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ANNUARIO 2011 2 - CAI Firenze

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A N N U A R I O

2011

CLUB ALPINO ITALIANOSEZIONE DI FIRENZE

via del Mezzetta,2M50135 FIRENZEtel.: 055 6120467

[email protected]

[email protected]

Quadrimestrale della Sezione di Firenzedel Club Alpino It alianoVia del Mezzetta, 2M - 50135 FIRENZEtel.: 055 6120467 - fax: 055 6123126

Direttore Respo nsabileRoberto Masoni

RedazioneFabio Azzaroli, Marco Bastogi, Sando Caldini,Sergio Cecchi, Alfio Ciabatti, Mattia Frasca, Marco Gori,Carlo Marinelli, Simone Marroncini,Giuliano Pierallini,Stefano Saccardi, Luca Saponaro,Roberto SmarriniMarina Todisco,Andrea Tozzi

CollaboratoriGiorgia Contemori, Carlo Labardi, Sergio Rinaldi

Spedizione in abbonamento postale45% art.2 comma 20/B Legge 662/96Filiale di FirenzeAutorizzazione del Tribunale di Firenze n.68 del 14/3/49

Gli originali, di regola, non si restituiscono; le diapositivesaranno restituite, se richieste. La Redazione accetta articoliriservandosi, a suo insindacabile giudizio, se pubblicarli e ri-servandosi ogni decisione sul momento e la forma della pub-blicazione, compatibilmente con lo spazio disponibile. Tutti idiritti sono riservati, la riproduzione anche parziale dei testi edelle immagini senza consenso è vietata salvo autorizzazionedel CAI FirenzeStampa:Stabilimento Grafico CommercialeCosto della pubblicazione: Euro 5,00

La Rivista è distribuita ai Soci della Sezione Fiorentinadel CAI, alle Sezioni Tosco-Emiliano Romagnole, ai GruppiRegionali, a Gruppi Escursionistici della Provincia, adAmministrazioni locali ed alle Comunità Montanea

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pagina

LA MONTAGNA DI BUDDEN 16(Marco Bastogi)SPECCHI IN MONTAGNA . Scienza i confini del mondo 20(Andrea Tozzi)LE VIE DEI PELLEGRINI. Via Francigena e Vie Romee 24(Giancarlo Tellini)A FORNO, I RICORDI SONO ANCORA VIVI 28(Sergio Cecchi)IL PASSO DEL CANCELLINO. Una gita lunga sessant’anni 34(Carlo Marinelli)THEODOR CHRISTOMANNOS. ovvero da Bolzano a Cortina d’Ampezzo 40(Stefano Saccardi)VULCANI DEL MESSICO 46(Carlo Labardi)SOGNANDO LA CALIFORNIA. La straordinaria stagione di W. Harding e R. Robbins 54(Roberto Masoni)LA VIA SOLLEDER-LETTEMBAUER AL CIVETTA 68(Leandro Benincasi)LA CROCE DELLA NORD . Un sogno avverato, la mia Oppio-Colnaghi al Pizzo 76(Simone Marroncini)COSIMO ZAPPELLI. Dalle Panie al Monte Bianco 84(Paolo Melucci)FREE, CLEAN, TRAD & BOULDERING . Appunti di storia 88(Roberto Masoni)DENTRO LA MONTAGNA 100(Fabio Azzaroli)STORIE DI AQUILOTTI, DI ASINI E DI VOLPI 104(Flavia Rizzini)E FINALMENTE ... 108(Irene Gramegna Marinelli)SENTIERI... QUASI SELVAGGI 112(Adolfo Ciucchi)100 ANNI DELLO SCI CAI . La mostra itinerante attraverso i Parchi 114(Daniela Serafini)MUZZERONE, BELLO E IMPOSSIBILE . Ai confini dell’irrrealtà 116(Simone Marroncini)ORECCHIO, INTONAZIONE E TANTA PASSIONE. Nei meandri della Martinella 118(Franco Fantechi)VIE NORMALI DIMENTICATE 122(Sandro Caldini)LA TRACCIA DELLO SCIALPINIST A. 15 anni di Direzione dei corsi SA2 126(Marina Todisco)DISLIVELLO: 1.420 MT.. Vi racconto il mio primo 4.000 129(Lorenzo Lorenzini)

in questo Annuario ...

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PARLIAMO DI NOI

ALDO TERRENIPresidente della Sezione di Firenze

Carissimi,

avrete già visto il primo effetto della perdita del Rifugio Firenze con lamancanza del numero estivo di “Alpinismo Fiorentino”, che sarà comunque messoon-line quanto prima. Ad oggi, scrivo nei primi giorni di settembre, grazie airidimensionamenti ed alla razionalizzazione delle spese, siamo riusciti ad avere iconti in ordine nonostante la perdita di questa importante risorsa.

Grazie all’impegno di molti Soci, alcune attività ci hanno permesso di averenuovi introiti che ci stanno aiutando molto, in particolare il Gruppo Segnasentieri,che si sta accollando una gran mole di lavoro e questo ci permette di avere contributida vari Enti. Un buon aiuto economico arriva anche dal settore dell’ArrampicataSportiva sia con la struttura all’interno del Mandela Forum che, soprattutto, conquella mobile che ci viene richiesta per molte manifestazioni. Questo ci da anchegrande visibilità soprattutto nei confronti dell’Amministrazione fiorentina e deiQuartieri, inoltre la struttura mobile è stata usata anche per aiutare le iniziative delleSottosezioni di Pescia, Pontassieve, Stia e Scandicci. Anche le gite organizzate dalGEEO e dallo SciCai danno ottimi risultati.

L’attività didattica è stata molto intensa con i corsi organizzati dalla ScuolaTita Piaz, dallo Sci Cai e dal Gruppo Escursionistico. A questo proposito ricordo aquanti hanno partecipato agli incontri sull’accompagnamento delle gite che l’uscitasulla neve sarà fatta il prossimo inverno, appena ci saranno le condizioni, e che ladata sarà pubblicizzata sul sito della Sezione.

Fra le varie iniziative voglio ricordarne due per me molto significative: lacollaborazione con il Centro Diurno 100Stelle per gestire delle escursioni per personecon disturbi mentali, l’altra su richiesta dell’Unione Nazionale Ciechi, una serata diarrampicata nella palestra del Mandela Forum, per ragazzi ciechi o ipovedenti.Entrambe le iniziative avranno un seguito perché si sono rivelate molto interessanti,utili e di grande gradimento da parte degli utenti.

Il Coro “La Martinella” prosegue la sua serie di concerti di grande successo,ne voglio ricordate in particolare due, quello nel Palazzo della Regione Toscana peri 150 anni dell’Unità d’Italia, e l’altro a Villa Finaly per salutare il Console franceseche lasciava Firenze. Purtroppo all’inizio dell’estate è morto il Presidente del CoroMassimo Pasquini, con lui abbiamo perso una persona di grande valore ed unamico.

Grazie all’efficace collaborazione della Sottosezione Flog, faremo la Festadella Sezione al Poggetto il 27 novembre prossimo, ringrazio fin da ora le nostremeravigliose e bravissime signore che contribuiscono in maniera determinante alsuccesso della Festa. Con grande soddisfazione vi informo che Lorenzo Furia èdiventato INSA (Istruttore Nazionale di Scialpinismo) e che Patrizio Mazzoni è entratonella Scuola Regionale di Escursionismo, congratulazioni e buon lavoro a entrambi,

Buona Montagna a tutti e arrivederci alla festa del 27 novembre,

Aldo

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CONSIGLIO DIRETTIVO

Presidente: Aldo TerreniVice Presidente: Carlo MarinelliTesoriere: Enrico SaniSegretario: Arrigo CintiConsiglieri:Carlo Barbolini, Piero Lazzerini, Marco Passaleva

Revisori dei conti : Giancarlo Tellini, Marco Isidori,Guido Verniani

Delegati all’Assemblea Nazionale :Fabio Azzaroli, Marco Bastogi, Annalisa Berzi,Riccardo Focardi, Eriberto Gallorini, Aldo Terreni

Past President: Ugo Bertocchini, Marco Orsenigo,Remo Romei

COMMISSIONI, GRUPPI, SCUOLE,SOTTOSEZIONI

“ALPINISMO FIORENTINO” :

Roberto Masoni (Direttore Responsabile)Marco Bastogi, Sandro Caldini, Sergio Cecchi, AlfioCiabatti, Simone Marroncini, Carlo Marinelli,Giuliano Pierallini, Stefano Saccardi, LucaSaponaro, Roberto Smarrini, Marina Todisco,Andrea Tozzi

ALPINISMO GIOVANILE:Remo Romei

BIBLIOTECA IGINO COCCHI:Renato Fantoni

CORO LA MARTINELLA :

Massimo Pasquini (Presidente)Ettore Varacalli (Direttore)Mauro Bruni, Giovanni Cerbai, Stefano Cerchiai,Claudio Ciullini,Umberto Cofalonieri, Giuseppe DiPisa, Fabrizio Fossi, Roberto Porrati

GRUPPO ALPINISTICO TITA PIAZ:Patrizia Mori (Presidente)Irene Amerini, Gian Marco Falcini, Piero Lazzerini,Roberto Smarrini,Aldo Terreni

CARICHE SOCIALI

CLUB ALPINO ITALIANO - SEZIONE DI FIRENZEwww.caifirenze.it

GRUPPO ESCURSIONISTICO EMILIO ORSINI:Gabriele Taddei (Presidente) Marco Isidori, Paolo Billi, Daniela Formigli,Giuseppe Ercoles, Pasquale Parcesepe,Piero Lazzerini

GRUPPO NAMASTE’ – Montemignaio:

Carla Mecocci (Presidente)Michel Coppi, Giancarlo Serrai,Gianna Ceccantini,Massimiliano Alterini

GRUPPO SPELEOLOGICO FIORENTINO:

Michele Cuccurullo (Presidente)Filippo Capellaro, Stefano Merilli, Gianni Ledda,Eleonora Bettini

GRUPPO SEGNA SENTIERI:Giancarlo Tellini, Pasquale Parcesepe

GRUPPO SKIALP:Lorenzo Furia

SCI CAI:

Daniela Serafini (Presidente)Sergio Cecchi, Alessandro Sandrelli, FrancoFontanelli, Valentina Susini

alpinismofiorentino.caifirenze.it

www.corolamartinella.com

www.cainamaste.it

www.gsfcai.it

www.scicaifirenze.it

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SCUOLA DI ALPINISMO TITA PIAZ:Eriberto Gallorini (Direttore)Marco Orsenigo (Vice Direttore)

SEGRETERIA, AMMINISTRAZIONE:

Paola Bartalini, Letizia Barbierato, GianfrancoRomei

SOTTOSEZIONE CAI FLOG:Alessandro Rossi (Reggente)

SOTTOSEZIONE CASSA RISPARMIO FIRENZE:Leonardo Chiti (Reggente), Luca Matulli, StefanoFivizzoli, Maria Paola Tesi, Luigi Pisanelli, GiannaMasini, Franco Tozzi, Massimo Chielli, GiovanniMaltinti

SOTTOSEZIONE PESCIA:

Leonardo Guidi (Reggente)Alessandro Puccini, Michele Cota, Fabio Fabiani,Giovanni Giusti, Giuseppe Lorenzini, Francesca LoVotrico, Matteo Meucci, Fabio Pergola

SOTTOSEZIONE PONTASSIEVE:

Gabriele Inghirami (Reggente)Giuseppe Speranza, Paolo Dini, Marco Brilli,Maurizio Santoni, Patrizia Masi, Rosalba Ugolini,Brunero Berti (Comm. Sentieri), Carlo Sarti(Alpinismo Giovanile), Dario Miniati (Comm. Gite)

SOTTOSEZIONE SCANDICCI:Alfio Ciabatti (Reggente)Patrizio Mazzoni (Vice Reggente), Paolo Brandani,Laura Giorda, Roberto Terreni, Andrea Raveggi,Luciano Rutigliano

SOTTOSEZIONE STIA:

CARICHE NAZIONALI E REGIONALI

CLUB ALPINO ACCADEMICO ITALIANO:www.clubalpinoaccademico.i tCarlo Barbolini (Vice Presidente Gruppo Orientale)

CAI - REGIONE TOSCANA:www.caitoscana.itRoberto Pepi, Eriberto Gallorini e Marco Orsenigo(Probiviri supplente)

COMITATO SCIENTIFICO CENTRALE:www.caicsc.itCarlo Alberto Garzonio

COMMISSIONE CENTRALE MEDICA:Carlo Alessandro Aversa

COMMISSIONE ELETTORALE TOSCANA:Riccardo Focardi (Presidente), Roberta Renieri

COMMISSIONE INTERREGIONALE SCUOLEALPINISMO, SCI ALPINISMO:Emanuele Crocetti (Segretario), Fabrizio Martini

COMMISSIONE REGIONALE ESCURSIONISMO:Marco Isidori, Piero Lazzerini

COMMISSIONE REGIONALE SENTIERI:Giancarlo Tellini

COMMISSIONE REGIONALE TOSCANA TUTELAAMBIENTE MONTANO:Marco Bastogi

SCUOLA CENTRALE ALPINISMO:www.cnsasa.itCarlo Barbolini, Eriberto Gallorini

SCUOLA INTERREGIONALE ALPINISMO:Carlo Barbolini, Eriberto Gallorini, MarcoPassaleva, Aldo Terreni

SCUOLA INTERREGIONALE SCI ALPINISMO:Lorenzo Furia, Marco Orsenigo

SERVIZIO VALANGHE ITALIANO - SVI:www.cai-svi.itEnrico Catellacci

SOCCORSO ALPINO E SPELEOLOGICOTOSCANO: www.sast.itStefano Rinaldelli (Delegato Regionale)Giuseppe Diiulio (Capo Stazione Falterona), CarloBarbolini (Vice Capo Staz.), Filippo Socci (ViceDelegato Regionale), Giovanni Diluccio(Coordinatore Comm. Medica SAST)

[email protected]

www.caipescia.it

www.caipontassieve.it

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Appennino Toscano - Nebbie alla Cima Tauffi(foto C. Marinelli)

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SOCI VENTICINQUENNALI

Luisa ANDRENELLI AZZAROLIMatteo AZZAROLIGiuseppe BABBINIMarta BARONCINI CHITICristina BARTOLETTIElena BAZZANIEnrico BENUCCIMarco BENUCCIGiacomo BERGAMASCHIGiancarlo BONECHIElisabetta BRUNELLESCHISimone BUSONIMassimo CALAMAI

Maurizio CALAMAIFrancesco CARCIEROAndrea CASALIUmberto CASINISergio CECCHILeonardo CHITIPaolo ERCOLESMary FACCIOTTO-TATINIFabrizio FALAIAndrea FRANCIPaolo FRANCINICarmela GIANNONIMaurizio GIORGI

Luciano LANDILucia LAZZERI PASQUINISasha LAZZERINILuigi MAGI DILIGENTIFabrizio MARTINIGianmarco MODIStefano NANNINIPaolo NASTATIAlessandro NECCIARIMiria OTTONELLI CALAMAIAntonio PADELLIPiero PANDOLFIGiovanni PANTANI

Angiolo PASSALEVAGiovanni PASSALEVAGabriele PIAZZINIEnrico PICCINIMarina PRETE CALAMAIMaria Luisa RIZZARDINIFederico SANTOLINICarla SARGENTI MAZZICarlo SILENZIFederico SONELLIPaolo TATINIGiacomo VIGIANI

SOCI CINQUANTENNALI

Fabrizio ANDREIGianluca BALLERINIDamiana BARGELLINI LUCHERINILuca BUSSOTTISergio CAPPELLETTIGiuseppe OCELLOMario SALVAGNONI

SOCI SESSANTENNALI

Alessandro CENCETTIGincarlo DOLFI

SOCI SESSANTACINQUENNALI

Giorgio BARTOLIGiuseppe DONIFiorenza LASTRUCCIGuido MOGGIMaria Luisa ZAMPETTI GERLI

SOCI SETTANTACINQUENNALI

Annalisa BERZI

QUOTE SOCIALI PER L’ANNO 2012

Si ricorda che, a norma di Regolamento Generale, le quote sociali devono essere corrisposte alla Sezioneentro il 31 marzo di ogni anno. Si informano i Soci che, in caso di versamento delle suddette quote in datasuccessiva al 31 marzo, sarà Loro sospesa sia la copertura assicurativa relativa al Soccorso Alpino eSpeleologico, sia l’invio delle pubblicazioni nazionali e sezionali del CAI. Tali sospensioni saranno riattivateesclusivamente a decorrere dall’effettiva data del versamento.

Le quote sociali per il 2012, stabilite dall’Assemblea Ordinaria dei Soci, sono le seguenti:

Soci Ordinari • 53,00 + 4,00 (assicurazione Sede Centrale) = • 57,00Soci Familiari • 25,00 + 3,00 (assicurazione Sede Centrale) = • 28,00Soci Giovani • 20,00 + 3,00 (assicurazione Sede Centrale) = • 23,00Soci V italizi • 20,00 + 4,00 (assicurazione Sede Centrale) = • 24,00

Il versamento può essere effettuato in contanti o tramite assegno bancario, Bancomat, Carta di Credito,presso la Sede sociale – Via del Mezzetta, 2M – 50135 FIRENZE (tel.: 055 6120467 – fax: 055 6123126– [email protected]) nei giorni :

dal lunedì al giovedì : dalle ore 16,00 alle ore 19,00il venerdì alle ore dalle ore 9,00 alle ore 13,00 e dalle ore 16,00 alle ore 19,00

ed inoltre il mercoledì dalle ore 21,00 alle ore 22,30 fino al 31 marzo

oppure, esclusivamente entro il 31 marzo, può essere effettuato in contanti o tramite assegno bancariopresso i seguenti negozi, secondo i rispettivi orari di apertura: CLIMB (via Maragliano, 30 – 50144 FIRENZE),CRAZY MODEL (via R. Paoli, 1 – 50018 SCANDICCI), LIBRERIA STELLA ALPINA (via Corridoni, 14r –50134 FIRENZE), GULLIVER (via Mazzini, 36 - BORGO SAN LORENZO), OBIETTIVO MONTAGNA (viaArnolfo, 6O/R – 50121 FIRENZE).

Il versamento della quota sociale può inoltre essere effettuato tramite bollettino di conto corrente post ale(conto corrente postale n° 28036507 intest ato a Sezione Fiorentina del Club Alpino Italiano, via del Mezzetta,2M – 50135 FIRENZE). Con l’occasione si ricorda che coloro che effettuano il versamento sul contocorrente post ale sopraindicato, sono tenuti a corrispondere alla Sezione la quot a maggiorat a di • 4,00 (pernucleo familiare) per il rimborso della spesa post ale per l’invio del bollino annuale del CAI tramiteraccomandat a.

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dei cani, del CAI, dei rifugi, dei barbariUna giornata di ordinaria follia

di Roberto Masoni

Torno a scrivere, a distanza di un anno, dei tanti temi, importanti, sollevatidai nostri Lettori che, in quest’arco di tempo, sono pervenuti allaRedazione. Lo faccio utilizzando la forma che preferisco: il racconto.Ognuno trarrà le riflessioni che ritiene più opportune. Il racconto,purtroppo, non è di fantasia.

debba essere suo figlio. Mi sfugge qualcosa …ah, ecco … ohibò, il figlioletto è al guinzaglio,trappole per infanti che oggi van di moda. Com’èbuffo il mondo, i cani sciolti, i figli al guinzaglio.Prende “Terminator” per il collo “Passi, passipure, abbaia ma non fa male a una mosca, èbuonissimo”. Buono un c*… Corro via veloce,Rocky seguita a ringhiare, tenuto a malapenadal suo padrone. Qualche goccia di saliva glicade dai bordi carnosi della bocca, per poconon erano di sangue. Maledico il mondo. Signoriproprietari di cani, per favore, tutti vogliamo beneagli animali, anch’essi hanno diritto alla proprialibertà, ma con misura, anch’io ho diritto alla mia.Siate cortesi, date un segno. Legate i cani e,magari, liberate i figli.

Finalmente sono al Comici, due ore emezzo dal parcheggio, con 800 metri di dislivellonel mezzo, niente male. Prendo un caffè, mifermo qualche minuto inebriato dal luogo. Ilpanorama è mozzafiato, a sinistra ForcellaGiralba, al centro la Croda de Toni, a destra ilsentiero che porta su al Rifugio Pian di Cengia.Forza allora, c’è ancora strada da fare, più di300 metri di dislivello. Salgo con passo costante,immerso nei miei pensieri, mi sento bene, molti

Agosto 2011

Mattina presto, parcheggio della Val Fiscalina, la giornata sipreannuncia splendida. Do un’occhiata intorno, il colpo d’occhio è grandioso.Ancora una volta sono qui, nelle “mie” Dolomiti, non riesco a fare a meno diamare questi posti, queste montagne. Parto leggero e in solitudine, cometalvolta mi capita, verso il Rifugio Zsigmondy-Comici. Scarpe basse, comodee leggere, uno zainetto con l’indispensabile: bottiglietta d’acqua con lebollicine, zip leggero, un velo di membrana per la pioggia (non si sa mai) ecome antidoto a qualunque idea malsana anche qualche metro di corda,un paio di moschettoni, qualche fettuccia. Conto di essere a Misurina nelpomeriggio dove qualcuno, spero, verrà a recuperarmi.

Salgo veloce, il sentiero s’arrampica deciso, non risparmia ipolpacci, in compenso guadagna velocemente il dislivello che mi separadal Comici. Sono già alto sulla Val Fiscalina, lo sguardo si perde sedotto, ilcuore batte. Davanti a me Cima Undici, all’orizzonte si schiude man manoche salgo la Croda de Toni. Sono allo strappo finale, il sentiero gira seccoquando appare all’orizzonte una nuova, sconosciuta montagna. E’ unamontagna di muscoli, un pitbull, una bellissima massa grigio scura purtroppolibera di muoversi. Mi fermo, si ferma anche lui a non più di tre metri da me.Mi studia un po’, comincia a ringhiare, ha una pulizia dentale perfetta, losmalto luccica ai raggi del sole. Resto immobile, respiro a bocca apertaper evitare che l’aria dalle narici muova i baffi.“Non avrai mica paura, ragazzo?”,sì che ho paura, per Iddio, non ho fatto neanche testamento dei pochi,modesti beni che possiedo!Se tanto, tanto questo s’è alzato male … chi lo ferma. Immobile per cinqueinterminabili minuti che sembrano ore. Mi sento catapultato all’improvvisoin un braccio della morte. Non esagero, credetemi. Cerco di pensare aqualcosa di bello. Mi viene a mente il “Miglio Verde” di Stephen King, cercosubito di rimuovere il pensiero. Mi rifugio allora in uno dei pochi esercizimentali che riescono a darmi serenità, in attesa che qualcuno venga prestoa riprendersi questa potente macchina da guerra che ho davanti. DeclamoLeopardi silenziosamente: “Silvia, rimembri ancora quel tempo della tuavita mortale, quando beltà splendea, negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, etu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?” Uhm ... potevo sceglierequalcosa di più allegro.

Finalmente una voce femminile, in lontananza: “Rocky, Rocky, dovesei, amore? Ah, eccoti qui brigante. Ti avevo detto di non allontanarti” (tiavevo detto? …).Il cuore si apre “Ecco il sereno. Rompe là da ponente, alla montagna […]O natura cortese, son questi i doni tuoi. Questi i diletti sono, che tu porgi aimortali”. Questa è già meglio.“Buongiorno, venga, venga, non morde”.Certo che non morde, genio, questo ti sbrana in un unico boccone. Arrivaanche il padrone di Rocky, con lui un bimbetto piagnucolante che credo

Rifugio Zsigmondy-Comici(foto R. Masoni)

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scendono, pochi salgono. Cerco solitudine, esco dalsentiero in cerca di un percorso alternativo, prendo super rocce e roccette, m’arrampico al sole, tutto èsemplicemente meraviglioso. Ma la mia dote naturaledi infilarmi nei casini è in agguato e non tarda amanifestarsi, un paio di “passi” ignoranti mi costringonoa precari equilibrismi.

“Ragazzo, perché non tiriamo fuori la corda?”Ma figurati, andiamo, andiamo, le giornate sono unpugnello ...Ripensandoci, mi rendo conto di non essere un buonesempio. In montagna, e mi rivolgo soprattutto aigiovani, occorre una condotta consapevole e,possibilmente, evitare ciò che può rivelarsi rischioso.Senza limitare la propria libertà, certo, ma consapevoliche la misura del rischio deve essere proporzionalealla propria conoscenza.

Raggiungo anzitempo il Rifugio Pian di Cengia.E’ un po’ troppo affollato per i miei gusti ma va benecosì, ci mancherebbe. Ho fame, ordino un piatto dispaghetti al sugo. Per quanto all’occhio paianoun’opera d’arte scopro, al primo contatto con laforchetta, quanto purtroppo scarseggino in autonomia,ovvero gira anche il piatto insieme a loro. Cambiostrategia. Tiro su la forchetta per smazzettare le cartema tutto mi viene appresso, a un’altezza di 15 cm. daltavolo il piatto tradisce l’impegno di amore eterno presocon gli spaghetti prima di uscire dalla cucina. Cade sultavolo, tutti si girano, c’è silenzio nell’aria.“Non è successo niente, tranquilli. Senta … mi portadel pane per favore?”.Me lo portano. Metto gli spaghetti fra due fette, diventaun panino con pasta e ragù. Ottimo. I nostri nonni,anche se magari non tutti, mangiavano sempre la pastacol pane. Mica siamo diversi, forse più viziati, questosì. Weiss media, grappa al mirtillo fatta in casa, salutie baci. Una sigaretta, poi giù, verso il Locatelli.

Scendo a balzi il ripido ghiaione, naturalmentesulla massima pendenza (ci mancherebbe), èdivertimento allo stato puro anche se rischiocontinuamente l’impatto a pelle di leone col suolo. Sonoquesti i momenti in cui senti maggiormente lamancanza dei soliti amici, quando a 60 anni suonati tiritrovi a cazzeggiare come se gli anni fossero ancorala metà di quelli che porti nello zaino. Mi rendo conto,nel frattempo, che il panino con gli spaghetti non èstata una bell’idea, naviga infatti dantescamente senzalimiti tanto da ... “tre volte il fè girar con tutte l’acque, ala quarta levar la poppa in suso, e la prora ire in giù,com’altrui piacque …”.

Vedo salire un gruppo numeroso diescursionisti. Lo incrocio.“Salve”, “Buongiorno”, “Buongiorno a voi”. Soliti riti.All’occhio sono tutti sopra la sessantacinquina, hannozaini enormi che fanno da sfondo alle splendenti pelate.“Vuoi vedere che è un gruppo del CAI?”.Mi meraviglio di me stesso, perché mai dovrebbero …Non mi sbagliavo. A metà del plotone che marcia conmilitare regolarità, un ultrasettantenne ha il cappellinoblu, anche se stinto, con il ricamo dell’Uccellone. Fannocornice al glorioso simbolo di Quintino tutta una serie

di patacche e spille di tutte le specie. A occhio e croce credo anchedi averne vista una raffigurante Lenin. Forse mi sbaglio … e poi chise ne frega.“Buongiorno, tutto bene?”,“Benissimo grazie …”,“A giudicare dallo zaino (un 80 litri che sta per esplodere) siete fuorida molti giorni”,“No da stamani, stasera siamo di nuovo a casa”,“Ah … certo, meglio essere previdenti”.“E beh … siamo del Club Alpino. Lei non mi sembra …”. (cosasembro?) “Ehmm, no … sono socio della Coop, buona giornata”.

Il grido d’allarme di Umberto Martini, Presidente Generaledel CAI, pubblicato sulle pagine della Rivista è comprensibile. Oltreil 51% dei Soci CAI sono compresi fra i 45 e i 70 anni, l’incrementodei giovani è solo del 4%. Il CAI è un’Associazione vecchia, di fattoe di pensiero. Illustre certo, ma vecchia, nessuno se la prenda. Manon è eliminando i vecchi, fra i quali vi sono anch’io, per capirci, chesi raggiunge l’obiettivo di un rinnovo generazionale. Vi sono duestrade percorribili, almeno per me. La prima sposa e spostal’interesse sull’incremento del fattore tecnico anche a dispetto deinumeri. E’ una strada faticosa, sicuramente non condivisa dallamaggioranza dei Soci, che impone abbondante coscienza eformazione alpinistica ed una palese severità nei confrontidell’ignoranza tecnica e dell’incompetenza alla quale spesso capitadi assistere. L’altra, meno sanguinosa, deve privilegiare e concentraregli sforzi in direzione del settore dell’Alpinismo Giovanile. Senzatrascurare tutte le altre attività, beninteso, ma è bene ricordarsi chesenza giovani non c’è futuro, questo vale per tutto ciò che riguarda lasocietà civile, non solo per il CAI. Serve un progetto che amalgami igiovani, che simboleggiano il terreno fertile, e i “diversamente giovani”,che sono tradizione e cultura del CAI. Da una parte l’esperienza e lasaggezza, dall’altra l’entusiasmo, l’allegria, la modernità. Solo così ilCai avrà speranza di uscire dalla spirale biologica.

Sono alla fine del ghiaione, lascio che la brezza si prenda imiei pensieri. Un alto traverso taglia il ghiaione ai cui piedi emerge,limpido, un laghetto glaciale color cobalto. Roba da mozzare il fiato,un anfiteatro fiabesco. Finalmente il Locatelli.

Le pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo(foto R. Masoni)

Page 12: ANNUARIO 2011 2 - CAI Firenze

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All’improvviso, eccole infine: le Nord. Mi siedo su unsasso dopo averlo accarezzato, magari vi si è seduto Comici, Steger oPreuss. Ignobilmente seduto sul sasso resto dieci minuti in religiosacontemplazione, distaccato da tutto ciò che mi circonda. Seguo le lineedelle vie con gli occhi e con la mente, studio le pareti, splendidicapolavori della natura. Più le guardo, più la mia coscienza bussa, mirendo conto di aver fatto così poco in Montagna. Il mio carnet è ancorapovero, ma prima del game over biologico mi riprometto di fare almenoun altro paio di queste vie. Il pensiero va al formidabile Emilio,all’energico Cassin, al grande Angelo Dibona, penso a Claudio Barbier,tutte le nord in un sol giorno. Pazzesco, inimitabile. Quante volte avròvisto le nord? Bah … molte di sicuro. E tutte le volte gli occhi si riempionodi lacrime, è una commozione che non mi vergogno a confessare, laMontagna d’altronde è anche questo. Specie di fronte a certi spettacoli.

Mi scuoto. Anzi no, è qualcun altro a scuotermi.“Vede quello vestito di rosso lassù?”,“Cosa scusi?”,“Ma come … non li vede i rocciatori? Sono in due, vede, vanno su.Vede il primo con la giacca rossa? Guardi, guardi, sta mettendo i “picchi”nella roccia. Ora le spiego …” (i picchi? ma che dice questo …).Seguono dieci minuti di didattica, una sorta di lezione sulla Progressionedella cordata. E’ tutto un po’ fantozziano, ma divertente, comico, ascoltointeressato.“Grazie, senta me la farebbe una foto?”,“Una foto? Certo che le faccio una foto, così potrà dire di essere statofin quassù a 2.500 metri. Dove la vuole? Perché non si mette su quelsasso, così sembra un rocciatore anche lei?”“No grazie, ho paura, va benissimo qui, grazie”.Grazie a Dante, così si chiama il provvidenziale amico, mi tornano a

mente gli spaghetti. Credo mi ci vorrà un bel caffènero, all’americana. Entro nel rifugio, davanti albanco ci saranno almeno cinque file scomposte dipersone in attesa della consumazione. Gente cheurla, bambini che piangono, cinesi che litigano condei norvegesi, senza capirsi, naturalmente. Unadonna urla al compagno separato da due file dipopolo vociante.“Gaspareeee … ma dov’eri?”,“Non lo so – risponde con gli occhi alla MartyFeldman in Frankenstein Junior - son finito quasotto e … e ... boh ...”Come sarebbe ”non lo so”, mica siamo a Manhat-tan. Rinuncio all’americano. Qualcuno mi spinge emi supera a spallate, è un tale che parla comeTexas Ranger.“Che schifo …”,“Che schifo cosa scusi?”,“Ma come, non vede? Dicono che c’è la crisi einvece guardi quanta gente c’è!”.Questa l’ho già sentita. C’è qualcuno che vorrebbetenerci a casa a pane e acqua.“Bene che ci sia gente, scusi che noia le dà?”,“Bene, bravo … Spèta spèta che l'erba la cress,barbun anca lu…”.Se ne va, l’Italia è veramente un casi ...

Il problema semmai è un altro, a mio mododi vedere. Il problema è che la maggior parte deirifugi oggi sono alberghi, qualcuno anche a trestelle. Non che mi diano noia, per carità, e tuttaviasono rifugi senza essere rifugi. C’è di più. Non tuttisono sensibili al fascino del Socio CAI. Di frontealla magica frase “Ecco la mia tessera del CAI”molti ti fanno, prima una risata e poi unapernacchia. Alla fine, ti trattano come un accattone“Va bene, via … anziché 20 mi dia 19”. Come? IlRegolamento Rifugi parla chiaro: “la sezione[proprietaria del Rifugio…] deve comunquegarantire lo sconto effettivo del 50% ai soci […] Iltariffario deve essere obbligatoriamente esposto...”. Lasciamo perdere. Anzi no, scusate … a mequalcuno dovrebbe spiegare perché se prendo lapolenta ho diritto allo sconto, se prendo gli spa-ghetti no. Ma chi li fa i regolamenti? A proposito, il“Piatto dell’alpinista” dov’è finito?

“La vuoi finire? Possibile che ...” Si hairagione, abbozziamola, Misurina non è vicina.“L’americano lo prenderai da un’altra parte”. Va bene,va bene.

Riparto, ma anziché prendere per ForcellaLavaredo, scendo giù al sentiero che fa il giro delleTre Cime, si tratta di allungarla solo un pò. Di nuovoun pò di salita, ma ormai la balena è vinta e lepareti nord da questo sentiero sembra proprio ditoccarle. Prima di Forcella Col di Mezzo c’è unabaita, deliziosa.“Vorrei un caffè americano”,“Mi spiace, se vuole le porto una birra o una radler,un thè”. Quasi uguale, vada per la radler.“Vuole anche una sacher?”, “No grazie, per l’amordi Dio …”. Temo che la sacher, anche se sonpassate alcune ore, entri in rotta di collisione con il

Al Rifugio Locatelli(foto Archivio Masoni, lo scatto è di Dante)

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panino al ragù. Apro un giornale che trovo sul tavolo: “Dolomiti invasedalle Harley ed è lite tra i sindaci delle valli. Domenica tutti al giro deiquattro passi”. Dice il Direttore dell’APT: “Se il problema è il dannoagli animali allora vietiamo anche i fuochi d’artificio, limitiamo i volidegli elicotteri di Soccorso”.

Ora, evitando di entrare nel merito delle scelte turistico-economiche, già di per se discutibili, mi limito a una considerazionesulla buona abitudine di accendere l’interruttore prima di parlare.Che cavolo c’entra il Soccorso Alpino con i litri di birra e benzinache scorreranno a fiumi. Che senso ha mettere sullo stesso pianoil Passo Sella, ad esempio, invaso da 1.000 moto con l’altruismo dicoloro che affrontano grandi rischi per salvare una vita umana, rischitalvolta mortali come avvenuto purtroppo di recente. Se il prezzoda pagare è far decollare un elicottero, io credo sia un prezzo dapagare, animali o no. Difendere l’ambiente è, invece, una forma diciviltà, un obbligo morale, non una vetrina per mettersi in mostra, inun senso o nell’altro.

Giro pagina: “Siamo invasi dai ricorsi, invasi dalle cause legalidei turisti che non sopportano il rumore che fanno i campanacci dellemucche al pascolo” dice il Vice Presidente della Regione AutonomaTrentino Alto Adige. Era meglio se non mi fermavo. Andare in AltoAdige e non sopportare il rumore dei campanacci è come andare aMonza per il Gran Premio di F1 e non sopportare il rumore dei motori.Ma questa gente dove credeva d’andare, a Ibiza?

Arrivo a Forcella di Mezzo, quindi giù veloce al parcheggiodel Rifugio Auronzo. Caos totale, sembra l’ingresso del Tronchetto il15 agosto. Da un pulmann esce uno con un megafono “ssiori e ssioreprego, ecco a Voi ... prego, prego .. venite ...”, dietro a lui unacinquantina di individui sorridenti con gli occhi a mandorla che nonsmettono di inchinarsi. Bah ... Fermo un’auto “Scusi mi darebbe unpassaggio fino al lago?” Al terzo tentativo trovo un’anima gentile. Marito,moglie, ragazzo che gioca con un aggeggio elettronico. Non sonofiniti i primi 100 metri di strada che i due davanti danno il via ad unaferoce discussione.“Lo sai che non volevo venire, volevo andare al mare …”,“Ma cosa dici … guarda com’è bello”,“Non me ne importa nulla imbecille … guarda come ho ridotto gliinfradito”.E via così per un paio di chilometri. Il ragazzetto non distoglie lo sguardodalla sua playstation. Dove son capitato! “Lasciatemi pure qui, vabenissimo”,“Sicuro?, “Sicuro”, “Arrivederci, ci scusi sa …”,“Non si preoccupi, grazie”Un chilometro d’asfalto e sono a Misurina.

Che dire, per concludere. E’ stata una bella giornata, tuttomolto bello, ho meravigliosamente goduto delle “mie” montagne adispetto di tutto ciò che mi circondava. Che giudizio dare alla cornicedi questo quadro? Mah … credo che il discorso sarebbe lungo. E’indubbio che un patrimonio come le Dolomiti debba essere fruibile atutti. Credo tuttavia che sarebbero auspicabili forme diverse di tutelache vadano oltre il guadagno fine a se stesso. Forme tali da evitarel’assalto alla diligenza e, nel contempo, permettere a tutti di godere dicerti capolavori della natura. Ho sempre pensato, e continuo a pensarlo,che la frequentazione della Montagna debba essere anche un fatto dicultura, qualunque attività si scelga di coltivare. Scegliere la politicadel “tutto fa ciccia” riempie velocemente il portafoglio ma ... per quanto?Mi sembra ovvio che la mancanza di “cultura alpinistica” produce unclima che genera istintivamente smanie di protagonismo, alpinistiimprovvisati. Una bomba a orologeria che ha l’innesco nell’ignoranza.Sarebbe opportuno che anche il CAI, chi altrimenti, facesse un’attentariflessione. Buon Annuario a tutti.

Il CORO “LA MARTINELLA” organizza unCorso di canto corale per il periodo gennaio-febbraio 2012, nei giorni di lunedì, con orario21,15-23,00.

Il costo del Corso è di • 20,00 e comprendele fotocopie degli spartiti dei canti. Il Corso èpropedeutico per l’eventuale inserimentonell’organico del Coro. Per informazioni eprenotazioni rivolgersi alla segreteria del CAIFirenze o contattare il segretario:

[email protected],tel.: 335 6096398

Il Coro si riserva di non effettuare il Corsoqualora non vi sia un numero sufficiente dipartecipanti.

CORSO DI CANTO CORALE

Il 21 gennaio 2012 ci sarà la giornata di invitoallo sciapinismo con la collaborazione dellaScuola di Alpinismo “Tita Piaz” e il GruppoScialpinistico “A. Bafile”.

Nei mesi di febbraio e marzo 2012 la Scuoladi Alpinismo “Tita Piaz” organizzerà il corsodi scialpinismo di base (SA1).I programmi delle iniziative saranno pubblicatinel mese di novembre sul sito

www.caifirenze.itnella parte dedicata ai corsi.

SCI ALPINISMO 2012

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AMBIENTE& CULTURA

La Palma - foto dell’Osservatorio TNG al tramonto(archivio privato)

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Ritratto di H. R. Budden tratto dal Boll. CAI - vol. XXIX, n° 62

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MARCO BASTOGI

LA MONTAGNA DI BUDDEN

La Sezione CAI Firenze, può vantare di averavuto tra i suoi primi Presidenti e fondatori, “l’Apostolodell’Alpinismo” Richard Henry Budden. Chi gli attribuìquest’appellativo, rimasto celebre anche con ilpassare degli anni, non fu un personaggio qualunquema Antonio Stoppani, illustre studioso, letterato escienziato dell’800. Divenuto famoso per esserel’autore de “Il Bel Paese”, opera geniale econcettualmente moderna, nella quale si parla dellebellezze naturalistiche del territorio italiano in manieradivulgativa, ma con estremo rigore scientifico. E’ nelsecondo capitolo di questo libro che si parla del ClubAlpino Italiano e della figura di questo nostro grandepersonaggio che viene definito, per il suo modo dipromulgare la cultura della Montagna in tutti i suoimolteplici aspetti, “l’Apostolo dell’Alpinismo”.

Nell’opera, si descrive con dettaglio il suomodo di operare ed anche il suo aspetto fisico,precisamente identificabile con il ritratto che abbiamonella nostra Sede: “un ometto, dall’occhio vivo, pienod’intelligenza e di bontà, con un visetto paffuto, tintodi vermiglio carico sopra un fondo morbido e bianco,tra due pizzi candidi come la neve”.

Richard Henry Budden, nacque il 19 maggiodel 1826 a Stoke-Newington, oggi, un distrettoall’interno del quartiere Borough of Hackney di Londrache all’epoca tuttavia, manteneva ancora un aspettodistinto dalla grande città che con l’espansione avevainglobato. Di famiglia agiata, ma rimasto orfano moltopresto, venne messo in collegio a Bonn esuccessivamente a Parigi, al termine della suaeducazione iniziò a viaggiare in Europa, scegliendodi risiedere in modo più stabile in Italia, prima a Nizza,poi a Genova e quindi si stabilì a Torino. Iniziò aconoscere le Alpi della Val d’Aosta che a quel tempoera la sola zona montana visitata con frequenza daglialpinisti inglesi che sceglievano, come sede per leloro ascensioni, il villaggio di Courmayeur.

Anche Budden rimase affascinato daCourmayeur, tanto da promuovere nel 1865 unasottoscrizione, iniziando con un suo cospicuocontributo di ben cinquecento lire; lo scopo era quellodi migliorare le condizioni di soggiorno e abbellirequesto villaggio ai piedi del “tetto d’Europa”: il M.Bianco, affinché gli alpinisti vi potessero sostare per

periodi più lunghi. La sua iniziativa, tuttavia, non trovòimmediato seguito da parte delle autorità locali cheda bravi montanari, si mostrarono diffidenti neiconfronti di questo Straniero. Alcuni amici gliconsigliarono così di rivolgersi al neo formato ClubAlpino di Torino; conoscerà così G. B. Rimini eBartolomeo Gastaldi che accoglieranno conentusiasmo la sua idea e naturalmente lo fannoinscrivere al Club. Iniziò così una lunga e attivissimapartecipazione alle attività del sodalizio che dureràquaranta anni, per tutta la sua vita.

