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America ! America? Sguardi sull’Impero antimoderno PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 06/2014

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America!America?

Sguardi sull’Impero antimoderno

PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 06/2014

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n. 06/2014

America! America?

pag. 2 Introduzione di Giorgio Galli

pag. 3 Editoriale: America sì, America no

Saggi:pag. 6 Giorni di ordinaria follia di Claudio Bartolinipag. 9 Il mito dell’allunaggio di Mattia Carbonepag. 13 Edward Hopper: l’ultimo dei puritani di Ilaria Floreanopag. 16 Woody Allen e l’arte della fuga dal nostro Occidente di Marco Iaconapag. 19 L’antiamericanismo “tradizionale” di Julius Evola di Alberto Lombardopag. 22 Fra le pagine d’America di Gianpiero Mattanzapag. 25 Il secolo di Mr. Hyde: l’America vista da Geminello Alvi a cura di Riccardo Paradisipag. 28 La vergine dei pavoni nei territori del diavolo di Silvio Raffopag. 31 Il popolo del mais di Diego Sobrà

Interviste:pag. 34 Marcello Veneziani: americanismo e antiamericanismo a cura di Andrea Scarabellipag. 35 Lucio Valent: nascita e ascesa di una potenza egemone a cura di Emanuele Guarnieri

Miscellanea:pag. 41 Adriano Olivetti: una visione di armonia politico-sociale di Mario Sammarone

Narrativa:pag. 46 Quando i lillà di Pierfrancesco Prosperi

Recensioni:pag. 49 Neil Gaiman: “American Gods” di Emanuele Guarnieripag. 51 J. R. R. Tolkien: “La caduta di Artù” di Rita Catania Marrone e Andrea Scarabelli

pag. 54 Segnalazioni

Antarès, Prospettive AntimoderneRIVISTA TRIMESTRALE GRATUITA

Direttore responsabile: Gianfranco de TurrisDirettore editoriale: Andrea ScarabelliCaporedattori: Rita Catania Marrone, Emanuele GuarnieriRedazione: Gianpiero Mattanza, Valerio Morosi, Natale Pezzimenti, Luca SiniscalcoHanno scritto: Claudio Bartolini, Mattia Carbone, Rita Catania Marrone, Ila-ria Floreano, Luca Gallesi, Giorgio Galli, Emanuele Guarnieri, Giorgio Guido, Marco Iacona, Alberto Lombardo, Gianpiero Mattanza, Riccardo Paradisi, Pierfrancesco Prosperi, Silvio Raffo, Mario Sammarone, Andrea Scarabelli, Luca Siniscalco, Diego Sobrà, Lucio Valent, Marcello VenezianiIllustrazioni di: Alessandro Colombo, Irene Pessino

Progetto grafico e AD: panaro designImpaginazione: Studio Caio Robi Silvestro

Edizioni Bietti - Società della Critica srl, Sede legale: C.so Venezia 50, Milano www.edizionibietti.it

In attesa di registrazione presso il Tribunale di MilanoStampa: ProntoStampa srl, Via Redipuglia 150, Fara Gera d’Adda (BG)

[email protected]ès è anche su Facebook, alla pagina “Antarès Rivista”.

Sguardi sull’Impero antimoderno

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Il presente numero è dedicato a una presentazione dei sintomi della crisi della modernità, i

quali si manifestano proprio laddo-ve è nata, vale a dire negli Stati Uni-ti. Gli approcci dei saggi sono mol-to eterogenei fra loro, quasi questi segnali non si traducessero in una completa sintomatologia. Elemen-to unifi cante, come precisa l’edito-riale, è l’antimodernismo, inteso non tanto come antimodernità ma nei termini di una messa in di-scussione dell’adorazione acritica e dell’esaltazione di un momento storico. Del quale, a proposito del-la “ideologia dei diritti dell’uomo”, sempre citata nell’editoriale, rima-ne fondamentale l’accettazione del concetto di eguaglianza secondo la lettura che ne diede Alexis de Tocqueville: «Comporre una so-cietà in cui gli uomini fossero così simili e di condizione tanto egua-le quanto può essere consentito all’indole umana… Non solo egua-li, ma liberi». Credo che il «quan-to sia consentito» si riferisca non a una impossibile e astratta eguaglianza assoluta ma a un eguale esercizio dei diritti, condizione necessaria per essere liberi – anche se non suffi ciente, come prova una società come quella nordameri-cana, nella quale l’individualismo economico ha tradotto il diritto alla ricerca della libertà dei padri fondatori in una struttura classista che il tempo non ha reso più duttile, ma rigida (ben altro dalla “so-cietà liquida” di Bauman).

Tra gli scritti, il più organico è l’intervista a Lucio Valent. Il ter-mine “schizofrenico” vi fi gura due volte, all’inizio e alla fi ne della storia nordamericana, prima a proposito del «rapporto tra colo-ni e madrepatria» e poi di quello con la «comunità europea». Al di là della accezione rigorosamente medica, il termine indica la persistenza di una patologia legata a quello che è il fi lo condutto-re del mio saggio L’impero antimoderno. La crisi della modernità statunitense da Clinton a Obama (Edizioni Bietti, Milano 2013). Le stragi ricorrenti continuano, con coincidenze che mi paiono confermare la validità dell’analisi: il libro uscì in concomitanza con la bomba esplosa durante la maratona di Boston, e ho cominciato a scriverlo il 16 settembre, il giorno in cui l’afro-americano Aaron Alexis, che era stato tra gli eroici soccorritori dell’11 settembre, nonostante precedenti di turbe mentali diventato contractor della Marina, entrava in divisa paramilitare nella sua più importante base

operativa (Navy Yard, nel centro di Washington), sparando con un fu-cile a pompa e provocando dodici morti. Dapprima si parlò di com-plici, poi questi vennero esclusi – ma ancora non si è chiarito come sia stato possibile, né la ragione per la quale, solo pochi giorni dopo, il 4 ottobre, una madre con un bim-bo a bordo abbia forzato un posto di blocco alla Casa Bianca, fi nendo uccisa dalla polizia: follia endoge-na nel cuore dell’impero.

Oltre alle stragi precedenti da me segnalate, una ha avuto un se-guito, quella alla scuola di New-town, nel Connecticut, dove il 14 dicembre 2012 il ventenne Adam Lanza uccide dodici bambini e sei adulti. Si diff onde la voce che non sia mai avvenuta, che è una fi n-zione orchestrata da Obama e dai media della sinistra per ottenere una limitazione all’uso delle armi. Oltre dieci milioni di spettatori vedono un breve fi lmato di trenta minuti che registra sul posto di-screpanze minime, contraddizioni

e rettifi che delle prime versioni, per sostenere trattarsi di un’inven-zione. Nel febbraio 2013, a Newtown arrivano da tutto il Paese ne-gazionisti, che vogliono raccogliere prove della montatura. Forse si è trattato di una campagna promossa dai fabbricanti di armi. Nel giugno dello stesso anno, una assemblea della comunità decide di abbattere l’edifi cio per ricostruire la scuola altrove. Mentre conclu-do lo scritto, altre stragi si verifi cano a New York e in Arizona.

La traduzione artistica di questa “schizofrenia” è oggetto di due saggi: quello su Flannery O’ Connor e quello dedicato al fi lm Giorni di ordinaria follia. Mentre i negazionisti di Newtown fan-no pensare, in contesti molto diversi, ad altri momenti drammatici della crisi della modernità nordamericana, altra cosa sono i dubbi sulla versione uffi ciale dell’11 settembre e un altro sorprendente negazionismo, che rifi uta di credere al culmine tecnologico della modernità, l’arrivo sulla Luna, contrappunto ad Andrea Zanzotto e il mito dell’allunaggio.

Completano i sintomi, in termini di trasformazione e allontana-mento, i saggi Il popolo del mais, il «petrolio giallo», «indice di una frattura insanabile dell’idea che l’America ha di se stessa», e Woody Allen e l’arte della fuga dal nostro Occidente: se «i sogni – come via di fuga – sono il termometro della felicità», forse è stata abbandonata la sua ricerca, base moderna della Costituzione nata dal 1776.

Introduzionedi Giorgio Galli

Il fascicolo di Antarès appena dato alle stampe, che in-daga gli Stati Uniti d’America come paradigma del vacillare della modernità, potrebbe considerarsi come

ideale continuazione del n. 4, dedicato alla crisi del modello capitalista, struttura eminentemente moderna. Modernità e americanismo sono elementi di un’equazione davvero sin-golare. Spesso vengono considerati sinonimi, specialmente dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, come notato da Romano Vulpitta in un suo recente studio (L’an-tiamericanismo in Italia, Roma 2012, p. 30). Questo però non toglie che, al tempo stesso, gli USA esibiscano le nu-merose contraddizioni della modernità. Tali considerazioni accomunano intellettuali dei più svariati indirizzi, tra cui Alain de Benoist – che sostenne queste tesi già dopo l’11 settembre – e Giorgio Galli, nel suo recente L’impero an-timoderno (della collana “l’Archeometro” di Bietti, com-plemento di Antarès), studio che è stato in certa misura il canovaccio del presente fascicolo. Trattandosi di un domi-nio molto vasto, non potremo che limitarci a dare qualche indicazione e messa a punto.

Anzitutto, parlare di antiamericanismo non equivale a essere contro l’America, ma contro il culto degli USA, esattamente come – lo ripetiamo da tempo, ma di fronte a obiezioni poco ponderate, repetita juvant – antimodernità e antimodernismo sono atteggiamenti ben distinti. Il primo è il rifiuto aprioristico dell’epoca storica in cui si vive (atteg-giamento tanto sterile quanto, in fin dei conti, impossibile), il secondo – l’indirizzo assunto da questa rivista – la mes-sa in discussione dell’adorazione acritica di quel momento storico, della sua celebrazione ed esaltazione. Di certo non saranno sufficienti rettifiche di questo tipo a rimuovere pre-giudizi assai più antichi, ma si fa quel che si può...

Discutere sull’identità della realtà americana ci dice qual-cosa non soltanto su di loro, ma anche su noi stessi. Loro – l’attuale potenza che detiene l’egemonia globale. Noi – che rispetto agli USA definiamo la nostra identità europea mo-derna. E il bilancio, a dire il vero, non è dei migliori. Il dibat-tito, spesso marcato da una certa virulenza, scatenatosi nei primi anni del nuovo millennio sull’esistenza o meno di un “impero americano” ha visto schierarsi opinionisti, saggisti e giornalisti. La ferocia con cui si reagisce di fronte a quelle posizioni che criticano l’impero statunitense è spesso for-midabile. Siamo ancora nel dominio – tutto italiano – delle “etichette”: spesso e volentieri si qualificano le opposizio-ni semplicisticamente come “fasciste” o “marxiste” per non ascoltarle, relegandole a un passato che l’America avrebbe finalmente sepolto. Eppure, come scrive Marco Tarchi in un suo studio sul quale ritorneremo, non è necessario ricorrere a nostalgismi di sorta per criticare gli Stati Uniti, «impero

inconsapevole di essere tale» (Ignatieff ) che non conosce né tollera freni, promuovendo una sregolata esportazione di capitalismo e democrazia. Di modernità, insomma.

L’antiamericanismo è una di quelle tematiche che fanno saltare del tutto le vecchie opposizioni politiche, per come si sono cristallizzate nel nostro Paese. È un fenomeno trasver-sale, che supera le barriere ideologiche di ieri, spaziando dalla Rerum Novarum di Leone XIII ad Americanismo e Fordismo di Gramsci (Torino 1975), da Adorno e Horkheimer fino a Sombart e Spengler. D’altra parte, come esistono antiameri-canismi di destra e sinistra, anche il filoamericanismo supe-ra le antiche opposizioni, caratterizzando avversari di cui è sempre più palese la radice comune. Incredibile? Basterebbe leggersi gli editoriali delle testate più famose all’indomani dell’11 settembre per riscontrarvi le stesse parole d’ordine. Il già citato Vulpitta (op. cit., p. 71), a questo proposito, nota come oggi l’antiamericanismo sia appannaggio di frange po-litiche radicali, i “centristi” – di destra e di sinistra – non essendo che appendici europee degli USA. Parole che non possiamo che sottoscrivere.

Non c’è dunque un antiamericanismo solo: d’altra parte, scrive Vulpitta (op. cit., p. 16), la molteplicità delle avver-sioni al sogno americano riflette le innumerevoli sfaccetta-ture di questo stesso sogno – nonché, ovviamente, i diversi rapporti intrattenuti dagli statunitensi con quello che defi-niscono sprezzantemente Row (rest of the world). Claudio Finzi (Europa Occidente Americhe, Roma 2009, p. 7) a sua volta parla di Americhe, al plurale, mentre Giorgio Galli ri-corda come sarebbe meglio riferirsi agli “Stati Uniti” e non all’“America” tout court, anche perché esistono altre realtà politiche oltreoceano (che, oltretutto, degli Stati Uniti su-biscono sovente l’ingerenza, gli interessi, le ambizioni).

Perché questo excursus su “destra” e “sinistra”? Per quale ragione tornare ancora su categorie la cui bancarotta e il cui fallimento progettuale – almeno a livello italiano, sebbene molti ancora ci costruiscano su carriere – sono sempre più sotto gli occhi di tutti? Semplicemente perché sono i filtri con i quali gli USA stessi interpretano ogni posizione che metta in dubbio il carattere assoluto della loro “missione ci-vilizzatrice”. Quando in Europa si avanzano dubbi sulla le-gittimità dell’operato statunitense, si è filo-sovietici oppure pazzi reazionari. Eppure, ad onta di quanto l’opinione ame-ricana percepisce, essere scettici non equivale ad auspicare il ritorno di Mussolini (il cui parere sugli USA fu peraltro molto più complesso di quanto abitualmente si creda) né a essere marxisti o comunisti, ma nasce dalla constatazione dei numerosi danni, a livello politico ed economico, che ses-sant’anni di dominio planetario, di «colonizzazione cultu-rale e psicologica» (Marco Tarchi, Contro l’americanismo,

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Roma-Bari 2004, p. 141) hanno causato. Eppure la critica statunitense si è ben vaccinata contro queste accuse, come d’altra parte i suoi allievi nostrani hanno ben imparato, sco-prendosi da un giorno all’altro «tutti americani». La tra-sversalità menzionata, purtrop-po, riguarda anche gli anatemi che colpiscono i dissensi...

Non serve essere filosovietici per pronunciarsi contro l’Ame-rica: come dimenticare le te-stimonianze di chi denunciò, ad esempio, la comunanza tra i «satelliti» dell’unione sovieti-ca e i «vassalli» dell’imperiali-smo statunitense (Alain de Be-noist, L’impero del “bene”, Roma 2004, p. 149) o gli orizzonti del tutto analoghi che permearono le ideologie dei due “blocchi”? Come ignorare quanto scrisse Ernst Jünger, nel suo Stato mon-diale, a proposito dell’identità di stella bianca e stella rossa? Come non ricordare le parole del filosofo Julius Evola, a cui è dedicato uno specifico con-tributo, il quale, sulle colonne della Nuova Antologia, definì in tempi non sospetti america-nismo e bolscevismo – identici, da un punto di vista metastori-co – come le braccia di una te-naglia in procinto di stringersi sull’Europa?

Riferimenti perlopiù sbattu-ti nel dimenticatoio, soff ocati da un terrifi cante buonismo da primi della classe, che tuttavia è pronto a squalifi care l’avversa-rio come Male Assoluto, nulla risparmiando, nulla escludendo, laddove si tratti di annientarlo moralmente, fi sicamente, spi-ritualmente – «il mondo non capisce quanto siamo buoni!» di George W. Bush, pronunziato un mese dopo l’attacco al World Trade Center. La straordinaria ingenuità degli americani li por-ta a non concepire nemmeno che da qualche parte del pianeta qualcuno possa essere in disaccordo con la loro “missione”. «L’olografi a della inarrivabile bontà americana», così defi ni-ta da Marco Tarchi (op. cit., p. VI), è facilmente riscontrabile in quello che è un capolavoro della vulgata a stelle e strisce, sul quale ritorneremo in questo numero (L’antiamericanismo in Europa, Soveria Mannelli 2007, p. 11), in cui Russel A. Berman, lungi dal considerare sintomatico di un certo agire americano le ondate di antiamericanismo diff use in Europa, aff erma che queste recano le «strutture ossessive di un modo di pensare fatto di pregiudizi e stereotipi» (p. 50), «una

fantasia politica, una visione illogica e ideologica» (p. 52), «un’eccedenza isterica che va oltre la ragione» (p. 76). Che l’antiamericanismo sia in buona parte condizionato da ele-menti storici esterni agli USA è naturale. Accade per qualsiasi

fattore storico, perché non do-vrebbe valere anche per questo? Ma che la condotta globale statu-nitense non ne sia minimamente responsabile...

Molti di costoro, poi, giungo-no all’imprudenza di parlare di declino dell’impero [sic!] statu-nitense, minimizzando il ruolo ricoperto dagli USA a livello globale. Anche qui, valga quanto detto sopra. Ascrivere agli Stati Uniti la responsabilità di qual-siasi cosa accade sul pianeta è eccessivo e unilaterale – questa, forse, sarebbe un’autentica os-sessione. Il che non toglie però che gli USA rimangono la po-tenza militare più importante e influente del mondo, nonché il centro planetario della finanza. Come non ricordare le parole di una Eleonora Duse – Ma ils se tuent, ces gens la! (Ma questi si ammazzano!) – sgomenta di fronte alla Borsa di Chicago?

Simile posizione, tuttavia, non è in nulla e per nulla assimi-labile a molti di quei movimenti no-global, i quali, pretendendo di monopolizzare le opposizio-ni a un sistema pur totalitario e imperialista (non imperiale!), offrono la sponda a quegli stessi filoamericani, nostrani e statu-nitensi. Detti movimenti con-testano appieno la dimensione politica statunitense ma non a sufficienza quella culturale, nu-trendosi in fondo delle premesse dello stesso sistema che vorreb-bero criticare – giungendo perfi-no, per una curiosa, ma non im-prevedibile, eterogenesi dei fini, a rafforzarlo. Mancando spesso e

volentieri di ogni sorta di portata realmente rivoluzionaria, sono le loro guerriglie urbane a puntellare il capitale, quando quest’ultimo vacilla, agli occhi dell’opinione pubblica. Ma gli attuali new global, occupy..., indignados e via dicendo non detengono il monopolio dell’antiamericanismo, sebbene oltreoceano – ma non solo – si finga d’ignorarlo. È anche grazie a costoro che l’America è diventata un mito, che vede fautori a oltranza, persuasi che essa sia il faro della nuova umanità, e detrattori tout court, che la dipingono come in-carnazione del Male.

Non che gli americani non abbiano la minima responsa-

rica si è costituita per uscire dalla storia», scriveva Octavio Paz. Sono gli Stati Uniti ad aver voltato le spalle al rest of the world, alle «raffinate muse dell’Europa» (Emerson) e non viceversa, come sottende il vittimismo di certi filoamericani. Il distacco dall’Europa da parte del «perpetuo monumen-

to ed esempio a emulazione e aspirazione degli altri pae-si» (Thomas Jefferson), della «Nuova Gerusalemme» (Ge-orge Washington), si palesa già nella dichiarazione del presi-dente Monroe, che precluse al mondo europeo qualsiasi deci-sione di ordine politico all’in-terno del continente america-no, situato in una magnifica «condizione di isolamento», alienato dalle scaramucce po-litiche del Vecchio Mondo e del Row «dal vasto oceano che ci separa da quelli», come scrisse Jefferson allo scienziato tedesco Alexander von Hum-boldt (Ivi, p. 15). In queste righe è possibile decifrare buo-na parte delle scelte politiche che seguiranno, mettendo a repentaglio la pluralità delle culture, la loro ineguaglianza – patrimonio inalienabile che tanto scandalo genera presso i progressisti, che vorrebbe-ro omologarle in un disegno unico, di cui, guarda caso, essi stessi sarebbero i guardasigilli –, quella loro irriducibilità che è un dovere salvaguardare e proteggere dall’egualitarismo propagandato dai bombarda-menti e dal politically correct a mano armata, nell’epoca dell’american dream...

Il presente numero ospita la rassegna di una serie di critiche controcorrente agli USA, che esplorano l’universo america-

no aff rontando tematiche e punti di vista poco noti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua introduzione, non intende for-nire una sintomatologia completa della crisi della modernità statunitense, non ha la pretesa di essere una guida all’“impero antimoderno” ma un pungolo, uno stimolo atto a considerare la realtà globale in cui ci troviamo catapultati al principio del XXI secolo come un multiverso a più dimensioni, senza che alcuno oh yes, we can si arroghi il diritto di regolare tutti gli orologi del pianeta sul proprio. Gli articoli contenuti in que-sto fascicolo aff rontano la crisi della modernità assumendo come punto di riferimento gli Stati Uniti, luogo che alla mo-dernità politica – come messo a fuoco da Giorgio Galli – ha dato i natali, ma che esibisce, al contempo, tutti i sintomi di quella crisi che è cifra fondamentale del nostro tempo.

bilità nella costituzione del mito che li ha come oggetto. L’ideologia americana è infatti impregnata da un messia-nismo senza pari. Costanzo Preve (L’ideocrazia imperiale americana, Roma 2004, p. 11) la definisce «una ideologia messianica di origine puritana seicentesca, frutto di una (apparente) laicizzazione della dottrina calvinista». Concetti, questi, già formulati nell’ormai introvabile Il male americano del 1978, firmato da Giorgio Locchi e Alain de Benoist, primo volume dedicato all’an-tiamericanismo nel secondo dopoguerra italiano. Eric Voe-gelin, nella sua Nuova scienza politica (Torino, 1968) colora il progetto americano di tinte addirittura gnostiche.

Da parte americana? Come non ricordare le parole del presidente John Adams, che parlava degli USA come di una «Repubblica pura e virtuosa che ha il destino di governare il globo e di introdurvi la perfe-zione dell’uomo» (cit. in Alain de Benoist, L’impero del “bene”, cit., p. 15). È la celebre dottrina del destino manifesto, che vede gli americani, popolo eletto da Dio, impegnati in un’opera di evangelizzazione planetaria e contrapposti all’Europa non solo come «potere a potere» ma come «altare ad altare» (Metternich). Il tutto, senza esclusione di mezzi: raccapric-cianti, ad esempio, le parole di Benjamin Franklin, il quale considerò l’alcool venduto agli Indiani d’America come un mezzo fornito dalla Provviden-za, al fine di «distruggere que-sti selvaggi per lasciare spazio ai coltivatori della terra» (cit. in ivi, p. 31). Siamo innanzi a un nazionalismo dalle forti tinte messianiche (William Pfaff ), il quale si serve dell’ideologia dei diritti dell’uomo, denunciata da Marco Tarchi (op. cit., p. 20) e Alain de Be-noist (Oltre i diritti dell’uomo, Roma 2004), la quale, in tut-ta la sua innocenza, incarna la diffusione su scala globale di un paradigma regionale, relativo al solo Occidente, spesso e volentieri accompagnando olocausti e carneficine.

La realizzazione di questo messianismo escatologico fa da sfondo anche ai rapporti tra Nuovo e Vecchio Mondo. Gli stessi Pilgrim Fathers, protestanti estremisti, voltarono le spalle all’Europa, mossi dal desiderio di fondare nel non-luogo del continente americano un’utopia incarnata. La fuga – indotta – dal «malvagio mondo europeo» li portava verso una «nuova terra promessa» (Finzi, op. cit., p. 60). «L’Ame-

“L’antiamericanismo

è una tematica che fa saltare

le vecchie opposizioni politiche,

almeno per come si sono

cristallizzate nel nostro

Paese”

“Quello americano

è un buonismo da primi della classe, pronto a s�ualificare

l’avversario come Male assoluto,

nulla escludendo laddove si tratti

di annientarlo moralmente e

spiritualmente”

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dove la ferita è aperta, spalancata, dolorosa. Per mettere a fuoco i mutamenti di prospettiva sul fenomeno che il cinema statuni-tense ha proposto in epoca postmoderna, è inevitabile prendere le mosse dai fotogrammi con i quali Schumacher, nel 1993, apre e chiude il suo Un giorno di ordinaria follia. Il primissimo pia-no sugli occhi sbarrati di Michael Douglas, preludio alla rivolta armata dell’uomo comune William Foster, è una dichiarazione di intenti piuttosto esplicita del regista, solido mestierante di cinema action e non certo autore tra i più raffi nati nell’uso del linguaggio fi lmico. Un close-up, per Schumacher, non implica altro che l’immediata funzione di un close-up. Dunque, la scelta di iniziare la messa a tema della strage a venire dallo sguardo dell’individuo comporta un’attenzione spasmodica al protago-nista, alla sua follia che di lì a poco comporterà la defl agrazione dello stragismo soggettivo. La scelta di una prospettiva indivi-dualista torna nel fi nale, quando Foster, ormai fi sicamente mor-to, viene mostrato in un video di famiglia rimasto acceso nella casa della ex moglie. Ancora il primissimo piano sugli occhi, questa volta mediato dallo schermo televisivo, a signifi care che Foster, dopo aver dato la vita per compiere la sua personalissi-ma strage, è pronto a rivivere in forma di notizia, di precedente storico, di ammonimento alla nazione. Diffi cile, dunque, posi-zionare Un giorno di ordinaria follia nello spazio riservato alle grandi trattazioni macrosociali del cinema americano.

Eppure, accanto all’indagine minuziosa e complessa del suo protagonista, Schumacher incoraggia la formulazione di ipo-tesi sulla relazione tra gli obiettivi della strage di Foster e il rapporto tra quest’ultimo e la società capitalista americana. Il fi lm procede infatti su un doppio binario evidente in termini di sceneggiatura. Se da una parte l’uomo comune viene raccontato come unicum, la cui sola motivazione resistente è di carattere individualista («Vado a casa» come dichiarazione di intenti immutabile e sottesa a tutta la narrazione), dall’altra è messo in contatto con simboli sociopolitici ben evidenti e multiformi. Nel corso del suo pellegrinaggio sulla via di casa, Foster è sem-pre più armato (dalla mazza al coltello, dal mitra al bazooka) e anarchico, deciso a smentire qualunque lettura tesa a incasel-larlo in uno schieramento politico univoco. Se inizialmente appare reazionario nelle parole e nei comportamenti rivolti a un negoziante coreano («Vieni nel mio Paese, prendi i miei soldi e non hai neanche il riguardo di imparare la lingua?»), con il prosieguo della narrazione rivolge le sue armi contro ogni persona o entità ritenuta in contrapposizione ai propri ideali di uomo americano “liberal”. Poco importa che i destinatari dello stragismo siano teppisti sudamericani, homeless, soci di un golf club di lusso, gestori di un fast food o neonazisti, facendo appa-rire di volta in volta il protagonista come estremista di destra o rivoluzionario di sinistra, progressista o conservatore, capitali-sta o antimoderno. Ciò che conta è soltanto la matrice comune ai gesti di ribellione stragista: la difesa – del tutto opinabile in termini etici, ma altrettanto coerente a livello programmatico – dei diritti del cittadino. «Io sono dalla sua parte, lo capisce? Siamo uguali», aff erma il negoziante neonazista tentando un inquadramento politico. «Noi due non siamo aff atto uguali. Io sono americano e lei è un maniaco stronzo», risponde William Foster, infastidito da questo tentativo di omologazione e deci-so a riaff ermare (lo farà attraverso l’omicidio) la propria diver-sità da modelli che non siano in tutto e per tutto aderenti ai (dis)valori del conformismo statunitense. Non è un caso che Foster lavori alla fabbrica del Ministero per la Difesa, né che la

targa della sua auto reciti “California D-Fens”: il suo obiettivo è ristabilire l’ordine degli Stati Uniti, tornando a casa (corpo sociale americano primario) e, nel frattempo, ribellandosi in forma stragista a tutti gli attacchi disfunzionali a tale ordine. «Cerco di proteggere l’America. Dovrebbero darmi un premio, invece lo danno a un chirurgo plastico!», sentenzia prima di essere ucciso, sentendosi tradito e abbandonato proprio da co-loro (fi glia, ex moglie, cittadini americani) per i quali è arrivato a tanto.

Nella resistenza all’omologazione di Foster è dunque ribadito l’approccio fortemente individualistico al fenomeno stragista adottato dall’opera di Schumacher, interessato esclusivamen-te alla follia soggettiva, sebbene nata da un istinto ribelle nei confronti delle anomalie del sistema. È nella presa di distanza dal reale (la storia di Foster è pura fi ction, distante da ogni pos-sibile riferimento a un singolo caso di cronaca) che il regista e lo sceneggiatore Ebbe Roe Smith trovano la loro dimensione archetipica, confi gurando una narrazione che diventa emble-matica descrizione della vita americana, senza però esserne la rappresentazione esatta. Negli anni Novanta, il cinema statu-nitense adotta un’ottica di lettura fi nzionale nei confronti dello stragismo interno, evitando di confrontarsi con l’esattezza cro-nachistica. Un giorno di ordinaria follia diventa così paradigma di realtà, simulacro di ciò che si legge sui giornali e si vive per le strade, via di fuga artistica per mezzo della quale rifl ettere su ciò che sta succedendo davvero. Lo stragismo è rappresentato in tutti i suoi risvolti individuali, con quella distanza dalla ferita pulsante del reale che permette di andare fi no in fondo in termi-ni tematici, linguistici e drammaturgici. In poche parole: niente paura, è solo fantasia, come verrà ribadito a chiare lettere dal successivo Assassini nati (Natural Born Killers) di Oliver Stone, uscito nelle sale l’anno successivo e ancor più estremo e libero del precedente di Schumacher.

A distanza di un decennio, però, il cinema americano si pren-de le proprie responsabilità e vira verso una profondità di ri-fl essione ben più matura e consapevole. Lo stragismo interno, dopo l’attacco subito l’11 settembre, diventa un fenomeno di primissimo piano tanto nella rifl essione sociopolitica quanto nella vita americana di tutti i giorni. Il cinema accoglie e fa sua una necessità primaria, tornando a più riprese a occuparsi del-la strage alla Columbine High School – avvenuta nel 1999 – come exemplum per una piena presa di possesso dell’argomento nelle sue urgenze reali(stiche) più evidenti. A dieci anni esatti dall’uscita di Un giorno di ordinaria follia, la rifl essione fi lmica sullo stragismo subisce uno scarto non indiff erente. Con Ele-phant, Gus Van Sant ricostruisce le ventiquattro ore precedenti la strage (anche la storia di Schumacher copriva l’arco di una giornata), raccontandole dalla prospettiva di dodici personag-gi ed evitando così ogni coinvolgimento a carattere soggettivo. Se dunque il cinema fa un passo avanti nella rappresentazione della contemporaneità disfunzionale, ne compie uno indietro nella ricerca delle motivazioni alla base del gesto stragista. In termini di presenza sullo schermo, i due killer della Columbi-ne High School ottengono pari dignità rispetto agli altri per-sonaggi, a dimostrazione di quanto l’interesse fi lmico non sia orientato sulle ragioni del loro agire, quanto invece sulla crona-ca di una tragedia americana. Van Sant raggela il tono emotivo della pellicola, consegnandoci una follia immotivata (le poche battute neonaziste dei killer o la loro condizione di emarginati a scuola sono il rifl esso di interiorità burrascose ma non spiega-

stampo olistico (il folle è reso tale dal contesto capitalistico che lo ospita, dunque il suo gesto è la conseguenza di un sistema di vita ancora più folle), è interessante considerare come il cinema – arte moderna e, dunque, preposta alla rifl essione sui fenome-ni contemporanei – abbia preso in considerazione il fenomeno nell’arco degli ultimi vent’anni, modifi cando il proprio approc-cio in tema di stragi intestine e la propria rappresentazione del fenomeno in forma di fi ction. 1993: Un giorno di ordinaria fol-lia (Falling Down, Joel Schumacher); 2003: Elephant (Gus Van Sant); 2013: La notte del giudizio (Th e Purge, James DeMona-co). Curiosamente, tra i testi chiave per comprendere i muta-menti delle consuetudini cinematografi che stragiste intercorro-no esattamente dieci anni, come a sancire un endemico bisogno nutritivo dell’immaginario artistico americano, quasi obbligato a tornare puntualmente – e con cadenza regolare – a battere

di Claudio Bartolini

Giorni di ordinaria follia

Kiss Kiss, Bang Bang. Un bacio e una pistola, per ama-re l’America e all’America ribellarsi in forma di strage. Gesto di follia o lucida reazione al sistema? Violenza

connaturata all’uomo a stelle e strisce o rivolta armata contro gabbie e strutture disumanizzanti? Gesto anticapitalista o estre-ma adesione al capitale, perpetrata per mezzo di quelle stesse armi sul cui commercio esso ha posto le proprie basi di politica interna e (soprattutto) estera? Diffi cile spiegare senza margini di errore in cosa consista esattamente il fenomeno dello stragismo, che dal 1968 ha scandito stagioni di sangue in terra statuniten-se. Sangue americano versato su suolo americano, a causa di gesti americani diffi cili da motivare, ben più semplici da considerare nel loro esito terminale. Se la forbice interpretativa della socio-logia comprende letture a matrice individualista (il responsabile di una strage è il folle che la commette) contrapposte ad altre di

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“Negli ultimi

vent’anni, il cinema

statunitense si è spesso

soffermato sul fenomeno

dello stragismo armato

te, né spiegabili, dal cinema di inizio millennio) e lucidamente incastonata in un tessuto fi lmico artisticamente ricercatissimo. Niente introspezione, insomma, soltanto la lucida messa in sce-na di una realtà nella quale la quotidianità degli stragisti ha pari valore rispetto alle altre.

La macchina da presa dell’autore non stacca mai l’obiettivo dagli studenti: nessuna dispersione o fuga, a vantaggio della cronaca e di un realismo poetico, quasi lirico, utilizzato per co-niugare documentarismo e arte attraverso piani-sequenza musi-cati sugli alunni e il loro modo di muoversi e mappare l’universo sociale conosciuto (la scuola), in un sofi sticato montaggio “a in-castro” delle singole vicende. Il cinema fi nzionale inizia a rispon-dere a un’urgenza ben precisa, de-legando al documentario la ricer-ca delle ragioni devianti (Michael Moore aveva ragionato nel 2002 sul commercio delle armi, parten-do dalla stessa strage, in Bowling a Columbine) e assolvendo al com-pito di ricostruire – con lecito distacco emotivo – una realtà al-trimenti patrimonio esclusivo di letture a posteriori. In Elephant il reale ritorna, attualizzato e visibi-le nel suo svolgersi e non, sempli-cemente, nelle sue conseguenze a strage avvenuta. Lo spettatore di Van Sant ha modo di assistere a come è avvenuto il massacro e non, semplicemente, a cosa è av-venuto. Tuttavia, non può com-prendere del tutto le cause della follia, poiché questa tipologia di approccio fi lmico è tesa a raccon-tare e non a motivare. Questione di responsabilità, perché se Schu-macher poteva permettersi lettu-re introspettive su un personag-gio da lui (e da Roe Smith) creato, Van Sant non può arrogarsi la paternità su individui realmente esistiti. Ecco dunque spiegato il passo indietro in termini emotivi e individualistici, compiuto da un’arte matura e consapevole delle proprie responsabilità, delle urgenze cui rispondere, ma anche dei propri limiti.

Dopo aver ideato storie stragiste negli anni Novanta e aver riattualizzato cronache stragiste nel primo decennio del nuovo secolo, il cinema americano scarta di nuovo e supera la storia, imparando a formulare possibili disfunzioni future in materia di stragismo. Durante la lavorazione del suo Gangster Squad del 2013, Ruben Fleischer gira una sequenza nella quale una sparatoria all’interno di un cinema provoca morti e feriti tra i civili. Dopo il massacro di Aurora del 2012, il fi lm esce nelle sale mutilato della suddetta sequenza, segno di una volontà di distacco dalla lettura realista di un simile episodio fi nzionale. Sospendendo ogni giudizio su tale scelta, rimane una curiosa capacità preveggente dell’artista sulle potenzialità stragiste in seno alla società americana.

A distanza di altri dieci anni esatti da Elephant, nelle sale americane esce La notte del giudizio, il cui ottimo riscontro ai botteghini rende conto di un’indubbia effi cacia nel ritrarre le endemiche disfunzioni proprie al senso comune statunitense. Trattasi di una pellicola ambientata nel 2022, in un’America nella quale, allo scopo di mantenere l’ordine e debellare il crimi-ne, i Nuovi Padri Fondatori hanno istituito un periodo di dodi-ci ore ogni anno denominato sfogo. Durante questa fi nestra tem-

porale, le istituzioni rinunciano volontariamente al proprio ruolo e i cittadini sono liberi di esprimere ogni impulso, certi della liceità di ogni loro azione. Stragismo auto-rizzato, patrocinato e incoraggiato dallo stesso governo, sovrastruttu-ra pesante in grado di schiacciare ogni residuo soggettivo. La teo-rizzazione dello sfogo come ca-tarsi liberatoria – grazie alla quale vivere in pace il restante periodo dell’anno – altro non è che l’estre-mizzazione dell’esistente, la messa in potenza delle direttrici devianti narrate in forma liberamente nar-rativa negli anni Novanta e in pe-dinamenti artistici del reale eff et-tuati nei primi anni Duemila. C’è meno fantasia di quanto sembri, ne La notte del giudizio, excursus (anch’esso di ventiquattro ore die-getiche) sulle potenzialità distorte di un sistema sociale esposto al rei-terarsi del fenomeno stragista. Se, nel caso della sequenza di Gangster Squad, il legame con la realtà pros-sima ventura è stato ribadito dagli eventi immediatamente successivi alle riprese, l’opera di DeMonaco non può godere di un riscontro immediato. Ma l’elemento di in-teresse della sua rifl essione non risiede nella prefi gurazione in sé

– talmente estrema da non godere di alte percentuali di possi-bile realizzazione – quanto nella maturità cinematografi ca della quale è indice e rilevatore.

