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Anelito

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Di Lorenzo Sbrinci

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ANIME

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Lorenzo Sbrinci, Anelito. Alla scoperta dei desideri

© 2012 by Lorenzo Sbrinci© 2012 by Enjoy Edizioni

Enjoy Edizioni SrlStrada Comunale Corti, 5631100 – Treviso (TV) – ITwww.enjoyedizioni.it

Prodotto da Spazio SputnikRedazione: Genny Biondo (revisione)Progetto grafico e impaginazione: Mirko Visentinwww.spaziosputnik.it

In copertina: l’Autore fotografato da Fabiola Nesi

Prima edizione: giugno 2012

Tutti i diritti riservati – All rights reserved

ISBN: 978-88-96900-07-9

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Lorenzo Sbrinci

ANELIToAlla scoperta dei desideri

enjoyedizioni

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PREFAzIoNE

di Elena Puntaroli

Avere tra le mani questo romanzo è come tenere un pro-fumatissimo fiore che ho visto nascere e sbocciare, fino a diventare la meraviglia che è adesso. È un’emozione mol-to intensa di gioia ed eccitazione quella che sento, perché faccio parte anch’io della vita narrata in queste pagine, che traboccano di passione e voglia di vivere.

La visione chiara e determinata di Lorenzo ha sempre destato in me una profonda ammirazione, la sua fiducia è come un faro in grado di illuminare qualsiasi notte, ed ha illuminato molte delle mie.

Sicuramente la mia vita è cambiata molto da quando ho incontrato Lorenzo. Credo che l’avventura che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, sia la risposta ad un desiderio comune che abbiamo espresso appena ci siamo incontrati e che abbiamo scritto sulla prima pagina di un quaderno per appunti che gli avevo regalato dopo un viaggio in Fran-cia. Con un inchiostro violetto, una sera di primavera vi scrivemmo queste parole: «Noi cercheremo di scoprire più che possiamo, lo abbiamo sempre fatto e ora lo faremo in-sieme».

Sono sicura che dopo che avrai letto queste pagine, con-corderai che abbiamo davvero tenuto fede a questa inten-zione!

Le scoperte che Lorenzo ha fatto e le conclusioni a cui è giunto e che ha sistematicamente rivisto, aggiustato e

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Anelito

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trasformato, seguono lo sviluppo dei suoi desideri che, in quanto tali, sono in continua evoluzione dato che rifletto-no l’essenza stessa della vita che è movimento.

Anelito nasce dal suo desiderio di libertà, è un viaggio verso se stesso e quel richiamo dell’anima che non solo è riuscito a cogliere, ma che ha anche seguito con ardore. È il percorso che ognuno di noi può compiere dalla non conoscenza alla conoscenza, dal buio alla luce e dalla paura all’amore, in un continuo dispiegarsi di emozioni e intui-zioni che rendono sempre più chiari i desideri. È la scoper-ta delle possibilità che abbiamo di conoscere ed esprimere noi stessi e le nostre scelte con onestà, trasparenza e sem-plicità. È dire sì alla vita, per vivere quelle parti di noi che spesso releghiamo in un cassetto, credendo di poterne fare tranquillamente a meno.

Anelito è un viaggio nella vita, un’immersione totale nella sua essenza e nelle sue affascinanti sfaccettature, per ricordarci che è la vita stessa ad offrirci una mano nel mo-mento in cui decidiamo di muoverci verso di lei, affidan-doci alla gioia che suscitano i nostri desideri.

Anelito racconta la storia di Lorenzo alla scoperta del-la sua ispirazione, la ricerca della sua vera strada per per-correrla fino in fondo, senza lasciarsi distrarre da ciò che dovrebbe fare o da ciò che sembrerebbe più sensato. È la storia entusiasmante di un uomo che va incontro ai suoi sogni e li abbraccia con passione.

Buon divertimento!Elena

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PREFAzIoNE dELL’AuToRE

Scrivendo Anelito mi sono reso conto di quanto sia stata e sempre sia importante la libertà. una libertà vissuta a di-versi livelli ed espressioni, in tempi e modi differenti, ma pur sempre quella cosa o stato d’animo che consente di sperimentare una prospettiva nuova e di approcciarsi alle situazioni della vita in maniera più comprensiva, tenendo conto di sentimenti più ampi. Quando si vive la libertà, nel senso che riusciamo a darla a noi stessi e poi anche agli al-tri, allora conosciamo un mondo diverso, che ci apre strade alle quali non pensavamo, ci fornisce gli strumenti che de-lineano sentimenti del tutto nuovi, facendoci scoprire altre parti di noi. dare libertà è dare respiro, poter immagazzi-nare più aria, avere a disposizione più spazio e cominciare a credere che i nostri desideri si possono realizzare, per il solo fatto che non ci opponiamo più ad essi, ma li lasciamo fluire come un fiume che, scorrendo, bagna molti luoghi, viaggia e scambia di continuo le sue acque. In tutto questo è bene rispettare i nostri tempi e quelli delle cose che de-sideriamo, dare libertà è anche e soprattutto questo: non imprimere niente con la nostra imposizione, ma soltanto attendere, liberamente e con fiducia. desiderare, assapo-rando la sensazione che tutto sia già avvenuto, credere ed essere forti di questo sentimento, che garantisce libertà e ci fa provare una gioia immensa.