L’Italia era la sua seconda patria, la patriad’adozione, mentre il Club Alpino Italiano era diventatala sua famiglia. Nel 1868 finalmente, il Consigliocomunale di Courmayeur vinta la diffidenza nei suoiconfronti farà realizzare diverse opere stradali eCourmayeur diventerà la più rinomata stazione disoggiorno e di cura del Regno d’Italia e centroalpinistico di fama internazionale. Da qui Budden sipropagò verso le altre regioni montuose, sostenendol’apertura di piccoli alberghi e rifugi, promovendorimboschimenti e l’apertura di piccole industrie alpine.Erano i tempi d’oro dell’alpinismo e dell’esplorazione,i tempi in cui i pionieri compivano grandi impreseaffidandosi a equipaggiamenti incredibili edecisamente insufficienti: un bastone, un sacco inspalla e qualcosa da mangiare da tenere in tasca.

Per Budden l’alpinismo non era soltanto l’artedi arrampicare sulle più alte e difficili vette, ma lecime rappresentano il mezzo per raggiungere nobiliideali. Per Lui, la Montagna è da considerare una“palestra” di educazione morale e intellettuale per igiovani ed anche il luogo in cui gli alpinisti devonocooperare per migliorare le condizioni economiche esociali delle popolazioni locali. Budden voleva che igiovani si dedicassero a queste “grandi e nobiliimprese” come le indicava spesso nei suoi discorsi,con lo stesso spirito che ha distinto il grande fondatoreQuintino Sella. Nei primi anni Budden gira a lungoesplorando monti e valli, non ha pretese di fare nuovescoperte; ciò che scrive serve soltanto a farconoscere le valli, le contrade e le tradizioni dellapovera gente di montagna che si mostra sempreonorata dalle visite inaspettate degli alpinisti. Nellesue relazioni riporta dati interessanti sui costumi locali,sulle leggende delle valli e si spinge nella

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toponomastica locale con ampie riflessioni e aneddotiche rendono piacevole la lettura. Dai suoi testi,traspare un’anima di artista affascinato dalle superbebellezze che gli si aprono davanti. Budden nontrascorrerà mai una stagione in una sola zona alpina,ma il suo bisogno di studiare e vedere sempre cosenuove, lo porta sempre in valli diverse, percorrendosentieri e valichi differenti; sostanzialmente è unentusiasta della Montagna.

Ovunque si abbia attenzione per la Montagnasi trovano tracce del suo passaggio sia su Alpi chesu Appennini. Per trenta anni Budden ricoprì la caricadi attivissimo membro del Consiglio Direttivo Centrale,collaborando anche alla redazione della Rivistasociale. Il suo ruolo per lo sviluppo e la diffusionedell’alpinismo diventò con il tempo sempre piùimportante anche a livello europeo, intrapreserelazioni nell’ambito dei club alpini europei, dallamaggior parte dei quali fu fatto socio onorario e sullecui riviste pubblicò numerosi articoli; lui stessoscherzosamente, si qualificava come “Ministro degliaffari esteri del CAI”. Oltre che del Club Alpino Italiano,fu socio onorario di quello Francese e di quelloInglese, ma anche della Società Alpina Friulana.

Assieme all’amico, il canonico Georges Car-rel, diede vita alla succursale CAI di Aosta di cuidiventerà Presidente onorario; sarà anche Presidenteonorario del Comizio Agrario di Aosta e di questa città,gli sarà conferita anche la cittadinanza onoraria. Fu ilprimo a pensare a una organizzazione delle guideprevedendo la divisione in due categorie: guide eportatori, il suo libretto: “Observations aux guides desvallèes Italiennes” è il più antico testo sulle normeper i contatti tra guida e alpinista e getta le basi per irapporti tra CAI e le sue Sezioni con le guide.

Sulla scia dello spostamento della Capitale,da Torino a Firenze e quindi della nascita di unaSezione CAI anche nel capoluogo toscano, eccolotra i fondatori della Sezione fiorentina (dal 1869);diventerà, succedendo a Lorenzo Ginori Lisci nel1874, uno dei Presidenti tra i più duraturi: ben 21anni, ovvero per tutta la sua vita. Sotto la suapresidenza, da buon Apostolo, la Sezione fiorentinaaumenta considerevolmente il numero dei soci tra iquali spiccano molti alpinisti stranieri come W.A.B.Coolidge, L. Purtscheller, Henri Cordier.

Tra gli eventi memorabili avvenuti sotto la suapresidenza, c’è il IX Congresso Nazionale del CAIdel 1876 che si tenne a Firenze, mentre nel 1878 laSezione inaugura il suo rifugio al lago Scaffaiolo.Budden dette anche un grande impulso alla bibliotecadella Sezione, già con il suo insediamento apresidente, nel 1874 si pubblica un primo catalogo. Aquei tempi si riteneva che promuovere e sviluppare

la letteratura alpina potesse accrescere l’entusiasmoper il CAI e le Montagne. Con la nascita delle “StazioniAlpine”, una sorta di sotto sezioni attuali, siprovvedeva subito a dotare la nuova sede dipubblicazioni di argomento alpinistico e turistico. Nel1879 Budden istituisce la biblioteca alpina di Luccache grazie ai rapporti di Budden con gli altri club alpiniesteri, si arricchì rapidamente per le donazioni dipersonaggi rinomati: da Carlo De Stefani a John Ball;da Charles Rabot a Heri Ferrand a Karl Shultz; lostesso Budden a cui la biblioteca è dedicata, inviavamoltissime pubblicazioni e incoraggiava l’attività dellaStazione Alpina.

Nel 1881, la Sezione CAI Firenze partecipòall’Esposizione Nazionale di Milano nella SezioneAlpinistica ricevendo una medaglia d’oro che Buddenvolle fosse consegnata alla Stazione di Lucca inriconoscimento di quanto aveva fatto per il successodella partecipazione fiorentina. E’ indubbio e ben notol’impegno di Budden nell’impresa di istituireosservatori meteorologici negli Appennini, riuscendoa contribuire alla realizzazione, in Toscana (ma nonsolo), di una decina di osservatori che furono collegaticon la cosiddetta “corrispondenza meteorologicaitaliana alpina-appennina” diretta da Padre F. Denzadel Regio Collegio Carlo Alberto di Moncalieri.

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Incoraggiò la fondazionedelle “Stazioni Estive”:Montepiano, Camaldoli, BadiaPrataglia, Vallombrosa ecc. Nel1882 fu istituita anche la StazioneAlpina di Stia diretta per ben 40anni dall’Avv. Carlo Beni. Nel1883 ci fu l’inaugurazione delricovero “Dante” sul M.Falterona. Budden s’impegnò afondo per la valorizzazionealpinistica ed escursionisticadella zona del Procinto, insiemeall’ing. Aristide Bruni, socio dellaSezione CAI Milano, con il qualecollaborò assiduamente attornoal 1879. Una lapide posta in unacavità poco prima della cima delProcinto, ricorda ancora oggi lafigura del grande Presidentedella Sezione fiorentina.

Nel 1893 la Sezionefiorentina del CAI attrezzò la piùantica via ferrata Italiana pressola parete Sud del Procinto; furonorealizzati gradini intagliati nellaroccia, spuntoni e cavi metallici.Oggi, una scala metallica(all’inizio della ferrata),sostituisce l’antica scala in legno,mobile, messa in opera, previopagamento di pedaggio, dalleguide Gherardi, i “custodi delProcinto” che vivevano nellacasa dell’Alpe della Grotta:l’attuale rifugio Forte dei Marmi.

Il 17 novembre 1895, aTorino, i colleghi alpinisti, inoccasione del trentesimoanniversario di iscrizione al ClubAlpino Italiano di Budden,organizzarono una grande festain suo onore, purtroppo fu l’ultimasua apparizione pubblica perchésedici giorni dopo, fu colpito daemorragia cerebrale e, la nottetra l’11 e il 12 dicembre 1895,Budden, cessava di vivere.

La sua perdita fu lutto delClub Alpino Italiano. Il nome diBudden, se ciò che ha fatto nonbastasse per tramandarlo neisecoli avvenire, rimarrà persempre impresso nei nomi di duevette valdostane: la Punta

Budden (m 3.630 s.l.m.), nelle Alpi Pennine tra Valpelline e Valtournache,tra l’omonimo colle e la Breche des Petites Murailles, e la Punta Bubben(3.683 m s.l.m.), del Massiccio del Gran Paradiso, nelle Alpi Graie, tra laBecca di Montandayné e l’Herbetet.

Concludo, ricordando le parole di commemorazione che ilPresidente generale del CAI Antonio Grober, pronunziò all’Assembleadei Delegati il 15 dicembre 1895:

“…uomini come il nostro Budden, sono l’incarnazione dei più altiideali dell’umanità, non muoiono; essi sopravvivono allo sfacelo della ma-teria nei loro ideali stessi, che sono immortali. Se l’Apostolo dell’alpinismoabbandonò le sue forme terrene, rimane fra noi imperituro il suo vangelo.Enella venerazione degli alpinisti italiani nel Panteon dei benemeriti dellanostra istituzione il posto di Riccardo Budden è accanto a Quintino Sellae a Bartolomeo Gastaldi”.

sopra:scalata fine secolo XIX, in Doilomiti (da: a5lunnis.blogspot.com)

nella pagina a fianco, in basso:Ludwig Purtscheller

(da: a5lunnis.blogspot.com)

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foto del Telescopio inglese William Herschelpresso La Palma, alle Canarie. (arc. priv.)

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ANDREA TOZZI

SPECCHI IN MONTAGNAScienza ai confini del mondo

Il buio dentro la cupola dell’osservatorio ètotale: non si vede letteralmente a un palmo di naso.L’aria fredda e pungente ti ricorda che sei oltre i tremilametri in una notte d’inverno. Ti muovi lentamente econ circospezione tentando di non dimenticare lagiusta posizione delle scale che ti porteranno sullapiattaforma piena zeppa di strumenti... e non è fac-ile! Non basta il buio, ci manca anche che il telescopioper sua natura si muova ed è inutile che tenti diricordare la posizione delle scale come le hai vistequalche ora prima, con la cupola bella illuminata,perché li non ce le troverai di sicuro: si son girate diquasi mezzo giro il che vuol dire che sono a oltreventi metri da dove te le aspetti!

E allora ti vengono in mente leraccomandazioni che il direttore dell’osservatorio tiha fatto appena arrivato circa la pericolosità dellastruttura, l’altezza del ballatoio da terra (“oltre settemetri”) e che sebbene il salto nel vuoto sia“auspicabilmente reso improbabile” da una ringhieraperimetrale, questa presenta quattro cancelletti diaccesso agli strumenti uno per ogni punto cardinale:bisogna azzeccare quello giusto per salire nel vanostrumenti. Due su quattro si affacciano sul vuoto, nelmigliore dei casi. “OK, ma c’è un servomeccanismoche si attiva e ne impedisce l’apertura finché icancelletti non sono in posizione” ti dici, ma allora tiricordi anche delle parole sussurateti dal tecnico chese proprio non sono in posizione allora bisognascavalcarle, “sai... non son proprio perfette!”. La 626de noantri da queste parti è in cavalleria...

La radiolina gracchia nel buio e dalla salacontrollo, cinquanta metri più giù, ti chiedono dovesei: ai tuoi orecchi suona un po’ come un “sei vivo?”.Li rassicuri e prosegui tentoni: accendi il led delvecchio cellulare e rimpiangi la tua frontale! Sei pro-prio di lato allo specchio primario: immenso! Vedi laluce delle stelle riflettersi contro e arrivarti deformatadalla sua superficie curva formando degli strani giochidi luci e gli astri ti paiono molto, ma molto luminosi.

La serata è decisamente tersa, il cielo limpido,la Via Lattea e la Luce Zodiacale, adesso che seiproprio sotto l’apertura della cupola, rischiaranodebolmente i tuoi passi... e procedi. Sali nella salastrumenti: non una luce, non un solo misero led, un

migliaio di fotoni almeno! Uno di quelli scampatiall’attrazione di qualche buco nero, passati attraversol’atmosfera, sopravvissuti all’urto con la polvere, aidifetti delle lenti... Niente!! Tutti incanalati verso isensibilissimi strumenti di rivelazione capaci di dartiun’immagine con una sola manciata di fotoni alsecondo. Quasi che li potresti chiamare per nomequesti strani oggetti che qualche volta assomiglianoad onde del mare, qualche volta a palloni da calcio...dipende da come li guardi, i fotoni!

Il tempo di individuare l’oggetto da allineare,spengi il led del cellulare che nel frattempo era statoavvistato da tutti gli strumenti del telescopiomandandoli in tilt e aggiusti il sistema.

“Bene!” ti dicono dalla sala controllo “ancoraun pochino più in basso... perfetto! Puoi tornare.”Scavalchi il cancellino che ovviamente non si è apertoe ti ritrovi di nuovo sulla piattaforma fissa. Le quattroe un quarto! Fra poco sorge il sole e la cupola verràchiusa. Si andrà a letto all’alba per svegliarsi nel primopomeriggio, discutere e mettere in fila i problemi e lecriticità riscontrate la notte precedente e nel tardopomeriggio si ricomincia, di cenare non se ne parla...

Gli osservatori del XXI secolo sono immensi,complessi, di difficile gestione, pieni zeppi di motori,lenti, specchi e specchietti, centinaia di chilometri dicavi e fibre ottiche, centinaia di computer, migliaia disottosistemi, tonnellate di acciaio, persone, ideenuove e strabilianti, azoto liquido, lenti “minori” chepesano centinaia di chili, fisici, astronomi, ingegneri,tonnellate di elettronica, software, problemi, vizi evirtù. Un mondo!

Finita l’era degli osservatori vicino alle città erigorosamente ubicati nei loro quartieri Sud, almenoper noi europei, adesso si va in alta montagna e inposti particolari, la cui sola scelta costa anni di lavoro,in cui l’atmosfera sia limpida, priva di polveri, di vapord’acqua, di luce e l’aria sia ferma. Il bel brillare dellestelle che spesso si vede la notte e ci ispira (oppureno) tanti bei pensieri è sintomo di aria in movimento,turbolenta e poco adatta all’osservazioneastronomica. E poi che sia un posto accessibile,perché bisogna trasportare su migliaia di tonnellatedi materiale, in una zona politicamente sicura perché

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ci dovranno andare in continuazione migliaia dipersone provenienti da tutto il mondo: europei,giapponesi, americani, arabi, israeliani, australiani,cinesi, russi e così via.

I telescopi oggigiorno son bestioni il cuispecchio principale, detto Primario, raggiungediametri di 8-10 metri, il che vuol dire oltre cinquantametri quadrati di specchio (le dimensioni di unappartamento!), le montature per puntarlo verso ilcielo pesano centinaia di tonnellate e se ne stannoprogettando di 36 e 42 metri... L’Italia èall’avanguardia nel settore, molto apprezzata in giroper il mondo. Italiani sono i PI (Principale Investiga-tor) d’importanti progetti internazionali di ESO (Euro-pean Southern Observatory), un organismointergovernamentale con sede a Garching vicino aMonaco di Baviera e che raccoglie il meglio dellascienza astronomica e astrofisica d’Europa e oltre.Gestisce, tra i tanti, il telescopio VLT, ubicato a 130Km a sud di Antofagasta in Cile, su Cerro Paranal a2635 m. In verità si tratta di quattro grandi telescopida 8.2 metri più altri quattro “ausiliari” di 1.8 metricapaci di lavorare tutti insieme combinando i diversifasci ottici e raggiungendo la capacità osservativa diun telescopio di circa 100 m (!!!).

Il Keck è un altro importante telescopio,ubicato sulla sommità del vulcano Mauna Kea, nelle

isole Hawaii, a 4145 m. Trattasi di nuovo non di unoma di due telescopi di 10 metri capaci di lavorare insiemesfruttando la loro apertura complessiva di 85 metri.

Infine LBT (Large Binocular Telescope) situatoa Mount Graham, in Arizona (U.S.A.), a 3221 metricon i suoi due specchi monolitici da 8.4 metri montatisulla medesima montatura, unico del genere! Moltoitaliano e in particolare fiorentino essendo statopensato e progettato dagli astronomi di Arcetri. Inparticolare è l’unico telescopio che monta unparticolare sistema di ottica, detto “ottica adattiva”,direttamente sul suo specchio secondario, un gioiellodi tecnologia di 911 mm di diametro e spesso solo1.5 mm, che viene tenuto sospeso in aria da 672elettrocalamite, in levitazione magnetica. Taleinnovativo sistema, messo a punto pressol’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, permette dimodificare in tempo reale la forma dello specchiosecondario ogni 0.001 secondi. L’uso di una piramidedi vetro, il cui vertice è posto su uno dei fuochi deltelescopio, divide il fascio di luce proveniente dallestelle in quattro parti e misura come e quanto è statomodificato il percorso della luce in virtù della presenzadell’atmosfera. Questa misura, elaborata da potenticomputer, darà i giusti comandi alle 672elettrocalamite perché deformino lo specchiosecondario in modo da compensare completamenteil contributo dell’atmosfera. Il sistema permette a

Foto degli 8 telescopi che compongono il VLT: quattro grandi e quattro, ausiliari, più piccoli. (arc. ESO)Nella pagina a fianco, in basso: l’ Osservatorio Keck presso Mauna Kea alla Hawaii (arc. Oss. Keck)

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questo gigante dell’ottica di osservare il cielo comese l’atmosfera non fosse presente, eliminando di fattola turbolenza dell’aria. Fatto questo essenziale perquesta categoria di telescopi il cui grande diametropermette si, in linea di principio, di risolvere oggettimolto piccoli e deboli, ma a patto che si riesca atrovare il modo di compensare la turbolenza dell’ariache rischia di renderli inutili.

Nella figura (Hubble-LBT - sotto) si vede uncampo di stelle, il cluster M92, ripreso dal telescopiospaziale Hubble e da LBT in modalità di otticaadattiva: quella più risolta è di LBT... D’altronde itelescopi spaziali se è senz’altro vero che nonrisentono dell’atmosfera terrestre, sononecessariamente limitati in dimensioni (2.4 m nel caso

di Hubble) e quindi in risoluzione, risultando in piùpoco o affatto aggiornabili in termini distrumentazione. Per non parlare dei costi dicostruzione, lancio e gestione.

In Europa un buon sito astronomico èrappresentato dalle isole Canarie, al largo delMarocco e territorio spagnolo. Là l’Italia ha diversitelescopi fra cui ricordo il Telescopio Nazionale Galileo(TNG), antesignano e laboratorio di progettazione diLBT, sull’isola di La Palma. Una bellissima isola, “bonita”la chiamava una nota pop star, sulla cui caldera sonoarrampicati molti telescopi europei: l’inglese Herschel(4.2 m), lo spagnolo GranTeCan (10.4 m), l’italiano TNG(3.6 m) appunto e altri ancora. Il paesaggio sulla calderaè lunare: rocce laviche di colore rosso, nero, giallo e dialtre sfumature improbabili si alternano a unavegetazione bassa e robusta. Il contrasto tra il climatropicale della costa occidentale, quello montano dellazona attorno il vulcano, quello più freddo della costaorientale è strabiliante.

In generale i luoghi in cui sono costruiti gliosservatori sono sempre molto belli, il che è ovvio perchi come noi ama la montagna. Purtroppo poco siprestano come punto di appoggio per escursionisti ealpinisti in quanto gli spazi foresteria sono sempremolto, ma molto limitati (ad esclusione dellaavveniristica e bella Paranal Residencia presso il VLT)e non mi risultano iniziative CAI o di altri enti stranierianaloghi volti a creare un punto di contatto tra alpinismoe astronomia... chissà... magari, lavorandoci un po’!

sopra: immagine di una parte di M92 ripresa con iltelescopio spazia Hubble e LBT (a destra). La maggiorerisoluzione di LBT è dovuta al suo maggior diametro eal fatto che il sistema di Ottica adattiva fa si che possalavorare come se l’atmosfera non ci fosse (arc. Arcetri)

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GIANCARLO TELLINI

LE VIE DEI PELLEGRINIVia Francigena e Vie Romee

Sono stati siglati dal CAI due importantiaccordi con un gruppo di comuni, in un caso, e conl’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, nell’altro, percontribuire a rendere maggiormente fruibili e avalorizzare alcune delle antiche vie storico-religioseche attraversano il nostro territorio: la via Francigena,asse portante in Italia del sistema delle vie dipellegrinaggio, e alcune importanti vie Romee, cioèquei percorsi che i pellegrini, e non solo, percorrevanoarrivando dalle più diverse località per ricongiungersialla precedente.

Relativamente alla via Francigena si fariferimento a quella “piccola” porzione, circa 80km,del percorso globale europeo (di circa 1.000 km) cheattraversa i sei comuni della Val D’Elsa(Castelfiorentino, Montaione, Gambassi Terme, S.Gimignano, Colle val D’Elsa e Monteriggioni). Il nostroSodalizio periodicamente effettua e rinnova, già dal2010 e lo farà fino al 2012, la segnaletica orizzontale(utilizzando il logo che raffigura “il pellegrino”) edesegue, la verifica della transitabilità del percorso, losfoltimento dell’eventuale vegetazione invasiva,nonché il controllo della presenza e dello stato dellasegnaletica prevista e installata, sollecitando gliinterventi necessari da parte dei comuni interessati,che di questo aspetto sono i titolari e gestori.

Le vie Romee di cui tratta, sono quelle del“Contado Fiorentino” intendendo i territori delleDiocesi di Firenze e di Fiesole, area su cui Firenze,sin dal XIII secolo, esercitò il suo controllo. Sono seiitinerari che si snodano dal capoluogo e che vannoad intercettare la via Francigena, la via dell’Alpe diSerra e gli altri assi principali della viabilità religiosa.A tutti gli effetti, alcune importanti strade, facenti partedell’articolato sistema di circolazione della RepubblicaFiorentina (dieci state et vie mastre), diventarono viedove transitavano, numerosi, anche i pellegrini. Inquesto caso il CAI appone il logo della “manobenedicente”, segno di buon auspicio che un temposi scambiavano i viandanti in cammino verso le metedel pellegrinaggio, e realizza la cartellonistica al difuori dei centri urbani nei tratti non stradali.

Chi scrive è rimasto affascinato da questiitinerari che ancora oggi raccontano, riassumendolenella denominazione dei luoghi e illustrandole con le

vestigia presenti lungo il percorso, storie di secoli edi millenni. Si tratta di vie che erano concepitediversamente da come facciamo oggi: non esistevauna sola traccia, l’obiettivo era di andare da un luogoad un altro, transitando su direttrici differenti aseconda delle stagioni, del clima, delle percezioni dipericolo. I percorsi definiti attualmente, dopo attentistudi e ricerche, sono stati disegnati in funzione dellapresenza dei siti storici da cui transitare ma anchedelle esigenze di viabilità del nostro tempo.

Percorrere queste strade che sono statesolcate secoli fa da migliaia di persone suggerisceinnumerevoli riflessioni sul rapporto tra ambiente ecultura, paesaggio e società, invitando a riscoprire lastoria lungo i crinali, attraverso valichi e fiumi, per vallie campi, sulle tracce di spezie o tessuti pregiati, tesorireali o immaginari, oggetti d’uso quotidiano, nomi econsuetudini, convinzioni religiose, lingue e parole.

E’ un escursionismo a misura d’uomo, chesenza nulla togliere alle città e alle grandi località chevengono attraversate e che sono, e rimangono, unvalore unico inestimabile e inimitabile della nostraterra, ci porta in luoghi considerati secondari chesono, comunque, meno “assaliti” dal turismo spessoaggressivo del nostro tempo, offrendoci l’occasionedi visitare luoghi e strutture che forse diversamentenon avremmo mai potuto incontrare.

Possiamo godere del fascino e della dolcezzadei paesaggi, delle antiche pievi e degli spedali ricoverodei pellegrini, stimolando le emozioni dovute ai ricordidella storia passata, alla curiosità per gli eventisuccessi, alla riflessione sulle motivazioni chespingevano i pellegrini e alla commozione per le lorovicissitudini, i disagi e i sacrifici che affrontavano innome della fede.

Desideriamo, dare un piccolo contributod’informazione sulle vie dei pellegrini e suggerire ainostri “camminatori” di inserire questi percorsi nei loroobiettivi aggiungendoli alle destinazioni che sono allabase della nostra passione per la natura e lamontagna. Cercheremo di riportare sinteticamentealcune notizie e considerazioni, per noi interessanti,presenti nei tanti libri che trattano di questoargomento.

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I pellegrinaggi

Le principali mete del pellegrinaggio nellastoria della Chiesa sono: Gerusalemme, Roma, San-tiago di Compostela.

- La Terra Santaha attirato schiere di pellegrini fin dai tempi

più antichi. I primi cristiani usciti dalla clandestinitàerano desiderosi di ripercorrere i luoghi in cui Cristoera vissuto e visitare il Santo Sepolcro. Nel 640quando Gerusalemme cadde sotto l’Islam, il flussodei devoti viandanti si arresta. Fu dopo le crociate,nel tardo medioevo, che i pellegrinaggi ripreserolanciando quel lungo ponte, simbolico e reale, chedoveva ricongiungere l’Europa alla Palestina e aGerusalemme. Dopo Roma, i pellegrini proseguivanolungo l’antica via Appia , fino ai porti pugliesi.

- A Roma,centro spirituale della cristianità, ma anche

città ambita da re, mercanti e artisti confluivano stradecommerciali, militari e di pellegrinaggio.Relativamente a quest’ultima motivazione ci fu unnotevole sviluppo grazie all’istituzione dei giubilei (èdel 1300 il primo Anno Santo); ma ancor prima, ilflusso di devoti aveva avuto grande impulso dallavenerazione che, fin dai primi tempi, i cristianiavevano per i martiri e in genere dei santi,

trattenendosi in preghiera presso le loro tombe ecelebrando l’anniversario del martirio. Era il luogodove il Santo ascoltava le preghiere dei fedeli eintercedeva presso il Signore. Le tombe eranosempre, inevitabilmente, in numero esiguo rispettoalle infinite località dove vivevano i fedeli; fu così chenel mondo cristiano si affermò una grande diffusionedi reliquie come oggetti d’adorazione, che comunquedivennero poi insufficienti rispetto alle aspettative deifedeli stessi. Nacque così, anche, una fiorente attivitàcommerciale che portava a Roma numerosi vescovie abati da tutta Europa per acquistare reliquie perconto delle loro chiese.

- Santiago di Compostela,a differenza delle precedenti mete, non ha

relazioni con la cosiddetta “cristianità storica”. Laleggenda vuole che l’apostolo Giacomo, giunto allafinis terrae, abbia annunciato il Vangelo. Santiago haconosciuto la sua fortuna con il ritrovamento nel IXsecolo del corpo dell’apostolo. Ha avuto così iniziouno dei fenomeni più importanti e complessi dellacultura europea medievale: pellegrini da tutta Europapercorrevano il lungo cammino verso Santiago direttialla cattedrale costruita per ospitare le spoglie delsanto, meta del pellegrinaggio per antonomasia. Ilpellegrino medievale prima di partire partecipava adun vero e proprio rito di estizione: gli indumenti (unmantello di tessuto ruvido, il cappello, la bisaccia, il

Simbolo di riconoscimento delle “vie dei Pellegrini”nella pagina a fianco: l’homepage del sito www.vieromee.it

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bordone) venivano solennemente benedetti davantiall’altare prima di essergli consegnati. I pellegriniviaggiavano percorrendo giornalmente 30 / 40 km inpianura, 20 /30 Km in zone montuoso oparticolarmente difficili. Le rotte dei tre pellegrinaggierano costituite da un insieme di vie, in particolarealtre diramazioni provenienti da diverse localitàeuropee confluivano nella via Francigena, forse lastrada più antica d’Europa, per giungere fino a Roma.

La via Francigena

Nelle cronache anglosassoni, grande raccoltadi annali che coprono la storia di quel popolo dal 445al 1150, troviamo la seguente annotazione: “Nell’anno900 Sigerico fu consacrato arcivescovo; nello stessoanno si recò a Roma per il pallio”. Il viaggio del prelatosassone sarebbe da annoverarsi fra i tanti che nelmedioevo videro re, monaci, chierici e semplicipellegrini fare numerosissimi la spola fra le isoleBritanniche e Roma….. se solo non se ne fosseconservato il “diario”. Il prezioso resoconto, fattocompilare da Sigerico a uno dei componenti del suoseguito, offre, senza perdersi in particolari, unaprecisa immagine di uno dei numerosi pellegrinagginella città di San Pietro. Si tratta di un documento distraordinario interesse, in quanto l’unico itinerariocompleto in nostro possesso di un pellegrinaggioanglosassone a Roma.

Il CAI ha il piacere di presidiare uno dei trattipiù affascinanti del percorso in territorio italiano chesuperato il territorio di San Miniato, attraverso sitiimportanti, conduce fino alle porte di Siena.

Le vie romee nel Cont ado Fiorentino

La via Francigena, - “via peregrinalis” pereccellenza - evitava Firenze perché transitava nelsettore più occidentale della Toscana. Firenze neltredicesimo secolo era diventata una delle grandimetropoli dell’occidente, oltre a una delle piùimportanti “piazze” economiche internazionali, e solopoche città in Europa le erano pari per dimensioniurbane e consistenza demografica.

Il potere polarizzante della città aveva fattonascere una viabilità funzionale ed efficiente versole diverse zone del suo distretto e le più importantilocalità del contado; le principali strade dellarepubblica inserivano la città in una trama viaria didimensione sovraregionale frequentata da uncospicuo flusso di uomini di merci e di denaro, siaverso Bologna, diventando il collettore del trafficotra il mondo padano e l’Italia peninsulare, che versosud raccordandosi con la via Francigena, laprincipale arteria in Italia per il traffico continentalenel medioevo.

La città era divenuta un punto di passaggioper coloro (sempre più numerosi a partire dai primianni del tredicesimo secolo e moltissimi a partire dalprimo Giubileo, istituito da papa Bonifacio VIII, comericordato, nel 1300) che effettuavano il pellegrinaggioromano utilizzando percorsi transappenninicialternativi a quelli sulla via Francigena.

Ma numerosi erano anche i fiorentini cheintraprendendo uno dei tre pellegrinaggi all’inizio delloro viaggio usavano quelle strade del contado cheraccordavano con la Francigena o con Arezzo, unimportante luogo di tappa della cosiddetta via dell’Alpedi Serra, altro frequentato itinerario romeo che gliAnnales Stadenses, considerati la più completa guidaper Roma nel medioevo, definiscono la melior viaper giungere alla Città Eterna, almeno per i pellegriniprovenienti dall’area germanica. Verso Santiago deCompostela si poteva arrivare anche per vie marittimeda Pisa e, più tardi da Livorno, così come, verso laTerra Santa, dagli importanti porti dell’Adriatico. Atestimonianza del ruolo svolto da Firenze sta lafondazione dei numerosi spedali, avvenuta in quelperiodo, in città. Alberghi e osterie punteggiarono ipercorsi e numerosi sorsero gli spedali sulle vie delcontado, per Roma.

Il pellegino “multimediale”

Il progetto di promozione e di valorizzazionedelle Vie Romee si avvale di un sistema web moltoavanzato e particolarmente interessante e cheprevede l’estensione e la connessione, in futuro, conil portale unico della via Francigena. Il sistemamultimediale utilizzato dal sito www.vieromee.it. hauna struttura modulare dei propri contenuti, compostada oltre 1500 schede, che fornisce al pellegrino/viaggiatore l’utilizzo di una serie di funzionalità moltointeressanti che consentono, la fruizione di testi,immagini, video, documenti, tracciati GPS relazionatitra loro e totalmente georeferenziati.

Attraverso il sistema web di visualizzazionedelle mappe di Google è possibile una navigazioneevoluta sui computer e sui cellulari che permette dipercorrere virtualmente il territorio, di visualizzare gliitinerari, di calcolare percorsi e di creare itineraripersonalizzati.

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Il Monte Contrario e il Monte Cavallodall’abitato di Forno

(foto S. Cecchi)

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SERGIO CECCHI

A FORNO, I RICORDI SONO ANCORA VIVI

È l’alba del 13 giugno del 1944 quando un battaglione tedesco della 135° Brigatamuove alla riconquista di Forno, un paese ai piedi delle Apuane che è stato liberatodai partigiani all’inizio di giugno

Questo è un tentativo, sicuramentepresuntuoso da parte mia, di ricostruire in modo criticoun episodio che si è tramandato attraverso lenarrazioni fino agli anni ‘90, e mentre mi informavosui testi ho scoperto sempre cose nuove, anche incontraddizione fra loro. Non è la storia di una stragecome quella di Sant’Anna di Stazzema, che pure è apochi chilometri da qui, ma di una vera e propriabattaglia, anche se non certo combattuta ad armi pari;pure la data è precedente, manca quasi un annointero al mese di aprile 1945, quando la “linea gotica”,il baluardo difensivo edificato dai tedeschisull’Appennino tosco-emiliano e sulle Apuane, saràdefinitivamente oltrepassata e in pochi giorni liberatatutta la pianura padana. Sarà un anno di sofferenzasotto la dominazione straniera per le popolazionidell’Appennino e della Garfagnana, mentre laToscana della pianura dovrà aspettare solo pochimesi, perché l’insurrezione di Firenze è del mese diagosto 1944; la liberazione di Pisa, Lucca e Viareggioè in settembre.

È anche la cronaca di una fulminea sconfitta,dovuta anche a diversi errori di valutazione, ma nonsempre si può raccontare d’intuizioni geniali e di trionfi… e questa è una delle battaglie più cruente di quelleche si verificano lungo la “linea dei Goti”: decine dipersone passate per le armi, altre arse vive(probabilmente), decine deportate in Germania. I giorniche vanno dalla fine di maggio al 13 giugno segnanoper sempre Forno: ancora oggi, quasi 70 anni dopo,questo è “IL” paese della resistenza, nelle celebrazionie nelle feste popolari che sono qui ospitate ogni es-tate, nelle facce della gente, nella vita di tutti i giorni inquesta stretta valle sotto le montagne.

Noi soci Cai conosciamo questo piccolo centrolungo il fiume solo di passaggio, forse ci fermiamoun minuto a prendere l’acqua alla fonte, forse ciaccorgiamo della “casa socialista” — l’unica in Italia— oltre il ponte. Alla vecchia filanda diamo amalapena un’occhiata e proseguiamo verso il Biforcoper iniziare la nostra salita verso la valle degli Alberghie la valle delle Rose, verso il canale Fondone oppureil Cerignano, insomma ... in su. Forno si trova nelcomune di Massa, lungo il torrente Frigido, strettofra i fianchi boscosi di un fondovalle umido dominatodalle creste del Contrario e del Cavallo. È diviso in

tre parti, il nucleo principale si trova a meno di 200metri di quota, sulla sinistra risalendo la valle, alcuniedifici si trovano sull’altra sponda, infine c’è il nucleopiù recente della vecchia filatura che si trova più inalto. All’ingresso del paese si nota il cosiddetto Pontedell’Indugio, un piccolo arco che portava ai mulinisull’altra sponda.

Si chiamava Rocca Frigida, poi ha presoquesto nome perché nel medioevo c’era un’attivitàdi lavorazione del ferro, ma di queste fonderie e dellerelative miniere ho trovato solo accenni. Il Frigido èun fiume breve e nervoso, nasce pochi metri a montedell’abitato di Forno, riceve le acque del torrenteRenara, passa da Canevara e prosegue verso il mareTirreno; è un torrente che cambia spesso: a voltescorre limpido fra le montagne ma facilmente siimpantana dopo ogni pioggia, poi velocemente siprosciuga e mette allo scoperto il greto sassoso.

il “cotonificio ligure”.Il filatoio a Forno fu progettato nel 1880 e per

prima cosa fu realizzato un canale scaricatore lungo500 metri, per la derivazione dell’acqua per la turbina,dalla sorgente del Frigido; proprio l’abbondanterifornimento di acqua corrente per le lavorazioni eraalla base della scelta del luogo. Il progetto prevedevail sostegno di imponenti colonne metalliche, visibilianche all’esterno perché queste colonne eranorialzate. Nel 1889 ci fu l’inaugurazione, tre anni dopol’apparecchiatura tecnologica era completa: trecaldaie a vapore, due motori, uno di 750 HP, l’altro di500. Si trattava di una delle prime e più importantirealtà produttive di tipo moderno, una fabbricaimportante per il territorio massese ma pure nelcontesto dell’industria tessile nazionale, e chesvolgeva una funzione economico-sociale; la maggiorparte della manodopera era costituita da donne.

La ditta era di proprietà di Giovanni BattistaFigari, appassionato di montagna … ma non saràstato mica della stessa famiglia di Bartolomeo ?questo importante alpinista, in coppia con l’altrogenovese Quèsta, fu primo salitore del Grondilice edi altre cime secondarie, all’inizio del secolo; fu poipresidente nazionale del CAI. Il cotonificiopropriamente detto era un imponente fabbricato, mal’insediamento comprendeva anche il magazzino, un

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fabbricato con uffici e appartamento del direttore, uncomplesso di abitazioni per i dipendenti e le lorofamiglie. I procedimenti di lavorazione del cotoneandavano in questo ordine: bagnatura, battitura,stiratura, cardatura, fase intermedia e infine filatura.Nei seminterrati c’era l’impianto di lavaggio e dibattitura del cotone, ai piani intermedi c’erano i telaiveri e propri, al terzo le attrezzature per lavorazioniparticolari. Il cotonificio, collegato alla città dallatramvia a vapore Massa/Forno, aumentò laproduzione fino a metà degli anni venti, poi la crisimondiale del 1929 fece sì che diminuisse la richiesta;la produzione ebbe un calo progressivo fino allacompleta cessazione all’inizio della guerra. Ilcomplesso fu adattato a magazzino militare, ma …della Marina ! in tempo di guerra ospitava l’asilo, e fudanneggiato e saccheggiato dai nazisti, il tetto crollòe fu abbandonato per quaranta anni. Invece rimaseroin piedi le abitazioni per i dipendenti, in particolare sinotano tuttora, lungo la strada, due grandi stabili di 6piani, ristrutturati e fittamente abitati, il secondo pro-prio adiacente alla filanda.

Nel 1990 fu progettato il restauro delcomplesso, non di tutto ma della parte anteriore e inparticolare degli uffici; dietro, sono rimaste solo lemura dei magazzini, un fabbricato lungo oltre centometri senza copertura. Inoltre furono restauratealcune condutture idrauliche e dei macchinari,restituiti a un buono stato per allestire un percorso di“archeologia industriale”, come vedremo alla fine.

le quattro giornate del 1944.Una delle prime formazioni partigiane nella

zona fu la “cacciatori delle Apuane” sorta in Versiliaper iniziativa del sottotenente Gino Lombardi diRuosina, caduto il 21 aprile 1944. Da essa, nel mesedi maggio, nacque la “Luigi Mulargia” comandata dalsottotenente Marcello Garosi, nome di battaglia “Tito”.Dalla metà di maggio fino alla data fatidica del 13giugno, questa formazione versiliese operò sullemontagne e svolse importanti azioni a Altagnana,Forno e sulla Tambura, altre con spostamenti aSarzana e a Massa. Marcello Garosi, nato a Firenzenel 1919, sottotenente dei bersaglieri, si trovava aViareggio, forse sfollato o forse perché la moglie eraviareggina; all’annuncio dell’armistizio, decise dientrare nel C.L.N. Versilia. Organizzò un gruppo dipatrioti che iniziò a operare fra Stazzema e Vinca.

Avendo deciso di spostarsi in Lunigiana, ilgruppo partì verso il nord, ma il 10 maggio ci fu unoscontro con una pattuglia “repubblichina” a Gorfigliano– in cui morì il ventunenne Silvio Ceragioli – che,unito alla notizia dei rastrellamenti in Garfagnana, fececambiare idea. Due giorni dopo, Garosi condusse isuoi uomini alle pendici della Costa Pulita, in località“la Fania”, e il 13 arrivò un altro gruppo, guidato da

Bandelloni e Vannucci. I due gruppi si unirono, dandovita appunto alla formazione intitolata a Luigi Mulargia;“Tito” era il comandante, Vannucci vice, Bandelloniaddetto agli approvvigionamenti. Mulargia era unmarinaio di Olbia, di 20 anni, entrato nella resistenzadopo l’armistizio e caduto in combattimento sul monteGabberi il 17 aprile 1944.

Notare che spesso le compagnie dei partigianiprendevano il nome da un caduto, e che a volte inseguito modificavano il nome iniziale per dedicarlo aun ulteriore eroe morto in battaglia … poi, spesso sisuddividevano in più gruppi o viceversa, due o tre siunivano e prendevano un nome nuovo. Un’altraosservazione: Ceragioli è un nome tipico dell’altaVersilia e ci sono due vie al Procinto che si chiamanocosì: due arrampicatori degli anni trenta … sarannostati parenti? Vorrei anche dedicare un pensiero aMarcello Garosi, un bravo ragazzo di città, che avevastudiato. Molto giovane secondo i nostri standard dioggi, ma uomo maturo negli anni ’40, già sposato;sembra che fosse stato riformato dall’esercito per unaferita, ma non è sicuro, anche perché temo si parlisempre della stessa gamba colpita in seguito agliAlberghi. Certa è la sua volontà di mettersi al serviziodi questa seconda liberazione dell’Italia dalladominazione straniera. All’età di 25 anni era capocarismatico della sua formazione, amato e rispettatodai suoi, e coordinatore della zona. Spesso le bandepartigiane erano comandate da ufficiali italiani cheavevano disertato, oppure ufficiali inglesi che si eranoinfiltrati in Italia; in entrambi i casi, era utile per i patriotiavere un capo militare: in fondo erano studenti,agricoltori o borghesi passati in clandestinità,comunque non preparati alle faccende belliche. Ipartigiani erano comunque conoscitori dei luoghi,persone abituate alle marce in montagna.

Si è detto che la “Luigi Mulargia” era compostadi vari gruppi di uomini del Massese e della Versilia.Secondo alcune fonti, questa brigata era formata da450 uomini armati, altri riferiscono di numeri moltoinferiori, forse 200 alla fine, e questa cifra è piùattendibile; a questi si potevano aggiungere alcunedecine di uomini da armare; e anche fra i partigianieffettivi, molti erano male armati e per nienteaddestrati. Alla fine di maggio, su proposta delcomitato apuano, si spostarono e dal 1° al 9 giugnoerano accampati nella valle degli Alberghi, nellebaracche dei cavatori alle pendici del monte Contrario,un posto dove era possibile, con un paio di ore dicammino, portare il pane dal paese. Località che noiconosciamo, visto che la ferrata del passo dellePecore inizia proprio qui accanto. Garosi si era ferito,non si sa come, a una gamba con un colpo di armada fuoco. In base a un malinteso legato allecomunicazioni radio in codice, i partigiani della“Mulargia” avevano interpretato che era imminente

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uno sbarco alleato in Versilia e che sarebbe statoimportante tagliare le comunicazioni tedesche sullavia Aurelia; il giorno 9 giugno si mossero per occuparela valle di Forno e usarla come avamposto per azioninella zona di Massa. Forse era l’ottimismo dovutoalla notizia della liberazione di Roma, avvenuta il 6giugno, comunque questa voce dello sbarco(ovviamente falsa) era stata recepita anche dal C.L.N.e persino dai tedeschi della “linea gotica”.

