissi.Più in giù nella via, papà aprì la porta e mi chiamò con la mano. «Devo andare.

Devo andare a prendere il ventisette e il cinquantatré.»Lei alzò gli occhi al cielo. «Sei un uomo misterioso, tu.» Il merlo volò di

nuovo via dall’albero. Mi alzai per andarmene e le chiesi: «Lo sai a cosa servono le scapole?».

Lei ridacchiò. «Ma non sai neanche quello?»«E tu?»

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«E un fatto dimostrato, si sa. Le scapole sono dove avevi le ali e dove ti cresceranno di nuovo.» Rise. «E adesso vai, uomo misterioso. Vai a prendere i tuoi misteriosi numeri.»

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16. Un’offerta di aiutoEra appena prima dell’alba, il giorno dopo.Gli illuminai di nuovo la faccia bianca con la torcia. «Ancora tu,> gracchiò.«Altri ventisette e cinquantatré.»«Il cibo degli dèi.»Mi infilai tra le casse per mettermi vicino a lui, gli tenni la vaschetta e lui

iniziò ad assaggiare il cibo coi dito. Succhiò facendo rumore, leccò, masticò.«Nettare» sussurrò.«Come fai a sapere del ventisette e del cinquantatré?» gli chiesi.«I preferiti di Ernie. Lo sentivo al telefono. «Ventisette e cinquantatré” diceva.

“Portatelo a casa, e in fretta”.»«Tu eri in casa?»«In giardino. Lo guardavo dalla finestra. Lo ascoltavo sempre. Non è mai stato

bene. Non riusciva a mangiare tutto. Trovavo gli avanzi nel bidone, la mattina dopo. Ventisette e cinquantatré. Il più dolce dei nettari. Un piacevole cambiamento, rispetto a ragni e topi.»

«Lui ti vedeva? Sapeva che c’eri?»«Non l’ho mai capito. Guardava nella mia direzione, ma oltre me, come se non

ci fossi. Povero vecchio. Magari credeva che fossi una visione.»Si appoggiò sulla lingua pallida una striscia lunga e appiccicosa di maiale e

germogli di soia, poi mi guardò con gli occhi iniettati di sangue.«Tu mi credi una visione?»«Non so che cosa sei.»«Allora va bene.»«Sei morto?»«Aah!»«Sì o no?»«Si. Lo sanno tutti che i morti mangiano ventisette e cinquantatré e soffrono di

artrite.»«Ti servono altre aspirine?»«Non ancora.»«Nient’altro?»«Ventisette e cinquantatré.»Passò il dito tutto intorno alla vaschetta e raccolse gli ultimi grumi di salsa. Si

leccò le labbra pallide con la lingua pallida.«La bambina è all’ospedale» dissi.«Mi piace scura.»«Scura?»«Birra scura. È un’altra cosa che Ernie prendeva sempre e non riusciva a finire.

Comprava più di quanto potesse mangiare. Un’altra cosa che tiravo fuori dal bidone, se la bottiglia non si era inclinata e non si era rovesciata tutta.»

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«Okay» dissi.«Birra scura. Il più dolce dei nettari.»Ruttò e si sporse in avanti. Feci luce con la torcia sulle grandi sporgenze che

aveva sulla schiena, sotto la giacca.«C’è una persona che vorrei portare a vederti» dissi, quando si fu sistemato di

nuovo.«Qualcuno che ti dica che esisto davvero?»«E carina.»«Impossibile. »«E intelligente.» «Nessuno lo è.»«Lei saprà aiutarti.» «Aah!»Rise, ma senza sorridere.Non capii perché, ma ricominciai a tremare.Lui fece schioccare la lingua e sospirò rumorosamente. «Non so cosa fare»

dissi. «Il garage sta per crollare e tu sei malato di questa artrite. Non mangi bene. Quando mi sveglio penso a te, ma io ho altre cose a cui pensare. La bambina è malata e speriamo che non muoia, ma potrebbe morire. Davvero.»

Lui tamburellava con le dita sul pavimento del garage, poi le passava fra le palline impolverate che c’erano per terra.

«E’ carina» gli dissi. «Non lo dirà a nessuno. È intelligente. Saprà come aiutarti.»

Lui scosse la testa. «Al diavolo i ragazzini» disse.«Si chiama Mina.»«Porta tutta la strada. Porta tutta la città, già che ci sei.»«Solo io e Mina.»«Ragazzini.»«Come ti devo chiamare?»«Eh?»«Come devo dirle che ti chiami?»«Nessuno. Il signor Nessuno. Il signor Ossa e il signor Sono Stufo e il signor

Art Rite. Adesso vai via e lasciami solo.»«Va bene» dissi.Mi alzai e feci per uscire camminando all’indietro fra le casse, ma esitai.«Penserai alla bambina?» chiesi.«Eh?»«Penserai a lei che è in ospedale? Penserai a farla stare meglio?»Lui fece schioccare la lingua.«Per favore» dissi.«Ma sì, sì, che cavolo.» Andai verso la porta. «Sì» Io sentii ripetere. «Sì, va

bene.»Fuori la notte aveva quasi ceduto al giorno. Il merlo era sul tetto del garage e

cantava a pieni polmoni. Nero, rosa e blu si mischiavano nel cielo. Mi tolsi di dosso le ragnatele e i mosconi. Mentre mi voltavo verso la casa sentii il verso.

«Huu! Huu, huu, huu!»

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Guardai il cielo sopra i giardini e vidi i gufi che andavano verso casa con le loro grandi ali silenziose. Unii le mani e soffiai nello spazio fra i pollici.

«Huu! Huu, huu, huu!»Poi mi sembrò di vedere una faccia pallida e tonda nel buio di una finestra al

primo piano della casa di Mina. Unii di nuovo le mani.«Huu! Huu, huu, huu!» Qualcosa rispose. «Huu! Huu, huu, huu!»

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17. Nel giardino di MinaAll’ora di pranzo andai nel giardino di Mina. Era seduta nel prato, su una

coperta stesa sotto un albero. Aveva libri, blocchetti, matite e tempere sparsi tutto intorno. Non ero andato di nuovo a scuola. Avevo passato tutta la mattina a ripulire la giungla. Papà aveva lavorato in salotto scrostando e dipingendo le pareti per prepararle per la tappezzeria.

«Ecco l’uomo misterioso» disse. «Ciao di nuovo.»Aveva un libro aperto sull’immagine dello scheletro di un uccello. Lo stava

copiando sul blocchetto.«Stai studiando scienze?» chiesi.Lei rise. «Vedi come la scuola ti chiude? Io qui disegno, dipingo, leggo,

osservo. Sento il sole e l’aria stilla pelle. Ascolto il canto del merlo. Apro la mente. Aah! Scuola!»

Prese un libro di poesie dalla coperta. «Ascolta» disse.Si tirò su a sedere, tossì per schiarirsi la voce e aprì il libro.«Ma in un mattino estivo andare a scuola,questo tutti i piaceri porta via;sotto un occhio crudele, che li logora,i piccoli trascorrono il giorno a sospirare di sconforto e noia.»

Chiuse il libro.«È sempre William Blake. Hai mai sentito parlare di William Blake?»«No.»«Dipingeva quadri e scriveva poesie. La maggior parte del tempo se ne stava

senza vestiti. Vedeva gli angeli in giardino.»Mi fece segno di avvicinarmi. Scavalcai il muretto e mi sedetti accanto a lei

sulla coperta.«Fai piano» sussurrò. «Fai molto, molto piano. Ascolta.»«Ascolta cosa?»«Ascolta e basta.»Ascoltai. Sentivo il traffico su Crow Road e sulle strade più in là. Sentivo gli

uccellini cantare. Sentivo la brezza’ negli alberi. Sentivo il mio stesso respiro.«Cosa senti?» Glielo dissi.«Ascolta meglio. Ascolta con più attenzione. Cerca di sentire un rumorino,

piccolissimo e dolcissimo.»Chiusi gli occhi e ascoltai di nuovo.«Cosa devo ascoltare?»«Viene da sopra dite, da dentro l’albero.»«Da dentro l’albero?»«Ascolta e basta, Michael.»

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Cercai di concentrarmi sull’albero, sui rami e le foglie, sui piccoli germogli che sbucavano dai rami. Sentii germogli e foglie muoversi nella brezza.

«Viene dal nido» disse. «Ascolta.»Ascoltai e finalmente lo sentii: uno squittìo minuscolo, lontano, come se

venisse da un altro mondo.Trattenni il respiro.«Sì!» sussurrai.«I piccoli» disse lei.

nota 1 brezza: vento leggero.

Una volta individuato il suono, una volta saputo che cos’era e dov’era, riuscii a sentirlo anche insieme a tutti gli altri rumori più forti. Potevo anche aprire gli occhi. Potevo anche guardare Mina. Poi li richiudevo e riuscivo a sentire i piccoli di merlo che cinguettavano nel nido. Riuscivo a immaginarmeli, stretti stretti fra loro.

«Hanno ossa più delicate delle nostre» disse Mina.Aprii gli occhi. Stava di nuovo copiando lo scheletro.«Sono quasi vuote. Lo sapevi?»«Sì, forse.»Prese un osso che stava vicino a uno dei suoi libri.«Crediamo che questo fosse di un piccione.»Spezzò l’osso, che fece delle schegge. Mi fece vedere che dentro non era

pieno, ma aveva una specie di rete di gallerie sottili come aghi.«La presenza di cavità di aria all’interno dell’osso è nota come

pneumatizzazione. Prova a toccare.»Mi appoggiai l’osso si..il palmo. Guardai gli spazi che aveva dentro, sentii le

schegge.«Anche questo è un risultato dell’evoluzione» disse.«L’osso è leggero, ma forte. Si è adattato in modo che l’uccello potesse volare.

In milioni di anni, l’uccello ha sviluppato un’anatomia (nota 2) che glielo permette, mentre noi no, come sai dai disegni dello scheletro che hai fatto l’altro giorno.»

Mi guardò.«Lo capisci? L’avete fatto questo, a scuola?»«Penso di sì.»Mi osservò bene.«Un giorno ti racconterà di un essere chiamato Archaeopteryx (nota 3)» disse.

«Come sta la bambina?»

nota 2 anatomia: struttura di un organismo o di una sua parte.nota 3 Archaeopteryx: genere di Uccello fossile con netti caratteri di

primitività: becco con denti infissi in alveoli e lunga coda simile a quella dei Rettili, per cui ritenuto l’anello di congiunzione tra Rettili e Uccelli. Se ne

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conosce un’unica specie che visse nel Giurassico, secondo periodo dell’Era mesozoica.

«Vedremo questo pomeriggio. Ma penso che non ci siano problemi.»«Bene.»Unì le mani, soffiò tra i pollici e fece il verso del gufo.«Fantastico!» disse. «Fantastico!»«Ho fatto questo verso la notte scorsa» dissi. «Appena dopo l’alba, quasi di

mattina.»«Davvero?»«Stavi guardando dalla finestra? L’hai fatto anche tu, il verso? »«Non ne sono sicura.»«Eh »«Io sogno. Sono sonnambula (nota 4). A volte faccio cose per davvero e credo

di averle sognate. Altre volte le sogno e penso che siano successe veramente.»Mi fissò.«La notte scorsa ti ho sognato» disse.«Sul serio?»«Sì, ma non è importante. L’altra volta mi hai detto che avevi qualcosa di

misterioso da farmi vedere.»«infatti.»«Allora fammelo vedere.»«Non adesso. Questo pomeriggio, magari.» Mi osservò come se mi guardasse

dentro. «Eri in giardino» disse. «C’era una luce quasi soprannaturale. Eri molto pallido. Avevi ragnatele e mosche dappertutto. Facevi “huu”, proprio come un gufo.»

Ci fissammo. Papà mi chiamò. «Michael! Michael!»«Ci vediamo dopo, nel pomeriggio» le sussurrai.

nota 4 sonnambula: persona che si alza, cammina e parla durante il sonno.

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18. Alla ricerca di una curaper l’artrite«Ha telefonato la signora Dando» disse papà mentre andavamo all’ospedale.

«Ha chiesto dite.»«E stata gentile.»«Ha detto che i tuoi compagni vogliono che torni.»«Li vedo domenica.»«Allora non ti manca la scuola?»Alzai le spalle. «Non so.»«Magari dovresti tornarci fra qualche giorno, eh? Non voglio farti perdere

troppe lezioni.»«imparo tanto da Mina. Sa un mucchio di cose, tipo gli uccelli e l’evoluzione.»«Sì, questo è vero. E poi hai anche imparato a memoria il menu del cinese.»All’ospedale la bambina era ancora nella scatola di vetro, ma non aveva più i

tubi e i fili attaccati. Mamma tolse il coperchio e la tenni un p0’ sulle ginocchia. Cercai di sentire se stava diventando più grande e più forte. Si contorse un po’ e mentre si stiracchiava sentii i muscoletti lunghi e sottili della sua schiena. Mi prese un dito e cercò di stringerlo forte nei pugno. Spalancò gli occhi.

Guarda» disse papà. «Ti sta sorridendo.A me però non sembrava un sorriso. Arrivò un dottore a parlarci. Il Dottor

Bloom.«Sta guarendo bene, allora?» chiese papà.«Alla grande» disse il dottore.«Tornerà a casa presto?»Il Dottor Bloom alzò le spalle. Le toccò la guancia.«Dobbiamo tenerla d’occhio. Qualche giorno ancora, magari.»Poi mi sorrise e mi disse: «Cerca di non stare troppo in pensiero».Toccai le scapole della bambina e sentii quanto erano piccoline e delicate.

Ascoltai il rumore sottile del suo respiro.«Fra un po’ correrà in giardino, vedrai» disse mamma. Rise, ma aveva le

lacrime agli occhi. Si riprese la bambina e poi mi strofinò dell’altra crema sulla pelle.

«Hai l’aria stanca» mi disse. Guardò papà. «Non è che voi due state in piedi fino a tardi, eh?»

«Come no» disse papà. «Video e cinese da asporto tutte le sere, fino alle ore piccole. Vero, Michael?»

Annuii. «Vero.»Uscii nel corridoio. Chiesi a un’infermiera se sapesse dove andava la gente con

l’artrite. Mi disse che tanti andavano al reparto trentaquattro, all’ultimo piano. Disse che secondo lei era un posto assurdo per metterci gente con problemi alle

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ossa, che faceva tanta fatica a camminare e a salire le scale. Io entrai in un ascensore e sali.

Quando arrivai all’ultimo piano, si avvicinò una signora con un aggeggio per camminare. Si fermò per riposarsi un attimo, sbuffando e sorridendo.

«Sono distrutta» ansimò (nota 1). «Una volta su e giù per il reparto e tre volte per il pianerottolo! Proprio distrutta!»

Si sporse sull’aggeggio e mi guardò negli occhi.«Ma fra poco torno a ballare.»Aveva le mani tutte storte e le nocche gonfie.

nota 1 ansimò: respirò con affanno.

«Artrite» dissi.«Giusto. Il nostro amico Art. Ma adesso ho due anche nuove e fra poco torno a

ballare, così quello imparerà chi e che comanda, qui. Per un po’ , almeno.»«Ho un amico con l’artrite» dissi.«Poverino.»«Cos’è che potrebbe fargli bene?»«Be’, di solito alla fine vince Art. Nel frattempo però c’è chi si fida ciecamente

dell’olio di fegato di merluzzo e di una mentalità positiva.I miei rimedi sono le preghiere alla Madonna, e anche il Dottor MacNabola

con le sue forbici, il seghetto, i pernetti di plastica (nota 2) e la colla.»Mi fece l’occhiolino. «Continuare a muoversi, ecco cosa bisogna fare. Tenere

in movimento le vecchie ossa. Non lasciare che si blocchi tutto.»Poi ripartì, strascicando i piedi e canticchiando un inno di chiesa.Seguii le indicazioni per il reparto trentaquattro.Guardai dentro. C’erano decine diletti, uno di fronte all’altro, per tutta la

stanza. C’era gente che si stava abituando a camminare con l’aiuto di certi aggeggi. C’erano signore a letto che sorridevano mentre facevano la maglia, ma facevano smorfie di dolore quando si chiamavano l’una con l’altra per il reparto. Altra gente a letto era invece esausta, piena di dolori. In fondo al corridoio, un gruppetto di dottori e studenti in camice bianco stava intorno a un uomo vestito di nero. Lui parlava e loro prendevano appunti nei taccuini. Poi cominciò a camminare per il reparto e gli altri lo seguirono. Indicava certi pazienti e quelli lo salutavano con un cenno della testa e sorridevano. Si fermò vicino a diversi letti, sorridendo per un attimo mentre ascoltava i pazienti. Strinse la mano a un’infermiera e poi andò veloce verso la porta. Restai fermo mentre venivano verso di me.

nota 2 pernetti di plastica: protesi, elementi artificiali di plastica che sostituiscono un organo mancante o asportato, o una parte di esso.

«Mi scusi...» dissi.L’uomo vestito di nero mi superò. «Dottor MacNabola!»

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Lui si fermò e mi guardò dall’alto in basso. Anche tutti gli altri dottori e studenti mi si fermarono intorno.

«Cosa fa bene per l’artrite?» chiesi.Lui sbatté le palpebre e poi sorrise mostrando tutti i denti. «L’ago» disse.Fece finta di schiacciare una grossa siringa.« Iniezioni profonde, dritte nell’articolazione.» Fece una smorfia come se

sentisse male. I dottori e gli studenti ridacchiarono.«E poi il seghetto» disse.Si mise a muovere il braccio avanti e indietro, sobbalzando e storcendo la

faccia per la sofferenza.«Si tagliano via dei pezzi e se ne mettono altri nuovi.» Fece finta di infilare del

filo in un ago e poi di cucire.«Lo chiudi per bene ed è come nuovo.»Sospirò di sollievo, come se tutto il dolore fosse sparito. Si chinò verso di me.

«Ne soffri tu, giovanotto?»Feci no con la testa. «Un amico.»Il dottore si tirò su, raddrizzandosi.«Allora di’ al tuo amico di venire da me. Siringa, se- ghetto e ago, e lo mando

a casa quasi come nuovo.»I dottori ridacchiarono un’altra volta.«Altrimenti il consiglio è semplice. Tenersi allegri. Non arrendersi. Soprattutto

restare attivi. Prendere olio di fegato di merluzzo. Non lasciare che le articolazioni si blocchino.»