Per giungere a una simile operazione di intrattenimento so-ciologico, il dispositivo fi lmico ha acquisito negli anni gli stru-menti per poter coniugare le correnti fi ction di Un giorno di ordinaria follia a quelle sociologiche di Elephant, diventando foce per un discorso che si fa (divertente) previsione di scenari possibili, basata sui dati certi del fenomeno stragista.

Arte del racconto capace di rideclinare, affi ancare e rappre-sentare, quindi oltrepassare la contemporaneità, il fi lm si fa strumento di lettura sempre più consapevole delle ferite pul-santi del corpo sociale statunitense. E allora non ci stupirebbe più di tanto se, giunto all’anno 2022, il cittadino americano fosse costretto a installare armature blindate e sistemi di sicu-rezza di livello massimo, mentre il suo vicino di casa affi la la lama del suo machete preparandosi all’annuale sfogo. Kiss Kiss, Bang Bang.

di Mattia CarboneIl mito dell’allunaggio

Storia e poesia: due campi del sapere e dell’umano appa-rentemente distinti, eppure così simili. Non è forse la po-esia la storia dell’anima dei grandi poeti? La testimonian-

za, il documento di un vissuto (e quindi profondamente storico) di cui non rimane che la debole traccia d’una parola? I fatti, così come avvenuti, rimangono sempre al di là del documento che li tramanda; il nostro rapporto con ciò che è preterito è ga-rantito soltanto da quelle magre testimonianze che ne hanno voluto lasciare gli spiriti autenticamente storici. Si può essere a un tempo poeti e storiografi ? Forse non si può non esserlo. Un poeta, in quanto reca una testimonianza, è storico nella sua essenza, è chiamato a corrispondere al verifi carsi della storia in quanto suo osservatore. Non sarà forse “oggettivo”, miraggio di esattezza cartesiana che l’eterno scontro di ideologie e interpre-tazioni non è ancora riuscito a dissipare da molta storiografi a contemporanea, giornalettistica, aff amata di verità dure come il marmo. La sua testimonianza vivrà sempre del particolare

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momento di cui fa parte, e quindi porterà con sé tutte le idio-sincrasie, le sviste e i luoghi comuni del proprio tempo – ma anche lo spirito essenziale di quell’epoca.

Il fatto storico, insomma, non è qualcosa sussistente in sé e per sé al di fuori di una cifra, una data, un conto di vittime o di partecipanti: esso è piuttosto il ricettacolo dell’interpretazio-ne che se ne vuol dare all’in-terno della catena degli eventi, oppure l’oggetto di una trasfi -gurazione poetica, che di quel fatto vuol svelare la dimensione mitica, la capacità di parlare a chi lo ha vissuto (o a chi ne leg-gerà) come testimonianza non solo del proprio tempo, ma di ciò che esso testimonia come momento fondamentale della lunghissima storia del genere umano. In ciò consiste il trat-to di fondazione della grande poesia di ogni tempo: aprire e consolidare i mondi storici, consegnandoci il complesso di valori e signifi cati su cui si basa la sua autocomprensione.

C’è un fatto della nostra sto-ria contemporanea che, per il suo valore mitico e simbolico, ha impressionato un poeta del-la nostra tradizione al punto di suggerirgli un poemetto che racchiude in sé le due dimen-sioni della poesia e della storia, svelandone l’identità origina-ria. Il poeta è Andrea Zanzot-to; il poemetto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal1; l’evento storico, lo sbarco degli astronauti ame-ricani sul suolo lunare del 20 luglio 1969.

Di fronte al valore simbolico di un evento, la domanda sulla sua verità fattuale – se si sia cioè verifi cato o meno – è oziosa. Vale per sempre il detto di Jung su Dio, della cui realtà metafi -sica non si può dire nulla ma la cui infl uenza simbolica e cultu-rale ha un eff etto di verità che prescinde completamente dalla sua esistenza2. Inutile, quindi, tutta la polemica sulla presunta truff a del Governo americano ai danni dei poveri creduloni del ‘69 e di oggi (ancora convinti che la bandiera americana possa sventolare su una Luna priva di atmosfera o non gettare ombra sul suolo, dal momento che è

stata “incollata” sui fotogrammi da un maldestro fotomontatore d’antan). Che sia successo o meno, l’uomo ha toccato la Luna il 20

luglio 1969. O meglio, un suo rappresentante, dalla nazionali-tà ben defi nita: un americano.

C’è una logica in questo: che la Luna sia stata visitata per la prima volta nel XX secolo, mez-zogiorno splendente dell’età della tecnica, atto a produrre i mezzi necessari; che ne siano gli Stati Uniti, i padroni incon-dizionati del Secolo, i respon-sabili. In un certo senso, anche Zanzotto, quando scrive Gli Sguardi, percepisce e trasmette questa necessità, pur restando fermo su una posizione total-mente negativa nei confronti del “fatto” (nome dato all’allu-naggio in diversi momenti del poemetto). Sì, perché il “fatto”, al di là della vuota retorica di cui è stato reso oggetto, è perce-pito dalla sua sensibilità poetica nei termini di una “profanazio-ne” e un “ferimento”.

Lasciamo parlare il poeta: «Il ferimento del mito originario lunare (cioè di Diana) non è solo il ferimento di un qualche cosa che è sepolto nel profondo dell’uomo e che riappare come trascendenza-lontananza – un punto di fuga cui bisogna ap-prossimarsi – ma è anche, nel-la realtà attuale, la distruzione capillare dei tessuti psichici che hanno retto l’umano per decine di millenni»3. All’even-to dell’allunaggio è attribuita una valenza negativa, in quanto simbolo del destino di profana-zione della sfera del sacro e del trascendente che nel Novecen-to ipertecnicizzato raggiunge il suo culmine: lo shuttle atterrato sul suolo lunare è trasfi gura-to in un coltello aff ondato da mani assassine nell’«immenso corpo di bellezza» dell’astro e l’annuncio di questa dissacra-zione è dato, ironicamente, dai «fi lmcroste in moda» e i «fu-metti in ik», prodotti fi lmici e fumettistici di una sottocultu-ra che ha perso totalmente la

dimensione sacrale e mitica; il sangue diviene immagine di un ferimento, atto di violazione (anche, metaforicamente, sessua-le) da parte del genere umano il quale, guidato da un’ansia di

“Di fronte al

valore simbolico di un evento, la domanda

sulla sua verità fattuale appare

oziosa. Che le polemiche

sulla realtà dell’allunaggio

siano vere o false, l’uomo

ha toccato la superficie lunare il 20 luglio 1969

ricongiungimento male interpretata e male assecondata, fi nisce per annullare in un solo colpo quella distanza che era garanzia del valore simbolico della Luna, punto di fuga dell’attività mi-tica e simbolica. In questo senso, il “piccolo passo per l’uomo” è un avvenimento epocale: rappresenta esemplarmente la fi ne del genio mitologico-simbolico e sancisce il suo defi nitivo trapasso nel mondo polveroso e asettico della tecnica.

Eppure, in un altro passo, Zanzotto parla dell’allunaggio come di un evento «abbastanza banale». Per quale motivo? «In primo luogo perché non ha mo-tivazioni che non siano banali, e queste motivazioni consistono soprattutto nella lotta di presti-gio tra le due superpotenze (o meglio superimpotenze) che, in margine all’elaborazione di un programma missilistico per di-struggersi a vicenda, mettono a punto anche il razzo per andare sulla Luna. Siamo di fronte a un sottoprodotto delle “macchine” atomiche le quali, nel loro ten-tativo di distruggersi a vicenda, scoprono anche momenti di pau-sa in cui elaborare qualcosa di assolutamente inutile, come ap-punto la conquista della Luna»4. Con un’acutezza degna del suo occhio storico, Zanzotto con-testualizza il “grande passo per l’umanità” nella logica del con-fl itto di prestigio e potenza tra Russia e Stati Uniti durante la Guerra Fredda: nulla più che un inutile trofeo, una vittoria simbo-lica sul nemico che non avrebbe portato alcun vantaggio, nemme-no in termini scientifi ci5. È una contraddizione: se l’allunaggio è inteso come ultimo atto del lento processo di decomposizione del mito, d’altra parte vediamo che esso si presenta a sua volta come un atto simbolico assolutamente svincolato da un profi tto o un progetto di funzionalità tecnica, ma dettato da un ultimo fremito di vita mitica nel corpo esanime dell’uomo tecnicizzato del No-vecento. Anche la denuncia di questa contraddizione si perce-pisce nelle parole di Zanzotto: «In realtà, nella conquista della Luna, si è rivolto un inchino, non sappiamo se più idiota o astuto, al precipitato mito anti-chissimo, alla Luna come emblema dell’irraggiungibile, pun-to di luce dell’assoluto, test di ciò che sta di fronte all’umano, quasi immagine stessa della trascendenza. Si sa che nella fan-tasia collettiva di pressoché tutti i popoli questo fantasma di trascendenza, di irraggiungibilità, è molto spesso raffi gurato

appunto nella Luna, nell’emblematicità della Luna. Chi aves-se, pertanto, toccato la Luna, si sarebbe aggiudicato il titolo di un’“assoluta” supremazia. È dunque un caso di dissacrazione funzionalizzata, che ha in sé tutti i tratti più ripugnanti (bana-li) della realtà odierna»6.

Molto interessante risulta l’espressione utilizzata per riassu-mere le considerazioni sull’allunaggio: dissacrazione funziona-lizzata. Questa nozione ha molto in comune con il concetto

kerenyiano di mito tecnicizzato: esso non scaturisce dal movi-mento simbolico originario (di carattere collettivo e spontaneo) che presiede alla formazione dei mitologemi genuini, ma è con-fezionato ad hoc, quasi riprodot-to in provetta da una ristretta comunità (per lo più politica) che se ne serve per il consegui-mento di propri fi ni, sfruttando l’innato potere del simbolo per convincere il maggior numero di persone della felicità dei suoi propositi7. Un mito, insomma, che non scaturisce – prendendo a prestito le parole di Zanzot-to – dai «tessuti psichici che hanno retto l’umano per mi-gliaia di anni» ma è piuttosto un traviamento simbolico, una dissacrazione funzionalizzata: un pervertimento fi nalizzato, appunto, al conseguimento di determinati scopi, quali ad esempio la supremazia sul nemi-co sovietico. Kerényi parlava, in quegli anni, da studioso di mito-logia in un mondo vessato dalla retorica pseudo-mitologica dei totalitarismi, rappresentanti per eccellenza di quella pratica di riesumazione forzata di miti defunti (dissacrazioni, direm-mo, funzionalizzate), rimessi a nuovo da un velo di belletto retorico per ergersi a stendar-di di una presunta rinascita del genere umano, condotta all’in-segna della sopraff azione e della distruzione.

È con una certa inquietudine che si rileggono, ora, le parole di uno Zanzotto critico della cul-tura e della civiltà, che presen-

ta il faccione amichevole dello Zio Sam sotto una nuova luce, quella di un potere ubriaco di sé che, nella magrezza dei tempi, sfrutta l’innata forza dei miti per aff ermare la propria suprema-zia sul nemico, calpestando senza pudore i recinti del sacro e del simbolo, dissacrandoli e funzionalizzandoli a proprio piaci-mento, per la gloria di un altro mito, del tutto nuovo stavolta: quello americano, fatto di vittorie disseminate lungo tutto il

“L’America sfrutta il potere eterno

dei simboli al fine di imporre

la propria supremazia, violando i

confini del sacro in nome di

un mito del tutto nuovo, �uello statunitense

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sentiero del Secolo, miraggi di benessere e ansie da accerchia-mento che denunciano una debolezza congenita.

A quel seme di cattivo irrazionalismo che giace al fondo di qualsiasi pervertimento della natura originaria del mito, spon-tanea e collettiva, Zanzotto risponde con una preghiera consa-pevolmente utopica, forse un poco ingenua, ma sincera: «Se in un mondo già molto migliore del presente, con squilibri molto più ridotti, si fosse anche poeticamente messo a punto un pro-gramma spaziale, la cosa sarebbe stata bellissima, vorrei dire re-ligiosa, un vero atto di culto, non solo lunare»8.

La realtà moderna è però ben diversa, e Zanzotto ne è consa-pevole. Questo evento storico, banale o eccezionale che dir si voglia, che del mito e del sacro conserva solo una traccia sbiadi-ta, può tuttavia riscattare la propria tremenda povertà grazie alla poesia: sarà il poeta a scoprire, sotto la patina delle opinioni, dei fi lmati di consumo e del chiacchiericcio multimediale, il vero signifi cato storico dell’allunaggio: il destino di annientamento del mito e del simbolo nell’età della tecnica.

Come precisa lo stesso Zanzotto, un discorso – poetico – che voglia fi ssare gli elementi della profanazione e della dissolu-zione del mito non può presentarsi altrimenti che disgregato, frammentario, in modo che la forma divenga immagine della verità che si vuole mostrare. E l’architettura formale de Gli Sguardi è infatti articolata in quarantanove voci, segnate da trattini e divise in lasse di varia misura, che dialogano con una voce centrale e stabile (la cui presenza è segnalata da virgolette supplementari) che riferisce il punto di vista dell’istanza lunare profanata. Ma il discorso poetico, costitutivamente disgregato9, non vuole cristallizzare in forme fi sse i personaggi e gli attori della sua messinscena: esso lascia piuttosto alle fi gure che im-piega una generale indeterminazione, un’apertura di senso che mima (o tenta di farlo) la costitutiva vaghezza del simbolo; la voce centrale non sarà quindi solo l’istanza lunare, o una sua prosopopea, ma anche, di volta in volta, il Femminino, l’ordine semiotico del linguaggio, il deposito inconscio delle proiezioni delle migliaia di esseri umani che, secondo Zanzotto, fi n dalla notte dei tempi rivolgono alla Luna le proprie preghiere, proie-zioni di desideri più o meno consci; non da ultimo, essa viene identifi cata con la parola, che nasce dall’incontro tra l’incon-scio del poeta e il dettaglio centrale della prima tavola del test di Rorschach, come in una seduta di psicoanalisi. Con geniale artifi cio, Zanzotto assimila e sovrappone due luoghi simbolici dell’umano: il primo, la Luna, oggetto del discorso culturale e simbolico, che raccoglie in sé le interpretazioni e i miti di cui la cultura millenaria dell’uomo le ha fatto dono; il secondo, la macchia del Rorschach, luogo del discorso individuale e semio-tico, pozzanghera informe nella quale si riversano le proiezioni e i desideri dell’inconscio dei singoli umani sottoposti a tera-pia; tuttavia, dalla sovrapposizione di questi due elementi riesce una sentenza storica sulla vera natura del mito, il quale, sulla scia di Carl Gustav Jung e di Károly Kerényi, è presentato come formazione simbolica condivisa, unanimemente riconosciuta, originata dai movimenti sotterranei e proteiformi di una psiche individuale che trabocca irresistibilmente nella collettività. In questo senso, si capisce un po’ meglio perché l’allunaggio ame-ricano rappresenti «la distruzione capillare dei tessuti psichici che hanno retto l’umano per decine di millenni»: sedimenta-zioni di proiezioni psichiche originarie, i simboli della cultura franano, trascinando via l’inconscio collettivo, in una sorta di gigantesca slavina di senso.

L’America è solo l’ennesimo attore di questa riesumazione in vitro del fantasma sbiadito del mito. Il poeta, dal canto suo, ci comunica questa verità scommettendo proprio su una nuova narrazione, quella della Luna vittima della violazione da par-te delle superimpotenze del XX secolo, Diana stuprata dagli astronauti in una squallida orgia spaziale; può essere, questo, un tentativo di rifondare il mito, a mezzo di una poesia che signifi chi questa violazione per mezzo di un simbolo e di un racconto, quello del razzo che penetra nel corpo della Luna: un mito della Volontà di Potenza, della Guerra Fredda e, in ultima istanza, del destino di annientamento della mitografi a stessa. La contraddizione è feconda: da una parte ci avvisa del rischio, dall’altra ci consegna la speranza che, pure in forma marginale, come disciplina poco più che individuale (il poemetto fu pub-blicato in cinquanta copie in una tipografi a di paese), la religio-ne mitica dell’uomo possa sopravvivere alla povertà dei tempi. Intanto, la poesia scommette su se stessa come testimonianza autenticamente storica, trasmettendo un nuovo complesso di valori grazie ai quali possiamo guardare al nostro tempo come all’epoca del tramonto del mito: è in ciò che consiste il tratto di fondazione di tutta la grande poesia.

1. Andrea Zanzotto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal, tip. Bernardi, Pie-ve di Soligo 1969, ora in Poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999. Si noti che la pubblicazione del poemetto avvenne lo stesso anno dell’allunaggio.

2. Concetto che si può riassumere in una boutade dello stesso Jung (Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 39): «L’idea di “energia” è sì, ammettiamolo pure, un mero concetto verbale, ma è così straordina-riamente reale che la società per azioni di una centrale elettrica ne paga i dividendi».

3. Poesie e prose scelte, cit., p. 1531. Questo brano e i successivi sono tratti da una conferenza sul poemetto che il poeta tenne nel 1973 a Ivrea assieme all’amico e critico Stefano Agosti.

4. Ibidem.5. «E così minima la refurtiva, e poi subito persa», recita uno degli

ultimi versi del poemetto: la refurtiva è appunto lo scarso bottino di frammenti di roccia lunare che gli astronauti riportarono dal viaggio per i ricercatori.

6. Ibidem.7. Cfr. Károly Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti

del colloquio internazionale su “Tecnica e casistica”, Roma 1964; Furio Jesi, Mito e linguaggio della collettività, in Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968; Joseph Campbell, Le fi gure del mito, Red, Como 2002; Carl Gu-stav Jung, Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifi co della mitolo-gia, Bollati Boringhieri, Torino 2012; Mircea Eliade, Mito e realtà, Borla, Roma 2007.

8. Poesie e prose scelte, cit., p. 1531.9. La rinuncia alla comunicatività in senso stretto e al complesso dei luo-

ghi comuni che assicurano la trasmissione dei messaggi tra i parlanti impli-ca necessariamente un risvolto di “debolezza” della voce poetica: la parola di Zanzotto, persa nella confusione di uno smottamento magmatico della lingua, risuona come un’eco dal fondo di una valle, lontana e fi oca. Sia il senso sia il signifi cato non sono presi in carico da una voce che si fi nga forte e roboante, ma emergono dalla rovina del discorso comunemente inteso, la quale è, a un tempo, il veicolo e il contenuto del messaggio dell’autore. Una dicitura quale poesia debole, vista la temperie culturale di un Paese e di un’epoca, che non è forse del tutto impropria.

Fisicamente, «Edward Hopper sembra fatto per il mito, come Lincoln: testa magnifi ca, ampiamente e superbamente cal-va, quasi geologicamente sopravvissuta. Occhi azzurri fermi

e profondi, che ti fi ssano volentieri, salvo scivolare via dopo aver raccolto le informazioni necessarie. Bocca vasta e generosa, unita a un naso tondo da due pieghe profonde e mobili. Guance quadra-te chiuse su un mento quadrato e ben defi nito». Così il critico e amico Brian O’Doherty descrive l’artista, nato il 22 luglio 1882 a Nyack, sul fi ume Hudson, da Garret ed Elizabeth – rispettivamente un commerciante di origine olandese, letterato frustrato e amante di Michel de Montaigne, e una gentildonna borghese e battista di ascendenze francesi, padrona di casa autorevole e autoritaria. Edward Hopper è, in eff etti, morfologicamente americano. Gene-rato da un mescolamento di razze e culture, silenzioso e massiccio come le rocce del Grand Canyon, capace di silenzi monumentali, amante fedelissimo della luce netta e abbagliante che inonda i vasti orizzonti di Cape Cod, Hopper è anche il creatore inconsapevole di

quei “luoghi comuni” dell’americanità che a lui, ineluttabilmente, vengono ascritti – la stazione di benzina, la sala cinematografi ca, il locale notturno, il motel, la casa neovittoriana, la strada che si perde nell’infi nito o in una selva oscura. E che altri artisti (pittori, fumettisti), ma soprattutto il cinema, insieme o dopo di lui, hanno contribuito ulteriormente, alacremente, a volte inconsciamente, a rendere icone. L’America è una costruzione culturale recente, i cui miti non hanno radici profonde come quelli europei. E, una vol-ta liberatasi dall’infl uenza di Madre Europa – con fatica, impeto guerresco e risultati non sempre apprezzabili –, deve ricostruire il proprio immaginario collettivo, darsi un’identità che abbia un im-patto degno del suo incalzante sviluppo economico. Lo fa attraver-so i mezzi che le sono più congeniali, oppure che più si distinguono da quelli utilizzati nel vecchio continente o ancora – nel caso siano i medesimi (come pittura e letteratura) – che hanno una marcata impronta di originalità. Ecco allora che gli scrittori inventano un nuovo modo di scrivere; il cinema si impone nel dettare simboli,

di Ilaria Floreano

Edward Hopper: l’ultimo dei puritani

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ricorrenze e fi losofi e (la frontiera, il self made man o l’eroe solita-rio); la pittura cerca nuovi soggetti, trovandoli nelle luci dei parchi di divertimento, negli incontri di boxe, nei grattacieli, vale a dire in tutte quelle espressioni della volontà di potenza su cui l’inconscio collettivo americano ha basato la sua fortuna. La straordinarietà di Hopper – ciò che, di fatto, lo rende l’artista americano più famoso insieme a Pollock e Wahrol – sta nell’aver ignorato i sintagmi più espliciti della modernità americana e di averne sviluppati altri che, pur impliciti – o forse proprio in quanto tali – hanno un portato simbolico mastodontico (proprio come il Grand Canyon o i silenzi dell’artista). D’altra parte, cosa rappresentano le coppie non comu-nicanti, le stazioni di benzina vuote e le strade senza fi ne se non la sublime solitarietà dell’uomo moderno americano e il suo inesauri-bile anelito all’orizzonte?

Hopper scopre intorno ai dodici anni la propria vocazione arti-stica, dopo una breve parentesi in cui ha sognato di diventare ar-chitetto navale e costruire quelle barche che, per anni, ha osserva-to scorrere lungo il fi ume davanti alla casa (neovittoriana) in cui è nato. I genitori gli regalano un album da disegno, lo iscrivono a una scuola d’illustrazione, assecondano la sua ambizione fi gurativa e gli permettono di studiare alla New York School of Art, dove Edward rimane per sei anni e in cui tiene anche qualche lezione.

La New York di inizio Novecento è un ribollire di tensioni con-trapposte da cui scaturiscono, imperiosi, svariati sintagmi della mo-dernità: gli automat, dov’è possibile acquistare una fetta di dolce e un caff è servendosi da distributori automatici; la metropolitana che sfreccia sottoterra o in aria; quei grattacieli che, come tanti spilli confi ccati in un cuscinetto, scandiscono l’orizzonte visibile dal tra-ghetto sorgendo sulle rovine di antiche case abbattute, senza che nemmeno una targa ricordi il caso accidentale che tra quelle mura ha fatto talvolta nascere personaggi di qualche rilievo politico e/o culturale. Ma di grattacieli, nei dipinti di Hopper, non c’è traccia – laddove appaiono, non sono che macchie scure interrotte che tutt’al più incombono minacciose o fanno ombra.

L’artista vive in un appartamento, che raggiunge dopo aver percorso a piedi settantaquattro scalini, nel Greenwich Village, in Washington North Square, con il bagno in comune e riscaldato soltanto da una stufa panciuta. Ci resterà per tutta la vita, evitan-do la mondanità promiscua del quartiere degli artisti, preferendo la lettura di Gide accanto alla fi nestra, ignorando le richieste della moglie Jo (sposata all’alba dei quarantun anni) di migliorare, alme-no un poco, il comfort casalingo. Consuma molti pasti negli ante-nati dei fast-food (preferendo su tutti quelli di chop suey) e trascorre gran parte del proprio tempo libero al cinema. Eppure, si rapporta alla modernità limitandosi a sfruttarne alcuni prodotti, per trova-re l’ispirazione con cui dipingere quadri che solo superfi cialmente possiamo defi nire nostalgici. In essi riecheggia un’America perdu-ta, nascosta dietro la narrazione degli eff etti che la vita moderna ha prodotto: è un’America radicata sotto l’House by the Railroad tran-ciata di netto dal binario della ferrovia, oppure naturale, nei ritratti di fari e abitazioni sull’oceano, sensuale, tra le tende leggermente mosse dal vento, e spirituale, nel raggio di luce che colpisce una donna seduta sul letto, come fosse un’epifania. Quando ad apparire è invece l’America in cui Hopper studia, lavora e cerca aff annosa-mente l’ispirazione, è aerea, selvaggiamente urbanizzata, parca di incontri e contatti, già tendente a un consumismo sia pratico sia sentimentale. Questa natura bifronte, squisitamente statunitense, dà origine a concentrati di modernità in forma di metropoli avan-zate in grado di dettare ritmi e destini in tutto il mondo e, contem-poraneamente, si perde nella vastità di territori che rimangono non-

conquistati (ma pur sempre conquistabili). Hopper è ugualmente bifronte e, anche per questo, la sua opera diventa paradigmatica ed emblematica.

Frugale per necessità, prima, e per scelta, poi, Hopper è un ap-passionato francofi lo: tra il 1906 e il 1910 trascorre diversi mesi a Parigi, dove affi tta un appartamento dietro il Musée d’Orsay e stu-dia gli impressionisti. Della ville lumière, della sua libertà intellet-tuale e sessuale e della sua infl uenza artistica, Hopper si libererà a fatica solo dieci anni dopo, quando accetterà la necessità (concreta e concettuale) di rinunciare alle pennellate brevi e frenetiche, agli eff etti cromatici, alla ricerca dell’istantaneità caratteristici di Monet e compagni, per trovare un proprio territorio d’elezione – pretta-mente americano. Questo chiedeva la critica newyorkese, che im-piegherà anni a riconoscere il valore del pittore, apprezzato a lungo solo come illustratore (ironia della sorte, vista l’esclusiva qualità alimentare di tale attività).

La Francia è come una donna, amata troppo e senza reciproci-tà – l’artista la lascia per l’America, meno incantevole, forse, ma più solida e disponibile. Hopper diventa Hopper quando la sua volontà semplice di «dipingere la luce del sole sulla parete di una casa» lo conduce a eleggere soggetti pittorici che la critica e il pub-blico casalingo sentono particolarmente vicini: siano i paesaggi di spiaggia, rocce e oceani di Gloucester, Provincetown e Truro (dove negli anni Trenta gli Hopper si costruiscono una casa in le-gno), oppure i campioni dell’umanità metropolitana, cioè coniugi immersi nei propri pensieri, maschere del cinema, donne solitarie, commessi di bar.

Lo sguardo dell’artista è in movimento: Hopper resta spesso inattivo tra un quadro e l’altro, l’ispirazione è per lui una musa capricciosa che lo abbandona e si fa inseguire a lungo. Il pittore la ritrova passeggiando lungo avenues e streets, guardando decine di fi lm al mese, viaggiando in treno e in metropolitana.

Osservare la città dietro un fi nestrino, a velocità sostenuta, o ve-derla riprodotta su un grande schermo lo conduce a inquadrare la realtà in un modo particolare, che diventerà la sua cifra stilistica. I suoi dipinti appaiono spesso come il risultato dello sguardo indi-screto di un voyeur, capace di cogliere al volo una situazione intima, che dovrebbe essergli preclusa ma che la modernità, coi suoi mezzi, gli rende al contrario accessibile. Uno sguardo strutturalmente mo-derno, che si traduce nella critica (polemica o ironica) di ciò che la modernità implica.

Potremmo defi nire i quadri di Hopper come scatti rubati: Hop-per non è, in verità, un amante della fotografi a praticata, ma conosce e apprezza l’opera di Eugène Atget e Matthew B. Brady – non a caso, particolarmente attratti dagli spazi urbanizzati. La qualità fotografi -ca delle sue creazioni, conferita dagli strumenti tipici della pittura – taglio, colore – è peraltro uno dei motivi principali della persistente attrazione di molti registi verso il corpus pittorico hopperiano.

Il bisogno di privacy e la sua progressiva perdita, tratti specifi ci dell’artista, sono una condizione esistenziale e un dato sociologico su cui meditare: discreto fi no a essere scorbutico, Hopper vive in una città la cui vocazione primaria è essere visibile e rendere visibili. Nel 1927, questa opposizione si traduce in un quadro, Automat, in cui una donna siede al tavolo con una tazza di caff è davanti e un muro di buio alle spalle. Dovrebbe essere una vetrina e rifl ettere l’interno del locale, invece è solo uno schermo nero punteggiato di globi bianchi: sono le plafoniere appese al soffi tto, o più probabil-mente i pensieri vuoti della donna ritratta. In quel buio profondo si nascondono gli occhi della città – eppure, la protagonista è vista dall’interno, inconsapevole di essere osservata. Nel 1942, Hopper

realizza invece Nighthawks, forse il suo quadro più celebre, nel quale la prospettiva è ribaltata: vediamo quattro individui all’interno di un bar, di notte, come fossero in un acquario. Sono sempre inconsa-pevoli dello sguardo della città, ma ritratti dall’esterno dentro uno spazio ben illuminato, che ne mostra relazioni (possibili) e aliena-zione (conclamata).

Alienazione: il risultato della modernità per antonomasia, la ca-ratteristica principale dei suoi protagonisti, la condanna che gli in-tellettuali europei dell’Ottocento sfuggivano, rifugiandosi in “torri d’avorio” arredate come nel Medioevo e la cui onda lunga negli Stati Uniti diventa dato esistenziale ineluttabile. Abitanti conformati di spazi ristretti, gestibili e familiari si ritrovano scaraventati nel ruolo di cittadini all’interno di una metropoli sempre più estesa, in oriz-zontale e in verticale, tentacolare e complessa, in cui a milioni ci si contende lo spazio, il lavoro e i sentimenti. Il tempo è ridotto a mer-ce di scambio, il pericolo si annida nell’ombra, sfuggita all’illumi-nazione elettrica. Hopper stende ampie pennellate che oppongono la luce artifi ciale al buio, i suoi personaggi sono quasi sempre donne sole o coppie che non comunicano, in non-luoghi che presuppon-gono una temporaneità ineluttabile: il teatro, la hall o la stanza di un albergo. Inevitabile che la critica lo etichetti come cantore della solitudine moderna e che il noir, il genere cinematografi co che più di ogni altro propone il tema dell’alienazione (a livello di sceneg-giatura, messa in scena e messa in quadro), peschi a piene mani dal repertorio hopperiano quando si tratta di defi nire scenografi e (un esempio per tutti: la stazione di benzina gestita da Burt Lancaster, nell’incipit de I gangsters di Robert Siodmak del 1946, è un palese omaggio all’opera Gas, del 1941).

Sarebbe però scorretto intendere l’alienazione hopperiana come esclusivo risultato della sua scelta iconografi ca. È vero anzi che il senso di tale alienazione risiede nell’eff etto di Unheimlichkeit – quel senso cioè di estraneità di cui all’improvviso si ammanta ciò che fi no a un attimo prima era un oggetto mite e conosciuto – che il pittore negli anni sviluppa, elaborando una poetica del tutto personale.

Facciamo un passo indietro. Hopper viene ascritto dalla criti-ca a lui coeva e successiva al fi lone del realismo: erede di Th omas Eakins e Winslow Homer, padri dell’arte fi gurativa americana, l’ar-tista dipinge, in eff etti, situazioni assai realistiche. Con l’avvento dell’astrattismo capitanato da Jackson Pollock, la sua scelta di cam-po appare evidente, dal punto di vista sia “politico” sia strettamente artistico. Mentre Pollock aderisce al Federal Art Project, promosso nel 1935 dal presidente Franklin Delano Roosevelt a sostegno degli artisti americani, Hopper si rifi uta strenuamente di chiedere un sussidio al proprio Paese, e in particolare a un presidente di cui non condivide l’orientamento, preferendo aff rontare da sé la crisi e criticando in cuor suo chi fa il contrario. Mentre Pollock inventa la tecnica del Dripping e l’Action Painting, portando alle estreme conseguenze i germi delle avanguardie astrattiste europee (le qua-li, contaminandosi con le istanze statunitensi e non controllate da una classe intellettuale allenata, generano prodotti abnormi, atle-tici, super-omistici), Hopper si rinserra nelle proprie posizioni di realista, partecipando attivamente alla nascita e allo sviluppo della rivista Reality e ribadendo in più occasioni – venendo meno a una sua legge, non scritta, per cui di pittura si parla poco e si scrive an-cor meno – il disprezzo nei confronti della tecnica astrattista, che considera essenzialmente come mera decorazione. L’arte per l’arte condurrebbe a un suo depotenziamento, ossessionato dall’origina-lità e scevro di personalità, mentre il vero artista deve “limitarsi” a tradurre la propria reazione (fi sica ed emotiva) ai fenomeni natura-li – di nuovo la luce, netta e implacabile, che scandisce e defi nisce

l’orizzonte americano, e la scelta di titolare quasi sempre le opere con un momento del giorno e/o orario e luogo (Seven AM, Dawn in Pennsylvania, Morning in a City).

In realtà, il super-realista Hopper giungerà a realizzare quadri composti di rettangoli e quadrati (Sun in an Empty Room) e forse tra lui e Pollock la distanza è meno abissale di quanto si possa pen-sare – tanto che qualcuno li considera gli assi cartesiani dell’arte americana. Questo perché i suoi quadri, pur squisitamente reali-stici, creano nello spettatore quel senso di inquietudine ed estra-neità a cui si accennava prima. C’è quasi sempre qualcosa che non torna, nelle opere di Hopper: sia il colore usato per dipingere le gote della donna, eccessivamente bianco, come fosse il cerone di un clown, o l’incombere impertinente di foreste scure su strade e case che sembrano sul punto di essere inghiottite, o anche il fatto che un negozio non abbia oggetti esposti, che presso una stazione di benzina non ci siano automobili, che in un quadro intitolato come la marca di un’automobile non ci siano auto, che in un al-tro, ambientato in un cinema, non si vedano lo schermo né, tanto meno, il fi lm proiettato.

La modernità, imprescindibile, viene osteggiata: il suo essere ontologicamente deviata viene tradotto dall’artista di Nyack, ad esempio, attraverso l’uso di una prospettiva aberrante o diago-nali secche e incongrue che indirizzano, sottilmente ma ineso-rabilmente, lo sguardo dello spettatore proprio dentro la foresta oscura, oppure a ridosso del soggetto ritratto. Guardando un suo quadro si ha la sensazione di essere in bilico, collocati a forza in una posizione non equilibrata da cui si potrebbe scivolare in ogni istante, di essere talvolta oppressi da soffi tti e pareti meno dritti di quanto dovrebbero, sfi orati da un vento che spira continuamente portando con sé chissà quali miasmi, segreti o intuizioni (positive o negative?). Sopra ogni altra, si prova la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere o, più probabilmente, sia appena av-venuto: dalla stazione vuota potrebbe essere or ora schizzata via l’automobile di due rapinatori, addentratisi nella selva per sfuggire alla polizia che li insegue. I falchi della notte, l’uomo e la donna seduti vicini al bancone del bar, potrebbero avere ancora le mani macchiate del sangue di un omicidio.

È per questa sua qualità narrativa, intrinseca e non ricercata, che Hopper ha suscitato ammirazione ed emulazione in molti registi: i suoi quadri, istanti congelati, contengono migliaia di possibili evolu-zioni – le quali, tendenzialmente, provengono o conducono a uno squilibrio. Perché l’Unheimlichkeit del contesto lo impone. Perché la metropoli nasconde troppi pericoli. Perché l’America si è liberata dal giogo materno dell’Europa preferendo l’hybris e l’effi mero. Per-ché la modernità sancisce la fi ne della possibilità, per l’ultimo dei puritani, di un lavoro su di sé lento e pacifi co. Per questo, è più facile pensare che dietro alla vetrina vuota si stia consumando una col-luttazione seguita a un tentativo di furto, o che la donna che fuma davanti alla fi nestra stia elaborando un piano per scappare da un amante manesco.

Per Wim Wenders, il regista tedesco che più di ogni altro si è la-sciato aff ascinare da Hopper e al quale ha dedicato omaggi esplici-ti e dichiarati (al contrario di Hitchcock, che a lui ha ugualmente guardato, senza mai ammetterlo apertamente), se si torna a osserva-re un quadro di Hopper a distanza di qualche minuto sembra che le cose si siano leggermente spostate. È come se nel quadro fosse la-tente un ladro nascosto, che, tentando di scappare dallo spettatore, rientrato troppo presto, si muovesse appena gli voltiamo le spalle, e così facendo spostasse gli oggetti della nostra stanza.