Il paese, in quei giorni, era molto più popolatodel solito, dato che si erano spostati qui molti sfollatidi Massa. I carabinieri della stazione del paese nonostacolarono l’occupazione e, nel pomeriggio del 9,Tito Garosi insediò il comando nella caserma, mentreil grosso dei partigiani occupò la filanda. Il marescialloche accettò l’entrata in paese degli antifascisti sichiamava Ciro Siciliano, aveva il suocero e il cognatonei partigiani e anche lui è uno dei martiri di Forno,come vedremo dopo. L’occupazione si realizzò senzatensioni né violenze, nemmeno vendette contro ifascisti del posto. Questa operazione avrebbe potutofungere da catalizzatore per tutta la situazione delfronte, se solo fosse stata messa in pratica unacollaborazione con gli alleati. Il comando tedescoapprese con molta contrarietà che i partigiani eranoattestati alla base delle Apuane, davanti al mar Tirreno.

In quei 4 giorni si andava persino dicendo,con eccessiva euforia, che Forno era il primo paeseliberato, giovani e ragazzi giravano col foulard rosso,

alle finestre sventolava il tricolore … insomma, si puòparlare di una piccola e indipendente “zona libera”.Il comitato di liberazione massese si rese conto subitoche era stato commesso un errore e ordinò losgombero; furono inviati esponenti delle varie partipolitiche per convincere i partigiani a tornare sullemontagne. Ma in quei 4 giorni sembrava che le cosepotessero andare sempre meglio, i partigiani da Fornoaddirittura entrarono due volte in città a Massa perazioni dimostrative, il 10 e l’11. In precedenza, il 7avevano attaccato i depositi tedeschi a Vinca e presoarmi e munizioni. Ci furono molte diserzioni, un’interacompagnia (50 soldati) della caserma di Massaraggiunse Forno con mezzi e armi e si unì ai partigiani.Il giorno 11 giugno, nella “casa del fascio”, la stessache poi è diventata la “casa socialista”, ci fu unariunione fra alcuni comandanti partigiani della zona eil rappresentante del C.L.N. regionale toscano, venutoda Pisa: in assenza dei delegati del comitato apuano,fu confermato il Garosi come comandante unico dellevarie formazioni dell’area e l’abbandono del paese nonfu reso esecutivo, almeno fino al 13, data in cui era inprogramma la festa di sant’Antonio, patrono di Forno.

Ma non pensiamo a degli sprovveduti: unavolta resisi conto, pur avendo deciso di restare ungiorno in più, i partigiani della “Mulargia” con lacollaborazione di un’altra brigata, la “Silvio Ceragioli”si organizzarono contro la prevedibile reazionetedesca: questa seconda formazione si piazzò aCanevara per chiudere la valle verso sud, fu minato

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un costone roccioso alle pendici del colle Bizzarro,che sovrasta la strettoia. Dalla parte opposta, al passodi Colonnata, vicino alle case di Vergheto, c’era unpresidio fisso, ma era stato stabilito di far risalire allavalle agli Alberghi questo gruppo e iniziare così la ritiratada Forno la mattina del 13. Un’altra versione dice chela sera del 12 i rifornimenti non arrivarono e i partigianiabbandonarono la posizione per poche ore, scendendoa valle per nutrirsi, senza aspettare il cambio.

la batt agliaMa proprio nella notte, prima dell’alba del 13,

agli ordini del colonnello Almers, soldati tedeschi eitaliani della “Decima Flottiglia MAS” si mossero suForno; in particolare, i militi della “X MAS”, provenientida Colonnata, trovarono libero il passaggio diVergheto e scesero da quella parte mentre i soldatitedeschi risalivano la valle con camion e semoventi.Forse c’era anche la Guardia Nazionale di La Spezia,ma non è sicuro; inoltre la tradizione dice un migliaiodi soldati ma ovviamente è un eccesso: si trattava diun battaglione tedesco formato da 300 - 400 uomini,più un numero fra i 40 e i 100 italiani. È stato dettoche alle 3 fu suonato l’allarme, ma anche su questoorario ci sono discordanze, molti dicono che erano le4 e mezzo: comunque, le avanguardie tedeschefurono affrontate a Canevara dalla compagnia“Ceragioli” e le cariche esplosive furono fatteesplodere; secondo alcune interpretazioni, fu distruttala testa della colonna nazista, sepolti due camion,morti alcuni soldati tedeschi … ma in realtàl’esplosione fece cadere solo tre macigni e un po’ dipolverone e la testa della colonna fu soltantorallentata. In ogni caso, la cattiva organizzazione el’insufficienza di munizioni impose ai partigiani diripiegare; in paese, c’era una mitragliatrice a una

finestra puntata versovalle, ma la maggioranza

dei partigiani, per lasorpresa e per difetto

di addestramento,

iniziò la fuga verso gli Alberghi. Nel frattempo la “XMAS” era arrivata dal nord e alle 6 del mattinol’accerchiamento era completo; alcuni dei partigiani siasserragliarono nella filatura abbandonata, altristavano fuggendo verso le montagne.

Il comandante “Tito” si stava dirigendo dalpaese verso le case Pizzo Acuto, in direzione dellafilanda. Con una mitragliatrice, tentò di raggiungere icompagni alla manifattura accerchiata e morì sotto ilfuoco tedesco. La leggenda dice che, ferito,continuava con freddezza a mitragliare fino all’ultimacartuccia, preferendo infine togliersi la vita piuttosto checadere vivo in mano al nemico; e questo si legge sullalapide commemorativa. Pare invece che i tedeschi louccisero nell’azione, ma questo non toglie né aggiungeniente alle qualità dell’uomo e ai motivi per cui è statoinsignito della medaglia d’oro. La mattina presto, alle8,30, anche l’assedio della filanda fu terminato, ipartigiani erano riusciti a fuggire dal retro: a questo punto,Forno era stata riconquistata dai nazi-fascisti.

l’eccidioCominciò il rastrellamento: l’intera popolazione

fu obbligata a uscire di casa e radunata sulla stradaprincipale, all’inizio del paese. Gli anziani e le donnefurono portati oltre il ponte e tenuti sotto controllo daitedeschi. Intanto per i trattenuti veniva compiuta unaselezione e tutti i sospettati di essere partigiani furonorinchiusi nelle piccole celle della caserma deicarabinieri. Il giovane parroco, don Vittorio Tonarellifu mandato alla filanda per far uscire i bambinidell’asilo e le suore, dato che era in programma difare saltare in aria l’edificio, intenzione che poi nonfu realizzata. Alcune fonti hanno tramandato numeriingigantiti: 72 fucilati, 20 arsi vivi, 70 caduti in battaglia… controlleremo in seguito le cifre, anche se bisognadire: 160 morti o 70, si tratta sempre di un’ecatombe!I dati tedeschi sono ancora più esagerati e parlano di149 partigiani uccisi e 51 catturati; da parte loro, 7feriti e nessun caduto: possibile ?

… in realtà furono visti ripartire da Forno deicamion coperti di rami e foglie, forse per coprire icorpi. Più verosimilmente ci furono 6 morti fra i nazistie di conseguenza, in base al principio delladecimazione, furono portati alla fucilazione sessantaitaliani, fra disertori del distretto militare di Massa eabitanti di Forno, compreso il maresciallo Siciliano.Quest’ultimo era riuscito a fuggire verso le montagnema poi aveva deciso di tornare in paese e consegnarsiai tedeschi; dichiarò di essere stato catturato daipartigiani ma non fu creduto. Nel pomeriggio, isessanta uomini sospettati di essere partigiani furonoportati, a gruppi di 8 – 9, dalla caserma al greto deltorrente Frigido, in località Sant’Anna dove c’è unacappella. Qui venivano falciati da scariche ravvicinatee subito accatastati in una specie di fossa comune.

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Ci furono anche 4 sopravvissuti che, feriti, rimasero esanimi in mezzoai morti e dopo il tramonto furono tratti in salvo. Il giorno dopo, ilsacerdote don Vittorio fece del suo meglio per dare un’identità aquesti corpi e una sepoltura più degna. Nello stesso pomeriggio,due persone (anche se c’è chi dice venti) probabilmente ferite, eranorinchiuse nelle celle della caserma che stava andandocompletamente a fuoco.

Il tenente Bertozzi, che comandava la “Decima MAS” sidistinse per crudeltà in questo accanimento contro gli sconfitti.Questo lo dichiarano tutti, però è necessario verificare, perché restanomolti dubbi sul ruolo dei “militi” italiani in questa tragica giornata, forsedovevano solo fiancheggiare i tedeschi; nel dopoguerra, Bertozzi fuprocessato per i fatti di Forno e anche per il suo comportamentosuccessivo in Piemonte. Esattamente 50 persone (le esagerazionidicono 400) furono avviate, prima a piedi fino a Sarzana, poi sul treno,verso i campi di lavoro in Germania; tre case del paese, oltre lacaserma, furono saccheggiate e incendiate.

Prendiamo ora in esame i numeri, perché ci sono dei datiesatti, con nome e cognome: 56 fucilati sull’argine del Frigido (4 gliscampati) 10 persone erano rimaste uccise negli scontri, e fraqueste una donna e un bambino; 2 morti carbonizzati e rimastisenza nome. Il 13 giugno rappresenta in fondo la disfatta di un’azioneavventata, conseguenza di una certa impreparazione militare, erroregiustificato solo da un clima di euforia e dalla speranza nella finedell’occupazione. Sembra che la formazione partigiana “Luigi Mulargia”fosse anche logorata da contrasti interni, perché probabilmente ilmancato sgombero di Forno fu alla base di discussioni; dopo questasconfitta, rimasta senza comandante e decimata, si sciolse e unaparte degli uomini entrò nel “gruppo patrioti apuani”, formazionemassese che ebbe una parte notevole negli eventi successivi; gli altrisopravvissuti si arruolarono nelle brigate garibaldine del C.L.N. dellaVersilia; una di queste formazioni decise di prendere il nome di MarcelloGarosi e prese parte, due mesi dopo, alla liberazione di Viareggio. Sideve anche dire che il paese di Forno non si riprese da quella giornata:cinque anni dopo, c’era ancora miseria e solo il 20% aveva un lavoro.

le festeIl 13 giugno di ogni anno, il comune di Massa organizza

una cerimonia di commemorazione, in genere presso queste 4località significative: il monumento ai caduti, le case Pizzo Acuto,l’ex-oratorio di S. Anna, la vecchia filanda. Sempre nel mese digiugno, presso l’ex-cotonificio, si tengono delle mostre d’arte oppurepresentazioni di libri, ovviamente sempre di argomento antifascista.In piazza San Vittorio, da qualche anno a questa parte, si premianoi ragazzi delle scuole che concorrono, con un tema, al premio“maresciallo Ciro Siciliano”. All’interno della vecchia filanda c’è unaspecie di piccolo museo di archeologia industriale, gestito dal Parcodelle Apuane, dove si possono vedere le gigantesche turbine oltreagli strumenti di lavoro come molle, chiavi inglesi eccetera. È statoaperto nel 2009 ma adesso è di nuovo chiuso perché occorrevaun ulteriore restauro della struttura; il comune di Massa si èimpegnato per una rapida riapertura.

Accanto al ponte sul torrente, si nota la “casa socialista”,un lungo edificio con tanto di falci e martelli sulla facciata. All’internocoabitavano il “nuovo partito socialista” (col suo circolo AICS) e il

PD e il circolo ARCI, con tanto ditelevisore al plasma per vedere Sky; lasezione del Partito Socialista fu fondatanel 1900, ma adesso la porta è chiusa.Sulla parete del bar, le foto parallele di“Tito” e di Enrico Berlinguer, il quale morìesattamente 40 anni dopo (giugno 1984).D’estate, nella stagione delle sagre dipaese, Forno ospitava soltanto 2 feste“di partito”: quella del PRC, rifondazionecomunista, e quella di “Linea Rossa” unapiccola formazione, molto antagonista,che si propone di tenere in vita il partitomarxista-leninista; era la festa nazionale,da tutta Italia venivano gli “ultimicomunisti”, ma nel 2011 non si è svolta.

Nel 1993, in occasione dellacerimonia annuale del 13 giugno — unaconsuetudine per gli abitanti di Forno?Ruggero Fruzzetti e MassimoMichelucci, con il documentaristaAlberto Grossi, iniziarono intervistare lepersone che ancora ricordavano. Quelgiorno nacque l’idea di una ricercaapprofondita; i tre raccolsero ulterioritestimonianze, ricostruirono le sceneper girare un cortometraggio. Infine, nel1994, uscì il libro che è stato alla basedi quest’articolo. Oltre al citato libro -Fruzzetti-Grossi-Michelucci: «Forno 13giugno 1944»; Ceccotti editore - persaperne di più potete consultare, suInternet, il sito web del comune diMassa, quello di “resistenza toscana” einfine il sito web “Gino Lombardi”.

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Passo del Cancellino - 1966(foto C. Marinelli)

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CARLO MARINELLI

IL PASSO DEL CANCELLINOUna gita lunga sessant’anni - Storia e curiosità di un Passo

Eccomi qua. Sono arrivato al Passo delCancellino, questa bellissima sella erbosa che unisce,o se si preferisce divide, il Corno alle Scaledall’Uccelliera, col suo Monte Gennaio. Poso lo zainoa terra, mi sdraio sull’erba socchiudo gli occhi e miconcedo un riposino dopo la bella camminata fattaper arrivare qui.

Uscire dal letto, questa mattina, è stata unaviolenza che mi sono fatto ma essere qui ora agodermi questa immensa pace, che credo si trovi soloin montagna, mi ripaga di tutto. E’ impossibile, me losono chiesto spesso, ricordare quante volte sonopassato di qua, certamente tantissime, in tutte lestagioni e d’inverno con e senza gli sci.

Rammento però benissimo la prima volta cheho raggiunto questo passo. Ero in villeggiatura aOrsigna e feci questa gita con lo zio Fello (RaffaelloRomei, il babbo di Remo): era il lontano 1952. Dopoaver traversato il torrente Orsigna risalimmo ilversante Est della valle (destra orografica) pertracciati fatti dai tagliaboschi, allora non c’era unasegnaletica come oggigiorno. Salivamo in silenziomentre nella valle risuonava cupo il sibilo prodottodalla rudimentale “teleferica” che trasportava a vallela legna. Si trattava di un cavo d’acciaio teso tra ilversante che stavamo risalendo, poco sotto ilRombiciaio, e la piazza di Orsigna. Su questo cavoscorreva per inerzia una carrucola alla quale eraagganciato un carico di legna.

Arrivammo così, senza passare dalRombiciaio, alla Pedata del Diavolo doveincontrammo un pastore col quale lo zio si mise aparlare. La Pedata del Diavolo è il nome dato aun’erosione del Poggio dei Malandrini e quindi senzavegetazione arborea, che dal basso, versanteMaresca, assomigliava a una impronta tra larigogliosa vegetazione. Ora la zona è statarimboschita ed è stato costruito (1962) il rifugio delMontanaro. Dopo la “chiacchierata”, che fu anchel’occasione di un riposino, proseguimmo per la nostrameta: il Passo del Cancellino.

Qui ci fermammo a lungo, e mentre lo zioparlava con altri pastori (a quei tempi erano tanti) ioandavo su e giù per questa sella godendomi il pano-

rama delle due valli che si dipartivano da sotto i mieipiedi: la valle della Verdiana a ovest e la valle delSilla ad est. Era fantastico.

La gita proseguì verso la fonte dell’Uccelliera,Portafranca per ritornare poi a Orsigna. In quegli anninon c’era l’attuale rifugio di Portafranca ma unacostruzione, poi ampliata, del Corpo Forestale delloStato. La parte inferiore del fabbricato era lasciataaperta ad uso dei pastori quale ricovero delle pecore.Col passare degli anni maturò in me l’idea di andareda Casetta Pulledrari all’Abetone, una bella galoppataconsiderando anche il fatto che dovevo arrivare, seben ricordo, entro le 15 per prendere l’ultimo autobusper il ritorno. Una “mano” a realizzare questa idea mifu data dalla costruzione del rifugio del Montanaro,alla Pedata del Diavolo, dove c’era, e c’è tutt’oggi,un ricovero sempre aperto. Questa stanzetta, nellaquale ho passato tante notti, mi permetteva, infatti,di trovarmi all’alba già in quota.

Iniziò così il periodo delle traversate, fattecome ho detto in tutte le stagioni, da CasettaPulledrari all’Abetone e, un paio di volte, ovviamentein più giorni, fino a Carrara; sempre transitando dalPasso del Cancellino. Lasciavo la macchina aBardalone, da un meccanico che mi portava, con lasua auto, alla Casetta Pulledrari. Da qui, per ilsentiero, non c’era ancora la strada forestale,raggiungevo il Rifugio del Montanaro dove passavola notte

Lo stridio di un falco mi distoglie da questiricordi, ma solo per poco perché, come sempre, neimomenti di ozio, ritorno ai ricordi delle gite con tuttele divagazioni che via via affiorano alla mente. L’ultimavolta che sono venuto quassù è stato l’anno scorso:la meta era la fonte dell’Uccelliera, aggirando, dalpasso dei Malandrini, il Gennaio, per arrivare al passodel Cancellino e poi alla fonte. A Campo Tizzoroabbandonai la statale del Brennero e mi diressi versoMaresca.

Campo Tizzoro, come sarà stato al tempo deiromani, prima dell’era cristiana? Certamentequalcuno dei lettori si domanderà cosa centrano iromani con Campo Tizzoro ma assicurano studiosi estorici che questo paese, ora attraversato dalla statale

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del Brennero, una volta era aperta campagna, ungrande vasto pianoro che fu testimone della morte diCatilina.

Catilina, ribelle contro Roma, entrato interritorio Pistoiese da quello Fiesolano (quandoancora Roma non aveva fondata la colonia fiorentinache tolse a Fiesole parte del suo territorio) trovò, pro-

prio qui, a sbarrargli la strada, le legioni di Q. MetelloCelere accorso a fermare l’avanzata del ribelle versoil Nord. Come dice il Repetti nel suo Dizionario FisicoStorico della Toscana del 1843 (volumi che si trovanonella biblioteca I. Cocchi del Club Alpino Italianosezione di Firenze) “Cotesta via (la Strada Ximenes-Giardini più conosciuta come la statale del Brennero)inoltre io credo che passi in mezzo al fatale campo

C. Marinelli con lo zio Fello al Passo del Cancellino - 1955(foto R. Romei)

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ove Catilina ribellatosi ai consoli di Roma con tutto ilsuo esercito lasciò la vita (era il 62 a.C.).-Molti furonogli scrittori che in più tempi ed in più luoghi conSallustio alla mano ricercarono dove mai potevaessere quel campo di battaglia; ma, se io nonm’inganno a partito, altra località più confacente alleparole dello storico romano mi si presenta fuori diquella che all’occhio del passeggero offre la stradaregia modenese lungo il vallone della Maresca, dov’èla ferriera del Mal Consiglio, fra Ponte Petri ed ilpoggio del Bardellone, vallone circoscritto dal lato disett. dai monti del Crocicchio e dell’Orsigna, e dallaparte di ostro da quelli della Capanna di Ferro e delBagno. – Termina quel piano, scriveva Sallustio, damano manca nei monti, mentre dal lato destroimpedito da una montagna discoscesa.”

Altri studiosi, cercando naturalmente diinterpretare gli scritti di Sallustio, Cicerone, Plutarcoe altri, hanno formulato varie tesi su dove fosseavvenuta questa battaglia . Nella prefazione dellaGuida “Cutigliano e dintorni” di Lilla Lipparini del 1961(Biblioteca I. Cocchi-C.A.I. Sez. Fiorentina) un cennostorico di Vittorio Pizza analizza le ipotesi di variscrittori fatte sulla descrizione di Sallustio e concludedicendo che Sallustio ” …è l’unico storico dell’epocadi Catilina che ha descritto la famosa battaglia” e percui ” … considerando la descrizione Sallustiana (dellabattaglia) alquanto vaga, dobbiamo dire che CampoTizzoro è l’unico piano in cui è possibile sia accadutolo scontro, anche se non è probabile”.

Ma pensa, mi dico mentalmente, quanta storiaracchiudono questi luoghi; nel nostro paese non si faun passo senza calpestare la storia. Anche dove mitrovo adesso è passata la storia, antica e più recente.Per esempio, Passo del Cancellino! E’ senz’altro unnome un po’ particolare per un passo di montagnama c’è ovviamente il suo perché.

La montagna Pistoiese, com’è noto, hasempre avuto la tradizione per l’allevamento di cavalli(anche oggigiorno) e questi luoghi, la valle delVerdiana e la parte alta del Teso erano pascoli riservatiagli allevamenti dei cavalli del granduca. Per evitareche i puledri scappassero nel modenese o altrientrassero a pascolare in questa “riserva” fu creata,proprio qui al passo una recinzione con un piccolocancello: il Cancellino, appunto. Altri nomi ricordanoquesta tradizione dell’allevamento di cavalli come peresempio la Casetta Pulledrari o più precisamenteCasetta de’ Pulledrari. Era questa, a quei tempi,l’abitazione degli addetti ai cavalli (alle “rege razzecavalline”) che nel periodo estivo venivano portati apascolare in montagna mentre nel periodo invernalevenivano tenuti nella tenuta di Coltano a San Rossore.Questa storia “recente” si sovrappone a un’altra piùantica, se non antichissima.

Da qui passava l’antichissima Via diLombardia che dalla Nievole,dopo aver oltrepassatoCampore, Casore del Monte, Prunetta, Gavinana,Maceglia, Poggio dei Malandrini, Passo della Nevaia,giungeva al Passo del Cancellino. Poi proseguendoper il Passo dello Strofinatoio raggiungeva il Cavone,il Passo del Lupo, il lago di Pratignano, Fanano earrivava fino a Piacenza. Sembra che questa “strada”,usata anche dai Romani prima della costruzione dellaVia Emilia (187 a.C.), ricalcasse il tracciato di unavia di caccia risalente niente di meno che al PaleoliticoMedio.

Ma torniamo alla mia gita. OltrepassaiMaresca e godendomi la magnifica foresta del Tesoarrivai alla Casetta Pulledrari dove lasciai l’auto. Daqui m’incamminai verso il rifugio del Montanaropercorrendo la parte alta della foresta del Teso. IlRepetti, nel suo Dizionario Fisico Storico dellaToscana esaminando la situazione arborea della zona

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scrive: “Una delle foreste piùcospicue di questa montagna è labandita delle RR. Possessioni delTeso, una parte della quale èdestinata per la razza dei cavalli el’altra per le pecore merinespagnole, mentre i poggi superiorisono ridotti a foresta per impedireil discoscendimento de’ terreni elasciare un vasto manto contro leburrasche ed i venti alle pastureinferiori. Oltre di ciò nel cosiddettoMonte Grosso è stata fatta direcente una piantagione di Larici(circa 4000) tutti messi da setteanni un qua per esperimentare seper mezzo di questa specie dilegname si poteva rivestire quellagrande superficie di montespogliato.La qual piantagioneavendo ottenuto un felice risultatoha fatto si che nel presente anno1843 si sono cominciate sementein grande di detti larici”.

Camminavo lentamente, eramolto presto, faceva abbastanzafresco, era piacevole camminare.Nel soffermarmi a riprendere fiato,

immerso in questa magnifica “foresta” di faggi mivennero alla mente i versi che scrissi tempo fasalendo a Monte Senario.

Ripetendomeli mi convinsi si addicesserobene anche in questo luogo, basta essere dispostiad apprezzare ciò che ti circonda:

Dalle cime degl’alberi che il solegià riscalda, si mandano i richiamiuccelli vari, e le loro parole,che intender non so, passan tra i rami.

Dal dolce canto così accompagnatosalgo verso il Monte nella frescura,il sole non è nel bosco penetratoe la salita appare meno dura.

Odo rintocchi venir dal Sacro Monte,chiamano al mattutin ringraziamento;dicon vieni, abbassa la tua frontedinanzi al creator del firmamento.

Fermo l’andare per meglio ascoltareil canto che nell’aere si diffonde;verso la valle mi volto per guardarel’immenso bel creato che mi confonde.

( AL MATTINO - Marinelli 1/7/2010)

Questi ricordi con divagazioni storiche sonointerrotti da un certo languorino allo stomaco, apro ilsacco e addento un saporito panino. Mi alzo, sonocome sospeso tra due vallate: quella della Verdianae quella del Silla, nel Bolognese. Mi siedo su unvecchio cippo di confine. Tra un morso e un altro unflash: ma questa pietra sulla quale sono seduto è unpezzo di storia! Questo cippo confinario, infatti, risaleal 1789 anno in cui, come si legge nel QUADROGEOGRAFICO – STATISTICO DEL COMPARTIMEN-TO DI PISTOIA” del 1839 a cura del P.P. CONTRUCCI(BIBLIOTECA I. COCCHI – C.A.I. Sezione Fiorentina),“furono fissati i confini stabiliti dall’”istrumento dirinnovazione e stabilimento di confine, descrizione dellaLinea sei Termini, e rispettive convenzioni, per la PrimaParte della confinazione fra la provincia di Bologna,Stato Ecclesiastico e il Granducato di Toscana…”

Ma torniamo ad oggi. Sono salito quassù perun’altra strada: passando da Maceglia. E’ questo unmagnifico tracciato che, partendo dalla CasettaPulledrari, sale dolcemente nella Foresta del Teso versoMaceglia, un valico che mette in comunicazione con lavalle del Verdiana, un torrente che nasce in alto, sotto ilpasso del Cancellino. Da qui pensavo di vedere levecchie case Mandronini e i pascoli dove una volta,d’estate, venivano a pascolare i puledri del granduca,ma la fitta vegetazione mi ha impedito la visuale. Questevecchie case, oggi ricostruite più in basso, dettero ilnome “ufficiale” a questo passo. Nel documento relativoalla posa dei cippi confinari, già citato, il passo eradenominato “Cancello dei Mandromini” ma Cancellinoha prevalso su quello ufficiale.

Ora basta pensare, devo ripartire se voglioarrivare al Conio, di cui ho parlato altre volte, dovemi attendono gli amici. Sacco in spalla comincio ladura salita che mi porterà al passo dello Strofinatoio,che divide il Cornaccio dal Corno alle Scale.Strofinatoio? Ecco un altro nome particolare. Sembrache il nome derivi dal fatto che i muli, carichi di mercedi contrabbando, a causa dello stretto sentiero,strofinassero il carico contro le rocce. Sono in cima.Altre vallate si aprono ai miei occhi, vallate,sicuramente ricche di tanta storia.

in alto:una vecchia carrucola per il trasporto legna

(foto C. Marinelli)

nella pagina a fianco, in alto:C. Marinelli e lo zio Fello alla Pedata del Diavolo

(foto R. Romei)

in basso:Carta dei confini - P. P. Contrucci - 1839

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Il Passo Falzarego com’era(www.genteviaggi.it)

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STEFANO SACCARDI

THEODOR CHRISTOMANNOSovvero da Bolzano a Cortina d’Ampezzo e a Dobbiaco

Chi percorre il sentiero 549 a quota 2.349 m.che dal Rifugio Fronza alle Coronelle porta al RifugioRoda di Vael, poco dopo il Rifugio Paolina, si ritrovaai piedi del Catinaccio dove è posta una gigantescaaquila reale bronzea sul ciglio del sentiero con losguardo rivolto verso la sottostante strada statale. Sitratta del monumento costruito in memoria di TheodorChristomannos; piccola curiosità: anche una torre delLatemar alta 2.800 m. porta il suo nome.

Il Signor Theodor Christomannos grazie allasua geniale e lungimirante intuizione di costruire lastrada che collega Bolzano con Cortina e Dobbiaco,attraversando le valli dolomitiche, è diventatoprotagonista della storia della Ladinia: si tratta dell’exstrada statale 48 delle Dolomiti ( SS 48).Chistomannos nacque a Vienna il 31 Luglio 1854 dauna nota famiglia di origine greca. Nel 1883 si trasferìa Merano, dove esercitò la professione di avvocato,ma la sua vera passione era la montagna, e perquesto motivo accettò di diventare il segretariodell’allora DOV (Deutsch OsterreichischerAlpenverein) il Club Alpino austro tedesco.

Intuendo le prospettive del turismo per lepopolazioni delle zone alpine fondò l’associazione“Verein fur Alpenhotels” connubio che promuovevala realizzazione di hotel nelle località montane. Unodei più prestigiosi alberghi della zona di quell’epocadove trascorse le vacanze è stato il Grand HotelCarezza al Passo di Costalunga, situato nei pressidell’omonimo lago; ospiti illustri come la PrincipessaSissi, moglie dell’Imperatore Francesco Giuseppefurono clienti del sopracitato hotel divenuto oggi unamultiproprietà. Christomannos intuì, inoltre, chel’utilizzo dei territori montani poteva avvenire soloattraverso la valorizzazione del paesaggio e lacreazione di un’adeguata rete viaria. Sollecitò lacostruzione delle prime vie di comunicazione, la suadeterminazione unita ai suoi buoni rapporti con iministeri di Vienna fece si che le sue idee siconcretizzassero. Morì improvvisamente a Merano il30 gennaio 1911 ad appena 57 anni.

A lui dobbiamo un ringraziamento per averreso celebre il territorio dolomitico. Chi frequenta oha frequentato le Dolomiti, non può non aver percorsoper intero o a tratti la “Grande Strada delle Dolomiti”

che da Bolzano porta fino a Dobbiaco passando perla Val d’Ega, il Passo di Costalunga, la Val di Fassa,il Passo Pordoi, Livinallongo, il Passo Falzarego,Cortina d’Ampezzo e poi per Podestagno al cospettodella magnifica Croda Rossa, il Passo di Cimabanchee la Valle di Landro a Dobbiaco in Val Pusteria.Bastano questi nomi a evocare i più importanti gruppidolomitici che si affacciano sulla SS 48. Al suo centrola “Regina delle Dolomiti” la Marmolada; infatti la SS48 è la via più breve da Bolzano alla Marmolada, lacirconda con una larga curva verso settentrione perpoi dirigersi verso Cortina.

Dalla “Grande Strada delle Dolomiti” siramificarono tutte le principali vie di comunicazione:presso Arabba la strada di Marebbe proveniente, perBrunico e San Lorenzo, dalla Pusteria valicando ilPasso di Campolungo; la strada della Val di Fiemme,la quale salendo da Ora e da Egna prosegue perCavalese e Predazzo verso Moena per entrare nellaSS 48 dopo essersi congiunta con la strada da Feltre- Primiero - San Martino di Castrozza - Passo Rolle;la strada di Alemagna proveniente da Belluno. E tantealtre ancora come la strada della Val Gardena daChiusa per Ortisei e poi verso Marebbe per il PassoGardena oppure verso Canazei e la Val di Fassa peril Passo Sella; la strada da Bressanone a San LorenzoVal Badia per Afers; la strada di Sesto per il MonteCroce e altre importanti e note con le quali sono statecompletate la rete stradale delle Dolomiti e collegatifra loro tutti i punti principali della regione dolomitica.Una girandola di nomi e località famose possonoessere evocate parlando della Grande Strada delleDolomiti: la Val d’Ega, il Latemar e il Lago di Carezza,i Gruppi del Catinaccio, del Sassolungo e del Sella,la Marmolada, le montagne di Cortina, le Tre Cime diLavaredo, insomma tutta la bellezza dell’incantevolepaesaggio dolomitico.

L’opera stradale benché complessa superagrandi difficoltà e raggiunge straordinarie altezze confacilità e talvolta eleganza. In media la pendenza èdel 6,5 per cento. Da Canazei al Passo Pordoi in 12chilometri supera un dislivello di m. 779; nellasuccessiva discesa verso Arabba in 10 chilometri m.630. L’ascesa del Pordoi consta di 61 curve conraggio minimo delle curve di m. 10. Da Livinallongoal Falzarego la strada supera un dislivello di m. 642,

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e dal Falzarego a Cortina m. 893. La spesacomplessiva dei lavori ammontò a oltre due milionidi corone.

I lavori nel tratto del Pordoi iniziarono nel 1904e furono ultimati nel 1907; il tratto dal Falzarego aCortina fu inaugurato nel 1909. La Direzione dei Lavorifu affidata al consigliere Von Ritt e agli ingegneri Greile Maier. Collaborarono anche gli ingegneri Dal Lago,Maser, de Riccabona e Riehl.

Benchè la SS. 48 non raggiunga l’altezza diquella dello Stelvio (m. 2.760 che conta ben 48tornanti sul versante altoatesino e 36 su quellolombardo), progettata dall’Ing. Carlo Doneganisempre agli inizi del XIX secolo nella parte occidentaledell’Alto Adige, può tuttavia competere per bellezzacon quella che fu detta la più incantevole e alta stradad’Europa. Fu così che l’Italia ebbe una delle piùattraenti e originali strade alpine del mondo. All’epocadella costruzione era percorribile in carrozza, maanche a piedi, se buoni camminatori, in tre giorni iltratto Bolzano – Dobbiaco e cioè: il 1° giorno daBolzano per il Passo di Costalunga a Canazei (km.51), il 2° giorno da Canazei per il Passo Pordoi aLivinallongo e per il Passo Falzarego a Cortina (km.61), il 3° giorno da Cortina a Dobbiaco (km. 30), oviceversa, nulla a che vedere con i mezzi di trasportoodierni.

Più percorso più volte questa strada, in unsenso o nell’altro, sia nella sua totale lunghezza cheper brevi tratti e la parte che mi ha sempre piùemozionato è senz’altro il primo tratto da Bolzano.Cioè da Cardano, nei pressi di Bolzano per la Vald’Ega, che offre delle attrattive di primissimo ordine.Pareti rocciose gigantesche danno un aspetto cupoa una stretta gola, attraverso la quale fra colossalimassi discende il torrente. Passando su ponti, galleriee tra rocce a strapiombo, la strada sale ripida tra lepareti di porfido quasi verticali. In questa prima partetroviamo il Castello di Carnedo che si erge su unosperone roccioso all’ingresso della Val d’Ega, da quisi possono osservare le prime maestose vette delleDolomiti, le vette del Col Cornon, nel gruppo delLatemar, fino a giungere al capoluogo della valle NovaLevante che si trova sul pendio della collina più altad’Europa e posta in una delle posizioni più stupendedelle Dolomiti ai piedi del leggendario massiccio delCatinaccio e del Latemar.

Non è di meno rilevanza il leggendario laghettodi Carezza chiamato anche “lago dell’arcobaleno” peril suo stupendo colore. Salendo dal Passo diCostalunga al Rifugio Paolina la vista spazia oltre chesui gruppi rocciosi del Latemar e del Catinaccio, suipendii del Passo di Lusia, il gruppo del Cimon dellaPala e della Marmolada.

Difficilmente oggi chi percorre questo tragitto,famoso in tutto il mondo, si rende conto di quanto siastata geniale ed innovativa l’idea di Christomannosdi tracciare questo perorso. Al tempo della costruzionela Strada delle Dolomiti era parte dell’Impero AustroUngarico che modernizzò e utilizzò al meglioquest’angolo tra i più nascosti del proprio territorio.L’Europa aveva un assetto diverso da quello odierno.La costruzione dell’opera si svolse in un tempo diprofondi mutamenti. Nascevano le linee ferroviariesul Brennero e nel territorio di Dobbiaco e, dove laferrovia non poteva superare i valichi alpini, furonocostruite le strade. Allo scoppio della Prima GuerraMondiale l’Italia si schierò contro l’Austria, fu subitochiara l’importanza militare della Strada delle Dolomitiche rappresentò l’asse portante e fondamentale peri vari trasporti di materiali e militari e delle forzearmate.

Dopo la Grande Guerra, la strada divenneproprietà dell’Italia come tutto il sud Tirolo e con essola regione dolomitica. L’importanza militare dellastrada andò svanendo ed essa divenne un’importantearteria che favorì lo sviluppo economico della regione.Il turismo alpino, già fortemente sviluppato in Aus-tria, ebbe così un formidabile sviluppo anche in Italia;tranquilli villaggi di montagna si trasformarono negliodierni splendidi centri turistici. La Seconda GuerraMondiale toccò le Dolomiti molto marginalmenteverso la sua conclusione, e non compromise losviluppo economico della regione.

Negli anni del boom economico, che portòbenessere e sicurezza finanziaria, il turismo nellaregione dolomitica raggiunse aspettativeinimmaginabili, consolidate poi alla fine del XIX secoloe agli inizi del XX. Forse neppure Chistomannosavrebbe potuto prevedere, nel 1909, quello chesarebbe accaduto nelle Dolomiti nel volgere di pochianni. E’ certamente a lui che va riconosciuto il meritodi avere avuto l’intuizione che questa strada avrebbepotuto rappresentare, e a lui siamo debitori per glisplendidi scenari che di volta in volta appaiono ainostri occhi quando percorriamo questa spettacolarestrada. Erano queste le basi per un razionale sviluppoeconomico della regione. Sportivi dello sci, alpinisti eturisti di ogni parte d’Europa compresero quantofossero accoglienti le strutture alberghiere.Christomannos comprese che il nascente turismoalpino aveva bisogno di pubblicità: si potevanorileggere le imprese degli alpinisti negli annuari e nellepubblicazioni delle associazioni alpine, ma eranecessario un vero giornalismo alpino su quotidianie settimanali a larga diffusione.

Una promozione, questa, che avrebbefinalmente coinvolto persone che disponevano diquelle grandi risorse economiche necessarie allo

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Val d’Ega, primi del 900(www.provincia.bz.it)

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sviluppo delle valli dolomitiche. TheodorChristomannos fu l’artefice indiscusso dellatrasformazione di questo territorio, fino a quel temponon certamente florido dal punto di vista economico.La terra calcarea non era feconda e la scarsaeconomia agraria bastava solo alla sussistenza, nonsi poteva ricavare molto dai pascoli pietrosi dove, dasempre, incombeva il pericolo di frane e smottamenti.Là dove pascolavano mucche da latte oggi vi sonoimpianti sciistici di primissimo livello mondiale.

Il nascente alpinismo aveva scoperto, in primoluogo, le montagne delle Alpi Occidentali. Nel 1876era stato scalato per la prima volta il Monte Bianco ealla metà dell’800 erano stati fondati i primi Club Alpini.Giunse il tempo delle grandi scalate, il tempo deicelebri alpinisti e scalatori, guide alpine, il tempo deiprimi rifugi, gli albori degli sport sciistici. Nasceva lacultura della montagna e del suo utilizzo, il nuovosecolo si affacciava prepotente con i suoi straordinaricambiamenti.

Gli inglesi per primi scoprirono il fascino dellescalate sulle crode dolomitiche. E così le Dolomitifinirono in primo piano: ferrovie e strade rendevanopraticabile il territorio quasi inaccessibile in passatoe nomi come John Ball, Emil Zsigmondj e PaulGrohmann fecero la storia alpinistica di questemontagne.

Guide come Dimai, Tita Piaz e Innerkofler nonfurono da meno e anzi furono importanti per avviaree consacrare l’alpinismo italiano.

Per l’alpinismo, che doveva diventareelemento portante per il nascente turismo, eraassolutamente necessario trovare il sistema perorganizzare e disciplinare questo flusso semprecrescente di appassionati, ai quali dovevano esseregarantiti alti livelli di standard alberghiero. Eranecessario in buona sostanza inventare “ex novo” ilturismo e tutte le sue infrastrutture. Chi oggi soggiornanelle Dolomiti può forse solo immaginare come siastato faticoso trasformare questo paesaggio, a suotempo quasi inaccessibile, in un parco naturale ingrado di soddisfare le esigenze e aspettative di tutticoloro che amano l’avventura.

Theodor Christomannos è consideratounanimemente l’uomo che aprì questi luoghi alturismo e all’attenzione del grande pubblico. NelSettembre 2009 in omaggio ai 100 annidell’inaugurazione del collegamento che rendevaaccessibili le valli tra Bolzano e Dobbiaco, fuorganizzato un corteo di auto d’epoca che ripercorsel’itinerario sino a Cortina. Circa trentacinque veicoliparteciparono all’iniziativa promossa dal Cortina CarClub. Insieme a loro viaggiò anche un esemplare diCorriera delle Alpi, per una rievocazione che aveva

In questa pagina e nell’altra. alcune cartoline d’epoca

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poco di alpinistico ma che di certo ricordò uncambiamento storico. Il corteo percorse la strada delleDolomiti in tre giorni, con tappe di circa trentachilometri l’una. Un tour di quasi 110 chilometri cheattraversò il Passo di Costalunga, il Pordoi, ilFalzarego, salendo sino a quota 2.000 e costeggiandole cime delle Tofane, del Lagazuoi, sino a sfioraretutti i gruppi montuosi più ammirati della zona, dalCristallo alle Cinque Torri. I veicoli furono scelti perrappresentare un po’ tutti i decenni dal 1909 al 2009,dagli esemplari di inizio secolo sino ad alcune Ferraridi pregio.

I festeggiamenti del centenario partironovenerdì 11 Settembre a Bolzano. Gli equipaggi delleauto coinvolte partirono per Vigo di Fassa dovesostarono per la prima tappa del corteo. Sabato 12 ilcorteo riprese il viaggio verso Canazei e arrivò poi aArabba. Domenica 13 i veicoli fecero da scorta aimille ciclisti della Gran fondo Stars – Frw – Weber,una corsa per gli amanti delle due ruote che partìquella mattina alle 9,30 da Arabba.

Per l’occasione ci fu anche un corteo dibiciclette storiche a cura dell’Associazione “L’eroicaciclismo storico” di Siena.

Le automobili si fermarono al Passo delFalzarego e arrivarono fino a Cortina. Fu fatto ancheun concorso che premiò l’auto più rappresentativadel corteo.

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Veduta del Popocatepetl (mt. 5.452)salendo l’Iztaccihuatl (mt. 5.300)

(foto C. Labardi)

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In Messico sono presenti circa quindici vulcaniche si innalzano oltre i 4.000 metri di quota. Ben tresuperano i 5.000 metri e precisamenteil Pico de Orizaba (mt. 5.700), il Popocatèpetl (mt.5.452) e l’Iztaccihuatl (mt. 5.300).

Da sempre, ed anche per un fattore estetico,sono attratto dai vulcani. In Europa sono salito congli sci sull’Etna (mt. 3.317), peraltro in inverno, nelCaucaso ho salito l’Elbrus (mt. 5.165), in Turchial’Ararat (mt. 5.165), in Africa il Kilimangiaro, arrivandoall’Uhuru Peak (mt. 5.895) dopo avere percorso ilbordo di gran parte della caldera che accoglierebbesecondo la leggenda il tesoro di re Salomone, in Ec-uador ho salito il vulcano Pichincha vecchio (mt.4.794), vicinissimo a Quito mentre il Pichincha nuovoè vietato perchè ancora attivo, l’Illiniza Norte (mt.5.116), il bellissimo Cotopaxi (mt. 5.900), ritenuto ilvulcano attivo più alto del mondo, ed infineil Chimborazo (mt. 6.310), la più alta montagna delmondo se misurata dal centro della terra.