un abbraccio,Lorenzo

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ANELITo

Ad Elena,il sorriso

che illumina la mia vita

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PRoLoGo

12 Luglio 2009. domenica, quasi ora di pranzo.La luce di questa magnifica giornata filtra dai vetri della

cucina e investe la tavola già apparecchiata. La madre di Elena sta dando gli ultimi ritocchi ai fornelli; suo padre, invece, è già seduto in attesa del pranzo e guarda le notizie al telegiornale.

Elena è in piedi e sta parlando delle tappe del nostro viaggio con Stefania, sua sorella, e Luca, il suo fidanzato. Fra poche ore voleremo dall’altra parte del pianeta.

Stefania all’improvviso si ricorda e mi dice: – Mi ha scritto Gianni, voleva saperne di più della vostra cerimonia! Però forse ora è un po’ tardi…

Stefania è artista, pittrice, scultrice, insegnante d’arte e soprattutto un vulcano di idee e di originali visioni della realtà, che vanno ben oltre quello che si potrebbe immagi-nare. Questa era una delle sue ultime trovate. Gianni è un giornalista al quale Stefania aveva scritto raccontando della nostra cerimonia e di come si sarebbe svolta, per sapere se fosse stato interessato a recensirla. devo dire che quando Stefania mi comunicò la sua idea rimasi a bocca aperta, un po’ perché non ci avrei mai pensato e un po’ anche per una forma di lusinga: aver fatto una cosa tanto speciale da essere recensita. L’idea era più che valida ed anche molto importante, un modo per comunicare l’originalità della nostra cerimonia.

– Hai il suo numero di telefono? – le chiedo.– Sì – mi risponde lei.

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– Provo a chiamarlo! – esclamo con un tono pieno di gioia mista a curiosità. La possibilità di parlare con un gior-nalista, che cosa grandiosa! Mi sento come quella volta in cui intervenni in un programma alla radio, quando appre-si che il tema era l’amore eterno. Mi accinsi subito, sen-za pensare, a comporre il numero di Radio RAI, sì perché quella era l’emittente! Così mi prenotai, ma non era scon-tato che sarei potuto intervenire. dopo alcuni minuti il telefono squillò: – Signor Sbrinci si tenga pronto, tra pochi istanti sarà in diretta.

dentro di me risuonò la frase: “Lore, che cavolo hai combinato?”. Subito dopo sentii un’altra frase, questa volta pronunciata dalla redazione della RAI: – Tocca a lei! – La speaker chiese la mia opinione sull’argomento. Partii a rot-ta di collo senza fermarmi, né la speaker mi interruppe. Solo quando bloccò il mio intervento, passando la paro-la ad un altro interlocutore, mi chiesi se avesse compreso le mie parole. L’emozione continuò a scorrere in me an-cora per un po’, forse tremavo, forse palpitavo, che cosa grandiosa! Magari avevo detto delle cavolate tremende e per giunta a qualche migliaio di persone! Era stata un’e-sperienza fenomenale, il mio impeto era stato più veloce della mente, che poteva farmi rischiare di non telefonare e non provare nemmeno. Nel breve, ma intenso momento, avevo detto che l’amore non finisce, poiché si trasforma in qualcosa di diverso.

Così, telefonare a Gianni, il giornalista della cronaca lo-cale, mi accendeva di gioia, mi dava nuovamente la possi-bilità di parlare delle mie emozioni, poter dare il mio punto di vista. E anche questa volta, si trattava di amore.

Chiedo alla madre di Elena quanto manca al pranzo, lei risponde che ci vogliono ancora cinque minuti.

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PRoLoGo

decido di chiamare. Compongo il numero, una voce dal tono pacato mi risponde: è Gianni.

Avverto che è una persona sensibile e la conversazione prende subito un tono confidenziale. Mi sento libero di parlare e non appena mi rivolge la domanda: “Qual è il motivo che vi ha spinto a celebrare una cerimonia di que-sto tipo?” comincio a parlare come un treno, non rispar-miando nessun dettaglio.

Alla fine concludo: – Va bene, ci risentiamo a settembre quando torniamo! – Riaggancio.