La modernità, secondo Edward Hopper.

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Woody Allen e l’arte della fuga dal nostro Occidente

di Marco Iacona

te bourgeoisie con sensibilità artistica, che va alla ricerca di spazi, luoghi e personaggi che nulla hanno di reale. Cause o motivazio-ni? Semplice insoddisfazione, evasione dalla prigione della nor-malità, richiamo di un altrove, con norme, vicende e personalità inconsuete. Uno l’altrove, una la fantasia del protagonista. Na-sceranno immagini in serie e l’arte (registica) della consolazione si trasformerà in consolazione dell’arte. Una facile inversione di polarità. Facile per chi ha capacità comunicative e di scrittura, o per chi è in grado di sognare senza annientare se stesso. O magari si trasformerà in consolazione della magia, alla quale Allen darà credito come piccolo grande frammento d’irrealtà. Un Allen tutt’altro che realista, un analista attratto dal signifi cato dell’esi-stenza, ora dal lato maschile ora da quello femminile, all’interno di un quadro di vita borghese. Occidentale. Come dimenticare poi la patria americana? Il Paese degli aff aristi, dei superfi ciali di successo e dei grandi comunicatori (Celebrity)? Gli uni sotto-

26 giugno 2008. L’Adnkronos batteva una notiziona: Woo-dy Allen, regista e scrittore newyorkese, era stato sdogana-to «a destra». L’agenzia riprendeva un mio articolo che

recensiva Pura anarchia, Bompiani 2007: diciotto micro-rac-conti semiseri, assurdi ma taglienti. Spettatori e lettori distratti daranno seguito a noiose lamentele, incapaci di andare oltre il cliché del cineasta quasi organico alla sinistra chic. Tre anni dopo Allen realizzava uno dei suoi fi lm migliori, Midnight in Paris, record al botteghino e buone critiche. Nulla di osceno né di sov-versivo: la storia di un uomo della nostra epoca che incontra per pura magia i protagonisti della cultura degli anni Venti – Scott Fitzgerald, Cole Porter, T. S. Eliot, Picasso e i surrealisti. Incon-tri che non rimangono semplici episodi, perché gli artisti non sono «come tutti gli altri» (Ombre e nebbia). Una vicenda, anzi una fi losofi a, non nuova all’interno della produzione alleniana: la fuga dalla realtà. Un membro della classe media o della peti-

braccio agli altri. Vada come vada: adeguarsi è la parola d’ordine. C’è un momento nel quale si è portati a scegliere tra la realtà e la fantasia, dice Allen nel lavoro di Robert Weide, Woody Allen. A documentary (2012). Tutti, naturalmente, sceglieremmo la fan-tasia, ma è proprio lì – continua il regista – che si nasconde la follia. Così, alla fi ne si è costretti a scegliere la realtà: che ferisce, di continuo. La realtà vince sempre: è uno dei segnali più forti nei fi lm del newyorkese. Eppure, non è detto che il tema centrale sia propriamente questo. Di quale realtà si tratta? Di quella priva di una fantasia oramai sconfi tta, in un eterno riproporsi di temi realistici? Di quella nata da una relazione con l’immaginazione, con una tesi, un’antitesi e una sintesi? Siamo proprio sicuri che l’ingrediente fantasia in Allen sia una cattiva compagnia, un subdolo rivale, un comprimario utilizzato per far risaltare il pun-to di vista della cruda realtà? Non ci sarà dell’altro?

La fantasia, con i suoi ingredienti, che muteranno di volta in volta, è insomma la malattia o la cura? Certo non una cura defi ni-tiva – nulla c’è di più lontano delle insidie dell’eternità in Allen – ma tale da produrre una svolta in certo senso di media gittata. Le risposte le fornirà lo stesso regista.

Cominciai a pormi delle domande alla fi ne dei Novanta, quan-do vidi una delle migliori pellicole di Allen, Harry a pezzi. Con un fi nale da togliere il fi ato, un dialogo tra Harry Block, scrittore in crisi, in diffi coltà nel mondo reale, e un amico morto, che si materializza all’improvviso. Allen non è solo un grande regista ma anche uno scrittore brillante, capace. Sa dove porre gli accen-ti, ha il dono del ritmo. Harry: «Io non sono bravo a vivere». Il morto: «No, però scrivi bene». Harry: «Scrivo bene, ma è di-verso, perché lì posso manipolare trame e personaggi». Il morto: «Sì, esatto, crei il tuo universo ed è migliore insomma del mon-do che abbiamo, secondo me». Harry: «Io non funziono nel mondo che abbiamo, io sono un fallimento». Il morto: «Non lo so. Io credo che tu dia gioia a un sacco di persone».

Il dialogo s’interrompe con una breve sentenza: «Essere vivi è essere felici». Altro tema fondamentale. Per un agnostico, l’aldilà – quell’altrove che può dare soddisfazioni, seppur momentanee – non esiste come regno a se stante, perché è compagno dell’in-dividuo nel qui e ora, cioè sulla terra. Dipende dalla capacità di astrazione. L’aldilà è invenzione, arte pura: ma è tutt’altro che inutile. L’individuo sogna, crea con la sua fantasia, quest’ultima prende corpo e stabilisce con chi l’ha partorita una singolare alle-anza. C’è sempre un dialogo tra le diverse parti dell’io, tra quella che vive di concretezza e un’altra, che si nutre di astrazioni. La risultante non è un disastro senza opportunità di replica: Allen non antropomorfi zza le ansie per dilatare il volume dei propri in-cubi, quanto piuttosto per trovare una soluzione. E la risultante non è la pazzia – che è nel vivere per sempre di e nei sogni – ma il ritorno a casa. L’isola della verità, nella quale servirsi di una con-sapevolezza acquisita, di una crescita interiore. Luogo nel quale spendere una nuova ricchezza, con strumenti in più per poter-si difendere, con un unguento da applicare sulle ferite. È vero, i personaggi inventati da Harry, quelli nei quali questi proietta se stesso e le proprie amanti, gli hanno salvato la vita. Loro vivono grazie a lui e, alla fi ne, sarà lui stesso a vivere grazie a loro. Per con-tinuare a raccontare, per continuare a produrre arte. Arte, sogni e fantasie, titoli da convertire in felicità.

Al fondo di queste tematiche troviamo due condizioni. La prima è relativa non solo alla consapevolezza di essere felici. Ini-zialmente, questa condizione può essere superata dall’equazione vita uguale felicità. Quanto invece al coraggio di dirsi felici con

assoluta convinzione, qui il discorso rimane aperto alla relazione alleniana tra vita e morte. La morte, come dice Jago nell’Otello di Verdi, è «il nulla», e la certezza di essere lontani dal nulla è il primo traguardo. Ma l’esistenza è piena di nevrosi e frustrazio-ni. Chi non è ossessionato dalla miseria dell’anonimato? E chi invece non è malato di conformismo (Zelig)? La quotidianità è devastata da ansie, punizioni e autopunizioni. Dai disagi eredita-ti dai «maestri della drammaturgia dell’angoscia» (E. Girlanda, A. Tella, Woody Allen, L’Unità/Il Castoro, 1995), Shakespeare, Čechov, Ibsen e O’ Neill. Qui s’innesta la seconda condizione: vivere il più a lungo possibile in compagnia dei sogni, con in ta-sca ogni genere di fantasia, e fermarsi naturalmente sull’orlo del precipizio della follia. La felicità sarà il ricordo d’esser stati felici, la possibilità di esserlo ancora o per la prima volta. Oppure, come direbbe Mark Twain, un minuto di libertà dall’infelicità.

Midnight in Paris è un gioiello d’arte. Potrebbe sorprendere la defi nizione di fi lm (o commedia) inclassifi cabile, dalla trama labirintica, come Il Trovatore di Verdi. È un cerchio magico che parte e si conclude sulle note di Si tu vois ma Mère di Sidney Bechet (1952). È dai tempi della Dea dell’amore, con musica di Vassilis Tsitsanis, passando per Match Point, con Enrico Caruso che canta Una furtiva lagrima, che non si vedeva un inizio così. Gil è un giovane americano, innamorato della Parigi degli anni Venti, scrittore mancato, ingenuo e sognatore. Ma, una volta a Parigi, grazie ad alcuni misteriosi viaggi nel passato, si rende con-to che l’amore per il tempo che fu nasconde l’insoddisfazione per il presente. La miccia l’accende Adriana, una donna che lo attrae terribilmente, ex amante di Modigliani, Braque e Picas-so, che sceglie di vivere nella Parigi della Belle Époque, quella di Toulouse-Lautrec, Degas e Gaugin – i quali però preferirebbero a loro volta popolare un’altra epoca: il Rinascimento. Sorpreso ma padrone del gioco, Gil deciderà di rimanere ancorato al Ter-zo millennio. Ovviamente rovescerà la propria vita; deluso dalla relazione con Inez, promessa sposa americana, cercherà un nuo-vo amore nel rapporto con un ragazza che vende oggetti d’epo-ca: una parigina, che sembra uscita dal suo unico e incompiuto romanzo.

Questa la magia: la svolta nell’esistenza (o metamorfosi); e questi gli altri temi alleniani: la contaminazione tra arte e vita e la rilevanza dei sogni. E poi, quell’altrove, che è al tempo stesso altra età e altro luogo. O altro giudizio. Attraversa la mente un fi lm che precede di quasi dieci anni Midnight in Paris, cioè Hol-lywood Ending. La Francia ne è protagonista occulta: lì i giudizi vengono capovolti, il nero sarà il bianco e il bianco sarà il nero. Ecco, lì tutto è diverso: «Qui sono un poveraccio, ma laggiù… un genio», dirà Val/Woody, regista newyorkese alla fi ne delle sue disavventure: una profonda crisi, più umana che professio-nale, una cecità come parentesi «metaforica», poi fi nalmente la dovuta pace con i propri «demoni». Come ogni fi aba che si rispetti, il fi lm si concluderà con un vissero felici e contenti. Con un viaggio nella terra promessa. Parigi. E attraverso un viaggio tra Camus e Kafk a, sul quale fi nirà per non farsi troppe doman-de, Gil salverà la propria anima e sfuggirà al proprio destino di autore al servizio del mercato cinematografi co. Le notti immerse nell’irrealtà di casa Cocteau o con Dalì e Man Ray, cioè la di-mensione-sogno, riempiono la realtà di Gil non di altre impro-babili fantasie (si stava meglio prima con varianti a volontà), ma lo spingono verso scelte rivoluzionarie. Paradosso (perché Allen è genio del paradosso): non sarà Luis Buñuel a cambiare la sua vita, in senso strettamente professionale, ma sarà lui a cambiar-

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“Come via di fuga,

i sogni sono il termometro della felicità. O li catturi o

saranno loro a catturare te

la a Buñuel. Suggerendogli, quasi per gioco, la trama dell’Angelo sterminatore. Mentre sarà Hemingway a cambiare la vita di Gil: da straordinaria maschera di collezionista d’esperienze, più da uomo che da prosatore, consigliandogli di non fi darsi di Inez.

Midnight in Paris è una poesia recitata con un linguaggio mul-tiplo. Esempio eterodosso di assolutizzazione ma non di estre-mizzazione della vita, attraverso l’esempio salvifi co (in terra) di una manciata di artisti. Il riassunto sta nella frase di Gertrude Stein: «Compito dell’artista non è di soccombere alla dispera-zione ma di trovare un antidoto per la futilità dell’esistenza». E compito dei personaggi creati dall’artista è sperimentarlo. Ma il fi lm cattura un’altra interpretazione. Non si vive nel passato, dice Allen. E non si vive di passato. Le alternative? Follia e insoddisfa-zione. Chi vive di passato trascor-re la vita accumulando pagine su pagine senza alcun risultato.

Ciò che passa per la mente mentre vedi Alice, capolavoro del 1990, fase fi nale del periodo farrowiano (da Una commedia sexy in una notte di mezza estate a Mariti e mogli), è una frase pre-cisa: questo benedetto passato deve passare! Parole che s’incrociano e accoppiano alla frase che Alice/Mia ripete in continuazione: sono sposata da sedici anni! Per convin-cere chi? Se stessa, del passare del tempo. O forse per ripassare a memoria ciò che conta davvero: una vita luccicante. Un apparta-mento in Upper East Side New York, un buon matrimonio e due fi gli. E poi: le amicizie, le accon-ciature e il lettino del massaggia-tore. Ma conta per la falsa Alice, per le maschere che celano le sue potenzialità. È naturale: per ucci-dere, o semplicemente riscrivere il passato e sanare le ferite, serve aiuto. Questa volta è un tipo ve-nuto da chissà dove, un cinese specializzato in medicina alterna-tiva: è il dottor Yang (il contrasto per eccellenza), che non c’entra nulla con l’Occidente che conosciamo. Quello oltre le fi nestre. Guardiamo Allen così: critico della contemporaneità, mesto cantore delle crisi personali del ceto borghese, quello benestante, modaiolo, con ottime scuole e discreto successo.

Il più bergmaniano tra gli americani universalizza e deintellet-tualizza negli esiti le proprie insicurezze, in tempi e luoghi nei quali il bisogno non è fonte di schiavitù. Nei quali c’è uno strano fenomeno chiamato tirannia del tempo libero. Che farsene? È lì che il passato si ripresenta uguale a se stesso. Ma è nei momenti apparentemente insignifi canti che il destino si prende la briga di bussare alla porta – il che poi, naturalmente, è in uno con la capa-cità di sognare, con la parte segreta della nostra personalità, che crea e riconosce il valore di un altrove. Di qualunque sostanza sia fatto. Siamo alle solite. Yang è una specie di stregone – un medi-cine-man – e somministra delle erbe ad Alice, romantica (come Gil), cattolica e perbenista. Le strane medicine, che danno pure

l’invisibilità, sgretolano le sovrastrutture, risvegliano la creatività e riscrivono il passato. Anzi, se ne servono. Alice aveva solo l’il-lusione della felicità. Era il prodotto della sua stessa insincerità: la brava moglie di un uomo ricco. La sua blanda religiosità era il mastice di un ambiente fanatico e incomprensibile. Quando Yang se ne ritornerà in Tibet, avendo concluso la propria prodi-giosa missione, Alice deciderà di seguire Madre Teresa di Calcut-ta in India. La sola ragione per cui una religione ha senso è aiutare poveri e bisognosi, per pietà o per giustizia. Tornerà trasformata e in armonia con se stessa.

Credo però di aver imparato a distinguere un Allen ottimista da uno pessimista. Forse è l’esito del suo agnosticismo, dell’as-senza di una relazione tra cielo e terra. Per chi non naviga in ac-

que tranquille, diffi cile immagina-re un futuro diverso. Si fantastica, d’accordo, ma il fi nale non sarà confortante. Le illusioni seduco-no, ma chi può davvero cambiare il presente? È l’Allen sfi duciato, quello tentato dalla politica. A suo modo, naturalmente, cioè da libertario e anarchico con le spal-le coperte. La rosa purpurea del Cairo non è Midnight in Paris. L’ambientazione dovrebbe far ri-fl ettere: il New Jersey nel periodo della Grande Depressione. Cecilia è una cameriera innamorata dei divi di Hollywood – altra fi ssa-zione di Allen –, suo marito è un operaio disoccupato. Per lei niente letteratura, né poeti, né agopun-tori, ma i miti in carne e ossa della settima arte. Diretta, eccitante, apparentemente immediata, la più insincera tra le arti. «Troppa real-tà non è quello che vuole il pub-blico» (Stardust Memories). Gli attori sono egocentrici, le storie vuote con manichini in smoking e telefoni bianchi a portata di mano. Un Occidente povero, che costru-isce un mondo irrimediabilmente

artifi ciale. È la legge della compensazione. Anche qui accade qualcosa di inconsueto. Tom Baxter è un esploratore che ama l’Egitto, ennesimo altrove. È la piccola star di un fi lm che aff asci-na, diverte e distrae i lavoratori. Il quinto giorno di programma-zione, uscirà dallo schermo per far coppia con Cecilia, nella vita reale. Ne verrà fuori una mezza rivoluzione. Interverrà perfi no Gil Shepherd, che indossa i panni di Tom. La romantica Cecilia potrà scegliere tra due uomini, in apparenza identici: Tom, essen-za della perfezione ma creazione dell’immaginario, e Shepherd, vero ma inaffi dabile. Naturalmente opterà per il secondo, cioè quello reale. Ma rimarrà immediatamente delusa. Sarà quella sua miserabile esistenza a non lasciarle alternative.

La rosa si concluderà così com’era iniziata, con la voce di Fred Astaire e il primo piano di Cecilia/Mia. Al cinema con aria so-gnante. Ultimo messaggio in controtendenza: i sogni – come via di fuga – sono il termometro della felicità. Come i peggiori ne-mici. O li catturi e te ne servi o saranno loro a conquistare te.

di Alberto Lombardo

L’antiamericanismo “tradizionale” di Julius Evola

«Il processo per cui le distruzioni spirituali, il vuoto stesso che l’uomo divenuto “uomo economico” e grande im-prenditore capitalista si è creato intorno a sé, lo costringo-

no a far della sua stessa attività – guadagno, aff ari, rendimento – un fi ne, ad amarla e volerla in se stessa pena l’essere preso dalla vertigi-ne dell’abisso, dall’orrore di una vita del tutto priva di senso»1. La posizione critica del fi losofo romano Julius Evola (1898-1974) nei confronti dell’America merita di essere conosciuta per l’originale peculiarità che la contraddistingue, oltre che per l’infl usso che ha esercitato su una non trascurabile area politica e intellettuale. Nel 1929 esce su Nuova Antologia l’articolo evoliano Americanismo e bolscevismo, nel quale il pensatore tradizionalista espone per la prima volta con notevole lucidità una tesi, piuttosto inedita e assai pionieristica, che continuerà a sviluppare nei decenni successivi. L’idea di fondo è che Russia sovietica e Stati Uniti, al di là delle evi-denti diff erenze culturali, sociali e di organizzazione statuale, siano accomunati da un medesimo, perverso ideale2. Il saggio costituirà

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la base del sedicesimo capitolo della seconda parte di Rivolta contro il mondo moderno, forse il libro più importante e famoso di Evola.

Qui scriveva: «Quali e quante siano le divergenze fra Russia e America del Nord in sede etnica, storica, di temperamento e via dicendo, ciò è noto ad ognuno e non abbisogna di essere messo in rilievo. Tali divergenze però non possono nulla di fronte ad un fatto fondamentale: parti di un “ideale”, che nel bolscevismo non esiste ancora che come tale, o viene imposto con mezzi crudi, in America si sono realizzate per un processo quasi spontaneo, tanto da rivestire caratteri di naturalezza e di evidenza»3. L’America è per Evola la più evidente e speculare antitesi della tradizione europea: «Essa ha introdotto defi nitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzio-ne industriale, alla realizzazione meccanica, visibile, quantitativa, al di sopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo ad una grandiosità senz’anima di natura puramente tecnico-collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiri-tualità; anch’essa ha opposto alla concezione, in cui l’uomo è consi-derato come qualità e personalità in un sistema organico, quella, in cui egli diviene un mero strumento di produzione e di rendimento ma-teriale in un conglomerato sociale conformista»4.

Il ragionamento di Evola si svi-luppa poi in una prospettiva più ampia, che presenta singolari ana-logie concettuali, seppure non terminologiche, con il cuore della rifl essione sulla Tecnica sviluppata da molti fi losofi , da Jünger sino a Heidegger e Severino. Essenzialmente, Evola avverte nell’America proprio quella caratteristica “totalmente mobilitante”, onnipervasi-va e tirannica propria alla Tecnica, che tende rapidamente a inglo-bare o distruggere tutto ciò che le si frappone – vale a dire quel che costituisce, nel contesto della metafi sica evoliana, la Tradizione.

Per Evola, questo rapporto dualistico è solo in parte il risultato di un processo puramente storico; è, comunque, l’esito di una legge che determina lo scorrere ciclico delle età storiche: «Quella civil-tà, di cui il Moderno fu sì fi ero, e in nome della quale aveva cre-duto al “mito” del “progresso” e aveva marciato alla conquista del mondo, quella civiltà si trova oggi dinanzi a una specie di riduzione dell’assurdo, di capovolgimento dei valori che essa si era arrogati. Lanciatasi alla conquista della materia, essa non ha conseguito il suo scopo che a prezzo di materializzare lo spirito, di escludere ogni forma superiore di vita, di amalgamare gl’individui nella tiranni-de di organismi collettivi, che quasi diremmo subumani nella loro mancanza di volto, di razionalità, di luce, nella loro soggiacenza a energie che di tempo in tempo, come galvanizzando con una vita momentanea e paurosa dei corpi morti o automatici, li scaglia gli uni contro gli altri»5.

Il “mondo moderno” evoliano è, eff ettivamente, quello domi-nato dalla Tecnica: nell’America statunitense il fi losofo romano coglie l’avanguardia (ancor più avanzata rispetto a quella sovieti-ca) della controparte della Tradizione. «Mentre nel processo della formazione della mentalità sovietico-comunista l’uomo-massa che già viveva misticamente nel sottosuolo della razza slava ha avuto

una parte di rilievo, e di moderno non vi è che il piano per la sua incarnazione razionale in una struttura politica onnipotente, in America il fenomeno deriva dal determinismo infl essibile per cui l’uomo, all’atto di staccarsi dallo spirituale e di darsi alla volontà di una grandezza temporale, di là da ogni illusione individualistica cessa di appartenere a sé stesso per divenire parte dipendente di un ente che egli fi nisce col non poter più dominare, che lo condizio-na in modo molteplice»6. Il fi losofo romano riprende qui la tesi che aveva sviluppato nella parte precedente del saggio, dedicata alla Russia, ove aveva sostenuto che l’atavico impulso messianico rus-so, unito a una sorta di “mistica della collettività”, si era rovesciato, dopo la rivoluzione bolscevica, in termini marxisti, nell’uomo “ter-restrizzato e collettivizzato” che sentiva come propria la missione storica di esportare nel mondo il modello di sviluppo comunista:

un analogo sentimento di supe-riorità del proprio tipico modello anima per Evola l’uomo ameri-cano, ma in una dimensione del tutto priva di alcun sottofondo mistico-spirituale.

È necessario specifi care che le considerazioni evoliane su Ame-rica e americanismo sono spesso sovrapponibili a quelle espresse in linea più generale sul mondo moderno, inteso come catego-ria a priori di modello di civiltà (o più correttamente, per tener fede alla terminologia evoliana, di civilizzazione)7. La peculiarità dell’America statunitense è per Evola quella di essere la punta avanzata della civiltà occidentale,

o meglio lo stadio fi nale della sua decadenza involutiva. Non può stupire, in questo senso, che le idee espresse a proposito degli USA siano sovente sovrapponibili a quelle sull’Inghilterra, il calvinismo o il modello capitalista.

Se si “interpreta” il mondo moderno evoliano nei termini anzi-detti, la disamina del fi losofo tradizionalista è assai meno ottimisti-ca di quella coeva jüngeriana. La nuova Figura destinata a emergere dal mondo totalmente mobilitato dalla Tecnica non è l’Operaio, ma il produttore-consumatore di stampo americano. Con una terminologia tanto effi cace quanto brutale, Evola analizza questo uomo-ultimo, che ricorda fortemente quello profetizzato da Nietz-sche: «Può anche darsi che, ove l’umanità non aff ondi in un’ottusa beatitudine da bestiame bovino, essa vada incontro alla più paurosa delle crisi: a quella del vuoto assoluto di un’esistenza, vuoto non più nascosto come prima dai pseudo-fi ni di una vita alle prese con necessità di ogni genere»8.

La febbre attivistico-produttiva che contraddistingue il modello di sviluppo capitalistico, e che dalla maggior parte dei contempo-ranei viene vista come il segno di una vitalità giovanile, per Evola è viceversa sintomo di una malattia terminale. A questo concetto è dedicato lo scritto America: l’equivoco del popolo giovane9, in cui è ripresa la metafora delle età dell’uomo in relazione analogica con quelle del mondo. «Noi incliniamo proprio a considerare l’Ameri-ca non come un principio, ma come una fi ne: come la forma ulti-ma, crepuscolare assunta dalla civiltà – già minata da vari progressi di regressione – dell’Europa moderna». E ancora: «Di un vero e proprio “primitivismo” o “infantilismo” devesi […] parlare nei ri-

“L’America è la più

palese antitesi della tradizione

europea”

guardi dell’anima e della civiltà americana, primitivismo che solo superfi cialmente può essere confuso con fenomeni di “gioventù”, trattandosi invece di cose da spiegare sulla base della […] legge di corrispondenza di ciò che è crepuscolare con le forme primitive di uno stesso ciclo»10.

Intorno a questo nocciolo concettuale, concepito a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, Evola sviluppò nel corso della sua lunga pro-duzione saggistica successiva un numero considerevole di rifl essio-ni, contenute perlopiù in articoli su giornali e riviste11. L’incalzare del modello americano in ogni area del pianeta gli off rì lo spunto per considerazioni su costumi e mentalità che, specialmente nel secondo dopoguerra, andavano rapidamente diff ondendosi anche in Europa, e in Italia in misura particolarmente sensibile. In diver-si articoli, per esempio, criticò con durezza le scelte redazionali e di palinsesto della RAI, costantemente ispirate a modelli estetici d’oltreoceano, sia nel campo musicale sia in quello della program-mazione televisiva. Nell’articolo del 1954 L’americanizzazione e le responsabilità della RAI, lo scrittore constatava come la program-mazione musicale dei programmi “internazionali” dell’epoca (Ca-baret internazionale, Grandi successi del mondo, Paese che vai, ecce-tera) trasmettesse in via pressoché esclusiva brani americani, quasi che il mondo si riducesse a tale unica regione, ignorando comple-tamente, per esempio, la produzione contemporanea dell’Europa centrale. Ecco il suo commento: «Questo è un settore particolare dell’americanizzazione, ma è tutt’altro che privo di importanza. Le conseguenze del “lasciare andare” democratico sono queste: l’in-tossicazione di quella grandissima parte della popolazione che non sarà mai capace di vera discriminazione, che è fi n troppo propensa – specie di questi tempi – a perdere ogni linea quando un potere o un’idea superiore non abbiano modo di richiamarla a sé stessa, se non altro pel minimo occorrente per non perdere del tutto la fac-cia»12. Anche il diff ondersi nella lingua italiana di tanta termino-logia inglese, specialmente in casi nei quali esiste un termine corri-spondente in italiano, è per il fi losofo il segno di un cedimento a ciò che appare moderno, bello, degno di essere imitato e seguito, ma che rivela un conformismo dovuto a superfi cialità e mancanza di carattere, foriero di un impoverimento culturale generalizzato13.

Per Evola, comunque, alla pervasività sul piano culturale del mo-dello americano non si dovrebbe opporre una chiusura aprioristica. L’orientamento dovrebbe piuttosto essere volto a discernere tra ciò che va accettato e ciò che va respinto, sulla base della propria identità specifi ca: «Dato il clima di irresponsabile democrazia vi-gente in Italia, di un sistema organizzato di difese del genere non è naturalmente il caso di parlare. Esso può esser solo di pertinenza di pochi che sono ancora spiritualmente in piedi. A costoro spette-rebbe dare l’esempio. Né polemiche né animosità, ma considerare tutto ciò che è americano con fredda curiosità invertendo le parti, riportando l’America al suo rango di provincia, di una escrescenza periferica dove si è centralizzato e sviluppato fi no all’assurdo tutto ciò che di negativo la civiltà umana dell’Europa aveva prodotto. E quando qualcosa di americano dovesse essere ammesso, lo dovreb-be essere mantenendo libero lo sguardo, considerando simultane-amente altre prospettive, altre possibilità, altri valori, in un quadro nel quale in fondo, qualitativamente, l’America rappresenta solo un episodio»14.

Costituisce quindi un curioso paradosso che proprio in America, soprattutto a partire dagli anni Novanta, Evola abbia goduto di una marginale, ma non del tutto trascurabile fortuna. Essa è da ricon-dursi principalmente alla pubblicazione delle sue opere principali da parte della casa editrice Inner Traditions, oltre che alla presen-

tazione del pensiero evoliano da parte di alcuni studiosi tra i quali Th omas Sheehan, Richard Drake e Joscelyn Godwin15. Si sarebbe potuto prevedere che una critica tanto radicale al modello america-no, quale quella evoliana, determinasse un rifi uto del pensiero del fi losofo italiano da parte del pubblico statunitense; e che proprio quella mentalità spiccatamente pratica e materialista, denunciata da Evola come caratteristica dell’americanismo, costituisse un osta-colo insormontabile allo “sbarco oltreoceano” delle opere evoliane. Eppure attraverso diversi canali, tra cui internet, in America Evola viene letto e dibattuto anche in modo non superfi ciale.

L’opposizione evoliana al paradigma statunitense aff erma il primato della qualità sulla quantità, dello spirituale sul materiale, dell’organicità sull’individualismo e della politica sull’economia. Altrove scrivevo che «come la Tecnica è per sua natura universa-le lo sono anche il modello economico capitalistico e l’ideologia egualitaria. Storicamente, laddove un’idea particolare si oppone a una universale, la prima è destinata a venire travolta. Il messaggio fondamentale di Evola è proprio quello di interpretare e vivere i valori tradizionali in una prospettiva più che storica, assolutizzarli: solo con ciò potranno essere opposti a quelli dominanti, indipen-dentemente da ogni eff ettiva speranza pratica»16. Nella dicotomia evoliana di Tradizione e Modernità è anche racchiusa la certezza che allo scatenato dominio della dissoluzione seguirà un nuovo ciclo, improntato a nuovi valori. Quanto questa impostazione sia conciliabile con un atteggiamento pratico o attivo di opposizione al modello dominante è questione dibattuta da tempo. Certamen-te, però, Evola combatté la sua battaglia.

1. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1994, pp. 375-376.

2. Ora in J. Evola, Americanismo e bolscevismo, ne Il ciclo si chiude. Ame-ricanismo e bolscevismo (1929-1968), Fondazione J. Evola, Roma 1991.

3. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 391.4. Ivi, pp. 391-392.5. J. Evola, Noi antimoderni, ne La Torre, 1 febbraio 1930, ora in Civiltà

americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968 (II ed.), a cura di A. Lombar-do, Controcorrente, Napoli 2010.

6. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 392.7. La dicotomia evoliana è in certa misura mutuata e sovrapponibile a

quella spengleriana tra Kultur e Zivilisation. Come giustamente nota Gio-vanni Damiano (J. Evola, Civiltà americana, contributo disponibile sul sito della Fondazione J. Evola), quella evoliana è «una lettura, però, solo in senso lato defi nibile come spengleriana, e che proprio per questo non si risolve nella mera applicazione rigida e schematica delle categorie del pensatore te-desco alla realtà americana».

8. J. Evola, “Libertà dal bisogno” e umanità bovina, ne Il Secolo d’Italia, 27 gennaio 1953, ora in Civiltà americana, cit., p. 41.

9. Ivi, pp. 27-30.10. Ivi, p. 29.11. Un certo numero di questi saggi sono riuniti in ivi.12. J. Evola, L’americanizzazione e le responsabilità della RAI, ne Il Nazio-

nale, ora in ivi, p. 49.13. Cfr. per esempio J. Evola, Servilismi linguistici, ne Il Secolo d’Italia, 28

luglio 1964, ora in ivi, pp. 72-75.14. J. Evola, Difendersi dall’America, ne Il Popolo Italiano, 14 dicembre

1957, ora in ivi, p. 71.15. Cfr. G. Stucco, Sulla (relativa) fortuna di Evola negli Stati Uniti, in

Futuro Presente, 6 (1995), pp. 121-125.16. A. Lombardo, La tenaglia si è chiusa, in J. Evola, Civiltà americana,

cit., p. 18.

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Nei primi anni dell’Ottocento, le ultime tracce della nebbia rivoluzionaria oscurano l’Europa: l’uomo è ancora una volta carnefice di se stesso e il collas-

so della civiltà occidentale non è più così distante. Oltreo-ceano, un gruppo di coloni avventurosi cerca di vivere una nuova esperienza comunitaria, evitando di ripetere gli errori strutturali commessi dagli europei. Un abisso nero e gelido separa un Vecchio Continente ormai esausto su tutti i fron-ti dalla neonata (e sazia del sangue sacrificale dei caduti) ex colonia inglese. Se un uomo dell’epoca avesse osservato in rapida successione i diversi elementi delle due realtà, così distanti tra loro, avrebbe notato vistose differenze nell’as-setto sociale, nella gestione del potere, nell’aspetto esteriore e nella forma mentis degli abitanti. Ma non gli sarebbe sta-to difficile individuare un fenomeno singolare: i sedicenti

di Gianpiero MattanzaFra le pagine d’America

“americani” sembravano aver sviluppato – in modo strana-mente complementare – tratti psicologici e sociali che in Europa erano rimasti in ombra. Il modello europeo, lungi dall’essere smaltito completamente, vive ancora nei coloni, seppur deformato e riconvertito dalle sirene di una “nuova era”. Nonostante la nomea di uomini d’azione, pragmatici e dediti alla difesa armata delle propria libertà dalle vecchie sfingi del potere d’oltreoceano, gli americani non perdono il vizio dell’arte. Come ogni rappresentazione, mimetica o meno, essa si nutre di modelli. La letteratura non è esente da questa regola: inoltre, essa è forse la forma artistica più legata all’identità culturale di un popolo, a causa del collegamento biunivoco tra identità etnica e lingua, che crea (o dovrebbe creare) un’unità superiore.

La letteratura americana delle origini si mostra da subito come un perfetto esempio di prodotto intellettuale forgiato “a distanza” su un modello ben preciso, quello europeo. Par-tendo dall’“autopercezione”, dalla consapevolezza cioè di es-sere i rappresentanti di una neonata cultura, potenzialmente dirompente a livello politico e sociale, gli autori statunitensi rivendicano, forse con una dose di nascosto “rancore” intel-lettuale – l’ammirata stizza del bimbo che prova aff ettuosa invidia della forza del fratello maggiore – una certa continu-ità con la tradizione europea. Il Nuovo Mondo off re ai primi autori “contemporanei” – siano un Washington Irving, un Henry Wadsworth Longfellow o un Edgar Allan Poe, per quanto diversi in termini di qualità – una vera e propria “ta-bula rasa” su cui innestare parte dell’immaginario collettivo europeo per esplorare le spaventose potenzialità di quella che, a tutti gli eff etti, si dimostra come consapevole creazione di una storia nazionale. Laddove gli elementi per crearla scar-seggiano in modo vistoso.

Le prime espressioni di una letteratura matura e consape-vole sono la trasposizione, nelle misteriose atmosfere dell’al-lora in gran parte sconosciuto Nuovo Mondo, di credenze popolari europee. Una sorta di “furto” di stilemi propri del Romanticismo, portato alle estreme conseguenze proprio quando in Europa si è già andati “oltre”.

Il pendolo oscilla: con le nuove generazioni fanno ca-polino anche nuovi autori, che vogliono illuminare con il proprio entusiastico contributo l’appena iniziata storia let-teraria statunitense. Giunta è l’ora, come un tempo in Eu-ropa, dell’immaginosa ingenuità dei grandi intelletti che osservano il mondo e ne traggono commossa ispirazione: su tutti, Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau. Nella dimensione atemporale placida e mistica della vita nei boschi, i due si dichiarano consapevoli della novità lettera-ria che inaugurano, rispettivamente con il saggio Natura e con il romanzo Walden. La giovane, inquieta – eppure così antica e maestosamente serena – America diviene la Magna Mater nel cui ventre nascondersi, come in un antico rituale di rinascita. Una nuova consapevolezza sembra sorgere, nella simbiosi quasi panica del nuovo autore con la natura. Inizia a raffreddarsi quella sensazione di inferiorità culturale verso un mondo antico di cui si conserva solo uno sbiadito ricor-do: anche le sterminate e boscose pianure del West sussur-rano ora la via. Gli autori USA, con il coraggio dei pionieri, scoprono la propria potenziale originalità e cominciano a esplorare terreni nuovi e incontaminati.

Stelle e strisce suonano oggi, nella decrepita e ancillare Eu-

ropa, come “novità”. La bandiera che tanto ha caratterizzato il Novecento è il luogo metafisico entro cui, secondo alcuni, la pesante armatura culturale imposta dal Vecchio Conti-nente crolla, rivelandosi arrugginita e corrosa dal tempo. Il Nuovo Mondo è anche il luogo in cui vecchie storie si me-scolano tra loro e con narrazioni nuove, dando vita a risultati inediti. La sorella minore, ribelle e insofferente, è tuttavia consapevole che, seppur saltuariamente e con stizzoso orgo-glio, deve ancora fare affidamento sulla maggiore, pensierosa e vissuta, esausta nonostante l’aspetto austero. Ma, si sa, la competizione a volte gioca brutti scherzi e rischia di separare ciò che prima sembrava unito da un legame inscindibile.