Fino all’ultimo sono stato incerto se partire omeno a causa di un versamento al ginocchio sinistrocausato forse da un superallenamento (ricerca difunghi porcini quasi a giorni alterni nelleforeste Casentinesi,in Pratomagno, al Corno alleScale sopra Segavecchia, nella valle del Sestaione edello Scesta, su ripidi pendii, spesso resisdrucciolevoli dalla pioggia). Grazie alle cure ed aiconsigli di un amico e collega ortopedico del CTO,dopo un netto miglioramento ho deciso di partire perquesta spedizione.

Agli ordini di Claudio Schranz, guida alpinadi Macugnaga, che già conoscevo, avendo fatto conlui una spedizione in Bolivia con salita delPequeno Alpamayo (mt. 5.400) e dell’Uayna Potosi(mt. 6.088) hanno fatto parte della spedizione, oltreal sottoscritto, anche Francesca Schranz, figlia diClaudio, Ugo Nardelli, viareggino, coordinatore delgruppo Amici della Montagna di Camaiore,Stefano Lusvarghi di Genova che era stato assiemea me in Ecuador e Patagonia, Teo Kosaraz diBressanone,conosciuto anche lui in Bolivia,Claudio Alotto e Mariuccia Querio della Val di Susa,tre svizzere del Canton Ticino :Anna Moschini,Marilena Mozzettini e Carla Albertoli alla sua prima

CARLO LABARDI

VULCANI DEL MESSICO

esperienza, Elettra Merlini di Varese, grande amicadi Silvio “Gnaro” Mondinelli, Matteo Pinzio suocompagno milanese, Algherio Origoni, Silvio Polita,Giovanna Cerutti di Omegna,maratoneta con unpersonale di 36 minuti per mille metri di dislivello einfine un simpatico romano Alberto Conti,accompagnatore del CAI di Tivoli.

Partiti da Milano Malpensa, dopo uno scalo aMadrid (di questo volo ricorderò soprattuttol’atterraggio con vista in tempo reale della pistailluminata che si avvicinava, proiettata su unoschermo e ripresa da una webcam posta sul tettodella coda dell’aereo; era la prima volta che vedevoquesto spettacolo), siamo atterrati a Città del Messicoalle sei del mattino, dopo una transvolata atlanticanotturna in virtù del fuso orario, fortunatamen-te assieme a tutti i nostri sacconi. In Messico ci siamoappoggiati all’ItalianTrek di cui è responsabile unaguida italiana, Franco, trasferitosi in Messico daqualche anno e che, sforzandosi d’introdurre in questopaese una cultura alpinistica, si impegnanell’organizzazione di corsi per accompagnatori dialta quota ed abbozzando anche un soccorso alpinoche in Messico non esiste.

Dopo un giorno e mezzo dedicato al turismo,nel primo pomeriggio viene Franco con due grossifuoristrada dove carichiamo i nostri sacconi, i viveri,molta frutta ed acqua in damigiane e bottiglie perportarli al Rifugio Nevado de Toluca (mt. 3.600). Cipresenta il suo vice che fungerà da cuoco,un omonedalla faccia simpatica di nome Gimmy ,che simostrerà in seguito gentilissimo e sempre disponibile.Dopo aver superato quasi a passo d’uomo il trafficocaotico di Mexico City e la periferia caratterizzata dabaraccopoli simili a vespai imbocchiamo l’autostradae superiamo un valico a 3000 mt. di quota.Facciamo rifornimento, ci fermiamo per unospuntino a base di focaccia di patate con dentro delformaggio e dopo essere passati dalla periferiadi Toluca, 80 km ad ovest di Città del Messico,avvistiamo il vulcano spento che progressivamentesi avvicina, per poi entrare nel Parque Natio-nal Nevado de Toluca. Dopo pochi chilometriarriviamo al rifugio, non custodito, che dall’esterno sipresenta accogliente, tetto rosso in lamiera e beninserito nel contesto del verde dei pini con alle spalle

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l’elegante cima del vulcano di roccia scura chediventa rossa al tramonto, mille metri più in alto didove ci troviamo noi.

All’interno del rifugio la delusione è grande.Ci sono due stanzoni ciascuno con un grosso caminoal centro, ed ai lati camerette a quattro posti conletti a castello, molti senza materassini, manca untavolo per mangiare, poche le sedie, WC fatiscente senzaacqua per cui saremo costretti ad andare fuori.Accendiamo subito il grosso camino centrale per scaldarel’ambiente, freddo ed umido. Per la salita al vulcano,Franco insiste nel dire che dobbiamo bere almeno quattrolitri di acqua a testa, acqua purificata della loro damigiana,evitare assolutamente di bere acqua del rubinetto obevande con ghiaccio. Cominciamo così adingurgitare liquidi: the negro, the alla camomilla,bicchieroni di acqua dove mettiamo dentro polvereenergetica e frutta, soprattutto arance. Ma occorre anchecombustibile per carburare ed ecco che vengono cottidegli spaghetti, di cui a ciascuno toccherà un gomitoloappallato, quindi del formaggio locale e del pane incassetta. Meno male che c’è la scorta di Claudio e da unbidone di plastica esce magicamente fuori delformaggio Walser. Formaggio di Macugnaga dal sapore

di gorgonzola, salame, parmigiano reggiano especk quest’ultimo portato da Teo. Poi, finalmente, entronel mio sacco a pelo.

Il tempo è bellissimo. Facciamo colazione, poipartiamo con un fuoristrada che ci porta fino a quota4.000 mt. Fa freddo, cominciamo a risalire un pendiosu tracce di sentiero e già ci rendiamo conto di chiha più birra in corpo, il gruppo infatti si allunga. Dopocirca un’ora arriviamo su una cresta che in praticacorrisponde al bordo del cratere del vulcano; ed ineffetti notiamo dalla parte opposta in basso duebellissimi laghetti di acqua azzurra,il Sole e laLuna,dove recentemente l’archeologia subacquea hascoperto vari oggetti offerti alle divinità della pioggiadai sacerdoti aztechi. Iniziamo a percorrere la vianormale alla vetta del vulcano, dapprima suuno spallone largo e sabbioso che poi si assottigliafino a divenire una cresta rocciosa che, in breve, siimpenna. Con facile arrampicata, facendo attenzionea non muovere pietre prendiamo quota ed alle 11,30siamo in vetta a 4.630 mt. Si è trattato di unapasseggiata per acclimatarsi, ma sono contento,perchè non ho faticato, non accuso la minima cefaleae soprattutto il ginocchio sinistro non mi fa male.

sopra: Uno dei laghi della Caldera del Nevado Tolucanella pagina a fianco: la cima del Pico de Orizaba (foto C. Labardi)

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Al ritorno ci ricompattiamo con il gruppo che erasceso ai laghetti e ripresi i fuoristrada torniamo alrifugio Nevado de Toluca

Ripartiamo dal Refugio Nevado de Toluca perportarci, dopo aver di nuovo costeggiato la periferiadi Mexico City, all’incantevole pueblo di Tepoztlan,dove sarebbe nato il rivoluzionario Emiliano Zapata,a 1.700 mt. di quota e circondato da imponenti rupifrastagliate dove per tenerci in allenamento siamosaliti alla piramide azteca di Tepoztec costruita incima ad una rupe. Di nuovo in auto fino alla cittadinadi Amecameca situata ai piedi dei duevulcani Popocatepetl ed Iztaccihuatl. Al mattino riescoa vedere per la prima volta l’imponente moledel Popocatepetl che fuma, 3.000 mt. .sopra di me.Ancora un fuoristrada, raggiungiamo in un’ora il Pasode Cortez (mt. 3.650) che si trova tra il Popocatepetl asud (mt. 5.452) che significa “montagna fumante“ el’Iztaccihuatl (mt. 5.300) “vergine dormiente“,rispettivamente seconda e terza vetta del Messico.Il Popo uno dei più bei vulcani del mondo,presenta una intensa attività eruttiva e per questomotivo da 15 anni è fatto divieto di salirlo,mentrel’Izta è un vulcano spento, privo di cratere e puòessere salito. Ripartiamo da Paso de Cortez eraggiungiamo il rifugio Altzomoni a 3.950 mt. di quota.Ci sistemiamo in due stanzoni con letti a castello,fortunatamente il rifugio è fornito di WC.

Fuori, frattanto, il tempo è peggiora-to,sta nevischiando e non riusciamo a vedere le vettedei vulcani, le previsioni meteo non ci incoraggiano,è in arrivo una perturbazione artica. Prepariamo lozaino per la salita, i ramponi non dovrebbero servire,la notte porta cielo stellato e la luna piena.

Dopo la sveglia e la colazione,carichiamo tuttosui fuoristrada e ci portiamo a La Joya. Il tempo èbellissimo, il cielo pieno di stelle, non c’è vento, nonfa freddo. Partiamo con le frontali, Franco imprimesubito un’andatura piuttosto sostenuta su tracce disentiero per cui il gruppo subito si divide in tre: c’èquello di testa, più veloce, uno intermedio di cui faccioparte anche io e quello di coda più lento. Bellissima. laveduta in basso delle luci di Puebla e verso sud,dietro le nostre spalle, l’imponente sagoma scuradel Popo che fuma. A circa 4.700 mt. troviamobivacco fisso a quota, è ancora buio, beviamo emangiamo qualcosa. Ripartiamo. Entriamo in uncanalone ripido, dapprima sabbioso, che risaliamocon fatica. Raggiungiamo i 5.000 mt. di quota alsorgere del sole, siamo alle ”Rodillas”. Da qui allavetta ,il petto,”El Pecho” ci vorranno ancora 3 ore. Misento piuttosto stanco, ma decido di proseguire.Scendiamo ad un colletto, poi un pendio di ghiacciocui segue una cresta nevosa e quindi il tratto ripidofinale Alle 10 sono sul punto più alto della verginedormiente, “El pecho”, 5.300 mt di quota.

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Abbraccio Carlos e tutti gli altri che mi hannopreceduto, Franco, Giovanna, Ugo di Viareggio,Marilena, Stefano, Claudio della Val di Susa. Indiscesa incontriamo Claudio Schranz con suafiglia Francesca che vogliono anche loro raggiungerela vetta. Scendiamo veloci,intorno ai 4.400 mt. diquota incontriamo un gruppo di canadesi che stannosalendo e pernotteranno al bivacco fisso perraggiungere la vetta domani. Alle 14, dopo 12 ore,siamo di nuovo al fuoristrada.

Dopo un paio di giorni di trasferimentoraggiungiamo il rifugio Piedra Grande (mt. 4.200) sulversante Nord della montagna da dove inizia la via disalita normalmente seguita. La giornata èbellissima, c’è sole. Il rifugio è piccolo, siamo piuttostopigiati. Nel pomeriggio, io e Teo, facciamo un pò didislivello lungo la morena che porta al ghiacciaio,incontriamo due tedeschi che stanno scendendo. Teochiede loro in tedesco informazioni sulle condizionidella montagna e ci dicono che la neve in alto è dura,quasi ghiaccio, domani vedremo sul posto se quantodetto è vero. Torniamo al Rifugio, assumo molti liquidie mi caccio nel sacco a pelo, la sveglia è prevista a

mezzanotte. Il cielo è stellato. Partiamo all’oraprevista, saliamo con le frontali per tracce di sentiero,una faticosa morena, e dopo un’ora incontriamo laneve .A 4.700 mt. di quota ci mettiamo i ramponi,prendiamo la piccozza e mettiamo i bastoncinitelescopici nello zaino, non fa moltofreddo comunque siamo sotto zero. A 4.900 mt. diquota mettiamo piede sul ghiacciaio Jamapa, la neveè ottima e i ramponi mordono quanto basta,non cè ghiaccio. Saliamo su pendii a 45°, aggirandoalcuni crepacci, l’alba è bellissima, mi sento bene, sononel mio ambiente preferito. Si è alzato un ventoabbastanza forte, la salita sembra non finire mai, peròla cupola si restringe e questo sta ad indicare che lacima non dovrebbe essere lontana. Alle 8, dopo setteore di salita, arriviamo sul bordo della caldera, ancoraben conservata. Risaliamo il bordo della caldera, conprudenza perchè abbastanza stretta e con un forte ventoe finalmente raggiungiamo la parte più alta del vulcano.

Ci abbracciamo felici, un altro sogno si èavverato. Sono in cima alla montagna più alta delMessico e la terza dell’America centro settentrionale,il panorama è stupendo, Silvia mi ha indubbiamente

sopra: sul bordo della Caldera, verso la cima del Pico de Orizabanella pagina a fianco: Carlo Labardi e, sotto, il Rifugio Piedra Grande (mt. 4.200)

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aiutato e quassù la sento più vicina. Iniziamo ladiscesa e dopo una sosta ai bordi del ghiacciaiodistesi al sole su dei massi erratici alle12 siamo nuovamente al rifugio Piedra Grande.

Do un’occhiata al libro del rifugio, alle saliteeffettuate al Pico de Orizaba e trovo pochissimiitaliani, molti americani, canadesi, spagnoli, francesie tedeschi. Con i nostri fuoristrada ritorniamoa Tlachicucha, alla solita Posada e riprendo possessodella mia fredda cameretta.

Il giorno successivo partiamo con un bus perun meritato riposo sulla costa Esmeralda nel golfodel Messico. Finalmente arriviamo al nostro albergosul mare e andiamo subito a fare un bagno ristoratorenell’oceano, seguito da una lunga passeggiata sullaspiaggia deserta. La mattina dopo mi alzo prestissimoe corro sulla spiaggia per fotografare il sole che sorgedall’oceano. L’avventura è pressoché ultimata,torniamo a Città del Messico, un po’ di shopping, visitaalla zona archeologica di El Tajin, poi a letto, domaniripartiamo.

Sabato 27 novembre, dopo uno scalo a Ma-drid, arriviamo a Milano Malpensa. I vulcani delMessico sono ormai solo un ricordo.

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ALPINISMO

nella pagina a fianco:Palestra di roccia della Faentina - primi anni ‘70

nella foto: Umberto Ghiandi in allenamento su staffe(foto L. Benincasi)

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Royal Robbins, disteso su El Cap Spire, inun momento di riposo durante l’apertura

della Salathé Wall (El Capitan)foto Tom Frost

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ROBERTO MASONI

SOGNANDO LA CALIFORNIALa straordinaria stagione di Warren Harding e Royal Robbins

Per i miei coetanei, ancorché “diversamentegiovani” per definizione dell’amico Fabio Azzaroli,Sognando la California fu uno dei brani più odiati daimangiadischi, un arnese fatalmente preistorico al cuiinterno prendevano magicamente forma i suoni dei45 giri, dischi che all’epoca mostravano un’estremamodernità. Sognando la California, interpretato dalcomplesso dei Dik Dik, leggi “gruppo” nella modernaaccezione linguistica, scalò vertiginosamente la hitparade emergendo fra i dischi più venduti del periodo.Era la versione italiana, oggi la chiamano cover, diCalifornia dreaming, brano inciso nel 1965 dai Ma-mas & Papas, qualcuno se li ricorderà sicuramente.

A completare il quadro dipinto sulle noteprovenienti dagli USA, vera delizia per le nostreorecchie rockettare dell’epoca, giunsero, anche sein verità qualche anno dopo, le prime notiziesull’arrampicata californiana. Erano voci provenientida qualche sporadico magazine americano dialpinismo commentate sulle pagine della “Rivista dellaMontagna”, unico periodico di settore allora presentein edicola, o dagli articoli di Gian Piero Motti pubblicatisulla “Rivista” del CAI trovata talvolta distrattamenteabbandonata sui tavoli di qualche autentico rifugioalpino, come ce n’erano una volta. Voci che parlavanodi grandi pareti, di elevati livelli di difficoltà,d’innovazione. Per molti alpinisti della miagenerazione la California è stata davvero un sogno.Un sogno a lungo coltivato, un innamoramentoispirato dal fascino che pareti come El Capitan, l’HalfDome, il Sentinel Rock o dal fascino che alpinisti comeHarding, Robbins, Bridwell generavano in noi.

Suggestioni la cui origine credo stesse tuttanel particolare contesto nel quale questo fenomenosi manifestò, i primi anni ‘70. L’alpinista americanoincarnava il cambiamento, un modo di essere e dipensare che andava a modificare le regoled’approccio alle difficoltà tecniche che andavanoassumendo, in tal modo, una diversa fisionomia,l’espressione di un nuovo modo di vivere la montagnache faceva delle linee guida californiane il veicolo diquell’inevitabile metamorfosi che improvvisamenteandava trasformando costumi che odoravanoseveramente di antico. Probabilmente dal punto divista tecnico gli americani non avevano molto di piùdi quello che avevano molti fuoriclasse di scuola

europea. Warren Harding non era certo migliore diWalter Bonatti così come Royal Robbins non lo eradi René Desmaison – due nomi a caso, anche se diparagoni se ne potrebbero fare molti - avevanotuttavia un modo talmente anticonformista di viveree confrontarsi con le pareti di Yosemite Valley chenon trovava paragoni sulle Alpi dove continuava adominare una certa lotta con l’Alpe, una certa rigiditàdi stili. I racconti di Bonatti, di Rebuffat, di Desmaisonavevano toni drammatici, commoventi e talvoltateatrali. Le voci che provenivano da oltre oceanoodoravano di piacere allo stato puro, d’incontrollatodesiderio e tutto ciò avveniva in un particolaremomento dell’alpinismo nostrale, quello interessatodal movimento del “Nuovo Mattino”. Più di dieci annifa, sul nostro Annuario 2000, scrissi un articolo daltitolo “Dai falliti ai forzati del fallimento” che prendevain esame questo aspetto e che rimane, a mio modestoed esclusivo parere, uno dei miei migliori contributiper Alpinismo Fiorentino. Il termine “falliti” celebraval’analogo articolo di Motti pubblicato sulla Rivista del1972, mentre “forzati del fallimento” si sforzava dicomprendere il circolo vizioso nel quale era caduta,di fatto, la pratica dell’arrampicata libera. Scrissi: “Ilmaggior merito dei vari Harding … Robbins,Chouinard, Roper, Steck è secondo me quello di averefavorito e anticipato certi modelli comportamentali chesono, poi, andati affermandosi nel tempo. Ma setrasportiamo su un piano strettamente tecnico ilbilancio che il loro contributo ha dato all’arrampicatain generale è lecito affermare come esso non siasuperiore a quello europeo”. Sono ancora diquest’opinione e non a caso. Il livello raggiunto dai“californiani” nella chiodatura delle vie eraevidentemente elevato ma non possiamo dimenticarecome anche in Europa non eravamo certo scarsi inmateria. La filosofia del “clean climbing” arrivòsuccessivamente e in questo caso gli alpinistiamericani furono, indubbiamente, degli innovatori.

Ma a prescindere da tale convinzione di naturasquisitamente tecnica, credo che buona parte dellediversità che alimentavano il “sogno”, influenzandoloperaltro notevolmente, stessero tutte nell’ambiente.Un ambiente sensibilmente diverso dal nostro acominciare da quello naturale che era poco conformeai gruppi montuosi di casa nostra, anche se sempredi granito si trattava; nella Sierra Nevada,

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a sinistra:una rara immagine del 1955

da sinistra: Royal Robbins, DonWilson, , Jerry Gallwas e nell’auto

Warren Hardingsullo sfondo l’Half Dome

nella pagiuna a fianco:Camp 4 (1963)

da sinistra: Beverley PowellWoolsey, Chris Fredericks, Mark

Powell, Mike Borghoff, Layton Kor,Dorothy Bird Borghoff, Steve Roper

in basso:Glacier Point (1903)

John Muir in Yosemitecon il Presidente

Theodore Roosvelt(www.nps.gov)

specialmente quella sud orientale dove si trovaYosemite, vi sono, infatti, condizioni molto piùconfortevoli rispetto a quelle alpine. L’altro ambientesu cui vale la pena soffermarsi è quello sociale, moltidegli alpinisti – e tuttavia non tutti - che hannofrequentato la Yosemite in quegli anni erano ungruppo palpabile, gente laureatasi nei campusuniversitari degli Stati Uniti, tant’è che molti di lorosarebbero in seguito divenuti professionisti disuccesso, registi, scrittori, sono diventati leader delleprime “consultants” commerciali, alcuni di loro sonofondatori di grandi aziende di settore (Patagonia, TheNorth Face, Royal Robbins Outdoor, Black Diamond,Frostworks Climbing, Esprit). E per quanto, negli annid’oro della Yosemite, non avessero grandedisponibilità economica, ciò non limitò impresedivenute leggendarie così come non preclusegigantesche sbornie e, come molti hanno sottolineatocon malignità che rasenta l’invidia, non limitò disinvolticontatti umani (inutile spiegare …) e nemmeno l’usodi qualcosa di più forte, di più trasgressivo. Eranofatti così, non furono certo degli esempi di virtù, deglistili di vita da seguire ma furono sicuramente l’ago diuna certa mentalità che ancora oggi fatica ad essereabbandonata.

Abitavano sotto le stelle a “Camp 4”, un’arealibera adibita a campeggio a pochi passi dal MercedRiver, fiume che scivola lentamente sotto le enormipareti di cui parlavo poc’anzi. Erano gente geniale,credo non ve ne sia uno, uno soltanto, che non abbiainventato qualcosa o quanto meno che non ci abbia

provato. A cominciare da Salathè, leggendariopioniere della valle, che inventò, in anni non sospetti,il primo “bolt”, cioè il tassello a espansione, aChouinard e Frost, inventori per antonomasia fra lecui scoperte cito il primo RURP (realized ultimatereality piton), a Bill “Dolt” Feuerer che inventòprobabilmente il primo fix, a Jardine che inventò ilprimo friend. All’invenzione di tutta una serie di“arnesi” dai nomi impossibili eppure, in quel contesto,dall’utilità reale: il chinc hanger, il circle head, il cop-per head, il micro hook, il tallon, lo standard chouinard,il grapplin pointed, il pika spoonbill, il captain hook,l’exentric, il vermin hook, il key-hole hanger. Insommagente che, nonostante la loro vita fatta di poche regolee di pochi tormenti, non aveva niente da invidiare anessuno. Anzi … almeno per quanto riguardal’alpinismo erano vent’anni avanti.

A titolo storico dirò che a scoprire Yosemite fuun tale dal nome John Muir, fondatore del Sierra Club,oggi la più importante organizzazione per laconservazione della natura negli Stati Uniti.Visionando l’area delle Sierras, ancora abitate daipellerossa, si persuase, sublimando spiritualmentela salvezza dell’ambiente naturale, della necessità disalvaguardare queste aree. Nel 1903,accompagnando il Presidente Theodore Roosveltattraverso lo Yosemite mosse le giuste corde.Accamparsi nella valle, toccare con mano il piaceredi vivere nella natura, sedere in contemplazioneaccanto a un fuoco, gustare il senso di libertà chequel luogo infondeva, crearono nel Presidente

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sensazioni di cui mai si sarebbe dimenticato. E’ aMuir che dobbiamo realtà come lo Yosemite NationalPark, come il Sequoia National Park. Per chi non l’haletto consiglio vivamente un libro affascinante scrittonel 1911 da John Muir dal titolo My first summer inthe Sierra, pubblicato in italiano per i tipi Vivalda nel1995.

Racconterò un po’ della storia di El Capitan.Racconterò soprattutto di due alpinisti, duepersonaggi tanto diversi da incarnare nell’immaginarioil diavolo e l’acqua santa: Warren Harding, il diavolo,e Royal Robbins, l’acqua santa. Due uomini, primache alpinisti, dalle abitudini e dagli stili di vita cosìdiversi da lasciarci sorpresi dalla forza del loro unicointeresse in comune, quel sogno, divenuto poi realtà,di riuscire a salire le più grandi e difficili pareti digranito della Yosemite. Due uomini circondati da altriuomini che coltivavano il medesimo sogno, cheavevano, probabilmente, le loro stesse capacità,eppure sopraffatti dalla loro personalità, dal lorointuito non comune, dalla loro capacità di coinvolgeree sconvolgere. Anche i loro nomi sono scritti su quellepareti: Tom Frost, Yvon Chouinard, Bill Feuerer, TMHerbert, Chuck Pratt, Jim Bridwell, Tom Higgins, RonKauk, Wayne Merry, Galen Rowell, Rich Calderwood,Mike Powell, Steve Roper, John Gill, Layton Kor, DonWilson, Lito Tejada-Flores, Charlie Porter, JoeFitschen, Glen Denny, Pat Ament, Douglas Tompkins,Allen Steck, Jim Baldwin, Dean Caldwell, potreiseguitare. Una monotona serie di nomi che in quantotali possono anche non suscitare alcuna emozione,

eppure credetemi non ve n’è uno, unosoltanto, che non fosse formidabile, straordinario.

Sul palco di quell’incredibile palcoscenico cheè Yosemite, Warren Harding incarnavasemplicemente il contrario, il contrario di tutto, il figlioche nessun genitore vorrebbe: affatto diligente,ribelle, insensibile alle regole della rispettata società,

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ubriacone, perditempo, sciupa femmine echissà cos’altro. Una cosa certo non glimancava, l’incredibile abilità di trascinare,di influenzare, di suggestionare che ha fattodi lui un mito, una leggenda, come separadossalmente la legge del contrarioavesse capovolto il significato e il valore deisuoi vizi e dei suoi difetti trasformandoli indiscutibili qualità. Harding coltivava trepassioni, alcool a parte: la roccia, le Jaguare le donne, tre passioni che avevano moltoin comune: l’estetica, le forme, le curve. Trepassioni che gli procuravano un totale e af-fine appagamento a prescinderedall’obiettivo finale: l’immaginario disegnodi una nuova via sul Capitan, l’accarezzarela carrozzeria di un’auto piuttosto che quellavellutata di una donna o quella ruvida di unaplacca di granito. Harding ha avuto qualcheJaguar e ha disegnato molte vie, non ci ènoto quante donne abbia avuto masufficienti a muovere la nostra invidiamaschile. Ai tempi del Nose, di cui parleròfra breve, si accompagnava, tanto per dirneuna, con una ex Miss Cuba e girava su unaJaguar colorata completamente di viola, tuttielementi che fanno parte del suo mito.Aveva, per lo più, un gran caratteraccio,cosa che, sicuramente, gli ha impedito distringere un vero rapporto di amicizia con isuoi compagni di cordata, per lui l’unovaleva l’altro, l’unico requisito richiesto erache sapessero tenere bene in mano unacorda. Ha scritto un unico libro “Downwardbound: a mad guide to rock climbing”, unlibro ironico e autoironico che parla anchedella sua prima ascensione del Nose. Hoacquistato recentemente negli Stati Uniti, aun prezzo decente, una copia della secondaedizione di questo libro firmata peraltro da

Robbins, pensate che unacopia della primaedizione può costareanche 500.000 dollari.All’apice della sua vogliadi affermarsi Warren creòuna linea di attrezzi perl’arrampicata che chiamòB.A.T, nome che inducevaa straordinarie similitudinicon la figura di Batman,anche se così non è. B.A.Tsignifica Basically AbsurdTecnology, la consuetaprovocazione. Così come fuuna provocazione la suaRivista di montagna chechiamò “Descent” parafrasando

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sopra:Warren Harding e Mike Powell risalgono le corde fisse

(The Nose - secondo tentativo)

nella pagina a fianco:la “Bat Tent” ideata nel 1969 da Harding.

Per la cronaca, la ragazza in compagniadi Warren è Beryl Knaut.

l’affermato magazine creato da Steve Ropere Chuck Pratt che si chiamava, anzi sichiama, “Ascent”. Era fatto così, per questoamo Warren. Il 27 febbraio 2002 “Batso”,da “bat” pipistrello, così si facevaamichevolmente chiamare, è morto di cirrosiepatica all’età di 77 anni, praticamentesenza una lira anche se sono certo nongliene potesse fregare di meno.

Giuseppe “Popi” Miotti ha scritto,almeno per me, dieci righe bellissime suHarding: “Per alcuni di noi basta quel nomea suscitare emozione. Nei nostri occhi passaun lampo d’intesa ed un sorriso malizioso.A volte sbirciando chi ci sta vicino, edarrampica, il sorriso diventa complicità: noisappiamo, noi capiamo, noi in qualchemisura abbiamo condiviso e condividiamo.Guardiamo l’appiattito mondo della scalatamoderna e nella nostra mente, per quantonon voluto, si fa strada un misto di orgoglioe sconsolatezza.[…] il vecchio “Batso”ritorna nelle nostre menti e nei nostri cuoriaffaticati di montagna, di passioni, di amorie malumori... di sogni; monumento ribellecontro i benpensanti, le morali e i moralisti,contro tutti i buoni propositi, le chiese e leparrocchie, contro i farisei ed i conflittid’interesse di tasca e di spirito. Stella fissaper chi non vuole mollare e crede che ci siasempre una via d’uscita anche nellasituazione più disperata. Caro Warren,protagonista di monumentali scalate ealluvionali bevute, sei di un’altra epoca, diun’altra cultura, ma per molti di noi questonon fa differenza. Ci insegni la tranquilla,pervicace resistenza alla stupidità,compresa la nostra, e il tuo messaggioresterà per tutti quelli che lo vorrannocogliere. Harding il selvaggio, Harding cheha aperto la sua Via a colpi di martello,Harding il cocciuto, arido e duro come ilgranito, Harding che sapeva ridere deigolden boys dell’arrampicata come di ses t e s s o ” . ( h t t p : / / w w w. i n t r a i s a s s . i t /warren_harding.htm)

In montagna, “Batso” ha sempreavuto una sua filosofia: salire senza contarequanti chiodi a pressione devi usare,mettendo in campo tutto ciò di cui seicapace senza curarsi se fai un buco in piùo in meno, magari salendo e scendendo apiù riprese sulle corde fisse. Tesi discutibiliche richiedono tuttavia grande coraggio. Inuna delle rare occasioni nelle quali hannoarrampicato insieme Royal Robbins gli urlò

indispettito “Mio Dio, Harding, non puoi fare niente!”, “Lo so –gli rispose – però posso farlo per sempre”. Ammettere lasconfitta era per lui insopportabile, nel 1970 durante l’aperturadi una nuova via a El Cap, quando erano ormai 27 i giorni dipermanenza in parete in compagnia di Dean Caldwell e con lescorte di cibo ormai agli sgoccioli, la valle si animò di colpo dicuriosi, rangers, soccorritori, gente allarmata per le condizionidei due alpinisti e sul punto di organizzare un disperatosoccorso. Il mitico “Batso”, accortosi dell’involontario trambusto,buttò giù dalla parete una scatoletta vuota con dentro unbiglietto intriso nell’unto del tonno, i cellulari erano ancora di làda venire. Il messaggio era chiaro: “Un soccorso è ingiustificato,non voluto e non sarà accettato”. Naturalmente conclusel’apertura di quella nuova via … era la Early Morning LightWall, forse la più bella e la più difficile del Capitan.

Seguendo il filone fin qui utilizzato dirò che RoyalRobbins era l’esatto contrario di Harding. Predicavaun’arrampicata pulita, niente corde fisse, uno stile che noieuropei definiamo “stile alpino”, di piastrine a espansione

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a sinistra: Warren Harding, a Camp 4, in compagnia di Frank Tarvera destra: Royal Robbins (foto Tom Frost)

nemmeno a parlarne. L’alpinismo di Robbins dovevaessere pulito, senza artifici e al contrario di “Batso”era in individuo colto, diligente, educato, aveva unapproccio mentale votato alla perfezione, al calcolo,a valutazioni matematiche. Vedeva l’arrampicatacome una terapia per lo spirito, la interpretava comeun esercizio mistico, spirituale, alla ricerca di se stessiin un mondo costellato di ignoto. Le corde fisse, itasselli a espansione erano considerati strumentiinibitori di quella gioia più sublime che scaturiva, edoveva scaturire, dalla pratica dell’alpinismo, lecertezze che questi strumenti regalavano erano perlui limitazioni all’intima ricerca di qualcosa di piùprofondo, di più interiore. Robbins e Hardingincarnarono due distinte scuole di pensiero, distintea tal punto che, nella gran parte dei casi, ognunoandò creandosi un proprio entourage unito dallacondivisione di quelle filosofie che erano prerogativadell’uno o dell’altro ma con una differenza sostanziale.Robbins, a differenza di Harding, aveva carattere ecomportamenti poco vistosi, da qui il rifiuto allaspettacolarità, e dava spazio ai propri compagnidimostrando loro la sua considerazione. Harding saràspesso accusato di porre sempre se stesso al centrodell’attenzione, il suo carattere di commediante, dipifferaio magico, lo spingeva a condurre sempre lacordata lasciando poco spazio ai meriti dei suoicompagni, sarà spesso accusato di “vendere” le sue

prodezze scegliendo con largo anticipo sui tempi unfilone del quale si sarebbe servito anche ReinholdMessner, tanto per fare un esempio. Questione dipunti di vista.

THE NOSE

Parlerò quindi di El Capitan. Di due vie inparticolare, due vie simbolo: il Nose, la prima viaaperta a El Capitan ad opera di Warren Harding, e laSalathè Wall, aperta da Royal Robbins. El Capitanha due pareti: la sud ovest e la sud est. I restantiversanti sono uno splendido terreno per amantidell’ambiente naturale. Fra le due pareti vi è unaevidente linea di divisione che si riesce a coglieresolo mettendosi di fianco; un “naso” appunto, quasi1.000 metri che salgono verso il cielo terminando suun falsopiano ricco di vegetazione. Quando Warrendecise, dentro di se, di accettare la sfida con ElCapitan, l’ultimo problema alpinistico di Yosemite, fecela cosa più razionale che potesse fare; l’aria era caldaquando si sdraiò sull’erba accanto al Merced adosservare quel muro di granito ancora inviolato, eral’estate del 1957. Quel “naso” gli parve di una bellezzaestetica esaltante, di un’armonia sconcertante,talmente bello da essere un’ideale linea dicongiunzione fra due colossali muri di granito. Studiòmetro dopo metro, immaginò una linea che salisse

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sopra: Harding circondato da fotografi e cineoperatoriall’uscita della Dawn Wall - El Capitan 1970

lungo quell’affilata prua, calcolò le difficoltà, vere opresunte, che presentava. Commise un unico errore,quello di pensare che il grande tetto, poi chiamatoGreat Roof, potesse essere superato solo aggirandololungo alcune fessure alla sua destra. Di fatto i tiri deltetto non furono nemmeno quelli più impegnativi. Sì… si può fare - avrà pensato - ma a modo mio,prendendomi il tempo necessario ed attaccando laparete a più riprese dando così il via ad una tecnicad’assedio mai utilizzata prima. Una tecnica che soloJohn Salathè e Allen Steck avevano sperimentato nelsalire la Sentinel Rock, ma erano stati solo cinquegiorni in parete. Scrive Steve Roper: “Era stato unvisionario in anticipo su i tempi? Harding era sì unvisionario ma appena in anticipo sui tempi. Il Cap,l’ultimo grande problema della Yosemite. Dodicimilaettari di granito verticale e compatto, esisteva unavia possibile?”.

Attaccò il 4 luglio 1957 in compagnia di Bill“Dolt” Feuerer e Mike Powell. La prima settimana sene andò senza sussulti, al settimo giorno trovaronodi fronte a loro una serie di lunghe fenditure inclinatea 80 gradi. D’altronde Warren le aveva già individuatedal basso ma non immaginava certo quella lorolarghezza che non permetteva alcuna protezione.Quella serie di fessure diverranno leggendarie esaranno in seguito unanimemente riconosciute con

il nome di “Stoveleg Cracks”, da “stove” stufa, fornelloda cucina e “leg” gamba. Non senza motivo. Rimessii piedi a terra, Harding si rivolse a Frank Tarver, untizio con il quale aveva talvolta arrampicato,chiedendogli di risolvere il problema. Tarver non persetempo prezioso, dotato del singolare intuito degliarrampicatori di Yosemite andò in una discarica e siprocurò quattro gambe smaltate di una vecchia stufa,un vecchio fornello da cucina (marca Hotpoint perl’esattezza). Le smontò, le pagò i quattro soldi chevalevano, ne spiattellò la punta, le forgiò a forma diU, praticò un foro e v’introdusse un anello saldato.Pesavano quattro etti ciascuna, non poco quindi.Quattro zampe smaltate che sono entrate nellaleggenda della storia dell’alpinismo, la scalata delNose potè così proseguire, ma non per molto.

La voce del tentativo di Harding si era sparsacon incredibile velocità. Un passaparola che avevaraccolto ai piedi della parete le persone più dispa-rate: villeggianti, alpinisti, turisti, semplici curiosi cheattratti dalle gesta dei tre alpinisti sul Noseintendevano vivere quel sorprendente avvenimentoin prima persona. A Warren non dispiaceva certo tuttaquella pubblicità, non gli dispiaceva essere al centrodell’attenzione. Quando, anni dopo, uscì dalla DownWall, altra via da lui aperta al Capitan, trovò adattenderlo un nugolo di giornalisti, televisioni, cam-

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eramen. Da consumato uomo di spettacolo qual’eraseppe condurre il suo show catturando, come di solitogli riusciva, l’attenzione e l’ammirazione di chi gli eradavanti, fossero o meno suoi ammiratori. L’ultimacosa che poteva preoccuparlo, quindi, era quelputiferio che si stava svolgendo ai piedi del Capitan.Purtroppo non la pensavano allo stesso modo leAutorità del Parco infastidite dall’insolito disordineche, in breve, invitarono Harding a rimandare il suotentativo a dopo il Labour Day, cioè al termine dellastagione turistica.

“Batso” tornò al Capitan solo dopo la Festadel Ringraziamento, una festa che cade nell’ultimogiovedì di novembre. Tornò al Nose portando con séuna brutta notizia, Mike Powell si era infortunato inun incidente di montagna e meditò sicuramente alungo prima di individuare qualcuno che potessesostituire Powell. Un nome, un nome soltanto,continuava ossessivamente ad affacciarsi nella suamente; quel nome non poteva essere altro che quellodi Royal Robbins. Ma con l’abituale, freddo stile chegli era proprio Robbins declinò l’invito; non sappiamobene per quale motivo rifiutò, certamente influì moltoil fatto che non condivideva quel continuo procederesulle corde fisse. Ad Harding non rimase cheaccettare Allen Steck e Wally Reed, talentuoso mamodesto alpinista, per giunta inattivo da tempo.Rimasero in parete quattro giorni, raggiunsero la DoltTower, un buon terrazzo da bivacco, e ridiscesero.

Passò anche quell’inverno, nell’aprile del 1958Warren ripartì con Dolt e Powell ormai ristabilitosi.Salirono fino alla favolosa cengia di El Cap Tower,da qui raggiunsero la Texas Flake e quindi la Boot

Flake. “Flake” sta per lama, scaglia. Tutti nomi uscitidalla fantasia di Warren come a segnare un lento macontinuo procedere, come a marcare un territorio.Resta il fatto che, dopo tutti quei giorni, Harding nonera nemmeno a metà parete, Steve Roper descrivecosì quel momento: “Eravamo convinti in cuor nostrodi assistere al grandioso disegno di un folle,condannato alla rovina. […] In privato invece credoche chiunque di noi avrebbe dato un dito o due, peravere le grandi vedute e il coraggio di quel rinnegatodi Harding”. Chiudere il conto con El Cap si stavadimostrando ogni giorno più faticoso, nuoviaffollamenti di curiosi ai piedi della parete locostrinsero, per giunta, a scendere di nuovo.

E poiché Harding difficilmente si arrendevaalla noia, una volta rimesso piede a terra fece subitouna di quelle cose strabilianti, difficilmente prevedibilie difficilmente probabili che solo lui poteva progettare:si tuffò in una nuova avventura su un’altra parete. Incompagnia di Rich Calderwood attaccò la parete estdella Washington Column. Mancavano poco più di100 metri alla cima quando decisero di scendere, perun curioso gioco del destino Harding si trovava condue vie “a mezzo”. Arrivò ottobre e con lui il weekend del Labour Day, tornò al Nose con Mike Powell,Wally Reed, il solito Rich Calderwood ai quali siaggiunsero Wayne Merry e John Whitmar. Una bellasquadra davvero, che in breve risalì alla Boot Flakedove, tuttavia, i loro sogni subirono un duro colpo,non parevano esserci infatti possibilità di salita.Conoscendo Warren tutti sapevano bene che egli nonsi sarebbe fermato di fronte a niente, che non avrebbemai gettato la spugna. Infatti non si perse d’animo, sifece calare prima 10 metri, poi 20, 30, 35 e da qui

iniziò un allucinante pendolo, trovò qualcosadove poggiare i piedi ma non

bastava, iniziò un secondoleggendario pendolo finchè

non trovò la chiaved’accesso alla vetta,

finchè non trovò la

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sopra:El Capitan con il profilo del Nose

e una delle “gambe di stufa”

nella pagina a fianco:Warren Harding durante il superamento

delle Stoveleg Cracks

chiave del sogno. Quel pendolo lochiamarono con un nome divenutoanch’esso leggenda: King Swing, il pendolodel Re. Soddisfatti, scesero di nuovo perprepararsi all’ultimo balzo, si detteroappuntamento per sabato 1 novembre1958.

In compagnia di Harding ancheCalderwood, Wayne Merry e, per la primavolta sul Nose, anche George Withmore.In breve superarono il tanto temuto tetto, ilGreat Roof, che dette loro meno problemidi quanti Warren ne avesse previsti.Salirono la Pancake Flake (lama dellefritelle) ed il 4 novembre misero piede sullaspaziosa cengia che chiamarono Camp 5,seguì la Glowering Spot (sostadell’arrabbiatura, così chiamata per larottura del martello) e quindi Camp 6. Unbuco dietro l’altro, un chiodo dietro l’altro,una staffa dietro l’altra, un lavoro damanovali. I chiodi andavano terminando enon restava altro che scendere perprocurarsi nuovo materiale. Fu Calderwoodad essere designato per questo compito,scese velocemente a terra – si fa per dire -e grazie ad un corriere ricevette nuovomateriale. Un prusik dietro l’altro,velocemente risalì la parete del Capitan perricongiungersi ai compagni. A quel punto,sopraffatto dalla fatica e dalla tensione,decise di chiudere i suoi conti con il Capitane, piangendo, tornò a rimettere i piedi aterra, per lui l’avventura con il Nose erafinita. Mancavano pochi tiri all’uscita dalNose, e per la prima volta, fatto inusualeper Harding, toccò anche a WayneMerry dare il propriocontributo aprendo un tratto diparete. All’imbrunire Hardingcoronò la sua leggenda e quelladel Nose. Lungo una fessurastrapiombante praticò 27 fori alla luce dellasua pila frontale, assicurato dai compagniaccomodati su una scomoda, miseracengia. Scrisse Wayne Merry tempo dopo:“Stavo scomodissimo ma al confronto conWarren, che vidi penzolare sotto lostrapiombo per tutta la notte, non potevolamentarmi. Continuavo ad addormentarmi,tremavo per il freddo e cadevo giù incontinuazione … sentivo quel leggero tic tictic in lontananza. Vedevo il piccolo ragnonero, lassù, appeso sotto lo strapiombo,avvolto dal chiarore della lampada frontale”.