Unì le mani dietro la schiena.«Nient’altro? »«No.»Guardò i medici intorno a me.«Qualche altro consiglio per l’amico del giovanotto?» Gli altri scossero le

teste.«Allora continuiamo» disse, e poi uscì nel corridoio. Rimasi lì a pensare.«Cerchi qualcuno?» chiese un’infermiera.«No.»Lei sorrise.«È un bravo medico, tutto sommato, anche se gli piace fare il buffone. Di’ al

tuo amico di fare movimento e di cercare di sorridere sempre. Non bisogna rendergli la vita facile, ad Art.»

Tornai di corsa all’ascensore e al reparto dov’era la bambina. Mamma e papà erano seduti e si tenevano per mano, guardandola.

«Ciao» mi disse mamma.Cercò di sorridere, ma aveva la voce piatta (nota 3) e si vedeva che aveva

pianto.«Ciao.»«Sei stato via un bel po’.»«Eh, tutto quel cinese da asporto» disse papà per cercare di farci ridere.

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«Olio di fegato di merluzzo» disse mamma. «Quello ti mette a posto.»Mi strinse.«Sei il mio tesoro» mi sussurrò. «Qualunque cosa capiti, sarai sempre il mio

tesoro.»A casa, mentre papà si preparava a ricominciare a lavorare nel salotto, tirai

fuori dal frigo una bottiglia di birra scura e la nascosi, insieme alla torcia, appena oltre la porta del garage. Presi il coltellino svizzero dalla mia camera. In bagno presi una manciata di capsule di olio di fegato di merluzzo e me le misi in tasca.

Chiesi a papà se potevo andare di nuovo a trovare Mina.«Non preoccuparti per me» disse. «Ci penso io al lavoro sporco. Tu vai pure e

divertiti.»

nota 3 piatta: priva di intonazione.

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19. Statuine di cretaLa coperta e i libri erano ancora sui prato, ma lei no. Guardai in cima

all’albero, ma non eri neanche lì. Scavalcai il muretto, andai alla porta sul davanti e suonai il campanello. Venne ad aprire sua madre.

«C’è Mina?» chiesi.Aveva gli stessi capelli della figlia, neri come il carbone. Portava un grembiule

coperto di macchie di vernice e di creta.«Sì. Tu devi essere Michael. Io sono la signora McKee» disse, tendendo la

mano.Gliela strinsi.«Mina!» gridò. Poi mi chiese: «Come sta la bambina?».«Molto bene. Be’, almeno lo speriamo.»«I bambini piccoli sono testardi. Lottano, combattono. Di’ ai tuoi che li penso

tanto.»«Certo. Grazie.»Mina venne alla porta. Anche lei aveva un grembiule macchiato di vernice.«Stiamo modellando» disse. «Vieni a vedere.»Ci fece strada fino alla cucina. Sul tavolo c’erano grosse palle di creta in buste

di plastica. Il tavolo era coperto da un foglio di nylon. C’erano coltelli e utensili di legno. Il blocchetto per disegni di Mina era aperto alla pagina del merlo. Mi mostrò la creta che stava usando. Era ancora un pezzo qualsiasi, ma già riuscivo a vedere la forma di un uccello: un corpo largo, un becco appuntito, una coda piatta. Ne aggiunse altra, pizzicò il corpo e cominciò a far uscire le ali.

«Adesso Mina si è fissata sugli uccelli» disse la signora McKee. «Certe volte si fissa sulle cose che nuotano, altre su quelle che scorrazzano di notte, altre ancora su quelle che strisciano, ma in questo momento le interessano quelle che volano.»

Mi guardai intorno. C’era uno scaffale pieno di statuine di creta; volpi, pesci, lucertole, ricci, topolini. Poi un gufo, con la grande testa tonda, il becco appuntito, gli artigli feroci.

«Li hai fatti tu?» chiesi.Mina rise.«Sono fantastici» dissi.Mi fece vedere come avrebbe modellato la creta se l’uccello fosse stato in volo

e come riusciva a modellare le piume con un coltello appuntito.«Una volta cotto e verniciato lo appenderò al soffitto.» Presi un pezzo di creta.

La strofinai fra le dita e la arrotolai fra i palmi. Era dura e granulosa. Mina si leccò un dito, strofinò la creta e mi mostrò come si faceva a farla diventare lucida e liscia. La guardai e copiai i suoi movimenti. Lavorai di nuovo la creta, la modellai nella forma di un serpente, poi la schiacciai ancora e feci la forma di una testa umana.

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Pensai alla bambina. Cominciai a modellare la sua forma delicata, le braccia e le gambe, la testa.

«Come magia, eh?» disse Mina.«Come magia, sì.»«A volte sogno di farli così reali che scappano o mi volano via dalle mani. Voi

a scuola usate la creta?»«A volte. Solo in una materia.»«Michael ogni tanto potrebbe venire a lavorare con noi» disse Mina.La signora McKee mi guardò. Gli occhi erano penetrami come quelli di Mina,

ma più dolci.«Certo» disse.«Gli ho detto che cosa pensiamo delle scuole.» La signora McKee rise.«E gli ho parlato di William Blake.»Continuai a modellare la bambina. Cercai di formare i tratti del suo viso. Col

calore delle dita, la creta cominciò a seccarsi e a sbriciolarsi. Incrociai lo sguardo di Mina e con gli occhi cercai di dirle che dovevamo andare.

«Posso uscire a fare una passeggiata con Michael?» disse subito lei.«Sì. Metti la creta nella plastica, così quando rientri puoi continuare.»

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20. Occhi spalancati per lo stuporeLe feci strada svelto lungo la via, poi girai nel vicoletto, che costeggiava i muri

alti sul retro dei giardini.«Dove andiamo?» chiese.«Non lontano.»Guardai la camicetta gialla e i jeans che aveva addosso. «E un posto lercio

(nota 1)» le dissi. «E pericoloso.» Lei si abbottonò la camicetta fino al collo. Strinse i pugni.

«Bene!» disse. «Vai pure, Michael!» Aprii il nostro cancelletto sul retro. «Qui?»

Mi fissò.«Sì, sì»Arrivai davanti alla porta del garage e mi fermai. Mina guardò nel buio.

Raccolsi la birra e la torcia.«Ci serviranno» dissi. Mi tolsi dalla tasca le capsule di olio di fegato di

merluzzo. «E anche queste.»Socchiuse gli occhi e sembrò trapassarmi con lo sguardo «Fidati» le dissi.

nota 1 lercio: molto sporco, lurido.

Poi esitai.«Non è solo che è pericoloso» le dissi. «Ho paura che non vedrai quello che

vedo io.»Lei mi prese la mano e la strinse.«Vedrà quello che c’è. Portami dentro.»Accesi la torcia ed entrai. Qualcosa strisciò e raspò sul pavimento. Sentii Mina

tremare. La sua mano cominciò a su dare.Gliela strinsi.«Va tutto bene» dissi. «Stammi vicina.»Ci infilammo fra la robaccia e i mobili rotti. Le ragnatele si spezzarono sui

nostri vestiti e sulla nostra pelle. I mosconi morti ci si appiccicarono addosso. Il soffitto scricchiolò e dalle travi marce cadde un po’ di polvere. Quando ci avvicinammo alle casse, iniziai a tremare. Forse Mina non avrebbe visto niente. Forse mi ero sbagliato fin dall’inizio. Forse sogni e verità erano solo un pasticcio inutile nella mia mente.

Mi sporsi in avanti e feci luce nello spazio dietro alle casse.«Ancora?» gracchiò lui.Sentii Mina soffocare un grido. Sentii la sua mano che si irrigidiva. La tirai

verso di me.

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«Va tutto bene» le sussurrai. E a lui: «Ti ho portato la mia amica, come ti avevo detto. Lei è Mina»,

Girò gli occhi verso di lei, poi li abbassò di nuovo. Gli mostrai la birra scura.«Ho portato anche questa.» Rise, ma senza sorridere.Passai tra le casse. Stappai la birra con l’apribottiglie del coltellino e mi chinai

verso di lui. Piegò la testa all’indietro perché potessi versargliela in bocca. Ne mandò giù un po’. Un altro po’ cadde fuori dalla bocca, sul completo nero.

«Nettare» sospirò. «La bevanda degli dèi.» inclinò di nuovo la testa e ne versai altra.

Mi voltai a guardare la forma scura di Mina che ci fissava dall’alto, la faccia pallida, bocca e occhi spalancati per lo stupore.

«Chi sei?» sussurro.«Il signor Sono Stufo Di Te» gracchiò lui.«Ho parlato con un dottore» dissi. «Non il Dottor Morte. Uno che potrebbe

metterti a posto.»«Niente dottori. Nessuno. Niente. Lasciami stare.» «Ma morirai. Crollerai a

pezzi e morirai.»«Crolla, crolla.» Tirò indietro la testa. «Altra birra.» La versai.«Ho portato anche queste» dissi.Gli allungai una capsula di olio di fegato di merluzzo. «Certi ci credono

ciecamente» dissi.Lui annusò.«Puzza di pesce. Cose viscide sfuggenti che nuotano.» Mi vennero le lacrime

agli occhi.«Se ne sta qui e basta» dissi a Mina. «Non gliene importa di niente. E come se

aspettasse di morire. Non so cosa fare.»«Non fare niente» gracchiò lui. Poi chiuse gli occhi e abbassò la testa.Mina venne a mettersi vicino a noi. Si chinò, gli guardò la faccia, che era secca

e pallida come gesso, i mosconi morti e le ragnatele, i ragni e gli insetti che gli correvano addosso. Mi prese la torcia. La puntò sul corpo sottile nel completo scuro, sulle lunghe gambe distese per terra, sulle mani gonfie, ferme lungo i fianchi, Raccolse una delle palline impolverate.

«Chi sei?» sussurrò.«Nessuno.»Allungò una mano e gli toccò la guancia.«Secca e fredda. Da quanto sei qui?»«Da abbastanza.»«Sei morto?»Lui emise un gemito (nota 2).

nota 2 gemito: suono debole e lamentoso.

«Le domande dei ragazzini. Sempre le stesse.»«Parlale» dissi. «Lei è intelligente. Ti dirà cosa devi fare. »

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Lui rise, ma senza sorridere.«Fammela vedere bene» disse.Mina girò la torcia e la faccia le diventò di un bianco brillante, con fori

nerissimi al posto della bocca e degli occhi.«Mi chiamo Mina.» Sospirò.«Sono Mina» ripeté. «E tu...?»«Tu sei Mina. E io sono Stufo Marcio.»Lei gli toccò le mani. Sollevò i polsini lerci e gli toccò i polsi stecchiti e

contorti.«Calcificazione» disse Mina. «Il processo per cui l’osso si indurisce e non è

più flessibile. Il processo per cui il corpo diventa di pietra.»«Non è stupida come sembra» gracchiò lui.«E' collegata a un altro processo per cui anche la mente diventa rigida»

continuò Mina. «Smette di pensare e di immaginare. Diventa dura come le ossa. Non è più una mente. E un blocco d’osso avvolto in un muro di pietra. Questo processo si chiama ossificazione.»

Lui sospirò.«Altra birra» disse.Gliela versai in bocca.«Portala via» sussurrò lui.Il tetto tremò per la brezza. Della polvere ci cadde addosso.Io e Mina ci avvicinammo, chinati, con le ginocchia quasi appoggiate su di lui.

Lei fece una smorfia sentendo la puzza del suo alito. Le presi la mano e la guidai verso una scapola. Le premetti la punta delle dita contro le sporgenze sotto la giacca. Lei si sporse e toccò anche l’altra. Quando mi guardò, gli occhi splendevano nella luce della torcia.

Aveva la faccia che quasi toccava quella di lui. Le loro pelli bianche scintillavano.

«Che cosa sei?» gli chiese. Nessuna risposta.Lui stava seduto con la testa bassa, gli occhi chiusi. «Possiamo aiutarti.»Sentii le lacrime che mi scendevano.«Ho un posto dove possiamo portarti» disse Mina.«Sarai più al sicuro. Non lo saprà nessuno. Potrai anche stare lì ad aspettare di

morire, se è davvero quello che vuoi.»Qualcosa ci passò accanto. Puntai la torcia in basso e vidi Bisbiglio che

entrava nello spazio dietro le casse.«Bisbiglio ! » disse Mina.Il gatto gli si mise al fianco e si strusciò contro le sue mani rovinate. Lui fece

un sospiro.«Liscio e morbido» sussurrò. Mosse le nocche contro il pelo. «Che dolce.»Bisbiglio faceva le fusa.Le travi scricchiolarono. Ci cadde addosso altra polvere.«Lasciati portare in un altro posto, per favore» dissi.«Altra birra.»

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Gli allungai una capsula di olio di fegato di merluzzo.«Prendi anche una di queste.»Lui buttò la testa all’indietro. Io versai la birra e lasciai cadere la capsula sulla

lingua pallida.Aprì gli occhi. Guardò Mina nel profondo. Lei guardò nel profondo in lui.«Devi lasciarti aiutare» disse Mina. Lui restò in silenzio per un bel po’. «Fate

quello che volete» sospirò alla fine.

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21. Il pattoEravamo nella giungla, con Bisbiglio seduto ai nostri piedi. Ci togliemmo

mosconi e ragnatele dai capelli e dai vestiti a vicenda. Gli occhi di Mina bruciavano come fiamme.

«È un essere straordinario» disse.La brezza soffiò e il garage scricchiolò ancora.«Stanotte lo portiamo fuori» aggiunse.«All’alba» dissi.«Ci chiamiamo coi verso del gufo. Chi esce per primo sveglia l’altro.»Ci guardammo per suggellare’ il patto.«Un essere straordinario» sussurrò.Aprì la mano e mi fece vedere la pallina scura di pelle rappresa e osso che

aveva portato fuori.«Cos’è?» chiesi.Lei si morse un labbro. «Non può essere quello che penso» disse. «Non può.»Papà si affacciò dalla finestra sui retro. Restò lì a guardarci.

nota 1 suggellare: conferma re, convalidare.

«Adesso devo andare. Devo rimettermi a lavorare in giardino.»«Io torno a modellare il merlo.»«Ci vediamo all’alba.»«All’alba. Tanto non dormirò.»Mi prese la mano, la strinse e poi uscì dal cancelletto seguita da Bisbiglio.Tornai nella giungla. Feci ciao a papà con la mano. Il cuore mi batteva forte.

Mi inginocchiai per terra, afferrai delle radici, le tirai e misi in fuga degli insetti neri.

«Non morirà» sussurrai. «Non morirà, no.» Più tardi papà uscì. Bevemmo insieme succo d’arancia, seduti contro il muro della casa.

Lui mi fece un sorriso stupido.«Allora Mina ti piace» disse. Alzai le spalle.«Sì, eh?» Continuò. «E straordinaria» dissi.

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22. Mi chiamo SkelligEro con la bambina. Eravamo stretti stretti nel nido del merlo. Lei aveva il

corpo ricoperto di piume ed era morbida e calda. Il merlo era sul tetto della casa che sbatteva le ali e gracchiava. Il Dottor MacNabola e il Dottor Morte erano sotto di noi, nel giardino. Avevano un tavolo tutto pieno di coltelli, forbici e seghetti. Il Dottor Morte teneva nel pugno una grossa siringa,

«Portala giù!» gridava. «La mandiamo a casa come nuova! »La bambina piangeva e gridava per la paura. Stava sui bordo del nido e

sbatteva le ali, cercando di volare per la prima volta. Vedevo le grosse chiazze spelacchiate sulla sua pelle: non aveva ancora abbastanza piume, le ali non erano ancora abbastanza forti. Cercavo di prenderla, ma avevo le braccia dure e rigide come pietre.

«Dai!» gridavano i dottori, ridendo. «Dai, piccolina! Vola» Il Dottor MacNabola teneva in mano un seghetto luccicante. Lei barcollava sul bordo. Poi sentii il verso di un gufo. Aprii gli occhi. Alla finestra c’era una luce pallida. Guardai fuori e vidi Mina nella giungla, con le mani vicine alla bocca. «Huu! Huu, huu, huu!»

«Non ho dormito per niente» le dissi una volta che fui uscito in punta di piedi. «Mi sono addormentato solo all’ultimo momento, quando la notte stava già per finire.»

«Ma adesso sei sveglio?»«Sì.»«Non lo stiamo sognando?»«Non lo stiamo sognando.»«Non lo stiamo sognando insieme?»«Anche se fosse, non potremmo saperlo.» Il merlo volò sul tetto del garage e

attaccò la sua canzone del mattino.«Non perdiamo tempo» dissi.Andammo alla porta ed entrammo. Ci muovemmo svelti fra i mobili. Gli

puntai la torcia in faccia.«Devi venire con noi» gli disse Mina.Lui sospirò e fece un gemito. «Sono malato» disse. Non ci guardava. «Sono

stufo marcio.»Ci infilammo nello spazio fra le casse e ci chinammo vicino a lui.«Devi venire» ripeté Mina.«Sono debole come un bambino» disse lui.«I bambini non sono deboli» sussurrò Mina. «Hai mai visto un bambino che

piange perché vuole mangiare o che si sforza di gattonare? Hai mai visto un piccolo di merlo che tenta di volare per la prima volta?»

Gli mise le mani sotto le ascelle. Tirò.

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«Ti prego» gli sussurrò. Anch’io lo presi. Tirai. Sentimmo che cominciava a rilassarsi, ad arrendersi a noi.

«Ho paura» gracchiò.Mina si chinò più vicina a lui egli baciò la guancia pallida. «Non avere paura.

Ti portiamo al sicuro,» Mentre si sforzava di alzarsi da terra gli scricchiolavano tutte le giunture (nota 1). Con un gemito di dolore, si appoggiò a noi e si alzò vacillando e barcollando.

nota 1 giunture: punti di connessione delle ossa.

Era più alto di noi, alto come papà. Sentimmo quant’era magro, quant’era incredibilmente leggero. Lo abbracciammo e le nostre dita si toccarono lungo la sua schiena. Esplorammo le sporgenze sulle scapole. Sentimmo che erano piegate, come braccia. Erano ricoperte da qualcosa di morbido. Ci guardammo dritti negli occhi e non osammo dirci che cosa pensavamo di avere toccato.