La condizione adultera tratteggiata con sapienza da Na-thaniel Hawthorne ne La lettera scarlatta è forse la migliore immagine archetipica della condizione statunitense. Fuggire dalla propria casa, cercando di “fare con la propria testa”, tro-vando nuovi compagni d’avventura e nuovi amori. Seguire una propria identità persa nel tetro, infi nito mare dell’in-defi nito, come in Moby Dick di Herman Melville. La balena bianca è simbolo di uno spettro seguito per una vita e mai catturato, se non in punto di morte. L’abissale psicologismo di alcuni autori europei viene forse addirittura anticipato da Melville in merito alla “poetica del fallimento”, declinata at-traverso quegli sterminati spazi oceanici che raffi gurano, in fi n dei conti, l’incertezza dell’esistere. Il rapporto con l’Euro-pa è un ormai amaro confronto/scontro a distanza, nella con-sapevolezza della propria insanabile, reciproca diversità.

Durante l’età contemporanea – potremmo dire, nella modernità – sono spesso pochi, fortuiti interventi d’autore a cambiare la direzione culturale di una nazione. Le Foglie d’erba di Walt Whitman disegnano il prototipo del nuovo intellettuale statunitense: serenamente vagabondo, anticon-venzionale, libero. Versificazione apparentemente lontana dai vincoli formali, volontario stravolgimento della struttura poetica, uso di slang e totale assenza di un orizzonte “oggetti-vo” del poetare: questa potrebbe essere la sintesi strutturale, dalla comparsa dell’opera di Whitman, di gran parte della letteratura americana.

Esiste ormai, a quest’altezza cronologica e dopo simili ri-sultati letterari, un’inversione di tendenza nella percezione che la letteratura americana ha di sé. E tutto ciò non è in-dolore: a trattare diffusamente nelle proprie opere – anche se sotto le mentite spoglie di racconti divertenti e formativi – la lacerante conflittualità americana, interna ed esterna, è Mark Twain: la sua vicenda biografica e letteraria è infatti somma del dramma identitario statunitense, metafora delle inaudite vicende che muovono la coscienza di un popolo in parte ancora sconosciuto a se stesso. Le avventure di Huckle-berry Finn sviluppano riflessioni di grande consapevolezza linguistica: ad esempio, la chiara volontà di Twain di rag-giungere il realismo attraverso la mimesi con il parlato della variegata umanità del profondo Sud.

Ma il Novecento già albeggia all’orizzonte. Se prima era solo un sentore, l’opinione pubblica statunitense a questo punto ha perso l’atavica ingenuità delle origini e ha ben chiaro il peso politico della propria nazione nei confronti dell’Europa occidentale e della porzione di mondo da essa controllato. Ben consci di questo, i principali scrittori del periodo sono spesso tutt’altro che inseriti nei canoni di una monolitica esaltazione nazionale. Un simile atteggiamento,

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spesso di amaro contrasto con la realtà “ufficiale” di una po-tenza in continua crescita, si tramuta in una nuova libertà di interpretazione e rappresentazione della quotidianità firma-ta USA.

In America si parla di Lost Generation per indicare i giova-ni che hanno vissuto, magari al fronte, la Prima Guerra Mon-diale e che non riescono ad andare di pari passo con il “pro-gresso”, con quella manifestazione alienante e disumana che siamo soliti definire “modernità”. Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway sono probabilmente i migliori esponenti di una nuova consapevolezza, di un novello pessimismo nei confronti della società. I protagonisti delle loro opere sono “eroi” nel senso europeo, pseudo omerico – ben diversi dagli antieroi decadenti che popolano i romanzi del Vecchio Con-tinente – ma si scontrano con un diverso linguaggio e un dif-ferente sistema di valori: quelli della meccanica, della catena di montaggio e della metropoli. L’Europa, con i suoi cliché letterari, è ormai lontana anni luce dalla sensibilità made in USA dei nuovi autori.

L’esplosione geografica, orizzontale e verticale, delle me-tropoli americane, lo spaesamento degli uomini comuni e degli intellettuali verso tutto questo induce alla ricerca di nuovi spazi letterari. La destabilizzazione portata dalle guer-re, ad esempio, spinge molti scrittori a un’aspra critica nei confronti del “sogno americano”. Ezra Pound è la figura di poeta-pensatore più consona a definire lo scarto tra la scle-rotica ideologia al potere e un pensiero creatore. Autore, pa-triota, forse il più aspramente criticato del XX secolo, Pound lascia vivere in sé lo spirito teso alla libertà dei Padri Fonda-tori, a suo avviso traditi da politicanti sottomessi a banche e grandi cartelli del potere economico/politico.

La consapevole autarchia intellettuale è ormai compiuta: gli autori statunitensi non hanno più bisogno di punti di riferimento, poiché sono consapevoli di essere a loro volta nuovi modelli per gli altri. Si compie il passo che definisce la maturità letteraria di una nazione: lo stile e l’oggetto della ricerca vengono trovati nella vita, nelle aspirazioni e nei falli-menti del popolo stesso, senza più bisogno di prestiti. Giun-ta la maturità, tuttavia, sta per compiersi il paradosso di una letteratura nazionale senza nazione.

Le guerre generano come risultato “sociologico” lo sposta-mento di grandi masse dal Vecchio Continente al Nuovo. Non emigrano negli USA solo centinaia di migliaia di in-dividui pronti a tutto pur di sfuggire dalla miseria dei Paesi d’origine (Italia ai primi posti), ma anche tutta quella conge-rie di oppositori politici e gruppi etnici perseguitati che in Europa rischiano la vita.

L’America, già terra di novità, si fa garante della libertà d’espressione: così facendo, diventa via via il crogiolo di cul-ture anche diversissime tra loro. Si va affermando quel “mel-ting pot” che da allora è il marchio di fabbrica – e, per molti, stigma – della cultura statunitense.

In questo clima di libertà intellettuale e mescidanza etnica e religiosa vanno affermandosi forme letterarie sempre più slegate dalle tematiche trattate, ad esempio, dalla Lost Gene-ration. È tempo di un’altra generazione, chiamata Beat. Inse-guendo il sogno già whitmaniano di una vita di vagabondag-gio e poesia, scrittori come Jack Kerouac e Allen Ginsberg rinnovano per primi l’archetipo dell’autore slegato dalla for-ma e dalla preoccupazione estetica, per far divenire poesia la

propria stessa vita, fatta di eccessi e costellata di vicende “al limite”. La volontaria rottura dei canoni estetici è in questo caso finalizzata alla dissoluzione della morale comune, anche qui in totale contrasto con le necessità dei “nuovi giovani”. Proprio lo scontro generazionale è ciò che maggiormente caratterizza gli anni Cinquanta e Sessanta: Jerome David Sa-linger, con Il giovane Holden, si inserisce in questa temperie culturale, analizzando l’alienazione dei nuovi americani.

L’intellighenzia ormai ibrida dell’America anni Sessanta è ferocemente opposta allo stile di vita dell’american middle class: se l’opera di John Dos Passos ne è un esempio, è tut-tavia Charles Bukowski a portare alle estreme conseguenze l’atteggiamento autodistruttivo del cittadino che non riesce a tenere il passo dell’avanzare della metropoli. Lo scrittore in questo caso è un alienato, un diverso, quasi un reietto che vive la città come il coacervo delle bassezze umane più turpi, ma non ne può fare a meno perché di tutto questo si nutre.

Nel vortice di intimismo, spesso di autentica patologia decadente – in senso tutt’altro che europeo – che percorre le più recenti esperienze letterarie americane, si fanno vive anche voci controcorrente, che tentano di riordinare, spesso con amara ironia, il puzzle postmoderno che gli Stati Uniti incarnano. Ed ecco che autori come Don De Lillo e Philiph Roth, esempi viventi della ormai multietnica realtà america-na, creano opere entro cui l’uomo comune viene reinserito con nuova dignità nella cornice marcescente e postmoderna di una nazione – nonostante la creazione dei cosiddetti “miti americani” – ormai priva di identità e disorientata come mai prima d’ora.

Nella seconda metà del Novecento e nel primo decennio del terzo millennio sono ormai gli americani, assai poten-ti economicamente e politicamente, a dominare il “gusto” mondiale. Spesso con opere di grande qualità letteraria, che definiscono realmente uno “stile americano” con tutti i cri-smi, di cui molti tra gli scrittori di tutto il mondo occidenta-lizzato si fanno imitatori.

L’Europa, salvo rari casi, è ormai del tutto soggiogata alla forma mentis di stampo americano e in campo artistico non ha più una capacità propulsiva propria. Parassita di un corpo dalle alchimie indecifrabili perché legate alla breve ed esplo-siva storia degli Stati Uniti, si limita a imitare pedissequa-mente tic e cliché di un’intellighenzia dalle molteplici sfac-cettature etniche, ma che ha raggiunto un’unità di intenti e di coesione ideologica che è persino riduttivo definire mo-nolitica. Tanto che oggi si può parlare non solo di American way of life, ma anche di American way of thought. Nel bene e nel male, ovviamente.

In questi termini, discutere oggi di “letteratura statuniten-se” è forse scorretto e anacronistico, in quanto le voci più autorevoli di tale ambito di americano hanno solo il pas-saporto. Probabilmente, sarebbe più corretto discorrere di “letteratura del melting-pot statunitense”, identificando con questo l’ormai diffusa pluralità di provenienze geografiche alla base del fenomeno. Etichetta che forse potrà non pia-cere ai cattedratici abituati a classificazioni più specifiche e “chiuse”, magari ancora legate a una visione “nazionale” dell’espressione letteraria, ma che riassume l’originalità e, spesso, la qualità con cui gli scrittori “americani” – le virgo-lette a questo punto sono obbligatorie – spazzano via ogni definizione “europea” di prodotto di stampo artistico.

2005) e L’anima e l’economia (Mondadori, Milano 2005) – Alvi ha disseminato intuizioni tali da renderli una miniera inesauribile. Questa antologia di testi raccolti dalle sue opere vuole semplice-mente essere un’introduzione a un pensiero che aff erra le cause e i nessi dell’epoca che va sotto il segno dell’infl uenza americana e, più in generale, come emerge da molti dei brani riportati, anglo-fona. Della sua visione del mondo, della sua teoria di vita e della sua prassi. «Se gli anglofoni prevalgono nella modernità – scrive infatti Alvi in uno dei suoi libri più discussi –, se oggi a chiunque pare normale vestirsi in blue jeans come cent’anni fa si vestivano i contadini americani, questo è perché il nomos, ovvero la disciplina forma dell’agire degli anglofoni, incarna quello della modernità. Solo agli anglofoni riuscì in eff etti di combattere due guerre civili esemplarmente economico-religiose, pervase da raro fanatismo biblico e vili tornaconti» (Il Secolo americano, cit., p. 450).

a cura di Riccardo Paradisi

Il secolo di Mr. Hyde: l’America vista da Geminello Alvi

Peggiore dell’americanismo coatto di chi ritiene che il mon-do sia un’entità da sussumere al destino anglofono c’è solo l’antiamericanismo isterico di quei frustrati, ideologica-

mente ossessionati dall’America come negazione della loro pre-sunta identità. Identità così abituata ad aff ermarsi per contrapposi-zione da essere diventata coscienza infelice, spirito che sempre nega, impotenza organizzata in rancore. A tutti costoro – revanscisti o “antimperialisti” e in fondo americanizzati – gioverebbe, come a tutti, la meditazione di quanto sul secolo americano ha scritto Ge-minello Alvi, portando sull’egemonia americana e sullo Zeitgeist che l’ha favorita lo sguardo equanime e spregiudicato di un eco-nomista e uomo di cultura tra i più originali e interessanti di questi anni. Nei suoi libri – dalle Seduzioni economiche di Faust (Adelphi, Milano 1989) a Il Capitalismo: verso l’ideale cinese (Marsilio, Ve-nezia 2011), passando per Il Secolo americano (Adelphi, Milano

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«Il ridursi del mondo a mercato è un processo non lineare; si svolge da secoli; gli anglofoni vi hanno prevalso […]. Eppure esso pare incontenibile proprio all’indomani del 1991, del di-sgregarsi dell’ultimo concorrente degli americani al dominio mondiale: l’URSS. Conferma che l’espansione del liberismo, del prevalere del mercato sulla politica, richiede prima il pre-valere di una politica. In eff etti il liberismo e il suo opposto, il mercantilismo, sono stati nella storia modi ambedue utili all’egemonia economica del più forte. Ad esempio, nel 1651, non vi era un altro modo per estendere il commercio inglese e aumentare la fl otta che il Navigation Act. Tutto imponeva a Cromwell di favorire i mercanti, gli interessi navali, delle ma-nifatture esportatrici e dei molti che vi dipendevano, e il pro-seguire delle colonie. E solo appunto perché dal ‘600 al ‘700 la politica mercantilista inglese prevale sulla Olanda e la Francia, la City nell’Ottocento potrà concedersi d’applaudire Adamo Smith. Londra aveva ormai la più grande fl otta di navi mer-cantili del mondo, i suoi titoli a lungo e a breve termine erano distribuiti nell’Impero. L’avanzo dei noli, delle rendite e degli interessi sommato era due volte e mezzo il disavanzo mercan-tile e rendeva ovvio il liberismo. Altri certo erano i conti esteri dell’America di Reagan. Eppure, alla sua morte, per gli USA, dopo cinquant’anni, il liberismo era ritornato utile, anzi inevi-tabile. Dopo le guerre stellari gli Stati Uniti sono come l’Inghil-terra dopo la sconfi tta di Napoleone […]. La ricchezza totale interna è circa venti volte il debito netto con l’estero. Confer-ma ulteriore che gli Stati Uniti sono una economia continen-tale. Gli inglesi, leader del mondo per due secoli e mezzo, fi no alla grande guerra, erano una economia più orientata dai mer-cati esteri di quella americana. Come la fi ne degli Anni Novan-ta, anche gli Anni Venti promettevano il lusso di massa: auto, radio, costruzioni, ritmavano allora la congiuntura. Appunto la macchina giallo crema foderata all’interno di cuoio verde, la villa di fi aba e la musica di Gatsby. Aiutato nel suo amore per Daisy da atti azzardati. Come l’America d’allora, che per potersi permettere i nuovi consumi durevoli deve indebitarsi e speculare. La Grande Depressione fu un disastro debitorio; malgrado i patrimoni netti che gli USA possedevano allora sull’estero. Ma nella seconda metà degli anni ‘90 gli Stati Uniti hanno superato se stessi. Hanno convogliato capitali da tutto il mondo in una bolla speculativa come è stata Internet. Non risparmiano, sono debitori netti del resto del mondo, con un defi cit dei conti esteri del 4,4%, eppure seguitano lo stesso a co-mandare. Ma come sarebbe possibile, se il processo di globaliz-zazione fosse un processo puramente economico? Huntington è poco letto; Quigley, malgrado Clinton sia stato suo allievo, è uno sconosciuto. Eppure sono i due storici anglofoni di questo secolo più indispensabili per capire la globalizzazione. In Th e Clash of Civilization come nei libri di Quigley, si ragiona per civilizzazioni. L’economia è un arto dello spirito, subordinata alle varie culture. La globalizzazione di fi ne ‘900, come il Na-vigation Act di Cromwell o la City dell’Ottocento, sono modi attraverso cui una civilizzazione, quella anglofona, rinforza o rinnova il proprio potere sulle altre […]. La globalizzazione è una fase del conclusivo consolidarsi di un impero universale anglofono. Persino i canzonettisti che moralizzano dai palchi sono emanati dalla identica cultura. Internet completa un pro-cesso d’omologazione anglofona di lingua, cinema, canzoni, moda. L’Impero degli anglofoni è universale, nel senso che an-nienta ogni diversità, plasma i vari popoli in consumatrice ple-

be indistinta. Nel gran parlare di Internet s’è dimenticato che il più potente stimolo, dopo le guerre, alla crescita americana è venuto dagli immigrati. È la plebe cosmopolita, che veste in blue jeans come una volta vestivano solo i contadini americani. E come oggi vestono tutti. Ascoltando lo stesso rumore fi nto musica. Anche perciò la società multiculturale è un’idiozia. Il collante tra l’immigrato e le nazioni che l’ospitano anche in Europa non è né la cultura dell’immigrato né quella di chi lo ospita: è la sciatta cultura delle plebi americanizzate da abiti, tv, dischi, computer. Scriveva Miller che la vita è ormai un incubo ad aria condizionata; aggiungerei che parla l’inglese» (Corrie-re della Sera, 16 luglio 2001).

«Per l’anima degli anglofoni l’economia è istinto; e l’epoca moderna, ovvero economica, non poteva essere altro che loro. Loro, il feroce candore di tutto con tenacia amministrare e ri-entrare con terrenizzata volontà, pratici. Agli altri lasciarsi do-minare dalle pure astrazioni della testa o dalle confusioni aeree del cuore; agli anglofoni adattare testa e cuore a quanto serve nel corpo all’economico: gli arti e il ventre. L’anima dedita con tenacia a fecondare e ad agire li ipertrofi zza, e vi s’affi da. Da lì l’istinto sale al cuore e lo denuda di quanto non sia utile, e al pensiero, raff reddandolo a calcolo» (Il Secolo americano, cit., p. 50).

«Il desiderio di un’adolescenza eterna avvelena, e imprigiona, gli Stati Uniti. Oltreoceano non è dato d’essere adulti come era nell’armonia dell’epoca omerica; tutti si condannano piuttosto alla nostalgia d’essere adolescenti. E sempre pensano indietro; a come eravamo. In nessun altro luogo dell’epoca presente la no-stalgia dell’adolescenza è più intensa e sincera. Solo in quell’età gli americani sanno chi sono; dopo di essa scorrono solamente gli anni anagrafi ci: quelli interiori s’arrestano. Le automobili e le ipnosi della radio, come le feste di benefi cenza, sono i dure-voli esorcismi che anestetizzano, evitano dolore alle veementi nostalgie di Gatsby» (Ivi, p. 269).

«Una riprova della ferocia religiosa con cui s’attua l’opposi-zione amico-nemico in America sono quelle isterie che cicliche tormentano e ipnotizzano l’America. Abolizionismo, proi-bizionismo, maccartismo sono dei fantasmi che rinforzano la sovranità, danno al dominio statale ambiti propri esclusivi; gli concedono di potere riguadagnare quanto esso ha perduto in confronto all’Europa. Persino le epidemie di ginnastica si pie-gano allo scopo: nutrono quell’isteria per la felicità che è la vera garante della Costituzione americana» (Ivi, p. 449).

«Riconoscere il Male, scoprire in Lenin e Hitler e in Charlot non uomini ma grottesche marionette animate da malvagità so-vraumane, divine. Il Secolo Americano e le infamie di cui esso si nutre darebbero almeno il modo di capire, di riconoscere il Divino in atto. Se non si ha il coraggio di reggere il Cristo e l’Apocalisse, almeno si riconosca la divinità del Male, l’orrore» (Ivi, p. 444).

«La Virginia e il Sud erano emanati e permanevano in una Inghilterra ancora elisabettiana: aristocratici, agrari, devoti agli studi classici, rinascimentali. Gli altri erano i seguaci di Cromwell: le anime del New England per le quali papisti, in-diani o inglesi fedeli all’Inghilterra erano fi gli delle tenebre, e

l’unica felicità pensabile era quella non classica, né aristocratica, generata dal capitale. Il Sud venne prima piegato alle urgenze di un Nord che voleva i dazi e che pareggiava la sua bilancia mer-cantile con le esportazioni di cotone del Sud. Ma non poteva bastare ridurre il Sud alla condizione di una Periferia economi-ca, come diverrà quella dei nuovi Stati fr ee soilers. Era il nomos del Sud che doveva annientarsi; doveva prevalere il nomos dei navigatori mercanti che con Cromwell avevano mutato gli in-glesi in anime per sempre diverse da quelle dell’Europa. A tanto pensò il presidente Lincoln» (Ivi, p. 450).

«“Il mio sogno è che nel procedere degli anni, e come il mon-do saprà di più dell’America, esso… ricorrerà all’America per quelle moral inspirations che risiedono alla base di ogni liber-tà… e che l’America giungerà alla piena lucentezza nel giorno in cui tutti sapranno che essa colloca i diritti umani avanti a tutto, e che la sua bandiera è la bandiera non solo dell’America, ma dell’umanità”. Il bene umano si confonde con il bene degli Stati Uniti, e il bene degli Stati Uniti era deciso dalla pubblica opi-nione americana: dunque spettava al profeta Wilson, che ispi-rava la pubblica opinione, incaricarsi del bene dell’umanità. Per questo sillogismo, le adolescenze di Wilson decisero il secolo e i salotti dei Club di Washington e di Wall Street divennero cruciali per la salvezza dell’umanità» (Ivi, p. 39).

«Anglosaxon idea signifi ca che non è l’America, ma l’Inghil-terra, a reincarnarsi in un Secolo Americano» (Ivi, p. 451).

«L’ideologia degli indoeuropei era triarticolata, separava ri-gidamente economia, religione e guerra. E dunque i guerrieri, non i banchieri, avrebbero deciso la guerra, e si sarebbe chiesta alla religione e non all’economia la felicità. In un’epoca econo-micizzata e quindi disordinata, invece, prevalgono le prepoten-ze della Morgan & Co. e le religioni dei Wilson; peggio, paiono ovvie e innate» (Ivi, p. 41).

«L’America: sogno di mondi reiterabili, cinema, fi nzione venduta per vera, circo senza ritegno» (Ivi, p. 43).

«L’americano ideale è il mal cresciuto; è per non crescere che egli si applica con ogni tenacia, e ordine, a guadagnare denaro; con esso acquisterà la felicità e reiterate adolescenze a coman-do» (Ivi, p. 451).

«La felicità del Secolo Americano è circolare, vuole bastarsi; la felicità donata dalla bellezza all’io invece bilancia quel dolo-re, che è il nome dell’anticielo, della gravità che solo brama se-guitare a rattrappirsi e che, se ci riuscisse, annienterebbe la vita. Il sotto della terra greve, se penetrato, genera un preliminare dolore necessario, senza il quale la bellezza del mondo vegeta-le e animato non vivrebbe, e non esisterebbe più alcuna felicità umana. L’apocalittico ricerca la felicità nella bellezza per reg-gere il dolore della terra, che senza rimedio poi l’annienterà» (Ivi, p. 466).

«Le follie necrotiche di Hitler hanno dimostrato che esiti abbia un prussianesimo di massa americanizzato; hitleriti cine-matografi zzanti, i loro incubi aerei ed esoterici hanno incarnato esemplarmente il nomos dell’aria, ovvero un mondo divenuto criminale pur di rimanere per l’eternità fi nto: questo era l’incu-

bo di Hitler. Solo il nomos del fuoco, e dunque libertari apoca-littici, ma ordinati, possono off rire modo al meglio dell’Europa di reincarnarsi in Russia» (Ivi, p. 470).

«Le élites degli anglofoni si sedimentano per cooptazione e in modi occulti e assai stravaganti. Altro sospetto, non politica-mente corretto, ma lecito: la forza di quelle nazioni non sono i meccanismi elettorali, ma la coesione dei loro establishment, che li fa agire con spregiudicatezza ed effi cacia impossibili alle disomogenee classi dirigenti europee» (L’anima e l’economia, cit., p. 14).

«Ci sono state tre guerre mondiali tra l’area anglofona e il resto del mondo. Mai interne all’area di lingua inglese. E questo è piuttosto paradossale, se si pensa al modo in cui i vari impe-ri si sono succeduti nel dominio universale. Questo è stato in-somma il “Secolo Americano”, ma anche il secolo anglofono per eccellenza, in cui le economie anglofone hanno prevalso non soltanto per le loro virtù economiche, ma soprattutto per dei calcoli politici ogni volta riusciti alle élites inglesi e americane» (Ivi, p. 140).

«Il liberismo di Washington dovrebbe riconoscersi come una fase di narcosi, che ricerca in stati, non soltanto monetari, e tut-ti alterati, la maniera di proseguire un’esagerazione: quella del lusso di massa, di consumi senza risparmio, ma presi a misura del mondo. L’omologazione ha ormai un nome: americanizza-zione. Maniera usata dall’estremo Occidente per omologare il mondo all’egoismo degli Stati Uniti d’America, trascorsi dal-la barbarie alla decadenza, senza mai conoscere la civiltà […]. Come improvvise ondate, i popoli dell’Oriente si desteranno contro l’Occidente. In guerre che sono e saranno confl itti di civiltà. Tra l’io incarnato dalla civiltà anglofona in forme solo venali e il dispotismo orientale in forme ossesse» (Il capitali-smo, cit., p. 263).

«La Cina è gesto vitale che sa cos’è la vergogna ma non il peccato; gli Stati Uniti un incubo ad aria condizionata; ma l’Europa? L’Europa è il logos. Questa la sola risposta d’un espri-mersi estremo. Dicendo che l’Europa è il luogo del mondo dove reiterate volte l’io è giunto a massima espressione, nominando Keplero, Socrate, Goethe... si fraintenderebbe. Si resterebbe an-cora in un dire museale. A meno che non ci si separi dallo spazio dell’economia e dello Stato; e questo suo logos si lasci quindi senza nomos: puro spirito nascente, solo e, com’è, disperato. In cupo abisso, terribile e vuoto, si dà l’Europa e il suo coraggio, che è quello scritto da Leonida e i suoi trecento alle Termopili. E quindi da Carlo Magno a Poitiers, da Socrate che beve la ci-cuta, dagli ebrei che insorsero nel ghetto di Varsavia, da Bruno fi nito bruciato a Campo dei Fiori. I pochi di qualunque lingua e vario colore sono l’Europa. Solo in quanto stato dell’anima, essa defi nisce lo spazio in voragine individuale. La Stalingrado dei tedeschi e dei russi; la X Mas che salvò Venezia dalle foibe; le ciociare violentate dopo Cassino che tirarono su i nati che gliene vennero, come fi gli loro; gli aviatori studenti della bat-taglia d’Inghilterra… Ecco l’Europa: il logos dove l’io può darsi in espressione altrove impossibile. Sacrifi cio di libertà in cui i pochi salvano i molti e, ogni volta, pagano però con la vita. In ciò l’Europa è cristiana e argomento della cavalleria più aristo-cratica, calma e coraggiosa: quella del dolore» (Ivi, p. 299).

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La vergine dei pavoni nei territori del diavolo

di Silvio Raff o

Nell’esplorazione della no man’s land americana – quel consistente lembo di America del Sud che trova nella wilderness la propria connotazione più specifi ca ma

resta comunque una nebulosa diffi cilmente defi nibile – ci si imbatte in personaggi atipici e sulfurei, “imperdonabili” per la loro geniale stravaganza e l’irriducibile coerenza con la propria diversità – fi gure senz’altro controcorrente rispetto a quelle che sono le norme del moralismo statunitense contemporaneo. La diversità sconcertante di cui stiamo parlando è una qualità emi-nentemente femminile. Una scrittrice, quando si discosta dai canoni della letteratura (e dell’etica) corrente, lo fa con eff etti più devastanti di quelli prodotti da uno scrittore, e suscita più scandalo. Un caso del genere è Flannery O’ Connor, nata nel 1925 a Savannah, in Georgia, da una famiglia di ceppo irlan-dese rigidamente cattolico, che eredita dal padre una malattia incurabile, il lupus eritematoso, e vive tutta la sua breve esistenza

(eccezion fatta per l’anno di studio alla State University of Iowa e un breve periodo newyorchese) in compagnia dell’amatissima madre in una fattoria dall’esotico nome di Andalusia, situata a quattro miglia da Milledgeville: cinquecento acri di campi e mille di bosco.

Gli eventi essenziali della vita di Flannery sono così riassumi-bili: a cinque anni, insegna a un pollo a camminare all’indietro, guadagnandosi per questo una certa notorietà, a venticinque le diagnosticano un’artrite reuma-toide, che poco più tardi si rivela lupus, dal ventisettesimo si dedi-ca all’allevamento di pavoni (gli esseri viventi con cui ha il rap-porto più felice e creativo); i due esponenti della specie maschile con cui ha un inizio di legame – ovviamente solo platonico – si dissolvono con la rapidità di un lampo: il primo, John Sullivan, si fa prete; il secondo, il danese Erik Langkjaer, fa ritorno in pa-tria (e qui prende moglie) pochi mesi dopo averla conosciuta.

La vita (o, se si preferisce, la non-vita) di Flannery O’ Con-nor è totalmente consacrata alla scrittura. In modo non dissimi-le dall’altra grande solitaria del Massachussets, Emily Dickinson, che all’ex-sistere aveva sostituito l’Essere nelle forme della poe-sia (iniziando a scrivere proprio intorno al 1850), Flannery de-manda alla scrittura in prosa la medesima funzione sostitutiva. Il suo primo romanzo, La saggezza nel sangue, viene scritto nel 1951 e pubblicato l’anno successivo. Incredibilmente, ottiene discre-te recensioni (Th omas Merton la paragona a Sofocle, Evelyn Waugh si proclama incredulo che «cose del genere siano state scritte da una signorina») e la solitudine della “fortezza” che Flannery è destinata a presidiare per sempre non le impedisce di stringere solidi rapporti con critici, editori, poeti e intellettuali (come Ashley Brown, Caroline Gordon, Cecil Dawkins, Eli-sabeth Bishop – che però ha “paura” di andare a farle visita –, Catherine Carver e il gesuita padre McCown, con cui intreccia una fi tta corrispondenza epistolare), né di tenere conferenze e corsi di scrittura, quando le condizioni di salute glielo per-mettono. Singolare, e per noi di particolare interesse, il legame d’amicizia con Omar Pound, fi glio di Ezra Pound e Dorothy Shakespear, spesso citato nel carteggio che ha visto la luce di recente nella bellissima traduzione di Ottavio Fatica.

Ciò che in Flannery O' Connor sgomenta il lettore – e lo studioso di letteratura – è il crudo realismo dello stile nonché l’agghiacciante e impietoso sguardo sulla «tremenda evolu-

zione del male» che pare essere l’unica realtà verifi cabile «nel territorio del diavolo» (il pianeta che abitiamo, lasciato da Dio in preda del maligno), visione non certo in sintonia coll’otti-mismo delle “magnifi che sorti e progressive” in auge negli USA di quegli anni – ma non solo.

È Flannery stessa a teorizzare la fi sionomia dello scrittore-artista: «Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegua l’arte, persegue la ve-

rità, in senso immaginativo, né più né meno… I materiali dello scrittore di narrativa devono essere i più umili. La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, quindi se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentar di scrivere nar-rativa; non è cosa abbastanza nobile per voi… Per Conrad lo scopo dell’arte letteraria consi-steva nel rendere il più alto gra-do possibile di giustizia all’uni-verso visibile». La narrativa, insomma, è un’arte che richiede anzitutto una precisissima “at-tenzione” al reale.

E il reale è l’orrore. L’unica forza quotidianamente attesta-bile nel suo incessante progre-dire è il male: «Il senso morale del diavolo coincide punto per punto con il suo senso dramma-tico». In Flannery O’Connor si percepisce tangibilmente, come attraverso un manometro, quanto la malattia incida sul suo modo peculiare di sentire e di scrivere. La malattia è la sua scuola di vita nella perenne an-ticamera della morte, il suo ra-dar pulsante nel deserto, il suo segreto elisir e l’unico referente possibile: «Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, ed è un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nes-

suno può seguirti. La malattia prima della morte è cosa quan-to mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore». Quando nomina Dio, peraltro, il suo tono non è mai ironico, giacché la religiosità di Flannery è qualcosa di radicalmente congenito al suo temperamento, così come la sua fede è il sostegno più incrollabile. Una fede intransigente che la induce a criticare in termini molto duri quei «cattolici di un certo genere, che, se sono tanto disgustosi, è perché in realtà non hanno fede, ma solo una specie di falsa e voluta certezza. Fanno sempre quadrare i conti, per loro la Chiesa non è il cor-po di Cristo ma il sistema assicurativo del poveraccio».

Proprio il binomio fra dimensione religiosa e violenza è la ci-fra distintiva della poetica o’connoriana. Non esiste altro caso

“L’idea di

un pianeta abbandonato

al diavolo è incontrotendenza

rispetto alle sorti magnifiche

e progressive del moderno

sogno americano”

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letterario (nemmeno Faulkner) in cui la ferocia sia tanto stret-tamente congiunta all’anelito al divino. Tutte le storie di Flan-nery registrano con impietosa minuzia il trionfare del male e insieme il misterioso lavoro di bulino esercitato dal bisturi di un Dio indecifrabile, che sembra aver abbandonato l’uomo perché questo ultimo non vive più nel mondo da Lui creato ma in un altro, «nel territorio» appunto «del diavolo». Ci troviamo allora di fronte a un caso di letteratura anagogico-moralistica, veterotestamentaria e bigotta? Assolutamente no: la scrittura di Flannery è quanto di più lontano si possa immaginare dal moralismo o da un moraleggiare didascalico. Qui c’è solo dinamite in attesa di esplodere, di pagina in pagi-na, con quell’eff etto di disorien-tante annientamento e paralisi che coglie inevitabilmente chi si è avventurato in quel diabolico groviglio-labirinto che è un ro-manzo, o un racconto, di questo genio in stampelle che chiamava il proprio corpo «struttura ad archi rampanti». Il tragico e il grottesco sono le sole note della sua tastiera.

Nel racconto Un brav’uomo chi lo trova?, una famigliola bor-ghese in viaggio per le vacanze viene sterminata da un terzetto di delinquenti (argomento che interessa la O’Connor quanto la malattia e la follia, tutto il resto è noia): lo sterminio av-viene in un bosco molto simile a quello di Milledgeville, ed è la nonna ad avere il colloquio più lungo con l’assassino, un evaso dal divertente soprannome di “Lo Sbagliato”: nella sua fede ferrea e meravigliosamente in-genua, lei gli parla di Gesù e lo chiama suo “bambino”, facendo di tutto per salvargli l’anima, e il mostro, che un attimo prima sembrava sul punto di piangere, dopo averla freddata con tre colpi di pistola, risponde alla battuta dell’altro mostro («Che divertimento!»): «Zitto, Bobby Lee: non c’è vero piacere, nella vita».

L’opera dello Spirito Santo è in eff etti molto, molto misterio-sa: il racconto Malattia mortale ha per protagonista un giovane venticinquenne gravemente malato che torna nel paese natio con la precisa convinzione di morirvi, e sarà invece condannato a sopravvivere asfi ssiato da una madre incapace d’amore e da una sorella perfi da: «Lo Spirito Santo, cinto di ghiaccio anzi-ché di fuoco, proseguì, implacabile, la sua discesa».

Le parabole di Flannery sono percorse da un soffi o di deliran-te messianesimo, la colpa e la redenzione, il peccato e la grazia intrecciano balletti sconnessi ed emettono balbettii strozzati in una geenna fosforescente di sinistri bagliori: sono le stesse la-ceranti contraddizioni camuff ate dalla maschera dell’american way of life. Nessun tormento è risparmiato ai suoi personaggi

miserabili e sublimi: si tratti di vincitori o vinti (ma di qua-le vittoria, di quale debacle?), predicatori folli (del genere del protagonista del fi lm di Laughton La morte corre sul fi ume), centenari in preda a deliri di onnipotenza, giovani maliziose e malvagie o garzoni mentecatti. Il cielo è dei violenti, recita il titolo di un suo romanzo. Signifi ca forse che la conquista del Paradiso impone non tanto la sottomissione alla volontà di Dio quanto la feroce determinazione e la spietatezza nei con-fronti di se stessi e degli altri, perché, come sostiene l’“Anna dei miracoli” di William Gibson, «il vero peccato originale è la rinuncia»: andare fi no in fondo, consumarsi e bruciare è il

vangelo di Flannery. Il suo stile acuminato e incandescente ri-manda a un eccezionale e misco-nosciuto narratore australiano, Patrick White, Premio Nobel 1975, e alla sua più vicina con-sorella Carson McCullers, altra bad girl della stessa waste land, altra sdegnosa damigella del di-sagio e dell’incubo americano. Qualcuno potrebbe vedere in lei anche un’anticipatrice del mood Alice Munro (ma Flannery è over e beyond, più su e oltre).

Un giorno di giugno del 1963, due mesi prima che le sia diagno-sticata quell’anemia che le sarà fatale, è il più felice della vita di Flannery: riesce a contare quat-tordici dei suoi quaranta pavoni che fanno contemporaneamente la ruota. Per gioco ripassa men-talmente i titoli dei suoi racconti e si ferma al quattordicesimo: La vita che salvi può essere la tua (il titolo era stato mutuato da una frase di James Dean rivolta al suo compagno in automobile: «Guida piano, la vita che salvi potrebbe essere la mia»); si do-manda se potrà ancora scriver-ne altrettanti. Si rammarica di

non aver accondisceso alla richiesta di Rose Hawthorne (fi glia dell’illustre scrittore e direttrice di una congregazione di suore domenicane) di romanzare la biografi a di una bambina dal vol-to sfi gurato (come il suo) morta a undici anni, di nome Mary Ann: avrebbe potuto essere, pensa, il suo capolavoro.