Sono felice, raggiungo gli altri e comincio a mangiare soddisfatto. La madre di Elena ha servito il pranzo già da diversi minuti, così tengo la testa bassa sul piatto, mangian-do in fretta per mettermi in pari con i tempi degli altri già avanti nel menù. Ma ad un tratto divento cupo. un pen-siero sta creando qualche dubbio in me ed una perplessità mi rende inquieto. Alzo la testa dal piatto per riflettere: qualcosa che ho detto a Gianni non mi è piaciuto…

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Capitolo 1

duE GIoRNI doPo…

La baia di Sydney: un alito leggero sul cuore, qualcosa che rasserena solo a guardarla.

Seduto al caffè Rossini, dove alcuni italiani che vi lavo-rano ci hanno salutato caldamente, mi interrogo sul perché questa visione mi produca un tale incanto. Ritornano alla mente le persone che avevo conosciuto, poco più che dicias-settenne, durante un’esperienza come garzone pasticcere a bordo di una nave da crociera. La nave in quel periodo esti-vo compiva delle crociere settimanali da New York alle isole Bermuda. Nonostante la nave fosse di compagnia america-na, cuochi, pasticceri, camerieri ed anche macchinisti erano di origine italiana, tutti emigranti che avevano un contratto della durata di otto o nove mesi e che tornavano a casa per poco più di un mese, per essere chiamati di nuovo.

C’era chi si era imbarcato per fare solo un po’ di soldi e quasi se la godeva, ma la maggioranza aveva a casa una famiglia da mantenere e quella possibilità di lavoro era in-sieme una manna ed una costrizione. Ricordo di aver visto qualcuno di loro piangere. durante la mia permanenza a bordo, durata circa tre mesi e mezzo, compresi lo stato d’a-nimo degli emigranti, il valore, la simpatia e la versatilità nell’adattarsi non solo al tipo di lavoro, ma anche a quello stile di vita.

Questa mattina a Sydney, i camerieri del caffè mi hanno riportato indietro con la memoria di una ventina d’anni.

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Guardando a destra c’è il Sydney opera House, con la sua fantasiosa costruzione architettonica, un insieme di vele di cemento una vicina all’altra. dà la sensazione che qualcosa di diverso sia possibile: magari esistono delle figu-re geometriche affascinanti che, messe insieme, creano la visione dell’uno, qualcosa di più grande, lì segretamente suggerito. Infatti, andando dopo a visitarlo, sembrava di trovarsi nel futuro.

L’autore aveva ricavato l’idea delle “vele” scomponendo una sfera, donando una suggestione particolare, come un progetto avanzatissimo e allo stesso tempo molto sempli-ce, per il quale si deve avere un talento o una visione del mondo molto particolare, un po’ come l’architetto Miche-lucci.

A sinistra l’Harbour Bridge. La bellezza che si cela nella forma di un ponte mi ha sempre incantato. un ponte è un collegamento a qualcosa che è apparentemente disuni-to da noi e che presuppone uno spostamento, un andare verso. Risuona come qualcosa di interiore, un mezzo che ispira, un viaggio dell’anima, un incontro. La baia ha in sé un fascino tutto suo, è come un porto più piccolo, da dove posso staccare il mio sguardo e sentire di partire per trasformarmi.

Il cameriere ci porta la nostra ordinazione. Appena arri-vati ci eravamo avvicinati al banco del locale ed io avvistan-do i cornetti, li avevo subito ordinati per paura che qual-cuno me li portasse via! Il cornetto, che peraltro va sempre tuffato nel cappuccino, affinché ne trattenga il prezioso liquido, è una abitudine che consumo anche a casa, maga-ri d’inverno finisce per diventare una succulenta merenda. In certi pomeriggi piovosi mi rimette al mondo, esalta i miei sensi regalandomi una piacevole sensazione di quiete, come se null’altro chiedessi alla vita e tutto mi appare più

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1. duE GIoRNI doPo…

semplice. Quella mattina fu davvero una sorpresa, non mi aspettavo di trovarlo in Australia.

Come eravamo arrivati fin là?dopo aver dato il buongiorno alla prima tappa del no-

stro viaggio, io ed Elena passeggiamo lungo la promenade della baia e la fantastica visione di quel posto è di tanto in tanto intervallata da pensieri: “Cosa avevano provato le persone che avevano assistito alla nostra cerimonia?”. Avevo ricevuto qualche commento di rimbalzo e mi erano sembrati positivi, ma tornavo a chiedermelo, forse quasi più per me, per un mio dubbio.