«Straordinario. Un essere straordinario» sussurrò Mina.«Riesci a camminare?» gli chiesi.Lui gemette e gracchiò.«Muoviti piano. Tieniti a noi.»Uscii di spalle, fra le casse, mentre Mina lo reggeva da dietro. Lui trascinava i

piedi sul pavimento rovinato. Degli insetti ci strisciarono davanti. Il garage scricchiolò. Cadde della polvere. Il suo respiro era faticoso, irregolare. Il corpo rabbrividiva. Gemette ancora per il dolore. Giunto alla porta chiuse gli occhi e girò la testa, lontano dalla luce che stava aumentando. Poi si voltò di nuovo, verso il chiarore. Con occhi iniettati di sangue e simili a fessure guardò fuori dalla porta. Io e Mina osservammo il suo viso, pallido e secco come il gesso. La pelle era screpolata, rugosa. I capelli neri erano tutti sporchi e scompigliati. Polvere, ragnatele, ragni, mosconi e altri insetti cercavano di restargli attaccati e gli cadevano di dosso. Vedemmo per la prima volta che non era vecchio. Anzi, sembrava giovane.

Mina gli sussurrò: «Sei bello!».Sbirciai verso casa, attraverso la giungla, e non vidi nessuno alla finestra.«Non fermiamoci.»Aprii il cancelletto e lo guidai per mano. Si appoggiò a Mina e mi seguì nel

vicolo con passo strascicato.Richiusi il cancelletto.Dalla città proveniva già il rumore del traffico sulla vicina Crimdon Road. Gli

uccelli nei giardini e sui tetti strillavano le loro canzoni. Bisbiglio ci raggiunse.«Solleviamolo» dissi.«Sì.»Mi misi dietro e lui si lasciò andare fra le mie braccia. Mina gli afferrò i piedi.

Trattenemmo il fiato, stupiti dalla nostra capacità di farlo, dalla straordinaria leggerezza di quel carico. Chiusi gli occhi un attimo e immaginai che fosse un

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sogno. Mi dissi che in un sogno tutto era possibile. Sentii le grosse sporgenze sotto la giacca appoggiate contro le mie braccia. Cominciammo a muoverci.

Camminammo lungo il vicoletto, svoltammo in un altro e andammo svelti verso il cancello verde della casa con le finestre inchiodate. Mina lo aprì con la chiave. Entrammo. Arrivammo alla porta col cartello che diceva “PERICOLO”. Mina aprì anche quella. Ci spostammo nel buio fino alla prima stanza, poi Io coricammo per terra.

Tremavamo e ansimavamo. Lui gemeva dal dolore. Lo toccammo piano.«Sei al sicuro» gli disse Mina.Si tolse il cardigan, lo piegò e glielo mise sotto la testa.«Ti porteremo altre cose per farti stare più comodo» disse. «Ti faremo guarire.

C’è qualcosa che vorresti?»Io sorrisi. «Ventisette e cinquantatré» dissi.«Ventisette e cinquantatré» gernette lui.«Devo tornare» dissi. «Mio padre fra poco si sveglia.»«Anch’io.»Ci sorridemmo. Lo guardammo, disteso accanto a noi.«Torneremo presto» gli dissi.Mina gli diede un bacio sulla guancia pallida e screpolata. Allungò ancora una

volta le mani dietro la sua schiena. Gli occhi le si accesero di stupore e gioia.«Chi sei?» gli sussurrò.Lui fece una smorfia di dolore.«Mi chiamo Skellig» disse.

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23. Romanzo con bollino rossoQuella mattina, subito dopo colazione, passò la signora Dando. Era in bici e

Stava andando verso la scuola. Riferì che i miei compagni erano impazienti di rivedermi.

«Dicono che sei il migliore della scuola nei contrasti (nota 1).»Papà le fece vedere tutto il lavoro che avevamo fatto in ca. sa. Le mostrammo

la giungla. Lei disse che tutto sarebbe stato splendente e nuovo per quando la bambina fosse tornata. Si tolse la sacca dalla schiena e tirò fuori un orsetto nero di peluche tutto morbido. Lo diede a papà, per la bambina.

«Per te, invece, c’è questo» rise. «Scusa!»Era una cartellina di compiti da parte di Rasputin e di Orango: fogli con spazi

da riempire e quesiti a cui rispondere. C’era un biglietto della signorina Clarts: «Non ti do compiti veri, ma scrivi un racconto. E guarisci presto! ».C’erano anche diversi fogli con problemi di matematica e un romanzo

intitolato Julius e il deserto, con un bollino rosso sul retro. Guardandola allontanarsi sulla bici, papà rise.

«Mai un attimo di respiro, eh?» disse. «Ci penso io a pitturare e al resto. Tu fai i compiti.»

nota 1 contrasti: nel gioco del calcio, interventi difensivi di un giocatore per togliere la palla all’avversario o per fermarne l’azione offensiva.

Presi una biro e andai con i compiti fino al giardino di Mina. Era seduta con sua madre sulla coperta. sotto l’albero. La madre leggeva e lei scribacchiava veloce su un blocchetto nero. Quando mi vide, mi sorrise e mi fece segno di scavalcare il muretto.

Mina diede un’occhiata ai miei fogli.Si pensa che l’uomo sia d .... dalle scimmie.È la teoria dell’e…..Tale teoria fu elaborata da Charles D…..Erano pieni di frasi simili a queste. Mina si mise a leggerle ad alta voce.

Quando arrivava agli spazi diceva:«Puntini, puntini, puntini» con voce cantilenante.Dopo le prime tre si fermò e mi guardò. «Ma sono queste le cose che fate tutto

il giorno? Sul serio?»«Mina!» disse la madre.Lei ridacchiò e sfogliò il romanzo. Parlava di un ragazzino che raccontava

storie magiche che poi si rivelavano vere.«Sì, sembra bello» disse. «Ma perché c’è questo bollino rosso?»«Perché è per lettori esperti» risposi. «Dipende dall’età.»«E se c’è qualcun altro che vuole leggerlo?»

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«Mina f» ripeté la madre.«E allora William Blake per che età è?»«Tigre! Tigre! Che splendi, che bruci,nelle foreste della notte.»«È per i lettori esperti o scarsi? Quanti anni bisogna avere per leggerlo?»La guardai. Non sapevo cosa dire. Avrei voluto scavalcare di nuovo il muretto

e tornarmene a casa.«E se fosse per i lettori scarsi, quelli esperti non si degnerebbero di leggerlo

perché per loro sarebbe troppo stupido?» continuò.

«Mina...!» Sua madre mi sorrise con gentilezza. «Non badarci. A volte fa un po’ la maestrina.»

«Ma sentila...» disse lei. Tornò a scribacchiare sul suo blocchetto nero, poi alzò lo sguardo e mi disse: «Dai, su. Fai i compiti, da bravo alunno».

Sua madre mi sorrise di nuovo. «Io torno dentro. Se ricomincia a darti contro, dille pure di chiudere il becco, okay?»

«Okay» dissi.Quando se ne andò restammo zitti per un’eternità.Feci finta di leggere Julius e il deserto, ma era come se le parole fossero morte

e senza significato.«Cosa stai scrivendo?» chiesi alla fine.«Il mio diario. Parlo di me, dite e di Skellig.»Non alzò lo sguardo.«E se lo legge qualcuno?»«Perché dovrebbero? Lo sanno che è mio e che è privato .»Ricominciò a scribacchiare.Pensai ai nostri diari a scuola. Li scrivevamo una volta alla settimana. Ogni

tanto la signorina Clarts controllava che fossero in ordine e che ortografia e punteggiatura fossero giuste. Anche per il diario ci dava i voti, come per la frequenza, la puntualità, la condotta e tutto il resto che facevamo. Non dissi niente di questo a Mina e continuai a fare finta di leggere il romanzo. Mi vennero le lacrime agli occhi. Le lacrime mi fecero pensare alla bambina e quello a sua volta mi fece venire ancora più voglia di piangere.

«Scusa» disse Mina. «Davvero. Una delle cose che detestiamo delle scuole è il sarcasmo (nota 2) usato a vanvera. E poi mi metto a fare la sarcastica io stessa.» Mi strinse la mano.

«Sono esaltata. Io, te e Skellig. Dobbiamo andare da lui. Ci starà aspettando. Che cosa gli portiamo?»

note 2 sarcasmo: ironia particolarmente aspra e amara, dettata dall’intento di ferire o umiliare.

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24. La scoperta delle ali«Ma cos’è ‘sto posto?» le chiesi mentre apriva il cancello ed entravamo nel

lungo giardino sul retro.Restando chinati, corremmo in fretta verso la porta con scritto “PERICOLO”.«Era la casa di mio nonno. È morto l’anno scorso. Me l’ha lasciata nel

testamento. Sarà mia quando compirò diciott’anni.» Girò la chiave nella serratura. «Fra un po’ la Faremo rimettere a posto, così potremo affittarla.»

Entrammo coi nostri pacchetti. Bisbiglio ci seguì.«Stai tranquillo, però. Ci vorranno delle settimane prima che arrivino i

muratori.»Accesi la torcia. Andammo nella stanza dove l’avevamo lasciato. Non c’era.

La stanza era silenziosa e vuota, come se lui non ci fosse mai stato. Poi vedemmo il cardigan di Mina dietro la porta e i mosconi morti sulle assi del pavimento e sentimmo Bisbiglio miagolare dalle scale. Uscimmo nel corridoio e vedemmo la sagoma di Skellig distesa a metà della prima rampa.

«Distrutto» gracchiò, quando ci chinammo su di lui. «Stufo marcio. Aspirina.»Gli frugai in tasca, tirai fuori due compresse e gliele infilai in bocca.«Ti sei spostato» gli dissi. «Tutto da solo, ti sei spostato.»Lui fece una smorfia per il dolore.«Vuoi andare verso l’alto» disse Mina.«Sì, in un posto più in alto» sussurrò lui.Lasciammo lì i pacchetti, lo sollevammo insieme e lo portammo sui primo

pianerottolo.Lui gemette e si contorse tutto. Soffriva.«Mettetemi giù» gracchiò.Lo portammo in una camera da letto con i soffitti alti e bianchi e la tappezzeria

chiara. Lo appoggiammo contro una parete. Raggi sottili di luce passavano dalle fessure nelle assi alle finestre e gli splendevano sul viso pallido e secco.

Tornai svelto a riprendere i pacchetti. Srotolammo le coperte che avevamo portato e le stendemmo sul pavimento, con un cuscino. Sistemammo anche un piattino di plastica per le aspirine e l’olio di fegato di merluzzo. Accanto posai una bottiglia aperta di birra. C’erano anche un panino al formaggio e una mezza barretta di cioccolato.

«Tutto per te» sussurrò Mina.«Lasciati aiutare» dissi.Lui scosse la testa. Si rigirò e si mise a strisciare carponi nel breve spazio che

lo separava dalle coperte. Nei raggi di luce vedemmo le sue lacrime cadere e infrangersi sul pavimento. Arrivato alle coperte si inginocchiò, col fiatone. Anche Mina si inginocchiò, davanti a lui.

«Ti aiuto a stare più comodo» disse.Gli sbottonò la giacca e cominciò a toglierla tirando- gliela giù dalle spalle.

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«No» gracchiò lui.«Fidati di me» sussurrò lei.Lui non si mosse. Mina gli fece scivolare le maniche lungo le braccia e gli

tolse la giacca completamente. Vedemmo quello che tutti e due avevamo sognato di poter vedere. Sotto la giacca aveva delle ali che uscivano da strappi nella camicia. Una volta libere, cominciarono a distendersi sulle scapole. Erano contorte e irregolari, coperte di piume frastagliate e piegate. Si aprirono a scatti, tremando e scricchiolando. Erano più larghe delle sue spalle e più alte della testa, che Skellig teneva piegata verso terra. Le lacrime scendevano ancora. Lui gemeva per il dolore. Mina allungò una mano e gli carezzò la fronte. Allungandosi un po’ di più gli toccò le piume con la punta delle dita.

«Sei bellissimo.»«Fatemi dormire» gracchiò Skellig. «Fatemi andare a casa.»Si distese a faccia in giù e le ali continuarono a prendere forma tremando,

sopra di lui. Le riparammo con le coperte e sentimmo le piume contro la pelle delle nostre mani. In poco tempo il suo respiro si calmò e Skellig riuscì ad addormentarsi. Bisbiglio gli si coricò accanto e fece le fusa.

Ci fissammo. La mano mi tremò mentre la allungavo verso le ali. Le toccai con la punta delle dita. Ci appoggiai sopra il palmo. Sentii le piume e più sotto le ossa e i tendini e i muscoli che le sostenevano. Sentii il rumore del respiro di Skellig.

In punta di piedi andai verso le persiane e guardai fuori dalle strette fessure.«Cosa fai?» mi chiese Mina.«Voglio solo essere sicuro che il mondo ci sia ancora» dissi.

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25. Il battito del cuore della bambinaLa bambina aveva di nuovo tubi e fili attaccati. La scatola di vetro era chiusa.

Lei non si muoveva. Era tutta avvolta in panni bianchi. Aveva capelli soffici, drittissimi e scuri. Avrei voluto toccarli e toccare anche la sua pelle, sentirla morbida contro le dita. Le manine erano strette a pugno, ai lati della testa. Noi non dicevamo niente.

Ascoltavo il rombo sordo (nota 1) della città che arrivava da fuori e i rumori dell’ospedale. Sentivo il mio respiro e quello veloce dei miei, lì vicino. Li sentivo tirare su col naso per trattenere le lacrime. Continuai ad ascoltare tutti quei rumori e a un certo punto sentii la bambina, il rumore delicato del suo respiro, minuscolo e distante come se venisse da un altro mondo. Chiusi gli occhi e continuai ad ascoltare, sempre più attento, fino a sentire quello che mi sembrò il suo battito. Mi dissi che, se avessi ascoltato con estrema attenzione, il suo respiro e il suo battito non si sarebbero mai fermati.

Lungo i corridoi, verso il parcheggio, papà mi prese per mano.

nota 1 rombo sordo: rumore cupo, smorzato.

Passammo davanti a un ascensore e da lì uscì, traballante, la signora con l’aggeggio per camminare. Sobbalzò per la sorpresa, si appoggiò alla struttura e mi sorrise.

«Tre volte lungo ciascun pianerottolo e tre volte su e giù nell’ascensore» mi disse. «Distrutta. Completamente distrutta.»

Papà la guardò senza capire e la salutò per educazione con un cenno della testa.

«Ci sono quasi, e che cavolo!» Mosse i fianchi tenendosi aggrappata alla barra. «Fra poco torno a ballare, vedrai!» Poi mi accarezzò il braccio con una delle sue mani deformate dall’artrite e mi chiese: «Mi sembri triste, oggi. Sei stato a trovare quel tuo amico?».

«Sì?? risposi. Lei mi sorrise.«Tornerà a casa presto. E anche lui. Continuare a muoversi, ecco quello che ci

vuole. Tenersi allegri.»Se ne andò barcollando e cantando lo stesso inno di chiesa della volta prima.«E chi sarebbe “quel tuo amico”?» chiese papà.«Ah, nessuno.»Era troppo in pensiero per insistere.In macchina vidi le lacrime scendergli lungo le guance.Chiusi gli occhi. Mi ricordai il rumore del respiro e del battito della bambina.

Li tenni nella mente e continuai ad ascoltarli. Mi toccai il cuore e sentii quello della bambina battergli accanto. Il traffico si snodava rumoroso e papà tirava su coi naso. Restai silenziosissimo e mi concentrai su come far guarire la bambina.

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26. Non c’è mai fine all’evoluzioneAppoggiò la pesante enciclopedia nell’erba sotto l’albero e guardammo il

disegno di un essere goffo, appollaiato su un ramo pieno di spine. Sullo sfondo, vulcani sputavano fiamme e fumo. I grandi dinosauri terrestri, come i diplodochi e gli stegosauri, attraversavano pesanti una pianura rocciosa.

«Si pensa che i dinosauri si siano estinti» spiegò. «Ma c’è un’altra teoria che dice che i loro discendenti sono ancora tra noi. Fanno il nido sugli alberi e nelle nostre soffitte. L’aria è piena delle loro canzoni. Il piccolo Archaeopteryx è sopravvissuto e ha iniziato la linea evolutiva che ha portato agli uccelli.»

Toccò le ali torte e striminzite disegnate sulla carta.«Ali e piume, vedi? Ma era una creatura pesante, ossuta. Guarda che coda

sgraziata e tozza. Riusciva a fare solo voli brevi e improvvisi. Da un albero all’altro, da una roccia all’altra. Non era in grado di salire e volare in cerchio e danzare come sanno fare adesso gli uccelli. Non aveva pneumatizzazione.»

«Eccolo qui» disse Mina. «L’Archaeopteryx, il dinosauro che volava.»La guardai.«Ma non ti ricordi niente?» mi disse. «La pneumatizzazione, le cavità piene

d’aria nelle ossa degli uccelli. E’ quello che permette loro il volo libero.»Il merlo si staccò dall’albero sopra di noi e si lanciò nel cielo.«Se tu potessi prendere in braccio un Archaeopteryx, sarebbe pesante come

una pietra. Avrebbe quasi lo stesso peso dei miei modelli di creta.»La fissai negli occhi scuri. Erano spalancati, in attesa, come se volesse farmi

vedere o farmi dire qualcosa. Pensai a quando avevo tenuto la bambina sulle ginocchia, a Skellig disteso fra Mina e me. Pensai alle sue ali e al cuore tremante della bambina.

«Non c’è mai fine all’evoluzione» disse.Mi venne più vicino.«Dobbiamo essere pronti ad avanzare. Forse non è questa la forma in cui

dovremo restare per sempre.»Mi prese la mano.«Noi siamo straordinari» sussurrò.Mi guardò dentro, nel profondo.«Skellig!» sussurrò. «Skellig Skellig!»La fissai senza mai chiudere le palpebre. Era come se stesse chiamando Skellig

perché uscisse da un qualche punto dentro di me. Era come se ci stessimo guardando a vicenda nel punto in cui nascevano i nostri sogni.

E poi sentimmo ridacchiare. Alzammo lo sguardo e vedemmo Leakey e Coot, dall’altra parte del muretto, che ci guardavano dall’alto in basso.

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27. Niente è più come prima«Ma cos’hai, eh?» continuavano a chiedermi. «Cosa cavolo hai?»Facevo schifo. Non riuscivo a vincere un contrasto. Quando saltavo di testa,

mancavo il pallone di un chilometro. Quando l’avevo al piede inciampavo dappertutto. Una volta ero pure caduto e mi ero sbucciato il gomito sull’asfalto. Mi sentivo fuori fase (nota 1), tutto tremolante. Non mi andava di giocare a calcio in strada con Leakey e Coot mentre Mina stava seduta sull’albero con un libro sulle ginocchia a guardarci.