Di racconti riuscirà a scriverne solo altri due, La schiena di Parker e Il giorno del giudizio; l’incipit di quest’ultimo recita: «Tanner conservava tutte le sue forze per il ritorno a casa». Esattamente come lei, martire in due sensi – letterariamente e umanamente – così docile nei confronti del tumore che si aggiungerà al lupus da riservargli una altrettanto benevola ac-coglienza, poiché la saggezza più profonda è quella del sangue più malato, e se chi porta la croce riesce ad arrivare in cima al calvario con le proprie forze, senza inutili lamenti, l’essere-per-morire si ribalta in morire-per-Essere. Provare per credere.

Lei, la vergine dei pavoni, ci è riuscita. Dal 3 agosto 1964 è una costellazione letteraria nel cielo dei violenti.

di Diego Sobrà

Il popolo del mais

l’immagine di quel poster sarebbe aff ollata da centinaia di prodot-ti che hanno poco o nulla a che fare con l’alimentazione, come pannolini, cosmetici o taniche di etanolo. Ma come si è arrivati a questo punto? Nel Seicento, le tribù dei Wampanoag, che già lo coltivavano e ne selezionavano le qualità per adattabilità alle varia-bili condizioni climatiche e facilità di conservazione, introducendo il mais ai Padri Pellegrini nei primi insediamenti del New England probabilmente non avevano previsto ch’esso sarebbe diventato la fonte di energia in grado di permettere la rapida espansione dei coloni europei verso le fertili pianure dell’interno, fonte della loro sopravvivenza. A prova della sua ascesa nelle consuetudini com-merciali dei nascenti Stati Uniti, lo troviamo anche, poco dopo, come misura di scambio nella compravendita e nel nutrimento dei primi schiavi provenienti dall’Africa. Il suo complesso e, per certi versi, bizzarro processo riproduttivo – capace di formare abbon-danti semi di grandi dimensioni rinchiudendoli però in un solido cartoccio, quindi con scarse possibilità di una diff usione autonoma – è diventato, nelle mani dell’uomo, la perfetta soluzione per la sua

“In Flannery O’ Connor,

la ricerca del divino

si salda a una violenza e a una ferocia

senza pari”

All’inizio del secolo scorso, durante il primo confl itto mon-diale, in America circolavano numerosi manifesti che, in-citando la popolazione civile al supporto bellico, avevano

una funzione educativa anche riguardo al risparmio e all’uso delle risorse alimentari. Tra gli altri colpisce quello che magnifi cava, at-traverso una tavola riccamente imbandita, la versatilità di utilizzo di un cereale – il mais – che di lì a poco avrebbe cambiato in maniera defi nitiva sia la pratica dell’agricoltura sia il rapporto dell’america-no medio con il cibo. Il progresso scientifi co ha spinto tale versati-lità a livelli all’epoca impensabili, trasformando questa pianta origi-naria dell’America centrale – Zen Mais, in linguaggio botanico – in una sorta di petrolio giallo, dove ogni singolo chicco, scomposto e declinato innumerevoli volte nel verbo del profi tto dell’odierna industria di trasformazione, può essere rivenduto dozzine di volte. Un grande aff are per il produttore e, in apparenza, anche per il con-sumatore – sennonché il basso prezzo dei prodotti ne nasconde un altro, insostenibile, quando a colmare la diff erenza sono la dignità, la salute e spesso la vita di milioni di persone. Se fosse stampata oggi,

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sopravvivenza, rapporto non dissimile da ciò che in biologia lega parassita e ospite. Quella mano ne ha plasmato l’evoluzione a uso esclusivo dei propri bisogni e abitudini, ad esempio ingrossando ulteriormente le pannocchie o indirizzando la pianta verso una cre-scita in altezza che ne facilitasse la raccolta meccanica. La pianta si è piegata docilmente a quella mano, la quale, come sotto una carezza, l’ha portata a essere oggi una specie vegetale che, senza quel tocco, si estinguerebbe nel giro di una stagione, senza lasciare traccia.

La fi ne della Seconda Guerra Mondiale lasciò in eredità magaz-zini militari stracolmi di nitrato di ammonio, componente base nell’assemblaggio di esplosivi ma anche ricco di azoto, elemento insostituibile nella formazione di aminoacidi e proteine, essenziali a ogni forma di vita. Nei campi, fi no a quel momento, il livello di azoto – merce rara in natura – era mantenuto costante dalla ro-tazione delle colture, in particolare di cereali e legumi. L’ingresso dei concimi di sintesi azotati rese di fatto inutile questa pratica, favo-rendo la monocoltura, che avrebbe uniformato il paesaggio agricolo e umano delle campagne americane. È una pratica che accelera il pro-cesso di desertifi cazione e l’inqui-namento, in particolare delle falde acquifere, le quali, a loro volta, tra-sportando dai fi umi al mare l’ecces-so di nutrienti non trattenibili dal terreno, provocano ad esempio la crescita abnorme della fl ora marina, evento comune nel golfo del Messi-co e osservato similmente anche nel nostro Mar Adriatico.

Il principale protagonista e be-nefi ciario di questa rivoluzione fu sicuramente il mais. A tale crescita di produttività si aggiunse, qualche decennio più tardi, il ribaltamento – propugnato dal governo Ni-xon – di quelle priorità che, dai tempi del New Deal del presidente Roosevelt, avevano regolato le politiche agricole. L’occasione ven-ne off erta dal freddo: colpita da una pessima annata dei raccolti, l’Unione Sovietica fu costretta ad acquistare milioni di tonnel-late di cereali dagli USA. Se all’inizio il conseguente incremento generalizzato delle esportazioni e dei margini di guadagno sulle materie prime riempì di dollari le tasche dei coltivatori – in quella che oggi defi niremmo una “bolla” speculativa –, poi provocò un deciso rialzo dei prezzi degli alimenti e la loro diffi cile reperibilità quotidiana, con disagi e proteste in tutta la nazione, trascinata in una paradossale condizione di miseria in mezzo all’abbondanza. La risposta liberista del dipartimento dell’agricoltura a questa si-tuazione fu l’esortazione a un massiccio aumento della produzione. Essa avrebbe goduto di un nuovo programma di incentivi e sussidi, non più, come in precedenza, destinati a regolare costi e volume delle coltivazioni, anche con un periodico riposo dei terreni, ma a integrazione, la cui stima è stata fi no ad oggi sempre rivista al ribas-so, delle oscillazioni del mercato – il che suggeriva, in pratica, di vendere qualsiasi quantità a qualsiasi prezzo.

L’attenzione si spostava quindi dalla fattoria e chi ci lavorava alla semplice produzione quantitativa, fornendo un primo diretto vantaggio alle multinazionali dell’alimentazione. L’infl azione, che fi no alla fi ne degli anni Settanta mantenne vantaggiosi i tassi di in-teresse e alto il valore dei terreni, indusse gli agricoltori – che aveva-

no accesso a prestiti concessi in una quantità pressoché illimitata – a correre il rischio di espandersi, acquistando terreni e macchinari. Tra le contee della Corn Belt – i nove stati del Midwest, dall’Ohio al Nebraska, dalla profonda vocazione agricola – presero a serpeg-giare interminabili treni merci diretti ai silos, nuovi grandi centri di raccolta destinati a immagazzinare il crescente surplus, soprattutto di granturco e soia. Questo equilibrio, pericoloso e precario, fonda-to su una crescita sfrenata, venne abbattuto nell’arco di una giorna-ta. La Federal Reserve (FED), la banca centrale degli Stati Uniti, è un organismo che si muove in totale autonomia, in una zona grigia che va dagli interessi nazionali a quelli privatissimi – ricordando non poco la nostra BCE – dei propri infl uenti componenti: le principali banche e le gilde dell’alta fi nanza. Furono proprio questi soggetti a infl uenzare la decisione di una sterzata verso una duris-sima politica recessiva: il fl usso di denaro si bloccò e, fi nalmente

per gli speculatori e i detentori del debito, i tassi di interesse si impen-narono vertiginosamente, portando alla rovina migliaia di agricoltori, non più in grado di pagare le rate e successivamente privati del diritto di riscattare le ipoteche sulle loro proprietà, a causa del conseguente crollo del valore dei terreni. Coloro che non avevano perso tutto, per so-pravvivere ebbero come unica scelta d’aumentare ancora la produzio-ne, folle corsa che rimandava solo l’inevitabile fallimento, mentre altri videro le proprie aziende rivendute e assorbite a cifre stracciate, mentre i silos scoppiavano e la strada era sgombra per l’avvento delle grandi compagnie di trasformazione.

È a questo punto che il mais di-venta quel “petrolio giallo” di cui parlavamo all’inizio, laddove, grazie a modernissime tecnologie, una pianta antica trova la pro-pria aff ermazione defi nitiva in una delle economie più prospere di sempre. Corporations come Monsanto, Cargill e Midland sono alcuni dei suoi principali alleati. Avide della biomassa molto eco-nomica frutto di politiche iperproduttive che avevano sempre age-volato, inserendo in posizioni chiave dell’amministrazione federale personalità a loro vicine, spesso propri ex-manager, le Corporations si inserirono prepotentemente nella realtà rurale, in quel momento in radicale crisi strutturale, agendo su due piani. Il primo fu quello industriale, dedito alla lavorazione e alla trasformazione del mais in ingrediente base per le multinazionali degli alimenti confezionati e al suo ingresso nel settore dell’allevamento animale.

Ma la duttilità della nostra pianta, apprezzata per secoli nei cam-pi, si conferma soprattutto al suo ingresso nei laboratori – il secon-do piano d’azione. Una miriade di prodotti può esser costruita con il sostanziale apporto delle molecole estratte dal chicco, dalla buccia e dal midollo – ora il poster con cui abbiamo aperto questo racconto appare davvero come una cartolina di un tempo lontanis-simo. Alcuni esempi: fruttosio e glucosio possono creare bibite e prodotti dolciari, gli amidi addensanti per creme, salse o gelati, ma anche colle e vernici, maltodestrine, coloranti e lieviti nei prodotti da forno e poi dentifrici, utensili da cucina, buste della spesa, ecc. L’elenco può solo essere parziale, date le quasi infi nite possibilità di applicazione. Se poi consideriamo gli oli di semi e le margarine

“OGNI CHICCO

DI MAIS SITRASFORMA IN

PETROLIO GIALLO”

con i quali i cibi vengono preparati, l’eff etto viene decuplicato. Le corsie colorate di un supermercato, che sembrano fare a gara per stupirci con la loro varietà, sono in realtà composte in massima par-te da quell’unico ingrediente, che lascia spazio solo alla soia. Dalla monocoltura alla monoalimentazione.

Se aggiungiamo la sua introduzione nella catena alimentare di pollame, suini, bovini da carne e mucche da latte, in natura rumi-nanti erbivori, e perfi no salmoni, il quadro si semplifi ca, o meglio si complica ulteriormente. Negli immensi Fedlot, centri di ingrasso coatto del bestiame, entrano a tutte le ore del giorno e della not-te fi le di camion stipate di cereali e ne escono altrettanti carichi di carne – sono vere e proprie “fabbriche di bistecche”. Industrie nel-le quali gli operai, per lo più immigrati clandestini messicani sen-za diritti né assistenza, sono legati per dieci ore al giorno al ritmo fordiano della macellazione, schiavi come le bestie, rinchiuse in cupi capannoni e costantemente ingozzate con un pastone di mais, steroidi, antibiotici e grasso animale, pratica cannibalesca scoperta dall’opinione pubblica dopo le note vicende legate al morbo della “mucca pazza”. Se le multinazionali si rivolgono ancora alle aziende tradizionali, lo fanno imponendo loro gli stessi standard di produ-zione dei Fedlot, con la costruzione di nuove infrastrutture e rigide percentuali di guadagno indiff erenti alle diverse caratteristiche dei territori, trasformando in breve tempo l’allevatore, prima indipen-dente, in poco più di un salariato di basso livello. Proprio su que-ste ultime strategie si basa il secondo piano di azione, che ha come obiettivo l’egemonia sul territorio.

La manipolazione genetica – a parte i dubbi etici e le ancora inesplorate ricadute sull’organismo umano – ha aperto nuove pos-sibilità al concetto di “proprietà intellettuale”: i nuovi semi, varia-mente modifi cati (si direbbe “reinventati”), possono essere di fatto brevettati. Questi cataloghi biologici vengono compresi in contratti di esclusiva e “piazzati” ai coltivatori ai quali, se da una parte viene as-sicurato l’acquisto integrale del raccolto, dall’altra richiedono, come abbiamo visto per gli allevatori, costosi rinnovamenti, decisi unilate-ralmente. Il non adempimento ad una di queste clausole è automati-camente passibile di multe e ritorsioni legali. Assoluto è il divieto di conservare e utilizzare le sementi dell’anno precedente, risparmian-do quindi sull’acquisto delle nuova varietà, infrazione che porta a denunce con cause milionarie per violazione del diritto d’autore. Il risultato ultimo è ancora, e spesso, la perdita dell’intera azienda.

Queste le cause e le spinte fi nali di quella che era la parte più pro-duttiva della nazione verso movimenti antigovernativi già da tem-po raggrumatisi attorno ai movimenti più politicizzati dell’estrema destra, nelle aree del Paese maggiormente depresse. Se, da una par-te, la rabbia e frustrazione di milioni di agricoltori programmatica-mente rovinati, per i quali il suicidio era diventato statisticamente la prima causa di morte, si è trasformata in pacifi co impegno civile no-globalista, ad esempio con progetti di coltivazioni biososteni-bili, dall’altra, sempre più spesso, anche sotto la spinta dei confl itti ideologici internazionali, tende a rinchiudersi nel proprio, direm-mo legittimo, rancore. Sigle come Milizie Volontarie, We Th e People e Freemen si espandono oltre la Corn Belt in tutta l’America cen-trale, trovando appoggio nell’area del fondamentalismo cristiano come la Christian Identity, che si fonda su una rilettura della Bibbia in termini di lotta razziale. Alimentati da vecchie e nuove teorie cospirazioniste, gli aderenti dichiarano una guerra ideologica e fat-tiva, come dimostrano le numerose azioni di terrorismo interno di questi ultimi anni, al governo federale di Washington, stracciando i propri documenti di identità, infrangendo le targhe delle proprie auto e dichiarandosi prigionieri politici in caso di arresto.

Tale contrapposizione senza compromessi è pari solo al grande attaccamento al bene di cui sono stati privati, non solo in termi-ni di sostentamento ma anche e sopratutto di valori e tradizione: la terra. Benché universali, nel caso americano questi sentimenti hanno una sfumatura diffi cilmente leggibile dall’esterno, nella sua interezza. Una storia “giovane”, quella degli Stati Uniti, che sareb-be forse corretto misurare più in termini di velocità che non di spazio. Quel cuore antico però esiste, non nell’edulcorata retorica hollywoodiana del mito della frontiera, ma in ciò che lo scrittore John Steinbeck racconta magistralmente in Al Dio Sconosciuto del 1933. Le pagine di questo romanzo sono nere di una terra grassa e sinistramente feconda contro cui i pionieri, protagonisti di un’epo-pea pagana di sacrifi cio e apocalisse, lottano con la stessa violenza con cui la amano. Quel suolo sul quale, come una superfi cie lunare, ancora oggi si può leggere il fresco passaggio degli antenati, di cui portano addosso i sensi di colpa così come l’incancellabile orgo-glio del conquistatore, sottratto da un’economia del raggiro: sicché cercano, in una folla di colpevoli reali e presunti, un nome e una risposta che viene sempre negata.

Ecco allora il fertilizzante diventare esplosivo, nello spesso mal-destro ma sanguinoso tentativo di abbattere quel sistema che l’ha introdotto, dando inizio alla catena di eventi nefasti che abbiamo sinteticamente ripercorso, in cui il mais è stato l’inconsapevole strumento a vantaggio di pochi interessi sovranazionali contro il benessere di intere comunità. Oltre a ricalcare tappe già viste più volte nelle politiche predatorie nei confronti dei cosiddetti Paesi del Terzo Mondo, lo sviluppo di queste vicende non può che ricor-dare anche all’osservatore più distratto l’attuale panorama socio-economico europeo, dove a far le spese dei teoremi recessivi della UE sono in particolare l’artigianato e la piccola impresa.

La cronaca ci ricorda quotidianamente come le due sponde dell’Atlantico siano sempre meno distanti su queste tematiche: in Francia è di qualche mese fa il blocco, su pressione della popolazio-ne circostante, dell’ennesima espansione di un silos della Monsan-to; in Italia, del mais avariato, presente nel mangime delle mucche, ha prodotto latte e derivati tossici; nel frattempo, è stata ratifi cata la nuova Politica Agricola Comune europea che, nonostante una certa opposizione formale, lascia margini di interpretazione al possibile ingresso sistematico di sementi ogm, con le politiche di gestione che abbiamo già tristemente imparato a conoscere nelle pianure del Midwest. Se la memoria ci fosse di qualche soccorso, potremmo ricordarci delle frequenti epidemie di pellagra nell’Ita-lia del nord causate da un’alimentazione esclusivamente basata sul granturco, che, in brevissimo tempo, dal suo arrivo poco dopo la scoperta delle Americhe, aveva soppiantato ogni altra coltivazio-ne. A esserne colpite erano state le classi più povere, che non po-tevano permettersi una dieta varia. Sembra proprio quanto accade oggi, dove milioni di americani, quasi percorrendo a ritroso il de-stino degli schiavi sfamati e comprati dalla stessa farina, pranzano quotidianamente per pochi dollari nei fast-food, approdo ultimo di quella catena di trasformazioni fi siche e culturali che ha per cen-tro il nostro cereale, aumentando l’incidenza di obesità e problemi cardiaci.

Monocoltura, monoeconomia, monoalimentazione. Facile ed economico, ma il costo di questa convenienza, che si fa ogni giorno più gravoso sulle spalle di un sempre crescente numero di cittadini, apre le possibilità a reazioni di cui è diffi cile prevedere la portata, ma che, se ancora ignorate, potrebbero causare una frattura insana-bile nelle fondamenta stesse della democrazia, del ruolo e, ancora più drammaticamente, dell’idea che l’America ha di se stessa.

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D. L’antimericanismo è un fenome-no piuttosto trasversale, che ha accomu-nato correnti politiche e culturali spesso assai variegate... che valore, a Suo avviso, conferire a questa eterogeneità?

R. È diffi cile operare la reductio ad unum dei diversi antimericanismi che hanno attraversato le culture degli ul-timi due secoli. Perché, se il tratto co-mune è la critica all’individualismo e al consumismo, la diff erenza abissale che li divide è tra un antiamericanismo di ma-trice spirituale e un antiamericanismo nel nome di un altro materialismo. Tra gli antiamericani di estrazione fi losovie-tica o fi lomaoista e quelli di estrazione religiosa o antimoderna credo che ci sia-no abissi di diff erenza.

D. Parliamo dei movimenti no global, indignados, occupy e via dicendo. Che peso dare alle loro contestazioni? Spes-so si limitano a criticare la politica sta-tunitense, senza però toccarne i fonda-menti culturali. È forse per questo che le loro critiche si fermano a metà, spesso abbeverandosi alle stesse fonti dell’ideologia che contestano, forse addirittura raff orzando quel sistema che vorrebbero contestare?

R. Si tratta di movimenti che contestano l’America nel nome del pacifi smo o dell’egualitarismo, al più dell’ecologismo, e non mi pare che colgano la matrice utilitaristica e materialistica dell’ameri-canismo, quel primato della tecnica e della fi nanza che costituisce l’essenza – seppure non esclusiva – dell’americanismo. E che, a ro-vescio, è l’elogio dello sradicamento, della standardizzazione e della mercifi cazione universale.

D. In un Suo libro ha parlato dei “perdenti della globalizzazio-ne”... Di chi si tratta?

R. Nel mio libro I vinti. I perdenti della globalizzazione e loro elogio fi nale (Mondadori, Milano 2004) esaminavo una varietà irriducibile di perdenti della globalizzazione, che passava dai co-munisti ai nazionalisti, dai cristiani ai meridionali, dai conservatori ai reazionari. E ne facevo un polemico elogio. Ma non proponevo una sorta di arca, di santa alleanza dei perdenti, anche perché la glo-balizzazione non va negata o avversata, ma governata e bilanciata, per esempio compensandola con la tradizione.

D. Si parla molto di “impero statunitense”: in molti hanno sta-bilito delle analogie tra la realtà di oggi e quella dell’impero roma-

no. Già Spengler, nel suo Tramonto dell’Occidente, ne proponeva una in questo senso... Ciò non toglie però che il fondamento dell’impero romano – come di qualsiasi realtà imperiale – fosse di natura trascendente, laddove oggi è piuttosto di tipo materiale...

R. La diff erenza è indubbia ma non si può negare che, al suo tramonto, l’impero romano fosse ampiamente percorso e pervaso di umori decadenti che ne avevano disperso il vigore sacra-le e trascendente. E non si può negare che, d’altra parte, nell’americanismo serpeggia anche una specie di messia-nismo e di idealismo che conferisce alla “missione” americana una sorta di imperativo evangelico e di zelo reli-gioso. Peraltro, la percezione di vivere all’ombra di un solo impero è durata un decennio, dalla caduta dell’Unione Sovietica all’attacco alle due torri. Infi -ne, la crescita dell’Islam da un verso e della Cina e dell’India dall’altro dise-gna oggi scenari assai più complessi di

quello imperialistico e monocratico statunitense.

D. Quali le nuove prospettive di un pensiero che voglia criti-care l’operato statunitense senza richiudersi in quell’autismo da “colpevole assoluto” che spesso pervade le prospettive degli attuali contestatori?

R. Penso che sia sempre un errore condensare la propria visione del mondo in un anti, cioè in un antagonismo. E credo che la cri-tica – pur necessaria – all’egemonia del modello americano sia del tutto insuffi ciente per spiegare la crisi e l’inaridimento spirituale diff uso. Peraltro, l’occidentalizzazione del mondo, la deterritoria-lizzazione, ha in eff etti reso planetari e automatici alcuni processi, che oggi non sono più legati ad uno Stato-Impero o a una volontà ben defi nita dal punto di vista geo-etnico. Il dominio della tecnica oggi ha vettori asiatici ben più temibili, e così l’inquinamento del pianeta o lo sradicamento. Fossilizzarsi in un antiamericanismo ideologico e pratico a mio parere sarebbe oggi un modo del tut-to inadeguato per raccogliere le sfi de del presente. Ciò detto, resta auspicabile l’autonomia dell’Europa dagli Stati Uniti, il riassesta-mento del pianeta in spazi vitali e aree diversifi cate, non sogget-te all’egemonia americana, la riscoperta del sacro e delle origini, della tradizione e della comunità, e di un’idea compiuta, ricca e polimorfa di civiltà, che non può essere subordinata ai parametri tecnico-mercantili o consumistici del Novecento.

Americanismo e antiamericanismoA colloquio con Marcello Veneziani

a cura di Andrea Scarabelli

D. La nascita degli Stati Uniti è abbastanza singolare, a partire dal concetto ambiguo di “rivoluzione americana”. È possibile applicare agli avvenimenti del 1776 l’etichet-ta di “rivoluzione”? Quali sono gli elementi che vengono rimossi dalla narrazione delle origini degli USA?

R. Stando agli avvenimenti sto-rico-politici, la nascita degli USA trova le sue radici nella reazione dei coloni, sudditi della Gran Bretagna, i quali – a causa della distanza e delle diff erenti necessità politiche, strate-giche ed economiche – non riteneva-no più utile per la difesa dei propri interessi partecipare al cosiddetto Primo Impero Britannico. I sudditi americani di Sua Maestà, dal 1607 – anno di fondazione della prima colonia – fi no al 1776, avevano visto nel rapporto con Londra una specie di assicurazione contro i nemici del tempo, ovvero francesi e spagnoli, e, più marginalmente, contro le tri-bù nativo-americane. Più volte, tra il 1607 e il 1776, i coloni avevano richiesto l’aiuto di Londra a scopo difensivo. Ancor più spesso, però, erano stati chiamati a combattere guerre a vantaggio della Corona. Cosicché, spesso le guerre erano state percepite dai coloni come imposizioni della Gran Bretagna, come testimoniano anche i nomi con cui tali confl itti furono denominati (Guerra del re Giorgio, Guerra della regina Anna). Si può quindi aff ermare che, in un certo senso, il rapporto tra coloni e madrepatria avesse qualcosa di schizofrenico. Quando il pericolo europeo non venne più percepito come tale, alla fi ne della Guerra dei Sette Anni e con l’espulsione della Francia dal Nord America, l’esigenza difensiva venne meno, laddove in-vece crebbe il bisogno di indipendenza. Si diff use l’idea per cui gli abitanti delle colonie avrebbero dovuto ottenere una rappresentanza politica in cambio delle tasse versate a Londra. L’intenzione di Benjamin Franklin, inviato poco prima della guerra civile a Londra per discutere su queste basi un accordo duraturo, era quella di riformare l’Impero, più che di separar-si da esso, dando vita a una sorta di “Impero democratico”. E questo, per scongiurare una rottura che, agli occhi di molti e nonostante i cambiamenti intercorsi, appariva tutto sommato inutilmente traumatica.

A mio avviso, se si desidera aff rontare la novità rappresen-tata dalla nascita degli Stati Uniti dal punto di vista del pen-

siero politico, invece, notiamo che fu già con l’arrivo nei primi anni del Seicento dei non-conformisti e dei protestanti (i cosiddetti Pilgrim Fathers) che si sviluppò una con-cezione di eccezionalità degli Stati Uniti per molti versi rivoluzionaria: i coloni si sentirono chiamati a co-struire un’evangelica City Upon the Hill alla quale tutti avrebbero guar-dato come momento palingenetico del genere umano. È un’idea che fu ripresa con maggiore enfasi alla fi ne della Guerra dei Sette Anni, quan-do l’interesse pratico che spingeva a cercare una maggiore rappresen-tatività parlamentare a Londra si accompagnò alla consapevolezza di rappresentare qualcosa di nuovo nella storia. Detto questo, possia-mo quindi considerare la Guerra d’Indipendenza alla stregua di una rivoluzione, perché segnò la nascita di uno stato molto diverso dal mo-dello più comune a quei tempi, ossia

la monarchia assoluta, permettendo la realizzazione di un so-gno molto diff uso in epoca medievale e soprattutto moderna: uno Stato in cui il potere politico non fosse retto da un’aristo-crazia o una monarchia, bensì gestito da una repubblica. Non va dimenticato, del resto, che i founding fathers erano studiosi di storia greca o romana, e si richiamavano spesso alla Grecia antica o alla Roma repubblicana.

È per questo insieme di ragioni che mi pare importante chiedere che, parlando di Rivoluzione americana, ci si sforzi di intendere il termine rivoluzione rimuovendo i suoi aspetti “novecentesco-ideologici”. C’era infatti una dimensione ide-ologica o, se vogliamo, anche religiosa (pensiamo al diritto alla ricerca della felicità, ricordato nella Dichiarazione di In-dipendenza), ma non era l’aspetto prevalente, pur avendo un peso certo importante. Dal mio punto di vista di studioso di relazioni internazionali, l’aspetto più rivoluzionario venne ga-rantito dal fatto che, grazie all’indipendenza delle tredici co-lonie britanniche, nacque uno Stato nuovo che fi n da subito si pose in termini antagonisti e competitivi con gli altri: infatti, gli Stati Uniti non furono mai isolazionisti.

D. Benché spesso presentata come un blocco monolitico, la realtà statunitense è attraversata da numerose contraddizioni. Quali sono i principali confl itti sociali che segnano la socie-

Nascita e ascesa di una potenza egemone A colloquio con Lucio Valent

a cura di Emanuele Guarnieri

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“Negli USA,

l’integrazione è sempre avvenuta

nel segno dell’individuali-

smo, della cultura della libertà e

del consumismo”

subito di controllare la zona del Golfo del Messico, per far-ne un “mare di casa”, assolutamente sicuro. Questa iniziativa, al pari di altre, avevano la propria base nel motto L’America agli americani, concetto chiaramente espresso al mondo dalla dottrina di Monroe. Sin dalla fi ne del XVIII secolo, quindi, ogniqualvolta gli europei parvero essere in procinto di tornare sul continente americano, gli Stati Uniti reagirono in modi diversi, aventi comunque la stessa fi nalità: evitando di avere attorno a sé potenze pericolose, non avrebbero dovuto “guar-darsi le spalle”, potendo così dedicare una parte importante delle proprie risorse a proiettare la propria potenza nel mondo ex-traamericano. L’attenzione per la sicurezza del continente – per-cepita come una sorta di livello intermedio tra politica interna e estera – fu da subito coniugata a una certa chiara strategia di quel che accadeva al di fuori di esso e degli interessi globali del Paese. All’inizio del XIX secolo, per esempio, in due occasioni Wa-shington inviò la propria fl otta a combattere contro i cosiddetti “Stati barbareschi” del Norda-frica, dal momento che questi assaltavano le navi statunitensi che commerciavano nel Mediter-raneo o nell’Atlantico orientale. Questa reazione fu determinata dalla presa di coscienza dell’im-portanza di difendere il diritto statunitense di poter navigare senza pericolo in tutti i mari del globo e dall’interesse alla difesa dei commerci globali necessari a garantire lo sviluppo interno dell’economia nazionale: signi-fi cava infatti poter disporre di denaro per combattere le guerre contro gli indiani, gli spagnoli o i messicani. Un altro punto di ri-ferimento fondamentale nell’im-maginario geopolitico statunitense – che mostra come gli USA furono sempre e da subito potenza attiva nel panorama politico internazionale – è rappresentato dalla Cina, con la quale essi ebbero sempre rapporti costanti, fi n dal 1783. Per gli statisti di Washington l’Estremo Oriente rappresentava un mercato fondamentale, che andava preservato a ogni costo dal rischio di divenire esclusiva proprietà di una singola po-tenza europea, con uno sforzo tanto più logico se attuato da un Paese, come il loro, che si presentava quale erede del sogno colombiano. Non vi è dubbio che la conquista delle Filippine nel 1898 a seguito della guerra ispano-americana fu la via re-gia per stabilire una testa di ponte nel continente asiatico. In-dubbiamente, allo stesso tempo, i prodromi di tale scelta non vanno cercati solo nel complesso gioco praticato delle Grandi Potenze nell’ultimo quarto del XIX secolo, bensì in una lunga tradizione che ha le sue basi in epoca moderna.

Così, grazie a questa politica fi n da subito attiva e aperta al

mondo, sul fi nire dell’Ottocento gli USA avevano già tutti i requisiti per poter assumere un ruolo di grandissima potenza. Si trovarono a essere un Paese politicamente ed economica-mente solido e unito, che aveva trovato il modo di aff rontare le proprie contraddizioni con gli strumenti già menzionati e di porsi, grazie a ciò, in competizione con le altre Grandi Potenze del tempo, potendo disporre di un territorio ricco di risorse e materie prime.

Avendo presente questo impegnativo programma politico, non sorprende che gli Stati Uniti abbiano deciso di distanzia-

re la propria politica estera da quella europea, non parteci-pando, negli ultimi venticinque anni dell’Ottocento alla corsa verso i territori africani, fi na-lizzata alla conquista di grandi imperi terrestri. Non va, però, dimenticato che l’equivalente dell’imperialismo territoriale ottocentesco europeo fu, per gli USA, proprio la conquista del territorio statunitense attuale, sottratto ai nativi americani o alle potenze europee.

D. Venendo ai nostri giorni, quale (se c’è stato) il ruolo degli USA nelle cosiddette “prima-vere arabe” in Egitto, Tunisia e Libia?

R. Rispetto all’Egitto, po-tremmo dire che gli USA, a un certo punto, dopo averlo per anni sostenuto, nel febbraio 2011 decisero di negare a Mu-barak il proprio sostegno poli-tico. Nei tre anni precedenti, con la crisi economica in corso, ebbi l’impressione (ma si trat-ta di un parere personale) che l’Africa e il Medio Oriente non rappresentassero più la pre-occupazione principale degli

USA, dato il cambio di marcia signifi cativo dell’amministra-zione di Barack Obama rispetto alla retorica degli anni dell’e-ra Bush a proposito dell’“esportazione della democrazia”. Con ciò, si può anche pensare che presso i vertici politici e l’opinio-ne pubblica statunitensi le primavere arabe fossero viste come fenomeni forse non necessariamente democratici, ma quanto-meno sostenuti dalla volontà popolare e quindi osservati con una certa simpatia. Dopotutto, in questi Paesi, le persone era-no scese in piazza per esprimere la propria volontà, a fronte di regimi autoritari. La combinazione tra il dimunuito interesse per le vicende mediorientali e la necessità di non abbandonare del tutto il ruolo di potenza egemone nella regione fece sì che l’ambasciatrice americana al Cairo, quando si verifi carono le prime rivolte di piazza nel gennaio-febbraio 2011, prendesse contatto con i Fratelli Musulmani, probabilmente vedendo in essi un soggetto capace di rispondere alle esigenze della po-polazione, nonché di mantenere la situazione pacifi ca. Ben

tà americana? Gli USA, una novità nel panorama mondiale, esibiscono feroci contraddizioni all’interno della stessa epoca moderna. Come vengono vissute queste contraddizioni?

R. Molti sono i confl itti della società statunitense. Il primo tra questi riguardò, vale la pena ricordarlo, i diffi cili rapporti tra coloni lealisti e patrioti indipendentisti. Tale contrapposizione fu risolta, all’indomani della fi ne del confl itto, con l’espulsione forzata dei primi da parte dei secondi, causando una lacerazione che fu recuperata solo nel tempo. Un secondo motivo di ten-sione nella società del nuovo Stato riguardò l’espansione oltre i monti Appalachi. La negazione di tale diritto da parte britan-nica era stata una delle cause della Guerra d’Indipendenza. Una volta raggiunta l’autonomia, però, il problema si ripresentò – e in varie forme – negli anni e nei decenni successivi, dividendo la società statunitense.

In ogni caso, a parte queste vicende che potremmo defi nire geopolitiche, il più importante tra i confl itti diff usi nella società statunitense (oggi paradossalmente dimenticato) è stato il forte sentimento anticattolico, molto diff uso fi no al periodo succes-sivo alla fi ne della Seconda Guerra Mondiale. Preminente nel Paese è stata a lungo l’egemonia della cultura protestante dei padri pellegrini, a loro dire emigrati dall’Inghilterra per sfuggi-re alle persecuzioni degli Stuart, di religione cattolica. In segui-to, la concezione del cattolicesimo come esiziale per la libertà dell’individuo è stata assorbita dalla cultura statunitense. Nelle Americhe, l’odio nei confronti dei cattolici generò sempre con-fl itti con le popolazioni che venivano accusate di “Papismo”, per esempio con i francesi, sconfi tti dopo la Guerra dei Sette Anni. Un tale astio – sempre latente – si risvegliò ogniqual-volta gli USA sperimentarono ondate di emigranti cattolici – tra i quali erano preminenti italiani e irlandesi – verso la fi ne dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Quell’immigrazione di massa fu un notevole elemento di tensione e disturbo: non a caso, in quello stesso periodo ci fu uno di quei risvegli religiosi protestanti che sono una costante nella storia degli Stati Uni-ti. In generale, comunque, le migrazioni in quanto tali furono sempre fonte di confl itto entro la società statunitense – negli ultimi venti-trent’anni, una delle questioni socio-politiche più signifi cative e dibattute è la migrazione ispano-americana, che parrebbe poter causare un mutamento dell’elettorato dalle con-seguenze giudicate imprevedibili, poiché gli ispano-americani sono per la maggior parte proprio cattolici.

Un’altra tensione forte, che investì sia l’ambito economico sia quello sociale, di certo molto più conosciuta e su cui non vale forse la pena soff ermarsi troppo, per quanto sia sfociata addirittura in un confl itto armato (la Guerra di Secessione, combattuta tra il 1861 e il 1865), fu quella che vide opposti il Nord industrializzato, moderno, guidato da una classe dirigente protestante in pieno risveglio religioso, e un Sud più propenso al latifondo, gestito con manodopera schiavile, ma comunque inserito entro i fl ussi economici globali del tempo e nel mercato mondiale.

Tra gli altri confl itti occorre ricordare l’ostilità di vasta parte dell’opinione pubblica statunitense nei confronti di socialismo e comunismo durante il XX secolo, che si esplicitò in certi pe-riodi attraverso vere e proprie persecuzioni contro gli aderenti ai partiti e ai movimenti di sinistra. Ciò fu causa di forti ini-micizie tra i sindacati e le classi dirigenti nazionali, che furono superate – ma solo in parte – dalla società statunitense, grazie all’esistenza di valvole di sfogo.