La cerimonia riguardava il nostro matrimonio. Lo ave-vamo impostato in maniera assai originale e non ero certo che sarebbe piaciuto a tutti.

durante queste riflessioni, arrivano in aiuto alcune delle straordinarie parole contenute nella lettera che mio fratello ci ha consegnato prima di partire: «Ieri per me è stato una sorta di stato di grazia, in cui i miei sensi di colpa sono sva-niti in un attimo». L’emozione che mi suscita, riporta in me la serenità mista a incredulità: sono stato veramente libero? Quasi non riesco a crederci.

E mi chiedo ripetutamente, come volessi sottolinearlo a me stesso: “Quante sono state le cose nella vita che ho fatto in piena libertà?”. Anziché trovare una risposta, è il senti-mento che provo adesso a impedirmi di scandagliare nella mente. Mi sento così fresco, giovane e così… così libero. Mi stupisce, perché credevo di esserlo ed invece sentirmi così mi sorprende e mi fa assaporare una gioia che comun-que conosco, di cui ho memoria, già provata prima… ma quando?

d’un tratto compio un balzo indietro di anni e la mia memoria emotiva rammenta: a diciassette anni, quando

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cominciai a sentirmi un po’ uomo e volevo conquistare il mondo intero, intento a voler esprimere tutto il mio po-tenziale. Avevo quasi finito la scuola alberghiera, l’amore e la passione per il mestiere di cuoco dilagavano in me. Que-sto, oltre a darmi una forte identità, mi dava anche un’op-portunità di lavoro, infatti nonostante fossi ancora un ap-prendista già lavoravo in alberghi e ristoranti. Smaniavo di apprendere la professione culinaria, ero pronto a viaggiare, andare all’estero, a raggiungere i luoghi dove vi fosse la pos-sibilità di assorbire segreti e ricette. Mi sentivo pieno di risorse, già grande e maturo, indipendente. Libero.

Quella sensazione di adrenalina ed entusiasmo derivante dalla mia passione culinaria durò per qualche anno, poi sfumò progressivamente. Quanti anni sono passati da allo-ra? Almeno venti.

Ero stato felice, comunque felice in quegli anni, e per molto tempo ho attribuito la mia gioia a quella passione; ma ciò che provo adesso, mi rammenta una libertà partico-lare, potente e unica.

Ma se a diciassette anni la sensazione di libertà poteva essere giustificata dal mio desiderio di indipendenza, ades-so, alla soglia dei quaranta, cos’era a procurarmela? Indi-pendente lo sono già… oppure no? E da cosa poi? Se provo questa sensazione di “nuova giovinezza”, quali altri spazi di libertà ci possono essere da conquistare?

Non sono in grado di rispondere a questa domanda, ne ho solo una vaga percezione.

Sento che qualcosa in me desidera sbocciare.

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Capitolo 2

IN TRENo

Stacco la penna dal mio “diario di bordo” ed osservo Elena: è seduta di fianco a me su questo treno diretto a Melbou-rne. È inverno, ma non è come in Italia, qui in Australia è più mite. E pensare che se fossimo andati in Nuova ze-landa, dove a me sarebbe piaciuto recarmi per il nostro viaggio di nozze, lì sì che avremmo trovato un inverno coi fiocchi!

Mio fratello Andrea mi convinse che nel periodo del nostro viaggio, luglio e agosto, in Nuova zelanda è pieno inverno, e fa un freddo esagerato! L’Australia era sicura-mente una meta migliore per il nostro periodo ed offriva tante, tante cose da vedere… dal mio punto di vista, anche troppe! Il pensiero di quella terra sconfinata mi intimori-va, la consideravo troppo grande ed era come se sentissi di perdermi. La Nuova zelanda l’avrei sentita più alla mia portata, assomiglia per grandezza all’Italia, ma con molte, molte meno persone: infatti si diceva che fossero più le pe-core che gli abitanti! Mi rincrebbe abbandonare l’idea di andarvi, ma dovevo convincermi che non avrei visto il pa-esaggio meraviglioso descritto nei dépliant, perché sarebbe stato tutto ricoperto dalla neve, pecore comprese, per lo meno in gran parte. Mi dispiaceva perché immaginandomi là, mi ero sentito un po’ come nel film Lezioni di piano: in un altro mondo e in un altro tempo, ed era proprio quello che desideravo: staccarmi da tutto.

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Per Elena, invece, l’Australia rappresentava il sogno fin da quando era ragazzina.

Fino a Sydney nessun problema, ma tre giorni erano pochi per comprendere, il bello doveva venire…

Il treno nella sua corsa verso Melbourne sfreccia nelle campagne; un sole meraviglioso ammanta i campi, facen-done risaltare i colori. Elena è assopita, la luce le illumina il volto.