Alle sei del mattino del 12 novembre1958 Harding spuntò dal bordo superiore

del Capitan, alcune decine di persone lo attendevano sullacima. Disse loro “Tutti voi mi considerate il vincitore di questasfida con El Capitan ma io non vi so dire, fra me e il Capitan,chi è il conquistato e chi il conquistatore”, non aggiunse moltodi più. Una cosa è certa, come ebbe ad affermare Steve Roper,da quel momento l’arrampicata su roccia in Yosemite non fupiù la stessa.

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SALATHE WALL

Seguirono anni di grande crescita e di grandeimportanza per tutta la comunità alpinistica. Attrattidalla notorietà sempre più diffusa delle pareti dellaYosemite, si stabilirono in California altri alpinisti e,fra costoro, uno in particolare: Yvon Chouinard. Unnome che rimarrà l’immagine di una svolta epocalenell’alpinismo, non solo di quello americano.Chouinard si presenta subito con tutta una serie dinuovi attrezzi assolutamente rivoluzionari, fra questiun nuovo chiodo da roccia ideato nelle formerealizzate da John Salathè dieci anni prima macostruito con materiale diverso, un materialesbalorditivo: il molibdeno. Inventa il RURP, di cui hogià parlato, uno strano strumento che Roper definì“un ridicolo frammento d’acciaio” ma capace di aprirele porte di un mondo mai immaginato prima. Primadel RURP si utilizzavano gli “knife-blades” inventatida Jerry Gallwas, chiodi affilati come un rasoio cheavevano la prerogativa di deformarsi nelle ciechefessure di cui sono ricche le pareti della Yosemite.Grazie a una serie di RURP, in luogo dei tasselli aespansione, Chouinard dimostrerà tutta la loro validitàscalando un’improbabile fessura strapiombante sulKat Pinnacle che resterà, per molti anni a seguire, lavia artificiale più difficile della Yosemite.

Lo stesso Chouinard pubblica, nel 1961, unarticolo su Summit Magazine nel quale solleva ilproblema del chiodo a espansione dichiarandolo unarovina per la bellezza della roccia. Getta un ulterioresasso nello stagno dichiarando che “gli scalatori non

arrampicano per vedere con quanta rapidità salganoo con quale abilità. Molto peggio: vogliono vederequanto più velocemente e quanto più abilmenteriescano a salire una via che altri hanno scalato pochigiorni prima”. Premessa per ricordare che eranopassati due anni dalla conquista del Nose e che eranoquindi maturi i tempi per una ripetizione della via,possibilmente con stili diversi ed in minor tempo. Arealizzare la prima ripetizione del Nose, manco apensarlo, fu Royal Robbins in compagnia di Fitschen,Frost e Pratt; sette giorni soltanto ed in perfetto “stilealpino”. In questo senso le parole di Chouinardtrovavano conferma, così come sarebbe facileaffermare come ciò rappresentasse un’umiliantesconfitta per Harding. Di fatto non fu così, tutti glialpinisti con un briciolo di esperienza sannoperfettamente quali e quante differenze vi siano frauna parete vergine e una parete già attrezzata, pergiunta con tanto di relazione scritta.

Ancora nel 1961, Royal Robbins, Tom Frost eChuck Pratt attaccano El Capitan con l’intento di aprireun nuovo itinerario. Lo attaccano a sinistra del Nosepuntando ad una grande depressione, causata daun’enorme frana, chiamata per la sua singolare forma“the heart”, il cuore. Raggiungono la Heart Ledge eridiscendono lasciando anch’essi corde fisse. Pochigiorni dopo, risalgono quel tratto di parete (i nodiprusik per risalire le corde fisse sono, nel frattempo,andati in pensione a favore di un nuovo attrezzo, lamaniglia Jumar inventata dagli svizzeri Jusi e Marti,da qui il nome) con l’inequivocabile idea di tagliare illoro cordone ombelicale con il suolo. Giunti alla Heart

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sopra:il RURP (Reality Ultimate Piton)

a sinistra: 1969, Yvon Chouinard con i suoiattrezzi (foto Glen Denny)

nella pagina a fianco:Warren Harding durante il

superamento del Great Roofprima ascensione del Nose

Ledge tagliano e gettano nel vuoto le corde fisse,l’intenzione è quella di affrontare la parete in perfetto“stile alpino” tirandosi dietro tutto ciò di cui hannobisogno, un’idea avveniristica in perfetto “stileRobbins”. La chiave centrale della via è superata conun leggendario pendolo di Robbins che permette lorodi raggiungere El Cap Spire, un ottimo luogo dabivacco che offre qualche orizzontale metro quadratoin un mondo assolutamente verticale. Incombono tettie fessure al di là della verticale. Superano un grandesoffitto, quindi la Headwall, cinquanta metristrapiombanti dove solo una serie di fessure ciechee svasate possono aiutare i tre alpinisti a procedere.Ancora una fessura ad incastro assolutamenteimproteggibile dove Pratt, gran maestro della tecnicada incastro, da il meglio di se stupendo il mondodell’arrampicata.

Dopo nove giorni e mezzo di salita i tre esconoanch’essi dal bordo del Capitan, coronando le lorofatiche. Non c’è nessuno ad attenderli ma ciò nontoglie che un altro tassello di “grande alpinismo” èstato completato. Nel 1962 Royal Robbins sbarcheràin Europa dove, in compagnia di Gary Hemmings,conosciuto sui Tetons, aprirà la “diretta americana”al Petit Dru, nel Gruppo del Monte Bianco. Nonsoddisfatto, nel 1965 aprirà, con John Harlin, ancheuna “direttissima americana”, sempre al Petit Dru.

Vie straordinarie, di una bellezza e di un’eleganzasorprendenti che non abbiamo, qui, spazio perdiscutere. Resta l’inconfondibile realtà che questialpinisti californiani non limitavano la loro abilità epadronanza di stile solo in Yosemite ma sapevanostraordinariamente arrampicare in qualsiasi ambiente,con qualsiasi clima, in qualunque situazione diseverità ambientale.

Per concludere un’annotazione: Hardingimpiegò 47 giorni per salire il Nose utilizzando 675chiodi di cui circa 150 ad espansione. Robbins salì laSalathè in 9 giorni (sei se consideriamo l’ascensionedalla Heart Ledge) utilizzando 484 chiodi di cuisolamente 13 a pressione.

Cosa dire, come dare un senso al mioracconto. Harding e Robbins erano indubbiamentedue facce di una stessa medaglia e come ho scrittonel 2000 nell’articolo già citato: “L’alpinismo non èaltro che l’aspetto più evidente della nostra personalitànei confronti della società che viviamo, che ci staintorno. E’ quindi anch’esso un fatto culturale”. Sonopiù che mai convinto di ciò che ho scritto, Harding eRobbins ne sono l’esempio più tangibile. Harding siè sempre definito uno “sgobbone incompetente”, ebbea dire: “Oh Dio sono sempre stato un disastro totale.Odio gli scalatori come Royal Robbins che sono così

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Due immagini della prima ascensione della Salathé Wall (1961)Royal Robbins durante un bivacco e nel pendolo “chiave” della via

superiori. Egli non intende essere, semplicementelui è! Lui è metodico, scientifico, capace, competente,tanto da farmi invidia”. In un’altra occasione disse:“Sinceramente il mio più grande interesse sarebbequello di capire se esiste una qualche possibilitàclinica per analizzare con sufficiente chiarezza glioscuri labirinti mentali del cervello di Robbins”.

Affermazioni che non devono influenzarci, adHarding non è mai mancata la virtù, una delle poche,di riconoscere la bravura altrui, ha sempre dichiaratoche sul piano tecnico non avrebbe mai e poi mai,potuto reggere il confronto con i suoi coetanei, avevauno stile trash cioè uno stile “sporco” di procedere inparete, un modo tutto personale di affrontare quellepareti attraverso le quali trovava, tuttavia, unapersonale quadratura del cerchio.

Arrampicare, per lui, era la quinta essenza diuno spettacolo comico che esprimeva le linee guidadi un gioco, che assumeva l’aspetto di una commediafarsesca. Per Robbins l’arrampicata era,sostanzialmente, un freddo diversivo ad uno stile divita nobile, serio. Nella sostanza, e per quantoassolutamente diversi, occupano un ruolo di

straordinaria importanza nella storia dell’alpinismo.Oggi, a conclusione, possiamo affermare che sia l’unoche l’altro hanno contribuito in modo rilevante allosviluppo ed alla crescita di un alpinismo di cui habeneficiato tutta la comunità alpinistica nonostantel’arrampicata californiana abbia impiegato molti anniper affermarsi agli occhi del mondo. Ancora nel 1963Chouinard scriveva sulle pagine dell’American Al-pine Journal che l’arrampicata nello Yosemite era“la meno conosciuta e la meno compresa, sebbeneoggi, al mondo, sia una delle scuole di roccia piùimportanti. La sua filosofia, l’attrezzatura, letecniche sono state sviluppate quasi del tutto inmaniera indipendente dal resto del mondodell’arrampicata”..

Detto ciò, e comunque la si pensi, per quantosi condivida o meno questi personaggi e ciò che,di loro, ho scritto, restano le loro imprese. Cosìcome restano le parole di Steve Roper: “Su questopianeta non esiste un posto più bel lo perarrampicare”. Si riferisce ovviamente alla YosemiteValley, il sogno della mia generazione.

That’s all. Take it easy.

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P.S.: A titolo di cronaca, riguardo coloro cheho citato in questo mio contributo, dirò che ...

... Bill “Dolt” Feuerer produsse per molti anniattrezzatura di qualità prima di suicidarsi, si impiccòil giorno di Natale del 1971. Mark Powell insegnageografia in California, Joe Fitschen è ora in pensionedopo aver insegnato inglese per molti anni, GalenRowell è un fotografo di fama internazionale, WayneMerry dirige un Ufficio Guide nella British Columbia.Layton Kor, divenuto testimone di Geova, è sparitoda circa vent’anni (molti credono si sia ritirato inOriente), Chuck Pratt fa la guida sui Tetons, YvonChouinard ha fondato sia la Chouinard EquipmentLtd, divenuta poi Black Diamond Equipment, siaPatagonia, di cui è ancora il leader, azienda diabbigliamento outdoor presente in tutto il mondo.

Gary Hemmings, dopo avere vissuto perlunghi anni a Chamonix, si è sparato un colpo allatempia durante un soggiorno nella Sierra, John Harlinè precipitato durante l’apertura della “direttissima” allanord dell’Eiger. Royal Robbins ha fondato la RoyalRobbins Outdoor, Tom Frost è titolare dellaFrostworks Climbing.

Anche Warren Hardin, purtroppo, è deceduto.

Sopra: Camp 4, una sera qualunque,Sotto, a sinistra: Tom Frost - a destra: Harding e Robbins, molti anni dopo ...

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Marco Turchi all’attacco della fessura Lettenbauer(foto L. Benincasi)

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LEANDRO BENINCASI

LA VIA SOLLEDER-LETTENBAUER AL CIVETTA

“Mi sai dire perché questa montagna si chiama Civetta?”“Perché la incanta…”.

Con queste semplici ma poetiche parole ungrande alpinista, Emilio Comici, descriveva negli anni’30 la parete nord ovest del monte Civetta, una pareteche esercitò su di lui, e non solo su di lui, un’attrazioneparticolare. Tra tutte le cime dolomitiche, anche fraquelle più “gettonate” e che si trovano raffigurate sullecopertine di riviste o sui manifesti pubblicitari o ancorasui posters, una in particolare s’impone per lastraordinaria maestosità ed imponenza: la paretenord-ovest della Civetta. La potrete comodamentevedere, in tutta la sua grandiosità, dal lago di Alleghe,ma ancor meglio percorrendo la strada che da Arabbascende a Pieve di Livinnallongo, dove una terrazzapanoramica che si affaccia sulla vallata vi consentiràdi ammirare, nei pomeriggi radiosi, l’enorme parete,simile a una poderosa cattedrale gotica: non a casoè stata denominata “la Parete delle Pareti”.

Muraglia impressionante alta più di mille metri,lunga più di due chilometri, colpisce per la sua vastità,ma ancor più per l’aspetto severo, reso ancora piùselvaggio e tetro nei giorni di pioggia e di tempesta.Su questa parete sono state scritte alcune tra lepagine più avvincenti e decisive della storiadell’alpinismo classico, e sono stati in molti, fraalpinisti e scrittori, ad assegnarle le più svariatedefinizioni. Di volta in volte è stata battezzata come il“regno del sesto grado” oppure come ”l’universitàdella scalata”. Ma queste denominazioni, chetradiscono il puro e semplice aspetto tecnico, nonsono sufficienti a comunicare quel qualcosa in piùche sprigiona da questa parete, un fascino particolareche attrae e respinge al contempo, e che attira, oggicome allora, gli alpinisti di ogni epoca.

Brevi richiami storici. Con un po’ di giallo…

La storia alpinistica della parete nord-ovestparte nientemeno che alla fine dell’ottocento. Non siha notizia di approcci o tentativi alla muragliaprecedenti alla prima salita, ma certamente qualchestudio e progetto deve esserci stato, se già nel 1895si realizza, al primo colpo, la risalita dell’intera paretead opera degli inglesi Phillimore e Raynor condottidalle guide A. Dimai e G. Siorpaès attraverso un

percorso lungo e tortuoso, alquanto decentratorispetto alla vetta centrale, ma pur sempre all’internodel grande anfiteatro della nord-ovest. Qualche annopiù tardi, e siamo nel 1906, salgono la medesimaparete Tomè, De Toni e De Buos per un itinerario chepoco si discosta dalla via precedente, ma con qualchetratto più diretto. Nel 1910 sono i tedeschi Haupt eLompel a vincere la parete con un percorso ancorapiù diretto e soprattutto di grande difficoltà e impegno.

Rispetto alle precedenti salite risulta menodecentrato, ma è ancora lontano dalla vetta principale,pur potendo essere considerato come la vera viadiretta alla Piccola Civetta. Questa salita si sviluppasotto il margine destro del celebre “Cristallo” (ilcaratteristico nevaio sospeso al centro della parete)e percorre grandi camini ed erte bastionate,perennemente bagnate, talora ingombre di ghiaccio.Per inciso questo itinerario, per lunghissimo temporimasto pressoché irripetuto, è stato recentementeripercorso da forti alpinisti che hanno incontratodifficoltà superiori a quanto potessero immaginare,rese ancor più estreme dalla costante presenza delbagnato, e come se non bastasse, sotto il tiro costantedi caduta di pietre. Qualcuno si è chiesto se già questavia non possa essere considerata di sesto grado,rappresentando così la vera prima via di tale grado.

Ma nonostante queste notevoli imprese,ancora nessuno aveva osato affrontare il veroproblema della parete, ovvero la salita diretta allavetta principale. Occorrerà attendere il 1925 pervedere realizzata la salita perfetta, e ciò avverrà adopera di Emil Solleder e Gustav Lettenbauer che inun sol giorno, il 7 di agosto, saranno capaci di salirei 1.100 metri di dislivello della muraglia, superandodifficoltà estreme. Da allora questo tracciato è statoconsiderato, a torto o a ragione, il primo sesto gradodella catena alpina, ed ha rappresentato uno specialebanco di prova dell’alpinismo classico estremo. Mala strepitosa vittoria nasce con una coda polemica.

Infatti, Solleder si prende in sostanza tutti imeriti dell’impresa, grazie alla tempestivapubblicazione del resoconto della scalata, dove faintendere che, a parte la celebre fessura inizialepercorsa da capocordata da Lettenbauer, il resto dellascalata lo tira tutto lui, con l’altro al seguito.

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Solleder è già una guida famosa, ha già vintoper una nuova via la nord della Furchetta che avevarespinto illustri alpinisti, più tardi aprirà una nuovavia al Sass Maor, e quindi ha gioco facile nei confrontidi uno sconosciuto signor Lettenbauer. La nuova via,da quel momento, prenderà il nome di Solleder -Lettenbauer, mettendo così in ordine di importanza isalitori. Anzi, ancora più sinteticamente sarà chiamata“la Solleder”, omettendo il nome dell’altro compagnodi scalata, declassandolo quasi a ininfluente portatore.Ma le cose sono andate veramente così come le haraccontate Solleder? Il suo apporto è stato cosìincisivo e determinante rispetto a quello delcompagno di cordata, da rendere quasi superfluo ilnominarlo?

C’è da dubitarne, perché la versione dellasalita che fornirà Lettenbauer sarà assai diversa, efarebbe emergere l’importanza e il ruolo assunto daquest’ultimo, certamente pari a quello di Solleder.Oltretutto Lettenbauer è uomo modesto, non è unaguida come Solleder e non ha bisogno di farsipubblicità, anzi dopo questa grande impresa si ritireràdall’alpinismo su pressioni della moglie, ma lafaccenda della versione di Solleder non gli andrà maigiù, tanto che molti anni dopo confesserà, inun’intervista rilasciata a Toni Hiebeler, la suaamarezza per tale versione, a suo dire noncorrispondente al vero.

Ovviamente non sapremo mai come sonoandate esattamente le cose, e ognuno è libero di farsiun’idea propria in merito ai fatti raccontati. Ma sonomolti gli storici che hanno ridimensionato il ruolo svoltoda Solleder e valorizzato quello di Lettenbauer. Alriguardo consiglio di leggere il fondamentale libro diVincenzo Dal Bianco “Civetta” (ed. Nuovi Sentieri)che riporta integralmente articoli e lettere dei direttiinteressati.

Qualche considerazione personale

Sul merito della questione vorrei anch’ioesporre qualche considerazione, iniziando aesaminare i semplici fatti che sono avvenuti e chenon sono contraddetti dai protagonisti, nonché i varipunti ove le versioni si differenziano.

Innanzitutto un primo punto fondamentale:Solleder e Lettenbauer non sono abituali compagnidi cordata, anzi prima di questa occasione non siconoscevano per niente. La vittoriosa cordata siformerà in seguito a varie circostanze, come spiegatopiù avanti. Ma vediamo come sono andate le cose.Solleder sale al rifugio Coldai, posto ai piedi dellaparete, da solo, senza il suo compagno di cordata, evi trova due persone, Lettenbauer e Gobel, cheintuisce essere alpinisti. Fingendosi “turista per caso”fa domande per carpire le loro intenzioni, e capisceche sono lì per fare la salita, pronti a portarla a terminel’indomani. I due devono essere subito apparsi aSolleder ben decisi e preparati. Forse i due (non èdetto esplicitamente ma lo si deduce dal contesto)hanno già fatto un primo assaggio, hanno individuatoil punto d’accesso alla parete e attrezzato ildifficilissimo tratto iniziale.

Solleder è solo perché il compagno Wiessner(con il quale ha effettuato pochi giorni prima lavittoriosa salita della Nord della Furchetta e che poil’ha accompagnato fino a Caprile per vedere laParete) preferisce rientrare a casa, giudicando iltempo troppo incerto, ma con l’intesa di essererichiamato appena la situazione fosse migliorata. Aquesto punto le versioni discordano tra loro. Solledersostiene che quella sera al rifugio i tre, presentandosireciprocamente per quello che sono, cioè tuttipretendenti alla stessa salita, decidono di unire leloro forze in un’unica cordata. Lettenbauer invecesostiene che Solleder si sia presentato conl’intenzione di voler salire la via in solitaria e chel’indomani, all’attacco della parete, abbia chiesto diunirsi ai due. Comunque sia, i tre attaccano la pareteinsieme. Dopo i primi cento metri facili, arrivano alprimo vero ostacolo: la celebre fessura orizzontale.Secondo quanto affermato da Solleder, la fessuraviene affrontata da Lettenbauer che “non volle cederela precedenza”. Ma la versione di Lettenbauer è

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diversa. Egli sostiene che i tre si erano accordati sucome dividersi i compiti: il primo terzo della salitasarebbe stato tirato in testa da Gobel, il secondo daSolleder, infine il terzo da Lettenbauer. Così il primotentativo viene fatto da Gobel, ma senza successo.Dopo tenta lo stesso Solleder, ma anche lui senzarisultati. Infine ci prova Lettenbauer (che a parere dimolti storici aveva già ispezionato in precedenza ilpassaggio) che riesce a superare sia la fessuraorizzontale che il successivo tratto obliquo e verticale.In questo tratto rimarrà famoso l’impiego dei cunei dilegno, che costituirono una sorpresa perlo stesso Solleder. Dopo qualche tiroescono dal duro passaggio efiniscono sotto a un grandecamino nero.Lettenbauer vi s’infiladentro nel tentativo

di superarlo, ma viene bloccato dal forte strapiomboche lo schiude. Passa allora in testa Solleder.Qui deve essere successo qualcosa che nessunoracconta e che porterà all’incidente di Gobel. Lostesso Solleder dice chiaramente “mentreLettenbauer ritornava [dall’infruttuoso tentativo nelcamino n.d.r.] io tentai la parete verticale chedelimitava il camino sulla sinistra”. Anche in questocaso potremmo chiederci se le cose siano andatecosì lisce come viene raccontato, visto

Parete nord-ovest del Monte Civettala via Solleder-Lettenbauer(foto L. Benincasi)

nella pagina a fianco: Gustav Lettenbauer

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che lo stesso Solleder ammette di aver preso a salire,affrontando passaggi estremi, mentre un altrocomponente della stessa cordata scendeva da unaltro percorso. Ci stanno tutte le premesse per unadivergenza in atto fra i tre. Fatto sta che Sollederriesce a salire sulla sinistra del camino e rientrarepoi a destra al di sopra dello strapiombo che avevabloccato Lettenbauer. Il passaggio, per quello che iostesso ricordo, è veramente estremo, pocoproteggibile, ed è un vero capolavoro di Emil. A questopunto succede l’incidente a Gobel che, nel tentativodi raggiungere Solleder ed evidentemente con scarsaprotezione della corda (Solleder dice che la cordanon scorreva e che aveva difficoltà a recuperarla)alla fine vola e rimane penzoloni nel vuoto del camino,ferendosi a un piede. Lettenbauer raggiunge Solledere insieme sollevano Gobel. L’ora è tarda ebivaccheranno poco sopra. La mattina seguente sonosvegliati dalla pioggia che tamburella sui sacchi dabivacco. Devono scendere.

Con calma raggiungono il rifugio e scendonoa valle per riposarsi. Evidentemente Gobel non si eraferito poi così gravemente, comunque deciderà di nonunirsi agli altri per un nuovo tentativo, e si può nutrirequalche dubbio che tale decisione dipendesse dallaferita, visto che pochi giorni dopo “l’infortunato” saràad arrampicare sulla Torre Da Lago.

La nuova cordata riattacca la parete due giornidopo. È il 7 agosto 1925, il giorno della vittoria. Nonsenza polemiche…

Solleder non riferisce di alcun accordo tra idue su come alternarsi alla guida della scalata. Nondice neanche a chi tocca affrontare da primo queiprimi metri già percorsi nel precedente tentativo.Comincia ad accennare a chi sale in testa soltanto inoccasione del secondo terzo della parete, quando laparete si raddrizza e non è chiaro dove si possa salire(è verissimo, confermo!) Al termine del primo terzodella salita, che finisce con un tratto molto facile, sigiunge davanti ad una bastionata gialla e grigia doveè veramente difficile capire dove poter salire. È apartire da questo punto che Solleder afferma di salireda primo quel tratto, come pure i successivi: “Tre voltescorse l’intera corda di trentotto metri e ogni voltaLettenbauer, assicurato ai chiodi, mi seguì”. Nei trattisuccessivi dice chiaramente che continuerà lui daprimo, vista la rinuncia da parte di Lettenbauer: “Inverità avevamo l’intenzione di scambiarci a questopunto la direzione della cordata, ma poichéLettenbauer non aveva nulla in contrario, continuaiad andare in testa”. Nei tratti successivi non accennaa cambiamenti di comando della cordata, però usastranamente e ripetutamente i verbi al plurale:“aggirammo il passaggio …”, “una fessurastrapiombante ci condusse …”, “nella luce del

crepuscolo ci arrampicammo …”. Poi, alla fine, l’arrivoin vetta che è già buio completo.

Se questa è la versione di Solleder, ben altraè quella di Lettenbauer. In una lettera indirizzata dallostesso a Wiessner, Lettenbauer racconta che i duesi erano accordati su come procedere in cordata: “Cieravamo accordati che il secondo, appena raggiuntoil primo, continuasse subito conducendo lasusseguente lunghezza di corda”. Sfortunatamenteper Lettenbauer, un sasso lo ferisce a un braccio, altermine del primo terzo di salita, e quindi deve cedereil passo a Solleder che deve rimanere in testa. Segueancora il racconto di Lettenbauer: “Così andò benefino alla cascata, dove Solleder cadde, ferendosiall’avampiede”. Solleder propone di bivaccare, maLettenbauer decide di tornare in testa, e così rimarràfino al raggiungimento della vetta.

Che dire di tutto ciò?

È interessante richiamare inoltre un datotecnico interessantissimo: Lettenbauer risolve ildifficile percorso della fessura orizzontale mediantel’impiego di cunei di legno, in quanto la fessura si erarivelata troppo larga per trattenere dei chiodi (a queitempi non c’erano né i Bongs, né tantomeno i Friends)e allora il geniale alpinista si procura dei pezzi di legnoda incastrare nella fessura, dopodiché potrà infilare,tra questi e la roccia, i chiodi di sicurezza. Tutto ciòfa ritenere che Lettenbauer abbia già fatto, inprecedenza, per lo meno un primo tentativo di salita,che abbia tentato di affrontare la fessura senza poterlapercorrere per l’impossibilità di potersi assicurare, chesia ridisceso per fabbricarsi quei cunei di legno chegli consentiranno di vincere quel tratto impegnativo.

Per tutte queste ragioni sono in diversi oggiche vorrebbero chiamare la via con una nuovadenominazione che renda il giusto merito al valore dientrambi i protagonisti, ma con una leggeraprecedenza a chi avrebbe avuto maggiori meriti,chiamando la via: Lettenbauer-Solleder.

Le prime ripetizioni

L’eco dell’eccezionale impresa si diffonde nellacerchia de più forti alpinisti dell’epoca, suscitandoenorme scalpore. Ma la parete e la via incutonogrande timore e nessuno, per qualche anno, netenterà la ripetizione. Si ha menzione di un tentativodel grande Emilio Comici, ma senza frutti: arrivato alprimo vero ostacolo, la fessura Lettenbauer, Comiciripiega intimorito dalle difficoltà. Occorre attendere il1928, tre anni più tardi della prima, per vedere unnuovo serio tentativo, questa volta coronato dasuccesso, quello di Leo Rittler e Willi Leiner, che anziapriranno una difficile variante, ancora più diretta

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dell’itinerario originale. L’anno seguente, il 1929, vedràaltre ripetizioni, ma sempre con il contagocce. La terzaè ad appannaggio di Toni Shmid (quello della primasalita alla nord del Cervino) con Ernst Krebs, mentrela quarta è fatta da Walter Stosser (famoso per ladirettissima alla sud della Tofana), Ludwig Hall e FritzShüt.

Un anno più tardi, siamo nel 1930, le ripetizionidilagano (si fa per dire, vedi chi sono i ripetitori!):5° Anderl Heckmair (il trionfatore dell’Eiger) con HansBrehm.6° Mathias Auckenthaler e Hans Rosl.7° Fritz S tadler e Hans Zalut.8° Attilio Tissi e Giovanni Andrich in giornata (primaitaliana).9° Hans S teger e Paula Wiesinger (prima femminile).10° Karl Brendel e Hermann Schaller (quelli dellaprima salita della cresta sud dell’Aiguille Noire dePeuterey).

Ovvio dire che la via costituirà, da allora,l’indispensabile banco di prova per tutti i grandialpinisti dell’epoca d’oro del sesto grado e anni piùtardi diverrà palcoscenico d’imprese ancora più ardite,quali la prima solitaria, ad opera di Cesare Maestrinel 1952 e soprattutto della prima invernale, di IgnazioPiussi, Giorgio Redaelli e toni Hiebeler nel 1963.

Sono passati molti anni da quella prima, altrevie sono state aperte sulla stessa parete, certamentepiù difficili e impegnative, come la Comici-Benedettidel 1931 e ancor più come il diedro Philipp-Flammdel 1957, ma la Lettenbauer-Solleder resta ancor’oggiuna via di grande impegno e difficoltà, dove non bastaessere all’altezza delle difficoltà, ma occorre sapersiorientare con sicurezza nel labirinto delle fessure edelle gole, scalare velocemente e in sicurezza suroccia non sempre salda e soprattutto con scarseprotezioni. Con un dislivello di 1.100 metri e unosviluppo di 1.350, la via presenta le seguenti difficoltàtecniche: 160 m. di 6°, 280 di 5°, 420 di 4°. A tuttequeste difficoltà occorre aggiungere il costantepericolo di caduta di pietre, e soprattutto il pericoloderivante da un eventuale cambiamento del tempo:essere colti dal cattivo tempo su questa parete deveessere un’esperienza che può essere complicatopoter raccontare.

Sembrerà strano che, dopo queste sperticatelodi a questa via, debba confessare che la suaripetizione non era mai rientrata nei miei programmi.Del resto nessuno, del mio gruppo, ne parlava o lanominava come possibile obiettivo. Sarà stato per ilfatto di ritenerla una via oramai datata (era stato ilprimo sesto grado, ma del 1925!), sarà stato cheerano più attraenti altre vie sulla stessa parete, comela Philipp-Flamm o la Aste–Susatti, fatto sta che la

sopra: ai piedi della parete nord-ovestsotto: Marco Turchi lungo la via

(foto L. Benincasi)

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Solleder- Lettenbauer non mi passava neanche perl’anticamera del cervello. Da tutti era scacata, ma dauno di noi era invece continuamente richiamata.Bastava passare da quelle parti.

Riuscii a fare la Solleder (anzi scusate, laLettenbauer - Solleder) nell’estate 2003, la famosaestate rovente. Fu per me una stagionefortunatissima, sotto il profilo alpinistico. E comespesso succede, a dispetto delle aspettative, cheerano piuttosto dimesse. Infatti, giunsi alle portedell’estate con un livello di allenamento pari a zero.Non esagero a dire così: non avevo toccato rocciadall’autunno precedente. E quando dico roccia,includo anche Maiano.

Però avevo fatto tanta bicicletta, il che miaveva dato un buon allenamento di resistenza fisicagenerale. Ricordo che come exploit avevo fatto nellostesso giorno il giro dei nostri passi appenninici: BorgoS. Lorenzo – Muraglione - San Benedetto in Alpe –Marradi – Palazzuolo – Firenzuola - la Futa - BorgoS.L. Con alle spalle il miserevole allenamento suroccia cui ho accennato, fui molto sorpreso quandoun giorno di luglio mi sentii telefonare da Marco (ilTurchi) che mi propose di andare a fare “TempiModerni” in Marmolada. Ovviamente accettai, ma conun pizzico d’apprensione. Per allenamento, Marcomi portò a Maiano per ... testarmi.

Salimmo dapprima “Eta Beta” e poi“Polverosa”. Sul primo itinerario non ebbi grossiproblemi, ma sul secondo la faccenda fu penosa: neltentativo di superare il passaggio più duro feci cosìtanti sforzi, per lo più inutili, che devo essermi incrinatauna costola fluttuante, perché sentii un certo dolore,che mi portai dietro per l’intera stagione.

Questo fu il mio solo allenamento alla via. Maper fortuna c’era Marco, che quell’anno era in formasuperlativa. Qualche settimana prima aveva fatto laprima ripetizione di una via del Piccini alla parete suddel M. Sumbra, in compagnia dello stesso apritore,una via estremamente difficile e difficilmenteproteggibile (credo si chiami “Mente et malleo”). Ecosì facemmo Moderne Zeiten, Marco comesplendido capocordata ed io e il Tafi come bravisecondi. Non chiedetemi come mi comportai. Il primotiro duro fu disastroso, mi attaccai a tutto quello chec’era e che non c’era, poi sui tiri successivi mi ripresi(anche perché non c’era più niente di artificiale cuiattaccarsi), e in pratica iniziai quell’allenamento chenon avevo fatto durante tutta la primavera.

Poi venne l’agosto e mi recai a Zoldo, al“quartier generale” di Marco. Il tempo era splendidoe caldo, la Parete delle Pareti era pulita come non lasi vedeva da decenni (sfido, con quell’estate torrida!)

e quindi non ci potevano essere scuse, ci toccava lanostra via. Questo è il racconto della salita.

Io e Marco sulla via

Partiamo prestissimo da casa a Zoldo, e nondal rifugio. Marco è contrario a dormire nei rifugi,perché dice che non ci si dorme bene. Per certi versiè vero, però tocca a fare, nello stesso giorno, un beldislivello in più. Meno male che mi ero allenato inbici! Arriviamo sotto la parete e lo sguardo puntaautomaticamente verso l’alto. Altre due cordate sonogià sulla via. Ammetto che mi fa un certo effettotrovarmi ai piedi di questa muraglia … Saliamo unlungo ghiaione per portarci ai piedi dello zoccolod’attacco. Prima di toccare le rocce basali siamocostretti a rasentare un caotico macereto di sfasciumi:potrebbe sembrare un posto tranquillo, ma lì siscaricano tutte le pietre che cadono dalla paretesovrastante: un luogo mortale. Saliamo facilmentefino ad arrivare sotto alla famosa fessura Lettenbauer.Dalla sosta si deve salire una corta fessura. Nientedi che, ma è molto rotta, quasi un misto di terra eroccia. Arriviamo così al tratto mitico: si tratta ditraversare a sinistra attaccati alle braccia e con i piediin contrapposizione sul liscio.

Il tratto orizzontale non è complicato, moltopiù duro il tratto successivo ascendente obliquo,

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perché umido e coperto di uno straterello di melmetta.Poi la fessura diventa verticale e la si risale per di-verse lunghezze, fino a che diventa facile e terminain una gola sotto a un enorme camino nero, chiuso inalto da uno strapiombo. La via prosegue sul latosinistro del camino, gira lo spigolo e sale su unacostola sempre più difficile, con un bel passaggioveramente estremo. Ancora vari tiri di corda, poitraversiamo a destra, anche scendendo, per uscirepoi in piena parete su placche più inclinate. Dopoqualche tiro ci troviamo all’altezza del Cristallo.

Traversata facile fino a portarsi nuovamentesotto la parete, che qui si fa verticale e pocointerpretabile. Nel frattempo noi due vecchiettiabbiamo già superato le altre due cordate, e per unattimo ci soffermiamo sotto la ripida parete,chiedendoci dove passare. Qui non è facile capirlo,ma Marco riesce, con grande intuito, a “leggere” laroccia e a individuare il passaggio (ovviamente nientechiodi che aiutino a capire il percorso). Fa seguitouna meravigliosa serie di diedri e fessure ascendentiverso sinistra, da percorrere per un centinaio di metri.Presto arriviamo a un canalone detritico orientatoverso destra e quasi invitante. Naturalmente non èda prendere, anche se sembra facile, perché portafuori via (variante Dusso o Penzo). Attraversiamo leterrazze detritiche ed entriamo di nuovo sulla pareteverticale puntando verso sinistra con passaggi difficili,fino ad arrivare a dei lisci camini dove avremmodovuto imbatterci nella famosa cascata d’acqua, madove troviamo … un misero rigagnolo che non cibagna neanche la corda. Fortuna!

Dopo questi camini la parete sembraabbattersi, ma è un’illusione: in realtà aumentanosemplicemente le dimensioni e il numero delleterrazze, ma i tratti di roccia restavano belli in piedi.Entriamo poi in un labirinto di gole e rampe dove nonè facile orientarsi. Spesso ci fermiamo interdetti,chiedendoci quale possa essere il percorso giusto.Sembravano tutte uguali e tutte impervie. Cilasciammo andare alla libera interpretazione, all’istintodell’alpinista. Dove andremmo se si stesse salendouna via nuova?

Miracolosamente non sbagliamo un metro divia e becchiamo tutte le soste. Quando crediamo diessere arrivati (cavolo, si vede la cresta contro ilcielo!) incontriamo un ultimo passaggio difficile estrapiombante. La via non molla fino in fondo! Poifinalmente la cresta facile e dieci metri più su, la crocedella vetta dove sventola (sorpresa!) una multicolorebandiera della pace. Dopo le foto di vetta, cominciamoa scendere veloci perché il sole già si abbassasull’orizzonte. Puntiamo al piccolo rifugio Torrani,posto poco sotto la vetta. Marco vuole scapparesubito via, ma io sono un po’ cotto, con un gran

bisogno di bere e di farmi un panino. Lascio il rifugioa malincuore, dove stanno preparando unapastasciutta che mi sembra degna di Chez Maxim.Poi di nuovo giù per la normale, che mi sembra nonfinire mai. Quando arriviamo alla base, le gambe nonmi reggono più. Vorrei fermarmi ma Marco, inflessibile,mi costringe a proseguire prendendo sulle sue spalleanche il mio zaino. Di fronte a tanta determinazionenon si può resistere. Strada facendo incontriamo ancheun nostro vecchio amico, lo Stefano Nuti, che ci chiedenotizie della via, ma Marco ha fretta di tornare a casa enon si dilunga troppo a lungo. Io lo seguo sempre piùpenosamente. Qualche ore dopo arriviamo finalmentealle macchine. È quasi mezzanotte e non ci siamo maifermati dalla mattina alle 5.

Valut azioni personali della via

Chissà perché avevo sempre sottovalutato lavia. Per anni ho puntato a tante salite, ma quella eraproprio fuori dai miei programmi. Marco invece lateneva sempre sotto controllo, verificando se era “incondizioni”. Dopo averla fatta, devo dire che si trattadi una grande via, con difficoltà abbastanza continuee un bel po’ di sesto grado. Poi la lunghezzaveramente notevole ne fa una salita di grandeimpegno, dove il rischio di dover bivaccare non èremoto, soprattutto se si dovesse incorrere in qualcheerrore di orientamento e conseguente perdita ditempo per rientrare sulla giusta via.

sotto: L. Benincasi e M. Turchi all’uscita della vianell’altra pagina: M. Turchi alla fessura Lettenbauer

(foto L. Benincasi)

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10 luglio 2011 - ore 6,00La parete nord del Pizzo dalla ferrata di Foce Siggioli

(foto R. Masoni)

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LA CROCE DELLA NORDUn sogno avverato - La mia Oppio-Colnaghi al Pizzo d’Uccello

SIMONE MARRONCINI

Accadono cose senza un perché. Talvolta èassurdo cercare di capire. Così non mi chiederò perchého avuto in sorte la fortuna che vi racconto.

Il mio amico Luca sognava andare a fare la Oppio-Colnaghi, da sempre, e neppure tanto in silenzio. TalchèRoberto Masoni, gli dice che lui ogni tanto torna a farla enell’occasione l’avrebbe portato con sé. L’invito viene moltosorprendentemente esteso anche a me, ma in cuor mionon ci credevo. Luca non può venire per i postumi diun’operazione al polso. Un pomeriggio di maggio passodall’Autentico Masoni. Mi dice “guarda s’è fissato di farela Oppio, viene anche Federico (uomo da oltre 7 inpalestra), c’è un posto. Se vuoi venire ...”

La prima impressione è che mi canzoni. Io, laOppio … mah … “se mi portate vengo”.Allora fa, serio, “ripassa che fissiamo la data”.Ripasso e trovo anche Federico, si prende il calendario esi fissa: il 19 giugno è il giorno. Il gruppo sarà nutrito, e diqualità, ma sono scettico. I nomi che fa Roberto sono dipeso e sembra sarà una loro rimpatriata. Comunque,precauzionalmente mi metto a dieta e riprendo a correrecon regolarità. Non c’entra nulla, ma io quando corro conregolarità faccio tutto meglio. D’altronde ognuno ha le sue.S’avvicina la data, e puntualearriva l’annuncio. Il 19 non si va. Si rifisserà. Addio.

Si decide d’andare ad arrampicare al Corchia conRoberto e altri amici. Prima dell’uscita, il Masoni riproclama:il 10 luglio è il giorno, verranno Il Barbolini (Carlo), Matteo(Carlo Matteucci), i fratelli Gabriele e Maurizio Bonciani,Federico Mascherini, forse il Passaleva (Marco), le riservesaranno sciolte all’ultimo. “A questi che gli racconto io”.Comunque, si dovrebbe andare.

La domenica dopo, mentre si mangia alle Coppelledopo aver fatto Banda Bailar al Corchia.Roberto fa:“oh ricordati il 10 si fa la Oppio. Passa in settimana che tido i dettagli”.Io: “Hai fatto bene a ricordarmelo, chi ci pensava più”.Leggesi, non pensavo ad altro.

In cuor mio tuttavia penso che tanto alla fine, salteràtutto, le mogli il mare il caldo i figli etc. Non ci faccio labocca. Lunedì, invece, mi chiama Roberto. Già questo èun evento. Mi conferma che si va. Da quel momento

relazioni e foto. Passo da Roberto mercoledì e si fissa. Ilritrovo è alle 18 di sabato al CAI. Federico non viene.Matteo e Passaleva scioglieranno la riserva giovedì.Giovedì Il Barbolini definirà poi con Roberto i dettagli.Chiamo moglie e figlie al mare: “ragazze questa settimananon vengo”. Mi sento l’animo leggero. Passo giovedìdavanti al negozio del Masoni, e vedo la macchina delBarbolini, ma non posso proprio fermarmi e neppuretroverò il tempo di chiamare. Venerdì mattina all’aperturami fermo da Roberto. Si va. Non chiedo altro. L’unico inforse è Marco Passaleva, l’hanno chiamato, ma era inriunione e non ha richiamato. Come tutte le star, nicchia,tentenna, si fa desiderare. Comunque, fisso d’andare aprendere Roberto a un quarto alle cinque e poi al CAI. IlDonegani è già fissato per sei, se Il Passaleva viene,s’aggiungerà. Butta male, mi sa che il mitico Direttore,non viene.

E’ un caldo bestiale, c’è un umidità altissima, è unafa: sarà così anche il fine settimana. Penso, vuoi vedereche piove. Venerdì lavoro e leggo relazioni. Venerdì seratorno a casa, leggo relazioni e guardo foto della Oppio.Sabato mattina decido di fare degli acquisti che rimandoda mesi. Trovo chiuso per sciopero. Segnale negativo?Vado in studio a lavorare un pò, poi in garage a fare lozaino. Operazione complessa: ci metto tutto quello cheho. Cioè troppo: imparerò dai miei compagni che servedavvero molto ma molto meno. Poi pranzo leggero, rileggorelazioni. Mi faccio il “bagno”. Vado all’appuntamento.Quasi d’amore. Sono emozionato? Si. Ci sono 35°C alle16,30, si suda a stare fermi. Arrivo in anticipo. Aspetto.