«È perché è stato malato» disse Leakey.«Balle» rispose Coot. «Non era malato, era solo un po’ indisposto.»Mi guardarono tentare di alzare il pallone per controllarlo di testa. Mi rimbalzò

sul ginocchio e rotolò lento verso la canalina.«Sono solo fuori allenamento» dissi.«Balle» ripeté Coot. «Solo una settimana fa battevi tutti a scuola.»

nota 1 fuori fase: in uno stato di depressione. di spossatezza fisica e mentale.

«Vero» disse Leakey.«E' lei» disse Coot. «E quella lì sull’albero, la tipa con cui era prima.»Leakey se la rise.«Infatti» disse. Scossi la testa.«Balle» sussurrai.La voce mi tremava, proprio come i piedi. Loro continuavano a ridacchiare.«E quella tipa» disse Leakey.«Quella che si arrampica sugli alberi come una scimmia» disse Coot, «che sta

seduta sul ramo come un corvo.»«Balle» dissi.Guardai Leakey dritto negli occhi. Era il mio migliore amico da anni. Non

pensavo che avrebbe continuato con quella storia, se lo avessi guardato dritto negli occhi e gli avessi detto di piantarla,

Lui rise ancora.«La tiene per mano» disse.«Lei gli dice che è straordinario» disse Coot.«Ma andate a quel paese» dissi io.Mi voltai e andai via. Passata casa nostra, alla fine della via, svoltai nel

vicoletto. Li sentii che mi seguivano. Mi sedetti per terra, con la schiena contro il garage. Volevo solo che andassero via, E volevo che rimanessero. Volevo poter di nuovo giocare come giocavo una volta. Volevo che tutto fosse di nuovo com’era una volta.

Leakey mi si accovacciò vicino e si capiva che era pentito.

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«La bambina sta male» dissi. «Male davvero. Il dottore dice che sono stressato.»

«Sì» rispose lui. «Sì, lo so. Mi spiace.»Coot cominciò a calciare la palla contro il garage.«Smettila» gli dissi, «finisce che lo butti giù.» Lui rise. «Ah, sì?»Continuò.«E smettila.»Mi alzai e lo presi per il colletto. «Ho detto di smetterla.» Rise di nuovo.«Smettere cosa, Michael?» disse in falsetto (nota 2), come una ragazzina.Lo spinsi contro il garage e diedi un colpo con la mano sulle assi, vicino alla

sua testa.Lui fece l’occhiolino a Leakey.«Visto? Te lo dicevo, io» gli fece.Diedi un altro colpo vicino alla sua testa. Ci fu uno schiocco forte e tutto il

garage tremò. Coot saltò via. Rimanemmo a fissare le assi.«Accidenti!» disse Leakey.Ci fu un altro schiocco, poi un altro tremolio e infine il silenzio.Aprii il cancelletto ed entrammo piano nella giungla. Dalla porta guardammo

nel buio del garage. Nei raggi di luce stava cadendo più polvere che mai.Ci fu un altro schiocco.«Accidenti!» disse Coot.«Vado a chiamare mio padre.»

nota 2 in falsetto: imitando la voce femminile.

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28. La ragazza scimmiaMolto piano, con un martello piccolo e chiodi lunghi e sottili, papà fissò delle

assi di traverso sulla porta. Mentre lui lavorava, il garage tremava tutto. Ci disse di stare lontani. Rimanemmo nella giungla a guardare, increduli. Papà prese della vernice nera lucida e scrisse “PERICOLO” sulle assi. Ci portò della Coca, prese una bottiglia di birra per lui e ci sedemmo tutti contro il muro della casa a guardare il garage.

«Meglio farlo sistemare, eh?» disse.«Mio zio è muratore» disse Coot. «Costruisce sempre garage e ampliamenti e

cose simili.»«Ah sì?» fece papà.«Però le direbbe di buttarlo giù e di ricominciare da capo.»«Ah sì?»«Sì. C’è gente che si ostina a tenere in piedi costruzioni che dovevano essere

buttate giù anni fa.»Mi immaginai il giardino senza garage e vidi il grande vuoto che ne avrebbe

preso il posto.«Sì» continuò Coot. «Dice che i lavori migliori cominciano con un mazzuolo’

e un camion pieno di detriti.»

nota 1 mazzuolo: arnese con la testa di legno a forma di martello.

Buttò giù un sorso di Coca. Il merlo volò via e si appollaiò sui bordo del tetto del garage. Sapevo che stava osservando la giungla in cerca d’insetti e di vermi grassi per i suoi pulcini.

«Vuole che ce ne andiamo» dissi.Coot fece una pistola col pollice e l’indice. Puntò il merlo come se stesse

prendendo la mira. «Preso.»La mano gli scattò all’indietro come se avesse sparato. Papà disse a lui e a

Leakey che gli aveva fatto piacere rivederli.«Michael era un po’ giù. Quattro calci a un pallone con i suoi amici gli fanno

bene.»«Non contro il garage, però» disse Leakey. «Non contro quel cavolo di garage,

no.» Prendemmo il pallone e passammo dalla casa per tornare sulla strada. Mina non c’era. Incominciai a giocare meglio, ma non riuscivo a non voltarmi verso l’albero. La immaginavo sola con Skellig, nella casa vuota. Li beccai mentre ridevano di me.

«Ti manca già?» disse Coot.Alzai gli occhi al cielo e cercai di ridere. Andai a sedermi sul muretto del

nostro giardino sulla parte anteriore della casa.

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«Ma chi è, poi?» chiese Leakey. Alzai le spalle. «Si chiama Mina.» «A che scuola va?»

«Non va a scuola.»Mi fissarono. «Come sarebbe?» disse Leakey. «Cos’è, marina (nota 2) alla

grande?» chiese Coot. «Le insegna la madre.»Mi fissarono di nuovo.«Accidenti!» disse Leakey. «Pensavo che andare a scuola fosse obbligatorio.»

nota 2 marina: termine gergale che significa «salta le lezioni scolastiche senza permesso».

«Immaginatevi come deve essere» disse Coot. Lo immaginarono per un po’.«Che fortuna» disse Leakey.«Ma come fa senza compagni?» chiese Coot. «E chi è che vorrebbe starsene

bloccato in casa tutto il giorno?»«Sono convinte che la scuola non serva a imparare. Pensano che serva solo ad

appiattire tutti.»«Sono balle» disse Coot.«Sì» disse Leakey. «A scuola impari tutto il giorno.» Alzai le spalle. «Forse.»«E per questo che sei assente da un po’?» disse Leakey.«Non vuoi più tornare, eh? Vuoi farti insegnare dalla madre della tipa?»«Certo che no. Ma qualcosa me lo insegnano.» «Per esempio?»«Per esempio a modellare la creta. E William Blake.» «E chi è?» chiese Coot.

«Il tipo che ha la macelleria,giù in città?»«Secondo Blake, la scuola fa scappare tutta la gioia» dissi. «Era un pittore e un

poeta.»Si scambiarono uno sguardo e risero. Leakey non riusciva a guardarmi negli

occhi. Mi sentivo la faccia che bruciava.«Sentite, non posso raccontarvi niente, ma il mondo è pieno di cose

incredibili.»Coot fece un sospiro, scosse la testa spazientito e cominciò a far rimbalzare il

pallone fra le ginocchia.«Le ho viste» dissi. Leakey mi fissò.Mi immaginai di fargli passare la porta con scritto “PERICOLO”, di portarlo

da Skellig, di farglielo conoscere. Per un attimo rischiai quasi di dirgli che cosa avevo visto e toccato.

«Eccola là» disse Coot. Ci voltammo tutti insieme. Mina si stava di nuovo arrampicando sull’albero.

«La ragazza scimmia» disse Leakey. Coot ridacchiò. «Ehi!» disse. «Forse ha ragione Rasputin, con quella storia dell’evoluzione. Se venisse qui vedrebbe che ci sono ancora delle scimmie in mezzo a noi.»

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29. Litigio con MinaGli occhi di Mina erano freddi, mentre mi guardava dall’alto dell’albero. La

voce era sarcastica, sembrava una cantilena:«Grazie al cielo la mamma non mi ha mai mandato a scuola.Bacchettate, amici scemi, alle idee la museruola.»«Tu non ne sai niente» le dissi. «Non ci bacchettano e i miei amici non sono

scemi.»«Aah !»«Infatti. Non ne sai niente. Credi di essere speciale, ma sei ignorante quanto

tutti gli altri. Saprai anche chi è William Blake, ma non sai niente di quello che fa la gente normale.»

«Aah!»«Proprio, “aah” !»Mi guardai i piedi. Mi mordicchiai le unghie. Diedi calci al muretto del

giardino.«Mi odiano» disse. «Glielo si legge negli occhi. Pensano che ti stia portando

via da loro. Sono stupidi.»«Non sono stupidi!»«Stupidi. Calciano palloni, si saltano addosso, gridano come iene. Stupidi. Sì,

iene. Anche tu.»«Iene? Be’, loro invece dicono che sei una scimmia.» Voleva incenerirmi con

lo sguardo. Era paonazza.«Visto? Hai capito? Non mi conoscono neanche e mi odiano.»«E tu ovviamente sai tutto di loro, eh?»«So quanto basta. Non c’è niente da sapere. Calci, urla e fare gli stupidi.»«Aah!»«Proprio, «aah”! E quello basso e rosso...»«Anche Blake era basso e rosso.»«Come fai a saperlo?»«Vedi? Sei convinta che solo tu puoi sapere le cose!»«Non e vero»«Aah»Aveva serrato le labbra per la rabbia. Appoggiò di nuovo la testa al tronco

dell’albero.«Vai a casa» disse. «Vai a giocare a calcio o a qualcos’altro di stupido.

Lasciami stare.»Diedi un ultimo calcio al muretto, poi la lasciai. Andai nel mio giardino. Entrai

in casa dalla porta principale, che era aperta. Papà mi gridò: «Ciao!» da qualche parte di sopra. Andai dritto nella giungla, mi chinai nell’erba e chiusi forte gli occhi per cercare di fermare le lacrime.

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30. Sii mio amicoMi svegliarono i gufi. O un verso che somigliava a quello dei gufi. Guardai

dalla finestra, nel buio. La luna era sospesa sopra la città, una grossa palla arancione che rischiarava le sagome dei campanili e dei camini. Intorno il cielo era blu e diventava nero più in alto, dove si vedevano solo le stelle più brillanti. Più giù, la giungla era coperta dall’ombra nerissima del garage e da uno spicchio di luce fredda e argentea.

Cercai i gufi, ma non vidi niente.«Skellig» sussurrai. «Skellig, Skellig.»Mi diedi del cretino, perché per andarlo a vedere ormai dipendevo da Mina.Mi rimisi a letto. Mi addormentavo, mi svegliavo e mi riaddormentavo. Sognai

che Skellig entrava in ospedale e prendeva la bambina dalla scatola di vetro. Le toglieva tubi e i fili. Lei allungava la manina, gli toccava la faccia pallida e secca e rideva. Lui la portava via e volava, con lei in braccio, fino alla parte più scura del cielo. Poi atterrava con lei nella giungla e mi chiamava.

«Michael! Michael !»Ridevano insieme. Si erano ripresi entrambi ed erano di nuovo forti.«Michael!» diceva Skellig. Gli occhi gli splendevano di gioia. «Michael!

Michael! Michael ! »Mi svegliai. Sentii di nuovo i gufi. Mi infilai i jeans e un maglione, scesi in

punta di piedi e uscii nella giungla. Giù non c’era niente, ovvio, solo l’immagine della bambina e di Skellig che mi bruciava ancora nella mente. Rimasi ad ascoltare la città intorno, coi suo ruggito basso, profondo, infinito, Attraversai l’ombra fino ai vicoletto. Anche se sapevo che non mi sarebbe servito a niente, andai verso la casa sbarrata. Mentre camminavo, qualcosa mi si strofinò contro.

«Bisbiglio!» sussurrai.Il gatto venne con me, camminando leggero al mio fianco.La porta del giardino era accostata. La luna era salita e stava dritta sopra di noi.

Oltre il muro, il giardino era pieno della sua luce. Mina mi stava aspettando. Era seduta sul gradino davanti alla porta con scritto “PERICOLO”, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la faccia tra le mani. Esitai. Ci osservammo.

«Come mai ci hai messo tanto?» disse. «Pensavo di dover fare tutto da sola.»«Pensavo che fosse quello che volevi.»Il gatto le si avvicinò piano e le si strofinò contro le gambe.«Oh, Michael!»Non sapevo cosa fare. Mi sedetti sul gradino più in basso.«Abbiamo detto cose stupide. Io le ho dette.»Restai zitto. Un gufo volò silenzioso nel giardino e si posò sul muretto in

fondo.«Huu!»fece..«Huu? Huu! Huut»«Non ti arrabbiare. Sii mio amico» disse.

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«Ma io sono tuo amico!»«Be’, è possibile odiare i propri amici. Tu oggi mi odiavi.»«E tu odiavi me.»Anche l’altro gufo scese e si posò in silenzio accanto al primo.«Mi piace la notte» disse Mina. «Di notte, quando il resto del mondo è andato

a dormire, tutto sembra possibile.»Alzai gli occhi verso la sua faccia argentea e gli occhi nero inchiostro. Sapevo

che in un sogno l’avrei vista come la luna, con Skellig che le volava silenzioso davanti.

Mi sedetti vicino a lei.«Sono tuo amico» le sussurrai.Lei sorrise e restammo seduti a guardare la luna. Poco dopo i gufi volarono

via, verso il centro della città. Ci appoggiammo insieme alla porta con scritto “PERICOLO”. Mi accorsi che mi stavo addormentando.

«Skellig!» sibilai (nota 1). «Skellig!»Ci stropicciammo via il sonno dagli occhi. Mina infilò la chiave nella

serratura.

nota 1 sibilai: dissi con voce acuta, simile a un fischio.

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31. I gufi e gli angeliNon avevamo la torcia. La luce che entrava dalle fessure era debole. Andammo

avanti a tentoni, tenendoci per una mano e allungando l’altra in avanti. Urtammo contro le pareti. Sbattemmo gli alluci sulle assi che sporgevano. Inciampammo sulle scale. Attraversammo lenti il primo pianerottolo. Cercammo alla cieca la maniglia della stanza dove ci sembrava di averlo lasciato. Aprimmo appena la porta.

«Skellig! Skellig!» sussurrammo, Nessuna risposta. Ci muovemmo piano, le braccia in avanti, tastando col piede prima di ogni passo. Avevamo il respiro corto e incerto. Il cuore mi batteva forte. Spalancai gli occhi e guardai nel buio, cercando la sua forma sui pavimento. Non c’era niente, solo le coperte, il cuscino, il piatto di plastica e la bottiglia di birra che rotolò quando il mio piede la colpì.

«Dov’è?» sussurrò Mina.«Skellig!» lo chiamammo piano. «Skellig! Skellig!»Tornammo verso il pianerottolo, salimmo inciampando per un’altra rampa,

aprimmo diverse porte, ci affacciammo in stanze dove c’era buio pesto. sussurrammo il suo nome, ma non sentivamo altro che il nostro respiro, i nostri passi incerti, l’eco del suo nome che rimbalzava sui pavimenti e sulle pareti nude. Tornammo sul pianerottolo e salimmo un’altra rampa. Ci fermammo. Ci prendemmo per mano e stringemmo forte. Ci sentimmo tremare. Avevamo le teste piene del buio della casa. Accanto a me non c’era altro che la faccia di Mina, col suo colore argenteo.

«Dobbiamo stare calmi» sussurrò. «Dobbiamo ascoltare, come abbiamo ascoltato il pigolio dei pulcini di merlo.»

«Sì.»«Resta fermo. Non fare niente. Ascolta i punti in cui il buio è più profondo.»

Ci tenemmo per mano e ascoltammo la notte. Sentimmo il rombo infinito della città intorno a noi, gli scricchiolii e i rumori della casa, il nostro respiro. Ascoltando più attentamente, sentii il respiro della bambina dentro di me. Sentii il battito lontano del suo cuore. Sospirai per il sollievo, sapendo che stava bene.

«Hai sentito?» disse Mina.Ascoltai e fu come se lei mi stesse guidando a sentire quello che percepiva. Fu

come ascoltare i piccoli di merlo cinguettare nel nido. Veniva da sopra di noi, un suono gracchiante, un fischio lontano. Il respiro di Skellig.

«Lo sento» sussurrai.Salimmo l’ultima rampa, verso l’ultima porta. Piano, impauriti, girammo la

maniglia e lentamente aprimmo la porta. Il chiaro di luna entrava dalla finestra ad arco. Skellig era seduto davanti al telaio, marcato in avanti. Vedemmo la sagoma nera della sua faccia pallida, delle spalle curve, delle ali ripiegate proprio sopra le spalle. Alla base delle ali c’era la sagoma della camicia strappata. Doveva averci sentito entrare e rannicchiarci contro il muro, ma non si voltò. Non parlammo.

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Non osavamo rivolgerci a lui. Arrivò un gufo, che su ali silenziose scese dal cielo alla finestra, tutti e due illuminati dalla luna. Si posò sul telaio della finestra. Si sporse in avanti, aprì il becco, lasciò cadere qualcosa sul davanzale e poi volò di nuovo via. Skellig piegò la testa verso il punto dove si era posato il gufo. Appoggiò le labbra al davanzale. Poi lo stesso gufo, o forse l’altro, tornò alla finestra, si posò, aprì il becco e volò via di nuovo. Skellig si piegò di nuovo in avanti e masticò.

«Gli stanno portando da mangiare» sussurrò Mina.Ed era vero. Ogni volta che i gufi ripartivano, Skellig prendeva quello che gli

avevano lasciato, lo masticava e lo inghiottiva. Finalmente si voltò verso di noi. Non vedevamo né gli occhi né le guance pallide: solo la sagoma nera contro il luccichio della notte. Io e Mina ci tenevamo per mano, ma anche così non osavamo avvicinarci.