D. E come sono state metabolizzate queste contraddizioni?R. La società statunitense è riuscita progressivamente ad as-

similare i nuovi arrivati sotto il segno della cultura della liber-tà – che è sicuramente l’aspetto più considerevole dal punto di vista teorico –, dell’individualismo, se vogliamo anche del consumismo, della possibilità di realizzare le proprie ambi-zioni – quella che gergalmente chiamiamo American way of life. D’altra parte, tale assimilazione è stata a lungo garantita dalla disponibilità da parte dei migranti ad accogliere questo elemento della retorica USA. Va tenuto presente come gli Sta-ti Uniti siano tuttora un Paese fondamentalmente sottopo-polato, se si considera che gli Stati centrali, come Wyoming e Montana, hanno chilometri di praterie disabitate: la possi-bilità di vivere con un pezzo di terra in eff etti è stata off erta praticamente a chiunque. Inoltre, grazie allo ius soli, i fi gli dei cattolici (riferendoci a una delle maggiori contraddizioni a cui abbiamo fatto cenno) nascevano cittadini americani. Quindi, nel tempo, poterono lavorare per dimostrare sia la fedeltà del cattolico al sistema statunitense, sia l’utilità per il Paese di un contrappeso, quale quello da loro garantito a una società trop-po individualista. Ma la tensione con l’elemento cattolico fu anche metabolizzata dalla situazione creatasi durante la Guer-ra Fredda, e ancor prima nel corso della Seconda Guerra Mon-diale, quando la disponibilità del papato a schierarsi a fi anco delle democrazie – non tanto contro i fascismi, quanto contro i comunismi, in prospettiva futura – rese più facile la tolleran-za nei confronti dei cattolici.

In sintesi, gli Stati Uniti sono riusciti a metabolizzare le ten-sioni grazie alla capacità di plasmare gli elementi esterni, ma lasciandosi al contempo plasmare da essi, come creta, essendo una società più elastica della nostra.

D. Com’è andato aff ermandosi il primato geopolitico degli Stati Uniti?

R. Faccio spesso notare che gli USA non sono mai stati un Paese chiuso in se stesso: essendo nati come colonie di un im-pero marittimo, il rapporto col mare e con i commerci è sta-to fi n da subito molto forte. Uno degli errori più marchiani è pensare che gli Stati Uniti abbiano adottato una politica isola-zionista sino al 1898 o al 1917. Non vi è alcun dubbio che fi no alla fi ne dell’età della frontiera (1890 circa), il confi ne princi-pale fosse, per così dire, interno: in primo luogo, gli statuni-tensi si preoccuparono infatti di estendere il controllo sui ter-ritori limitrofi , espellendo le grandi potenze europee dal Nord America e, successivamente, da tutto il continente americano. Nel 1783, anno dell’indipendenza de facto, i loro vicini erano il Canada (che restava colonia britannica), le popolazioni nati-ve e la Spagna. Fu per questo motivo che si preoccuparono di allontanare dal continente le potenze che consideravano peri-colose, in primo luogo gli inglesi, giungendo perfi no a combat-tere un secondo confl itto con Londra nel 1812-1815, quan-do, nell’ultima fase delle guerre napoleoniche, si schierarono a fi anco della Francia per ragioni essenzialmente strategiche, cercando di occupare il Canada. Il tentativo non ebbe fortuna: gli Stati Uniti vennero sconfi tti sul campo, mentre Washing-ton e la Casa Bianca furono bruciate. Ciò però non impedì agli statunitensi di continuare a favorire l’indipendenza dei Paesi latinoamericani e centroamericani.

Tuttavia, fi n dalla loro nascita, gli USA si impegnarono in una politica estera attiva e decisa. Per esempio, cercarono da

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presto, però, negli Stati Uniti e nei loro alleati occidentali è divenuta evidente l’impressione che la spinta al cambiamen-to attraverso le proteste di piazza non fosse necessariamente un’espressione di democrazia o la via migliore per garantir-ne la crescita. Infatti, i compagni di viaggio dei democratici, cioè proprio quei Fratelli Musulmani con cui Washington aveva pensato di poter trattare, hanno subito dimostrato di essere ben consapevoli di come lo strumento del voto potesse essere distorto con fi nalità antidemocratiche e di essere pron-ti a sfruttare tali possibilità per sostenere politiche contrarie ai principi democratici e agli inte-ressi occidentali.

Un ruolo di rilievo nei diversi cambiamenti di linea operati da Washington nei confronti delle “primavere arabe” è stato pro-babilmente giocato dall’intesa USA-Israele. È noto come Israe-le sia in qualche modo l’“agente” degli USA in Medio Oriente, così come lo è altrettanto il fat-to che a volte siano stati gli sta-tunitensi a essere condizionati nelle proprie scelte dai desideri israeliani, avendo i primi com-battuto guerre che hanno fatto comodo anche ai secondi – si pensi ai due confl itti in Afgha-nistan e in Iraq durante la presi-denza Bush, in parte continuati durante l’attuale era Obama. È probabile che agli esordi delle “primavere arabe” sia gli Stati Uniti sia Israele avrebbero for-se preferito che la situazione rimanesse così com’era, dal mo-mento che sostanzialmente non ingenerava problemi alla loro strategia di sicurezza regionale e complessiva. A un certo punto – questa è la mia impressione –, visto l’evolversi della situazione, Tel Aviv insistette con Wa-shington affi nché questa trovasse un accordo con quelle forze politiche che potevano garantire la stabilità. In due diverse occasioni (nel febbraio 2011 e nell’estate scorsa), l’ammini-strazione Obama non ha esitato perfi no a minacciare di non versare più l’usuale cifra (circa due miliardi di dollari) all’eser-cito egiziano se questo non fosse stato disposto a intervenire per stabilizzare il Paese, evitando una crisi interna che avrebbe avuto conseguenze su tutta la regione e, a cascata, su Israele stesso.

A mio avviso, il ruolo degli Stati Uniti è stato più attivo nelle vicende egiziane del 2013 che non in quelle di due anni prima, proprio grazie al rapporto privilegiato con i vertici dell’eserci-to locale. Potremmo azzardarci a dire che hanno imparato la lezione irachena, quando, una volta tolto di mezzo Saddam Hussein nel 2003, si resero conto che avrebbero dovuto trova-re qualcuno capace di guidare il Paese quanto lo era lui, per al-tro non riuscendovi. La prudenza con cui hanno aff rontato le crisi arabe tra il 2011 e il 2013 è fi glia, quindi, della necessità di una attenta valutazione della realtà presente e il ruolo degli

USA negli ultimi anni mi sembra dunque essere non tanto di progettazione degli eventi che si sono verifi cati, quanto di una gestione successiva degli stessi.

D. Come si confi gura, al giorno d’oggi, il primato geostrate-gico degli Stati Uniti?

R. Barack Obama, nel dicembre 2011, in un discorso ai pae-si dell’Oceania, aff ermò che negli anni a venire gli USA avreb-bero dovuto guardare più all’Oceano Pacifi co che non all’At-

lantico. Con queste parole, assai signifi cative, ha messo sul tavolo una serie di elementi che sono e saranno tipici della geopolitica statunitense. In primo luogo, il loro rapporto stretto con i mari dovrà essere difeso con decisio-ne: non avendo al momento par-ticolari competitors terresti (in primo luogo sul continente ame-ricano), gli Stati Uniti potranno dedicarsi al controllo oceanico, che è un elemento fondamentale di potere nelle relazioni interna-zionali. Infatti, gli USA hanno mantenuto, mantengono e con-tinueranno a mantenere fl otte nel Mediterraneo, nell’Atlanti-co, nel Pacifi co e nell’Oceano Indiano. Obama ha esplicitato il desiderio dell’America di con-tinuare a essere una grande po-tenza marittima, perché chi con-trolla il mare controlla i traffi ci di merci, la stragrande maggio-ranza dei quali avviene per que-sta via. Il controllo dei canali e degli stretti (ancora pienamente a disposizione di Washington)

resta dunque l’atout fondamentale nelle mani della superpo-tenza: presso gli stretti di Malacca e Gibilterra, e i canali di Suez e Panama, gli statunitensi continuano a mantenere por-taerei e incrociatori.

Per quanto riguarda invece lo spostamento dell’interesse dall’Atlantico al Pacifi co, non essendoci rispetto al primo un potenziale nemico (come poteva esserlo l’URSS), guardare al Pacifi co signifi ca concentrarsi soprattutto su Cina e India. È come se Obama avesse detto: «torniamo a prenderci cura di un’area delicata, perché per noi è utile avere buoni rappor-ti economici con la Cina, ma sappiamo al tempo stesso che essa è anche un concorrente, a causa della sua alta produttivi-tà, delle sue ambizioni e della grossa fetta di debito pubblico statunitense da essa posseduto». Cina e India sono oggi gran-di potenze – o quantomeno grandi Paesi industrializzati o in via di industrializzazione – che stanno divenendo potenziali competitori. Essi, però, continueranno a soff rire un proble-ma che gli Stati Uniti non hanno. Infatti, Cina, India e Russia hanno dei rivali terrestri – o meglio, lo sono tra loro. È anche per questo che i dirigenti americani ritengono che il rapporto con quell’area debba essere monitorato con attenzione. Area nella quale sono sorti nuovi competitori internazionali e da

cui potrebbero sorgere (o risorgere) nemici globali, l’Asia gode di condizioni privilegiate e soff re di contraddizioni e insuffi -cienze nelle quali l’amministrazione attuale e (con ogni pro-babilità) anche quelle successive cercheranno di destreggiarsi a proprio vantaggio.

Lo scopo di tutto ciò è, chiaramente, mantenere la centra-lità degli USA nelle relazioni internazionali grazie al potere marittimo detenuto. È un dato di fatto che, attualmente, essi occupino questa posizione: garantiscono la sicurezza dei mari, fatto salvo il problema della pirateria, e rimangono il princi-pale soggetto con il quale chi volesse rimettere in discussio-ne gli equilibri internazionali dovrebbe discutere eventuali cambiamenti.

Credo inoltre che negli anni a venire gli Stati Uniti cerche-ranno di rilanciare il proprio ruolo in America Latina, dove incontrano grossi problemi a causa delle rinnovate resisten-ze dei poteri locali. La fi ne della Guerra Fredda ha visto, in quest’area, non il trionfo della democrazia liberale tanto cara all’opinione pubblica statunitense, ma il diff ondersi di governi dalle marcate fattezze populiste. A causa di ciò, i governi di Morales in Bolivia, di Chavez in Venezuela, ma anche (a tratti) alcuni esecutivi cileni, peruviani ed ecuadoregni, hanno assun-to posizioni più spesso anti-statunitensi che non fi lo-statuni-tensi. L’attenzione mostrata da Washington verso la Cina si spiega anche con la consapevolezza del fatto che i cinesi stanno investendo molto in America Latina, il che crea un potenziale avversario sul continente che potrebbe dar luogo a tensioni per nulla indiff erenti.

D. Quali sono i contemporanei rivali degli USA? Quali sono i territori e le risorse per cui si compete? Gli USA prevedevano l’ascesa di nuovi protagonisti, di un mondo multipolare?

R. Di fatto, tutti e nessuno. In questa fase, non c’è un’evi-dente volontà di rivaleggiare con gli USA “a caldo” – o anche a freddo, com’è stato con l’URSS, quando la competizione coinvolgeva anche due visioni del mondo diff erenti. Non si vedono, in sostanza, i prodromi di una nuova “Guerra Fredda” che veda contrapposti gli Stati Uniti a veri e propri nemici. Ci sono, invece, molteplici avversari, reali o potenziali. La Cina a cui abbiamo fatto più volte riferimento, per esempio. Oppure la stessa Europa, se ci fosse la volontà di creare un sistema po-litico realmente unito. Tra gli avversari potenziali potremmo trovare anche gli altri paesi del BRICS, escludendo la Cina (ovvero Brasile, Russia, India e Sudafrica). Da un punto di vista puramente teorico il Brasile potrebbe essere il maggiore com-petitore nel continente latinoamericano, ma al momento non si vedono avvisaglie di ciò, mentre la Russia potrebbe cercare di ritagliarsi (o di rinconquistare) un proprio spazio sul fronte del Pacifi co, ma soprattutto in Asia centrale. Si tratta tuttavia, a mio modo di vedere, di sfi de che sono di là da venire.

La verità è che ci troviamo in un momento di transito, poiché potenzialmente vi sono degli avversari, ma non sono ancora usciti allo scoperto, non avendo interesse a palesarsi. La Cina, in teoria il più plausibile prossimo avversario di Wa-shington, si trova in una situazione intermedia, non essendo ancora una grande potenza in grado di imporre con decisione la propria volontà, ma già in netta ascesa e sempre più decisa a conquistare una solida posizione internazionale. Cionono-stante, la classe dirigente cinese è molto prudente, in quanto fi -glia di una cultura decisamente diversa. Non sente l’urgenza di

bruciare le tappe e di entrare in contrasto diretto con gli Stati Uniti (a diff erenza di quanto avvenne con la Germania, prima delle Guerre Mondiali, o con il Giappone imperialista del ‘41) e si sente forte per il fatto di disporre del controllo su una larga fetta del debito americano, condizione che fa rifl ettere i verti-ci di Pechino sul fatto che, se gli USA facessero bancarotta o entrassero in guerra, essi non potrebbero più recuperare i loro crediti. Dal canto loro, gli americani hanno il loro interesse a che l’economia cinese mantenga alti livelli di sviluppo.

Da ciò deriva che, al momento attuale, non esistono veri e propri competitori di Washington, tant’è che la classe diri-gente americana, per mantenere alta la tensione e il livello di mobilitazione dell’opinione pubblica negli anni Duemila, si è dovuta inventare la retorica dell’islamo-fascismo. In fondo i vertici statunitensi sono andati a cercarsi nemici fi ttizi, non di certo la Cina o l’India. Anche laddove hanno identifi cato qualche avversario concreto, si trattava dell’Iran, che fra i vari nemici reali o presunti si è dimostrato, a mio avviso, meno pe-ricoloso dell’Arabia Saudita, per esempio, che ha fi nanziato gli islamisti più radicali.

Un certo ruolo di avversario delle politiche strategiche sta-tunitensi è, a voler ben vedere, rivestito dall’opinione pubblica internazionale. Oggigiorno, determinate cose che un tempo gli USA si permettevano di fare impunemente non sono più tollerate. Prendiamo l’esempio della guerra in Iraq: nessuno chiaramente è stato in grado di fermare il loro attacco, ma è altrettanto vero che contro Washington si sollevò una vasta ondata di proteste, di modo che si trovò spogliata di ciò che le restava di quell’aura di potenza benevola che in passato l’aveva rivestita, soprattutto di fronte all’opinione pubblica occiden-tale. Quest’ultima, poi, non ha ancora perdonato agli Stati Uniti il fatto di trovarsi, a distanza di dieci anni, a dover fare i conti con i debiti creati con quella guerra sciagurata.

D. Quali sono i rapporti tra gli Stati Uniti e i loro alleati fondamentali? Penso all’Unione Europea, sul cui territorio sono presenti ancora numerose basi militari statunitensi, a ses-sant’anni dalla Seconda Guerra Mondiale e a venti dalla cadu-ta dell’URSS, oppure al recente caso Datagate.

R. L’alleanza con l’Unione Europea è di comodo. Dopo la Guerra Fredda, la NATO si è trasformata in un soggetto che agisce anche su un piano extraeuropeo, avendo subìto una progressiva trasformazione che, per una ragione o per l’al-tra, è stata accettata da tutti. Doveva trattarsi di un’alleanza contro un eventuale attacco da parte sovietica sul territorio europeo. A oggi, l’Europa ne ottiene una difesa parziale (gli Stati mantenendo comunque i loro eserciti), con garanzie cer-te di copertura da parte statunitense in caso di attacco. Ciò consente agli Stati continentali di investire meno risorse nella spesa militare, in particolare per sistemi d’arma che dovrem-mo acquistare se non volessimo rimanere totalmente privi di difesa. Dal punto di vista delle relazioni politiche fuori dal continente, il fatto che non vi sia più la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica ha fatto sì che ci fossero linee d’azione a volte divergenti tra le potenze continentali e gli Stati Uniti, mentre, rispetto al mondo arabo, ogni Paese europeo gestisce le relazioni singolarmente. Reciprocamente, però, USA e UE mantengono anche dei rapporti molto competitivi dal pun-to di vista economico – il che non toglie siano anche realtà complementari. Sebbene sia stato messo al vaglio il progetto di

“Per come viene

percepita oltreoceano,

l’alleanza tra Sta-ti Uniti e Unione Europea è di tipo

utilitaristico”

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una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, rimane co-munque una certa competizione per la produzione o la ricerca di materie prime.

Per come la vedo io, i rapporti sono complessivamente cor-diali, salvo cadute di stile temporanee – come la questione Da-tagate. Il problema vero è che l’Europa continua a non essere un soggetto politico veramente unitario, mentre gli Stati Uniti, al contrario, lo sono. Di fronte ad alcune questioni internaziona-li, gli Stati europei si confrontano ciascuno per conto proprio con gli USA – benché esista un ministro degli esteri europeo, la cui importanza, a dir la verità, è praticamente nulla. Di fatto, l’amicizia eurostatunitense ha un’importanza inferiore rispet-to al passato, non essendoci autentiche ragioni di tensione.

Le vicende Datagate o Wikileaks dimostrano che gli Stati Uniti hanno nei confronti dell’Europa un atteggiamento di tipo certamente imperiale. Negli anni Settanta, non potendo pensare di favorire colpi di stato simili a quelli in Sudamerica di Pinochet o dei generali argentini, si limitavano a spiare le forze politiche ostili, al tempo stesso sostenendo quelle più le-gate ai loro interessi. Oggi, pur non essendoci più un sostanzia-le pericolo comunista, si preoccupano comunque di conosce-re le decisioni degli alleati con una costanza degna di miglior causa. Di conseguenza, credo si possa dire che nessuno oggi tra gli USA e l’UE veda l’altro in sinistra parte. Sono aree che hanno grande interesse a mantenere buoni i rapporti reciproci, nonostante questi siano stati indeboliti dalla crisi e, a ben vede-re, gli USA hanno valide motivazioni per desiderare la ripresa europea, avendo interessi economici oramai consolidati nel continente.

Altrettanto certo è, però, che gli USA non avrebbero alcun vantaggio a interloquire con un soggetto fortissimo come potrebbe essere un’Unione Europea veramente unita sotto il profi lo politico. In eff etti, si tratta di un atteggiamento un po’ schizofrenico. Da un lato, durante la Guerra Fredda, gli USA accolsero e promossero con piacere la nascita della comunità europea, barattando qualche svantaggio economico con un si-curo sostegno politico. Con gli anni Sessanta, si resero però conto che la competizione economica era molto sbilanciata a favore degli europei (al tempo, era in corso il boom economi-co) e chiesero un maggiore appoggio politico, mentre con la fi ne degli accordi di Bretton Woods diedero il via a una serie di scontri commerciali signifi cativi che ebbero eff etti duraturi sull’economia occidentale. Il tutto, all’interno di un contesto che continuava a mostrare gli europei incapaci di formare un soggetto politico veramente unito e forte.

Gli USA, di conseguenza, non hanno interesse a che nascano degli ipotetici “Stati Uniti d’Europa”, ma hanno anche capito che, allo stato attuale, un’Europa unita potrebbe anche non es-serci mai. In questa fase non si vedono grandi capacità di pro-gettazione da parte della classe dirigente europea: non ci sono politici che abbiano la caratura necessaria a dar vita a un simile soggetto – senza contare, inoltre, un certo sentimento antieu-ropeista abbastanza diff uso.

D. Quali mutamenti possiamo aspettarci nella situazione geopolitica mondiale? Il primato degli Stati Uniti è stabile o declinante?

R. Per usare una metafora sportiva, gli USA sono come quei pugili molto forti che hanno ricevuto qualche pugno impor-tante, che ha rallentato le loro azioni. Ma i loro avversari fareb-

bero bene a mantenere alta la guardia: sono capaci di metterti a tappeto con un solo gancio. Gli Stati Uniti restano un elemen-to imprescindibile dello scenario mondiale. Una loro uscita di scena creerebbe una serie di problemi non indiff erenti: man-tengono tuttora truppe sul suolo europeo, il che ha permesso a tutti di essere sollevati dalla preoccupazione che i tedeschi diventassero nuovamente una potenza militare – questi ultimi non avendo avuto più la spinta ad armarsi, essendo la loro dife-sa garantita dagli americani.

Un’eventuale uscita di scena in Asia, o anche solo dalla Co-rea, renderebbe la Corea del Sud molto più vulnerabile. Ne conseguirebbe probabilmente un confl itto fra Nord e Sud Co-rea, oppure una riunifi cazione dei due Stati, che darebbe alla luce una piccola ma signifi cativa potenza regionale. Il Giap-pone si sentirebbe molto più debole rispetto ai vicini coreani ma soprattutto cinesi, e si scatenerebbe quindi una corsa agli armamenti che creerebbe tensioni non indiff erenti.

Si pensi ancora a cosa succederebbe se gli USA si ritraessero dal Medio Oriente, se non controllassero più le vie del petrolio o il Golfo Persico: si può ipotizzare plausibilmente il perico-lo di una guerra tra Arabia Saudita e Iran, per non parlare del rischio che alcuni Stati arabi, vedendo Israele non più coper-to dagli Stati Uniti, potrebbero essere tentati di compiere un gesto insano, i cui esiti sarebbero disastrosi. Le stesse potenze regionali arabo-persiane fi nirebbero per competere tra loro, non scatenando necessariamente un confl itto, ma senz’altro aumentandone la probabilità. Crescerebbe sicuramente il co-sto del petrolio, per le maggiori diffi coltà di trasporto – se non altro perché una petroliera dovrebbe essere assicurata con un premio molto più alto, dal momento che in caso di confl itto la nave rischierebbe di andare distrutta. Alternativamente, potremmo non poter più reperire il petrolio in quell’area, e ci troveremmo, con una certa diffi coltà, legati ad altre fonti. Il mondo intero, in eff etti, sarebbe costretto ad accedere a fonti petrolifere diverse, come Venezuela o Russia. Diminuendo il numero di fornitori, aumenterebbero i prezzi. Gli stessi cinesi sono ben felici che siano gli americani a controllare il Medio Oriente, non costringendo loro a spendere soldi per riporta-re la pace in quella regione. È un problema che hanno avuto anche gli inglesi, o comunque tutti i grandi imperi. Diventare potenza imperiale signifi ca necessariamente occuparsi anche delle vicende regionali, e quindi essere parte in causa di confl it-ti che, in altre condizioni, non avrebbero determinato la neces-sità di prendere posizione.

Le altre potenze hanno interesse a che un’altra grande poten-za controlli un territorio, per non dover essere loro a farlo. Se non ci fossero gli Stati Uniti, toccherebbe ai cinesi, agli europei, ai russi, agli indiani (o a chiunque ne abbia voglia, capacità e interesse) tenere sotto controllo e mantenere la pace in un’area strategica come il Golfo Persico, salvo non accettare che siano gli stessi locali ad acquisire un ruolo fondamentale nella gestio-ne del territorio. Però, affi nché si possa arrivare alla condizione per la quale una grande potenza regionale diventi egemonica nella regione, ovvero sia in grado di controllare l’intero Golfo Persico, sono necessari dei confl itti, quindi dei costi, e con l’ul-teriore conseguenza di dover successivamente trattare con un unico soggetto, a questo punto capace di sottoporre dei diktat economico-politici non indiff erenti. Di conseguenza, molti vedono negli USA una potenza comunque benigna: credono sia meglio che siano essi stessi, a controllare certe aree.

Umanità del 2013. Pove-ra, sola e violenta. La crisi ha colpito duro, l’egoismo metodologico delle banche incatena e il prossimo, fi si-camente vicino, troppo vi-cino, diventa un miraggio o un pericolo che attenta a un solipsismo patologico e au-tistico. Cosa rimane? Trince-rarsi nel bunker di un indivi-dualismo debole, consegnarsi alle logiche dell’homo oecono-micus o trascendere la vita su face book, mentre la politica ha perso gli antichi legami con i sogni e non sa più scor-gere la visione di un mondo migliore e possibile? Insom-ma, stiamo facendo evapo-rare tutte le particelle dorate degli chassid; Martin Buber ha predicato invano e l’uomo della strada non ha mai senti-to parlare dell’economia del dono o del MAUSS di Parigi. Che fare? La vecchia doman-da marxista si ripropone con la stessa cortina di angoscia di un secolo fa, quando l’impo-tente David di Cronin grida-va la propria pena alle stelle, che stavano a guardare. Mai come oggi la civiltà occidentale si trova aff amata di ricette e modelli per uscire dalla crisi profonda che l’etica di un capitalismo sfrenato e l’uso schizofrenico della tecnica hanno creato. L’era moderna, che secondo gli illuministi avrebbe portato a una condizione di prosperità mai vista prima, ha generato uomini-macchina asserviti al sistema, servi che nem-meno le società tradizionali avrebbero potuto creare; gli indivi-dui sono diventati numeri o utensili, riconosciuti solo per il grado di téchne posseduta, e vivono nell’illusione di poter soddisfare la propria volontà di potenza, percepita senza limiti e sostanziale.

Cinquant’anni fa, qualcuno cercò di dare una risposta ai quesi-ti fondamentali sulla coesistenza armonica tra gli uomini, medi-tando una proposta che coniugasse uomo e macchina: Adriano Olivetti. Era un industriale, un intellettuale, un visionario che aveva scorto, con la consapevolezza di un mistico, una via che per-mettesse agli uomini di essere felici nella società e nella propria

condizione lavorativa, che desse loro una ragione di vita, una speranza, in qualunque luogo li avesse posti il caso o il destino. Una voce diversa, ap-parentemente stonata, utopi-ca per i detrattori, forse anche reazionaria – come vedremo – ma profetica, che predicava l’avvento di un’umanità mi-gliore. Luigi Einaudi, che nel ‘44 riparò con lui in Svizzera per sfuggire ai nazionalsociali-sti, disse che il pensiero politi-co di Adriano Olivetti sarebbe stato compreso con una gene-razione di ritardo. L’“olivetti-cidio” degli anni successivi al ‘60, dunque, sarebbe stato un fenomeno transitorio: con-segnare all’oblio l’opera e il pensiero di uno dei più gran-di italiani del secolo scorso avrebbe signifi cato l’insoste-nibile dissipazione di un’idea fondamentale per la nostra nazione.

Ripercorrere oggi la vita di Adriano vuol dire rimettere insieme i frammenti di un so-gno: un sogno antico e sempre tradito di un mondo diverso

e più vicino allo spirito, certamente migliore, che ciclicamente torna a scuotere le notti dell’umanità, infi ammandone l’anima di una speranza diretta al futuro. Un sogno di prosperità e coesi-stenza armoniosa tra gli uomini, di un avvenire felice e alla por-tata di tutti. Che il suo sogno fosse quello di dare avvento all’età dell’oro perduta nella notte dei tempi e predicata dai grandi ini-ziati di tutte le epoche? Naturalmente, non abbiamo a che fare con uno dei “grandi iniziati” di Schuré, ma con uno straordinario industriale che «pensava come un matematico e aveva i sensi di un mistico», come disse di lui Altiero Spinelli. La fi gura di Oli-vetti si mostra come un unicum nella storia di questo Paese e ha ancora molto, troppo da dire ai nostri giorni spenti.

In Lessico famigliare del ‘63, Natalia Ginzburg lo ricorda così: «Era a piedi; andava solo, col suo passo randagio; gli occhi per-duti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendi-

Adriano Olivetti:una visione di armonia politico-sociale

di Mario Sammarone

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razionalizzante. Durante quel viaggio comprende che il lavoro in serie è un abbrutimento per lo spirito e una minaccia rivolta con-tro la salute dell’operaio. Molti anni dopo, nel corso di un’inter-vista, ricorderà: «Mio padre mi mandò a lavorare in un reparto di trapani quando avevo tredici anni. Ho faticato molto a lavorare in fabbrica, perché il lavoro di queste macchine non mi attraeva e la mia mente vagava. Era una specie di ritegno, avevo diffi coltà a capire come si potesse stare diverse ore sulla stessa macchina, senza imprigionare lo spirito». Secondo il giovane, dal momento che la fabbrica richiede all’operaio un enorme prezzo da pagare, in termini di risorse ed energie, essa dovrebbe restituire l’equiva-lente attraverso benessere mate-riale e produzione di cultura – in linea con i principi della Bildung personalista, che aspira a un'eleva-zione dell’uomo. La fabbrica deve farsi produttrice di bene, non solo di beni. Nel celebre discorso tenu-to in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, nel 1955, si domanda: «Può l’in-dustria darsi dei fi ni? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profi tti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più aff ascinate, una destinazione, una vocazione, anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede soprattutto nell’uomo, nella sua fi amma divina e nella sua possibili-tà di elevazione e riscatto». Parole emozionanti, dai contenuti altamente ideali, che evocano, sulla scorta di Plotino e del neoplatonismo, le particelle divine instil-late nell’anima umana al principio dei tempi, ma soprattutto “le scintille” del pensiero chassidico che, come fi ammelle celesti, per-vadono il mondo e le nostre esistenze.

Gli strumenti messi in atto per realizzare questi fi ni sono molteplici e porteranno la Olivetti all’avanguardia delle conqui-ste sociali: le donne impiegate avranno diritto a un assegno di maternità; gli operai otterranno il sabato e la domenica liberi e saranno coinvolti nell’amministrazione attiva dell’azienda, eleggendo parte dei quadri; sarà garantita l’assistenza sanitaria a tutti i lavoratori. All’interno della fabbrica verranno organizzate proiezioni cinematografi che e, durante la pausa pranzo, incontri con fi losofi e scrittori. La vita dei lavoratori sarà il più possibi-le umanizzata. Anche l’architettura avrà la sua parte: le pareti degli edifi ci industriali verranno costruite interamente in vetro, per dare un’idea di ariosità e assenza di costrizione – il contrario del tetro capannone fordista –, le strade di ingresso trasformate in viali ombrosi, mentre gli ambienti di lavoro saranno abbelliti con quadri di pittori famosi – celebre l’aff resco di Guttuso, pre-sente dapprima nel negozio romano della Olivetti e poi collocato in uno stabilimento in Piemonte: gli operai devono lavorare in luoghi che diano serenità al loro animo. Il fi ne più alto è insom-ma dare una ragion d’essere a coloro che sono impiegati in fab-brica, una vocazione atta a farli sentire parte di qualcosa di più grande. Quest’opera avverrà nel segno dei princìpi di verità, giu-

stizia, amore e bellezza, le quattro forze spirituali che accendono l’anima di altissima grazia.

«La cultura ha molto valore qui», scrisse Olivetti. «Abbiamo portato in tutti i paesi della comunità le nostre armi segrete, i libri, i corsi culturali, l’assistenza tecnica nel campo della agricoltura. In fabbrica si tengono continuamente concerti, mostre, dibatti-ti. La biblioteca ha decine di migliaia di volumi e riviste di tutto il mondo». I dirigenti della Olivetti costituiscono un’anomalia rispetto ai loro colleghi europei, perché annoverano tra le proprie fi la – accanto a scienziati e ingegneri – scrittori, poeti, artisti, psi-cologi, sociologi e architetti. Franco Momigliano, Paolo Volponi,

Geno Pampaloni, Franco Ferra-rotti, Luciano Gallino, Lodovico Quaroni, Furio Colombo, Tizia-no Terzani, Franco Fortini, Gio-vanni Giudici e Cesare Musatti – solo alcuni degli intellettuali assunti dalla Olivetti – non ven-nero impiegati per mero mece-natismo o «per fare i menestrelli alla corte del principe», come disse lo storico dell’impresa Maggia, ma «con precise fun-zioni aziendali», in base alle loro capacità dirigenziali e operative e al loro talento di prevedere le tendenze del mercato e gli inte-ressi del consumatore. Secondo Giulio Carlo Argan, Olivetti non si limitò a promuovere la cultura ma la inserì organicamente nel ci-clo produttivo, conferendole una funzione mai avuta prima.

Uno strumento di primaria importanza per realizzare i fi ni dell’imprenditore piemontese è inoltre l’urbanistica: «L’architettura è l’atto che dà forma alle istanze di rinnovamento», specie in quelle regioni dove l’arre-tratezza economica fa sentire maggiormente il suo peso. Se pen-siamo al degrado che opprime le periferie delle città italiane, alle lacune di una politica che ha permesso alle nostre città di svilup-parsi selvaggiamente e – nella maggior parte dei casi – senza una ratio, e alla mancanza di centri di aggregazione che cementino comunità di persone in cui poter condividere la propria quotidia-nità, i propri progetti, la propria umanità; se pensiamo allo sradi-camento che intere generazioni di italiani hanno dovuto soff rire per la mancanza di punti di riferimento sociali e culturali, prima ancora che urbanistici, e alla disarmonia più completa cui sono state consegnate, possiamo allora comprendere quanto sia impor-tante una scienza come quella urbanistica. Fin da ragazzo, Oli-vetti si appassiona alle opere dei grandi architetti internazionali, di cui legge i trattati, trovandovi idee di armonia che rifl ettono il proprio pensiero sull’uomo e sul mondo. Nei disegni di Olivet-ti l’urbanistica deve creare un ambiente esteticamente elevato e dispositivi che aggreghino la comunità attorno a centri culturali e di guida politica. Se l’equilibrio dell’architettura rifl ette quel-lo dell’ordine sociale e l’armonia interiore dell’uomo realizzato, l’urbanistica ha tuttavia anche il dovere di creare le condizioni minime per una vita dignitosa, costruendo scuole, case, ponti e ospedali, là dove l’arretratezza economica è più marcata o dove la guerra ha lasciato il suo carico più pesante di devastazione.

“l’occidente

ha bisogno di modelli forti per uscire dalla crisi

in cui versa”

cante; e, sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esi-lio». Tutti i re hanno un regno e Adriano Olivetti doveva ritro-vare il suo, edifi candolo in una dimensione che avrebbe trasceso l’ordine di qualsiasi altro dominio umano. Il suo sogno era “la cit-tà dell’uomo”, una comunità che avrebbe accolto tutti, non come individui massifi cati o atomi sociali senza avvenire ma in quanto persone pienamente realizzate e sviluppate. Il proposito di Oli-vetti era conciliare uomo e tecnica, immettere lo spirito nella ma-teria e favorire al massimo grado la cultura e la sua diff usione.

Nell’Ordine politico della Comunità, sua opera fondamentale, scritta durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, possia-mo leggere: «Affi nché la persona sia libera e riesca a possedere un valore spirituale assoluto, infi nitamente più importante e più alto di ogni valore economico e politico, occorre che lo Stato esista per l’uomo e non l’uomo per lo Stato». Le istituzioni devono trovarsi a fi anco del cittadino e sostenerne la crescita morale e il cammino tenace e costante verso la scoperta della parte più alta di sé. La cifra più elevata dell’olivettismo è la volontà di ripro-porre il sentimento del sacro nella società, disseminandolo nel cuore di tutti e coltivandolo con faticosa e tenace costanza, per dare vita a una comunità concreta di persone retta da princìpi di solidarietà e fratellanza, in un saldo perimetro di benessere mate-riale. Olivetti sembra incarnare quello che Pierre Hadot defi nisce l’atteggiamento orfi co verso la natura e le cose: armonia dentro di sé, tra gli uomini e tra l’uomo e il mondo. L’imprenditore di Ivrea realizzerà solo in parte tale sogno perché la sua visione – che avrebbe portato certamente all’avvento di un’umanità rifondata – non poté essere compresa appieno dai suoi contemporanei, né dai partiti politici del tempo.

Adriano era il fi glio di un imprenditore ebreo ateo all’avan-guardia, Camillo, convertitosi nel ‘34 al cristianesimo unitariano. Da giovane, questi viaggiò negli Stati Uniti al seguito di Galileo Ferraris – lo scienziato che scoprì il campo magnetico rotante – in qualità di suo assistente e traduttore, tornando a Ivrea con le idee chiare: fondare la prima azienda italiana di macchine da scrivere. Un “uomo giusto”, dalla folta barba divenuta grigia negli anni, che assumeva povera gente, facendola lavorare al mattino e insegnandole a leggere e scrivere nel pomeriggio. La madre, Lui-sa Ravel, dall’inclinazione mistica e i costumi appartati, fi glia del pastore valdese di Ivrea, fu la sua prima maestra. Anche la sorella Elena infl uenzò profondamente il giovane con il suo fascino e la sua cultura all’avanguardia, durante le numerose serate passate a parlare della nascente psicologia di Freud, di teosofi a e soprattut-to di esoterismo steineriano. Questa la matrice a partire da cui si svilupperà l’olivettismo, un pensiero e una visione del mondo coerente in ogni ambito della cultura e della scienza, un prodotto dello spirito che in Italia sarà diffi cile trovare nuovamente.

Quando, alla prematura età di cinquantanove anni, Adriano Olivetti morì per una trombosi cerebrale avvenuta sul treno Mi-lano-Losanna nel 1960, l’intero territorio del canavese si fermò. Erano i giorni del carnevale che, per la prima volta nella storia, fu annullato. Ai suoi funerali accorsero ben quarantamila persone. Renato Zorzi scrisse: «Era la piccola gente che lo aveva amato, non per le sue qualità di intelletto o per la sua presenza nel di-battito politico e culturale, per essere un capitano di industria, ma perché nei momenti di prova ne avevano saggiato l’animo e messo alla prova le intenzioni».