Arriva Roberto. Si carica la sua roba e si va alCAI. Sembra che saremo in sette, e il Direttore verrà.Siamo i primi al CAI. Poi i fratelli Maurizio e GabrieleBonciani, come me baciati dalla sorte dell’invito. Giunge ilpick-up de “il Barbolini”, l’Accademico. E ho detto tutto.C’è anche Il Passaleva. Il Matteucci sarà prelevato a casasua lungo strada. Adesso è definitivo, siamo in sette. Par-terre du Roi.

Che c’azzecco qua io? Non lo so. Ci sono e tantobasta. Forza ragazzo. Si fanno le macchine. Nella miasalgono Roberto e Gabriele. Si parte, un due tre e Gabrieledorme, ma davvero. La strada è interrotta. Un altro segnaledel destino? In una bella curva, contornata di conifere,l’afa della città è lontana, mi viene in mente Bartali di PaoloConte, quando fa: e tu mi fai dobbiamo andare al cine, vai

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10 luglio 2011- ore 5,00da sinistra: S. Marroncini, M. Bonciani, C. Barbolini, R. Masoni, C. Matteucci, M. Passaleva

(foto G. Bonciani)

al cine vacci tu. Commozione. La canto,Roberto si ri-ha,ma non fa in tempo a capire, che già taccio. Arriviamo alRifugio, ovviamente, dopo l’altra macchina che ha fattopiù strada di noi. La rifugista ci conta e, con forte accentoindigeno, ci spiega gentile che siccome siamo sette, nonci può dare la diegi, e gi darà la sei. Si comingia a ridere.

Si va a cena. Il Barbolini a centro tavola, di fronteha Il Passaleva, e con la loro presenza l’atmosfera è satura.L’aura che li circonda s’avverte. Carlo, che èbiologicamente il Capo Spedizione, prende subito la parola,e fa le cordate, come dire “ora conoscete il vostro destino”,e si può mangiare. Mi mette col Matteo e Il Direttore:praticamente a balia. Benissimo. Gongolo dentro di me:sono in carrozza. Penso, ora comincia la kermessebevitoria. Pronostico quasi azzeccato.

Ecco il menù, alcune portate non ci sono, a tra lealtre alcune sono fatali, e noi non le sbagliamo: tre trippee quattro stinchi di maiale. Pagheremo caro l’errore, nottatad’inferno e giornata pure. Rumorosi! Si fissa la svegliaalle 5, quindi a letto presto. Macchè, a mezzanotte. Poibarzellette e poi sonno. Caldo. Qualcuno ha pensato benedi puntare la sveglia un po’ prima, così la corta nottes’accorcia. Al fine butto una gamba fuori dal letto. Eccomi,si comincia. Scendo al bar e Roberto si sta sorbendo uncaffè al banco, gli serve per la sigaretta. E’ un grande.

Si fa colazione in sala, chiedo un caffè, e invecedel solito bricco di caffè nero alla tedesca, su cui contavo,m’arriva un espresso e basso. Rimedio con l’acqua. ArrivaRoberto e chiede un caffè. Il rifugista paternamente glielonega così:“ma n’hai già preso uno al bar, due caffè no. Ti fanno male

Roberto”. E se ne va.La sua premura è mal indirizzata.“Oh bella”, replica il nostro, “ma guarda te se io ….”Ritorna il rifugista senza il secondo caffè. Simpaticadiscussione, tutti mangiano e Roberto alla fine strappa ilsecondo caffè. Il Barbolini imperioso: “è tardi, andiamo”, es’alza. La frase alle 5,20 del mattino, avendo fissato dimuovere alle 6, suona strana. Guardo verso Il Passaleva,ma anche lui s’è già alzato. Ah … allora è una congiura.Capirò poi che per il Barbolini è sempre tardi, siamo semprelenti, e siamo sempre in ritardo. Forse numeri Uno sidiventa così.

Morale … avevamo fissato di muovere alle 6. E,invece, il poker d’assi (Barbolini, Masoni, Matteucci ePassaleva), alle 5,30 ha pensato che fosse già abbastanzatardi, e s’è mosso. I tre invitati dietro, a corsa, con glispazzolini ancora fra i denti, volan nella macchina le cosedella notte, e ci si lancia all’inseguimento.

La giornata è cominciata così rincorrendo i quattro,che si sono mossi fedeli al principio: “chi c’è c’è; e se nonc’è ci doveva essere. E se no, ci sarà, la strada la conosce.E se non la conosce male ha fatto a venire”. Si sale solertiall’arrivo della ferrata, siamo all’ombra, e comunque siamoalle prime luci, ultimi metri e si svetta. Violenta come unfucilata compare. Ce l’ho lì, davanti, la Nord. E’ magnifica,sfiorata da oriente dal primo sole del giorno, accesa di uncaldo ocra, mentre si tinge di rosa l’orizzonte. Non mi viennemmeno da fotografarla, a che pro, ormai mi s’è incisanella mente. Poi una foto la faccio lo stesso. Quella midevo salire? Mah … speriamo, certo con questacompagnia, penso, mi dovrebbe andare tutto bene, e senon ce la fo’? Non c’è tempo di pensare.

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A sinistra: Nino Oppio - a destra: lo sviluppo della Oppio-Colnaghi

Gli assi son già scesi d’una ventina di metri.Andiamo, andiamo. Scendiamo la ferrata, e traversiamo.Son già stanco, e m’è venuta una vescica alla manosinistra, si va be’ il cavo. Cos’è la classe? Ve lo dico io,portarsi i guanti da ferrata, per fare la nord. Il Passaleva liaveva. Siamo all’attacco. Il Barbolini c’ammonisce tutti,ma soprattutto noi tre invitati:

Regola n. 1: Vietato cadere;Regola n. 2: Non si può cadere, nemmeno da secondi.

Chiaro. E chi glielo dice che non è mica tanto chiarose ci piglia per il cu.. o fa sul serio. Sguardo d’intesa con iBonciani, come dire: e che vogliamo cascare noi? Ciprepariamo, e parte Matteo. Subito dopo tocca a me. Sonoemozionato. Mi sento legato. Vado su in qualche modo, iprimi passi non mi sembran facili. Se avessi guardato,magari. Poi arrivano Marco e Carlo. Il primo, con noncha-lance, butta là: “cerca il facile nel difficile”. Il secondoribadisce il concetto. Hanno ragione. Ovvio. Cosicché“cerca il facile nel difficile”, me lo son ripetuto per tutta lagiornata ad ogni esitazione. Aho! è andata meglio davvero.Prima di noi è riuscita a partire un’altra cordata. Indovinateun po’ cosa commenta Il Barbolini: “sono lenti, ci rallentano,ci fanno far tardi”. Alla prima sosta, ha già quasi perso lapazienza. Il bello è che l’Ing. Passaleva condivide garbato.Mi sento in balia di pazzi.

Capirò poi che per loro in montagna tutto èprezioso, ma soprattutto il tempo. Se risparmi tempo,risparmi energia, risparmi luce, risparmi acqua, risparmite stesso, e se risparmi tutte queste cose, ti stressi dimeno e hai più voglia di ridere.E questi ridono molto, edè bellissimo. Io, decisamente, rido molto meno. I tiri sisusseguono veloci, almeno per me, aspettiamo qualcheminuto, ma rispetto alle mie precedenti salite, si vola esenza interruzioni. I tiri si susseguono molto regolari, cistiamo avvicinando a Lotta Continua, l’ottava sosta, maho perso il conto. Cerco di fare del mio meglio e basta.

Osservo i quattro assi, che sono d’un altro pianeta:nessun movimento è un tentativo. Si muovono sempresenza perdere tempo, neanche un secondo, mai.Guardano e si muovono, e mentre si muovono riguardano,e si rimuovono, perché è già tardi.

Sta andando tutto molto bene. Lo spettacolo èbello, ma soprattutto mi riempie il cuore sapermi qui. Ledifficoltà per adesso sono superabili, i tiri sono tuttiinusitatamente lunghi, e quando s’arriva alla sosta, si fannosentire. Un moto di saggezza, e mi levo l’orologio, adessoson sospeso senza tempo in questo sogno ad occhi aperti.Arrivo ad una cengia e colgo un’aria sorniona tra i mieicompagni, ma non capisco. Parlano di restauro, anche

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L’Aiguille Dibonaieri a cena s’è discusso del restauro conservativo di LottaContinua. Il mio amico Luca s’è pure raccomandato.Azzardo, scusate ma dov’è Lotta Continua. Risatagenerale: ce l’ho davanti agli occhi, ma non la vedevo.Eccola la scritta rossa. Appena il tempo di tirar fuori lamacchina fotografica e il restauro è fatto. Via si riparte. Sisale, si sale, ma non siamo a niente. Sotto questo aspettoè quasi deprimente. Si sale ancora. Penso a Coppi diGino Paoli: “E va su ancora E va su E va su … Poi lassùcontro il cielo blu …”

Un altro tiro e siamo in un bellissimo camino, nonmolto protetto, ma siamo solo noi tre, le altre due cordatehanno fatto la variante, ci siamo separati. Sembra chenon dovessimo infilarci in questo camino, ma questa è lavia originale. Avremo sbagliato, ma son contento, almenofaremo l’Autentica Oppio-Colnaghi. Questo camino èignorante, e molto poco protetto. Matteo – che a me pareun marziano – s’impunta, non è tranquillo, non vuoleandare avanti; anzi vuol proprio scendere e fare la variante.L’Accademico, infatti, chiotto chiotto ha mandato noi asinistra e lui a destra. Si pensa a fare una doppia, scenderee risalire dalla variante presa dal Barbolini e dal Masoni. Il

Passaleva non si fida a fare una doppia lì, teme s’incastrila corda e si facciano cadere molti sassi. Rispetta,comunque, la decisione del capocordata, lui col suo cur-riculum: esemplare. Poi la cordata che ci precede ci passauna mezza e Matteo riparte.

Siamo nel camino, guardo Matteo e il Passaleva,e li emulo. Ci provo. Marco aveva consigliato: “nei caministai fuori, non t’infilare dentro”. Son quei consigli che èbene tenere stretti: e in effetti è tutto molto più semplice.Certo con le gambe aperte di 180° (ma forse non avròsuperato i 100°!) si procede meglio: all’inizio non mi vienproprio naturale, poi il sistema m’entusiasma. Mi leverò lavoglia dei camini da qui a sera. Di camino in camino, ormainon mi preoccupo più. Noi tre comuni mortali ci difendiamoal meglio delle nostre capacità, i fratelli Bonciani van suproprio bene, spero di fare la stessa impressione.

Di colpo sento arrivare una crisi, bevo mangio deiwafers e delle bustine di miele, vecchie pensionanti delmio zaino, e piano piano ripiglio. I wafers dovevan esserebarrette energetiche, ma il rifugista non aveva altro.Salvatori!

qui sotto: Gabriele Bonciani, poco prima dell’uscita dai camini finali (foto G. Bonciani)nella pagina a fianco, l’allegra brigata, dall’alto :

Marco, i fratelli Bonciani, “Matteo”, Simone, Carlo, Roberto

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Arriviamo alla base del Pilastro, e ci ricongiungiamo con la cordatadi Roberto. A questa sosta c’è un freddo birbone e umido, sopra c’aspettaun passaggio molto esposto. Roberto prende il posto di Marco, e viceversa,così il Passaleva passa primo nella corda con Gabriele. E non lo rivedrò chein vetta. Si entra nel pilastro, e finalmente siamo più alti dell’arrivo dellaferrata Siggioli. A che tiro siamo? e chi lo sa. 15 … 16 … boh! Diedro esposto,bello. Molto bello. Un po’ complicato, molto aereo. Mi sento proprio altoquassù, ma non siamo ancora a nulla, Roberto cerca di tranquillizzareGabriele e me, forza siamo in fondo. Non gli credo. Ma apprezzo.

Siamo ai camini terminali, che dovevano essere facili (ma chi lescrive le relazioni …). Non saranno complessi, ma sempre camini sono.Chissà che c’era nei wafers, o forse l’antico miele del Gran Sasso, fatto stache mi sento bene. Sosta scomoda nel camino, e pfaff! l’inciampo puntualecome tutte le disgrazie: un bel sasso sul braccio del nostro primo, Matteo haun taglio in aggiunta alla botta, e non abbiamo nulla per curarlo. Va sustoicamente in pratica con un braccio solo. Mi vorrei proporre d’andare perprimo: non è il caso di fare lo spiritoso. Mica capirebbero che, sul serio,vorrei andare da Primo. L’ultimo camino termina volgendo a sinistra estrapiombando. Lo guardo intenso, mi dico cerca il facile nel difficile, stannefuori e non stancarti. Passa Roberto,passa Gabriele. Tocca a me. Mi scoscio,sto fuori anche di più, e vado su tranquillo. Equilibrio precario, procedorapido e incredulo. Devo levare un rinvio, mi vien voglia di azzerare: maperché? è così bello, mi vien tutto bene o almeno così mi pare. Strapiombo.Son così fuori dal camino che lo supero di botto, e devo abbassarmi perlevare il rinvio. E’ fatta, dicon tutti sia la fine delle difficoltà: m’hanno dettotante di quelle cose da stamani…. E’ così. Siamo quasi in fondo, i mieicompagni cominciano ad accusare la stanchezza, e io con loro. In più mibruciano le piante dei piedi. Pochi passi facili e siamo in vetta al Pilastro.Matteo non si sente sicuro si appoggia allora alla corda di Marco. Quindi, vaMarco, segue Matteo, poi Gabriele, il secondo di Marco, quindi Roberto e,infine, io. Siamo all’ultimo tiro, anche se saranno 70 metri, non ci credo. Gliultimi passi comodi li faccio ridendo come un ebete. Rispondo a tutti che vabene, benissimo.

Arrivo alla sommità della Nord del Pizzo d’Uccello, alle ore 16,40 didomenica 10 luglio 2011. Sono commosso. Vengo acclamato dai mieicompagni di avventura. C’è un bel sole, temperatura perfetta. Ci si rilassa.Qualche foto. Via le scarpette. Ahhhhhh le scarpe. Ora si mangia e si bevequel che resta. Si ride, e ci si sfotte. Quanto sarà passato: dieci minuti?quindici? Non di più. Ma eccolo che arriva. Maledetto. Chi sarà mai? Il CapoIndiscusso. “Ragazzi via andiamo è tardi, se no si fa tardi”. Facciamo un’altrafoto.

Penso. Ma come … in vetta al Pizzo d’Uccello non c’è una croce,nemmeno piccina. Eppure una croce ci doveva essere, c’è la base. Sapevoc’era una croce? Dov’è la croce? La croce? Ma?! Insomma la croce nonc’è. Chiedo e non m’ascolta nessuno. Nessuno è sorpreso.

C’è però il libro di vetta, lo sfoglio c’è già scritto tutto: Carlo s’è portatoavanti, se no si sarebbe potuto tardi. S’imbocca la normale a scendere, mifanno male i piedi, li lascio andare, rimango solo. Soffro in silenzio da ultimoe staccato, finchè il fondo migliora e riesco a camminare più velocemente,sono comunque in riserva piena. Roberto mi precede, eprima di lui Gabriele, gli altri ignoro a che punto siano. Saranno già al rifugio.Gabriele è tra noi e gli altri. Roberto m’aspetta, saggiamente propone e ioaccetto di fermarsi per bere, un attimo, una sigaretta, e poi riprenderemo ascendere. Fatti pochi metri nel bosco

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l’uscita della Oppio-Colnaghi dalla cima del Pilastro

ci sediamo, e tiriamo il fiato. Avvisiamo casa allabell’e meglio, è andato tutto bene. Ecco che lebelle sensazioni e le belle immagini catturatenell’ascesa si ricompongono e si ordinano, eme le godo in silenzio.

Siamo due chiacchieroni, e invecestiamo zitti. C’ascoltiamo nella fatica fatta, cheè una gran bella sensazione. La sigaretta di Robfinisce, bisogna ripartire, e riprendiamo il passonel bosco. Dobbiamo riscontrare la marmiferapiù a valle. Complice la stanchezza e larilassatezza, l’incrocio avviene dove non dovevaavvenire, e così la marmifera ce la faremo tutta,ma chi se ne frega. Che sarà mai qualche metrodi più. Lungo la marmifera ritelefono a casa,rimango un po’ indietro, e a valle vedo i mieicompagni vicini al rifugio, loro son quasi arrivati.Aspetteranno.

Roberto ed io scendiamo lenti sullapolvere soffice della marmifera, piacevolepiacevole massaggio per i piedi. Finalmente,siamo alla via asfaltata tra poco finisce tutto.Arriva la frescura che annuncia il rifugio, ovviaci siamo. Apriamo la macchina per lasciaregli zaini. Siam tutti sudati, sarebbe benecambiarsi, prendiamo le cose asciutte, e ci signuda lì in mezzo alla strada, e ci si riveste,ah come mi sento bene ora. Marco e Carlos’accorgono che siamo arrivati, e vengono danoi, bene bravi come va, tutto bene. Robertoe io tutt’e due belli vestiti puliti, andiamo alRifugio per bere. Ora godiamo la morte dellasete.

La prima birra, se fosse stata una per-sona, direi che non so neppure che facciaavesse. Seconda birra, freno, devo guidare. Sirifà i materiali.

Qualcuno ci prova, gli si fa riaprire lozaino, ora tutto torna. L’Accademico è come seavesse fatto il giro dell’isolato, misteri della razzaumana. Il braccio del Matteo mi sembra vadamolto meglio. A questo punto si decide di cenareal rifugio e poi andremo. Si cena calmi, rilassati,vino ma niente trippa o stinchi, si sta sul leggeroabbondante. Caffè. Grappa. Saluti, abbracci etutti in macchina.

Giro la macchina e imbocco la via dicasa, e Gabriele dorme di già, beato lui. Poiè la volta di Roberto, però lui avvisa: “chiudoun po’ gli occhi, ma non dormo”. Sì va beh… si sveglieranno a Peretola, e fino a lìguido nella notte, coi miei amici qui accantoche riposano.

sulla cima del Pilastro

rituale “mercatino dell’usato” a fine giornata

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Dalle Panie al Monte Bianco: l’apoteosi alpinistica di

COSIMO ZAPPELLI

PAOLO MELUCCI

Vent’anni fa se ne andava, lasciando ungrande vuoto nell’alpinismo italiano, una figuraemblematica nata e cresciuta in ambiente toscano.

Mi è parso doveroso ricordarlo…

Tutte le volte che qualcuno in mia presenzaaccusa i valdostani d’essere chiusi e sciovinisti allimite del razzismo, anche se devo ammettere chemolto spesso essi non si sforzino poi molto persmentire con i fatti tale pregiudizio, mi vienespontaneo citare il nome di Zappelli.

A tal proposito mi pare emblematico il casodel viareggino che, emigrato in Valle, non solo diventaGuida ma addirittura viene eletto dai suoi colleghialla Presidenza della prestigiosa Società delle Guidedi Courmayeur (seconda al mondo per anzianità dopoquella di Chamonix).

Chi fra la metà degli anni ’50 e l’inizio dei ‘60frequentava le Apuane avrà forse avuto, come me,la fortuna d’incontrare Cosimo Zappelli:della Suaattività iniziale in Apuane sappiamo ben poco, anchela Guida dei Monti d’Italia se la cava con la genericanota nel capitolo della “Storia alpinistica”:

“Nell’inverno 1960 si mette in luce, per qualche bellasalita, il viareggino Cosimo Zappelli..”,mentre nel testo si riescono a scovare una sua viasul versante nord-nord-est del Pisanino e la primainvernale d’un itinerario del Pizzo delle Saette. (1)

Zappelli, infermiere professionale, avevadeciso di trasferirsi a Courmayeur per essere piùprossimo all’oggetto della sua intensa passione, leGrandi Alpi, trovando lavoro presso l’ambulatorio delmitico dottor Pietro Bassi, medico condotto cheavrebbe curato anche tanti alpinisti.

La formazione apuana fu evidentementeproficua se, già nel settembre del 1961, lo troviamocon Walter Bonatti (2) ad aprire una via nuova sulversante Frêney del Monte Bianco, prima di una lungaserie di notevolissime prime ascensioni compiute daquesta cordata, oltre alla prima ripetizione invernaledello sperone Walker alle Jorasses:

Guida Alpina, Maestro di Sci, Presidente della Società delle Guide di Courmayeur, membro del GHM(Viareggio, 23 febbraio 1934 – + Pic Gamba, Monte Bianco, 8 settembre 1990)

“Fra queste successive ripetizioni eccellenaturalmente la prima invernale di Walter Bonattie Cosimo Zappelli. Il 24 gennaio 1963 Bonatti eZappelli, dopo aver trasportato il materiale ai piedidello sperone Walker, vi bivaccarono: i l 25risalivano il pendio di ghiaccio e si fermavano a3300 m; il 26 raggiungevano la base del del diedrodi 30 m; il 27 si fermavano a causa del cattivotempo e del freddo intenso (il termometro sibloccava a -35°)..…Infine il 30 alle ore 10 erano invetta e alle 21 alla Palud.

Pochi giorni dopo, dal 6 all’8 febbraio, R Desmaisone J Batkin, raggiunta la base dello sperone inelicottero, ripetevano per secondi la salita.” (3)

Il proficuo sodalizio con Bonatti durò poco piùdi due anni e finì non certo per colpa di Zappelli.

Bonatti ce ne da questa sconcertantespiegazione:

“…Disteso al sole attendo che la morsanotturna blocchi le pietre in bilico sulla montagna. Ilmio compagno di cordata è Cosimo Zappelli: ventottoanni, viareggino, nipote di marinai, alpinista pervocazione. Capisco questo ragazzo che ha lasciato,come me, la sua città per vivere ai piedi del MonteBianco. Dopo la tragedia del Pilone gli ho offerto (sic!)il capo della mia corda. Da quel giorno Zappelli misegue e continuerà a seguirmi in quasi tutte le miescalate. Fino al giorno in cui, tre anni dopo, entrerà afar parte come aspirante della Società delle Guide diCourmayeur da cui io mi sarò ormai allontanato.Spontaneamente e anche con deciso risentimento.Fra me e quel gruppo di guide non c’erano mai statidialogo né comprensione. Quel giorno dunque,benché umana e inevitabile la scelta di Zappelli, saràper me una grande delusione. Forse, mi son detto,egli non ha saputo cogliere il frutto delle mieesperienze. O forse, più semplicemente, siamo dueuomini diversi. Lo slegherò (sic!) perciò dalla miacorda, pur conservando di lui bei ricordi. D’altra parte,come avrei potuto mettermi in cordata con una guidadi Courmayeur dopo che era stato indotto, per piùragioni, a cancellare dalla mia vita l’esistenza di quellacongrega?” (sic!) (4)

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A Bonatti, il cui carattere…”spigoloso” fuall’epoca ben noto a molti, deve essere soprattuttospiaciuto il fatto che Zappelli fosse riuscito là oveegli aveva miseramente fallito: farsi accettare edapprezzare dalle Guide valdostane.

Le succitate affermazioni di Bonatti, mirichiamano alla mente le seguenti citazioni che mipare ben s’attaglino alla vicenda:

“Resto sempre deluso quando un alpinista cheha compiuto una difficile prima ascensione nonriconosce l’apporto del secondo di cordata. Non siperde nulla a dire che, mentre si vinceva unostrapiombo, la corda scorreva nelle mani fidate delcompagno” (5)

e

“Si può ben dire che le Guide, qualunque siala loro nazionalità, sono belle persone…” (6)Ma Bonatti allora aveva cessato ormai da tempod’esser Guida!

***

Oltre all’attività professionistica con clienti,Zappelli ha svolto anche un’intensa attività“amatoriale”, in compagnia di colleghi di primissimopiano dell’epoca:

196122 settembre Monte Bianco (4807 m), versante delFrêney, via diretta a destra dei piloni (850 m, TD),prima ascensione, con Walter Bonatti;196222-23 giugno: Monte Bianco di Courmayeur, GrandPilier d’Angle (4243 m), parete N (750 m, ED-), primaascensione, con Walter Bonatti;196325-30 gennaio: Grandes Jorasses (4206 m), pareteN, Sperone Walker, via Cassin (1200 m, VI e A1),prima invernale, con Walter Bonatti;25-26 agosto: Punta Innominata (3730 m), speronee parete E (300 m, V+, TD), prima ascensione, conWalter Bonatti;18 settembre: Trident (3639 m), parete S-O (180 m,VI- e A3, con 70 chiodi e 25 cunei), prima ascensionediretta, con Walter Bonatti;11-12 ottobre: Monte Bianco di Courmayeur, GrandPilier d’Angle (4243 m), parete S-E (450 m, TD+),prima ascensione, con Walter Bonatti.19642-3 settembre: Pointe dell’Androsace (4107 m),sperone ENE, prima ascensione con Giorgio Bertone.196528 luglio: Pic Adolphe Rey (3536 m), sperone ENE,prima ripetizione con variante della via Terray, conGiorgio Bertone.

19669 setembre: Aiguille de la Brenva (3278 m), primaascensione diretta della parete E (430 m, ED-, V+ eA3) con Giorgio Bertone.196711-13 giugno: Aiguille Croux (3251 m), per lo speroneS-E dell’anticima sud- est (300m, TD con pass. V+),prima ascensione con Giorgio Bertone.19733-5 luglio: Monte Bianco (4810 m), primo percorsointegrale della cresta del Brouillard con LorenzinoCosson, Réné Salluard e Luigino Henry (dislivello dic. 3000 m con l’eccezionale sviluppo di 7200 m, D+)197721-22 dicembre: Aiguille Croux (3251 m), primainvernale della parete sud-est e cresta sud (via Ottoz)con Mario Mochet, Adriano Jordaney e Réné Salluard.19848 marzo: Aiguille de la Brenva (3278 m), primainvernale della cresta N (via Ottoz-Thomasset) conMario Mochet e Marco Zappelli (il figlio, oggi anchelui Guida Alpina nonché fisioterapista: buon sanguenon mente!)

Zappelli ha partecipato inoltre a spedizioniextraeuropee in Iran sui monti Zagros, in Africa sulKilimanjaro, Ruwenzori ed Hoggar, nell’ex URSS suimonti del Caucaso oltre che in sud-America sulle Ande.

Note(1) Guida dei Monti d’Italia – CAI-TCI – “Alpi Apuane”,pagg. 78, 278 e 376(2) Walter Bonatti fu molto probabilmente il più fortee completo alpinista italiano fra gli anni ‘50 e ’60:protagonista d’imprese d’assoluto rilievo quali la primasalita della parete est del Grand Capucin (1951), ladiretta agli strapiombi della cresta Fuerggen alCervino (1953), la partecipazione alla vittoriosaspedizione al K2, 8611 m, svolgendovi un ruolodeterminante (1954), la prima ascensione (in solitaria)del pilastro sud-ovest del Dru (1955), la conquistadel Gasherbrum IV, 7980 m (1958), del Pilastro Rossodel Brouillard al M. Bianco (1959), del versante norddel Pilier d’Angle al M. Bianco (1962), la diretta insolitaria invernale alla nord del Cervino (1965) ecc.,fu anche coinvolto in tragici episodi e relativepolemiche quali la morte di Vincedon e Henry dopol’invernale dello sperone della Brenva al Bianco (1956)e soprattutto il tentativo di salita al Pilone Centraledel Bianco con la conseguente scomparsa di Oggioni,Kohlmann, Vieille e Guillaume (1961).(3) Guida dei Monti d’Italia – “Monte Bianco” vol. II –pagg. 141-142(4) Bonatti W. – “Montagne di una vita” – Baldini &Castoldi ed., 1995(5) Harrer, H. – “Parete Nord” –nuova ediz.,Mondadori, 1999, pag. 8(6) Harrer, H. - Ibidem pag. 49

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John Bachar

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ROBERTO MASONI

FREE, CLEAN, TRAD & BOULDERINGAppunti di storia

All’inizio era il nulla.Si legavano ai fianchi le corde di canapa, si

stringevano con energia i lacci degli scarponi, si davaun’aggiustatina al cappello che calasse bene sulletempie. L’occhio e la mente attenti, concentrati suipassaggi visibili della parete, impegnati a scoprire il“facile nel difficile”. Una pacca sulle spalle delcompagno, poi, finalmente, i piedi si alzavano da terra,l’avventura poteva cominciare. Riti di un alpinismod’altri tempi, riti di grande alpinismo.

Poi, con graduale naturalità, il tempo hafatalmente fatto il suo corso, le tecniche si sonoperfezionate, i materiali si sono evoluti. Le modalitàdi approccio alle difficoltà sono andate fisicamente epsicologicamente trasformandosi senza maisnaturare, tuttavia, quel patrimonio culturale che èalla base di un alpinismo che deriva dai rituali retaggidi cui parlavo. Solo con questa chiave di letturapossiamo leggere gli straordinari progressi fin quiraggiunti nella tecnica di arrampicata, la chiave conla quale aprire la porta di una storia affascinante comequella del free climbing e del boulder.

Arrampicat a libera, pulit a, trad, sportiva …

A conferma di quanto appena detto, citerò undato evidente e cioè che fin dai primi anni del ‘900era manifesta l’intenzione di praticare un’arrampicatache fosse “pulita”, piuttosto che “libera”, che reputavapiù fondamentale lo stile con cui si affrontava unasalita piuttosto che la conquista di una cima.Portavoce di questa filosofia fu certamente PaulPreuss, alpinista che teorizzava non solo la purezzadel modo di “salire” ma pure l’analoga capacità discendere dalla cima raggiunta. Predicava, cioè, chechiunque salisse una cima avrebbe dovuto esserecapace di scenderla con i propri mezzi. Una filosofiadiscussa, un’ideologia non totalmente condivisa checausò violenti polemiche, una su tutte, la più nota,quella con Giovanbattista Piaz. Ma vi furono anchealpinisti che condivisero le idee di Preuss, anche senon completamente, e fra questi il grande AlbertFrederik Mummery che non tardò a manifestare lasua preferenza nei riguardi di un corretto spirito diarrampicata. Ancora nel 1906 un inglese, tale MorleyWood, realizzò la salita del Clogwyn Arddu, montagnadal nome impossibile nel Galles del nord, utilizzando

anch’egli un metodo “pulito”, pose infatti soloprotezioni naturali, sassi incastrati intorno ai quali fecepassare un cordino, forse una cordaccia, che loproteggesse in caso di caduta. Non era esattamentela filosofia di Preuss ma è fondamentalmente unprimo esempio, se non il primo, di “clean climbing”.

Ecco allora la necessità di un brevechiarimento. Occorre infatti fare chiarezza su unaspetto in mancanza del quale è praticamenteimpossibile stabilire qualunque iniziale confronto.Cosa si intenda per alpinismo “pulito” e perarrampicata “libera”. Senza questa premessa ladiscussione non può proseguire.

L’arrampicata libera nasce, senza alcundubbio, dall’esperienza dell’alpinismo “classico”,“trad”, e nasce sulle rovine di quel tipo di progressionemeglio definito con il termine di “artificiale”. L’avventodell’artificialismo è circoscritto ad un evento specifico,l’apertura cioè della via dei francesi Lucien Berardini,Adryen Dagory, Guido Magnone e Marcel Lainé alla

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parete SO del Petit Dru nel Gruppo del M. Bianco.Siamo nel luglio del 1952, quella del Petit Dru erauna parete sulla quale numerosi tentativi, compiutianche da forti alpinisti come Rebuffat e Livanos, sierano già consumati e tutti con scarso successo. Ciòche segna la particolarità di questa ascensione èl’utilizzo, per la prima volta nella storia dell’alpinismo,di chiodi a pressione, quel tipo di chiodo, cioè, cherichiede di dover praticare un foro nella roccia. Ifrancesi, infatti, non solo per garantirsi un’eventualevia di fuga ma soprattutto per ritornare al massimopunto raggiunto in occasione del precedente tentativo,attrezzarono un traverso in piena parete con questotipo di chiodi. Fu un concetto di progressione del tuttorivoluzionario per il quale i francesi furono aspramentecriticati ma che segnò un punto significativo nellaconcezione dell’alpinismo tanto che, nella scia deifrancesi, molte altre vie – non starò qui a farne unnoioso elenco anche se la bellezza di alcunemeriterebbe un palcoscenico più vasto - furono apertecon la stessa tecnica.

Nello stesso periodo, tuttavia, per un curiosogioco delle parti, si stava già muovendo qualcosanell’ottica di un’arrampicata “pulita”. In Inghilterra siutilizzavano, infatti, da tempo, dadi provenientidall’industria automobilistica che erano impiegaticome protezione in parete e che anticipavano di alcuni

anni gli “exentrics” di ispirazione californiana. Fu JohnBrailsford, di Sheffield, sempre in Inghilterra, aprodurre, nel 1961, i primi “dadi” per uso alpinistico.Sempre negli anni 50, l’americano John Gill, checome vedremo è il padre riconosciuto del boulder,introdusse l’uso della magnesite e perfezionò latecnica del “lancio”.

Fermiamoci un attimo. Ho parlato diarrampicata “pulita” e di arrampicata “libera”, vediamoin cosa si distinguono. L’arrampicata cosiddetta“pulita” fa riferimento a quella formula meglio definitacon il termine di “clean climbing”. “Clean” è quel tipodi arrampicata che non prevede l’uso di strumenti diprotezione se non quelli naturali e quindi non utilizzanemmeno i chiodi. Il clean climbing nasce comeattività che non deve lasciare traccia del passaggiodell’arrampicatore. Qualcosa, quindi, molto simileall’analogo e forse più conosciuto “by fair means” cioè“con mezzi leciti”. Francamente non saprei, certosarebbe tema da approfondire anche se discutibile.

L’arrampicata “libera”, invece, fa esplicitoriferimento al “free climbing”. “Free” è quel tipo diarrampicata che prevede l’uso dei chiodi e diqualunque altro strumento di protezione, cordainclusa contrariamente a quanto molti pensano,purchè nel corso dell’arrampicata si utilizzino solo i

Kurt Albert

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naturali appigli della roccia senza dunque fare ricorsoalle protezioni per procedere (diversamente sarebbeuna progressione “artificiale”) o riposarsi.L’arrampicata “free” senza alcun tipo di protezione,corda inclusa, è definita “free-solo”. Chiariamo ancheun ulteriore aspetto che tiene conto di una miapersonale valutazione, a Voi condividerla o meno.L’arrampicata libera praticata in montagna, e nonnecessariamente su vie classiche, è da considerarealpinismo solo in presenza di un metodo di protezionetradizionale. Nel caso, invece, di vie cosiddette“moderne”, quindi aperte, o chiodate anche in unsecondo tempo, con protezioni di ultima generazione,ritengo sia più coerente definirlo “free climbing” anchese gioca un ruolo non indifferente il fattore ambientale.L’arrampicata libera praticata in falesia, anche inpresenza di vie di più tiri, è da consideraresostanzialmente “free climbing”. Ovviamente per la“moulinette” ma anche per itinerari “multipich”.

Ma vi è, anche, un ulteriore modello diarrampicata che non ho ancora nominato, lo faccioadesso: l’arrampicata “sportiva”. Nasce nel 1985 conla prima gara di arrampicata a Bardonecchia ed èquindi “sport”. In realtà i presupposti di questo tipo diarrampicata erano presenti già da tempo grazie allapratica del “rotpunkt” cioè quel tipo di arrampicataideato da Kurt Albert in Germania che elaborando ilmetodo AF (Alles Frei) prevedeva una progressionecaratterizzata da una soluzione di continuità. Nonprevedeva infatti alcun resting, termine con il qualesi identifica il riposo. La presenza di resting, o piùrestings, genera infatti quel tipo di progressionemeglio definito “lavorato” introdotto da Ray Jardinein California. Mi auguro di essere stato chiaro e dinon avervi confuso le idee, andiamo avanti.

Il “free climbing” nasce sostanzialmente negliStati Uniti. Nel 1967, tornando da un viaggio inInghilterra, l’americano Royal Robbins porta con sealcuni chocks (cunei) grazie ai quali effettuerà la primaascensione del Nutcracker (letteralmente“schiaccianoci”) al Manure Pile Buttress (Pilastro delmucchio di letame) in Yosemite. I cunei importati daRobbins saranno migliorati e prodotti da YvonChouinard che ne inizierà anche lacommercializzazione. Sul finire degli anni 60, inseguito alla scoperta dei cunei, Doug Robinsonscriverà un libro sull’arrampicata, probabilmente ilprimo, dal titolo “The art of natural protection”. Ed èproprio sul finire degli anni 60 che si affermano inYosemite alcuni fra i primi, formidabili free climbers.Fra questi Jim Bridwell, John Bachar, Ron Kauk, RayJardine, Tony Yaniro.

In Europa il free climbing approderà più tardi,solo successivamente al “pellegrinaggio”, perché diquesto si tratta, che alcuni alpinisti nostrali faranno

in Yosemite. Pierre Allain aveva dato una grandemano agli alpinisti inventando e producendo scarpetteda arrampicata a suola liscia. Le chiamò PA salvopoi modificarne il marchio in EB andando, purtroppo,a creare una certa incomprensione con l’inglese EllisBrigham anch’egli costruttore di scarpette. Nel 1973,Reinhold Messner scriverà un libro denuncia dal titolo“Settimo grado”, libro nel quale polemizza control’espandersi dell’arrampicata artificiale. In Italia nasceil Nuovo Mattino, nome nato dall’analogo articolopubblicato sulle pagine della Rivista da Gian PieroMotti. Un nome, quello del Nuovo Mattino, il cuisignificato probabilmente sfugge a molti arrampicatoridelle nuove generazioni. Vediamo allora cos’era eche ruolo ha avuto nell’arrampicata italiana.

Il Nuovo Mattino nasce come un movimentoche pone in discussione i metodi alpinistici fino alloraaccettati, il rifiuto quindi di un alpinismo di vecchiaconcezione vincolato al raggiungimento della cima,privilegiando ed incoraggiando invece un ideale climadi ricerca, teso alla scoperta di nuovi spazi di libertàin montagna. A sottolineare ciò, vale inoltre la penaricordare che il Nuovo Mattino si distingue anchecome movimento di tutela dell’ambiente montano.Scriveva Motti: “A poco a poco si è creata l’illusionedi poter salire ovunque, si è creduto ingenuamentedi poter aprire il territorio alpinistico a chiunque,usufruendo dei mezzi aggiornatissimi che la tecnicaci ha messo a disposizione”. Passati gli anni 70 Mottiritratterà, in verità, parte di quanto da lui affermato e

Gian Piero Motti

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lo farà proprio in funzione di quello specifico concettodi smisurata libertà che nella sua esplosione neincarna il fallimento. La faccia sconosciuta di quellaoscura medaglia che pone grossi confini alla liberaricerca di se stessi causandone i più contrari effettinegativi. Da qui la denuncia di Motti nel celebre “Ifalliti”: “Il free-climbing, inteso non tanto nel sensodi arrampicata libera ma in quello più ambizioso efilosofico di libero arrampicare, pareva essere natocome espressione di libertà e di assoluta disinibizione.Ahimè... ora ci si va accorgendo che invece ha portatogli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise daportare, fazioni, provincialismi, miti e mituccidell’uomo-muscolo […], glorie e gloriuzze, re e reuccidi paese... un quadro forse peggiore di quellodell’alpinismo di ieri. Il Nuovo Mattino rappresentavala possibilità di estendere la dimensione dello spiritoa quelle strutture rocciose che erano invece ripudiatedagli alpinisti tradizionali”. Occorrerebbe bel altrospazio per discutere questi temi.

La valle dell’Orco e la V al di Mello

Per restare al Nuovo Mattino, due sono iluoghi, in Italia, che la natura ha voluto regalare aquei giovani che aderiscono al movimento e chedesiderano porre al centro della loro attività le ideeche esso propone: la Valle dell’Orco e la Valle di Mello.E’ qui che prende forma il free climbing nostrale.

Il fulcro della Valle dell’Orco è il Caporal, unastruttura molto articolata dalle infinite possibilità. Laprima via aperta sul Caporal sarà chiamata “TempiModerni” (1972) ed a realizzarla sono Flavio Leone,Ugo Manera, Guido Morello e lo stesso Gian PieroMotti. In rapida successione sono aperte anche “Solenascente”, da Giancarlo Grassi, Mike Kosterlitz e GianPiero Motti, e “Itaca nel sole”, da Guido Morello ed ilsolito Motti.

Nel 1973, alla ricerca di nuovi stimoli,l’indimenticato Giancarlo Grassi scopre una nuovastruttura non lontana dal Caporal alla quale darà ilnome di Sergent, più di Caporal ma meno di Captainin Yosemite. Apre “Cannabis” con Danilo Galante,quindi nel 1974 aprirà il “Diedro del Mistero” ed insuccessione anche la “Fessura della Disperazione”.Sempre nel 1974 al Caporal saranno aperte anchealcune vie artificiali in stile Yosemite, “Il lungocammino dei comanches”, “Strapiombi delle visioni”e “Orecchio del Pachiderma”, che dimostrano comele vecchie abitudini non siano ancora del tuttodimenticate.

Sempre nel 1973 giunge dagli Stati Uniti unanovità che rivoluzionerà il mondo dell’arrampicata.Greg Lowe realizza un sofisticato sistema diprotezione a camme, su scorta di quanto già studiato

dal russo Vitaly Abalakov, che chiamerà “spring-loaded camming device”. Questo attrezzo saràdefinitivamente brevettato e conosciuto grazie a RayJardine con il nome di friend. Jardine stesso nedimostrerà la bontà realizzando Separate Reality, lafessura simbolo della Yosemite, proteggendosi solocon friends ed inaugurando il metodo “lavorato” dicui parlavo poco fa.

Ivan Guerini, habitué dei sassi del fondovalle,scopre, nel frattempo, dal punto di vistadell’arrampicata, la Val di Mello. Apre, le 1975,“Cunicolo Acuto” e l’anno successivo contribuisce afondare il gruppo dei “Sassisti”, un primo nucleo diappassionati di quell’attività che assumerà in seguitoil nome di “boulder”. Fanno parte dei “sassisti”Giuseppe “Popi” Miotti, Jacopo Merizzi, AntonioBoscacci, Paolo Masa, Mirella Ghezzi ed altri. Nel1976, Guerini apre una delle vie divenute un simbolodella Val di Mello: “Il risveglio di Kundalini” e nel 1978l’anch’essa celebre “Luna nascente” allo Scoglio delleMetamorfosi.

Siamo giunti alla fine degli anni 70, il freeclimbing sta prendendo distintamente forma nelleintenzioni delle giovani generazioni di arrampicatori,sta percorrendo un sentiero ormai tracciato. Giunge

sopra:Wolfang Gullich su Separate RealityA destra, dall’alto: Ron Kauk e Tony Yaniro

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notizia che Kim Carrigan, in Australia, abbia salito“Prokol Orum”, una via valutata 7b+ (anche le vecchiescale di difficoltà si sono emancipate) ai MontiArrapiles, ma della cui realizzazione avremo scarsanotizia sia in Europa che in USA. Ma è negli StatiUniti che il free climbing ha un’impennata di qualità.Ron Kauk, ancora giovanissimo, apre, nel 1975,Astroman alla Washington Column (Yosemite) incompagnia di John Bachar e John Long. Un 5.11 cheequivale ad un 7a/7a+, completamente in arrampicatalibera. Astroman è oggi considerata in Yosemite unadelle vie classiche del free climbing, Chris McNamarascrisse in quegl’anni:” “is to free climbing what TheNose is to wall climbing: long, flawless, and excep-tional” Ovvero “è per l’arrampicata libera ciò il Noseè per l’alpinismo classico: lunga, perfetta edeccezionale”. Nel 1977 lo stesso Kauk compie laspettacolare libera di Tales of Power (7b+) e nel 1978“chiude” anche Separate Reality, il mostro sacro dellaYosemite. Ma giungono anche i primi 8a. Pete Cleve-land realizza un primo 8a nel 1977 mentre un paio dianni dopo, nel 1979, suscita molto clamore la per-formance di Tony Yaniro su Phoenix e Grand Illusion,una stupenda fessura strapiombante.