Ripenso al giorno del nostro matrimonio: sul luogo del-la cerimonia, un prato, incombevano alcune nubi cariche di pioggia. Gli invitati prendevano posto su delle panche di legno e su dei piccoli tappeti stesi sull’erba. Accanto, le acque di un torrente scendevano fresche. davanti alle per-sone, nel punto dove ci saremmo posizionati, una compo-sizione di rose bianche, da cui dipartiva un lungo tappeto fatto di drappi colorati, sui quali avremmo camminato.

da dietro una piccola capanna della guardia forestale, quasi fosse la quinta di un teatro, aspettavamo che le perso-ne si sistemassero. Le note di una canzone cominciarono a diffondersi. Elena lanciò uno sguardo al cielo, poi mi affer-rò la mano, sentii che le tremava. Con la voce che tentava di nascondere l’emozione e il timore per la pioggia, annun-ciò: – Andiamo Lore.

Nel vetro del treno australiano, la mia immagine riflessa: ho la barba di alcuni giorni, più o meno cinque, conside-rando che me la sono rasata per il matrimonio.

Il mio volto riflesso nei vetri del treno mi riporta con la memoria ad altri due momenti simili: quello sul convoglio diretto in Sicilia, risalente a sei anni fa, e quello del treno diretto in India, due anni fa. Nel primo ricordo, viaggiavo da solo, nel secondo ero insieme ad Elena. di entrambi

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i momenti conservo le foto, nel primo me la sono prati-camente scattata da solo. In queste “istantanee”, come nell’immagine di questo momento presente, ho l’espres-sione concentrata, che guarda un po’ nel vetro ed un po’ oltre, quasi ad osservare me stesso e il mondo. Questi mo-menti speciali mi vengono incontro contemporaneamente, inaspettatamente, e proprio per questo sono così carichi di fascino, di emozione, di stupore. È come se non avessi calcolato di compiere quei viaggi e poi ritrovandomi lì, mi fossi chiesto, timoroso e incredulo: “Sono io? Sono proprio io?”. Come se, in quei momenti, l’immagine che avevo di me e che persisteva a vedermi in un certo modo, andasse in frantumi ed io chiedessi a me stesso delle spiegazioni, come dire: “Tu sai chi è costui?”. o guardarsi allo specchio e non sapere chi si è: se l’immagine riflessa o la sostanza che la osserva. E subito dopo intuirne il pensiero, l’aneli-to celato nell’anima. E in questo istante magico sento che quell’idea di me stesso, quella obsoleta, se ne va via come il riflesso su un vetro, come qualcosa che assomiglia ad un fantasma e svanisce. E a quel punto, sento di essere più che mai me stesso, sento che l’uomo che sono diventato sono proprio io, il mio vero autentico irrinunciabile me stesso; o forse ero sempre stato io, poiché la mia passione mi aveva portato a vivere con ispirazione, o meglio, mi aveva fornito un modo attraverso il quale io avevo vissuto l’ispirazione scoprendo i miei desideri.

Se ero io il mistero che scoprivo ogni volta, sentivo che c’era stato un altro me che avevo dato per scontato di cono-scere, ipotecando volentieri la sua vita, fino a considerarla in un certo qual modo, “certa”, come a dire: “io so chi sono!”.

dunque il mistero poteva essere questo: avevo vissuto la mia vita in una precisa mia dimensione o avevo creduto di farlo?

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Nelle vaste praterie dell’Australia del sud, al di là del vetro, cavalli sereni galoppano.

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Capitolo 3

dELICATA SuAdENzA

Mi sveglio. Ignoro del tutto che ora sia.Su Melbourne c’è già un po’ di luce. Formulo un’ipotesi:

le sette del mattino.Ieri sera il treno si è fermato ad Albury. Io ed Elena

abbiamo visto un po’ di gente scendere e una volta ripresi dal torpore del viaggio ci siamo resi conto che nella nostra carrozza, prima affollata, le uniche persone rimaste sul tre-no eravamo noi due. Allora abbiamo chiesto spiegazioni: il viaggio per Melbourne proseguiva a bordo di alcuni pul-lman. una volta saliti su uno di uno di essi, il conducente – un signore di mezza età con i baffi, simpatico – ci ha annunciato che in poco più di tre ore saremmo arrivati a Melbourne. un imprevisto, che insieme alla sosta che il treno ha fatto in mezzo a quella campagna bellissima, ci ha fatto arrivare alle 21:15, anziché alle 19. una cosa da niente, ma è bastato a far slittare l’orario per chiamare il corrispondente di viaggio per chiedere aiuto, una volta che il concierge dell’hotel di Melbourne ci aveva avvertito che l’unica carta di credito che possedevamo, la mia, era difet-tosa.

dato che mi sono svegliato presto, decido di alzarmi su-bito da letto con l’intenzione di sistemare la faccenda della carta, così da tornare in camera da Elena prima che si svegli e darle il buongiorno con la buona notizia.