«Venite qui da me» sussurrò lui. Noi non ci muovemmo.«Venite qui da me.»Mina mi tirò per una mano e mi portò da lui.Lo raggiungemmo in mezzo alla stanza. Stava dritto in piedi. Dava l’idea di

essere molto più forte di prima. Prese la mia mano e quella di Mina e restammo lì, tutti e tre, uniti nei chiaro di luna sulle vecchie assi del pavimento. Lui mi strinse la mano come per tranquillizzarmi e mi sorrise. Si spostò e ci voltammo insieme, lentamente, come se ci stessimo mettendo timidamente a ballare, con molta cautela. A turno, la luna ci illuminava le facce. Ogni faccia passava dall’ombra alla luce, dalla luce all’ombra, dall’ombra alla luce e ogni volta che quella di Mina o di Skellig venivano illuminate erano più argentee e meno espressive. Gli occhi diventavano più scuri, più vuoti, più penetranti. Per un attimo mi venne voglia di staccarmi, di rompere il cerchio, ma la mano di Skellig si strinse ancora di più intorno alla mia.

«Non fermarti, Michael» mi sussurrò. I suoi occhi e quelli di Mina stavano scrutando dentro di me.

«No, Michael» disse lei. «Non fermarti.»E io non mi fermai. Mi accorsi che stavo sorridendo, che anche Skellig e Mina

stavano sorridendo. Il cuore mi batteva forte, veloce, ma poi raggiunse un ritmo oscillante e calmo. Sentivo i cuori di Skellig e di Mina battere insieme al mio. Sentii i loro respiri muoversi al ritmo del mio. Era come se Fossimo diventati una cosa sola. Le nostre teste erano scure e subito dopo erano grandi e luminose come la luna. Non sentivo più le assi sotto i piedi. Mi rendevo conto solo delle mani nelle mie, delle facce che giravano nella luce e nel buio. Per un attimo vidi ali fantasma sulla schiena di Mina, sentii piume e ossa fragili alzarsi dalle mie stesse spalle e con lei e Skellig mi sollevai da terra. Insieme facemmo dei cerchi nell’aria vuota di quella stanza vuota in cima a una vecchia casa in Crow Road.

Poi finì. Mi ritrovai accartocciato per terra vicino a Mina, con Skellig chinato accanto a noi. Ci toccò la testa.

«Ora andate a casa» gracchiò.«Ma come fai a essere così, adesso?» chiesi.

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Si mise un dito sulle labbra per zittirmi, poi sussurrò:«I gufi e gli angeli. Ricorda questa notte».Lasciammo la stanza barcollando. Scendemmo le scale. Uscimmo nel buio

dalla porta con scritto “PERICOLO”. Esitammo per un attimo.«E’ successo anche a te?» le sussurrai.«Sì. E’ successo a tutti e tre.»Ridemmo. Chiusi gli occhi. Cercai di sentire ancora le piume e le ossa delle ali

sulle mie spalle. Li riaprii e cercai di rivedere le ali fantasma sbucate sulla schiena di Mina.

«Succederà di nuovo» chiese lei, «vero?»«Sì.»Tornammo in fretta verso casa. All’inizio del vicoletto ci fermammo per

riprendere fiato. Fu allora che sentii la voce di papà che mi chiamava.«Michael! Michael ! » Lo vedemmo uscire dalla giungla, nel vicoletto. Aveva

la voce spaventata.«Michael! Oh, Michael!»Poi fu lui a vedere noi, mano nella mano.«Michael! Oh, Michael!» Corse da noi e mi abbracciò.«Eravamo sonnambuli» disse Mina.«Sì» dissi io, mentre lui mi stringeva per tenermi al sicuro. «Non sapevo cosa

stavo facendo. Stavo sognando. Ero sonnambulo.»

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32. Troppi pensieri, troppe preoccupazioniIl Dottor Morte era seduto di fronte a me al tavolo della cucina. Mi toccò la

mano con le sue dita lunghe e curve. Sentii l’odore di tabacco che aveva addosso e vidi le macchie nere che aveva sulla pelle. Papà gli stava raccontando la storia della mia sparizione in piena notte e del mio sonnambulismo. Nella sua voce si sentiva ancora quanto si era spaventato pensando di avermi perso. Volevo dirgli di nuovo che stavo bene e che tutto era a posto.

«Mi sono svegliato e ho sentito che lui non c’era. L’ho capito subito. Quando vuoi bene a qualcuno queste cose te le senti. È vero, no, Dan?»

U Dottor Morte cercò di sorridere, ma gli occhi restarono stupidi e freddi.«E c’era una ragazzina insieme a te?» chiese.«Mina» rispose papà. «E stata lei che l’ha visto uscire sonnambulo ed è andata

a salvarlo. E così, vero, Michael?»Feci sì con la testa.Il Dottor Morte si leccò le labbra.«Mina. Non è una mia paziente» disse. «Non la conosco.»Cercò di sorridere di nuovo.«Sonnambulismo?» chiese poi alzando le sopracciglia. «Per davvero?»Lo Fissai.«Sì. Per davvero.»Mi guardò. Era freddo, secco, pallido come la morte. Dalla sua schiena non

sarebbero mai uscite le ali.«Fatti dare un’occhiata.»Mi alzai in piedi, davanti a lui. Mi puntò una piccola torcia negli occhi e mi

scrutò dentro. Fece luce anche nelle orecchie. Sentii su di me il suo alito e il suo odore. Mi alzò la maglietta, mi appoggiò lo stetoscopio (nota 1) sul petto e mi auscultò. Sentii le sue mani sudaticce sulla pelle.

«Che giorno è?» mi chiese. «In che mese siamo? Come si chiama il primo ministro?»

Papà ci guardava, ci ascoltava e si mordeva le labbra. «Bravo» mormorò quando risposi.

Il Dottor Morte mi toccò una guancia.«C’è qualcosa che mi vorresti dire?» chiese. Feci no con la testa.«Non essere timido. Tuo padre e io siamo passati per le stesse cose che stai

passando tu.»Dissi di nuovo di no.«È un ragazzo in piena salute» disse a papà. «Solo tienilo d’occhio.» Mi

guardò e sorrise mostrando tutti i denti. «E assicurati che rimanga a letto, di notte.»

Mi tenne vicino.

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«E un periodo difficile. Dentro di te sta cambiando tutto e il mondo può sembrarti pazzesco e assurdo, ma poi passerà.»

«Lei curava Ernie?» chiesi.Lui alzò le sopracciglia, incuriosito.«Ernie Myers, il signore che abitava qui prima.»«Ah» disse il Dottor Morte. «Sì, il signor Myers era un mio paziente.»

nota 1 stetoscopio: strumento a cannula rigida di legno o di metallo che si inserisce nell’orecchio del medico per l’auscultazione (ascolto) dei rumori all’interno del corpo del paziente.

«Diceva mai di vedere delle cose?»«Delle cose?»«Cose strane. In giardino, in casa.»Con la coda dell’occhio vidi che papà si mordeva di nuovo il labbro.«Il signor Myers era molto malato» disse il Dottor Morte. «Era in fin di vita.»«Lo so.»«E quando la morte si avvicina, la mente cambia e diventa meno... ordinata.»«Le vedeva, allora?»«Parlava di certe immagini che gli apparivano, ma diversi miei pazienti lo

fanno.»Mi strinse di nuovo con le sue dita lunghe.«Secondo me, hai solo bisogno di giocare a calcio con i tuoi amici» disse. «E

hai bisogno di tornare a scuola.» Guardò papà. «Sì, secondo me dovrebbe proprio tornare a scuola. E stato troppo tempo a casa.» Poi mi picchiettò la testa con un dito. «Troppi pensieri, troppe domande e troppe preoccupazioni, qui dentro! »

Si alzò e papà lo accompagnò alla porta. Li sentii borbottare nel corridoio.«Domani vai a scuola» disse papà quando tornò. Voleva essere efficiente e

attivo, ma poi strinse le labbra e mi guardò e gli vidi l’espressione spaventata negli occhi.

«Scusa, papà» sussurrai.Ci abbracciammo stretti, poi guardammo fuori dalla finestra, verso la giungla.«Perché hai chiesto quelle cose su Ernie»«Non lo so» dissi. «Idee stupide.»«È vero quello che hai detto? Che eri sonnambulo?»Per un attimo mi venne da dirgli lutto: di Skellig, dei gufi, di quello che io e

Mina facevamo di notte. Poi mi resi conto di quanto sarebbe sembrato senza senso.

«Sì, papà» dissi. «E vero.»

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33. A scuola tutto bene, ma...Ti giorno dopo tornai a scuola. Rasputin iniziò la lezione dandomi il

bentornato. Disse che mi ero perso parecchio, ma che pensava che ce l’avrei fatta a recuperare. Gli dissi che avevo studiato l’evoluzione e che avevo scoperto l’esistenza dell’Archaeopteryx. Lui fu stupito.

«Secondo lei, fra gli umani ci possono essere cose come I’Archaeopteryx?»Lui mi guardò in modo strano.«Umani che si stanno trasformando in creature capaci di volare?» continuai.Sentii Coot ridacchiare alle mie spalle.«Raccontagli della ragazza scimmia» disse.«Che cosa?» disse Rasputin.«La ragazza scimmia» disse Coot.Sentii Leakey che gli diceva di piantarla.«Forse c’è gente che non si è evoluta» continuò Coot. «Ragazze scimmia e

ragazzi scimmia.»Lo ignorai.«Le nostre ossa dovrebbero diventare pneumatizzate» dissi.Rasputin venne da me e mi scompigliò i capelli.«Sarebbero utili anche le ali» disse. «Vedo però che hai letto molto in questi

giorni. Molto bene, Michael. E tu smettila di interrompere. Coot. Lo sappiamo tutti chi è la scimmia, qui.»

Coot ridacchiò e fece il verso del gorilla mentre Rasputin tornava verso la cattedra. Riprese a spiegare e mi disse che ormai avevamo finito di studiare l’evoluzione e che eravamo passati a ciò che avevamo dentro: muscoli, cuore e polmoni, apparato digerente, sistema nervoso e cervello.

«Cerca di non fare altre assenze, Michael» aggiunse. «Non devi perderti altre lezioni.»

«No, prof» dissi.Lui allora srotolò un lungo manifesto col disegno di un uomo sezionato, con

polmoni e cuore rosso vivo visibili nel petto, lo stomaco e l’intestino, la rete di vasi sanguigni e di nervi, muscoli rossicci e ossa bianche, cervello blu grigiastro. Ci guardava con occhi cavernosi. Qualcuno dei miei compagni rabbrividì per il disgusto.

«Voi siete così» disse Rasputin.Coot ridacchiò. Rasputin lo chiamò alla cattedra. Fece finta di strappargli via la

pelle e di aprirgli il petto.«Sì» disse. «Dentro siamo tutti uguali, per quanto possa sembrate orribile

l’esterno. Questo è ciò che vedremmo se potessimo aprire il signor Coot.» Sorrise. «Certo, ci sarebbe molto meno ordine rispetto l disegno.»

Coot tornò velocemente al banco.

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«Ora vorrei che vi metteste la mano sulla parte sinistra del torace, così» disse Rasputin. «Sentite il battito del cuore...»

Facemmo come diceva. Sapevo quanto sarebbe stato stupido dire a Rasputin che sentivo due battiti, quello della bambina e il mio.

«Questo è il nostro motore» disse lui. «Batte giorno e notte, quando siamo svegli e quando dormiamo. Non abbiamo bisogno di pensarci. Anzi, di solito nemmeno ci facciamo caso. Ma se si fermasse...»

Coot fece un verso come se lo stessero strozzando.Esatto, signor Coot.» Poi Rasputin fece lo stesso verso e stramazzò sulla

cattedra.Mi guardai intorno. Metà dei miei compagni erano sdraiati sui banchi e

facevano finta di essere morti.Leakey mi stava guardando e si vedeva che voleva che tornassimo amici.In cortile, all’ora di pranzo, giocando a calcio ce la misi tutta. Feci scivolate e

colpi di testa in tuffo. Scartai, feci finte e rovesciate pazzesche. Segnai quattro gol, feci tre assist (nota 1) e la mia squadra vinse alla grande. Alla fine avevo un grosso squarcio nei jeans, sulla gamba. Le nocche della mano sinistra erano tutte sbucciate. Mi colava il sangue da un taglietto sopra l’occhio. Rientrando, quelli della mia squadra vennero da me e mi dissero che non avevo mai giocato così bene. Mi dissero che non dovevo più fare assenze. Avevano bisogno di me.

«Tranquilli» disse Leakey. «Stavolta non ce lo toglie più nessuno, eh, Michael?»

Nel pomeriggio avevamo la signorina Clarts. Scrissi una storia che parlava di un ragazzo che esplorava dei magazzini abbandonati giù al fiume e che trovava un barbone puzzolente che però sotto la giacca consumata aveva le ali. Gli dava da mangiare panini e cioccolato e quello riprendeva le forze. Il ragazzo aveva un’amica di nome Kara. L’uomo insegnava al ragazzo e a Kara cosa si provasse a volare e poi se ne andava, planando oltre l’acqua con le grandi ali.

Vidi che la signorina Clarts aveva le lacrime agli occhi mentre seduta vicino a me leggeva la storia.

«È bella, Michael» mi disse. «Stai davvero formando un tuo stile. Ti sei esercitato a casa?»

Feci sì con la testa.«Bene. Hai un vero dono. Coltivalo.»

nota 1 assist: nel gioco del calcio, passaggio finale di un’azione che dal giocatore che in riceve la possibilità di segnare.

Fu subito dopo che la segretaria, la signora Moore, entrò e sussurrò qualcosa alla signorini Clarts. Poi tutte e due mi guardarono. La signora Moore mi chiese di seguirla un attimo. Andando verso di lei tremavo, Mi misi la mano sul petto e sentii il cuore. La signora Moore mi accompagnò per i lunghi corridoi verso il suo ufficio. Mi disse che mio padre era al telefono e voleva parlarmi.

Alzai la cornetta mordendomi le labbra. Lo sentii ansimare, singhiozzare.

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«E la bambina?» chiesi.«Sì. C’è qualche cosa che non va. Devo andare in ospedale a chiarire.»«Qualche cosa?»«Diverse cose, Michael. Vogliono parlare con me e tua madre, insieme.»«E non con me?»«Ho parlato con la madre di Mina. Puoi cenare da loro e aspettarmi lì fino a

quando torno. Non ci metterà molto. Quasi non ti accorgerai che sono andato via.»

«Ma la bambina guarirà?»«Credono di sì. Sperano. Comunque sia, stanotte non succederà niente.

Faranno tutto domani.»«Avrei dovuto restare a casa. Avrei dovuto pensare a lei».«Le darò un bacio da parte tua.»«E anche a mamma.»«E anche a mamma. Sei molto coraggioso, Michael.»“E invece no” pensai sentendomi tremare. “Proprio no, cavolo.”

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34. Presto Skellig se ne andràEro seduto al tavolo della cucina con Mina. Sua madre era poco pi in là e

tagliava lattuga, pomodori e pane. Sul tavolo erano sparsi colori e carta. Mina aveva dipinto tutto il pomeriggio. Aveva delle strisce di colore sulle guance e grandi macchie sulle dita. C’era un grosso disegno di Skellig, in piedi, con le ali spiegate in alto sulla schiena. Ci guardava e sorrideva.

«E se tua madre lo vede?» sussurrai.«Potrebbe essere chiunque» disse Mina. «O qualunque cosa.»La madre si voltò verso di noi.«Bello, eh?»«Sì» dissi.«Era il tipo di cose che vedeva William Blake. Diceva che siamo circondati da

angeli e spiriti. Dobbiamo solo aprire di più gli occhi e guardare un po’ meglio.»Prese un libro da uno scaffale e mi mostrò i disegni di Blake, disegni degli

esseri alati che diceva di vedere nella sua casetta di Londra.«Forse chiunque di noi riuscirebbe a vedere questi esseri, se solo sapessimo

come fare.» Mi accarezzò la guancia. «A me però basta avere voi due angeli alla mia tavola.»

Ci guardò tenendo gli occhi bene aperti e senza sbattere le palpebre.«Sì» sorrise. «Non è incredibile? Vi vedo chiaramente, due angeli alla mia

tavola.»Pensai alla bambina. Mi chiesi che cosa potesse vedere lei, con quegli occhi

innocenti. Mi chiesi che cosa avrebbe visto lei, se fosse stata vicina a morire.Cercai di distrarmi. Presi un foglio di carta. Mi ritrovai a disegnare Coot, a

fargli braccia e gambe tutte storte e capelli rosso vivo. Gli disegnai peli che spuntavano dalla schiena, dal petto, dalle gambe.

«Quello è il tuo amico» disse Mina. «Un vero e proprio demonietto.»La guardai, guardai appena oltre lei, perché volevo vedere di nuovo quelle ali

fantasma. La madre si mise a cantare:«Sognai un Sogno. che vorrà mai dire?Regina ero, e giovane e pura...»«Oggi sono tornata a trovano» mi sussurrò Mina.Disegnai delle corna che spuntavano dal cranio di Coot.«Prima sono venuta a cercarti. Tuo padre ha detto che eri tornato a scuola. Mi

ha chiesto se non avrei dovuto essere anch’io a lezione.»Si sporse in avanti e disegnò una lingua sottile e nera che usciva dalla bocca di

Coot.«... da un Angelo buono protetta:da sciocchi fastidi mai ero ingannata!»

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«Skellig mi ha chiesto: “Dov’è Michael?”.» sussurrò. «“A scuola” gli ho risposto. “A scuola!” ha detto. “Mi abbandona per andare a scuola!” Io gli ho detto che non lo avevi abbandonato. Gli ho detto che gli VUOI bene.»

«Infatti» mormorai.«Gli ho detto di quanto sei terrorizzato dall’idea che la bambina possa morire.»«Non morirà. Non deve.»«Dice che devi continuare ad andare a trovano.» Si morse il labbro e si sporse

più vicina a me. «Dice che presto andrà via, Michael»«Così sulle ali poi lui volò via,il mattino arrossì come fibre scarlatto (nota 1)...»«Via?»«Sì.»«E dove?»«Non me l’ha detto.»«Quando?»«Presto.»Mi tremavano le mani. Presi qualche altro foglio. Disegnai Skellig, che

sbatteva le ali contro un cielo pallido.«E presto tornò, il mio Angelo buono,ma ero cresciuta e lui tornò invano.»La madre arrivò a sgombrare uno spazio per appoggiare i nostri piatti.«Gioventù era passata...» cantò ancora.«E grigie chiome avevo in capo.»Poi disse: «Forza, datevi una mossa. La cena è pronta. Bel disegno, Michael».

nota 1 scarlatto: di color rosso intenso e brillante.

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35. L’attesaAspettammo seduti a tavola mentre la luce sbiadiva, ma papà non arrivava.