Il 1979 è anche l’anno in cui Wolfang Gullich,che già da alcuni anni è uno dei leader indiscussi delfree climbing, si reca in America per la prima volta.L’impatto con l’ambiente della Yosemite non è deimigliori, di fatto non riesce a salire nessuna delle vieaperte da Yaniro, tale e così evidente è la superioritàdegli americani. Dovrà aspettare il 1982 per salire un8a, il primo 8a europeo anche se non realizzato inEuropa. Le migliori performance europee erano, finoal 1981, la salita di Le Haine a Mentone (Berhault7c+) e Mattino dei Maghi (Manolo 7c+).

Siamo agli inizi degli anni 80. Agli indiscussitalenti californiani va ad aggiungersi un manipolo digiovani talenti di scuola europea, fra costoro vi sonoPatrick Edlinger, Patrick Berhault, Maurizio Zanolla(Manolo) e soprattutto il già citato Wolfang Gullichche per quanto meno talentuoso degli altri, segnerà,grazie alla sua costanza, un livello mai raggiuntonell’arrampicata libera.

Nel 1981 un fatto strabiliante scuote il mondodell’arrampicata. Sulla parete SO della Marmoladaun giovane diciassettenne, Jindrich Sustr, apre incompagnia di Igor Koller una delle vie piùsignificative dell’intera parete, è la “via attraverso ilpesce”. Sustr si rende protagonista, su una via dimontagna non dimentichiamolo, di una performanceche per l ’epoca ha veramente qualcosa dieccezionale, mostruoso. Spinto da Koller concludeil settimo tiro, peraltro senza alcuna protezione,segnando un VIII° grado della classica scalaWelzenbach. Questo tiro è tutt’oggi considerato un 7a/

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7a+ o in alternativa un A2 nella particolare scala dellaprogressione artificiale.

Verso la fine del 1982 Antoine Le Menestrelrealizza Reve de Papillon e Le caeur est un chasseuralle Mouries, Guillot realizza Crepinette alle Eauxcairese, Tribout realizza Fritz de cat in Sassois edinfine Manolo “chiude” Draculella. Nel 1983, oltre allacomparsa dello “spit” ad opera di Marco Pedrini,Patrick Edlinger realizza quello che possiamoconsiderare il primo 8a in terra europea, lo realizza aBuoux su una via alla quale darà nome ça glisse aupays des merveilles. Jerry Moffat dichiara 8a+ allavia The Face in Germania. Nel 1985 si comincia achiodare dall’alto, nascono nuove ed importantifalesie: Valle S. Niccolò, Arco, Finale Ligure, MonteTotoga, Erto, Sperlonga. Le star nazionali del periodosono Andrea Gallo, ovviamente Manolo, HeinzMariacher, Luisa Jovane fra le donne, Pietro Dal Pràe, se vogliamo, anche Mauro Corona. Tornando negliStati Uniti, Wolfang Gullich ripete, nel 1986, senzaalcuna protezione Separate Reality e Action Direct(9a?) in Frankenjura, Germania. Nel 1985 avvienela prima gara di arrampicata a Bardonecchia. Nel1987 vi è la prima gara ad Arco alla Rupe del Castelloper essere poi sostituita fin dal 1988 con unastruttura artificiale.

E’ ad Arco, in quest’occasione, che simettono in luce Patrick Edlinger e CatherineDestivelle, due autentici fuoriclasse dell’arrampicata.Ma è tutta la scuola francese, in particolare, amettersi in mostra.

Il boulder

Il boulder nasce nella notte dei tempi.Contrariamente a quanto molti pensano, il boulder,che nell’immaginario possiede una certa modernità,è invece una pratica molto più antica dell’alpinismo.Salire su un masso, misurarne il superamento, altronon era che un modo di esprimere sensazioni, didescrivere difficoltà molto più audaci, rappresentareuna tecnica più raffinata rispetto alle inevitabilicostrizioni morfologiche di una scalata in parete. Findai primi del 900 furono infatti in molti a praticarlosenza nemmeno immaginarsi che a distanza diqualche lustro il boulder sarebbe assurto a disciplinaa se stante, peraltro ricca di contenuti e di una tecnicaindividuale molto evoluta.

Al di là dell’enorme contributo dato, comevedremo, da John Gill, colui che è unanimementericonosciuto come il padre del bouldering è OscarEckenstein definito, proprio da Gill, “the first realbouldering personality”. Eckenstein è considerato uninnovatore, anche nella pratica dell’alpinismo, unteorizzatore della tecnica di arrampicata, un maes-

sopra:Oscar Eckensteinsotto: Hans Fiechtl

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tro. Per delinearne meglio i tratti, e megliocomprenderne la poliedricità, basti ricordare unanuova concezione di ramponi da ghiaccio e nuove,più corte piccozze il cui disegno molto ha influenzatolo sviluppo degli attuali attrezzi da ghiaccio.

In tempi non sospetti anche Pierre Allain inFrancia e il tedesco Hans Fiechtl avevano praticatoil bouldering. Fiechtl, in particolare, anche se erasostanzialmente un alpinista che molto arrampicò conHans Dulfer e Otto Herzog. E’ a Fiechtl che dobbiamo,nel 1913, l’impiego del primo, primitivo chiodo daroccia ideato da Dulfer intorno al 1912 e da luiutilizzato sulla parete est della Fleishbank. Tracce dibouldering le troviamo anche in Inghilterra e negli StatiUniti dove già nei primi anni ’50 assunse il ruolo diuna ricerca sperimentale che segnava un forte sensodi avventura ed esplorazione.

Ma cos’è il boulder? O, quanto meno, cosaconsideriamo oggi con il termine boulder? Bouldersignifica risolvere un problema tecnico, qualunquedifficoltà lo distingua, con non più di 8-10 movimentiad un’altezza variabile fra i 5 e i 6 metri da terra. Al disopra di quest’altezza non è più possibile definirloboulder ma “highball”. Pratica quindi fine a se stessa,che niente ha a che vedere con l’alpinismo anche sene risulta propedeutica.Padre indiscusso del boulder moderno è John Gill.Grande merito di Gill fu quello di non circoscrivere il

sopra:bouldering in Dolomiti1890

sopra:Pierre Allainsotto: John Gill

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boulder all’aspetto più manifesto, cioè quellotecnico, bensì quello di proporlo come veicolodi rapidi progressi utilizzabili da coloro, ed eranola magg ior par te , che pra t icavano so lol’alpinismo.

Il boulder comincia ad assumere una suafisionomia intorno agli anni ’50 negli Stati Uniti.Seguace di questa disciplina fu soprattutto quella“generation” sorta dalla spinta dei vari Robbins ecompagni, dalla quale anche John Gill provieneseppur con significative diversità. Una generazioneche si muoveva stimolata dalla domanda “quantopossiamo e quanto è difficile alzarsi da terra?”. JohnGill, in particolare, aveva enormi capacità, un talentonaturale e smisurato che gli valse il soprannome di“mosca umana”. Introdusse parallelamente allo stu-dio sul boulder, una nuova metodologia diallenamento, della quale divenne convintosostenitore, riuscendo nell’intento di trasportare unaserie considerevole di movimenti da ginnasta nellapratica dell’arrampicata. E’ a lui che dobbiamol’introduzione della magnesite, un ingresso mutuatoproprio dalla ginnastica. Nella sua rivoluzionariatecnica di allenamento presero forma trazioni, a turno,su un solo singolo dito, trazioni orizzontali su un solobraccio, movimenti mutuati dagli anelli tipo laposizione a “farfalla”. Nell’arrampicata dimostrò grandicapacità intellettuali, un uso esemplare dei piedi, uncoordinamento mostruoso. Se teniamo conto dellescale attuali John Gill è oggi riconosciuto come

arrampicatore da 6c/7a a vista della scala boulder.Pensate, erano gli anni 50! Dietro la spinta di JohnGill, in molti si dedicarono al boulder con successo efra questi Royal Robbins, Pat Ament, Bob Kamps,Pete Cleveland. Quest’ultimo forse il migliore, cheseppe in più di un’occasione competere proprio conil maestro. Uno dei meriti di Gill fu indubbiamentequello di convincere che il boulder aveva una suamentalità, una sua visione, un’impostazione propria,insomma che non si trattava di vera e propria scalata.Questo forse, un ulteriore motivo che lo convinse acreare una scala di difficoltà finalizzata al boulder:B1, B2 e B3. Cioè difficile, di notevole difficoltà e allimite delle capacità. Jim Holloway rivedrà questestime al ribasso aggiungendo alla scala di Gill ancheil “facile” e il “moderato”. L’introduzione delle scarpetteda arrampicata fece il resto.

In Italia, il boulder arriva intorno ai primi anni70, soprattutto in Val di Mello, Valle dell’Orco e ValMasino. Ne ho già accennato. Arrivano i primi 7a, 7banche se in Francia, a Fontainebleau, avevano giàraggiunto tali livelli con quindici-vent’anni d’anticipo.E proprio da Bleau, dove si è messo in luce, provieneJacky Godoffe che rimane, ancora oggi, uno deimigliori interpreti della disciplina insieme ai fratelliNicole, svizzeri e convinti sostenitori del metodo Gill,che rimangono anch’essi un punto di riferimento dellenuove generazioni.

Il resto è storia recente.

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nella pagina a fianco:il Rifugio Gardenacia

sotto:Panoramica della Marmoladadal Rifugio Pian dei Fiacconi

(foto A. Tozzi)

sopra: John Gill mostra un esercizio finalizzato al boulder - sotto: Patrick Berhaultnella pagina a fianco: a sinistra, Maurizio Zanolla (Manolo) - a destra, Wolfang Gullich su Action Direct (9a)

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UNA MONTAGNADI RAGAZZI

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DENTRO LA MONTAGNA

FABIO AZZAROLI

“Ragazzi, che ne direste di andare a rotolarcinel fango e ad insudiciarci ben bene col permessodei vostri genitori?”

E così è cominciata, nell’entusiasmo generale,un’uscita del corso di Alpinismo Giovanile del tuttofuori del comune. Non è la prima volta che portiamoi nostri ragazzi a visitare delle grotte, ma questa èstata la prima volta che abbiamo affrontato un veropercorso speleologico, non turistico. Con lo scopo dioffrire ai nostri ragazzi anche un altro aspetto dellamontagna: non solo sui suoi fianchi, non solo sullasua cima, ma anche dentro di lei, alla scoperta di unmondo tutto nuovo e impensato. Grazie alla pienadisponibilità degli amici dell’Alpinismo Giovanile e delGruppo Speleologico della Sezione di Jesi, laprospettiva che avete letto in apertura è potutadiventare realtà.

Personalmente ero già stato a fare quellostesso percorso durante un aggiornamento perAccompagnatori Nazionali e mi ero entusiasmatoall’idea di poterci portare i nostri ragazzi: un percorsosenza grandi difficoltà oggettive ma moltoremunerativo come scenari e come passaggi tecnici.Naturalmente ove opportunamente accompagnati dachi se ne intende, visto che avevo già avuto la nettae chiara percezione di come mi sarei inesorabilmenteperso nella grotta nel giro di pochissimi passi: diversiscenari, diversa prospettiva, diverso terreno di gioco,tutto che cambia ad ogni minimo mutaredell’angolatura della luce della frontale. Così, presitutti gli accordi del caso con gli amici di Jesi, siamopartiti con i ragazzi più grandicelli (da 11 anni in su)alla volta di Genga. Lì ci siamo fermati a un piccoloalbergo molto ospitale (ed economico, il che nonguasta!), dove abbiamo cenato in maniera eccellentee dormito.

La mattina dopo, sveglia presto: alle 8avevamo appuntamento nella piazzetta di S. Vittorecon gli amici di Jesi: Giorgio (speleologo e Presidentedella Sezione), con la figlia Francesca (speleologa eoperatore di Alpinismo Giovanile), Toni (speleologo),Giancarlo e Barbara (Accompagnatori Nazionali diAG ed esperti speleologi anche loro). Noi eravamoin 13 (Flavia, Nicco ed io, oltre a 10 scalpitantigiovanotti).

Sul piazzale la preparazione per affrontare lagrotta: tuta “insudicereccia”, stivali di gomma consuola artigliata, guanti di gomma, casco, lampadafrontale e tanto entusiasmo.

Alle 9 ci muoviamo alla volta dell’ingresso dellagrotta di Frasassi: breve sosta nella galleria diaccesso per le prime illustrazioni del caso (cosa èuna grotta, come ci si comporta, cosa troveremo,come è stata scoperta, ecc.) e poi via all’interno.

Per accedere al percorso speleologico vero eproprio dobbiamo percorrere un buon trattodell’itinerario turistico, e lo scenario è veramenteaffascinante: il sapiente gioco di luci, le eccezionalispiegazioni di Francesca, tutti i ragazzi sonoammutoliti dalla bellezza del luogo. In pocoraggiungiamo l’apertura della ringhiera che dàaccesso al “fuori pista” e subito, accese le frontali, ciimmergiamo in un percorso rischiarato soltanto dallenostre lampadine. Metto un piede in quella che credouna pozzanghera, e affondo fino al ginocchio primadi rendermi conto che è una buca bella fonda: pertutta la giornata continuerò a camminare facendo cic-ciac dentro lo stivale, che ovviamente ha pensatobene di riempirsi di acqua fangosa. Pensieri irripetibili.

In un continuo di saliscendi, camminiamo,strisciamo, ci divincoliamo sia in orizzontale che inverticale, scivoliamo su belle placche fangose lisciatedall’acqua, ci riempiamo fino in posti inenarrabili diuna mota bigia, fine e impalpabile che tende allacementificazione non appena accenna ad asciugarsi.

Ma ogni passo è uno spettacolo nuovo,un’esperienza da ricordare, uno scenario unico:piccolissime stallattiti tubolari, sottili quasi comecapelli; canne d’organo che quando ci bussi sopracon le nocche suonano come strumenti ben accordati,veli di calcare appesi al soffitto che sembrano fettedi pancetta (e si chiamano proprio così, essendosicostituite in diversi periodi di concrezione che hannovisto gocciolare anche piccole parti di ferro), stupendecascate immobili di un bianco fulgido e immacolato,che brillano di mille scintille alle luci delle nostre frontali.

Poi, arrivati a una grande sala occupata dauna frana, ci mettiamo a sedere, spengiamo tutti le

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lampade, e rimaniamo a guardare e ad ascoltare. Unbuio totale che, guardandolo, ti rendi conto che il neropiù nero è un colore: quello che è davanti ai nostriocchi è un nero opaco, denso, sembra di poterlotagliare a fettine. E nel silenzio ascoltiamo il rumoredella grotta: sommesso, quasi impercettibile, macontinuo, cullante, vivo.

Torniamo indietro per un percorso un po’diverso, e ancora a strisciare, a divincolarsi, acamminare a due, tre, quattro zampe, testate qua elà, qualche parola non proprio commendevolesottolinea quelle più dure. E poi di nuovo la luce delpercorso turistico; un’ennesima conta, non mancanessuno, anche questa volta è andata bene.

Torniamo all’aria aperta e con un gran sollievorisento finalmente il vento sulla faccia: cominciavoad avere una certa fame d’aria, in grotta non si muovein alito, l’umidità dell’aria rasenta il 100%, è un’ariafresca e pura ma anche pesante, bagnata. Allapartenza avevamo qualche preoccupazione per comeavrebbero reagito i ragazzi più piccoli: temevamo cheavrebbero potuto spaventarsi, o comunque sentirsia disagio. Ed invece non eravamo ancora finiti dipassare dalla porta di uscita che una vocina, accantoa me, mi fa: “Fabio, ma l’anno prossimo si ritorna,vero?”.

Tornando verso S. Vittore facciamo una brevedeviazione verso la sorgente di acqua sulfurea adarci una sgrossata alle maschere di fango, diceche fa anche bene alla pelle… Sarà, ma il puzzo ènotevole!

Un rapido pic nic sul piazzale accanto alparcheggio turistico, e poi subito in macchina per cercaredi essere a Firenze all’ora prevista, prima di cena

Il ronzio del motore viene presto sovrastatoda un più insistente rumore di segheria; non appenamessi a sedere, tutti si sono addormentati comeangioletti: la levataccia, un po’ di fatica, tante emozionie il gioco è fatto.

Gli amici di Jesi sono rimasti colpiti dalla bra-vura dei nostri cuccioli, tanto che loro stessi mi hannoproposto di far fare loro anche un altro percorso,leggermente più impegnativo ma, pare, ancora piùdivertente. Vedremo l’anno prossimo…

In tanto grazie agli amici di Jesi che hannoreso possibile tutto questo, grazie alle mamme checi hanno affidato i loro ragazzi pur consapevoli delgran lavoro che le avrebbe aspettate al momento dellariconsegna di quei blocchetti di fangosemiaddormentati e sorridenti, grazie ai ragazzi perla luce felice dei loro occhi.

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(le foto sono di Fabio Azzaroli)

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FLAVIA RIZZINI

STORIE DI AQUILOTTI, DI ASINI E DI VOLPI

Iacopo conduce il suo asinello, serio econcentrato. Cammina regolarmente, con passosvelto per riuscire a stare dietro agli altri che hannoasini più grandi del suo. Ma gli altri animali non sonocosì bravi: si fermano, mangiano caparbiamente unciuffo d’erba nonostante le proteste degli “asinari”, sisvincolano dalla loro presa per raggiungere il gruppo... la sua Carlotta invece no: anche lei, come il suopiccolo conduttore, non si distrae e svolge,infaticabile, il suo lavoro. Là davanti, al di sopra di unmare di piccole teste e di lunghe orecchie, Francesco,come un pifferaio magico, conduce il gruppo,voltandosi continuamente a controllare le retrovie.

Abbiamo percorso il pezzo di strada asfaltatache dalla mulattiera, a Piè di Colle, ci ha portato suuna carrareccia che si snoda tra campi e piccoliboschetti nelle campagne norcesi, disseminate difortificazioni e chiese stupefacenti. Tutti sono pimpantie di buon umore, nonostante l’ora antelucana a cuisiamo partiti: sette bimbi dell’Alpinismo Giovanile edio, diretti appunto vicino a Norcia, dove abbiamointrapreso quest’avventura molto particolare insiemecon un gruppo della Sezione di Forlì.

Alla mulattiera Roberto, il titolare, e Francescoci hanno spiegato come avvicinare gli asini, comestrigliarli, mettere loro la cavezza e i basti. Abbiamocaricato le some sui nove somarelli che ci hannoassegnato e, in fila indiana, siamo partiti. Il tempo èstupendo. Lo sarà per tutti e quattro i giorni di trek-king. Dopo qualche chilometro con dislivelli modesti,ecco la prima salita dura e con essa un po’ disconforto. Ma dalla cima del valico Francesco cimostra il posto dove pianteremo le nostre tende. Nonsi vede una casa, se non qualche rudere sparso. Lemontagne verdi e dolci assomigliano più a colline,che a montagne vere e proprie, ma il freddo dellanotte ci ricorderà che tutto il nostro viaggio si svolgesopra i 1000 metri di quota.

Arriviamo alla sorgente intorno alle 18. Iragazzi sono piuttosto stanchi: i miei hanno tra gli 8 ei 12 anni. I quattro di Forlì sono più grandicelli, matutti si sono alzati alle 5 e hanno dovuto camminaresecondo il passo degli asini, a volte veloce, a voltepunteggiato da fermate e rincorse continue,sicuramente molto faticoso per un piccolo bipede.

Inoltre, quando si va con questi animali, le sostepossono essere fatte solo in posti dove essi possonopascolare agevolmente. A volte, come scopriremo neigiorni successivi, non possono proprio essereeffettuate, se no gli asini più giovani, stanchi ancheloro, si buttano in terra, e per farli rialzare occorrescaricarli della soma.

Per preparare il campo per la notte non mancail lavoro: dopo aver scaricato gli asini e averliabbeverati, la prima cosa da fare è approntare unrecinto elettrico: Francesco si fa aiutare dai ragazzi,mentre Luciana, Aride (i due accompagnatori di Forlì)ed io cominciamo a tirare fuori la roba dalle enormibisacce e a montare le tende. Anche i fornellicominciano a lavorare ed è quasi buio quando,rimbacuccati e seduti su dei teli, ci gustiamo la“nostra” pastasciutta. Mentre lavoravamo un pastoreè venuto a trovarci: doveva prendere il formaggiotenuto al fresco sotto la sorgente, ma in ogni casosarebbe venuto a scambiare quattro chiacchere connoi, uniche persone presenti, oltre a lui, in quella zona.E’ la notte dell’eclissi di luna. Che fortuna poterlavedere da qui! Il cielo stellato, senza il fastidiodell’inquinamento luminoso, è uno spettacolo raro!La mattina avremmo voluto avere la magia di MagoMerlino per fare i bagagli, ma le cose sono andatepiuttosto bene ugualmente. Luciana è una vera epropria macchina da guerra e, non so come, è sempreriuscita a riporre sacchi a pelo, materassini e vestitiin tempi impensabili.

I ragazzi hanno aiutato lei e Aride aspicchettare e piegare le tende e Francesco e me apreparare le bestie. Sono molto orgogliosa del fattoche, dopo la prima volta di collaudo, la nostracongrega la mattina riusciva a essere pronta a partirein tre ore, tempo occorrente in genere a un gruppo diadulti per fare altrettanto!

Il secondo giorno è stato il più selvaggio:siamo saliti in cresta e abbiamo svalicato verso il PianPerduto. C’eravamo solo noi e qualche gregge dipecore col pastore. Ancora la salita è stata dura, 800metri di dislivello, ma il cominciare ad apprezzare quelparticolare contesto, riuscire a entrare nel film, fareparte dell’avventura e gustarla, viverne le emozioni,il grande senso di libertà donato dall’ambiente, dal

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fatto di esserci solo noi, ha sedotto bambini e adultie in un battibaleno ci siamo ritrovati a fine giornata, amontare il campo, questa volta vicino a una strada,per cui Roberto ci ha potuto portare una magnificateglia di lasagne e un ancor più magnifica arista. Ilterzo giorno, dopo aver lambito Castelluccio, abbiamoattraversato il Pian Grande, set cinematografico dimolte famose pellicole tra cui “Fratello Sole, SorellaLuna.” La fioritura era un po’ in ritardo e i pochifiordalisi non sono riusciti a regalarci l’effetto acquaper cui sono tanto famosi qui, ma il giallo dei fiori disenape selvatica che infesta i campi di lenticchie,quello lo abbiamo visto, e lo spettacolo che ci haregalato è stato comunque molto bello.

Le montagne intorno alla piana mostrano icerchi delle streghe (cerchi perfetti di erba di colorediverso dovuto alla crescita sotterranea di coloniefungine) e sul monte Vettore si vede la frattura difaglia. Francesco racconta che è il camminamentousato dalle streghe per andare dalla montagna aCastelluccio in occasione di qualche festa paesana.Ormai siamo tornati alla civiltà e, saliti a ForcaCanapina, ci accampiamo addirittura vicinissimi a unrifugio. Bè, le nostre abitudini a questo punto non leabbiamo comunque cambiate, e forse per rendere ilpiù realistico possibile il racconto che i ragazziavrebbero fatto la sera dopo ai genitori ... la doccianon l’ha fatta quasi nessuno! Ma la magia non èancora finita: dopo cena accendiamo, non senzadifficoltà per la guazza che bagna ogni nostra fontedi combustibile, un grande fuoco e mentre siamo lìtutti in cerchio a leggere e ascoltare fiabe di animali(l’elefantino che va al grigio e graveolente fiumeLimpopo, la volpe Smirne...) proprio la volpe siavvicina, mangia la salciccia che le avevamo lasciatoin terra, salta sui tavoli a cercare ancora, si attarda apochi metri da noi, senza nessun timore per il fuocoe per le nostre voci.

La mattina dopo di nuovo in marcia. Ormai gliasini sono molto alleggeriti, in quanto buona partedella dispensa è stata consumata e l’occorrente perla cucina è stato lasciato al rifugio. Due di lorovengono quindi sellati per farci montare sopra a turnoi ragazzi. Grande soddisfazione, anche se a momentioscurata da un certo timore, se non addirittura panico,quando, specialmente in discesa, qualche asino sidimostra un tantinello scapestrato. Nel corso dellagiornata incrociamo diversi turisti, un gruppo di bik-ers e un gruppo di gente a cavallo. Che contrasto!L’andatura, il portamento, la velocità; io che hopassato quelli che considero i migliori anni della miavita a cavallo, presa da una passione che pensavounica e inestinguibile, oggi sono felice di godermi lagita tirando lemme lemme un asinello. Tra raccontidi film, di libri letti, spiegazioni di come e perché vienefatta una ferratura, percorriamo la lunghissima

discesa che ci porta alla mulattiera. Ancora non cisiamo resi conto che la nostra avventura sta finendo,anzi, la confidenza nel gruppo, con Francesco, tra iragazzi delle due sezioni, tra ragazzi e accompagnatoriche non conoscevano, sembra antica, ed è un veroshock rendersi conto all’improvviso che siamo in ritardo,che l’autista del pulmino è già lì e vuole partire.Affannosamente scarichiamo gli asini, separiamo ibagagli, saliamo in autobus, con dei saluti troppofrettolosi, assolutamente inadeguati a suggellare quelloche è stato, ma sicuramente col proposito di rivederci.Inviteremo Francesco al nostro pranzo di Natale, penso.I ragazzi di Forlì li rivedremo a breve a Brisighella.

Come sapete l’Alpinismo Giovanile si è datoun progetto educativo che vede la montagna e tuttele attività che vi si possono svolgere come mezzo eteatro per aiutare i ragazzi nella loro crescita e nellaloro maturazione. Svolgere un trekking con degli asiniè un valore aggiunto: gli animali, affidati alle cure deiragazzi li responsabilizzano, li costringono a unaconcentrazione costante, li educano a dare laprecedenza alle loro necessità, come fossero compagnidi viaggio più deboli o comunque più bisognosi.

Un’esperienza di questo tipo ti lascia arricchitodi tante emozioni importanti e durature; voglio quindiringraziare tutti gli aquilotti per essersi divertitinonostante la fatica (in quattro giorni hanno percorso60 km) e qualche piccolo incidente legato alla“compagnia degli asini”, Aride e Luciana per avermiaiutato a gestire un gruppetto un po’ troppo numerosoper un accompagnatore solo, e Francesco, la nostraguida, che si è lasciato totalmente coinvolgereabbandonandosi, compiaciuto, al vento frescodell’Alpinismo Giovanile.

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(le foto sono di Flavia Rizzini)

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Irene al Passo del Cancellino(foto Archivio Marinelli)

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E finalmente eccomi qua. Sono arrivata aquesto fatidico passo del Cancellino del quale il nonnomi ha parlato fino alla noia.

Devo dire però che aveva ragione, è un postobellissimo, da un lato ho il Corno alle Scale e dall’altroil monte Gennaio. Da questo passo si dipartono duegrandi valli: una verso il pistoiese e l’altra versol’Adriatico.Mi distendo su una morbida erbolinaaccarezzata da un fresco venticello che scorre sulmio viso attenuando il calore del sole.

Mi vengono alla mente le due gite precedenti:alle Burraie e al Cimone. Ricordo che avevo paura aentrare dentro quella piccola casetta: la Burraia. Erabuia e tetra, c’era un rumore d’acqua che scorrevadentro alcune vasche di pietra. Mi feci coraggio edentrai a prendere dell’acqua. Poi, però, mi soffermaia lungo pensando alle persone che, un tempo,facevano il burro in queste piccole casette; mi parevaquasi di vederle lavorare alle zangole.

Ma una voce mi distolse dai ricordi: era ilnonno che non vedendomi tornare mi chiamava.Mentre mi riposo ancora sull’erbolina morbida ricordoanche la bella, ma faticosa, gita al monte Cimonenon paragonabile a quella di oggi. Salimmo al Cimonepartendo da Piaggia Grande e percorrendo non lavia “normale” ma salendo, prima per una vecchia pistada sci e dopo risalendo grandi e ripidi prati di mirtillosotto un sole cocente. Questa fatica però è stataripagata dalla fantastica vista che mi si è presentatadavanti con sullo sfondo le imponenti Alpi Apuane.

Ma come tutte le cose belle anche questa finìe iniziò la lunga discesa per la “via normale”per

IRENE GRAMEGNA MARINELLI

E FINALMENTE ...

tornare alla macchina. Come al solito il nonno midistoglie dai miei ricordi. Dobbiamo raggiungere lafonte dell’Uccelliera, che è una sosta “obbligatoria”seci troviamo da queste parti, per poi tornare a casacon tantissime emozioni da raccontare.

nelle foto sotto:

Il Passo del Cancellino eIrene nella burraia di Fonterinalda

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Attivitàdei Gruppi, Scuole, Sottosezioni

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Un tratto del sentiero che sale da Rivoreta verso il Libro Aperto(foto R. Masoni)

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SENTIERI ... QUASI SELVAGGI

ADOLFO CIUCCHI(Gruppo Namastè)

Santa Cristìna Valgardena, fine giugno

E’ presto, sto guardando fuori dalla finestradella casa che ci ospita e vedo il Sassolungo appenatoccato dai raggi del sole. Penso che sia molto megliodi una tazza di caffè per svegliarti. Sto lavorandoanche al pezzo che dovrò scrivere sollecitato dal miopresidente. Non è facile, molti argomenti si affollanoalla mente ma tutti o molto seri o che non portano danessuna parte. Anche la penna che stomordicchiando per trovare l’ispirazione non ha unbuon sapore, ma poi ad un certo punto si accendeuna lampadina. Essendo un patito del camminare,anche se con l’avanzare dell’età si cammina semprepiù con la memoria, posso scrivere di una cosaimportante, direi necessaria per farlo. Mi par di sentireche subito pensiate al fiato, giusto ci vuole anchequello, ma io pensavo ai sentieri.

Anche se il poeta Antonio Machado, che nonmi risulta sia mai stato iscritto al CAI, dice: “O viandante, sono le tue orme /Le sole cose che/formano il sentiero. / O viandante, non esiste ilsentiero, /il sentiero viene fuori mentre vai”, i sentieriesistono e sono importanti. Certo il più delle volte ciinteressa la meta più che il mezzo per raggiungerla.Quanti si soffermano a vedere nel sentiero chepercorrono tutta la sua importanza per raggiungerequella meta che sarebbe molto più complicatoraggiungere se non ci fosse. E non molti mentre colfiato corto avanzano pensano alla sua origine, allasua storia. Tutti i sentieri hanno una origine checertamente non è ludica come pensiamo o come èdiventata, e tutti avranno avuto storie che magari nonhanno fermato il mondo, ma piccole grandi storiequotidiane di fatica, paura o devozione. Penso aipastori che l’hanno percorso dietro le loro greggi, aimulattieri con le bestie cariche della soma, almercante che magari lo percorre pensando alguadagno mentre dietro alla curva l’aspetta il brigante,al pellegrino che spinto dalla fede si trascina colbordone e la conchiglia di san Giacomo o allesoldataglie avide di preda e di violenza.

Forse faccio troppi voli di fantasia e d’altraparte tutto questo non c’èsegnato sulla cartina quandoprogrammiamo l’escursione, allora ci si preoccupasolo del numero, della lunghezza e del dislivello.

Quando poi lo si percorre ci si augura che sia bensegnato, non troppo infrascato, direi comodo. Ecomunque rimane il mezzo e solo il mezzo perraggiungere una meta. E’ sempre stato cosi e sonosolo io che mi illudo che ci si possa soffermarci anchesul mezzo e non solo sulla meta. Questo succedeper una scalata in cui è importante la vetta ma anchela via di arrampicata con le sue difficoltà, i passaggidifficili e tutto il resto. Ripeto per una escursione ilsentiero ha importanza solo per il dislivello e lalunghezza, peccato.

Ma credo, anzi sono sicuro, che ognuno dinoi ha il suo sentiero preferito, quello che ricorda piùspesso, quello che l’ha colpito e che se gli ritorna inmente è capace ancora di farlo sognare e di staccarsiper un momento da questa vita convulsa edinsensata, come una conchiglia che salta fuori da uncassetto e ricorda la spiaggia assolata su cui l’haraccolta, e ti fa rivivere quel momento magico che tiripaga di tante amarezze quotidiane e illumina ancheuna giornata grigia e invernale.

Io ne ho tanti e li tengo cari, tutti racchiusidentro di me. Sentieri che mi hanno colpito, che hannosaputo far scattare la molla dell’emozione. Ricordiche mi sono preziosi e da conservare preservandolidall’oblio. Risento ancora, ricordandoli, i miei passi,il profumo delle piante o l’ombra bene accetta in unagiornata estiva. Forse la mente o il cuore haidealizzato questi miei ricordi ma per me sono tuttiveri e reali, solo io sono cambiato. Ognuno di noi,anche senza pensarci, ha il suo. Magari lo ha percorsoda ragazzo o da adulto, solo o in compagnia, allegroo triste, ma sempre qualcosa ha fatto che quel ricordonon si cancellasse mai. Guai a chi li percorre senzapensare, senza guardarsi intorno, senza perdersi inlui con la certezza che comunque conduce sempredove devi andare. Ho catalogato i “miei” sentieri invarie categorie: c’è quello da meditazione che mentrelo percorri ti permette di pensare a qualcosa di belloe che ti mette una gran calma, il panoramico, ilmisterioso perché si snoda nel profondo del bosco enon se vede la fine, ma tanto sai che c’è, e altriancora. Anche un grande scrittore aveva il “sentierodei nidi di ragno”. Certo idealizzare una cosa terraterra come è un sentiero può essere frutto di unamente bislacca, a voler essere caritatevoli. Per rifarmi

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al poeta con cui ho aperto, il sentiero è un po’ lasimilitudine della nostra vita: la si percorre ed è aseconda dei momenti bella, triste o drammatica, masempre degna di essere percorsa fino in fondo e digoderne di quello che a ogni passo ti offre.

Naturalmente, tanto per tornare con i piedi sulsentiero, non si può non considerare il lavoro duro eingrato ma molto importante svolto dal CAI nelsegnare, ripristinare, insomma tenere in ordine la retedei sentieri. Ci saranno zone in cui il lavoro è stato

fatto meglio e altre in cui, non per cattiva volontà maper la carenza dei mezzi e dei volontari, le coselasciano a desiderare. Io sono sempre molto grato alCAI specialmente quando indeciso sulla direzione dascegliere scorgo il mitico, eterno segnalino rosso-bianco-rosso. In un mondo cosi privo di regole esoprattutto privo di una direzione precisa, è, quelsegnale, garanzia e sicurezza di essere sulla stradagiusta. Buona passeggiata e buon sentiero a tutti voi.

Adolfo Ciucchi

La mostra per i 100 anni dello Sci Cai, allestitae curata da me insieme a Giancarlo Campolmi, nel2010 ha avuto i momenti di celebrità sia al Parterreche al Palagio di Parte Guelfa dove è stata ospitatadal 21 al 24 ottobre 2010. Le celebrazioni perfesteggiare i cento anni del Gruppo Sci Cai si sonoconcluse Sabato 23 ottobre scorso con un incontrocon la città di Firenze, in Palazzo Vecchio, ospitatinel Salone dei Cinquecento. Questa occasione ci hadato la possibilità di “raccontare”, anche con l’ausiliodi un video, le gesti di questi skiatori del secolo scorso.La mostra poi ha fatto il suo ritorno “in montagna”dove i primi skiatori avevano cominciato a provarequesto nuovo sport: è stata “richiesta” infatti dalComune di Abetone che l’ha ospitata nel PalazzoComunale durante le Festività Natalizie. E’ statavisitata da numerose persone del luogo, moltointeressate a notare e riconoscere nella riproduzionedelle antiche foto, personaggi e luoghi di un tempolontano oggi molto cambiati.

Abetone, la mostra nel Palazzo comunale

In una giornata credo fra le più fredde e umidedello scorso inverno la mostra è stata trasportatadall’Abetone a Vidiciatico, dove è rimasta per unasettimana. Qui solo il vin brûlé offerto gentilmente daFloriano dell’Hotel Valcarlina ha potuto riscaldare unpo’ i temerari visitatori giunti per l’inaugurazione! Lamostra è stata allestita nell’Oratorio San Rocco, anticacostruzione nata come ex voto per la fine della pestedel 1630 attualmente in fase di restauro, che è statamesso a disposizione dal Comune di Lizzano in Bel-

DANIELA SERAFINI

100 ANNI DELLO SCI CAILa mostra itinerante attraverso i Parchi

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vedere il quale ne ha garantito l’apertura anche ilgiorno della Befana. In quel giorno infatti un nutritogruppo di allievi e simpatizzanti dello Sci Cai è passatoa visitarla in occasione della giornata “nonni e nipotisulla neve, arriva la Befana ” organizzata dallaSezione al Corno alle Scale proprio per promuoverela conoscenza della montagna e degli sport invernalianche fra i più piccoli. L’umidità dell’Oratorio SanRocco ha però “rovinato” i pannelli e soprattutto lefoto, così insieme a Giancarlo abbiamo provvedutoa un doveroso “restauro” pronti con l’arrivo dellaprimavera con la mostra rimessa a nuovo per leeventuali tournée… L’occasione si è presentata a fineMaggio, quando Gabriele Inghirami, reggente dellaSottosezione di Pontassieve ha voluto che la mostrafacesse parte degli eventi per festeggiare i 20 annidella Sottosezione di Pontassieve.

Castagno d’Andrea, la mostra presso ilcentro visit a

La mostra è stata portata nel Parco delleForeste Casentinesi presso il Centro Visite diCastagno d’Andrea, dove, sabato 28 maggio, è statainaugurata alla presenza del Sindaco di SanGodenzo. Gli amici della Sottosezione di Pontassievee Caterina Gori della Società Ecotondo che si occupadella gestione del Centro Visite e della organizzazionedegli eventi del Parco ci hanno aiutato nel suoallestimento nelle sale del Museo Virtuale dedicatoal pittore Andrea del Castagno. Il museo riscostruisce,attraverso riproduzioni a colori delle maggiori opere,il percorso artistico di Andrea di Bartolo, nato intorno

al 1419 nel villaggio di Castagno. Questi locali hannoospitato la mostra fotografica dello Sci Cai e i pannellidedicati alle attività della Sezione, arricchiti questavolta dai tre pannelli che riguardano la storia dellaSottosezione di Pontassieve

Chi non ha avuto modo di visitare la mostra inqueste occasioni può ancora farlo in quanto essa stadiventando “itinerante” e nel mese di agosto dal 8 al14 sarà ospitata dal Parco del Corno alle Scale,presso il Centro Visite di Lizzano in Belvedere.Lacollaborazione con questo territorio è avviata da lungoperiodo da quando nel 1973 fu organizzato il primocorso di sci alpino e in seguito anche di sci di fondo.L’amicizia con il Sindaco, con il Parco e gli operatorilocali si è consolidata in occasione dei festeggiamentiper i 100 anni dello Sci Cai. La più recentecollaborazione si è avuta nel mese di Giugno inoccasione della “passeggiata sulle piste da sci senzaneve” dove una guida del Parco, Nicola Satti botanicoesperto dei luoghi, ci ha accompagnato al LagoScaffaiolo alla scoperta della flora della zonaadoperandosi con la massima disponibilità arispondere alle nostre richieste e curiosità.

Un ringraziamento a tutti coloro che durantequesto anno hanno dato una mano a montare,smontare, avvitare e trasportare i pannelli dellaMostra, in particolare ad Aldo e Rosetta, che oltre acostruire i supporti per i pannelli con grandeentusiasmo continuano a spostarli e montarli da unposto all’altro dove si svolge la mostra!E non è finita….

sopra: la mostra nel Palazzo Comunale di Abetonenella pagina a fianco: la mostra a Castagno d’Andrea

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R. Masoni sul terzo tiro di ExcaliburPochi metri sopra, l’ombra del tetto,passaggio-chiave della via(foto Archivio Masoni )

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SIMONE MARRONCINI

Siamo andati al Muzzerone …e ciò basterebbea leggere con sospetto tutto ciò che di seguitotroverete, giacché fare 340 Km per stare male nonpuò e non deve essere indice di lucidità. E infattinon lo è.

Da venerdì mi sudavano i piedi, all’idea diquelle verticali pareti liguri, ma la decisione d’andareera ormai presa irrevocabilmente, complice la miaeducazione militare e una professione che abitua alcombattimento. L’allegra brigata, Masoni, Sapo e me,in tre quasi 170 anni, altro dato – oggettivo – su cuimeditare, puntualissima si muove alla volta delMuzzerone. Dove giungiamo alle 10 circa, dopo lerituali soste, fra cui al Bar Le Grazie, dove in un colposolo abbiamo consumato quattro caffè e un caffèdoppio, cioè sei caffè, diconsi sei, una pasta, unpanino e un bicchiere di vino. Fuori dal bar 4 sigarette.Avevo molta paura. Non mi dite che c’era la corda,altrimenti vi giro le sgradevoli risposte che horiservato, durante il giorno, a, nell’ordine, Masoni,Sapo, conosciuta Guida Alpina, allieva del detto,allievo del detto. Attachiamo Excalibur. Via di 5 tiri6a/5a+A0 oppure 6b+/6a, A0: sempre troppo. La viasi trova alla Parete delle Meraviglie dove dimeraviglioso non c’è nulla, credo non ci vivanemmeno un serpe, che però era, inspiegabilmentea mio avviso, affollatissima. Primo Masoni, secondoil Sapo (senza zaino), ultimo io. Il Sapo vi dirà cosaha fatto e cosa ha detto, mi limito a me.

Primo tiro molto bello. Al tettino, su piccolostrapiombo, il Masoni ci mette una staffa, evitabile,ma mi ci appoggio, per paura in genere e nellospecifico di stancarmi troppo. Vado via liscio e misembra in bello stile. Devo levare rinvii e staffa, erifarla. Arriviamo alla sosta: 38-40 cmq. Mi allongio emaledico il Sapo perché se lui non si fosse ritiratodue domeniche prima al Pilastro del Bunker, il capitoloMuzzerone era chiuso. Il Sapo ostenta sicurezza masta attaccato alla roccia come un licheno.