Uomo di grande bontà, faceva di tutto per poter soddisfare le richieste di chi gli si presentava. Lo scrittore T. S. Eliot, che lo incontrò una sola volta nel suo studio a Londra, disse che al

primo sguardo riuscì a capire la qualità dell’uomo che aveva di fronte e di cui gli sarebbe piaciuto approfondire la conoscenza. Geno Pampaloni, che fu il suo collaboratore più stretto – o la sua eminenza grigia, come malignavano alcuni – durante gli anni dell’ascesa dell’azienda di Ivrea, in un articolo del ‘74 scrisse: «La vera tensione che animava Adriano Olivetti era di tipo spirituale. La sua funzione è stata quella di un illuminista, ma la sua natu-ra era profetico-religiosa. L’olivettismo degli anni Cinquanta è stato un illuminismo dello spirituale». In eff etti, dopo aver letto Horkheimer-Adorno non ci si può non meravigliare di una simi-le aff ermazione: l’illuminismo è nato esattamente per ripulire la faccia della terra da tutte le superstizioni, spiritualismi e parteci-pazioni mistiche varie. Cosa voleva dunque dire Geno Pampalo-ni? Che Adriano Olivetti avesse trovato una via oltre la dialettica dell’illuminismo?

Prima di rispondere, occorre fare un passo indietro e parlare del comunitarismo di Emmanuel Mounier, fi losofo francese – eti-chetta sinistra cattolica – che indicava una troiseme force contrap-posta al capitalismo liberista e al totalitarismo marxista. Secondo Mounier, gli uomini avrebbero sviluppato al massimo le proprie potenzialità all’interno di una comunità solidale e impregnata di valori cristiani. Non individui, né uomini macchina soli, ma per-sone realizzate ed evolute spiritualmente.

Adriano Olivetti integra il pensiero di Mounier con la convin-zione che la Comunità debba essere radicata nel territorio e nella tradizione popolare: «Quando le Comunità avranno vita, in esse i fi gli dell’uomo troveranno l’elemento essenziale dell’amore del-la terra natia nello spazio naturale che avranno percorso nella loro infanzia, e l’elemento concreto di una fratellanza umana fatta di solidarietà nella comunanza di tradizioni e vicende». La Comu-nità deve essere governata da princìpi di meritocrazia e armonia, mediando tra uomo e società, come una famiglia estesa, capace di non far sentire mai nessuno solo, nemmeno nel vasto e aper-to mare dell’esistenza, con tutte le sue contingenze e diffi coltà. Inoltre, Olivetti critica aspramente i partiti politici, rei di essersi distaccati dalla propria base popolare ed essere diventati vuoti centri di potere; essi controllano la società con un rigido sistema burocratico, inaridendo così la fonte stessa del loro consenso.

Maritain, Balbo, Jaspers, Simone Weil e Mounier sono le prin-cipali ispirazioni essoteriche del pensiero sociale olivettiano. Non a caso, sarà proprio lui a pubblicare questi autori, ritenuti inutili e talvolta disprezzati dall’establishment culturale del tempo. Le Edizioni di Comunità, fondate nel ‘48, che anticipano il modello culturale di Adelphi, saranno lo strumento con cui Olivetti intro-durrà in Italia forme di pensiero all’avanguardia e completamente ignorate fi no ad allora, come la psicologia di C. G. Jung, l’urba-nistica e lo studio delle religioni, con scritti di autori della levatu-ra di E. Durkheim e M. Buber (secondo un aneddoto, Olivetti pubblicò L’eclissi di dio dopo aver incontrato il suo autore; bastò un solo sguardo – colmo di una consapevolezza superiore – per far capire all’imprenditore di Ivrea cosa ci fosse dentro l’anima di Buber). Ancora una volta, il suo proposito è propagare il sape-re e le nuove forme del pensiero in maniera capillare, favorendo l’istruzione e disseminando embrioni di cultura, come piccoli lampi di luce atti a provocare una presa di coscienza, anche nei ceti sociali più arretrati del Meridione d’Italia, per dare un giorno frutti di rinnovamento e rinascita.

Nel 1925, dopo la laurea in chimica industriale, si reca negli Stati Uniti, sulle orme del padre, dove visita «centocinque fab-briche in sei mesi», vedendo all’opera il fordismo, disumano e

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ma sociale. Nel 1958 fondò così il “Movimento Comunità”, che si presentò alle elezioni politiche per portare avanti le idee comuni-tarie in tutto il Paese. Malgrado il suo carattere piuttosto timido, Adriano si impegnò intensamente nella campagna elettorale e girò per tutta Italia, spendendo di tasca propria più di un miliardo di lire; eppure, il movimento non ebbe un riscontro adeguato – il suo linguaggio, non demagogico, potremmo dire che splendeva trop-po di verità – e prese solo trecentomila voti: ciò bastò a ottenere un seggio alla Camera, che ricoprì egli stesso per circa un anno. Secondo Massimo Fichera, allora dirigente del movimento, «i deputati avvicinavano Olivetti solo per chiedere favori e posti di lavoro per la propria clientela; per uno come Adriano, erano cose che lo facevano soff rire molto». Il Movimento Comunità rap-presentò l’apice e al tempo stesso la fi ne di tutte le sue ambizioni. La morte dell'imprenditore illuminato segnò la battuta d’arresto sia dell’espansione della Olivetti nel mondo sia dell’avvenire del Movimento. Ciononostante, le idee di quest’uomo dalla volontà d’acciaio non possono essere dimenticate – soprattutto in tempi di crisi, come i nostri. Con il suo sorriso bonario, Olivetti ci indica una via per costruire delle istituzioni più giuste e uno Stato che operi per la felicità dei cittadini.

La pietra angolare del suo pensiero politico e sociale è il concet-to di Comunità, «la cellula primaria dello stato». A diff erenza di Mounier, l’imprenditore di Ivrea delinea con precisione le strut-ture e le istituzioni comunitarie: «Una comunità troppo picco-la è incapace di permettere uno sviluppo suffi ciente dell’uomo e della Comunità stessa» – il rischio è «l’isolamento e lo sgomen-to dell’uomo solo», ma anche quell’eccessiva penetrazione nella privacy di ogni individuo, il quale non avrebbe la possibilità di godere della propria libertà (basti pensare alle censure e ai con-dizionamenti operanti nella città di provincia). Le grandi metro-poli, al contrario, disgregano la personalità e non danno punti di riferimento, lasciando l’uomo in balia di situazioni a volte incom-prensibili, su cui non ha il controllo – questa volta il rischio è lo sradicamento radicale, per dirla con Simone Weil. Olivetti vede l’optimum per una vita felice in una città tra i settantacinque e i centocinquantamila abitanti. Peraltro, non manca di aggiungere: «La nostra Comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una Comunità né troppo grande, né troppo piccola, territorialmente defi nita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell’indi-spensabile coordinamento, quell’effi cienza, quel rispetto della per-sonalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori». Nella Comunità olivettiana, gli uomini possono vivere in armonia tra loro, raggiungere il pieno sviluppo della propria persona e liberare le forze più alte dell’ani-ma. Lo stare insieme fortifi ca le istituzioni e dà nuove possibilità di realizzazione. Il fulcro attorno a cui si svilupperà questo esperi-mento sociale sarà la fabbrica o l’azienda agricola.

L’architettura sociale della Comunità è basata sul numero sacro e le forme istituzionali sono forgiate su principi di armonia, ap-partenenti alle tradizioni aurorali dell’umanità: sette le funzioni politiche fondamentali (aff ari generali, giustizia, lavoro, cultura, assistenza, urbanistica ed economia), come il numero dei piane-ti nell’antichità e delle sfere di Pitagora, in cui procede l’anima durante la vita; tre invece sono gli organi esecutivi investiti con una combinazione di princìpi democratici ed élitari: un presiden-te della Comunità, eletto dal popolo con suff ragio universale, un titolare delle relazioni sociali, scelto dal sindacato dei lavoratori, e un segretario generale, espressione del mondo della cultura. An-che l’uomo, somma olistica di più parti, è rappresentato come un

quaternario di forze elementari – aria, terra, fuoco e acqua – che devono essere progressivamente perfezionate e armonizzate tra loro; ciò ricorda, tra le altre cose, la suddivisione dei tipi di uo-mini dei pitagorici e le teorie ermetiche riportate in Saturno e la melancolia di Panofsky e Klibansky. Quattro ancora sono le forze spirituali fondamentali: amore, verità, giustizia e bellezza. Il cari-sma e il merito sono due valori fondamentali e i politici dovranno dimostrare la propria attitudine al governo, passando attraverso scuole di formazione simili a quelle dei quadri dirigenti francesi. Quest’idea del politico non è dissimile a quella del fi losofo gover-nante della Repubblica di Platone.

Il fi ne della Comunità sarà l’instaurazione della perfetta Civiltà Cristiana, ovvero la migliore sintesi dei valori del Cristianesimo (libertà e umanità) da una parte, e socialismo e solidarietà dall’al-tra. Il riferimento è Maritain, il quale defi nisce i tratti di una ci-viltà che sappia vivere nello spirito del Vangelo delle origini, laica e tollerante verso ogni confessione religiosa e che promuova al massimo grado l’uomo e la sua persona. Olivetti completa questa visione elaborando il concetto di vocazione, cioè, come scrive Mi-chele Mornese, «la coscienza del ruolo che la persona è chiamata a svolgere dentro la società». La vocazione è il brivido che ci fa intendere noi stessi e ci mette a nudo davanti alla responsabilità di diventare ciò per cui siamo stati creati. La civiltà di Olivetti è una civiltà di vocati, di persone chiamate a realizzare la propria personalità e spiritualità, nel rispetto della vocazione dell’altro, portatore del medesimo anelito. «Da tale ispirazione del concetto mistico di vocazione» rileva sempre Mornese, «nasce l’istanza di instaurare nell’al di qua l’ordine voluto da Dio». Il regno dei cieli sulla terra, dunque...

Utopia? Per niente, secondo Martin Buber, che scrisse: «Oli-vetti non è stato aff atto un utopista. Le sue idee erano del tutto topiche, cioè connesse alla realtà del qui e ora». Egli di fatto rea-lizzò le idee comunitarie e personaliste nei suoi stabilimenti indu-striali, e così la Olivetti divenne il laboratorio, la fucina alchemica dove far crescere, al riparo da un taylorismo giudicato inumano, un uomo nuovo, spronato verso la verità e il bene (concetti che d’altronde, secondo la migliore speculazione fi losofi ca, sono il medesimo), che a sua volta fosse catalizzatore della trasformazione altrui, instaurando così una reazione a catena in grado di portare all’avvento di un’umanità migliore.

La società – questo il retaggio dell’insegnamento olivettiano – dovrebbe promuovere la libera felicità di ciascuno e la trasforma-zione degli individui in persone pienamente realizzate ed evolute, culturalmente e spiritualmente. Dovrebbe inoltre rispondere a cri-teri di armonia e bellezza, gli stessi predicati dagli antichi, e com-prendere che il tutto risplende di luce solo se vi è verità e giustizia in ogni frammento.

Bibliografi aMichele Mornese, L’eresia politica di Adriano Olivetti, Lampi di stam-

pa, Milano 2005.Valerio Ochetto, Adriano Olivetti, Marsilio, Venezia 2008.Adriano Olivetti, La città dell’uomo, introduzione di Giuseppe Berta,

prefazione di Geno Pampaloni, Edizioni di Comunità, Torino 2001.Erica Olivetti, Gli Olivetti e l’astrologia, introduzione di Giorgio Gal-

li, Edizioni Mediterranee, Roma 2002.

Si ringraziano Beniamino de’ Liguori e la Fondazione Olivetti per il gentile aiuto prestato nella stesura di questo saggio.

Negli anni Cinquanta, si impegna attivamente nel progetto I-RUR, il piano di rinnovamento urbanistico e rurale del canavese, in Piemonte, che si oppone all’abbandono delle aree montane e favorisce il coordinamento produttivo tra città e campagna. Nel 1959, Fanfani lo nomina vicepresidente dell’UNRRA CASAS, un ente statale che si occupa di attività edilizia per i ceti meno ab-bienti. Olivetti vuole estendere l’opera dell’istituzione a un più complesso quadro di promozione culturale ed economica, coin-volgendo architetti come Friedmann (nel caso dello studio socio-logico di Matera) o Figini e Pollini (per quanto riguarda «il sug-gestivo progetto di Porto Conte in Sardegna, non realizzato»). I suoi tentativi di accostare l’urbanistica alla semplice edilizia saran-no però pesantemente intralciati dall’apparato burocratico statale e dalla scarsezza di fondi, tanto che Pampaloni defi nirà l’UNRRA CASAS «una scatola vuota», un esperimento sociale che non per-metterà – o lo farà solo in parte – ai sogni di Olivetti di realizzarsi.

Nel 1945, Adriano eredita l’azienda di famiglia. Se per Ca-millo Olivetti la produzione in fabbrica doveva essere artigianale (paradigma del piccolo e bello), Adriano trasforma invece l’azien-da in un’industria con quaranta-mila dipendenti, capace di impor-si sui mercati internazionali e di acquisire, nel ‘58, la Underwood, colosso americano dell’informa-tica. La Olivetti primeggerà nel nascente settore elettronico grazie all’idea di utilizzare i transistor nei circuiti elettrici – in precedenza, si usavano le giunzioni di silicio –, progetto sviluppato dal fi glio Ro-berto e dall’ingegnere italo-cinese Mario Tchou, scomparso in un incidente stradale nel ‘61.

L’atteggiamento di Adriano verso la modernità è critico ma co-struttivo: dato per irreversibile l’avvento del mondo della tecnica, egli tende all’ultra-modernità, cioè a un eone rifondato – per dirla con Steiner – che valorizzi tutte le sfere dello scibile umano. L’im-prenditore apprezza i lati positivi delle scoperte scientifi che e quei «guadagni storici» che permettono di aumentare il benessere materiale dell’umanità; la scienza ha tuttavia il preciso compito di farsi portavoce della “verità”, intesa come strumento di protezio-ne e salvaguardia degli uomini, rinnegando le tendenze negative che portano all’alienazione e alle bombe – siamo in piena Guerra Fredda!

Essa dovrà inoltre sottomettersi a forze spirituali; se gli uomini o gli Stati dimenticheranno una sola di queste forze creatrici, non potranno indicare a nessuno il cammino verso la civiltà.

Secondo la mistica ebraica e il pensiero escatologico cristiano, la verità è ciò che fa risplendere di luce la vita terrena, indirizzan-do la storia verso un’epoca prospera di fratellanza; è lo strumento con cui gli inviati del Signore possono debellare il male dal mondo grazie al potere della parola purifi cante. Non è un caso che Olivetti ricordi il Vangelo di Giovanni: «Durante l’ultima Cena, Cristo annunciò agli apostoli che Iddio avrebbe mandato nel mondo un Consolatore, che avrebbe mandato il mondo verso la verità tota-

le». Secondo Olivetti, il sapere scientifi co è lo strumento con cui l’intellettuale, che si è spogliato della brutalità di ogni violenza e si è ammantato del sapere più alto, può redimere l’umanità, ripor-tandola in un dominio primordiale, pervaso di verità e giustizia e animato dallo stesso soffi o della forza creatrice.

Sono teorie aff ascinanti, che risentono delle idee sulla storia di Walter Benjamin e del concetto di tikkun della quabbalah luriana. Secondo il fi losofo, la storia è un susseguirsi di eventi disconnessi, su cui gli uomini possono esercitare il proprio potere messianico, di redenzione. Riguardo invece al tikkun, Matteo Bianchi lo defi -nisce come quell’«azione umana che è in grado di modifi care la realtà terrena al fi ne di ristrutturarla secondo il progetto originario

di Dio, non realizzatosi per la di-spersione delle particelle del male nel mondo». Il fi ne di Olivetti è favorire questa restaurazione spi-rituale e immettere il progresso in una sorta di catarsi, in una vicenda provvidenziale di riscatto. «Non guardiamo alla scienza, al rigore tutto terreno dei suoi strumenti», scrive, «come al piccone demo-litore delle tradizioni e dei valori elementari […] – nella scia del pensiero illuminista –, ma identi-fi chiamo il cammino della scienza con quello della verità e le sue con-quiste con uno stato di liberazio-ne dal dolore, sì che il suo trionfo risplenda di una luce di carità». Possiamo così rispondere alla do-manda che ci siamo posti: Olivetti trovò una via in grado di superare la dialettica dell’illuminismo.

In cima agli interessi di Olivetti troviamo tuttavia la politica. Giovane militante del partito sociali-sta e amico di intellettuali oppositori del fascismo, come Gobetti, nel 1933 prese tuttavia la tessera del partito e si schierò su posi-zioni vicine a quelle di Giuseppe Bottai, gerarca eterodosso che operò nel mondo della cultura. Valerio Ochetto scrisse: «Si ha l’impressione che abbia chiesto l’iscrizione per evidenti ragioni di opportunità, avendo un’azienda che ha necessità di essere tutela-ta». Nella sua introduzione al libro di Erica Olivetti Gli Olivetti e l’astrologia (Edizioni Mediterranee, Roma 2002), Giorgio Galli aggiunge: «In realtà quello che spinge Adriano è la supposizio-ne che un tipo di politica illuminata sia possibile anche durante il regime, lungo le vie del corporativismo economico e del raziona-lismo urbanistico». Ochetto aggiunge: «Tutti gli architetti o gli urbanisti italiani all’avanguardia si considerano fascisti di sinistra e puntano sul Duce». Ma la polizia di Stato non ha dubbi: Adria-no viene etichettato «sovversivo» e «per concezioni personali antifascista, malgrado non faccia propaganda contraria».

Durante la guerra, Olivetti si impegnò attivamente contro il fascismo; reclutato dai servizi segreti alleati, svolse un ruolo di col-legamento tra questi ultimi e i capi della resistenza, fi nché nel ‘43 fu imprigionato al Regina Coeli per opposizione al regime; scarce-rato dopo sei mesi, nel ‘44 dovette riparare in Svizzera lasciando in Italia il padre e la madre, che non sopravvissero alla guerra. Negli anni successivi, militò nei partiti di sinistra ma capì presto come questi non potessero a loro volta soddisfare le sue esigenze di rifor-

“in cima

agli svariati interessi di

olivetti troviamo la politica

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Bara che passi per strade e sentieri, / Di giorno, di notte, una gran nube oscura la terra, / Tra la pompa delle ban-diere abbrunate, delle città parate a lutto, / Con lo spet-

tacolo degli Stati che sembrano donne ammantate di crespo, / Con lunghi tortuosi cortei, fi accolate notturne, / Tra il perpetuo clangore di campane, che suonano, suonano a morto, / Ecco, bara che lentamente transiti, / Eccoti il mio rametto di lillà. (Walt Whitman, Quando i lillà per l’ultima volta)

È buff o pensare che appena quindici anni fa ciò che è narrato in queste pagine sarebbe potuto sembrare il frutto di una men-te malata e allucinata. Ma oggi, dopo le mirabolanti scoperte di questi ultimi anni, non ci sarà persona che potrà stupirsene, al-meno sotto l’aspetto tecnologico.

Eppure il caso merita di essere segnalato. Anche se la diff u-sione di questo scritto potrà dispiacere a qualcuno. A Deakin Moore, per la esattezza.

Non l’ho denunciato alla Lega Morale perché sono suo amico, forse, o perché lo sono stato. In fondo, la cosa non mi riguarda da vicino.

Non sono contro i transpex a priori, come alcuni potrebbero pensare. Non nego l’utilità storica e speculativa di questi appa-recchi. Non ne nego neppure il valore sotto l’aspetto puramente ricreativo, benché su questo preferisca avanzare più di una riser-va. Ma penso che in ogni cosa – e specie in questo campo – esi-stano limiti ben defi niti.

Sarà meglio cominciare dal principio.

22 novembre 1963, Dallas. 11,43L’aereo è apparso nel cielo, puntuale, lucente, argenteo. È un

Boeing 707 modifi cato, un gigantesco quadrireattore di cento-dieci tonnellate. Cala lentamente, nel fi schio furioso dei getti, dopo soli otto minuti di volo da Fort Worth.

È una splendida mattinata, piena di sole. L’ombra dell’aereo si disegna sulla pista, sulla folla che si assiepa lungo le transen-ne. Il 707 scende sibilando, i fl aps abbassati, gli aerofreni estratti, e le grosse ruote scure del carrello protese verso il suolo. Tocca terra con un leggero sobbalzo, perfettamente assorbito dai giun-ti pneumatici, e scivola lungo la pista, mentre il sibilo frusta il terreno e trapassa le orecchie di tutti, di tutta la gente in attesa là intorno.

Tutti sapete cos’è un transpex. Ma pochi di voi ne avranno visto uno da vicino. Immaginatevi otto metri cubi di meccani-smi, una stanza piena di congegni di ogni forma e dimensione raggruppati intorno a un grande cilindro di vetro che molto alla lontana può ricordare il tubo catodico dei vecchi televisori, il tutto con un grande quadro di controllo sul davanti.

Sapete anche che l’uomo del transpex è Deakin Moore. È stato lui, dopo che il suo staff di scienziati l’aveva messo a punto, a lanciarlo sul mercato, se si può chiamare mercato la ristretta élite di coloro che possono permettersi un transpex.

Conosco Moore dal ‘68. E in questi undici anni non è avvenu-to nulla che abbia potuto modifi care la prima impressione che mi sono fatta di lui. Ho avuto occasione di visitare diverse volte il

Quando i lillàdi Pierfr ancesco Prosperi

suo splendido retiro sugli Allegany, che troverete citato su molte riviste come uno dei più interessanti pezzi d’architettura del xx secolo. Non c’è dubbio che oggi Deakin Moore – con i suoi abiti da trecento dollari e la sua Ferrari nove litri – sia una delle perso-ne più ricche del mondo.

22 novembre 1963, Dallas. 12,00L’auto attende ai limiti del campo, mentre la folla grida e ru-

moreggia battendo le mani, e si accalca lungo le transenne. È una Lincoln Continental speciale, preparata nel 1961 dalla Ford Mo-tor Company su precise indicazioni del Servizio Segreto. Sette metri di cromo e lucente vernice nera, un pulsante motore di set-temila centimetri cubi, trecentoquarantacinque cavalli racchiusi sotto il cofano vastissimo, enorme, nascosto dalla brillante ar-gentea griglia che corre per tutta la larghezza del muso, dall’uno all’altro alloggiamento dei doppi fari.

L’auto attende, immobile e silenziosa, i sedili odoranti di mor-bido cuoio, il parabrezza panoramico rilucente sotto il sole.

Ricordo perfettamente quello che fu il primo – e per quel che ne so, l’unico – incontro fra Deakin Moore e Hope Langart. Ebbi l’occasione di essere presente e ricordo che Moore si com-portò come se, nella stanza, ci fossero soltanto lui e Langart.

Non ho mai saputo come Hope Langart abbia potuto arriva-re all’uffi cio di Moore senza passare la trafi la delle segretarie e senza farsi bloccare dagli uscieri. Forse si aprì la strada con la cor-ruzione. Fatto sta che a un certo punto lo vedemmo comparire sulla soglia, dietro la porta che aveva spalancato senza bussare. Era lungo e magro, con uno striminzito completo nero rigato che s’intonava sinistramente alla barba alla Lincoln che gli incorni-ciava il volto. Ricordo anche che tutto quello che Moore fece fu alzare un poco – ma solo un poco – le sopracciglia.

«Signore» disse Langart avanzando fi no alla scrivania, «sono qui per elevare una formale e vibrata protesta...».

«Si presenti» interruppe seccamente Moore.L’uomo in nero abbozzò un inchino appena percettibile.«Hope Williamson Langart, Presidente della Lega per la Tu-

tela degli...».«Basta così» disse Moore con voce tagliente. «Si tolga dai

piedi».Langart si accomodò su una poltrona.«Ho avuto occasione di assistere due giorni fa – per dovere

professionale! – a uno spettacolo in transpex. Ne avevo già senti-to parlare, ma solo ora che ne ho preso visione direttamente pos-so esprimerle tutto il mio profondo disgusto per...».

Moore batté una mano sul tavolo.«Senta, Langart. Anch’io ho sentito parlare di lei e della sua

Lega di pazzoidi». Vidi Langart irrigidirsi. «E premetto che non ho mai accettato critiche e intrusioni da gente molto più qualifi cata di lei. Ora, se ha qualcosa da dirmi, si sbrighi e lasci stare le frasi roboanti. Non ho tempo da buttare».

«Va bene». Langart si tolse gli occhiali pulendoli rapidamente ma con cura. «Tutto quello che voglio dirle è questo: il transpex, nell’uso che ne fanno i suoi... clienti, a quanto ho potuto consta-tare, è moralmente inaccettabile. Occorrono delle precise regola-mentazioni, signor Moore. Non può lasciare le cose come stanno. Non so se lei lo sa, ma i possessori di transpex si sentono in diritto di abbandonarsi ad abusi... inconcepibili. E...».

«È tutto qui?» chiese Moore, con impazienza. «Signor Lan-gart, sapevo tutto questo, e anche qualcosa di più. E le dirò che

quello che a lei sembra un abuso inconcepibile è stato riconosciu-to come uno dei ritrovati più intelligenti del secolo. E ora, se vuol togliere il disturbo...».

Hope Langart si alzò, fi nalmente paonazzo. «Posso darle dei fastidi, signor Moore. Le sue idee sono mostruosamente cini-che, semplicemente. E si ricordi questo...» aggiunse puntando l’indice.

22 novembre 1963, Dallas. 12,03Il motore ha preso a rombare in sordina nel cofano della Con-

tinental. L’agente seduto al volante spinge in avanti la leva del cambio automatico e la lunga auto nera si muove con un sussulto, mentre tutt’intorno, nel frastuono dei motori che si scaldano, in un baluginante intrico di cromi, le auto del seguito si avvicinano incolonnandosi dietro di essa, attraverso la folla, tra uno svento-lar di braccia e di bandiere, verso i cancelli dell’aeroporto Love.

L’ultima volta che ho visto Deakin Moore è stato il 2 ottobre scorso. Mi aveva invitato a cena nel suo appartamento di ventidue stanze al trentottesimo piano del Rockefeller Building. Ma avevo capito che non si trattava di un semplice invito per passare una serata in compagnia di un vecchio amico. La mia supposizione si avvalorò quella sera, quando, appena terminato di cenare, Dea-kin pregò me e la signora Moore di passare nella sala accanto.

22 novembre 1963, Dallas. 12,20A velocità ridotta, il corteo devia a destra imboccando la Hou-

ston Street e, lasciandosi dietro la prigione della Contea, passa accanto al massiccio Palazzo degli Archivi. Intorno, la folla con-tinua a gridare acclamando.

La grossa Continental nera è in testa al corteo, preceduta e af-fi ancata da due agenti motociclisti. Sui lati del cofano, sventola-no due bandierine americane.

L’auto gira a sinistra, entrando in Elm Street. Il prato intorno alla strada è aff ollato, la gente agita le mani, i cappelli, decine di rullini girano nelle macchine fotografi che.

C’è stato un suono strano, mentre la Continental si sta avvian-do a venti chilometri l’ora verso il sottopassaggio della ferrovia. Un suono acuto e stridente, brevissimo. Nel giro di pochi secon-di, si ripete altre due volte, mentre l’auto continua ad avanzare lentamente, cromo e vernice fusi nel riverbero solare. La folla ride, urla, delira, come una massa di scolaretti allo stadio.

C’è un po’ di confusione, a bordo dell’auto. Le grida d’entusia-smo si smorzano, fra le persone più vicine. Ma gli altri non hanno visto, non hanno capito e continuano ad agitare le braccia e a sventolare cappelli, i larghi, immacolati cappelli texani. Una fi -gura in rosa si sporge, in posizione strana, dal sedile posteriore.

Ora la scena è radicalmente diversa. La Continental abbassa la larga coda e il sussurro del suo motore diventa un rombo, nell’im-provvisa accelerazione. Sul prato, alcuni si sono gettati a terra. Gli agenti che seguivano la vettura hanno accelerato anch’essi, azionando le sirene. Il suono stridulo e lacerante si fonde con le grida della gente che, ora, comincia a capire.

Sullo schermo l’immagine si fece confusa.«Bene» dissi stropicciandomi gli occhi. «Ora vuoi spiegarmi

cosa diavolo mi hai mostrato?».Deakin Moore girò alcuni interruttori, abbassò due o tre leve.«Lasciami il tempo di sintonizzarmi per la prossima sequen-

za» disse. Lo schermo divenne di nuovo grigio.

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25 novembre 1963, WashingtonÈ una scena strana, diffi cilmente defi nibile. Vediamo. Innanzitutto c’è la strada. Una delle strade americane

larghe, bianche, sconfi nate. È vuota. Silenziosa, con la folla assie-pata ai lati, muta anch’essa.

Poi c’è l’aff usto che avanza trainato dai cavalli grigi. Nero sulla strada bianca. Piccolo sulla strada immensa.

E non c’è un solo rumore. Cioè sì. Campane. Campane a mar-tello. Un suono lontano e lugubre nell’aria di questo grigio giorno d’autunno.

E dietro l’aff usto, dietro il carro coperto dalla bandiera stellata che avanza lento, cammina un cavallo nero.

Un cavallo solo. Condotto alla briglia da un uffi ciale. Un cavallo con un paio di stivali infi lati alla rovescia nelle staff e. E dietro?

Dietro avanza il corteo. Una massa nera e lunga, molto lunga.Deakin spense lo schermo.La signora Moore emise un verso strano, molto simile a un sin-

gulto strozzato, e dopo aver mormorato «Scusatemi» si alzò e uscì dalla stanza.

Deakin la seguì con lo sguardo. Poi tornò a fi ssarmi.«Allora, Archie?».Mi sentivo un po’ confuso. E sentivo anche un lucido orrore

salire lentamente dentro di me.Moore si accese una sigaretta, sprofondandosi in una poltrona.«Andiamo, vuoi dire che non hai riconosciuto quel tipo di

cerimonia?».«Credo di sì» dissi lentamente, con le labbra che mi tremavano.

«E questo signifi ca che la scena che abbiamo visto prima...».«Esattamente».Fissai con espressione assente lo schermo opaco che avevamo

davanti, mentre Moore lanciava in alto circoletti di fumo.«Ho impiegato diversi giorni a preparare tutto. Ho dovuto fare

ricerche sulle vecchie annate di diversi giornali. E ho appurato che “lui” fece un viaggio a Dallas, il 22 novembre 1963, all’inizio del suo giro propagandistico, un anno prima di essere rieletto».

«E l’hai assassinato» mormorai a occhi socchiusi.«L’ho fatto assassinare» assentì, guardandosi le unghie. «Ho

impiegato un po’ di tempo per scegliere il tipo adatto a compiere il delitto, ma credo di aver fatto un bel lavoretto».

Tacque, e nella stanza si fece un silenzio innaturale. Fuori tirava il vento, e lo sentivo fi schiare contro la vetrata alle nostre spalle.

«Questo non signifi ca» riprese Moore «che io sarei un poten-ziale assassino di Presidenti. Conosco personalmente il vecchio Jack – anzi, una volta mi ha invitato a passare il week-end a Hyan-nis Port – e so che senza di lui l’America non sarebbe quella che è oggi. Ed è stato appunto il desiderio di vedere come si sarebbe risolta la guerra fredda senza di lui, che mi ha spinto a fare quello che ho fatto. Oltre, naturalmente, al desiderio di esaurire la mia carica emotiva.

«Cos’è in fondo un transpex? Un apparecchio che ti permette di collegarti con uno degli infi niti universi paralleli e di apportar-vi delle modifi che mediante il controllo ipnotico di qualcuno dei suoi abitanti. Io ho scelto un mondo assai simile al nostro, quasi identico direi. E quello che hai appena visto è uno dei casi in cui l’azione di un solo uomo può apportare enormi variazioni».

«Ne sapevo qualcosa» dissi. «Ho sentito parlare delle varia-zioni apportate da alcuni tuoi clienti ad altri mondi...».

«Già. Naturalmente c’è chi esagera. Quell’idiota di Rogerson, per esempio, si è impadronito della mente di un colonnello te-

desco del 1944 e ha fatto fallire lo sbarco in Normandia. Così la guerra si è prolungata per altri tre anni, il Reich ha avuto il tempo di mettere a punto l’atomica e ora lui si è ritrovato con un mondo per metà distrutto e per metà dominato dal nazionalsocialismo. Per non parlare di Duryea che si è sintonizzato sul 25 d.C., in Ga-lilea, e... Be’, lasciamo perdere. Comunque questi sono casi limi-te, e poi non ci riguardano. Nei casi normali il transpex permette di scaricare in modo innocuo, la propria aggressività; il proprio nervosismo, il proprio odio, se vogliamo. Permette di scaricarlo su cose e situazioni esterne al nostro mondo, eppur simili alle no-stre, alle cose e alle persone che ciascuno di noi odia, teme, invidia, combatte. È una perfetta catarsi. Tutti dovrebbero essere in grado di possedere un transpex. Pensaci un po’, Archie. Niente più crisi emotive, uccisioni, delitti. Niente più guerre!».

Lo guardai. «In modo innocuo, hai detto?».Moore rispose fermo: «È quello che ho detto».

Be’, questo è tutto. Forse qualcuno riterrà inutile e superfl uo questo mio sfogo, qualcun altro mi accuserà di vuoto e sorpassato sentimentalismo.

Io la penso diversamente.Il transpex è tuttora oggetto di discussione. La Lega Morale per

la Difesa degli Universi Paralleli l’ha condannato senza appello, e credo che tutto sommato Moore sottovaluti l’importanza – so-prattutto psicologica – di Langart e del suo movimento. Io ho già detto all’inizio cosa ne penso.

Ma ci sono due cose che mi turbano. La prima sono le parole che Hope Langart pronunciò nell’uffi cio di Moore prima di an-darsene: mi sembra ancora di vederlo, l’indice teso, in direzione di Deakin, la corta barbetta fremente.

«...Le è mai passato per la mente che forse ci sarà, un giorno, in uno degli infi niti mondi con cui si baloccano i suoi clienti, qual-cuno che potrà considerare le cose da un punto di vista opposto? Che forse c’è già qualcuno, in uno di quei mondi, che si serve di noi come suoi giocattoli? Qualcuno che davanti a un enorme transpex si diverte a controllare la mente di Deakin Moore e di mille altri burattini senza volontà come lui, facendoli agire come vuole?».

Ma Deakin Moore dice che queste sono fantasticherie. E la stessa risposta diede a me, quando gli feci osservare che il

suo modo di scaricare l’emotività era prettamente egoistico. Che nessuno aveva il diritto di uccidere, colpire, far soff rire le creature di un altro mondo per soddisfare i propri istinti aggressivi.

No, dice Moore. Non è così. Quegli esseri, dal nostro punto di vista, non esistono, è come se non esistessero. Non sono reali come noi. Possiamo considerarli proiezioni della nostra mente. Essi e i loro mondi sono soltanto quello che noi e il nostro mondo potremmo essere stati.

Non c’è corrispondenza biunivoca, dice Moore. Il nostro è l’unico mondo reale, l’unico nel quale le possibilità si sono svolte e incanalate in un certo modo per portarci a quello che siamo oggi. Gli altri... sono tutte diff ormità, deviazioni dalla realtà.

E credo che non ci sia nessuno che possa dimostrare con pro-ve concrete che Deakin Moore ha torto. Non nel nostro mondo, almeno. Ma io mi domando: è possibile che in un altro universo Deakin Moore abbia realmente ucciso Jack Kennedy, quel fatale giorno, a Dallas, il 22 novembre del 1963?

[Tratto, con il gentile consenso dell'autore, dal volume di prossima pub-blicazione, Il futuro è passato, Edizioni Bietti, Milano 2013]

Che ne è degli dèi e delle creature che popolavano le an-

tiche leggende? Dove sono fi niti Zeus, Kali, Anansi e Loki? E i pixies, i coboldi, i djinn, le driadi? Coloro che sembravano la materia fon-damentale delle storie e del mondo sono scomparsi sen-za lasciare traccia nel cuore degli uomini – che parevano scorgerli ad ogni latitudine, a tal punto da far aff ermare ad uno di essi, Talete, che «tutto è pieno di dèi». For-se, però, questo non è del tutto vero. Forse non sono svaniti, ma semplicemente sbiaditi, il loro potere è di-minuito, ma essi continuano sottilmente ad infl uenzare le nostre vite. E forse ci sono nuovi dèi che vogliono pren-dere il loro posto. Questo è, in sintesi, il palcoscenico su cui si svolge American Gods, capolavoro a metà tra fan-tasy, thriller e noir di Neil Gaiman, protagonista del fantastico contemporaneo già acclamato per la sceneg-giatura di Sandman. Immaginate un detenuto. Il suo nome è Shadow. Scarcerato al termine della sua condanna, senza un posto dove andare, Shadow è solo al mondo. Non del tutto, però: mentre torna a casa per prendere parte alle esequie della moglie, viene contattato da un personaggio che si fa chiamare Mr. Wednesday, che sembra sapere tutto della sua vita. Non tarderemo a scoprire che costui altri non è che il dio norreno Odino, il quale ha bisogno del protagonista per combattere una guerra grandiosa.

Innumerevoli divinità e creature magiche sono state infatti condotte nel Nuovo Mondo dalle schiere di emigranti giunte nei secoli, che li hanno portati nei loro cuori e nelle loro menti. Ma, col passare dei tempi, la fede negli antichi dèi si è affi evo-lita, lasciando il passo a nuovi, poderosi Titani, incarnazioni dello Zeitgeist. Odino, con l’aiuto di Shadow, dovrà condurre gli antichi numi a combattere contro i nuovi, in una battaglia

senza quartiere che ha per po-sta l’anima d’America.