Continuavo ad andare in soggiorno per guardare dalla finestra, senza vedere niente. La madre di Mina cercava di consolarmi.

«Stai tranquillo, Michael. Arriverà presto. Stai tranquillo. Sono sicura che sta andando tutto bene.»

Disegnammo ancora. Disegnai la mia famiglia riunita intorno alla bambina. Disegnai Mina con la faccia pallida, gli occhi scuri e la frangia nera tagliata dritta sulla fronte. Disegnai Skellig disteso, secco, polveroso e inerme sul pavimento del garage e poi lo disegnai in piedi, fiero, davanti alla finestra ad arco, con i gufi che gli volavano intorno. Guardai il cambiamento Come era successo? Erano bastati il cibo cinese, l’olio di fegato di merluzzo, l’aspirina e la birra scura e le cose morte che gli avevano lasciato i gufi? Disegnai Ernie Myers con un pigiama a strisce che guardava fuori, verso la giungla. Sentii che più disegnavo, più mano e braccio si scioglievano. Notai che ciò che appariva sulla pagina somigliava sempre più a quello che vedevo o a cui pensavo. Sentii come, disegnando, la mia mente era sempre più concentrata, anche se una sua parte stava ancora pensando preoccupata alla bambina. La disegnai diverse volte, la bambina, concentrandomi ogni tanto sugli occhi grandi e nitidi, ogni tanto sulle manine minuscole, ogni tanto sui modo in cui tutto il suo corpo si era marcato quando l’avevo tenuta sulle ginocchia. Disegnai il mondo come avrebbe potuto vederlo lei: il lungo reparto d’ospedale pieno di ingombranti adulti, la rete di fili, tubi e strumenti che facevano bip e che riempivano tutto il suo campo visivo, le facce delle infermiere che sorridevano. Disegnai il mondo distorto in forme bizzarre dalla scatola curva di plastica che la racchiudeva. Alla fine disegnai Skellig sulla porta del reparto e sentii l’ondata di esaltazione che avrebbe di sicuro sentito lei vedendolo, il suo cuore che accelerava, la fiammella della sua vita che si riaccendeva.

Mina guardò i disegni, uno dopo l’altro. Li mise in una pila ordinata davanti a sé, poi mi strinse la mano.

«Prima non saresti riuscito a farli. Stai diventando più coraggioso e più sicuro.»

Alzai le spalle. «Si migliora a calcio giocando. E a disegnare disegnando.»Rimanemmo ad aspettare. La luce diventava sempre più debole. I merli

cantavano sugli alberi e dalle siepi. La madre di Mina accese una lampada. Squillò il telefono, ma non era papà. La madre di Mina ci diede dei quadretti di cioccolato che lasciai sciogliere piano sulla lingua. A volte la signora si rimetteva a cantare. Alcune erano canzoni di Blake, altre erano vecchie canzoni popolari. Ogni tanto Mina cantava insieme a lei, con la sua voce alta e decisa.

«Scende il sole a occidente, la stella della sera già s’accende; tace l’uccello nel suo nido, e io devo cercare il mio. »

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Mina sorrise vedendo che rimanevo in silenzio. «Manca poco e canterai anche tu» disse.

li giorno si scuriva sempre di più.«Voglio farti vedere una cosa» mi disse.Riempì d’acqua calda una ciotolina e la mise sul tavolo. Prese da uno scaffale

una pallina di pelle, ossa e pelo, come una di quelle che aveva preso dal pavimento del garage. La buttò nell’acqua e la sfregò con le dita. La pallina si separò in frammenti di pelo scuro e pelle strappata. Ne tirò fuori delle ossa piccolissime e un teschio, il teschio di un animaletto.

Sua madre osservò sorridendo.«Un altro bolo (nota 1) di rigurgito di un gufo» disse.«Sì» disse Mina. E a me: «I gufi mangiano le loro prede intere, Michael.

Digeriscono la carne, poi rigurgitano le parti che non riescono a digerire, come pelle, ossa e pelo. Si può capire cos’ha mangiato un gufo studiando il bolo. Questo come la maggior parte di loro, ha mangiato piccoli mammiferi, come topolini o talpe».

La madre andò a fare qualcosa sul lavello.«Questo è il bolo che ho peso in garage» sussurrò Mina. «Ce n’erano decine,

Michael.»«Venivano da Skellig?» sussurrai. Lei fece sì con la testa.«E cosa vuoi dire?»«Non lo so.» «E lui cos’è?» «Non lo so.»Non sapevo cos’altro dire.«E straordinario!» sibilò lei e poi ricominciò a cantare. Quando guardai di

nuovo la nostra via, vidi luci alle finestre e le cime degli alberi nere contro il cielo color malva (nota 2), come se fossero state incise. Alzai gli occhi e vidi gli ultimi uccelli che volavano verso i nidi.

nota 1 bolo: materiale non digerito che i rapaci accumulano nello stomaco e poi rigurgitano.

nota 2 color malva: colore rosa..violaceo.

Poi il telefono squillò di nuovo e finalmente era papà. La madre di Mina mi passò la cornetta. Non riuscivo ad avvicinarmi.

Lei mi sorrise.«Dai, forza.»Papà mi disse che tutto era a posto. La bambina dormiva. Avevano parlato con

i dottori e lui si sarebbe fermato ancora un po’ con mamma.«Ma la bambina sta bene? Cosa le fanno?»«La operano domani.» «Cosa le fanno?» Non mi rispose.«Papà, cosa le fanno?» Sentii il sospiro, la paura nella voce. «La operano al

cuore, Michael.»

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Disse qualcos’altro, ma non riuscii a sentire. Qualcosa tipo che sarebbe tornato presto, che tutto si sarebbe rimesso a posto, che mamma mi mandava un bacio. Lasciai cadere la cornetta.

«La operano al cuore» sussurrai.

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36. Ci sono cose che non si possono sapereUscii con Mina nel giardino sui davanti. Ci sedemmo sul muretto ad aspettare

che la macchina di papi svoltasse nella via. Dietro di noi la porta aperta lasciava penetrare nel buio una lama di luce. Arrivò Bisbiglio, infilandosi fra le ombre alla base del muretto. Si sedette ai nostri piedi e ci si raggomitolò contro.

«Che cosa vuoi dire, se Skellig mangia animaletti vivi e fa il bolo come i gufi?»

Mina alzò le spalle.«Non si può sapere» disse.«Che cos’è?»«Non si può sapere. A volte dobbiamo solo accettare che ci sono cose che non

si possono sapere. Perché tua sorella è malata? Perché mio padre è morto?» Mi prese la mano. «A volte pensiamo che dovremmo essere capaci di sapere tutto, ma non è così. Dobbiamo contentarci di ve- dei-e quello che c’è da vedere e il resto dobbiamo immaginarlo.»

Parlammo degli uccellini nel nido sopra di noi. Insieme cercammo di sentire il loro respiro. Ci chiedemmo cosa sognassero i piccoli di merlo.

«A volte possono spaventarsi molto» disse Mina. «Possono sognare dei gatti che si arrampicano verso di loro, corvi pericolosi con brutti becchi, oppure bambini cattivi che saccheggiano il nido. Sognano morte tutto intorno a loro. Ma fanno anche sogni belli. Sogni di vita. Possono sognare di volare come i loro genitori, di trovare un giorno un loro albero, per costruire un loro nido e avere i loro piccoli.»

Mi misi la mano sul cuore. Cosa avrei sentito quando avessero aperto il petto fragile della bambina, quando le avessero operato il cuoricino? Le dita di Mina erano fredde, secche e piccole. Vi sentii il pulsare leggero del sangue. Sentii anche la mia mano tremare velocissima, ma delicatissima.

«Siamo ancora come piccoli di merlo» disse. «Felici la metà del tempo e spaventati a morte l’altra metà.»

Chiusi gli occhi e cercai di scoprire dove fosse nascosta la metà felice. Sentii le lacrime colare dalle palpebre che tenevo strette. Sentii le unghie di Bisbiglio che si infilavano nei miei jeans. Avrei voluto essere tutto solo in una soffitta, come Skellig, con intorno solo i gufi, il chiaro di luna e un cuore smemorato.

«Sei davvero coraggioso.»Poi arrivò la macchina di papà, coi suo motore rombante e le luci potenti. E la

mia paura iniziò a crescere vorticosamente.

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37. Fiducia e speranzaUna notte infinita. Sognavo e mi svegliavo, sognavo e mi svegliavo. Nella

stanza accanto papà russava e soffiava. In ciclo non c’era la luna. Un buio infinito. La sveglia sul Comodino era ferma, sicuro. Mostrava solo le ore piccole. L’una, le due, le tre. Minuti infiniti fra di loro. Niente versi di gufi, niente richiami da Skellig o da Mina. Era come se tutto il mondo fosse stato bloccato, come se tutto il tempo fosse stato bloccato. Alla fine probabilmente mi addormentai e mi risvegliai quando fuori era già chiaro, con gli occhi che mi bruciavano e il cuore pesante.

E poi io e papà litigammo mentre sgranocchiavamo pane tostato bruciato e bevevamo del tè tiepido.

«No!» gridai. «A scuola non ci vado! Perché devo? Non oggi!»«Tu fai quello che dico io, e che cavolo! Devi fare quello che è meglio per tua

madre e tua sorella ! »«Tu mi vuoi solo fuori dai piedi per non dover badare a me, non doverti

preoccupare di me e pensare solo a quella cavolo di bambina!»«Non chiamarla così!»«Se voglio dire “cavolo di bambina” lo dico! Va bene? E comunque non è

giusto!»Papà sbatté coi piede contro una gamba del tavolo. La bottiglia dcl latte si

rovesciò e un vasetto dì marmellata cadde per terra rompendosi.«Hai visto?» gridò lui. «Hai visto cosa mi fai fare?» Alzò i pugni come se

volesse distruggere qualcosa. Qualsiasi cosa, il tavolo, me.«Vattene a scuola!» gridò. «Non voglio vederti!»Poi si sporse sul tavolo e mi abbracciò forte.«Ti voglio bene» sussurrò. «Ti voglio bene.»Ci mettemmo a piangere tutti e due.«Puoi anche venire con me» disse. «Ma non servirebbe a niente. Dobbiamo

solo aspettare, pregare e avere fiducia che tutto andrà a finire bene.»Qualche attimo dopo Mina venne a bussare alla porta. Aveva Bisbiglio in

braccio.«Devi venire ad aiutarmi» disse.Papà mi diede il permesso. «Verrò a prenderti nel pomeriggio, finita

l’operazione» disse. «Vai pure con lei.»Mina mi portò nel suo giardino, sempre tenendo stretto Bisbiglio. Sul tetto, il

merlo cominciò a fischiare il suo richiamo di allarme.«Cattivo» disse Mina al gatto e poi andò all’ingresso, che era aperto, lo buttò

dentro e gli chiuse la porta alle spalle.«I piccoli sono usciti dal nido» disse. «Stai fermissimo e zitto. E tieni d’occhio

i gatti.» Ci sedemmo sul gradino dell’ingresso e non ci muovemmo.

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«Sotto la siepe. E anche sotto il roseto, vicino al muro.» Io stavo per chiederle cosa avrei dovuto vedere, ma poi notai il primo, una pallina di piume marroni col becco spalancato, nel buio, sotto la siepe.

«È così che inizia la loro vita fuori dal nido» disse Mina. «Non volano ancora. I genitori portano loro da mangiare. Però per il resto sono quasi completamente soli. Possono soltanto nascondersi nell’ombra e aspettare il cibo.»

I genitori si avvicinarono, la madre marrone sul ramo più basso e il padre nero inchiostro in cima alla siepe. Avevano vermi che pendevano dai becchi. Si chiamarono tra loro e poi chiamarono gli uccellini con piccoli suoni emessi dal becco.

«Il primo giorno fuori dal nido» disse Mina. «Credo che Bisbiglio se ne sia già mangiato almeno uno.»

I genitori attesero, sospettosi di noi, poi finalmente scesero sull’erba. Un pulcino uscì barcollando da dietro il roseto, lasciò che la madre gli facesse cadere il verme nel becco e sempre barcollando tornò indietro.

Il padre diede da mangiare a quello sotto la siepe. Poi i genitori volarono via di nuovo.

«Faranno così tutto il giorno. Voleranno avanti e indietro per portare loro da mangiare, fino al tramonto. E la stessa cosa domani e dopodomani, finché i pulcini non impareranno a volare.» Restammo a osservarli.

«I gatti se li mangeranno» disse. «O i corvi, o qualche stupido cane.»Papà uscì da casa nostra ed entrò nel giardino di Mina. Lei gli fece segno di

stare in silenzio e spalancò gli occhi per avvisarlo meglio. Lui venne da noi in punta di piedi.

«I piccoli sono usciti dal nido» gli sussurrò, indicando- gli dove guardare.«E vero» sussurrò lui. «Sì, sì.»Si chinò accanto a noi, fermissimo.«Non sono belli?» disse.Mi diede una carezza sulla guancia e ci guardammo negli occhi, nel profondo.

Poi dovette andare.«Continua ad avere fiducia» disse. «E tutto andrà bene.»Andò alla macchina e uscì dalla via il più piano possibile. Mina e io restammo

ad aspettare e a guardare la madre marrone e il padre nero inchiostro che continuavano ad arrivare in giardino e poi ripartire, per portare da mangiare ai loro piccoli.

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38. Skellig non c’è piùA metà mattinata, la madre di Mina ci portò due tazze di tè e si sedette con noi

sul gradino. Ci parlò degli uccellini, dei fiori che stavano per sbocciare, dell’aria che ogni giorno diventava più calda, del sole che ogni giorno era un po’ più alto e un po’ più forte. Ci parlò della scossa di vita che la primavera dava al mondo, dopo mesi di morte apparente. Ci raccontò di una dea chiamata Persefone (nota 1), obbligata a passare metà dell’anno al buio sottoterra. E quando lei era intrappolata sottoterra, arrivava l’inverno. Le giornate si accorciavano e diventavano fredde e scure. Gli esseri viventi si nascondevano. Quando invece veniva liberata e cominciava la sua lenta risalita verso il mondo, giungeva la primavera.

nota 1 Persefone divinità degli antichi Greci, figlia di Zeus e Demetra. La dea fanciulla, concessa in sposa da Zeus al dio degli Inferi, Ada, venne da quest’ultimo rapita e portata nel regno dell’Oltretomba. Quando la madre Demetra lo venne a sapere. manifestò la sua ira con una terribile sterilità della Terra. Ade, allora, acconsentì a far ritornare Persefone alla luce, ma prima d’inviarla sulla Terra le fece mangiare di nascosto un seme di melograno che le avrebbe impedito di rimanere per sempre con la madre. Da allora Persefone visse eternamente sei mesi dell’anno con la madre Demetra sulla Terra e sei mesi con il marito Ade negli Inferi.

Per darle il bentornato, il mondo diventava più colorato e luminoso e riprendeva a riempirsi di calore e luce. Gli animali osavano risvegliarsi e avere i loro piccoli. Le piante osavano far crescere boccioli e germogli. La vita osava tornare.

«E solo un mito» dissi.«Sì» disse lei. «Però forse è un mito che è quasi vero. Guardati intorno,

Michael. Uccellini, boccioli e sole che splende. Forse ciò che vediamo qui intorno a noi è il mondo che dà il bentornato a Persefone.»

Mi appoggiò una mano sul braccio.«Riescono a fare cose meravigliose, Michael. Magari molto presto darai il

bentornato a casa a una Persefone tutta tua.»Per un poi, in silenzio, pensammo a Persefone. La immaginai mentre lottava

per risalire verso di noi. Si infilava in gallerie scure e strette, sbagliava strada, sbatteva con la testa contro rocce e sassi. Ogni tanto si arrendeva per la disperazione e si metteva a piangere nel buio pesto, poi però continuava. Guadava torrenti sotterranei ghiacciati. Combatteva contro strati di rocce e argilla e filoni di ferro e carbone, contro i fossili di creature vecchissime, gli scheletri dei dinosauri e le rovine sepolte di antiche città. Scavava intorno alle radici aggrovigliate di grandi alberi. Era graffiata, sanguinava, ma continuava a ripetersi

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di andare avanti e di risalire. Continuava a ripetersi che in poco tempo avrebbe rivisto la luce del sole e sentito di nuovo il calore del mondo.

Poi la madre di Mina si intromise nei miei pensieri.«Sorveglio io gli uccellini» disse. «Perché voi due non andate a fare una

passeggiata?»E Mina mi prese per mano e mi portò via.Fu come camminare in un sogno. Le case si inclinavano e ondeggiavano. Il

sole si rifletteva sui tetti. Gli uccelli erano sfocati e neri contro un cielo stupefacente. La strada brillava, uno stagno profondo e nero. Il traffico invisibile ruggiva e strideva.

Lei mi teneva il braccio. «Come stai, Michael?» continuava a chiedere. «Sei sicuro di stare bene?»

Arrivammo alla porta con scritto «PERICOLO». Lei mi guidò oltre il cancello, attraverso il lungo giardino, oltre la porta, nell’interno scuro e polveroso. Salimmo in silenzio. Mi teneva sempre il braccio, come se fossi un vecchio o un invalido.

Sull’ultimo pianerottolo mi disse: «Ci starà aspettando, Michael. Sarà contentissimo di rivederti».

Girò la maniglia ed entrammo. La luce del sole si riversava dalla finestra ad arco.

Ci fermammo, con gli occhi spalancati.Skellig non c’era.Mina corse di nuovo al piano di sotto. Sentii i suoi piedi sulle assi e le porte

che si spalancavano. Sentii che lo chiamava.«Skellig! Skellig! Skellig!»La sentii risalire lenta fino a me. La faccia era più pallida che mai. Negli occhi

aveva lacrime che luccicavano. «Non c e» sussurro. «Non c’è proprio.»Andò alla finestra e guardò verso il cielo vuoto sopra la città.Mi ritrovai a cadere in avanti. Afferrai forte il davanzale. Mi toccai il cuore.«Oh, Mina!»«Cosa?»«Mi si è fermato il cuore. Sentilo. Non c’è niente.»Lei trattenne il respiro. Mi toccò sul cuore. Gridò il mio nome.E poi ci fu solo buio.

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39. Un solo battito del cuore«Non chiamare il Dottor Morte» sussurrai. «Non chiamare il Dottor Morte.»Ero accasciato sulle assi. Inginocchiata vicino a me, Mina mi carezzava la

fronte e sussurrava il mio nome.«Non il Dottor Morte.»«No» disse lei. «Non il Dottor Morte.»Mi sforzai per tirarmi su a sedere. Mi appoggiai alla parete, sotto la finestra.