Il viaggio che avevamo intrapreso, della durata di circa

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un mese e mezzo, era di questo tipo: i primi trenta giorni tutto fissato riguardo ad alberghi e spostamenti, gli ultimi dieci giorni lasciati liberi di gestirceli a nostro piacimento.

Per come siamo fatti io ed Elena, forse eravamo più pre-occupati per la prima parte della vacanza che per la secon-da. Ci piace la libertà di improvvisazione e non temiamo gli imprevisti o i cambiamenti improvvisi, anche perché amiamo seguire quello che l’istinto del momento ci sugge-risce, memori di una vacanza in India dove non avevamo fissato niente e con lo zaino in spalla avevamo attraversato il sud del paese, viaggiando anche di notte a bordo di au-tobus.

Però questo è un viaggio speciale, è il nostro viaggio di nozze, così ci eravamo detti che per questa volta essere or-ganizzati in modo da “non dover pensare a niente” era un regalo ulteriore che ci facevamo, e che ci avrebbe consenti-to di riservare la nostra attenzione l’uno all’altra con mag-gior relax.

Non ce lo eravamo confidati, ma una volta in Australia entrambi ci eravamo chiesti se questa formula di avere gran parte della vacanza fissata, alla fine ci avrebbe soddisfat-ti. Elena, dal canto suo, una volta arrivati a Sydney si era chiesta se questo tipo di vacanza, che ci avrebbe tolto parte della libertà di decidere, non si sarebbe poi riflessa anche sul suo umore.

Ne parlammo dopo una breve discussione, poiché la vera motivazione della libertà non era venuta fuori. Con-venimmo che sarebbe stato giusto e necessario prendersi qualche spazio personale, qualora uno dei due ne avesse avvertito la necessità. Questa era una decisione importan-te, poiché non eravamo mai stati a contatto stretto tanto tempo come stavolta.

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Mi vesto un po’ alla meglio nella penombra della camera e sono in procinto di uscire, quando Elena mi chiama da sotto le coperte: – dove stai andando?

– Scendo nella hall per risolvere il problema della carta di credito – le rispondo con tono sbrigativo. Mi sento stra-no stamani e non voglio che Elena se ne accorga.

Lei ribatte: – Vuoi che venga anche io?– No, non preoccuparti, tu rimani a letto.Cerco di dileguarmi, ma Elena mi riprende: – Lore, vie-

ni qua un attimo…Torno indietro e mi siedo sul letto vicino a lei. Ci scam-

biamo un bacio. Elena guardandomi negli occhi: – Sei pre-occupato per la carta?

– No, ma che dici – rispondo abbassando la testa. Poi tento di congedarmi, ma lei intuisce che altro mi turba, al di là di questa vicenda: – Cos’hai?

In questi giorni, già diverse volte, mi è capitato di ripen-sare al giorno della cerimonia. uno di questi pensieri ha riguardato il mio abito da sposo.

Io e Elena avevamo girato un po’ di negozi del settore per fare una panoramica dei costi e di come gli abiti fossero fatti, magari per trarne qualche spunto interessante. Anche se, a dire il vero, una certa idea sui nostri modelli d’abito ce l’avevamo. Questa si definì meglio durante un pranzo di famiglia.

Quel giorno Monica, la compagna del fratello di Elena, ci stupì. Eravamo da poco entrati nell’argomento, quando lei esordì: – Io so come vi piacerebbe vestirvi!

La guardammo esterrefatti: non ci aspettavamo il suo interesse in questo argomento.

Ci guardava seria, dritta negli occhi, sapendo che il suo intuito non avrebbe fallito. Poi si aprì in un grande sorriso

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di complicità, prese un foglio e un lapis e in due minuti disegnò i modelli dei nostri abiti da cerimonia.

Incredibile, ci aveva azzeccato! Rimanemmo a bocca aperta, non avevamo mai parlato specificamente di come li volevamo e Monica aveva saputo interpretare il nostro ide-ale! Fu una cosa importante, perché quel giorno decidem-mo di far cucire i nostri vestiti ad una sarta e il disegno di Monica ci fu molto utile per illustrare le nostre intenzioni.

La sarta a cui ci rivolgemmo era la madre di un amico di mio fratello; capì perfettamente come volevamo i vestiti, ma per il mio abito dovevo rivolgermi ad un sarto, perché lei non poteva farlo. Peccato, perché credevamo che sarem-mo andati insieme a farci cucire i vestiti.

Venimmo via dalla casa della sarta con una rivista per abiti da sposa che Elena poté sfogliare ammirando alcune creazioni affini alla sua idea.

Quando tornammo da lei, pochi giorni dopo, ci accolse con gioia: – Collaborando con una mia amica e collega posso realizzare anche il tuo abito Lorenzo! Sei contento?