Tessuto magistralmente in svariate sottotrame, Ameri-can Gods si presta a numerose letture, a causa della comples-sità del plot e al notevole nu-mero di elementi che vi sono incastonati. Oltre al confl itto tra le divinità, la cui direzione è costantemente accennata dai sogni di Shadow, il lettore viene a conoscenza di come nasce un dio, come si compie la sua ascesa e cosa lo attende al suo declinare. Sono inoltre degne di interesse le nume-rose vicende che inframmez-zano la trama principale e che narrano come le creature ultraterrene siano giunte in America, o come se la cavi un ifr it (creatura della mitologia araba) ai giorni nostri. A ciò va aggiunto l’ulteriore valore costituito dal pregevole stile di Gaiman, estremamente dettagliato: con noncuran-za, lo sguardo indugia sulla perfetta calligrafi a di Th oth, dio egizio della scrittura, o sulla spilla a forma di frassino

(uno dei simboli di Odino) impercettibilmente appuntata sulla giacca di Wednesday. Sotto il profi lo dei contenuti, la scelta più interessante dell’autore è il tentativo di tracciare uno schizzo dello spirito americano, costituito dal puzzle delle laconiche impressioni che qua e là i personaggi si lasciano sfuggire e dalla dimensione complessiva del racconto, che non off re soluzioni acquisite una volta per tutte, chiedendo piuttosto di essere in-terrogato e meditato.

Quali sono davvero gli dèi d’America? Quali sono le forze in gioco nella costruzione della sua identità? Queste alcune delle domande che il lettore si troverà ad aff rontare al termine del ro-manzo. A sottolineare l’importanza di questo tema, Gaiman fa dire a Wednesday/Odino: «Questo è l’unico Paese al mondo che si domanda chi è. Tutti gli altri sanno chi sono. Nessuno ha bisogno di cercare il cuore della Norvegia. O l’anima del Mozambico. Sanno chi sono» (p. 110). Vale la pena chieder-

Neil Gaiman“American Gods”

di Emanuele Guarnieri

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si quanto ciò sia vero, o meglio, quanto i processi svoltisi ne-gli USA in poche centinaia di anni possano far comprendere quanto accaduto in tempi molto più lunghi in altri luoghi del mondo, ovvero come si venga a costruire un’identità (l’anima) nazionale e quali fattori vi intervengano.

Ancor più interessante è quindi il fatto che lo spirito ameri-cano sia indagato a partire dalle divinità che popolano gli Stati Uniti, leggibili metaforicamente come forze che si aff rontano e il cui confl itto plasma e plasmerà il volto dell’America. Co-storo mantengono dei legami esteriori con le splendenti fi gure leggendarie di cui narravano i miti, ma sono inesorabilmente in declino e alla costante ricerca di fonti di potere che consenta-no loro di permanere nella me-moria: devono far sì che il loro nome venga ricordato, le loro gesta celebrate e la propria fi gu-ra sia fatta oggetto di culto tra i mortali. Viene infatti rivelato che «ci sono dèi che sono stati dimenticati, e ormai potrebbe-ro anche essere morti. Li si può trovare soltanto dentro antiche storie. Sono scomparsi» (p. 60). Tra i molti che vengono nomina-ti o che hanno un ruolo eff ettivo nel romanzo, ricordiamo il già citato Odino, che si procura di che vivere truff ando e ingannan-do; Chernobog, divinità slava delle tenebre, in pensione dopo aver a lungo lavorato in un mat-tatoio come abbattitore; Bilqis, dea asiatica della sessualità, la quale esercita il mestiere più antico del mondo, e Mr. Nancy, ovvero Anansi, trickster africano, oggi un simpatico vecchietto dalla battuta pronta. Dal canto loro, Anubi e Th oth gestiscono, prevedibilmente, un’agenzia funebre. Ironicamente, Gesù Cri-sto, sicuramente il dio de facto più proclamato negli Stati Uniti, è ricordato solo di sfuggita, a dimostrare come siano ben altre le potenze che signoreggiano sul cuore americano. Dèi nuovi sorgono infatti nel volgere di tempi brevissimi: il nume del car-bone, dell’acciaio e della macchina a vapore è oggi un relitto ab-bandonato. Gli antagonisti degli antichi dèi, le nuove potenze sorgenti, sono Media, aff ascinante young lady, manifestazione del potere delle televisioni e dei giornali, il Ragazzo Tecnologi-co, un adolescente brufoloso, signore dei dati e dell’innovazio-ne, che minaccia Shadow (e il suo protettore Odino) con queste parole: «Digli che abbiamo riprogrammato la realtà. Digli che il linguaggio è un virus, la religione un sistema operativo e le preghiere sono junk mail» (p. 56). Costoro sembrano guidati dal misterioso Mr. World, le cui identità e natura costituiscono il fulcro stesso e l’enigma più profondo del romanzo, svelato solo nel fi nale. Così come è degna di essere meditata la reale identità che si cela dietro la fi gura dal capo taurino che compare insistentemente nei sogni di Shadow, e che rappresenta proba-bilmente l’entità più autenticamente “divina” del romanzo, la cui esistenza sembra presiedere al sorgere di qualsiasi nume.

La peculiare “teologia” di Gaiman tratteggia un mondo di dèi

insicuri, che possono permanere o estinguersi al volgere della fortuna delle loro vicende – una condizione, in eff etti, simile a quella delle divinità greche, sottoposte all’imperio del Fato, o a quelle norrene, destinate a perire con il giungere del Ragnarök. Questo, però, non ci deve trarre in inganno: non ci troviamo aff atto di fronte a una messa in ridicolo ironicamente “postmo-derna” degli dèi o delle loro storie. L’autore prende anzi molto sul serio la materia. Il fulcro del romanzo, il suo asse teorico, po-tremmo dire, ha una premessa fondamentale, ricordata in epi-grafe: «Tutte le persone, vive o morte, nominate nel libro, sono

frutto della mia immaginazione, oppure usate in modo immagina-rio. Soltanto gli dèi sono reali». Analogamente, constatando gli eventi ai quali ha assistito, Sha-dow sentenzia: «La gente crede. È così che fanno. Credono. E poi non si prendono la respon-sabilità della propria fede; evo-cano le cose e non si fi dano delle evocazioni. Popolano le tenebre di spettri, dèi, elettroni, storie. La gente immagina e crede: ed è questa fede, questa fede solida come la roccia che fa accadere le cose» (p. 475).

Che signifi ca tutto ciò? Gai-man, da questo punto di vista solido discepolo di Chesterton, Lewis e Tolkien, ha come que-sti ultimi una grande fi ducia nel duplice potere delle storie: la ca-pacità di rendere interpretabile il caos del reale, nonché agire retro-attivamente sul reale stesso. In ef-

fetti, l’ennesimo aspetto che rende American Gods una sorta di “classico contemporaneo” è la signifi cativa metarifl essione sullo scrivere, sulle storie e l’arte di narrarle coerentemente affi data alle pagine stesse del romanzo.

Potremmo azzardarci a dire che, dal punto di vista narrato-logico, scrivere di dèi e dichiarare la propria fi ducia nella loro esistenza e nella loro potenza equivale a sostenere l’effi cacia e la forza delle storie stesse. Si può infatti ipotizzare che le divini-tà simboleggino i racconti per antonomasia, dal momento che esse sono le indiscusse protagoniste delle narrazioni più anti-che del mondo. Nell’intreccio, questa dichiarazione di poetica molto esplicita ed epistemologicamente “forte” è, non a caso, inserita nel taccuino degli appunti di Mr. Ibis, alter ego del dio Th oth: «Il modo migliore per scrivere una storia è raccontar-la. È chiaro? La si descrive, a se stessi o al mondo, raccontan-dola. Raccontare è un atto compensatorio, un sogno. Quanto più dettagliata è la mappa, tanto più somiglia al territorio. La mappa più accurata possibile diventa il territorio, quindi perfet-tamente dettagliata e perfettamente superfl ua. Il racconto è la mappa che è il territorio. Non bisogna dimenticarlo» (p. 483). Certamente, la “mappa” di cui ci dotano i racconti è complessa e mai defi nitiva. Una gigantesca mappa con la quale perdersi e ritrovarsi nei territori della conoscenza. Neil Gaiman, Ameri-can Gods, traduzione di Katia Bagnoli, Mondadori, Milano 2002, pp. 523, € 11,00.

“Gli dèi di Neil

Gaiman possono permanere o estinguersi,

in base al corso degli eventi

«Credo che vi po-trebbe interessare pubblicare questo»,

esordì Cristopher Tolkien di fronte a Chris Smith, respon-sabile della HarperCollins, storica casa editrice delle ope-re del professore inglese. «Si intitola: La caduta di Artù», aggiunse. La notizia risale a un anno fa. Un inedito di uno dei romanzieri più noti e letti a livello mondiale, un evergreen, come si suol dire, custodito nella biblioteca Bodleian di Oxford, presso la quale insegnava Tolkien, ini-ziava allora il cammino che lo avrebbe condotto alla pub-blicazione. Ora l’attesa è ter-minata anche per il pubblico italiano: grazie all’impegno storicamente assunto dalla casa editrice Bompiani nella promozione delle opere tol-kieniane, è fi nalmente uscito La caduta di Artù, autentico gioiello editoriale non solo per gli amanti del mondo del Signore degli anelli ma anche per gli studiosi della lettera-tura inglese medioevale. Realizzata in collaborazione con la So-cietà Tolkieniana Italiana, è una pubblicazione che – come chia-riscono Sebastiano Fusco, traduttore dell’opera, e Gianfranco de Turris, coautore della postfazione all’edizione italiana – potreb-be aprire un nuovo fi lone nelle ricerche sulla poetica di Tolkien.

Il poema – del quale non furono scritti che cinque canti, di cui l’ultimo incompleto – è un esempio del noto amore di Tolkien per il verso allitterativo, metrica utilizzata nell’antica letteratura norrena (si pensi, ad esempio, alla sua versione del Sir Gawain, pubblicata dalle Edizioni Mediterranee nel 2009). Come lo stes-so Tolkien chiarisce in un documento riportato in appendice alla presente edizione, questa forma narrativa «ha in sé grandi pregi. Intendo dire che sarebbe degna di studio, come tecnica, da parte dei poeti d’oggi. Ma è anche interessante in quanto forma poeti-ca “nativa”, indipendente da modelli classici» (La poesia in Old English, p. 276). Non si trattò dunque di un amore puramen-te letterario, bensì di un interesse conforme all’assai articolato

ambito di studi – narrativo e metanarrativo – del creatore del Legendarium. La riattua-lizzazione di testi antichi in lingua moderna è ben lungi dall’essere uno sterile eser-cizio fi lologico; essa implica piuttosto un modo diff eren-te di vivere la propria lingua e, di conseguenza, la propria cultura: «I tentativi di tra-duzione», scrive Tolkien nel documento succitato, sono assai utili «per aumentare la conoscenza e la comprensio-ne delle parole: una cosa di cui oggi sono tutti pericolosa-mente carenti» (p. 280). Ri-fl essioni decisamente preziose nell’epoca del trionfo del lin-guaggio prêt-à-porter.

Il poema, «uno dei più dolorosi fra i suoi molti ab-bandoni», come chiarisce il fi glio Cristopher a conclu-sione de Il poema nel quadro della tradizione arturiana, vede protagonisti Artù e altri personaggi legati alla Tavola Rotonda, tra cui Gawain, «la cui gloria cresceva / con l’in-

cupirsi dei tempi, intrepido e leale, / fra i cavalieri il più prode ad ogni prova, / il bastione e la rocca di un mondo che ruina» (vv. 65-68, p. 25).

Lo scenario che fa da sfondo alla vicenda si colora di tinte apo-calittiche: Artù combatte le invasioni barbariche per salvaguar-dare un Occidente che declina inesorabilmente verso la rovina. La sua è una lotta disperata contro lo scorrere impetuoso degli eventi, contro forze che si destano furiose, decise a presentare il conto a Roma: «Volgeva il mondo antico alla sua fi ne / e la marea del tempo s’era volta contro di lui» (vv. 195-196, p. 33). Il dux bellorum «vuole fermare così l’onda del tempo» (v. 6, p. 21), «nel cimento di far guerra al destino» (v. 21, p. 23). Artù non si rassegna, insomma, e decide di ergersi contro la Storia e il Fato. Ciò che lo vede protagonista non è solamente un’epoca storica ma uno spartiacque, una cerniera tra due ere, due visioni del mondo, fi nanche – utilizzando un’immagine cosmogonica che non sarebbe dispiaciuta al professore oxoniense – due cicli.

J. R. R. Tolkien“La caduta di Artù”

di Rita Catania Marrone e Andrea Scarabelli

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Si tratta di una fi gura assai tragica, chiamata a difendere un’in-tera civiltà dagli spettri della rovina. Sebbene votato alla caduta, Artù è destinato a diventare quel simbolo di rinascita che vali-cherà le ere, distaccandosi dal piano storico per entrare in quel-lo mitico-archetipico. Sulla sua presunta lapide, trovata in una cappella presso Glastonbury, compare questa incisione: Hic Iacet Arthurus Rex Quondam Rexque Futurus – qui giace Artù, non solo colui che è stato Re, ma anche colui che è destinato a esser-lo in futuro e per l’eternità. Attorno a questo mito si coagulerà una tradizione secolare legata all’attesa messianica del ritorno del Re scomparso, l’unico in grado di restaurare il potere legittimo, perduto con l’avvento di un’epoca oscura. Come non pensare, allora, all’avventura di Aragorn, al ritorno di «quei ch’è senza corona», con la conseguente instaurazione di una nuova era di prosperità?

Come sottolineano de Turris e Fusco nella postfazione al vo-lume, sulla quale ritorneremo, la fi gura di Artù si fa dunque kate-chon: a essa spetta ritardare l’av-vento del Male – senza annullar-lo, in quanto privo di una natura pienamente defi nita bensì sem-pre chiaroscurale, in senso spic-catamente antimanicheo – pro-crastinando l’avvento della fi ne del mondo. Assai suggestivi, in questo contesto, i seguenti versi, riferiti a Gawain: «Come il sole a occidente illumina il mondo / prima di rosseggiare calando oltre l’orlo del mare, / mentre l’Orien-te s’oscura» (vv. 187-191, p. 69).

L’aver messo a disposizione dei lettori un testo fi no a poco tempo fa ignorato (il suo stesso autore ne parlò pochissimo e perlopiù in documenti privati) non esaurisce tuttavia l’edizione Bompiani: è da segnalarsi infatti l’esaustività della curatela (comprendente note al testo e appendici), che fornisce i riferimenti storici e bibliografi ci necessari per aff ron-tare in maniera scientifi ca e completa il testo tolkieniano, inte-grando le note compilate da Cristopher nell’edizione Harper-Collins, con un risultato che non potrà lasciare insoddisfatti. Da segnalarsi parimenti l’ottima traduzione di Fusco, il quale, alle prese con un testo assai complesso, senza cadere in ricercatezze linguistiche desuete ha restituito appieno la potenza e la valenza evocativa del testo tolkieniano. A nostro avviso, modernizzando – senza degradare – il testo del professore oxoniense, Fusco ha seguito i suoi dettami in fatto di traduzioni, restituendo la pe-rennità del mito attraverso talune modalità espressive della mo-dernità. L’apparato critico allestito da Cristopher Tolkien, assai puntuale e onnicomprensivo, mostra infi ne il debito contratto dal creatore del Legendarium nei confronti di certa letteratura cavalleresca (valga come esempio il Tale of the Death of Arthur di Th omas Malory) ma anche la misura in cui questi se ne distanziò, rielaborando il materiale in maniera originale – sia per quanto concerne il signifi cato della spedizione arturiana, sia, ad esempio, in merito alle vicende legate a Ginevra. Ma chiarisce altresì le re-

lazioni del poema con il Silmarillion, nonché la sua preparazione “in diretta”, attraverso gli schizzi preparatori.

Il volume si chiude con una postfazione, Artù e la caduta dell’Occidente, fi rmata da de Turris e Fusco, le cui rifl essioni con-giunte mostrano come la vicenda di cui sopra sia analizzabile da diverse angolature, a seconda delle inclinazioni del singolo letto-re. È proprio questo il segno della grande letteratura: possedere svariati strati e dimensioni, disponendo di una buona struttura narrativa, capace di farsi al contempo portatrice di simboli che travalicano il tempo in cui fu scritta e addirittura la volontà stessa dell’autore.

Sul piano umano, i versi de La caduta di Artù narrano le vicen-de interiori, spesso null’aff atto lineari ma umane troppo umane – ad onta di quanti rigurgitano luoghi comuni sulla “rigidità” e la “monodimensionalità” degli eroi tradizionali, di contro al ca-rattere “debole” e “liquido” dei “postmoderni” – dei protagonisti

della vicenda, cioè Artù, Ginevra, Gawain, Lancillotto e altri. Sono personaggi dilaniati tra la consa-pevolezza del declino e l’inelut-tabilità del ruolo ricoperto, ma anche tra il senso dell’onore, della fedeltà e i desideri della carne.

Sul piano storico, lo scenario che fa da sfondo è posto sotto il segno di un declino irreversibile. Tra le foschie di una caduta vertiginosa a opera delle invasioni barbariche (qui descritte tramite le incursio-ni dei Sassoni nell’isola britanni-ca, a seguito dell’abbandono di quest’ultima da parte delle legioni romane), si stagliano i resti dell’im-pero di Roma. Un mondo antico, l’Occidente, che rischia di crollare a seguito del risveglio di forze al-tre: «Si destò furibondo l’Orien-te infi nito, / cupi fragori di tuono riecheggiati in abissi / sotto le nere montagne mossero contro di loro» (vv. 96-98, p. 27).

Da un punto di vista metastorico – ma anche metafi sico, e lo di-ciamo senza forzature – esso simboleggia infi ne il confl itto – che coinvolge più piani del reale – tra inferiore e superiore, ordine e caos. È quella battaglia che si svolge anzitutto sub specie interiori-tatis: una guerra che ognuno, nel proprio petto, combatte tutti i giorni, di cui, tradizionalmente, i confl itti “esterni” non sono che pallida estrinsecazione. È quella “guerra santa” interiore di cui ha parlato René Guénon. Ma è uno scontro che può essere vinto, anche nel momento in cui il corso degli eventi precipita verso l’abisso e la storia si volge in tragedia. Da qui la speranza che ac-compagna continuamente la consapevolezza della rovina, per chi – naturalmente – abbia occhi per guardare e orecchi per sentire: «Gira il tempo l’eterna sua ruota, e muta la marea: / ma la spe-ranza sempre risale / la china del mattino a grandi passi, / per sollevare chi è in pena, fi nché il mondo sussista» (vv. 229-232, p. 73). J. R. R. Tolkien, La caduta di Artù, a cura di Cristo-pher Tolkien, traduzione di Sebastiano Fusco, postfazione di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Bompiani, Milano 2013, pp. 300, € 20,00.

“ARTù è UNA FIGURA TRAGICA, CHIAMATA

A DIFENDERE UN’INTERA

CIVILTà DALLA ROVINA

DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE: Andrew MacDonaldLa Seconda Guerra Civile AmericanaAngel Crespo La vita plurale di Fernando PessoaEmil CioranL'agonia dell'Occidente

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Due novità su Ernst von Salomondi Luca Gallesi

Secondo Ernst Nolte, la Rivoluzione Conservatrice fu «un mo-vimento composto da un nutrito gruppo di intellettuali con pre-messe molto diverse, che videro nel marxismo e nel comunismo, che ne era la naturale conseguenza, la vera sfi da dell’epoca, una sfi da di natura non solo politica». Cancellato dalla storiografi a uf-fi ciale perché accusata di “nazismo”, questo movimento resta una corrente di pensiero molto feconda e stimolante. Tra i non molti protagonisti della Rivoluzione Conservatrice tedesca popolari in Italia, forse il meno conosciuto è Ernst von Salomon, autore peral-tro di un romanzo di culto come I proscritti, diventato il manifesto della “generazione perduta” che aderì giovanissima alla Repubblica Sociale Italiana. Mentre su autori come Werner Sombart, Oswald Spengler e Arthur Moeller van den Bruck – per non parlare di Martin Heidegger, Carl Schmitt ed Ernst Jünger – esiste una ricca bibliografi a nella nostra lingua, di von Salomon, a parte I proscritti, non c’è molto a disposizione, dato che le altre sue opere importanti tradotte negli anni passati, Io resto prussiano e Un destino tedesco, sono da tempo fuori catalogo. Fortunatamente, le Edizioni Ritter hanno recentemente colmato tale lacuna con due libri, uno di von Salomon stesso, Freikorps. Lo spirito dei Corpi Franchi, e una bella biografi a, Ernst von Salomon, l’ultimo proscritto, fi rmata da Andrea Niccolò Strummiello. Dal volume di von Salomon emerge un’im-magine non stereotipata di quei soldati che rifi utarono la sconfi tta sui campi di battaglia, o comunque non accettarono la successiva vittoria di una rivoluzione a cui non si riconoscevano affi ni. Il ri-fi uto della democrazia parlamentare, che scorrerà sotto il suolo ger-manico come un fi ume carsico per riemergere con l’ascesa di Hitler al potere, va di pari passo con un attivismo eroico non disgiunto da una elaborazione teorica, forse incoerente o frammentaria, ma cer-tamente non superfi ciale. Come scrive l’Autore nel suo Freikorps, «forse la volontà speculativa dei Corpi Franchi si distingueva da tutte le altre per il semplice fatto che intorno ai fuochi del campo e nei quartieri dei presidi, il ricco assortimento di idee di redenzio-ne e di felicità fu esaminato e fi ltrato molto coscienziosamente in relazione alla sua origine tedesca ancestrale». Tali idee si trasfor-marono in azione rivoluzionaria e lo portarono alla prima espe-rienza carceraria; condannato per aver partecipato all’assassinio di Walther Rathenau, von Salomon fu imprigionato come nemico della Repubblica di Weimar. Quello che colpisce, nella singolarità del suo caso, è il destino (“tedesco”) che lo volle gettato in prigione anche sotto il regime nazionalsocialista e infi ne sotto i liberatori americani, che lo sottoposero – ironia della sorte – a un processo di denazifi cazione. Come rileva Strummiello nella sua accurata biografi a, von Salomon, arrestato con la sua compagna Ille, ebrea, e imprigionato per più di un anno, si accorge che «il campo (degli Americani) replicava in sé quella che era l’ossatura stessa del regime e della società nazionalsocialista». Quando, nel 1951, uscì il libro che riassume la sua esperienza di “denazifi cato”, con il titolo Der Fragebogen (in italiano reso come Io resto Prussiano), il settimanale statunitense Time denunciò pubblicamente che una siff atta opera, lesiva dell’immagine americana, potesse essere commercializzata e si chiedeva come fosse possibile che vendesse così tanto. Basta un commento simile per ritenere indispensabile la lettura degli scritti di von Salomon e della sua biografi a. Andrea Niccolò Strummiel-lo, Ernst von Salomon, l’ultimo proscritto, Ritter, Milano 2013, pp. 220, € 18,00; Ernst von Salomon, Freikorps. Lo spirito dei Corpi Franchi, Ritter, Milano 2013, pp. 122, € 16,00.

Un pamphlet di Giorgio Gallidi Giorgio Guido

La bandiera a stelle e strisce garrisce al vento invernale. Gli USA continuano a rivendicare un ruolo geopolitico dominante, in un’ottica unipolare derivante da una radicata consapevolez-za storica e da un progetto egemonico dai connotati messianici. Vale dunque la pena approfondire le fondamenta su cui si erge il modello statunitense. In proposito interviene un acuto sag-gio dello storico Giorgio Galli, il cui stesso titolo problematico induce a una rifl essione preliminare: L’impero antimoderno in-tende infatti ribaltare numerosi luoghi comuni relativi al Nord America, smascherando le ingenuità – o le malizie – del politica-mente corretto e rivelando una dimensione “altra” degli USA. Lo scrittore rileva infatti come negli Stati Uniti si dipani, attraverso processi sottesi e fl uttuanti, spesso riemergenti in modo carsico, una consapevolezza identitaria legata ai concetti di “impero” e “antimodernità” che costituiscono una ben precisa modalità di approccio alla politica, alla società e alla religione. Le rifl essioni di Galli si sviluppano con la fi nalità di proporre suggestioni da approfondire ulteriormente, il tutto in una prospettiva storico-genealogica che prende le mosse dal governo di Clinton per giun-gere sino all’attuale amministrazione di Obama. La prospettiva che anima il presente lavoro è così sintetizzabile: la modernità, originata dall’invenzione della democrazia rappresentativa, è entrata in una crisi radicale determinata, o testimoniata, pro-prio dalla degenerazione del suo modello politico fondante. Gli USA, patria storica della modernità, sono anche il luogo di ele-zione per constatarne la crisi, le cui manifestazioni possono esse-re ravvisate in ambiti diff erenti ma correlati. Tra questi, possiamo annoverare l’escalation di disordine connesso al terrorismo inter-no ed esterno, il raff orzamento di movimenti estremisti di una destra cristiano-evangelica, suprematista, settaria e razzista, ben emblematizzata dai controversi Diari di Turner e legata a fran-ge del partito repubblicano e del Tea Party, la crisi di legittimità delle istituzioni e l’antipolitica diff usa; infi ne, il problema immi-gratorio, legato soprattutto ai cosiddetti “latinos”. Tali fenomeni non vengono considerati come semplici patologie del sistema, bensì come indici di una visione del mondo eterogenea rispetto a quella democratica, laica e progressista, meritevole di attenzione. L’antimodernismo americano non sarebbe tanto una semplice reazione frustrata e populista a una fase di diffi coltà economi-ca e sociale, quanto piuttosto la rivendicazione da parte di una fetta consistente della popolazione di “un’altra modernità”, una diversa tipologia di organizzazione politica e religiosa in nome di valori forti connessi a una vera e propria Weltanschauung, a una precisa visione del mondo. Sono notazioni che si concludo-no con una proposta indirizzata a trasformare il modello vigente europeo, per adattarlo alle nuove sfi de della contemporaneità: l’estensione dell’ambito del diritto di voto dalla sfera politica a quella economica, secondo un ampliamento democratico da collegarsi non al mero automatismo anagrafi co – che ci rende elettori per ragioni semplicemente biologiche – ma a una decisio-ne consapevole, realizzando un superamento del fi ttizio eguali-tarismo moderno secondo un ampliamento dei diritti condizio-nato da una vocazione alla scelta. E il conseguimento di questa responsabilità è compito nostro, di noi cittadini, volenti o nolen-ti, di questa modernità. Giorgio Galli, L’impero antimoderno. La crisi della modernità statunitense da Clinton a Obama, Edizioni Bietti, Milano 2013, pp. 109, € 14,00.

Psicanalisi dell’antiamericanismodi Andrea Scarabelli

Francamente, non credo che ogni libro abbia la sua ragion d’essere (soprattutto nell’epoca della stampa on-line fai-da-te, in cui chiunque –leggasi chiunque – si arroga il diritto di vedere le proprie turbe psichiche rilegate e brossurate, con risultati so-vente, per usare un eufemismo, grotteschi). Eppure vi sono libri esemplari, i quali, pur contenendo idee che non condividiamo, riassumono i tratti di un’epoca, come monumenti di una visione del mondo. È il caso de L’antiamericanismo in Europa del profes-sor Russel Berman, che illustra meglio di mille trattati come gli Stati Uniti percepiscano appunto l’antiamericanismo, il quale «ha poco a che fare con le concrete vicende politiche», seguen-do piuttosto «la disordinata logica ossessiva in cui cadono le fantasie europee sugli Stati Uniti» (p. 71). Il meccanismo di questa “psicanalisi dell’antiamericanismo” (che ha avuto note-voli epigoni nostrani) è molto semplice: l’avversione all’Ame-rica, liquidata come «eccedenza isterica» (p. 76) e «fantasia paranoide» (p. 51), non ha come causa scatenante la condotta americana – ipotesi che non sfi ora nemmeno i peggiori incubi dell’autore – ma è un problema identitario ascrivibile unica-mente agli “antiamericani”. Questa la fenomenologia dell’antia-mericanismo: dato che il nostro agire non è in alcun modo critica-bile, suggerisce Berman, che fanno i Paesi europei? Proiettano su di noi le ombre del proprio passato, in questo modo discolpan-dosi innanzi alla Storia. Il caso della Germania – di cui si occupa il libro – è esemplare. Perché qualcuno collega i bombardamenti di Baghdad a quelli di Dresda e Norimberga? Queste metafo-re «dicono poco sugli Stati Uniti, ma indicano una relazione disturbata con il travagliato passato tedesco e un desiderio di risolverla attraverso manifestazioni di ostilità» (p. 92). Il gioco è fatto... Eppure, aggiunge l’arguto Berman, le culture america-na e tedesca sarebbero assai simili, dato che i sondaggi rivelano analoghi indici d’opinione riguardo l’integralismo islamico, il surriscaldamento del pianeta, il budget militare... E c’è anco-ra chi ritiene azzardata l’espressione guénoniana Regno della quantità... In queste pagine troviamo una esaustiva collazione di tutti gli stereotipi propri del giornalismo culturale odierno, ad esempio l’equazione moderno-americano-democratico, secon-do la quale criticare l’America equivarrebbe ad avercela a morte con la democrazia e, per converso, essere degli “antimoderni” fedeli ai totalitarismi, secondo il binomio «Saddam-Hitler». Altro che leggi sul revisionismo... Ergo: l’antiamericanismo non farebbe che esprimere semplicemente un rigetto verso «la de-mocratizzazione della politica e la liberalizzazione dei mercati» (p. 57). Che gli USA abbiano qualche colpa, ancora una volta, è del tutto fuori discussione. Nel libro di Berman – e questo è il motivo per cui lo segnaliamo – il lettore troverà condensata e sunteggiata la vulgata statunitense, conoscerà da un altro punto di vista, insomma, la vera identità di chi vede nell’antiamericani-smo una «psicosi». Il che, si badi, non infi cia in alcun modo la pubblicazione in sé: dando alle stampe questo volumetto, anzi, la Rubbettino, che non esita a pubblicare libri dai toni assai dif-ferenti, senza essere “allineata” né omologata, ha dato esempio di un liberalismo culturale che molte altre case editrici dovreb-bero prendere come esempio. Russel A. Berman, L’antiameri-canismo in Europa. Un problema culturale, introduzione di Gaetano Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 171, € 12,00.

Medioevo e alchimiadi Luca Siniscalco

Il termine “alchimia” evoca spesso nell’immaginario collet-tivo gli spettri dell’occultismo, della magia e della stregone-ria, in un pieno misconoscimento del signifi cato tradizionale dell’Ars Regia. In risposta a questa vulgata, Hutin, nel suo Gli alchimisti nel Medioevo, tenta un’analisi scientifi ca, avvalora-ta da un ricco apparato bibliografi co, della natura simbolica dell’alchimia. Novello Odisseo, deve districarsi fra la Scilla di una prospettiva analitica livellatrice positivista e scientista e la Cariddi di un'analisi determinata da un’ermeneutica simbo-lista forzata e scissa da ogni aggancio con il reale. È soltanto evitando tali ostacoli che il viaggiatore potrà terminare il pro-prio nostos e riapprodare in patria. Hutin si mostra all’altezza del diffi cile compito e conduce il lettore nell’Itaca perduta e bramata: l’ammaliante terra degli alchimisti. Il saggio si con-centra sugli sviluppi medievali della Grande Opera, senza tuttavia trascurare una sintetica contestualizzazione della sa-pienza alchemica, dalle sue origini mitiche sino all’età moder-na. La tesi fondante consiste nella convinzione che nell’arte alchemica non si possano scindere l’elemento pratico, legato al lavoro trasmutativo dei metalli attuato nel laboratorio se-condo precise operazioni, e la componente sacrale, connessa alla crescita spirituale e all’ascesi ermetica (la cui dimensione esoterica trova incarnazione materiale nell’oratorio adibito alle preghiere e ai riti). A partire da questo principio esplica-tivo, Hutin fornisce un quadro ampio e variegato del mondo dell’alchimia medievale: delinea le principali caratteristiche del laboratorio e degli utensili alchemici, fra cui spicca il ce-lebre atanòr. Espone, muovendosi fra fonti contraddittorie e frammentarie, le operazioni e le fasi dell’Opus, il lavoro dei metalli, il ruolo dell’astrologia e del mondo onirico in rela-zione al compito degli “artisti”; connette la dimensione al-chemica a quella medica, inserisce le fi gure degli adepti nel contesto sociale medioevale e tratteggia i profi li di alcuni fra i più celebri iniziati, fra cui Avicenna, Alberto Magno, Rai-mondo Lullo, Nicolas Flamel e Basilio Valentino; tematizza, infi ne, l’interpretazione spirituale dell’alchimia, ossia la rein-tegrazione delle facoltà divine dell’uomo adamitico, decaduto con la fi ne dell’età dell’oro e il peccato originale alla misera condizione mondana. L’ultima parte del saggio è dedicata alla relazione ambigua e dinamica intercorsa fra la Chiesa catto-lica e l’esoterismo alchemico, alle forme artistiche “interne” all’alchimia medievale e da essa “esteriorizzate” – le “dimore fi losofali” rappresentate da diverse cattedrali francesi – e alle ipotesi interpretative che collegano i cercatori della Pietra Fi-losofale alle società segrete. Si tratta, in ultima analisi, di una bussola valida tanto per approfondire l’alchimia medievale quanto per comprendere l’essenza dell’Ars Regia, una pratica che, nella tripartizione di Nigredo, Albedo e Rubedo, nella mi-scela fra Zolfo e Mercurio, nei simboli della fenice e dell’ou-roboros, ha condotto gli uomini in un’avventura fatta di follie, inganni e depravazioni, ma anche di innalzamento interiore, realizzazione spirituale e consapevolezza dell’unità cosmica. Poiché, come recita la Tabula Smaragdina di Ermete Trisme-gisto, «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto / e ciò che è in alto è come ciò che è in basso». Serge Hutin, Gli Alchimi-sti nel Medioevo, traduzione di M. Faccia, Arkeios, Roma 2012, pp. 194, € 14,50.

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ARRETRATI www.antaresrivista.it

LIBRERIE FIDUCIARIE // CREMONA: Libreria del Convegno – Corso Campi 72 // MILANO: Libreria Cortina – Largo Richini 1 ✻ Spazio Ritter – Via Maiocchi 28 ✻ Bistrò del Tempo Ritrovato – Via Foppa 4 ✻ Fiera del Libro – Corso XXII Marzo 23 ✻ Arethusa – Via Napo Torriani 1 ✻ Libreria Odradek – Via Principe Eugenio 28 // PERUGIA: L'Altra Libreria - Via Rocchi 3 ✻ Libreria Il Bafometto - Via Alessi 36 // ROMA: Libreria Aseq - Via dei Sediari 10 ✻ L'Universale - Via Caracciolo 12 ✻ Libreria Aquisgrana - Via Ariosto 28 ✻ Libreria Nero su Bianco – Via degli Spagnoli 25 ✻ Libreria Europa – Via Tunisi 3/A // TORINO: Libreria Setsu-Bun – Via Cernaia 40/m ✻ Libreria Genesi Universitaria – Via Verdi 39/b ✻ Libreria la Bussola – Via Po 9/b ✻ Libreria Arethusa – via Giolitti 18 // CHIETI: Home Video - via Ortona 3/d // RIMINI: Libreria Il Cerchio – Via dell'allodola 8 // BADIA POLESINE: Caffè letterario Antica Rampa - Via Carducci 63 // CHIAVARI: Il Libraccio – Corso Gianelli 2 // GENOVA: Libreria Editrice Amenothes – Via San Lorenzo 23/4

N. 00/2011H.P. LOVECRAFT

N. 03/2012J.R.R. TOLKIEN

N. 01/2011IL PENSIERO IN CAMMINO

N. 04/2012L'ALTRA FACCIA DELLA MONETA

N. 02/2012UN’ALTRA MODERNITÀ

N. 05/2013MODERNITÀ OCCULTA

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IN QUESTO NUMEROGIORNI DI ORDINARIA FOLLIA

Lo sguardo del cinema sul fenomeno stragista

ANDREA ZANZOTTO E IL MITO DELL’ALLUNAGGIOSimbolismo e realtà di un mito moderno

EDWARD HOPPER: L’ULTIMO DEI PURITANIScorci inquietanti del Nuovo Mondo nei dipinti del celebre artista

WOODY ALLEN E L’ARTE DELLA FUGA DAL NOSTRO OCCIDENTECome guarire dalle angosce del postmoderno con la macchina da presa

L’ANTIAMERICANISMO TRADIZIONALE DI JULIUS EVOLALa critica spirituale degli Stati Uniti nell’opera del fi losofo romano

FRA LE PAGINE D’AMERICALetteratura, identità e storia: l’esempio statunitense

IL SECOLO DI MR. HYDEIl secolo americano indagato da Geminello Alvi

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IL POPOLO DEL MAIS: QUANDO IL FERTILIZZANTE DIVIENE ESPLOSIVOLo scandalo del monopolio del mais da parte delle multinazionali

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