Secondo tiro. Molto verticale e molto bello.Peccato breve. Vengo su bene, cuore in gola e tantaverticalità. Bella e comoda sosta: 150 cmq. IlMuzzerone è questo, e così la gente pensa d’avertidato una risposta intelligente. Mi allongio, maledico ilMasoni, di cui minaccio chiedere l’interdizione. Il Sapo

non parla più e capisco perché: dalla sosta si vedeun tetto “vero” su strapiombo, il passo di 6b+. Lo vedoanch’io e mi sembra fattibile, con la staffa s’intende.Ho visto giusto, ma il vero casino è sopra e non sivede, lo scoprirò poi.

Terzo tiro. Parte Luca. Non ascolta più, nonso neppure se respiri, è terreo. Diciamo, racconteràpoi lui, che va nel panico. Fa un po’ di confusione,passa oltre il tetto. Parto. Arrivo bene al tetto, passooltre, bene. Devo levare rinvii e staffa, e rifarla. Nonriesco a togliere staffa, rinvio e cordino, sono appesocon la destra e lavoro con la mano sinistra, mi stancotroppo, non recupererò più. Sopra il tetto c’è tuttoper le mani e per i piedi, ma piccolo piccolo, e sonostanco. M’attacco ma ho le braccia gonfie, e nontirano; mi trema anche una gamba. Mi devo riposare,devo appendermi sul vuoto. Caz.... su quella cordinada 7,9: maledette le due f... che me l’hanno fattacomprare e che sono in sosta. Sempre loro.Comunque devo riposare. Il Maso m’infonde fiducia,quindi calma. M’appendo un attimo trattenuto solodalla corda, piano piano mi lascio andare ….. tiene!Evviva tiene. Non ridete, non c’è niente da ridere!Non era assolutamente scontato. Mi riposo un po’.In due volte passo oltre e arrivo alla sosta. Sono moltosoddisfatto, ho fatto anche un paio di passaggi laterali,e per me, in quelle situazioni, non è poco.Il gatto e lavolpe mi fanno i complimenti, riesco solo a maledirli,convintamente e ferocemente. Il terzo tiro è dietro.Penso: ancora due tiri semplici, e col Muzzerone hochiuso per oggi, domani e sempre. Maso arrivaall’ultima sosta, ha unito i due tiri.

Partiamo insieme per il quarto tiro, Luca edio. Dopo poco – un paio di bei passi di V - divieneuna cresta, sul vuoto da una parte e sul semi vuotodall’altra. C’è solo una sicurezza in trenta metri,ma va bene è agevole. Quinto tiro consecu-tivamente, con spit etc.., breve e bellissimo.Allegoricamente arriva il sole. Sorpasso il Sapo earrivo in sosta. Maledizioni ormai rituali al Masonie scappo al sicuro.

Sono come drogato di gioia.Sono vivo, èfinita.Ho ancora voglia d’arrampicare. Butto là: “unmonotiro?”. Casca nel vuoto. Ci riprovo. Il Masoni: “ione avrei anche abbastanza per oggi”. Forse anche noi.

MUZZERONE, BELLO E IMPOSSIBILE!Ai confini clell’irrealtà

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FRANCO FANTECHI

ORECCHIO, INTONAZIONE e TANTA PASSIONENei meandri del Coro La Martinella

Parlare del proprio Coro è nello stesso tempofacile e difficile. Per la prima opzione, quella facile,non c’è molto da aggiungere, a meno che non si scrivatanto per far tardi e riempire righe. Per la secondainvece le cose si complicano un pò! Pare strano maparlarne dal di dentro non è facile, forse per la ragioneche si rischia di parlarsi addosso: non sempre èsemplice a meno che non si abbia voglia di specchiarvisi nello scritto. E non è questo il caso. Ma di parlarnene avrei voglia. Proviamo.

Intanto perché parlare di un Coro, anzi perchéin questo caso “del Coro”, di questo Coro? Non èsecondario lo scopo che anzi sembra il più ovvio:farlo conoscere di più e meglio. Non solo nel sensodi ascoltarlo: è importante, ma riduttivo. Farloconoscere parlando dei suoi scopi, delle motivazionie sensazioni che lo pervadono e lo animano;trasmettere le pulsioni che arrivano e partono, chealeggiano proprio nel mentre il Coro si esibisce:mentre “canta”! Si badi bene: non è la civetteria quellache anima i coristi a prendere parte ai Concerti chevengono richiesti. Sicuramente è piacevole eappagante, a fronte dei molti sacrifici che vengonoprofusi nel corso delle settimane che prevedono lapresenza a due prove. L’appagamento maggiore epiù - come dire - nascosto è la gioia di cantare. Non

soltanto cantare, ma cantare insieme agli altri, carpireil segreto dell’ispirazione dell’Autore attraverso la suaMusica; ascoltare e comprendere gli accordi, capire,“sentire” e valutare il tuo apporto al risultato, quantoquesto “vale” ai fini di quello finale. E dopo avereassimilato l’intenzione dell’Autore restituirgli con lavoce il suo desiderata. Uno degli sforzi del Maestro èproprio questo: spiegare e fare entrare ogni corista”nel” brano da imparare prima ed eseguire poi. Nonsempre però questo sforzo, pur significativo edeterminante, è ripagato immediatamente. Capita avolte che il risultato esca dopo qualche tempo e restivalido per sempre. Percepire dunque se e quanto iltuo sforzo è calibrato in quello della tua Sezione inprimis, ma anche in rapporto alle altre; quanto questovale in rapporto al risultato complessivo, Io canto nellaSezione Baritoni, la più bistrattata dalle altre, spessoa torto. Anzi quasi sempre. Siamo in 13 (ma non c’èil traditore!). Voglio dire che il giusto apporto di ognibaritono deve essere né più e né meno che 1/13 eche tutta la Sezione, così come tutte le altre, devecontribuire solo per ¼ al volume sonoro del Coro.Solo così il Coro (ogni Coro) riesce a rendere ilmassimo della sua potenzialità.

Molte volte capita di mettere a fuoco - per laprossima occasione - che quel determinato passaggio

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Celebrazione della Festa della RepubblicaConcerto nel cortile di Palazzo Panciatichi

l’hai cantato troppo piano o forte, non hai modulatocome dovevi, oppure che hai lasciato la nota un pòprima del dovuto, troncando la frase musicale. E devisubire lo sguardo del Maestro: in genereun’occhiataccia che ti fulmina ma che ti sprona anche.Che t’interroga: “ma dov’eri alla prova generale?Dormivi?”. Ti senti gelare, ma riconoscendo la ragione... Eccolo, lo sprone ... Fra noi c’è uno dei Veteraniche cantano da 40 anni, da quando il Coro è statofondato. Anzi, loro stessi sono fra i Fondatori. Comenelle altre Sezioni ci sono varie e differenti sensibilitàe predisposizioni. Senza con ciò farne unadisquisizione tecnico-artistica è evidente che 13componenti così assortiti quali siamo, cantano - senon 13 - in diversi modi. Quando il Maestro, però,dice: “Bravi Baritoni” è un complimento tuttoguadagnato, perché siamo capaci di sbagliare finoalla sbracatura, ma quando siamo in vena, non c’èaltra Sezione che tenga!

La compattezza e bravura del Coro, di ogniCoro, la si misura in Concerto. Sembra impossibile,ma la presenza del pubblico catalizza tutte lepotenzialità di ogni corista e lo fa esprimere al megliomentre sprigiona tutta l’adrenalina accumulata.Specialmente in certi luoghi dove c’è buona - megliose ottima - acustica; dove ci si sente l’un con l’altro:

dove, appunto, si apprezza la voce e l’apporto deglialtri coristi e Sezioni e capisci quanto importante aifini armonici diventa il tuo contributo. Molti Concertihanno luogo nelle Chiese, alcune delle quali antichee bellissime (una per tutte la Pieve di S. Maria Assuntaa Montemignaio, fondata da Matilde di Canossa).Queste occasioni ripagano tutti gli sforzi per impararea eseguire bene i brani. La moneta immediata sonogli applausi del pubblico: quando non sono solo dicortesia lo si capisce al volo. Mi convinco sempre dipiù che per cantare bene un brano nella propriaSezione e dunque dare il giusto apporto al Coro, sianecessario conoscere le parti delle altre Sezioni.Intanto hai da subito il godimento migliore del branoda eseguire, dopo, quando senti il canto che giàconosci delle altre Sezioni, ... non si descrive con leparole: bisogna esserci! Spesso, nella fase diapprendimento (quasi 12 mesi, di cui una parte disolo ascolto), a casa del Maestro insieme ad altri 2colleghi, si sono fatti esercitazioni di armonia sugliaccordi che ci proponeva: una nota e ognuno acercarne una, sopra o sotto, che stesse in armoniacon questa. Oltre all’esercizio è stata una bellaesperienza, appagante per l’orecchio e lo spirito.

Mi sono deciso tardi a entrare nel Coro. Edho avuto la fortuna di essere accettato: all’età di 68

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anni ... Ma c’è l’orecchio, l’intonazione, necessariasensibilità e la tanta, tantissima passione che ho finda ragazzo. Quando frequentavo le scuole elementari,cantavo nel Coro della “Giotto”; da giovanotto in quellodella Parrocchia: don Renzo mi inculcò l’amore perla musica e il canto che pure era già abbondante.Anche in quel caso cantare a 3 voci miste o in“gregoriano” dava gioia e soddisfazioni. Spesso,all’Organo, ci accompagnava uno dei miti dellamusicalità fiorentina: don Sessa, compagno diSeminario del mio vecchio Priore e maestro del nostroDirettore. L’esperienza di adesso è su di un altro pi-ano: la ricerca dei Canti che nel tempo il Coro hasvolto; l’emozione delle prime prove che “saggiano”il gradimento del brano presso i coristi. Chissà perché“La porti un bacione a Firenze” nicchia da anni e nonviene avanti, mentre “Varda che vien matino” e “Marialassù” li abbiamo imparati in una serata! Certo, conl’approssimazione intuibile, ma le note e la struttura?Tutte! Un Canto se non emoziona non viene bene.Se non parla al cuore e allo spirito non verrà maibene! Con tutti il rispetto per gli Autori e Armonizzatoridei brani, per così dire “meno apprezzati”! Inoccasione della trasferta per andare ospiti del Corodel CAI di Frosinone mettemmo su “O Dio del cielo”in autobus tanto piacque a colpo.

Nel corso del 2010 il Coro è stato invitato adalcune manifestazioni del CAI, Sezioni di Firenze eSiena. Credo che in questi 2 eventi il Coro si sia es-presso al meglio, come cantando in casa! Nelle

occasioni di trasferte, quando il Coro è andato ospite,è anche stato orgoglioso di essere il “rappresentante”canoro della Sezione fiorentina.

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Massimo non è più fra noi.

Io non so, credetemi, se sarò capace diricordare Massimo con la serenità che dovrebbedistinguere il ricordo di un amico. E’ ancora la rabbiaterrena, purtroppo, a prevalere sull’amarezza, sullatristezza di una morte così improvvisa.

Massimo lo conoscevo da diversi anni. Eraun’amicizia che fondava sulla stima reciproca e,ancor più, sulla comune affinità d’interpretare le cosedel CAI, talvolta anche in senso critico, certo, mamai provocatorio. Anche quando, ultimamente,un’intervista pubblicata sulla nostra Rivista avevapartorito qualche “turbolenza” nel Coro, cosed’altronde che accadono in tutti i Gruppi, e a causadella quale ci parlammo in più di un’occasione masempre nel rispetto dei ruoli, delle opinioni, conl’educazione che, sempre, distingueva Massimo inogni Sua azione.

Massimo sapeva ascoltare, ed è una dote dipochi, e unire la concretezza allo stile. Lo stessostile, la stessa dignità con la quale ha affrontatoquest’atroce e fulminea malattia che lo ha strappatoalla famiglia, agli amici, al CAI Firenze. AlpinismoFiorentino si associa con dolore al dolore,nell’auspicio che il tempo riesca, se non altro, a lenirela rabbia ben sapendo, tuttavia, che non riuscirà acolmare il vuoto che ha lasciato. Ciao Massimo.

Roberto Masoni

In ricordo di un amico

Caro Massimo,

ti ho conosciuto nell’89, quando iniziai afrequentare il coro, e da allora ho avuto sempre moltastima nei tuoi confronti: mi sei sempre sembrato unapersona seria, leale, concreta, affidabile. Ho poiscoperto che anche tu eri stato scout (anzi: uno scoutè per sempre) e che solo per caso non ci eravamotrovati prima.

Ho avuto piacere della tua amicizia, anchequando ci sfottevamo a vicenda come si usa tra“baritoni” e “bassi”. Ricordo di alcune nostrechiacchierate durante le gite con il coro o quando siandava a sciare insieme, oppure durante le cenenella tua casa di campagna: discorsi seri ebischerate, concretezza ed allegra compagnia.

Ricorso anche la prima volta che facesti unapresentazione dei nostri canti ad un concerto,rimanemmo tutti felicemente colpiti dallo stile, dalleparole e dalla presenza scenica e così diventastiuno dei nostri presentatori d’eccellenza. Quando piùdi 2 anni fa si rinnovarono le cariche nel consigliodel coro fui lieto di passarti il testimone (un po’pesante per me) di presidente certo che avresti fattoun buon lavoro.

E, infatti, così è stato, abbiamo collaboratoinsieme, anche se non sempre pienamente inaccordo su cosa e come fare, ed il coro ha avutonuova linfa e spinta per proseguire.

Come per il coro, ancor più per la cara Lucia,per i figli e i nipoti sei stato un punto di riferimentocostante, un approdo sicuro e premuroso. Ora tuttoquesto non c’è più, tu sei andato avanti a cantare inun altro coro insieme a Franco, Ruggero e gli altricoristi che ci hanno lasciato.

Sono sicuro che anche là con loro canteraiquel “Som som” che tanto ti piaceva e che il coro tiha offerto, come ultima carezza, con un groppo nelcuore che faticava a sciogliersi.

È proprio questa carezza che ti voglio porgereancora.

Stefano Cerchiai

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VIE NORMALI DIMENTICATE

SANDRO CALDINI

Mi piace andare in Dolomiti alla ricercadell’avventura; vedo molte persone che la trovanoall’estero, in paesi lontani ma si può trovare facilmenteanche dalle nostre parti allontanandosi poco dasentieri battuti e senza spendere soldi per costosi (e,perché no, talvolta pericolosi) viaggi aerei. Le vienormali che vi presento sono tutt’altro che difficili manon possono attagliarsi a tutti gli escursionisti. Leconsiglio tuttavia a chi vuol cercare qualcosa di piùdel solito carnaio dei rifugi alpini, basta avere unaconoscenza di base dell’arrampicata e, per una diqueste cime, un compagno che ti fa sicura.

Torre Nord del V ajolet (mt.2.810)

E’ una tozza cima nella diramazione Nord dellefamose torri del Vajolet (Stabeler, Delago, Winkler);da quest’ultime appare del tutto silenziosa visto chepochissime persone la visitano per ammirarne i suoiscoscesi meandri e credo che si possano contare

con la mano le persone che la salgono ogni anno. Ilpunto di partenza per la torre Nord è Gardeccia(mt.1.949), facilmente raggiungibile con i pulmini daPera oppure salendo in funivia a Ciampedie da Vigodi Fassa e poi seguendo per poco più di 30 minuti ilsentiero n. 540. Da qui si segue il sentiero n. 546 peri rifugi Vajolet e Preuss (mt.2.242) e li raggiungiamoin circa 40 minuti (sentiero estremamente frequentatonelle belle giornate estive). Adesso continuiamo asalire nell’alta valle del Vajolet verso il rifugio PassoPrincipe. Si segue il sentiero n. 584 per circa unaquindicina di minuti, giusto guadagnando un ripianoda cui appare a sinistra l’angusto passo del Vajoletdelimitato a N dalle Cime d’agnello e a S dalla Torredel passo. Ci si alza perciò dal sentiero seguendo latraccia di sentiero e i relativi ometti; si guadagna quotafin sotto il suddetto passo ma non lo si raggiungepoiché s’imbocca a sinistra la cengia che fascia laTorre del Passo e successivamente le altre. Questacengia è in genere abbastanza ampia ma presenta

sotto: Torre Nord del Vajolet (mt. 2.810)

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tre strozzature da passare in corrispondenza deicanaloni di scolo (fare attenzione al primo canaloneper il salto sottostante; un tempo esistevano duechiodi per fare sicurezza ma personalmente non liho mai usati tranne che nel 2001 quando il canalonesi presentava ai primi di luglio ancora intasato dineve). Passati questi punti insidiosi, continueremo asalire seguendo la cengia che si fa man mano semprepiù larga. Si arriva quindi al punto d’attacco vero eproprio (circa 1 ora dal rifugio Vajolet; ometto conbastone di legno). Siamo sotto l’inclinato versanteEst e dobbiamo tenere a mente che ci sono un’infinitàdi ometti che possono fuorviare l’escursionista. Sideve stare, nel salire, abbastanza a sinistraprendendo come riferimento svariati e bizzarripinnacoli. Lasciandoceli sulla destra (I/I+) arriveremoa una cengia da cui a sinistra parte la bella Via Ma-rina (Battisti-Colli, IV) alla Torre Est del Vajolet. Aquesta cengia si può anche pervenire seguendo uncanalone appena più difficile (II) salendo a destra deipinnacoli. Adesso dobbiamo cercare di raggiungerela forcella Nord (mt. 2.740) stretto passaggio tra lanostra cima e la Torre Principale; si seguono sempregli ometti e si devono superare due passaggi un po’più difficili di quelli affrontati sin qui: una paretina eun canalino con sasso incastrato ci impegnano nonoltre il II. Raggiunta la forcella si procede verso destra(N) salendo una cengia, un poco esposta, eaddentrandosi nel cuore della parete della Torre Nord.Si punta a un canalino che ci permette di arrivare inpoco tempo in vetta (II-, un po’ friabile).

Stupenda visualesull’acrocoro delle Torri.Vicine appaiono la TorrePrincipale e la Torre Est,anche queste silenziosecome la nostra (circa un’orae 15 minuti dall’attacco dellacengia). Per il ritorno ingenere serve più tempo perdistricarsi nel labirinto diometti di sassi.

Croda Rott a (mt. 2.670)

E’ questa una cimadimenticata del ramoampezzano del Gruppo delSorapis. Non è molto alta,è vero, e pochi neconoscono il nome quandostanno salendo verso laSella di Punta Nera.Tuttavia ha un aspettosvettante se vista dal rif.Tondi al Faloria. Poi,

quando si sale dal sentiero n.215, assume man manoun aspetto un po’ più tozzo. E’ una montagnaselvaggia e il nome anticipa ciò che troveremo neisuoi paraggi: roccia più che marcia ma senso unicodi vetta standoci sopra. Se qualcuno ha la costanzae la voglia di andarci, vedrà che quanto scrive lafamosa guida dei monti d’Italia del Berti (DolomitiOrientali vol.1 parte 1° p ag.502) è del tutto inesatto:“Facilmente accessibile, preferibilmente dalla forcellatra Croda Rotta e Punta Nera per terreno in gran parteerboso”. Mi domando dove sia il terreno in gran parteerboso e questo potete evincerlo dalle immaginiallegate al presente articolo. Dalla forcella si vedesolamente la montagna (ma non la cima che rimanedietro) ed una placca inclinata non protetta (non cisono chiodi) piena di pietrisco. E’ probabile chequalcuno sia passato col diserbante per ridurla così…

Si lascia la macchina alla vecchiastazione di Cortina (munirsi di monete) e solitamentesi prende la funivia per il Rif. Faloria per poi seguirela carrareccia per il rif. Tondi (altrimenti si usufruiscedel servizio navetta per raggiungerlo). Dal rifugio sisegue la pista da sci che scende da poco sopra e sisegue il sentiero n. 223 per la forcella Faloria(m.2309); la si doppia in una decina di minuti. Adessosi gira a destra verso il sentiero n.215 che mena versola Sella di Punta Nera, in forte pendenza, dal latooccidentale del ramo N del Sorapiss. Sovente ci sonoda affrontare brevi passaggi di I; sotto la Sella stessa,il sentiero gira bruscamente a Est e qui lo si

Croda Rotta (mt. 2.670)

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abbandona per seguire una traccia con sparuti omettidiretta verso la Croda Rotta. In poco tempo si è sulciglio che guarda la conca di Cortina e da quis’imbocca uno dei tanti sistemi di cenge (consigliabilenon salire troppo) in modo da arrivare all’attacco veroe proprio (lato E-NE, bastone, 1 ora circa dal rifugio).Adesso scendiamo qualche metro verso una cengiarossiccia sulla destra e la si segue facilmente anchese con cautela fino a doppiare uno spigolo sotto rocceaggettanti: da qui si procede su una rampa inclinatainfida e assai friabile (II poi I) da risalire fino al suoculmine: non di rado gli appigli ti rimangono in manoe gli appoggi calano rumorosamente a valle. Dallaforcellina al culmine della rampa si sale a sinistra perpochi metri su rocce veramente rotte e instabiliarrivando, in neanche un quarto d’ora dall’attacco,sull’esilissima vetta. Si raccomanda una grande cau-tela nello scendere.

Torre Finestra (m.2670)

Nota col nome di Fensterl-Turm nellaletteratura di lingua tedesca (Santner) e Croz di S.Giuliana in quella italiana per quel curioso foro dovesta adesso una croce (“per la finestra, Santa Giulianavolò in cielo” da Guida dei monti d’Italia pag. 449), sitrova nel sottogruppo della Roda di Vael nelCatinaccio. E’ salita frequentemente per lo spigolospigolo Sud (Anhuber-Tomasi-Mitterdorf III/III+ conpassaggio finale di IV) ma la normale (Christomannos-Deiori-Platz) è del tutto trascurata. Presenta difficoltàtra il II e il III e può essere un ottimo inizio per unacordata alle prime armi.

Si arriva in macchina fino al passo diCostalunga (mt. 1.745) e si scende fino agli impianti

che portano al rif. Paolina (mt.2.125). Da qui si prendeil sentiero n.539 per raggiungere in meno di tre quartid’ora, il rif. Roda di Vael (mt. 2.280). Adesso si saleil prato sopra il rifugio e nel pianoro ci troviamo a untrivio. Noi prendiamo il sentiero al centro che menaal “Ciaval” dove troveremo degli infissi metallici; quiconviene mettersi l’imbraco visto che la roccia èmolto liscia e usurata: uno stretto camino ci porterànel meraviglioso catino superiore posto tra TorreFinestra, Roda del Diavolo e Masaré. Si risale ilcatino faticosamente con delle serpentine e, dopoaver passato lo spigolo S, ci si trova giusto sotto laparete W. L’attacco della normale è subito a sinistradi due lapidi. Il primo tiro segue un canale/caminoverticale con buoni appigli soprattutto sulla sinistra;sconsiglio di uscire dopo 10 m. a destra per placcapoiché non ci sono protezioni. All’uscita del canale/camino si vede subito la sosta (due chiodi concordino); in tutto sono 20 m. circa di II+ con qualchepasso di III. Da qui si prende la rampa inclinata asinistra fino a incontrare un chiodo posto sulla paretedi destra (I+/II-) e si prosegue proprio su questa paretemirando diritto alla cresta e facendo sosta su spuntonidella cresta (circa 15 m. di III-/III). Per poterraggiungere la vetta vera e propria convienetraversare sempre stando poco sotto la cresta dallato W (II-); giunto a un risalto da scendere, fareattenzione all’esposizione (II): la sosta per le calatesi trova proprio qui sotto. Si prosegue per cresta finoalla cima vera a propria (libro di vetta).

Per scendere si fanno due doppie: la prima(anello cementato) di 20 m. porta a un terrazzino postosotto la finestra; la seconda (su un chiodo) di 20 m.deposita sulle ghiaie basali. In tutto circa un’ora eventi minuti.

in questa foto: la Torre Finestranella pagina a fianco: la Croda Rotta

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MARINA TODISCO

LA TRACCIA DELLO SCIALPINISTAQuindici anni di direzione dei corsi SA2

“Finalmente è finito l’SA2!” era sulla bocca ditutti. Perchè? Il corso di Scialpinismo Avanzato hamesso a dura prova tutti noi allievi, sia per il pro-gramma denso e impegnativo, che per le attitudinirichieste. Si accede per invito, e, valutati i risultatipersonali al corso SA1, solo un manipolo di eletti èstato ammesso a quest’appuntamento biennale.

Le lezioni teoriche sono cominciate con il‘classicone’ del materiale tecnico necessario perl’attività montana “più completa” che si possa fare;così il direttore: “Avete tutti quanti sci, scarponi, pelli,rampanti, bastoncini, piccozza, ramponi con chiavetta(un mistero!), moschettoni, cordini corti... e lunghi,piastrina, caschetto, imbrago, gamelle... e fornello?Naturalmente anche sacco a pelo invernale... e saccolenzuolo, ma non dimentichiamo il fondamentale:ARTVA, pala e sonda...”. Il dramma è stato metteretutto nello zaino da 32 litri. L’impresa impossibile nonè riuscita a nessuno, e così partivamo come profughi,con gamelle e materassini e quant’altro, appesisconsideratamente allo zaino, verso la nostra primalezione pratica all’Alpe di Succiso: la truna.

“Sono in ansia” era la frase che andava per lamaggiore fra i commenti di posta elettronica, ma chipoteva dissentire? La prospettiva era di venti chili dizaino da trasportare in salita e in discesa sugli sci, e,a seguire, un freddo sonno, in un freddo buco,scavato da noi stessi nella neve, la truna appunto.Per fortuna, dopo il tè offertoci con simpatia dagliistruttori, (i quali alloggiavano nel comodo e caldorifugio Rio Pascolo...), non era poi così freddo lì intruna e la cena, inoltre, era perfetta, anche perchè,per noi due, ha cucinato Claudia! In conclusione, lasalita al Succiso, per la cresta nord del Torrione ci hainfine lasciato con l’immagine di sci e ramponi sumisto, in perfetta armonia per il raggiungimentodell’obiettivo. La prova ARTVA a secco, sotto unfantastico sole invernale a Maiano, ci ha svelato comeritrovare più di un sepolto in tempi record con i nostrimoderni ARTVA digitali. Forse passando di lì, quelsabato, ci avrete visti disseppellire fino a cinquesacchetti di plastica in pochissimi minuti; no, nonpartecipavamo a ‘sentieri puliti’... Stupiti sarete rimastianche, nel vederci arrampicare in falesia su rocciacon gli scarponi da sci, esercitazione per le uscitepratiche a seguire.

Le lezioni teoriche si sono fatte via via piùcomplesse e dense di concetti, toccando la nivologiain tutti i suoi aspetti, la catena di assicurazione e laprogressione in cordata, la medicina di montagna, laglaciologia, l’autosoccorso negli incidenti da valanga,con tanto di prove scritte finali a domanda chiusa dacompletare e riconsegnare seduta stante al direttore:“Ognuno scambi il foglio con il vicino ed evidenzi glierrori”...“Caspita, su sei ne ho sbagliate quattro,please, non lo dire a nessuno”... ”Ma le domandeerano a trabocchetto”...” Tu cosa hai messo allacinque?”... ” Che sonno! Ah, ma si corregge ora, qui?”.

La teorica più utile, per me, è stata la lezionein cui il direttore ha evidenziato il percorso migliore(in verde) e quello peggiore (in rosso) sulle foto dialcune montagne: “Lo scialpinista, dovuto al suoprocedere con gli sci, non può seguire la linea dimassima pendenza. Per evitare di tagliare il pendio,deve fare una traccia a zig zag che tocchi isolerocciose, che sono ancoraggi naturali per il mantonevoso, mantenersi a ridosso delle pareti doved’uopo, e scegliere dorsali, piuttosto che valli o pendiisottovento con cornici, dove la neve può essere nonassestata...”. Che bello, per aprire gli occhi ci puòvolere tanto tempo, ma quando li hai aperti, ci vedibenissimo...eccola lì, la traccia dello scialpinista!

L’uscita pratica nella zona del Similaun ci hainsegnato la disciplina: “Ogni momento perso nel togli-metti le pelli, nell’aggancio dei ramponi, nella gestionedel tempo in salita” potrebbe precludere l’agognata vetta.“Il meteo, stabile al mattino, può cambiare rapidamente,obbligandoci a rientrare; ogni minuto è prezioso”; perfortuna, un’alta pressione ci ha accompagnati in tre saliteda sogno (sogno ancora quei dislivelli...): Cime Neremt. 3.624, Punta di Finale mt. 3.514 e il famoso Similaunmt. 3.597. E’ seguita la discesa a valle attraverso lalunga e perigliosa Val di Fosse, dove ci siamo distintiper aver adottato al momento giusto “la discesa sughiacciaio alla Whimper”, mi riferisco, cioè, a scivolaresulle natiche sterzando e frenando con la piccozza.Questa parte della nostra traccia era molto ben visibileancora da valle.

Fra alti e bassi, reprimenda sul nostro stato diallenamento, seguite da allenamenti ‘orsenighiani’ con

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litri e litri di acqua sulle spalle, su e giù da monteMorello (“ma partendo da sotto...”), incubi ‘escheriani’di tracce di pendii ascendenti che non possono avereuna fine, istruttori seguiti nella corsa dagli allievi comeal cinema in Forrest Gump, extra lezioni autogestitedi ripasso dei paranchi e del tracciato di rotta, scuseufficiali per goliardici ritrovi a cena, meteo avversiche facevano rimandare e variare l’ultima uscitapratica, di cui il peggiore con “profonda saccatura” ciobbligava all’ultimo possibile patto di sangue con ifamiliari, per dare ancora disponibilità per ilsuccessivo fine settimana, ... finalmente, ecco lanotizia risolutrice che tutti aspettavamo conliberazione. “Confermo l’uscita a Sass Fee da venerdì20 a domenica 22 p.v. Appuntamento a Novoli alleore 6 e 00. Datemi conferma di chi parteciperàall’uscita e di chi ha le corde. Devo sapere come sonocomposti gli equipaggi, perchè sarà necessario daparte vostra portare due istruttori. Ricordo di munirsidi Franchi CH.”.

Un 4.000 mt. e un dislivello da urlo, saremoall’altezza ora?

Fibrillazione di equipaggi creati, “... il Velo-Team è in testa con i veloci Claudia, Alessandro,Daniele insieme al direttore”; di equipaggi smontati,rifatti, ripensati, ponderati, e finalmente vincenti conla quota rosa, tutte le donne del corso, nella stessa

macchina “Io e Alessandro prendiamo la macchina eabbiamo a bordo la Betta, rimangono due posti unpo’ strinti ... Marina puoi venire con noi! Se poi vieneanche la Claudia, secondo me il Pieri se ne va perchènon ce la fa a sopportarci per tutto il viaggio”; di tuttarisposta Alessandro: “Tappi per le orecchie?”, el’automobile portata dal meccanico, resuscitata solopoche ore prima della partenza.

Il 4.000 mt. è andato! Molto bene l’ha narratoLorenzo, vi rimando al suo racconto. Con la “piccozzaa spallaccio” e con la piccozza scivolatapericolosamente lungo il pendio, con il mal dimontagna, che abbiamo conosciuto nella sua tristeveste di ospite imprevedibile ed inatteso, indesideratoancor più del cumulonembo che abbiamo abilmenteevitato grazie ai nostri istruttori e alla loro esperienzadi montagna.

Allora “Grazie! Un plauso agli istruttori!”... mano, “Grazie agli allievi di questo corso SA2 2011,perchè quest’ultima lezione pratica è stata comeun’uscita scialpinistica fra amici!”... e giù fiumi di vino,taglieri di affettati a volontà e una promessa “Sonodisponibile per fare delle uscite con voi a titolopersonale e fuori dal corso”. Eureka! Allora ciprenotiamo per il Rimpfischhorn, e il Dent D’Herens,ma anche... Castore e Polluce, concatenando i dueLyskam... ma quando si riparte?

Massiccio del Mishabell all’alba, appena lasciatoil Rifugio Britt annia Hutte - SASS FEE (CH)

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Adesso, con nostalgia, riguardando il nostro attestato,estorto con la forza al direttore, ci sentiamo piùscialpinisti che mai.

Direttore e istruttore Marco Orsenigo, ci lasciancora una volta il tuo contributo?

“Dopo 15 anni di direzione senza interruzionedei corsi di scialpinismo avanzato (SA2) potrò passarefinalmente il testimone a Lorenzo Furia,prossimamente il nuovo istruttore nazionale discialpinismo nei ranghi della Scuola Piaz.

Dunque il corso SA2 2011 sarà l’ultimo corsoda me diretto e devo aggiungere subito, che è statopure il migliore. Riandando indietro nel tempo nonho memoria di un corso che sia risultato positivo intutti i molteplici aspetti nei quali può essere valutato.Cosa rara.

Il corso appena concluso ha creato un gruppoaffiatato e compatto come difficilmente se ne vedono;gli allievi si sono dimostrati sostanzialmente omogeneisul piano tecnico nel suo complesso considerato. Ciòche più mi ha colpito è stata la partecipazione convintaed entusiasta al corso.

Con due sole defezioni su dodici iscritti, peraltro dettate da motivi contingenti, i dieci allievi rimastinon hanno perso un’uscita; questa cosa più unicache rara. La voglia di imparare, di crescerealpinisticamente, è stata la ragione dichiarata dellaloro abnegazione.

Il corso si è concluso con il rilasciodell’attestato agli allievi e - fatto non consueto - colrilascio di un attestato degli allievi al corpo istruttori.

Di me è stato certificato fra l’altro “che ho rotto un pò imaroni” ed anche qualcos’altro, aggiungo. Ringrazioper questo complimento, che riconosce il mio impegno.

Un aforisma attribuito a Confucio recita: “chinon si sforza io non lo ammaestro”.

Non so dire quanto siano stati ammaestratiquesti allievi; però sono testimone del loro sforzo econ l’impegno s’impara sempre. Del resto il ruolodell’istruttore non è forse stimolare l’apprendimento,

p r e t e n d e n d ol’impegno?

Ammetto chedurante questo corsosono stato talvolta piùesigente del solito congli allievi: la “colpa” èloro. Questi ragazziandavano, eccome, edunque chiedere di piùè stato naturale.

G r a t i f i c a t odall’apprezzamentocorale per il lavorosvolto dagli istruttoridella Piaz, devo direche col corso SA22011 mi sono propriodivertito”.

Verso l’Allalinhorn (mt. 4.027)Sass Fee (CH)(foto: M. Todisco)

Spettacolare veduta da punta di Finale (mt. 3.514)Val Senales (BZ) - foto: M. Todisco

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una salita dura per noi, senza nessuna pietà. Passoregolare verso Felskinn, su un saliscendi palloso checi fa fare tanta strada e non ci fa guadagnare preziosaquota, ma ci dà almeno il tempo di contemplare questigiganti ghiacciati progressivamente illuminati da unsole che per un attimo ci sembra più basso di noi.Ma è pura illusione: tempo pochi minuti ed è lui,assieme alla montagna, a comandare, così che giàdalle prime ore del mattino ci costringe a impomatarcio coprirci come beduini. Arrivati sopra Felskinnmiriamo il nostro obiettivo: l’Alphubel, 4.206 mt. Alloraragazzi, si passa di lì a destra, poi si fa quel traverso…si passa sotto quei seracchi, poi su su su, si fa lacresta e attraverso facili roccette si perviene allacima… più o meno le voci che girano sono queste (aparte le facili roccette che questa volta non ci sono,ma un bel mammellone bianco dove arrivare forsecon gli sci ai piedi)… sì, va beh, ma come si fa adarrivare lì a destra? lì per modo di dire… laggiù!

Bisogna scendere tanto e, una cosa che ormaiho imparato bene facendo sci alpinismo, è che tutto

DISLIVELLO: 1.420 mt.10 h. sugli sci - Vi racconto il mio primo 4.000

LORENZO LORENZINI

Vi racconto il mio primo 4000… o meglio, il mio primo 4000 con gli sci. Perché

in realtà a quella quota c’ero già passato, in discesacon il paracadute e in saliscendi sugli altipiani himalayani(anche più di 5.500 mt.!). Ma si trattava appunto, o didiscesa, (spericolata, appeso a folle velocità a unsacchettone di seta, che alla fine qualsiasi pantofolaiocon un po’ di voglia di adrenalina potrebbe fare), o dialti-PIANI, sì, con belle camminate fino a quelle quote,ma anche tutto traslato verso z positivo di almeno 3.500mt. rispetto alla nostra Europa! E invece questa volta cisono salito con le sole mie gambe e la scarpa che piùamo: gli sci. Ma è stato anche molto più difficile dellealtre due volte. Con ordine…

Sveglia ore 4.00 (qualcuno ore 3.45!),mugugni e rincoglionimento totale, colazione insulsada tipico rifugio svizzero, scarponi, pelli, veloce provaARTVA e alle 5.00, albeggia, si parte dal BritanniaHutte, quota 3.040 mt. Questa volta sono in coppiacon Claudina, una graziosa macchina da guerra epoi… Marco, Herr Direktor! Lo sappiamo già, sarà

Discesa dalla vetta di Cime Nere (mt. 3.624)Val Senales (BZ) - foto M. Todisco

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quello che scendi, a meno che tu non torni allacomoda macchinina che ti aspetta parcheggiata,prima o poi lo devi risalire! Un po’ di sconforto, qualchesmoccolamento e svariati saliscendi esplorativi, maalla fine Herr Direktor trova una strada alternativa:un bel traverso in leggera discesa con pelli e coltelli,con piccozza a monte per tenersi: era meglio lasalita... Capiamo che andiamo verso la traccia giustavedendo sotto di noi due cordate che passano: tracciarelativamente giusta perché uno dei quattro chevediamo entra in un buco. Ora: i nostri istruttori lochiamano “buco”, ma pensandoci nemmeno tantobene è un crepaccio. Fanno così per non mettercipaura, hai capito? Comunque, come quasi sempre,ci riescono. Nel frattempo che il tizio è faticosamenteuscito dal buco, noi abbiamo preso le loro tracce efinalmente anche un po’ di quota. Tutto procede, aparte qualche piccozza scivolata a valle,faticosamente recuperata da Alfio, e la fatica checomincia un po’ a farsi sentire, siamo ora tutti e 15insieme. Fermatici su un pianoro per una pausa,Marco decide però che ci siamo allontanati troppodall’Alphubel ed è meglio cambiare vetta, sennòfacciamo troppo tardi: Allalinhorn. E Allalinhorn sia!Fortuna che qui c’è pieno di 4000…

Riprendiamo la salita, sempre comegruppetto di testa, ma dopo un po’ Claudia si fermadicendomi di non stare bene: lì per lì voglio illudermiche sia solo stanchezza. La supero per raggiungereMarco e riferire: lui rimane con lei e come sapremosolo al ritorno, anche se ce lo immaginiamo,scendono di quota per tornare poi al rifugio. Il mal dimontagna ha fatto la prima vittima, forse la piùinaspettata. Proseguo davanti a tutti, con Brenno allecalcagna che mi incita a fermarmi sempre più in alto...quel colletto lì, dai, e poi aspettiamo gli altri. Al collettoci arriviamo, un po’ cotto, ma comunque con ancorala forma sufficiente per affrontare il resto. Alla finemancano 500 mt., ce la possiamo fare. Ripartiamotutti insieme, ma le cose cambiano e ad ogni passo ilfiato mi manca sempre di più. Nel giro di 200 mt. mitrovo praticamente ultimo, seguito solo da Alfio adebita distanza, lì per lì non riesco a capire se perchéin difficoltà di fiato anche lui o semplicemente pernon mettermi ansia. Superato un ponte di neve suun crepaccio vedo praticamente sparire tutti, anchela Betta e la Francesca che sembravano andare delmio passo.

Non ce la faccio più a non fermarmi, è il respiroa mancarmi, anche se non ho nausea o giramenti ditesta. Prima ogni 30, poi ogni 20, poi ogni 10 passisono costretto a fermarmi per recuperare. E Alfio dietrocome un’ombra. Non ci scambiamo parole, forzasprecata. Ma mancano ancora 300 mt., quelli piùdifficili, quelli con meno ossigeno (o quelli con la mi-nor pressione parziale di O2, come direbbe qualcuno!)

così non ce la posso fare. L’imperativo poi è categorico:a mezzogiorno, dovunque siamo, anche a 10 mt. dallavetta, si torna indietro.

Comincia, e, si rafforza, uno scontro interioretra colui che ha tutte le tentazioni di fermarsi easpettare gli altri tornare in discesa e quello chepensa, invece, come sarebbe bello arrivare su quellavetta insieme a tutti i compagni, pregustare di riviverloogni volta che lo racconti o ci ripensi, mettere ancheun punto fermo, che nella vita spesso ci sembra cosìimportante. E’ un rapido alternarsi di questi pensieriche inevitabilmente mi offuscano gli occhi di lacrime,che, però, ho paura di sprecare. Con incredibile sforzoarriviamo a un colletto, dove gli altri ci aspettano,siamo sopra i 3.800. Ne mancano poco più di 200.Ma la vetta si vede, annerita da forse una ventina dimetri di solite “facili roccette” sottostanti.

Ragazzi come state? A qualche ottimistico“bene”, si contrappongono altri “insomma” o “malino”.Non mi esimo ovviamente dall’ammetterlo. Era ancheevidente! Sgranocchiata un po’ di frutta secca ebevuto come cammelli, ripartiamo e tempo pochi metrisono di nuovo ultimo, questa volta, dopo Alfio, a cuicerco però di stare dietro. Il passo è lentissimo, ta,ta, ta, c’è sempre qualche frazione di secondo tra unpasso e l’altro, ma con fatica estrema riesco a tenerlo.Gli altri arrivano sotto le rocce, si tolgono gli sci e livedo salire sulla vetta. Noi saremo forse 15 minutiindietro ma le forze sono proprio alla frutta... misembra incredibile, ma arrivo alle roccette, guardol’altimetro, abbiamo superato i 4.000 mt., almeno untraguardo l’ho raggiunto! Che facciamo? andiamosulla vetta? Mah, ho fatto 100, facciamo 101... via glisci, e, senza ramponi, salgo le rocce, e poi, su sullacresta, mentre alcuni miei compagni stannoordinatamente ridiscendendo.

Questa cresta che stranamente non mi fa unminimo di paura. E non è incoscienza. Brenno mivede e mi fa i complimenti, lì per lì non capisconeanche perché... abbraccio la Betta, faccio gli ultimipassi per raggiungere la croce, singhiozzando. Forsequalcuno se ne sarà accorto, abbracciandolo, comesi fa quando si arriva insieme su una cima. Prendouna foto abbarbicato alla croce di ferro, ne faccio unaa Gianluca e Alfio. Non credevo tu ce l’avresti fatta, miconfessa... mai fu più gradito un tale complimento...Sono le 11.45, il cumulonembo si avvicina, riscendiamoagli sci e ci prepariamo per il lungo ritorno.

Da qui è poi solo discesa, l’unica cosa che unbuon sciatore riesce comunque a fare. O perdita diquota come direbbe qualcun altro. Con il Monte Rosadavanti, il Plateau Rosa ancor più in là e lo Strahlhornin primo piano... tutti quegli spettacoli che difficilmenteero riuscito a vedere in salita.

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