Aveva trovato il mio modello su una rivista del settore e sentiva di poterlo realizzare. Cominciò a sfogliare quel giornale di moda, fino alla pagina che mi riguardava.

Con stupore osservai il fotomodello, ritratto mentre sfi-lava: portava proprio il tipo di abito che io mi ero immagi-nato e che Monica aveva disegnato. Non mi sarei aspettato di vederlo in una rivista. La presi tra le mani per guardare meglio: il fotomodello, con i capelli molto corti, cammi-nava serio, lo sguardo leggermente inclinato, esibendo una lunga giacca con il colletto alla coreana, chiusa da finissimi bottoni dorati, chiara con disegni color oro; il tessuto, era uguale a quello dei pantaloni. Nella parte bassa della foto, la rivista titolava: “decidi chi vuoi essere… Monsieur o…”. I puntini di sospensione riguardavano l’altra opzione del

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vestito, che appariva sulla pagina a fianco. Non vi avevo proprio prestato attenzione, ma la sarta esordì: – Perché non ti vesti come lui? – E mi mise sotto gli occhi la pagina del modello a fianco.

Fu in quel momento che lessi per intero il titolo a mar-gine: “Monsieur o… Bohémien?”.

osservai il fotomodello ritratto: aveva i capelli lunghi, lisci e fluenti come uno che si trova in barca con il vento in faccia, lo sguardo che guardava lontano, come a cerca-re una destinazione in capo al mondo; portava anche lui una giacca lunga, sgargiante ed elegante al tempo stesso. osservai ancora meglio e sentenziai: – Questo?! Non pos-so! – pensando fra me: “Ma come fa a dire una cosa del genere?!”.

A farmi esitare era la particolarità della sua giacca, una sottile differenza che faceva correre un abisso tra il primo e il secondo abito. La giacca di quest’ultimo rimaneva aperta e il bel fotomodello si esibiva senza indossare né una ca-micia, né un qualche tipo di maglietta sotto ad essa! Tutta un’altra cosa!

La sarta ripeté ancora: – Vestiti così, tu sei come lui! – Ed io fra me e me: “Ma è matta? Non devo mica andarci in discoteca, mi ci devo sposare!”. Mi pareva strano e quasi insensato detto da lei. Quella piccola, ma significativa dif-ferenza, spalancava qualcosa di più, forse anche le vedute della sarta! Le mie erano, per il momento, un po’ occluse! Mi tornavano alla mente i protagonisti del film I guerrieri della notte, con i loro gilet indossati a torso nudo. Il loro capo, tra l’altro, assomigliava tantissimo al fotomodello della rivista.

Pensandoci, erano state molte le volte in cui avrei voluto indossare una giacca così, senza mettere niente sotto. Mi piaceva quell’idea e mi donava una sensazione di libertà e

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serenità insieme, mi faceva sentire essenziale. Adesso se ne presentava l’occasione, ma essendo una cerimonia speciale, mi domandavo se la scelta di quella mise un po’ selvaggia fosse consona alla situazione.

Però, a guardar bene, un po’ di ragione la sarta ce l’aveva. Io ero così adesso, nel senso che un po’ assomigliavo al mo-dello della rivista. Avevo anch’io i capelli lunghi, quasi un requisito fondamentale per indossare quel vestito, o meglio per impersonare la sensazione che quel vestito emanava.

Ci voleva infine uno sguardo come il suo: in alto, verso il futuro, sognante e al tempo stesso sicuro di sé.

I capelli lunghi avevo cominciato a portarli da circa otto anni e fu una svolta storica, poiché non li avevo mai lasciati crescere in quel modo. Quando mutai acconciatura, an-che la mia espressione cambiò con essa. Avevo conservato le foto che mi ritraevano durante il cambio di stile ed il mio sguardo era chiaramente proteso verso il cielo, come se guardassi qualcuno o qualcosa, che aveva risposte diver-se da quelle che avevo trovato fino ad allora. Ma la libertà necessaria per vestire quell’abito non pensavo di averla, già mi sembrava una scelta eccentrica l’aver scelto l’altro tipo di vestito, essendo più particolare degli abiti classici.

Guardavo il fotomodello con la giacca aperta: che sensa-zione meravigliosa mi dava! Pareva intento ad andare chissà dove, raggiungendo i luoghi che desiderava. Poi mi con-centrai sull’oggetto che il modello portava al collo e che mi sembrò essere il tratto distintivo di quell’abito: una fluente fusciacca di seta bianca, che pareva muoversi e svolazzare, per raccontare i sogni di chi la indossava. Era una cosa stra-ordinaria, quasi a rappresentare un ideale di libertà, quel tocco di classe in più.