«Toccati sul cuore.»Lo feci e sentii il battito. «Visto?» mi disse.«Ma è solo il mio. Non c’è quello della bambina.»«Oh, Michael.»Sentivo che la forza mi stava tornando. Deglutii (nota 1), strizzai gli occhi e

strinsi i pugni. Mi toccai di nuovo sul cuore.«C’è solo il mio, Mina. Quello della bambina non c’è. La bambina è morta.»«Non puoi saperlo per certo.»Mi rialzai. «Invece credo di sì, Mina.»Lei mi sorresse mentre uscivo dalla stanza e tornavo nel buio della casa.

nota 1 Deglutii: mandai giù la saliva.

«Dov’è» le chiesi mentre scendevamo. Nessuna risposta.«Hai guardato dappertutto?»«Sì, dappertutto.»Mi toccai di nuovo sul cuore e niente era cambiato.«È morta» sussurrai.«Invece forse sta bene.»«Ora telefono all’ospedale» dissi, ma sapevo che non ne avrei avuto il

coraggio.Uscimmo nella luce primaverile. Appena fuori vedemmo due piccoli merli

tornare barcollando al riparo della siepe. Nel vicoletto un gatto sconosciuto, rannicchiato dietro a un bidone della spazzatura, ci guardò passare con occhi ostili.

«Fra poco arriverà tuo padre e ti dirà che è tutto a posto.»«Non dirgli quello che mi è successo. Non deve stare in pensiero per me.» Lei

sorrise e mi strinse forte.«Ma dove cavolo è Skellig?» dissi. Lei scosse la testa e continuammo a

camminare. Chilometri sopra di noi, un uccello grosso e pesante attraversava il blu sbattendo le ali.

«Anche William Blake sveniva ogni tanto. Diceva che l’anima era in grado di saltare fuori dal corpo per un po’ e poi saltarci dentro di nuovo. Diceva che le cause potevano essere forte paura o enorme dolore. A volte poteva essere per

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troppa gioia. È possibile essere sopraffatti dalla presenza di tanta bellezza nel mondo.» Camminammo ancora. Il mio corpo era pesante e goffo, come se avessi avuto l’artrite, come se stessi diventando di pietra.

«Penso che tu sia in grado di capirlo» disse Mina.Non riuscivo a parlare. Avevo la bocca secca e acida come se avessi mandato

giù le cose che i gufi lasciavano sul davanzale. «Sì, è quello che ha detto Blake. L’anima salta fuori e poi salta dentro di nuovo.» Rise. «E’ come un ballo.»

Tornammo a casa di Mina. Ci sedemmo sui gradino e guardammo i piccoli.«Forse se n’è andato via per sempre, come aveva detto» dissi. Mi tenni la

mano sul cuore e aspettammo che papà tornasse.

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40. È tutto finitoLa madre di Mina s appoggiò un’asse di legno sulle ginocchia. Sorrise e vi

mise sopra una melagrana.«Melagrana» disse. «Non è una parola bellissima?» Aprì il frutto con un

coltello da cucina. Colò fuori il succo rosso. Vedemmo le centinaia di semi all’interno.

«È quello che mangiava Persefone quando era prigioniera negli Inferi.»Ne diede un quarto a me, un quarto a Mina e se ne prese un quarto per sé. Ci

diede degli aghi con cui tirare fuori le bacche e ci sedemmo a mordicchiare via la polpa dolce dai semini aspri.

«Guarda quanta vita c’è qui dentro» disse. «Ogni seme potrebbe diventare un albero e ogni albero potrebbe dare altri cento frutti e ogni frutto potrebbe portare altri cento alberi. E così via all’infinito.»

Mi tolsi i semini dalla bocca con le dita.«Immagina» continuò. «Se ogni seme crescesse, al mondo non ci sarebbe più

posto per niente oltre ai melograni.»Mi leccai le labbra. Mina mi si sedette accanto, appoggiandosi a me.

Osservammo i merli tornare più volte a dare da mangiare ai piccoli. Guardai il cielo e immaginai Skellig volare via, una macchiolina nera che viaggiava sulla curva infinita del mondo. Poi il telefono squillò, il mio cuore accelerò e batté forte, mentre la madre di Mina entrava. Ma non era papà.

Tolsi bacca dopo bacca dal frutto.«Come va il cuore?» sussurrò Mina.Tentai di trovare il battito delicato della bambina sotto il mio, che era veloce e

spaventato.Scossi la testa.«Non c’è.»Il sole si arrampicava su per il cielo e diventava sempre più caldo.Poco dopo la signora Dando svoltò nella via in bicicletta e ci vide lì seduti.

Entrò agitata nel giardino mentre i merli fischiavano i loro richiami di allarme dai tetti e gli uccellini correvano al riparo.

«Che bella giornata» disse. Poi sorrise raggiante. «Tutti sentono la tua mancanza.»

La madre di Mina le diede l’ultimo quarto della melagrana e la signora Dando mordicchiò i semini e rise.

«Melagrane» disse. «Non ne mangiavo una da quando avevo dodici anni.»Mi disse di Leakey e Coot e di tutti gli altri.«Continuano a supplicarmi: “Dica a Michael di tornare! “.» Mi diede una

nuova cartellina di compiti. C’era un disegno del corpo umano sezionato, con frecce che indicavano le varie parti. Un appunto di Rasputin mi diceva di scrivere i nomi che mancavano.

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Mina e io guardammo il disegno insieme.«Tibia» dicemmo. «Perone, sterno, clavicola, radio, ulna, reni, fegato,

polmoni, cuore, cervello.»«E spirito che salta fuori e salta di nuovo dentro, ma senza mai essere visto»

aggiunse Mina.La signora Dando la guardò. Lo sapevo che Coot gliene avrebbe parlato. “Una

stupida ragazza scimmia” probabilmente aveva detto. “La ragazza che sta seduta sull’albero come un corvo. La ragazza che ce lo porta via.”

L’appunto della signorina Clarts diceva: “Michael, scrivi un’altra storia come l’ultima. Qualcosa di altrettanto bello. Fai volare l’immaginazione”.

Chiusi gli occhi. Non volevo immaginare niente. La bambina era morta. Skellig se n’era andato. Il mondo che era rimasto era brutto, freddo, spaventoso. I merli fischiarono e gracchiarono mentre la signora Dando diceva alla madre di Mina quanto ero bravo a giocare a calcio, quanto mi piaceva ridere e scherzare con gli altri ragazzi.

La madre di Mina sorrise.«Come sta la bambina?» chiese finalmente la signora Dando.«Non lo so» sussurrai.«La operano oggi» disse Mina.«Oh, povera piccola» disse la signora Dando.«Sì» disse Mina. «E a dire la verità, signora Dando, l’ultima cosa di cui

Michael ha bisogno è di essere disturbato con cose insignificanti come il calcio o la scuola.»

Sua madre sospirò. «Mina!» disse.non è vero, Michael?»Non ne potevo più. Andai a sedermi sui muretto del giardino, dando loro le

spalle.«Visto?» disse Mina. «Ha visto come l’ha turbato?»Poi papà svoltò nella via e mi parcheggiò davanti. Tenne aperta la portiera.

Andai a sedermi vicino a lui. Mi abbracciò.«È tutto finito, Michael» disse.

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41. Uno strano sognoMi sbagliavo. Non era morta. Era nel sonno lungo e profondo che veniva dopo

l’anestesia (nota 1). Russava piano sotto le coperte bianche. Mamma ci raccontò del grosso taglio nel suo minuscolo torace e dell’enorme fasciatura che lo ricopriva. C’erano ancora fili e tubi e una macchina che faceva bip in sincrono (nota 2) col suo cuoricino.

«Per i dottori adesso è tutto a posto, Michael» disse. «Sono sicuri che tutto andrà bene.»

Restammo lì seduti, tutti e tre, mano nella mano, a guardare quella creatura delicata.

«Hanno detto che c’è stato un momento in cui hanno pensato di averla persa» continuò abbracciandomi. «Ma poi lei si è ripresa la sua vita.»

Arrivò un’infermiera. Controllò i fili e i tubi e la macchina, poi mi accarezzò la testa.

«La tua sorellina ha un cuore forte» disse. «E una piccola guerriera. Non si arrenderà»

nota 1 anestesia: introduzione nel corpo di sostanze che eliminano completamente o in una singola parte la sensibilità al dolore, soprattutto durante un intervento chirurgico.

nota 2 in sincrono: in contemporaneità, nello stesso momento.«Dici ancora le preghiere per lei?» chiese mamma.«Sì.»«Stavamo di nuovo pensando a come chiamarla» disse papà.«Persefone» dissi io. Risero.«E un po’ troppo impegnativo» disse papà.«Dev’essere qualcosa di molto piccolo e molto forte» disse mamma. «Proprio

come lei.»«Gus» disse papà e tutti ridacchiammo.«Butch» dissi io.«Garth» disse mamma.«Buster» disse papà.«Guardate» disse mamma. «Sta sognando.»Ed era vero. Stava muovendo gli occhi sotto le palpebre.«Chissà cosa starà vedendo» disse papà.«Solo cose belle, spero» disse mamma.«Sono sicuro di sì» disse papà. «Guarda la faccina. Dolce e calma, quasi

sorride. Che angioletto. Ecco, dovremmo chiamarla Angela. Ma no, è troppo lungo.»

«Che cosa strana, però» disse mamma, scuotendo la testa.«Cos’è strano?» chiese papà.

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Lei fece una smorfia, come se fosse imbarazzata.«Be’, la notte scorsa ero qui che mi rigiravo. Scendevo ogni attimo a

controllarla. Continuavo ad addormentarmi e a svegliarmi. E poi ho fatto un sogno bizzarro3...»

«Cioè...?» fece papà.«Ho visto un uomo, tutto qui, Un sogno, anche se ero sicura di essere ben

sveglia. Era in piedi vicino alla bambina. Era lercio, tutto vestito di nero, un completo vecchissimo e impolverato. Aveva una grossa gobba e i capelli tutti sporchi e aggrovigliati.

nota 3 bizzarro: strano, insolito.

Volevo afferrano, volevo spingerlo via, gridargli: “Lascia stare la nostra bambina!”. Volevo chiamare le infermiere e i dottori, ma non riuscivo a muovermi né a parlare. Ero sicura che l’avrebbe portata via. Ma poi si è voltato e mi ha guardato. Aveva la faccia bianca e secca, come di gesso. E gli occhi pieni di tenerezza. Allora, non so come, ho capito che non era venuto per farle del male e che tutto sarebbe andato bene...»

Si fermò, sempre scuotendo la testa.«E poi...?» chiese papà.«E poi l’ha presa con tutte e due le mani e l’ha alzata. Lei era sveglia. Si sono

guardati dritti negli occhi per un bel po’. Lui ha cominciato a girare, lentamente...»

«Come se stessero ballando» dissi.«Giusto, proprio come se stessero ballando. E poi, ancora più strano di tutto...»Rise e poi alzò le spalle.«E poi, più strano di tutto, è che sulla schiena della bambina c’erano delle ali.

Non solide. Trasparenti, come spettri, quasi invisibili, ma c’erano. Tutta una piuma. Era davvero assurdo. Quell’uomo alto, la bambina piccolina e le ali. E poi basta, l’ha rimessa giù, si è voltato e mi ha guardato di nuovo e tutto è finito. Ho dormito come un sasso per il resto della flotte. Quando mi sono svegliata, la stavano già preparando per l’operazione, ma non ero più in pensiero. Le ho dato un bacio e le ho sussurrato che le volevamo tanto bene e poi l’hanno portata via. Sapevo che tutto si sarebbe sistemato.»

«E infatti è andata così» disse papà.«Infatti» fece mamma, dandomi una gomitata. «Probabilmente stavo pensando

a quello che mi avevi chiesto tu, a cosa servissero le scapole, eh?»Sorrisi. «Sì, sì!» dissi.Gli occhi della bambina continuavano a muoversi e a vedere le cose che lei

immaginava nel sonno.«Piccolina» disse papà. «Chissà cosa sta vedendo.»«Skellig» sussurrai fra me. «Skellig.»«Ma non è finita qui» disse mamma. «Lo sai, vero? Dovremo sempre

proteggerla. specialmente all’inizio.»

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«Lo so» dissi. «Dovremo volerle tanto, tanto, tanto bene. »Ce ne andammo poco dopo. Nel corridoio vidi il Dottor MacNabola uscire

dall’ascensore con intorno un gruppo di studenti in camice bianco. Dissi a papà di aspettare solo un minuto. Corsi verso il dottore, che mi guardò.

«Dottore, si ricorda che le avevo parlato del mio amico?» gli dissi. «Quello con l’artrite?»

Lui gonfiò il petto e tirò indietro le spalle.«Aah!» disse. «Allora è pronto per i miei aghi e il mio seghetto?»«No, perché adesso sembra stare meglio.»«Splendido. Olio di fegato di merluzzo e una dose di pensiero positivo, eh

Magari riuscirà a sfuggire alle mie grinfie.»Gli studenti ridacchiarono.«L’amore, l’affetto... possono aiutare a guarire?» chiesi. Lui fece una faccia

incuriosita, storse le labbra e si toccò il mento con un dito.Una studentessa prese taccuino e matita dalla tasca. «L’amore» disse lui.

«Hmm... che cosa possiamo sapere dell’amore noi dottori, eh?» Fece l’occhiolino alla studentessa, che arrossì.

«Amore è il bambino che con noi fiata forte, amore è il bambino che sbaraglia la morte.»

«William Blake?» chiesi.Lui rise. «Abbiamo qui un signore molto istruito.» Poi sorrise davvero per la

prima volta. «Di’ al tuo amico che spero che le nostre strade non si incrocino mai.» Mi fece l’occhiolino, si voltò e portò via gli studenti.

«Come mai sei andato a parlargli?» chiese papà quando tornai.«Niente. Era a proposito di qualcuno che ho conosciuto poco dopo che la

bambina è stata ricoverata.»«Sei un uomo misterioso, tu» disse ridendo.In macchina, tornando a casa, tirammo giù i finestrini e lui cantò The Black

Hills of Dakota a squarciagola. Io unii le mani e feci il richiamo del gufo.«Bravo» disse papà. «Mi piace. Lo fai davvero bene. Dovrai insegnarmelo.

Però non mentre sto guidando, eh?»Percorremmo le strade trafficate della città, sempre ridendo.«Non è ancora fuori pericolo» mi disse a un certo punto. «Lo sai, eh?»«Sì, ma guarirà, vero?» «Sì!» gridò lui. «Sì, e che cavolo!» Si rimise a cantare.«Adesso però devo darci sotto con quella casa, eh?» disse poi. «So io cosa

fare! Stasera per cena possiamo prendere il ventisette e il cinquantatré!»«Ventisette e cinquantatré» dissi io. «Il più dolce dei nettari!»«“Il più dolce dei nettari.” Mi piace. Il più dolce di tutti i cavolo di nettari!»

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42. Grazie di avermi ridato la vitaIl sole era già tramontato da un bel po’ quando io e Mina uscimmo con gli

avanzi del ventisette e del cinquantatré e una bottiglia di birra scura in un sacchetto di carta. I lampioni nella via erano accesi, l’aria era fredda e il cielo luccicava di stelle. li nostro fiato ci si arricciava intorno in lunghi pennacchi bianchi. Camminando, raccontai a Mina del sogno di mamma.

«Straordinario» sussurrò lei.Poi sorrise e disse che ciò dimostrava che Skellig sarebbe stato sempre

presente, ogni volta che avessimo avuto bisogno di lui. Però volevamo assolutamente vederlo e toccano ancora.

Nel vicoletto ci accorgemmo che Bisbiglio ci stava seguendo.«Cattivo» gli disse Mina, chinandosi ad accarezzarlo. Poi rise. «Per tutto il

giorno gli uccellini si sono fatti più forti e più coraggiosi. Hanno svolazzato fin dentro la siepe, dove nessuno può prenderli. Per tutto il giorno hanno ricevuto vermi, vermi, tanti vermi e quando lo abbiamo lasciato uscire, questo signore se n’è rimasto seduto vicino a noi sui gradini, tutto musone e frustrato (nota 1).»

nota 1 frustrato: avvilito, deluso.

Lo accarezzò di nuovo e poi gli disse: «Sei un piccolo, orribile selvaggio». Lui fece le fusa e le si strofinò contro.

Passammo la porta con scritto “PERICOLO” senza aspettarci niente. La casa era immobile e silenziosa. La soffitta era vuota. Niente gufi. Niente Skellig. Sul davanzale trovammo un topolino morto, un po’ di cotenna di pancetta e un mucchietto di insetti neri morti. Ci sedemmo per terra appoggiati al muro e guardammo fuori, verso le stelle infinite.

«Penso davvero che la bambina stia bene, adesso.» Mina sorrise e Bisbiglio fece le fusa.

«Sentimi il cuore» le dissi. Mi appoggiò una mano sul petto.«Lo senti?» chiesi. «Il suo cuore che batte, lì dentro di fianco al mio?» Lei si

concentrò.«Non saprei, Michael» disse.«Riprova. Concentrati. È come toccare e ascoltare e immaginare, tutto allo

stesso tempo. E una cosa lontana e piccolissima, come i piccoli di merlo che pigolano nel nido.»

Chiuse gli occhi e provò di nuovo a sentire. Sorrise. «Sì» sussurrò. «Sì, c’è. Qui, qui e qui.»

«Il cuore della bambina» dissi, «ora non si ferma più.»«Ora non si ferma più» ripeté lei e si mise a cantare quella sua canzone di

William Blake:«Scende il sole a occidente,

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la stella della sera già s’accende...»Io la seguii.«... tace l’uccello nel suo nido, e io devo cercare il mio.»«Visto?» disse. «Te l’avevo detto che ti avrei fatto cantare.» La sera si scurì e

sapevamo che nel giro di qualche minuto avremmo dovuto tornare a casa.«Potrei anche dormire qui, così» disse Mina. «E sarei felice per sempre.»Feci un sospiro.«Ma dobbiamo andare.»Però non ci muovemmo. E poi nell’aria fuori ci fu un fruscio improvviso,

qualcosa coprì le stelle, la finestra scricchiolò e lo vedemmo entrare arrampicandosi sulla struttura ad arco. Lui non ci notò. Si accucciò per terra, col fiatone. Le ali si piegarono lentamente sulla schiena.