Le sarte ed Elena aspettavano tutte una mia risposta. Io guardavo le due pagine della rivista: in quella di sinistra il

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Monsieur: abito chiuso, capello corto, sguardo accigliato e deciso; in quella di destra il Bohémien: abito aperto, capel-lo fluente, sguardo sognante e fiducioso. decisamente il secondo mi piaceva di più, ora riuscivo a riconoscermi in lui, mi affascinava con la sua eleganza mista ad una poetica sfrontatezza. Il gruppetto tifava per il Bohémien.

Poco più che ventenne, possedevo una giacca bianca, lunga come quella del modello, che utilizzavo per uscire la sera. Aveva una particolarità: un pentagramma stampato in tutta la sua lunghezza! Mi piaceva, ma soprattutto ri-cordo la sensazione che mi trasmetteva: mi faceva sentire libero, perché la consideravo originale e personale, come se indossandola dicessi al mondo: “Questo sono io!”. In fondo cosa c’era da temere? Forse il giudizio di qualcuno? Poteva essere, ma io a quel tempo mica ci pensavo, per me-glio dire ignoravo l’esistenza di un’ipotesi contraria. Il bello della gioventù forse consiste proprio in questo: essere e fare quello che ci si sente.

Il gruppetto attendeva speranzoso… Emisi un sospiro, poi alzai lo sguardo dalla rivista e con la punta del dito indicai deciso la pagina a destra: – Bohémien! – Ci fu un’o-vazione di gioia, tutte felici ed ansiose di vedermi vestire i panni del ragazzo con la fusciacca.

Sentii sprigionarsi in me tante sensazioni: affetto, calo-re, audacia, certo anche un po’ di timore, ma una libertà decisa e più definitiva ora era con me, e non mi avrebbe lasciato, al punto che mi sarebbe stata “cucita addosso”. Guardai Elena con aria stupita e un po’ interrogativa, come qualcuno che sta osando oltre il lecito consentito, e lei rag-giante: – Sarai uno spettacolo!

Il modo di fare di Elena era sempre così, libero e anti-convenzionale. Mi dava una grande gioia e un aiuto incre-dibile per riuscire ad esprimermi ed essere più libero.

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Questa mattina, mi sono svegliato rimuginando sull’im-patto che il mio vestito poteva aver avuto sulle persone, so-prattutto nei momenti in cui lo avevo tenuto aperto. È una fonte di preoccupazione, maggiore della problematica con la carta di credito. Cavolo! Prima della cerimonia, a qual-cuno avevo esposto la storia ed il significato che quell’abito rivestiva per me, andandone orgoglioso. Mi faceva sentire come il protagonista del mio film preferito, Anonimo Ve-neziano, quando lui, vestito solo di un paio di pantaloni bianchi, corre insieme alla sua amata, anch’essa vestita di bianco, per i prati illuminati dal sole. Stamani mi riaffiora-no nella mente alcune foto del matrimonio e mi viene da dubitare della mia scelta. Com’è possibile?

Confido questi pensieri ad Elena. Parlandole mi torna in mente che alla fine della cerimonia avevo affidato la mia fusciacca di seta a sua madre, senza poi richiedergliela.

– Perché l’hai lasciata andare? – mi chiede Elena.– Non lo so – le rispondo incerto, senza intuire quanto

questo fosse importante. Ed aggiungo, come a giustificar-mi: – Quando l’ho chiesta indietro, mi hanno detto che era finita in un passeggino e che in quel momento era sicura-mente sulla via di ritorno per casa.

Elena mi incalza: – Quando si tiene tanto ad una cosa, si fa di tutto per riaverla.

Era vero. Avevo lasciato andare il simbolo che rappre-sentava la mia libertà. Quell’esile e leggera fusciacca era il tratto distintivo di quell’abito ed insieme la spiegazione del suo messaggio: serenità. Come quando si tiene un fiore in bocca e tutto appare sotto un’altra luce. Si ha la sensazione di sentirsi più leggeri, perché i pensieri sono orientati verso un benessere semplice, fatto di cose essenziali. A me faceva tornare in mente la sciarpa del Piccolo Principe, quasi a te-stimoniare una poetica scoperta della vita. La suadenza del-

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la fusciacca di seta e il suo ideale di libertà mi avvolgevano e difendevano al tempo stesso, ed io lo avevo sottovalutato e lasciato andare.

una frase sale alle mie labbra: – Se non mi preoccupassi così, ma quanto starei meglio!

– di certo non sarebbe stato l’aver abbandonato la fu-sciacca a farmi perdere di vista un ideale. La fusciacca era solo il simbolo della mia libertà perché la libertà, quella vera, l’avevo sempre avuta con me ed era da dentro di me che non dovevo più lasciarla andare.

Così capisco e il peso che avvertivo sullo stomaco svani-sce e mi sento nuovamente sereno.

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