«Skellig » sussurrai.Voltò la sua faccia pallida come la luna verso di noi.«Michael! Mina!» disse. La voce era scarsa, sottile, tirata, ma sulle labbra gli si

stava formando un sorriso.Gli feci vedere il sacchetto di carta.«Ti abbiamo portato questo, Skellig. Ventisette e cinquantatré.»«Aah!»Aprii il sacchetto e glielo portammo insieme. Ci inginocchiammo al suo

fianco. Lui infilò nel contenitore un lungo dito ricurvo, agganciò un filo di salsa, maiale e germogli di soia e se lo leccò dalle dita con la lingua pallida e lunga.

«Il più dolce dei nettari» sussurrò. «Cibo degli dèi.»«C’è anche questa» dissi.Stappai la bottiglia e lui si lasciò versare la birra nella bocca spalancata.«Pensavo di trovare topi freddi per cena e invece torno e mi ritrovo un

banchetto.»Mangiò ancora, sospirando per la soddisfazione.«Una coppia di angeli, ecco cosa siete.»Lo guardammo mangiare e bere e vedemmo che riprendeva le forze.«Sei andato a trovare mia sorella» gli dissi. Lui rise.«Mmh! E proprio una cosettina carina!» «Le hai dato forza.»«Risplende di vita quella bambina. Un cuore forte. E stata lei a dare forza a

me.» Buttò giù un’altra sorsata di birra. «Ma adesso sono esausto. Distrutto.»Allungò una mano e carezzò prima Mina e poi me.«Però sto diventando più forte, grazie agli angeli e ai gufi.»Mise da parte cibo e birra e si appoggiò al muro.Restammo seduti in un piccolo cerchio e per qualche minuto ci guardammo

soltanto, sorridendo.«Stai andando via, eh?» gli chiesi alla fine.Lui chiuse gli occhi e fece segno di sì con la testa.«E dove andrai?»Lui alzò le spalle e indicò il cielo.«Da qualche parte» disse.

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Gli toccai una mano, secca e fredda.«Ma tu cosa sei?»Lui alzò un’altra volta le spalle.«Qualcosa» disse. «Qualcosa come te, come una bestia, come un uccello, come

un angelo. Qualcosa così.» Poi sorrise. «Alziamoci in piedi.»Ci mettemmo di nuovo in cerchio e ci tenemmo stretti. Ognuno di noi guardò

nel profondo dell’altro.Cominciammo a girare. Avevamo un solo battito, un solo respiro. Girammo e

girammo finché le ali fantasma non spuntarono sulla schiena di Mina e sulla mia, finché non ci sentimmo sollevare, finché non sembrò che danzassimo sospesi nell’aria vuota.

Poi tutto finì e tornammo a terra.«Lo ricorderemo per sempre» gli disse Mina.Skellig si chinò in avanti e ci abbracciò, poi si leccò via una goccia di salsa

dalle labbra.«Grazie del ventisette e del cinquantatré» disse. «Grazie di avermi ridato la

vita. Ora però dovete tornare a casa.»Continuammo a guardarlo mentre andavamo verso la porta, mentre la

aprivamo. Sbirciammo anche mentre la chiudevamo lentamente. Anche lui ci guardò, con occhi teneri. Poi noi due scendemmo in silenzio e insieme a Bisbiglio uscimmo dalla casa, nel buio di quella sera da togliere il fiato.

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43. Colpi da maestroL’indomani a scuola andai alla grande. Nessuno riusciva a togliermi la palla.

Facevo finte, dribbling (nota 1), colpi da maestro. Saltavo i contrasti, passavo di tacco ai miei compagni, segnavo di testa in tuffo o con punizioni a effetto nell’angolino.

Dopo che la campanella suonò, mentre attraversavamo il campo per tornare in classe, Leakey arrivò di corsa e mi disse: «Bella botta di fortuna che hai avuto oggi, eh? Non giocherai mai più così».

Risi. «Fortuna? E allora questo cos’?»Lasciai cadere il pallone. Qualche finta, poi gli feci un tunnel (nota 2) e gli

sfuggii. Lui mi raggiunse e mi entrò sul tallone, facendoci cadere tutti e due.«Fallo (nota 3)!» gridai. «E fallo!»Ci mettemmo a fare la lotta, rotolandoci nell’erba. Lui era più grosso di me e

mi bloccò, mi si sedette sopra e mi schiacciò le spalle a terra.

nota 1 dribbling: nel gioco del calcio, tecnica con cui un giocatore, con abili tocchi di pallone a destra e a sinistra, schiva l’avversario che lo contrasta.

nota 2 tunnel: nel gioco del calcio, mossa consistente nel superare un avversario facendogli passare il pallone tra le gambe.

nota 3 Fallo: irregolarità, scorrettezza.

Stava ghignando. «Prova a ripeterlo» disse.«Fallo! E fallo, che cavolo!»Alzò un pugno come se volesse spaccai-mi la faccia, ma poi si mise a ridere e

cadde lungo disteso vicino a me. «Caspita» disse, «sei stato pazzesco.»Restammo lì a ridere, ma poi sentimmo la signora Dando che urlava: «Tornate

dentro, voi due! Farete tardi!».Allora ci alzammo e ci incamminammo verso la scuola. «I giorni scorsi

sembravi in un altro mondo» disse Leakey.«Lo so.»«Mi dici cos’avevi?»Ci fermammo. Lo guardai e capii che era sincero. Voleva sapere.«Un giorno o l’altro ti racconto tutto» gli dissi.Poi sulla porta della scuola vedemmo Coot che ci aspettava.«Magari lo racconterà anche a quello scemo. Sempre che ci creda.»Poi sentimmo di nuovo la signora Dando: «E dai, voi due! Forza! Entrate!».

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44. Tre piccole piume biancheQuella sera e le seguenti aiutai papà in casa. Gli mescolai la colla per la

tappezzeria e dipinsi con molta attenzione i telai di porte e finestre insieme a lui. Tutti i giorni andammo a trovare mamma e la piccola in ospedale. In poco tempo la bambina si svegliò dal lungo sonno e diventò sempre più forte. Le tolsero i fili e i tubi e spensero la macchina. La medicazione si rimpiccioliva ogni volta. Tutte le sere mi si sedeva in braccio e si dimenava, si girava e faceva rumorini con la bocca. Aveva imparato a farci la lingua e cominciò a sorridere con le labbra e con gli occhi.

«Ma guardatela» dicevamo. «Che diavoletta ! »E mamma rideva e ci diceva: «State attenti, perché presto torniamo a casa».Cercai di incontrare il Dottor MacNabola, ma non lo vidi più.Papà e io ci mangiammo un sacco di cinese da asporto. Lui una sera mi fece

l’occhiolino e mi disse che non dovevamo farlo sapere a mamma, perché altrimenti ci avrebbe fatto mangiare solo insalata per un mese. Gli diedi una ditata nella pancia: «Non sarebbe una cattiva idea, ciccione».

«Non li vuoi più, allora? Niente più ventisette e cinquantatré?»«No, ciccione. Stavolta prendo... il diciannove e il quarantadue.»«Aah! Un po’ di fantasia, eh?»Dopo mangiato andavo da Mina. Sul tavolo della cucina disegnavamo e

dipingevamo. Leggevamo William Blake e scrivevamo storie che parlavano di avventure in vecchie case e di viaggi in luoghi lontani e immaginari.

Tutte le sere Mina mi chiedeva: «Quando torna la tua sorellina, Michael? Sono impaziente. Non l’ho ancora mai vista».

Prima che la bambina tornasse, andammo ancora una volta nella soffitta. Il sole splendeva, anche al tramonto. Era basso, rosso ed enorme sopra la città.

La soffitta era vuota e silenziosa. Mina indicò il mucchio di boli lasciati dai gufi sotto il nido.

«Non avvicinarti» disse, «difenderebbero i pulcini fino alla morte.»Restammo fermi nel centro della stanza, ricordando Skellig.«Adesso qualcun altro potrebbe trovano» disse Mina. «Sì. Spero proprio di sì.»Poi vedemmo il profilo di un cuore intagliato nelle assi del pavimento, sotto la

finestra ad arco. Subito accanto era stato inciso “Grazie. S.” e dentro il cuore c’erano tre piccole piume bianche.

Le raccogliemmo, sorridendo.«Tre» disse Mina.«Una anche per la bambina» dissi.Mentre eravamo lì accucciati, i gufi arrivarono volando nella stanza e si

posarono sul telaio, sopra di noi. Poi apparvero anche due piccoli, tremolanti nell’ombra vicino alla parete opposta. Erano tondi e quasi senza piume. Dai becchi spalancati uscivano dei pigolii leggeri. Restammo stupiti di quanto erano

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belli e delicati. Poi i gufi uscirono di nuovo a cacciare. Ci fermammo per un p0’, a guardare i gufi tornare con la carne degli animaletti che avevano ucciso e i piccoli che si ingozzavano.

«Piccoli selvaggi» dissi.«Davvero. Piccoli, teneri selvaggi.»Sorridemmo e ci stavamo preparando per uscire in punta di piedi, quando i

gufi rientrarono e vennero da noi. Ci posarono davanti qualcosa, per terra. Un topo e un uccellino, morti. I gufi volarono vizi svelti e sentimmo stridere nella notte che diventava più scura.

«Selvaggi» sussurrai.«Assassini» disse Mina. «Dei regali straordinari, però, eh?»«Credono che siamo come loro.»«E forse lo siamo.»Raccogliemmo gli animaletti e uscimmo sussurrando:«Buonanotte, piccoli».Seppellimmo l’uccellino e il topo su un lato del giardino. Guardammo in su

verso la soffitta e vedemmo i gufi, ormai illuminati dalla luna, volare dentro con altra carne per i loro piccoli.

«Presto arriveranno i muratori» disse Mina, «ma farò in modo che non comincino i lavori finché i piccoli non saranno volati via.»

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45. La demolizione del garageQuel sabato vennero i muratori a sistemare il garage. Erano in tre: un vecchio

col berretto, il signor Batley, con i figli Nick e Gus. Diedero dei pugni sulle pareti e le videro ondeggiare e tremare. Ascoltarono il tetto che scricchiolava e cedeva. Graffiarono i mattoni e videro che si scheggiavano facilmente. Strapparono via le assi che papà aveva inchiodato e guardarono dentro.

Il signor Batley si tolse il berretto, si grattò la testa calva e disse: «Qui non ci entro neanche se mi paga il doppio».

Rimase a meditare, poi alzò le spalle, fece una smorfia e guardò papà.«Lo sa cosa sto per dirle, eh?»«Mi sa di sì» rispose papà.«Non c’è niente da fare. Bisogna buttano giù e ricostruirlo da capo.»Papà guardò me. «Tu cosa ne pensi?»«Non lo so» dissi.«I casi sono due» disse il signor Batley, «o lo fa buttare giù o lo guarda

crollare.»Papà rise.«E va bene, allora» disse poi, «tirate fuori quello che c’è dentro e buttatelo

giù.»Misero dei supporti di acciaio per non far cadere il tetto mentre lavoravano

dentro. Portarono fuori la roba e la sistemarono intorno alla tazza del water di Ernie, nella giungla: le vecchissime cassettiere, le bacinelle crepate, i sacchi di cemento, le porte rotte, le sdraio a brandelli, la moquette marcia, le corde, i tubi, i giornali e le riviste, i rotoli di cavi, i sacchetti di chiodi. lo e papà controllavamo la roba man mano che la portavano fuori. Continuavamo a dire:

«Questo potrà essere utile», e poi: «Ma no, sono solo dei rottami».Arrivò un camion, che lasciò un grosso cassone di ferro nel vicoletto.

Buttammo tutto lì dentro. Eravamo coperti di mosconi e ragni morti, impolverati di mattoni e intonaco. Alla fine, col garage vuoto, ci fermammo tutti a bere del tè e a ridere di quel caos.

Andai sulla porta da solo, per guardare dentro.«Michael!» disse papà.«Sì, Io so. Non entro.»Lui raccontò ai muratori di quanto fossi stato impaziente di entrarci, fin da

subito dopo il trasloco.«Proprio come erano i miei due una volta» disse il signor Batley. «Vedevano

un posto buio e pericoloso e neanche il diavolo riusciva a tenerli fuori.»Continuai a fissare dentro. Erano rimasti solo calcinacci, polvere e vasi rotti, e

nell’angolo più lontano due vaschette da asporto, delle bottiglie di birra scura, una manciata di piume sparse e i boli. Feci un sospiro e poi sussurrai: «Addio, Skellig».

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Poi arrivarono lì anche papà e i muratori.«Vede?» gli disse il signor Batley indicando oltre me. «Qui ci ha passato

qualche nottata un vagabondo. E stato fortunato che non gli è crollato tutto in testa.»

Quando finimmo il tè, il signor Batley si sfregò le mani e disse: «Allora, ragazzi... adesso ci tocca demolire un po’ qui attorno».

Ci impiegarono solo un paio d’ore. Seduti in cucina, guardammo lavorare con palanchini (nota 1), mazze e seghe elettriche. Ogni volta che un pezzo di tetto o di muro cadeva con un botto, io e papà scuotevamo la testa, quasi come se non ci credessimo. In poco tempo il garage fu solo una grossa catasta di mattoni, travi e polvere.

«Accidenti!» disse papà.«Almeno adesso abbiamo un giardino bello grande per farci giocare la

bambina» dissi.Lui annuì e cominciò a parlarmi del prato che avrebbe seminato e dello stagno

che avrebbe scavato e dei cespugli che avrebbe piantato perché gli uccelli ci potessero fare il nido.

«Aah!» disse. «Un piccolo paradiso per tutti noi.»Alla fine del lavoro, Gus e Nick erano tutti soddisfatti e contenti, con le mani

sui fianchi. Il signor Batley, bianco come la morte per via della polvere, alzò il pollice e noi portammo fuori altro tè.

«Abbiamo fatto un gran bel lavoro» disse.«Sì» disse Gus. «Non c’è niente di meglio di una bella demolizione.»

nota 1 palanchini: sbarre d’acciaio usare come leva per spostare blocchi di pietra o altri carichi pesanti.

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46. Bentornata a casaLa bambina tornò a casa una domenica, una bellissima giornata, luminosa e

calda, Finalmente era davvero primavera. Papà andò a prendere lei e la mamma in macchina e io restai a casa per finire di pulire la cucina. Incartai nel giornale le vaschette da asporto della sera prima e le buttai nel bidone. Misi a scaldare il bollitore per il tè di mamma. Preparai una lattina di birra e un bicchiere per papà.

Poi andai di sopra e infilai la piuma per la bambina, sotto il suo materasso. Sorrisi perché sapevo che avrebbe fatto solo sogni bellissimi.

Aspettai guardando lo spazio vuoto lasciato dal lavoro del signor Batley e dei figli. Perfino il pavimento di cemento crepato era stato portato via. Al posto della parete posteriore c’era uno steccato di legno. Immaginai il giardino pieno dei cespugli, dell’erba e dei fiori che presto sarebbero cresciuti al posto della giungla.

Quando sentii la macchina, tremai. Non riuscivo a muovermi. Poi feci dei respiri profondi, pensai a Skellig e andai ad aprire la porta. Papà aveva la bambina in braccio. Mamma era raggiante.

«Bentornata a casa, mamma» sussurrai, usando la frase che avevo provato e riprovato.

Lei sorrise perché si era accorta di quanto ero nervoso. Mi prese per mano e mi riportò in casa, fino alla cucina. Poi mi fece sedere e mi mise la bambina in braccio.

«Guarda quant’è bella la tua sorellina» disse. «Guarda quant’è forte.»La sollevai e lei inarcò la schiena come se fosse stata pronta per ballare o per

volare. Allungò una manina e mi graffiò la faccia con le sue unghie minuscole. Mi tirò le labbra e mi toccò la lingua. Sapeva di latte e di sale e di qualcosa di misterioso, dolce e aspro allo stesso tempo. Piagnucolava e gorgogliava (nota 1). Me la portai più vicina e gli occhietti scuri guardarono dritti dentro di me, proprio nel posto dove c’erano tutti i miei sogni. Sorrise.

«Dovrà tornare per i controlli» disse mamma. «Però all’ospedale sono sicuri che il pericolo è passato. La tua sorellina è guarita, Michael.»

Coricammo la bambina sui tavolo e ci sedemmo intorno a lei. Non sapevamo cosa dire. Mamma bevve il tè e papà mi lasciò buttare giù qualche sorso di birra dalla bottiglia. Restammo lì a guardarci e a toccarci, a ridere e a piangere.

Poco dopo qualcuno bussò piano alla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti Mina. Faceva la timida e non parlava, come se non l’avessi mai vista prima. Cominciò a dire qualcosa, ma era solo un borbottìo e alla fine mi guardò negli occhi e basta.

«Vieni a vedere» le dissi.La presi per mano e la portai in cucina. Salutò i miei educatamente. Disse che

sperava di non disturbare. Papà si spostò per farle spazio intorno al tavolo e lei guardò la bambina.

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nota 1 gorgogliava: emetteva borbottii, rumori discontinui e sommessi.

«È bellissima» disse a occhi sgranati. «È straordinaria!» Poi si guardò intorno e si mise a ridere insieme a noi, ma tornò timida quando disse: «Ho portato un regalo. Spero che non vi dispiaccia».

E srotolò un disegno di Skellig, con le ali che gli salivano dalla schiena e un sorriso tenero sulla faccia bianca.

Mamma fece un salto.Fissò prima me e poi Mina. Per un attimo credetti che ci avrebbe chiesto

qualcosa, ma poi ci sorrise e basta.«E solo una cosa che ho inventato io» disse Mina. «Pensavo che alla bambina

sarebbe piaciuto averla alla parete.»«E davvero bello, Mina» disse mamma, prendendoglielo delicatamente dalle

mani.«Grazie» disse Mina, un po’ a disagio. «Ora vi lascio soli.»La riaccompagnai alla porta. Ci sorridemmo.«A domani, Mina.» «A domani, Michael.»La guardai allontanarsi nella luce del tardo pomeriggio. Dall’altra parte della

strada le venne incontro Bisbiglio. Quando si chinò per carezzare il gatto, per un secondo fui sicuro di averle visto le ali fantasma.

Tornai in cucina. I miei stavano di nuovo discutendo sul nome da dare alla bambina.

«Persefone» dissi.«Di nuovo quello?» disse papà.Ci pensammo su ancora un po’ e alla fine decidemmo di chiamarla

semplicemente Joy.